Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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IL DELITTO DI AVETRANA

 

SARAH SCAZZI

 

IL RESOCONTO

 

DI UN AVETRANESE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

SARAH SCAZZI: IL DELITTO DI AVETRANA

IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

Di Antonio Giangrande

 

 

 

 

 

 INTRODUZIONE E PREMESSA

INTRODUZIONE

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

SARAH SCAZZI. SOLITA TOLFA DEI MASOCHISTI AD AVETRANA: VOCE AI FORCAIOLI ED AI MANETTARI.

ERGASTOLO PER SABRINA E COSIMA E SUCCESSO PER CHI RACCONTA LE LODI DEI MAGISTRATI DI TARANTO. CENSURA ASSOLUTA PER LE CONTRO VOCI.

MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

OBBLIGATORIETA' DELL'AZIONE PENALE: UNA BUFALA. L’ITALIA DELLE DENUNCE INSABBIATE.

LA CASTA PERSEGUITATA ED INETTA. SE SUCCEDE A LORO…FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI.

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.

ILVA. SEQUESTRO RECORD. AI MAGISTRATI SEMPRE L’ULTIMA PAROLA CON IL PARADOSSO DI FAVORIRE I RIVA.

MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.

LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.

VERGOGNA GIUSTIZIA. LA STORIA SI RIPETE: PALMINA MARTINELLI COME CARMELA CIRELLA FRASSANITO. PALMINA MARTINELLI: BRUCIATA VIVA NON VIENE CREDUTA.

SE TU DENUNCI LE INGIUSTIZIE DIVENTI MITOMANE O PAZZO. IL SISTEMA E LA MASSOMAFIA TI IMPONE: SUBISCI E TACI. LA STORIA DI FREDIANO MANZI E PIETRO PALAU GIOVANETTI.

QUANDO IL P.M. FA L'AVVOCATO DEGLI IMPUTATI: LO SCANDALOSO CASO MASTROGIOVANNI.

TARANTO: NON SOLO SCAZZI E MISSERI. QUEL TRIBUNALE E’ IL FORO DELL’INGIUSTIZIA.

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA.

PERCHE’ I DIVERSI SONO EMARGINATI E PERSEGUITATI ??

INGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

SCHADENFREUDE. UNO STUDIO RIVELA: SI GODE PER LE DISGRAZIE ALTRUI.

UNA LETTERA DI SCUSE A SARAH SCAZZI.

AVETRANA: LA PRIMA VITTIMA.

E CHE DIRE DEL DELITTO DI COGNE E DI ANNA MARIA FRANZONI?

E DEL DELITTO DI GIUSY POTENZA A MANFREDONIA?

SARAH SCAZZI: IL RESOCONTO IN BREVE.

LE VERSIONI DI MICHELE.

SCOMPARSA, RITROVAMENTO ED INDAGINI

26 agosto 2010 ore 14,30, Sarah, 15 anni, per la legge incapace di intendere volere, esce di casa per andare al mare con sua cugina.

27 agosto, stranamente, è iniziato il circo mediatico senza pari, con tv e giornali nazionali e locali.

4 settembre, il procuratore di Taranto Franco Sebastio, per imprimere una svolta alle indagini e cambiarne evidentemente il passo, si è voluto rendere conto personalmente della situazione.

7 settembre, l’Associazione Contro Tutte le Mafie propone a tutti i media di divulgare la possibilità di contattare il suddetto sodalizio

9 settembre, l'Associazione Contro Tutte le Mafie su tutti i media denuncia lo sciacallaggio mediatico a danno di Sarah.

10 settembre, in base alle indagini svolte il dr Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie viene fuori una incredibile verità.

12 settembre, l'apoteosi della disinformazione.

13 settembre, la mamma di Sarah, la sig.ra Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, accusa pubblicamente gli inquirenti ed investigatori di incapacità e impreparazione e l'utilizzo di strumenti investigativi obsoleti.

29 settembre, Michele Misseri, padre di Sabrina e Valentina e zio di Sarah, fatalmente trova il cellulare della ragazza scomparsa.

6 ottobre, ore 22,35. Il dramma si chiude con l’epilogo più imprevisto ed infausto.

7 ottobre, la redazione di "Studio Aperto" di Mediaset, prima ed unica, ha fatto ammenda e chiesto scusa a Concetta e soprattutto a Sarah per come è stata dileggiata dai media.

8 ottobre, Interrogatorio di Garanzia a Michele Misseri.

9 ottobre, è giunto il momento. L’ultimo addio a un piccolo angelo, a Sarah Scazzi.

15 ottobre, il Colpo di Scena. Sabrina Misseri, la cugina 22enne di Sarah Scazzi, è in stato di fermo perché, come scrive la Procura in un comunicato stampa, «gravemente indiziata di delitto».

17 ottobre, l'inimmaginabile. Nasce il tour del macabro alimentato dal tourbillon mediatico.

19 novembre. L’incidente probatorio.

22 novembre 2010. Le motivazioni del Tribunale del riesame sulla sua ordinanza di rigetto del ricorso avverso alla misura cautelare nei confronti di Sabrina Misseri.

15 gennaio 2011. La ritrattazione di Michele Misseri.

25 gennaio. Cosima Serrano al contrattacco.

3 febbraio. La revoca di Daniele Galoppa.

23 febbraio. Dopo sei mesi dal fatto, nuovi arresti.

2 marzo. Avvocati interdetti.

10  marzo. Carmine e Mimino non dovevano essere arrestati.

23 marzo. La verità di Cosima.

6 aprile. L’esame del DNA.

8 maggio. Il presunto testimone.

IL “SOGNO DEL FIORAIO” (Interrogatorio davanti ai pubblici ministeri)

17 maggio. La Cassazione sulla carcerazione di Sabrina Misseri bacchetta i giudici di Taranto: "Michele Misseri inattendibile, caso da riesaminare".

23 maggio. L’avviso di garanzia per Cosima.

25 maggio. La notizia dell’arresto di Cosima.

26 maggio. L’arresto di Cosima.

30 maggio. La scarcerazione di Michele Misseri.

Gli strumenti di difesa. Gli interrogatori di garanzia??

1 luglio. Inchiesta chiusa, quindici gli indagati…., anzi di più!!!

29 agosto. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale.

5 settembre. Michele Misseri prosciolto dall’accusa di omicidio e luci della ribalta per i magistrati.

La Cassazione annulla le ordinanze di custodia cautelare.

22 settembre. Carmine Misseri e Cosimo Cosma, rispettivamente zio e cugino di Sabrina Misseri accusata dell'omicidio di Sarah Scazzi, non torneranno in carcere.

26 settembre. Sono state annullate con rinvio le ordinanze di custodia cautelare in carcere per Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano.

12 ottobre. Il rigetto dell’istanza di rimessione.

14 ottobre. L’udienza preliminare.

22 novembre. Udienza del Tribunale del riesame in merito all’ordinanza di custodia cautelare in carcere annullata con rinvio dalla Cassazione per una serie di motivi, tra i quali la carenza di gravi indizi di colpevolezza.

 

PROCESSO

10 gennaio 2012: via al processo mediatico sull’omicidio di Sarah, almeno 250 i testimoni.

17 gennaio 2012. Seconda udienza del processo. Parla Stefania De Luca e Angela Cimino.

31 gennaio. La terza udienza. Parla Ivano Russo, Giacomo Scazzi, Pamela Nigro, Anna Lucia Dell’Atti e Salvatore Erroi.

7 febbraio. Quarta udienza. Parla Claudio Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo e Maria Ecaterina Pantir.

14 febbraio. Quinta udienza. Parla Giuseppina Nardelli, Fedele Giangrande, Antonio Petarra, Pamela Trono, Vincenzo Maresca, Giuseppina Di Bari, Salvatora Minò.

21 febbraio. Sesta udienza. Parla Mariangela Spagnoletti, Alessandra Spagnoletti, Alessio Pisello, Giuseppe Olivieri, Vito Antonio Spagnoletti, Cosimo Giangrande, Vito Donato Lastella.

28 febbraio. Settima udienza. Parla Donato e Francesca Massari, Giuseppe Serrano, Isabella Pernorio, Daniele Lanzo, Anna Parisi, Salvatore Sacco ed Anna Dimitri.

6 marzo. Ottava udienza. Parla Battista Serrano, Giuseppa Serrano, Ada Maria Serrano, Livia Olivieri, Oronzo Dimitri, Bruno Scarciglia, Cosimo De Vanna, Marianna Cucci e Carmelo Sacco.

13 marzo. Nona udienza. Parla Giacomo Conforti, Pasquale Di Mauro, Giovanna Donvito, Vito Lippolis, Gianvito Rossano, Biagio Caraglia, Giuseppe Di Noi, Carmelo Salvatore Parisi ed Emma Serrano.

27 marzo. Decima udienza. Parla Antonio Rizzato, Antonio Calò, Giovanni Bardaro, Paolo Vincenzoni, Giuseppe Pirò.

3 aprile. Undicesima udienza. Parla Claudio Russo.

17 aprile. Dodicesima udienza. Parla Salvatora (Dora) Serrano.

24 aprile. Tredicesima udienza. Parla. Antonella Spinelli, Elena Baldari, Maria Ferrara, Salvatore Misseri, Michele Genovino, Clorinda Ferrara, Antonietta Genovino e Claudio Benni.

8 maggio. Quattordicesima udienza. Parla Anna Pisanò, Antonella Tondo, Fabrizio Viva, Biagio Blaiotta e Giovanni Risi.

15 maggio. Quindicesima udienza. Parla Maria Rosaria Carrozzo, Maria De Santis, Giancarlo Greco e Vito Ferrara.

22 maggio. Sedicesima udienza. Parla Giuseppina Scredo, Rocco Zecca, Marco Buccolieri, Gaetano Colucci, Donata Prudenzano.

ATTENTATO DI BRINDISI. LA MORTE DI MELISSA BASSI E DEL TERRITORIO. SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA.

5 giugno. Diciassettesima udienza. Parla Giovanni Lamarca, Giuseppe Finizia, Andrea Berti, Cosimo Maggi, Giovanni Prignani, Clemente Di Crescenzo, Roberta Bruzzone, Rosa Martino, Anna Lucia Morleo.

19 giugno. Diciottesima udienza. Parla Adolfo Semeraro e Cosimo Monopoli.

3 luglio. Diciannovesima udienza. Parla Valentina Misseri, Luigi Strada, Vanessa Cerra, Giovanni Cucci, Sergio Civino.

10 luglio. Ventesima udienza.

17 luglio. Ventunesima udienza. Chiamati Sabrina Misseri, Cosima Serrano, Angelo Milizia, Giovanni Buccolieri, Michele Galasso, Giuseppe Nigro, Antonio Colazzo, Anna Scredo e Cosima Prudenzano, Anna Lucia Pichierri.

SOSPENSIONE UDIENZE. PAUSA ESTIVA: 31 LUGLIO - 15 SETTEMBRE.

PUGLIA. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

PUGLIA. Regione-avvelenata: la Puglia è la capitale dell'inquinamento.

TARANTO, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

MANETTE? NON PER TUTTI. IL PRESIDENTE DEL TAR DI LECCE, ANTONIO CAVALLARI.

STUDIO CENTO TV NEI GUAI.

26 AGOSTO 2012: L’ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI SARAH.

25 settembre 2012. Ventiduesima udienza.  Parla Antonio Colazzo, Anna Scredo, Valeria Scazzari, Michele Galasso.

2 ottobre 2012. Ventitreesima udienza.  Parla Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Vito Russo.

GIOCA CON I FANTI, MA LASCIA STARE I SANTI. DELLA SERIE: SUBISCI E TACI, SE NO TI TACCIO. MA IN CHE MANI SIAMO? I VELENI ALLA PROCURA DI BARI E LA PERSECUZIONE DEI GIORNALISTI.

29 ottobre 2012. Ventiquattresima udienza.  Parla Michele Misseri. Da imputato.

PARLIAMO DELLA MAFIA DEGLI AUSILIARI GIUDIZIARI.

PARLIAMO DI INTIMIDAZIONE DEI GIORNALISTI.

PARLIAMO DI TOGHE INFAMI E FALSE.

PARLIAMO DI SCIENZIATI CON LA TOGA.

30 ottobre 2012. Venticinquesima udienza.  Avrebbero dovuto parlare Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Da imputate.

6 novembre 2012. Ventiseiesima udienza. Parla Stefania Zizza,  Antonio Panzuto.

20/26/27 novembre 2012. Ventisettesima, ventottesima, ventinovesima udienza. Parla Sabrina Misseri.

4 dicembre 2012. Trentesima udienza. Parla Andrea Merico, Nicola Abbasciano.

5 dicembre 2012. Trentunesima udienza. Parla Michele Misseri.

10 dicembre 2012. Trentaduesima udienza. Parla Dora Chiloiro e Luigina Quarta.

12 dicembre 2012. Trentatreesima udienza. Riparla Michele Misseri.

18 dicembre 2012. Trentaquattresima udienza. Richiesta di sopralluogo garage e pozzo.

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA.

8 gennaio 2013. Trentacinquesima udienza. Parla Paolo Arbarello.

14 gennaio 2013. Trentaseiesima udienza. Michele Misseri. La prima e l’ultima confessione a confronto.

29 gennaio 2013. Trentasettesima udienza. Parla Liala Nigro. RICUSAZIONE DEL GIUDICE POPOLARE.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. LA STRAGE DI ERBA.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. FABRIZIO CORONA.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. OMICIDIO DI MELANIA REA.

25-26 febbraio, 4-5 marzo 2013. 38ª, 39ª, 40ª, 41ª udienza. Requisitoria dell’accusa: Mariano Buccoliero e Pietro Argentino.

IL MOVENTE: LA GELOSIA E L’IMBARAZZO.

I TEMPI ED I DEPISTAGGI.

LA RICOSTRUZIONE DEL DELITTO.

IL PRESUNTO SEQUESTRO.

LE CONCLUSIONI.

LE COMPLICITA’.

LE RICHIESTE.

11 marzo 2013. 42ª udienza. Arringhe delle Parti civili: Pasquale Corleto per il Comune di Avetrana, Nicodemo Gentile, Valter Biscotti e Francesco Cozza per Concetta Serrano, Giacomo Scazzi e Claudio Scazzi; Luigi Palmieri per Maria Ecaterin Pantir.

12 marzo 2013. 43ª udienza. Arringhe delle Difese di Michele Misseri e delle parti meno importanti: Paquale De Laurentiis per Giuseppe Nigro, Giovanni Scarciglia e Lello Lisco per Cosima Prudenzano e per Antonio Colazzo, Gianluca Pierotti per Vito Russo, Luca Latanza per Michele Misseri.

18 marzo 2013. 44ª udienza. Arringhe delle Difese di Carmine Misseri e Cosimo Cosma, Lorenzo Bullo per Carmine Misseri e Raffaele e Serena Missere per Cosimo Cosma.

19 marzo 2013. 45ª udienza. Arringa della Difesa di Cosima Serrano. Franco De Jaco e Luigi Rella.

25, 26, 27 marzo, 9 aprile 2013. 46ª, 47ª, 48ª, 49ª udienza. Video fuori onda, astensione dei magistrati ed arringa della Difesa di Sabrina Misseri. Franco Coppi e Nicola Marseglia.

10 aprile 2013, 50ª udienza. Replica finale dell’accusa: Pietro Argentino e Mariano Buccoliero.

15 aprile 2013, 51ª ed ultima udienza. Replica finale delle difese.

LA CORTE SI E’ RIUNITA IN CAMERA DI CONSIGLIO PER LA SENTENZA.

Cronologia dei fatti principali.

20 aprile 2013, ore 14,13 LA SENTENZA

 

CONSIDERAZIONI E CONCLUSIONI

SABRINA E COSIMA, COLPEVOLI DI UN OMICIDIO TANTO EFFERATO?

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

LA VOCE AD ANTONIO GIANGRANDE.

IL COMMENTO DI MAMMA CONCETTA.

IL COMMENTO DEI CONDANNATI.

GIUSTIZIA O INGIUSTIZIA? IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

Il falso Moralismo: l’arrembaggio mediatico e le speculazioni. IL CASO FABRIZIO CORONA.

La sindrome della "Ribalta Mediatica". GLI AVVOCATI, LA TV ED IL TESTIMONE MAI CHIAMATO AL PROCESSO: VALENTINO CASTRIOTA.

Il business sulla pelle di Sarah. GLI AVVOCATI E LA TV.

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE E PREMESSA

 

INTRODUZIONE E PREMESSA

 

INTRODUZIONE

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

SARAH SCAZZI. SOLITA TOLFA DEI MASOCHISTI AD AVETRANA: VOCE AI FORCAIOLI ED AI MANETTARI.

ERGASTOLO PER SABRINA E COSIMA E SUCCESSO PER CHI RACCONTA LE LODI DEI MAGISTRATI DI TARANTO. CENSURA ASSOLUTA PER LE CONTRO VOCI.

MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

OBBLIGATORIETA' DELL'AZIONE PENALE: UNA BUFALA. L’ITALIA DELLE DENUNCE INSABBIATE.

LA CASTA PERSEGUITATA ED INETTA. SE SUCCEDE A LORO…FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI.

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.

ILVA. SEQUESTRO RECORD. AI MAGISTRATI SEMPRE L’ULTIMA PAROLA CON IL PARADOSSO DI FAVORIRE I RIVA.

MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.

LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.

VERGOGNA GIUSTIZIA. LA STORIA SI RIPETE: PALMINA MARTINELLI COME CARMELA CIRELLA FRASSANITO. PALMINA MARTINELLI: BRUCIATA VIVA NON VIENE CREDUTA.

SE TU DENUNCI LE INGIUSTIZIE DIVENTI MITOMANE O PAZZO. IL SISTEMA E LA MASSOMAFIA TI IMPONE: SUBISCI E TACI. LA STORIA DI FREDIANO MANZI E PIETRO PALAU GIOVANETTI.

QUANDO IL P.M. FA L'AVVOCATO DEGLI IMPUTATI: LO SCANDALOSO CASO MASTROGIOVANNI.

TARANTO: NON SOLO SCAZZI E MISSERI. QUEL TRIBUNALE E’ IL FORO DELL’INGIUSTIZIA.

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA.

PERCHE’ I DIVERSI SONO EMARGINATI E PERSEGUITATI ??

INGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

SCHADENFREUDE. UNO STUDIO RIVELA: SI GODE PER LE DISGRAZIE ALTRUI.

UNA LETTERA DI SCUSE A SARAH SCAZZI.

AVETRANA: LA PRIMA VITTIMA.

E CHE DIRE DEL DELITTO DI COGNE E DI ANNA MARIA FRANZONI?

E DEL DELITTO DI GIUSY POTENZA A MANFREDONIA?

SARAH SCAZZI: IL RESOCONTO IN BREVE.

LE VERSIONI DI MICHELE.

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati vene sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 150 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onori (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”. I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ida Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. Descrizione: http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

SARAH SCAZZI. SOLITA TOLFA DEI MASOCHISTI AD AVETRANA: VOCE AI FORCAIOLI ED AI MANETTARI.

«Sono le manifestazioni come quelle della presentazione ad Avetrana del libro del giornalista manduriano Nazareno Dinoi sul ritrovamento del corpo di Sarah Scazzi, edito da un editore anch’esso manduriano, che mi fa sentire orgoglioso si essere diverso dalla massa di Avetranesi che scalciano e sgomitano per avere un immeritata visibilità. Ignoranti di cosa li circonda in cultura e professionalità.»

Questa è la dichiarazione indignata del dr. Antonio Giangrande, famoso scrittore ed avetranese doc ed editore di se stesso (su Amazon.it, su Lulu.com e su Createspace.com ci sono più di cento suoi titoli letti in tutto il mondo).

Il 13 agosto 2013 erano presenti giornalisti e magistrati (certo figure professionali protagonisti della ondata di infamie vomitate sulla comunità avetranese) e quegli amministratori incapaci di difendere l’onorabilità del loro paese. D'altronde i loro limiti culturali e professionali quelli sono. Possono rapportarsi con i loro pochi lettori, o dall'alto dello scranno giudiziario (giudicanti ingiudicati) o con la gente partigiana in comizi di piazza, ma non possono competere in campo mediatico. La sala della suggestiva cornice dell’antico torrione era vuota. Questo sta a dimostrare che la qualità delle manifestazioni non è data dagli pseudo eccelsi oratori ma dalla qualità del parterre che li ascolta.

«La presentazione del libro di Nazareno Dinoi, sulla falsariga di un’altra colpevolista di fama. Roberta Bruzzone dalla sua esperienza sul delitto di Sarah Scazzi ha tratto un libro-dossier intitolato “Segreti di famiglia”, con co-autori Giuseppe Centonze e Filomena Cavallaro, fondatori del Gruppo Verità e Giustizia per Sarah. Le pagine dei giornali dedicate non solo alla cultura si occupano della notizia. Le rassegne di narrativa e saggistica si contendono la sua partecipazione, perché la notorietà la precede. Il libro racconta, dal punto di vista degli autori, l’omicidio della 15enne di Avetrana. La criminologa, la cui notorietà rinviene è aumentata considerevolmente proprio dalla sua partecipazione al caso di Avetrana con le sue comparsate in tv in programmi colpevolisti, ritiene che la sentenza emessa dalla corte d’assise di Taranto, presieduta da Cesarina Trunfio, sia il risultato di un ottimo lavoro condotto dalla magistratura. Quella Roberta Bruzzone che nel processo, dalla difesa di Sabrina Misseri, gli è stato contestato il plurimo status. Prima è stata consulente di Michele Misseri, chiamata proprio dall’avvocato di Michele. Assunta da Daniele Galoppa perché, convinto della colpevolezza di Sabrina, non crede al suo cliente. Galoppa che lo stesso Michele definisce amico di Pietro Argentino, pubblico ministero dell’accusa con Mariano Buccoliero. Poi la Bruzzone diventa testimone dell’accusa contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Poi ancora la criminologa diviene presunta persona offesa nel procedimento penale contro Michele Misseri per calunnia e diffamazione perché accusata da questo di averlo indotto ad incolpare la figlia per la morte di Sarah. Ad Avetrana i personaggi invitati hanno detto la loro su un tema che poco sanno, sulla vicenda della morte di Sarah Scazzi e sull’argomento giustizia in generale. In linea generale (ogni riferimento ad Avetrana è puramente casuale) il Titolo di giornalista, magistrato, amministratore pubblico non può abilitare costoro a buttare fango in ogni sede su Avetrana o a sparlare di cose di cui non si è informati. Non è il libro in sé che sputtana Avetrana, ma la condotta di tutte queste figure professionali indistinte perpetrata in questi anni e che mi fanno adottare una certa presa di posizione. Durante la presentazione è stato diffuso un video saluto di Filomena Rorro, giornalista inviata Rai nota per quello scambio di battute con Michele Misseri. “…Tu sei una cretina…..”. Anche Goffredo Buccini, inviato del Corriere della Sera  ha inviato un messaggio all’autore ed ai presenti. Ad Avetrana prima dell’autore ha parlato il giovane sedicente scrittore avetranese, Salvatore Luigi Baldari e l’editore Pasquale Barbieri che ha passato la parola al vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia portatore dei saluti di tutta l’amministrazione. C’era anche il magistrato salentino, Salvatore Cosentino, sostituto procuratore della Repubblica di Locri, già pubblico ministero alla Procura di Taranto. Procura di Taranto ampiamente criticata proprio da me nei miei libri su Taranto e su Sarah Scazzi. Purtroppo per tutti loro io sono l’unico e solo testimone autoctono che può raccontare la verità, così come ho fatto con il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Libro che si può leggere anche gratuitamente. Quello che ho scritto l’ho riversato in video per testimoniare una realtà da non sminuire. Nè garantista, nè colpevolista, ma una verità che ridà onore prima di tutto ad Avetrana. Onore che certi avetranesi non meritano e fanno di tutto per infangare. Fa nulla che le manifestazioni pseudo culturali ad Avetrana non sono dedicate agli avetranesi che danno onore e lustro alla comunità. D'altronde Anche Gesù Cristo quando andava al suo paese era indicato come il figlio del falegname. Questi sono i limiti culturali di chi, arrogante, non ammette i propri limiti.»

ERGASTOLO PER SABRINA E COSIMA E SUCCESSO PER CHI RACCONTA LE LODI DEI MAGISTRATI DI TARANTO. CENSURA ASSOLUTA PER LE CONTRO VOCI.

Roberta Bruzzone dalla sua esperienza sul delitto di Sarah Scazzi ha tratto un libro-dossier intitolato “Segreti di famiglia”, con co-autori Giuseppe Centonze e Filomena Cavallaro, fondatori del Gruppo Verità e Giustizia per Sarah. Le pagine dei giornali dedicate non solo alla cultura si occupano della notizia. Le rassegne di narrativa e saggistica si contendono la sua partecipazione, perché la notorietà la precede. Il libro racconta, dal punto di vista degli autori, l’omicidio della 15enne di Avetrana. La criminologa, la cui notorietà rinviene o è aumentata considerevolmente proprio dalla sua partecipazione al caso di Avetrana con le sue comparsate in tv in programmi colpevolisti, ritiene che la sentenza emessa dalla corte d’assise di Taranto, presieduta da Cesarina Trunfio, sia il risultato di un ottimo lavoro condotto dalla magistratura. Quella Roberta Bruzzone che nel processo, dalla difesa di Sabrina Misseri, gli è stato contestato il plurimo status. Prima è stata consulente di Michele Misseri, chiamata proprio dall’avvocato di Michele. Assunta da Daniele Galoppa perché, convinto della colpevolezza di Sabrina, non crede al suo cliente. Galoppa che lo stesso Michele definisce amico di Pietro Argentino, pubblico ministero dell’accusa con Mariano Buccoliero. Poi la Bruzzone diventa testimone dell’accusa contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Poi ancora la criminologa diviene presunta persona offesa nel procedimento penale contro Michele Misseri per calunnia e diffamazione perché accusata da questo di averlo indotto ad incolpare la figlia per la morte di Sarah. Accusa grave ed incontestabile, quella della difesa di Sabrina, rivolta alla Bruzzone dall’avv. Nicola Marseglia, che mina l’imparzialità di giudizio della criminologa. Nonostante la sua partigianeria, appunto per la sua presa di posizione a favore dei magistrati di Taranto, tutta la stampa locale e nazionale parla del libro della Bruzzone e tutti gli incontri culturali la invitano a promuovere il suo libro.

Un libro diverso ed alternativo fondato sull’esperienza vissuta, ma non meno importante, invece, si contrappone a quello della Bruzzone fondato sul gineceo di via Deledda. L’indagine su Sarah Scazzi e sui misteri che ne hanno decretato la morte ad Avetrana è stata condotta con raffinatezza e certosina sapienza da un noto saggista: lo scrittore Antonio Giangrande. Il famoso scrittore sul web di 50 saggi d’inchiesta ha fatto di questo incredibile caso mediatico un libro-dossier senza faziosità, ma con alta competenza professionale giuridica e di comunicazione. Il libro racconta, atti e testimonianze alla mano, l’omicidio della 15enne di Avetrana in tutti i suoi dettagli, anche quelli più sconosciuti o tralasciati artatamente dai protagonisti della cronaca. 

«Il libro racconta la verità storica conosciuta che va oltre la verità mediatica e giudiziaria, che tutti accettano senza remore, perché questa verità gli è stata inculcata dalla stampa, ma che non corrisponde alla verità storica – spiega Antonio Giangrande, autore del libro-dossier sul caso di Sarah Scazzi dal titolo  “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Quello che non si osa dire.”, pubblicato su www.controtuttelemafie.it, su Amazon in Ebook, su Lulu in cartaceo e su Google libri.- Io racconto, sostenuto in questo da video pubblicati sui miei canali youtube, quello che da avetranese ho visto sin dal primo giorno, senza la mediazione della stampa. Io narro quel che ho visto e vissuto sulla pelle, tenendo conto del contesto ambientale ed istituzionale, locale e nazionale. Riporto il tutto senza peli sulla lingua, anzi sulla tastiera. Non sono stato mai influenzato, nei miei giudizi, da quei giornalisti che non hanno mai raccontato la verità: sia del processo, sia fuori dal processo. La mia è una verità scomoda che, specialmente le tv ed i giornali locali, non vogliono divulgare. Ma tant’è quella è: una verità incontestabile, che nessuna censura od omertà possono seppellire. Basta seguire le puntate registrate da “Un Giorno in Pretura” per rendersi conto di persona quale è la differenza tra quello che veramente è successo in aula e quanto, invece, hanno riportato i giornalisti durante le loro cronache d’udienza. E’ l’esempio di come si può stravolgere la realtà e come si può influenzare la gente. Con lo stesso spirito ho seguito vicende analoghe ed ho fatto un certo parallelismo. Ma io sono un testimone scomodo dei nostri tempi e tv e giornali stanno bene attenti a non parlare del mio libro, così come le rassegne culturali non approntano mai un contraddittorio tra autori con queste verità contrastanti. La mia conferenza stampa di presentazione del libro è andata deserta, quantunque avessi invitato stampa e tv nella sede dell’associazione nazionale antimafia di cui sono presidente. Giusto per dimostrare come la stampa locale si comporta contro coloro che osano sollevare legittime critiche sui magistrati tarantini. C’è da dire di più. Pur presentando con una luce diversa il paese di Avetrana, la stessa amministrazione comunale di Avetrana e gli stessi cittadini hanno ignorato l’evento della presentazione del libro e certo il libro non è presente nella locale biblioteca comunale. La stessa cosa è successa per un altro mio libro-dossier dal titolo “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”, in cui si mette a nudo la classe dirigente e giudiziaria di Taranto con tutte le malefatte commesse in tempi diversi. Nonostante tutto, però, il mio libro su Sarah sta avendo un discreto successo e la Verità si divulga. Non sono contro od a favore di alcuno, ma il mio libro stilla il dubbio che forse ci sono delle innocenti in carcere o, se non altro, se colpevoli, non vi è uno straccio di prova che convalidi la loro condanna.» 

Intanto, a proposito dei libri scritti dalla Bruzzone ecco cosa dice di lei Marco Strano. Ordinanza Tribunale Milano copiatura del libro “chi è l’assassino: diario di una criminologa di Roberta Bruzzone. Con Ordinanza n. 19040/2012 del 19/12/2012 il Tribunale di Milano, decidendo sul ricorso proposto da Marco Strano nei confronti di Roberta Bruzzone circa la denunziata abusiva riproduzione di articoli scientifici, già pubblicati dal noto Criminologo della Polizia di Stato nella sua opera “Manuale di Criminologia Clinica” del 2003, ad un anno circa dalla pubblicazione del libro “Chi è l’assassino: diario di una criminologa” edito da Mondadori, ha accertato che per la sua realizzazione l’Autrice ha copiato parti di capitoli di libro e di articoli scientifici del ricorrente Marco Strano. Il Tribunale di Milano, nella sua Ordinanza infatti afferma che ..“si evidenzia l’identità o la forte somiglianza lessicale sia sintattica dei passi qui censurati rispetto quelli del ricorrente (Marco Strano)..”. Il Tribunale ha inoltre ritenuta non accettabile la difesa della Bruzzone riguardo il fatto che alcuni dei brani a me copiati contengono elementi scientifici già espressi in precedenza da altri con altre parole affermando infatti che “non si può negare che anche le modalità con le quali tali nozioni comunemente note sono state assemblate, rielaborate ed arricchite sembrano comunque frutto di una autonoma elaborazione creativa (di Marco Strano) come tale tutelabile…”, e pur ritenendo non sussistere l’urgenza di un sequestro cautelare, ha rimesso la questione alla causa di merito affinché il legittimo autore, Marco Strano, possa essere eventualmente risarcito per il danno subito.  Secondo il Tribunale infatti “..manca la prova di una definitiva lesione degli interessi morali e patrimoniali del diritto d’autore che possano trovare un ristoro solo attraverso la tutela preventiva ed urgente e che non possano invece essere adeguatamente riparati anche attraverso la riparazione di natura patrimoniale. Allo stato appare dunque opportuna riservare ogni decisione alla fase di merito rigettando allo stato la domanda cautelare…” L’analisi condotta sulle parti copiate del libro, e segnalate alla Magistratura si è limitata fin qui all’analisi della prima parte introduttiva, su cui il Tribunale di Milano ha si è espresso con le parole “. Analisi che sembra in effetti suggerire un derivazione degli uni rispetto agli altri.” Attualmente è in corso la valutazione del resto del libro. Il criminologo Marco Strano ha stabilito che eventuali proventi ottenuti dal risarcimento richiesto a Roberta Bruzzone e alla Mondadori saranno devoluti in parte agli Orfani della Polizia di Stato e in parte ad Associazioni che si occupano della tutela delle donne.

Già. Parlano tutti di Sarah Scazzi. Anzi, ne sparlano, nonostante gli anni passano.

Sarah Scazzi.  26 Agosto 2013. Tre anni di insinuazioni, molte offese e poca giustizia... Pensieri di Marcello De Simone Dai giorni in cui Michele Misseri fece ritrovare il cellulare e il corpo di Sarah, quest'ultimo dopo ore di interrogatorio e relativa confessione compresa di movente sessuale e vilipendio di cadavere, i media hanno detto e scritto di tutto e di più, sempre attenendosi alle idee degli uomini di legge (perché loro non sbagliano mai) anche se la logica ci dice che ancora adesso, dopo la sentenza di primo grado, nulla di quanto ci hanno narrato è reale e nulla è certo. In questi ultimi tre anni, nei salotti televisivi non si è fatto altro che accontentare la procura commentando in maniera positiva le indagini. Indagini che, in un modo o in un altro, sono state tutte bacchettate dalla Cassazione. In questi ultimi tre anni si è adulata la parte civile che, neanche a dirlo, a un certo punto si è affiancata alla procura scordandosi gli iniziali dubbi ed eliminando tutte le remore di Concetta, sempre abbracciata dai media, che dal non credere a una sorella e una nipote assassine, è passata a chieder loro di raccontare i segreti di famiglia, il movente che ha portato all'omicidio di sua figlia. Quindi in questi tre anni l'opinione pubblica è stata tartassata da quanto scritto sui giornali e trasmesso in televisione; uno stillicidio giornaliero che l'ha convinta di avere a che fare con una famiglia assassina, i Misseri, ed una vittima uccisa per vendetta. Perciò tutti a scagliarsi contro Sabrina Misseri e sua madre. Posso capire chi si è scagliato contro il padre, la cui confessione scritta lo fa unico responsabile (e non si capisce il motivo per cui non accettarla), non chi senza pietà e senza ragionare in maniera imparziale, si ostina a offendere e a chiedere l'ergastolo per due donne che nulla indica veramente colpevoli. Basterebbe usare l'educazione imparata dai propri genitori per non trascendere e non cadere nelle offese, basterebbe restare neutrali ed accettare anche quanto portato dalla Difesa. Invece giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, si è assistito e si continua ad assistere a un massacro senza precedenti, a un massacro di parole e offese incivili che difficilmente si rivedrà in futuro. Inutile pensare a cosa accadrà quando si capirà che nessuna delle due donne da anni in carcere c'entra con l'omicidio. Si dirà che non è stata la giustizia a trionfare ma la bravura degli avvocati a far uscire le due assassine dal carcere. Come la volpe che per non sentirsi sconfitta, per non perdere l'onore, dice che "l'uva è acerba". 

Quante chiacchiere orribili si sono sentite in televisione, nei programmi pomeridiani, pronunciate dalla Venier, dalla D'Urso, dalla Collovati, dalla Abate, dal Zurlo. Questi alcuni, ma sono una quantità industriale i personaggi che con parole gonfie di pregiudizio hanno contribuito ad affossare Sabrina Misseri e sua madre agli occhi dei telespettatori. Non doveva vergognarsi il signor Zurlo, non doveva essere ripreso all'imparzialità dai conduttori, quando a "Mattino 5" - nel novembre 2011 - dopo aver ascoltato il colloquio in carcere tra Cosima e Michele (uno dei tanti intercettati) nel quale la moglie cerca di sapere la verità dal marito, si permette di dire: "E chiaro che è tutta un recita perché sanno di essere intercettati"? E' chiaro? Ancora non si sapeva quando sarebbe iniziato il processo e per lui era chiaro tanto da darlo a intendere anche a chi in quel momento lo vedeva e ascoltava? Ma come lui hanno fatto tanti altri passati per gli schermi a schernire come se niente stesse accadendo, come se la vita altrui non contasse nulla. Cosa dire di chi, in collegamento da Taranto, in diretta ha affermato: "Per adesso andiamo avanti così, poi se avranno sbagliato pazienza". Se i procuratori avranno sbagliato pazienza, disse il giornalista... è normale?

E così si è andati avanti nel tempo. E mentre Michele Misseri non sa più come urlare e far credere alla sua colpevolezza, dagli schermi chi dovrebbe contribuire alla giustizia usando l'imparzialità (o almeno la par condicio), fa ancora credere cose surreali, cose che per chi è a contatto con la famiglia Misseri, come lo sono io, si mostrano essere una valanga di falsità. Ma ancora non basta e il mercatino si arricchisce di nuova merce. Ora, oltre alle chiacchiere televisive, come se non bastassero ci si mettono pure le speculazioni: i libri stampati per l'occasione, le foto e quanto d'altro si può pubblicare. E ancora si mente dicendo che era Sabrina a farsi pagare dai media... ma per favore!

Nel 2010 ad Avetrana si era in presenza di un caso d'omicidio davvero tanto ma tanto semplice da dipanare, un caso come ce ne sono stati e ancora ce ne saranno: uno zio che ci prova con la nipote acquisita (forse a causa dei suoi sorrisi ingenui e del suo corpo da adolescente) e perde la ragione comportandosi per come si sarebbero comportati quei beceri parenti che aveva attorno durante la sua infanzia. Il loro esempio aveva e quello ha seguito quando ha combinato "il guaio", quando si è reso conto che da assassino avrebbe perso le sue terre, quando l'istinto l'ha portato a disfarsi del corpo nel luogo a lui più congeniale. Eppure si sono consumati fiumi di parole e queste considerazioni sono state snobbate. Le insinuazioni sui Misseri hanno reso credibili alla gente le affermazioni dei media togliendo verità a quanto detto da Valentina e sua madre. Insinuazioni su insinuazioni, come quella secondo cui Michele Misseri sarebbe stato succube della moglie. E dai che tutti avete l'esempio in casa e che tutti sapete bene che in ogni famiglia italiana ci sono i pro e i contro. Prima dell'omicidio di Sarah non erano forse una famiglia come la vostra? Anche da voi capita che si litighi a causa dei figli o per altro... dopo anni e anni non è possibile andare d'accordo su tutto. Ma per le menti dopate dai media, dopo l'assassinio tutto è cambiato e guai a paragonare la famiglia Misseri a qualsiasi altra... alla nostra! Eppure Sabrina Misseri, come è emerso a processo, ha donato tanto amore alla piccola Sarah; eppure, nonostante le tante testimonianze che vanno in questa direzione, ovviamente per cullarsi sul ridicolo dell'impianto accusatorio si preferisce continuare nel rivoltare la frittata. 

Non si vuole giustizia ma vendetta, non si vuole il colpevole ma un colpevole, questo è il risultato delle insinuazioni trasmesse alla gente, questo è quello che hanno fatto a Taranto dove forse la legge non è uguale per tutti. Fortunatamente per le Misseri la loro storia non finisce con le motivazioni del giudice Trunfio, che seguiranno sicuramente la linea del sogno e l'illogicità dei procuratori dagli occhi iniettati d'odio. Per fortuna ci sarà la possibilità di arrivare a giudici più esperti e saggi che potranno aprire gli occhi dell'opinione pubblica e sputtanare quei media che per tre anni hanno cercato di renderla cieca.

Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.

Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.

Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.

Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.

I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.

La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.

Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.

“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.

Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”

Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.

Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.

Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.

Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.

A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.

Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.

Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.

La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.

In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.

Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.

Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.

Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.

Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.

Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).

Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.

Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.

Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".

Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.

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MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.

La MALAGIUSTIZIA è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.

L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!! 

OBBLIGATORIETA' DELL'AZIONE PENALE: UNA BUFALA. L’ITALIA DELLE DENUNCE INSABBIATE.

Ve lo spiego io in maniera molto semplice e capirete il perchè tante persone appartenenti alle varie caste, pur essendo denunciate da semplici cittadini, non subiranno mai un processo o una condanna.

Cari amici, quando un semplice cittadino denuncia persone intoccabili appartenenti a certe caste, si aziona un meccanismo massonico per fare in modo che le denunce siano pilotate e poste in mano a Magistrati che fanno parte della casta massonica e in base al giuramento fatto alla fratellanza massonica, sanno bene come fare ad insabbiare e sabotare le denunce sicuri di essere intoccabili in quanto non giudicabili penalmente dai colleghi appartenenti alla stessa Loggia. Ora vi spiego come fanno.

I magistrati quando ricevono una denuncia penale inseriscono la denuncia in un fascicolo rubricandolo con uno dei 4 codici che vi spiegherò velocemente e che possono essere verificati con un documento ufficiale del Csm che dà le direttive ai Magistrati su come operare.

I modelli dove vengono rubricate le denunce sono:

21 notizia di reato commessa da persona nota cioè identificata

44 notizia di reato commessa da persona ignota quindi non c'è nessuno da condannare

45 fatti non costituenti notizie di reato

46 notizia di reato commessa da persona nota cioè identificata e i fatti sono denunciati da persone anonime.

Nel mio caso e nel caso di altri colleghi che denunciano i Poteri Forti, tutte le denunce sono state rubricate a mod 44 e mod 45 e sono state archiviate o perchè viene dichiarato dai Magistrati che ci sono i reati, ma non hanno messo nessuno come imputato pur facendo nomi e cognomi o direttamente hanno definito le denunce come fatti non contenenti reato.

E ciò accade anche se inizialmente le denunce vengono poste a Mod 21.

In questo modo le denunce non arrivano a un dibattimento e non vengo, io o altri, denunciato per calunnia o false informazioni.

Inoltre non mandando avvisi di garanzia a nessuno delle persone che ho denunciato, nessuno può controdenunciarmi per calunnia.

Per quanto riguarda le verità che scrivo sui miei libri contro i criminali in giacca e cravatta, che vanno oltre le ovvietà di pennivendoli di quattro soldi, e per questo censurate omertosamente da media prezzolati o ideologicizzati, i bravi magistrati mi perseguitano con processi farsa. E questo nonostante  l'art 596 del c.p. dice che non è diffamazione rendere noti dei fatti penali veri commessi da pubblici ufficiali nell'ambito della loro funzione.

Per quanto riguarda gli avvocati essi non mi difendono, non per soldi ma per paura, in quanto ho denunciato un intero Sistema Criminale che opera solo a Taranto,

Ma l’esercizio dell’azione penale è veramente obbligatoria? I penalisti lo sanno ... non è così. A quanti cittadini (ed avvocati) capita, e capita sempre più spesso, di vedersi archiviare denunce e querela con le motivazioni più assurde, semplicemente perché, nella pratica (è inutile girarci intorno), i Pubblici ministeri non hanno il tempo, le forze o talvolta "la voglia" di procedere per reati tutto sommato "bagatellari", ancorché (ma questa è una mio opinione) i reati bagatellari non esistono (si suole spesso definire "bagatellari" i reati che capitano "agli altri", fino a quando non coinvolgono NOI). Eppure il dato è allarmante, viene oramai archiviato qualsiasi tipo di denuncia o querela che non rivesta una particolare gravità, con una serialità quasi da "addetti postali al timbraggio". Poi si ci lamenta che tanti reati non vengano neppure più denunciati, soprattutto quando, per sporgere una denuncia, molto spesso bisogna tornare nelle varie caserme almeno 3 o 4 volte di seguito perché una volta manca il maresciallo, un'altra volta ha da fare e la terza non ha la biro. Le motivazioni apposte sono poi le più incredibili e se fossero "serie" allora ci sarebbe ancora più da preoccuparsi. Eppure ... leggo nientemeno che la Costituzione, con la C maiuscola nella quale è scritto che "il Pubblico ministero HA l'OBBLIGO di esercitare l'azione penale"!! Ma si sà, è un obbligo "vuoto", privo di effettiva sanzione. Si ci provi pure a fare opposizione all'archiviazione, con l'obbligo di allegare nuove fonti di prova quando già le prime sono state ignorate. Si aggiungerà una perdita di tempo ad una precedente perdita di tempo (quella di recarsi a far denuncia). Ma si sà, così và il mondo ... quello che finirà presto. Rimane il rammarico, il rammarico di chi crede nella Giustizia (questa sì, con la G maiuscola) e crede che questa serve a difendere il giusto e l'onesto dalle prevaricazioni e dagli abusi altrui, o che i cattivi debbano scontare una qualche tipo di pena. oramai è come credere a babbo Natale!! C'era un tipo, nell'antichità, che si presentò ad un esercito invasore con un libro di leggi in mano. Non vi dico la fine che fece. Speriamo di non fare la stessa !!!

A fronte dell’accoglimento di denunce stupide, si riscontra il fenomeno delle denunce insabbiate. Tralasciando la vicenda del dr Antonio Giangrande, che denunciando dei casi di illegalità territoriale, andando su su in ordine di competenza funzionale giudiziaria,  si è scontrato con il fenomeno dell’insabbiamento delle denunce contro i poteri forti: abusi ed omissioni. Questa attività di ribellione lo ha portato sì inascoltato fin alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma gli ha procurato parecchie ritorsioni da parte delle toghe.

Ma la realtà taciuta va oltre ogni ordinaria immaginazione. Ogni giorno a Milano quattro donne denunciano di essere vittima di maltrattamento. Un numero piccolo, sottostimato, se lo analizziamo dalla prospettiva delle operatrici dei centri antiviolenza, secondo le quali è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno tanto diffuso quanto sottaciuto, trattenuto come un segreto di cui vergognarsi o una verità che non si vuole accettare da molte donne, giovani e meno giovani, italiane e straniere, povere e ricche. Un numero che, invece, s’ingigantisce enormemente se pensiamo, poi, al ruolo che ciascuna donna ha nella società, come figlia, madre, nonna, come lavoratrice, calata nella sua rete amicale, che può come può non essere coinvolta nell’intimità di un tale dramma domestico. Ma le cifre della violenza sulle donne sono anche quelle delle denunce che si chiudono troppo in fretta con richieste di archiviazione dalle Procure, quella di Milano in testa. I dati diffusi dalle volontarie della Casa di accoglienza delle donne maltrattate (Cadmi) di Milano suonano come un grido d’allarme: nell’ultimo anno 945 uomini sono stati indagati per stalking, 1.545 per maltrattamenti in famiglia, 920 per violazione degli obblighi di assistenza familiare. L’elemento più preoccupante «è che nella maggior parte di questi casi le denunce, già in sé non corrispondenti alla totalità “vera” degli episodi, restano senza seguito». Molto spesso, infatti, ha segnalato l’avvocato Francesca Garisto, le indagini si concludono con richieste di archiviazione formulate dalla stessa Procura: 512 su 945 per quanto riguarda lo stalking e addirittura 1.032 su 1.545 per i maltrattamenti in famiglia.

Ed ancora la kafkiana storia di Carlo Carpi «Da quando ho denunciato un magistrato per minacce, non  o più pace; perizie psichiatriche, perquisizioni, trattamenti sanitari obbligatori...Io reggo perchè ho risorse economiche, ma chi non può?»

Il magistrato che cerca di zittirmi con 13 querele, dice Michele Inserra. Il singolare caso di un giornalista e delle scelte di un magistrato. «Pago la colpa di aver pubblicato le notizie e non di averle gestite, come è buona usanza in alcuni ambienti della stampa reggina, tra il silenzio accomodante di tanti. E la cosa più semplice da fare per cercare di zittire un giornalista “libero”, è querelarlo ben 13 volte»

Certo che non ci si può esimere dal citare il pensiero di Rita Pennarola. Moventi illogici, che non reggono, eppure diventano prove. Armi del delitto mai trovate. E quell'ombra dei clan che lasciano una firma sul cadavere, senza che nessuno voglia vederla. Lontane dalla prontezza delle Direzioni Antimafia, molte Procure di provincia seguono per mesi ed anni piste passionali, ruotando intorno a gelosie familiari, storie a luci rosse o al massimo sballi da balordi di periferia. Ma ecco come, da Melania alle altre, è possibile ricostruire una storia ben diversa. Manca l'arma del delitto. Oppure è lo stesso cadavere che non viene ritrovato, se non per circostanze del tutto fortuite. O ancora, il movente risulta illogico anche rispetto al più elementare buon senso. Restano così per sempre senza giustizia le ragazze sgozzate e lasciate dentro un bosco seminude, con gli occhi ancora spalancati a guardare il cielo, le mani giunte come in preghiera. Le donne belle e innocenti come Melania Rea. Un classico, la vicenda giudiziaria sul suo tragico destino: corpo ritrovato solo grazie ad un telefonista rimasto anonimo, arma (in questo caso un coltello da punta e taglio) finita chissà dove, movente assurdo. E in carcere con l'accusa di omicidio, ovviamente, c’è il marito. Senza che nessuno (o quasi, come vedremo) dei tanti inquirenti succedutisi intorno a questa atroce vicenda abbia saputo - o più probabilmente, potuto - rispondere ai mille interrogativi lasciati aperti dalla pista passionale. Un quadro da manuale che accontenta tutti, quella moglie gelosa accoltellata dal coniuge innamorato pazzo dell'altra. Così nessuno solleverà più il velo su eventuali traffici della malavita organizzata all'interno dell'esercito. E forse cala una pietra tombale sulle vere ragioni dell'assassinio. «Accade talvolta - dice Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nelle più scottanti vicende della storia italiana, da Aldo Moro a Emanuela Orlandi - che il movente di un crimine risulti illogico, non congruente. Ciononostante taluni investigatori continuano a perseguire lo stesso filone d'indagini, che poi o viene smontato in fase processuale, oppure travolge con accuse pesantissime persone risultate poi innocenti». La tesi di Imposimato - che qui non parla in riferimento al delitto Rea, ma risponde ad una nostra domanda sui moventi “illogici” – è stata confermata fra l'altro nel caso della contessa Alberica Filo della Torre: attraverso una rigorosa ricostruzione dei fatti, sulla Voce di aprile 2009 Imposimato smontava la solita pista passionale seguita per vent'anni dagli inquirenti, indicando le responsabilità del cameriere filippino, sbrigativamente scagionato nei primi giorni successivi al delitto. Ed arrestato solo ad aprile 2011, dopo la scoperta del suo Dna in una macchia di sangue nel letto della vittima. «Ero stato colpito - spiega Imposimato - non solo dalla mancata valutazione di indizi che portavano univocamente in direzione del filippino, ma anche da quella che consideravo l'ingiusta incriminazione di alcune persone contro cui non esistevano indizi gravi, precisi e concordanti». Come Roberto Jacono, accusato, arrestato e poi prosciolto, una vita avvelenata da indagini miopi. Perciò ripartiamo da qui. Dalla grande lezione di Imposimato sulla necessità di un solido movente. Che non pare essere un amore folle, per il marito di Melania Salvatore Parolisi. Ma una motivazione forte, come vedremo, manca anche nella ricostruzione giudiziaria attuale di altre vicende che tengono da mesi col fiato sospeso gli italiani. Casi per lo più irrisolti, che nell'immaginario collettivo misurano quanto la nostra magistratura sia in grado di dar pace alle vittime e ai familiari con sentenze e prove definitive. A disporre l'arresto di Salvatore Parolisi è la Procura di Ascoli Piceno, che indaga fin dal quel giorno (era il 18 aprile 2011), prima per la scomparsa e poi per l'omicidio di Melania, dopo il ritrovamento del cadavere, avvenuto due giorni dopo a Ripe di Civitella. Quest'ultima località è in provincia di Teramo. Perciò, quando a giugno l'autopsia rivela che la donna è stata uccisa nello stesso luogo in cui viene ritrovata, la competenza passa da Ascoli a Teramo. Dove Salvatore, già in carcere, si trova di fronte al giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo. Non un magistrato qualsiasi, lui. Basti pensare a quel Premio Borsellino assegnatogli nel 2008 durante un incontro pubblico a Roseto degli Abruzzi. Accanto a Cirillo, come relatori, ci sono Luigi de Magistris e Clementina Forleo. Entrambi erano stati colpiti da punizioni “esemplari” ad opera del Consiglio Superiore della Magistratura. La storia di de Magistris e Forleo è nota. Per loro oggi gli effetti di una giustizia non condizionata dai poteri forti stanno finalmente arrivando. Non così nel 2008. Il fatto che in quel tumultuoso periodo Cirillo fosse schierato al fianco dei due coraggiosi colleghi, la dice lunga sulla rigorosa volontà di non lasciarsi condizionare dai ranghi “alti” del potere, quand'anche essi fossero all'interno della stessa magistratura. Cirillo, che conosce a fondo le indagini sul caso Rea, è il gip che il 2 agosto convalida l'arresto di Parolisi richiesto dal pm ascolano Umberto Gioele Monti. Ed è grazie a Cirillo che le attività investigative cominciano ad assumere una diversa fisionomia. Non solo la ricerca spasmodica fra storie di corna a luci rosse e chat per transessuali, ma qualcosa di più solido, quello sfondo inconfessabile di traffici che forse vedono al centro, assieme all'istruttore delle soldatesse Parolisi, interi pezzi della caserma Clementi di Ascoli Piceno. Sembra di essere ad una svolta. Il gip non tralascia alcuna ipotesi, tanto che viene ascoltato il magistrato romano Paolo Ferraro, l'uomo che aveva dettagliato l'esistenza di riti satanici dentro alcuni complessi militari italiani.

LA CASTA PERSEGUITATA ED INETTA. SE SUCCEDE A LORO…FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI.

Marina Berlusconi: "Ecco perché l'estremismo giudiziario può uccidere il Paese". In un'intervista esclusiva a Giorgio Mulè  su Panorama il presidente di Mondadori e Fininvest ripercorre il calvario giudiziario di suo padre Silvio Berlusconi e definisce il processo Ruby "una farsa".

«E' un attacco concentrico. Un assedio. L’obiettivo è chiaro: colpire una volta di più mio padre, come politico, come imprenditore, ma anche nella sua dignità di uomo. E, una volta di più, per colpire Silvio Berlusconi non si fermano neppure davanti al rischio di fare danni gravi, molto gravi, all’intero Paese».

Marina Berlusconi lascia perdere i preamboli. La presidente di Fininvest e di Mondadori (editore, tra l’altro, di Panorama) va dritta al cuore del suo ragionamento e afferma: «Sbaglia chi pensa che oggi la questione riguardi solo le vicende giudiziarie di mio padre. No, siamo davanti a un’emergenza che riguarda tutti. E in questa situazione non è possibile tacere».

Pensa che le iniziative della magistratura possano far saltare gli accordi di governo?

Mio padre è stato molto chiaro. Non ce la faranno. Non la si darà vinta ai signori della guerra, a un sistema che da vent’anni paralizza l’Italia e su questa paralisi ha costruito le sue carriere e le sue fortune.

Anche perché il Paese ha uno straordinario bisogno di stabilità…

Credo che nessuna persona di buon senso possa tifare per l’instabilità. A maggior ragione chi di mestiere fa l’imprenditore. E, mi lasci aggiungere, se oggi, tra mille difficoltà, la politica tenta di superare le barricate e di garantire governabilità e stabilità, un grandissimo merito va proprio a mio padre. Con un atteggiamento molto responsabile e leale, più di tanti altri si è speso e si sta spendendo.

Beh, al di là delle dichiarazioni di principio, l’esecutivo deve ancora dimostrare quel che sa fare.

Il governo Letta di fatto non ha ancora cominciato a operare, verrà giudicato dai risultati. Quel che è certo è che abbiamo bisogno di scelte, e scelte veloci. Anche se sappiamo bene che non tutto dipende da noi, i vincoli dell’Europa sono pesanti. È in Europa che il governo si giocherà una partita decisiva.

Ma la Germania non sembra disposta a fare sconti.

Che questo rigorismo a senso unico non ci porti da nessuna parte è ormai evidente. Guardiamo a quel che sta succedendo nel resto del mondo. Di ricette alternative ce ne sono. Pensi per esempio agli Stati Uniti, e, su un piano ben più radicale, anche al Giappone. È presto per dare un giudizio, bisognerà vedere come andrà nel medio-lungo termine, ma qualche primo risultato positivo mi pare ci sia. E in ogni caso, anche se di formule magiche non ne esistono, resta il fatto che economie molto importanti hanno rifiutato la linea del rigore a ogni costo.

In Italia, però, ai problemi creati da una crisi economica drammatica, si aggiungono i guasti provocati dalla «guerra dei vent’anni».

È mostruoso il solo pensare che il destino del Paese passi per le mani di un gruppo di magistrati spalleggiati da qualche redazione e qualche arruffapopoli.

Così però si mette in discussione un principio cardine della nostra Costituzione: l’indipendenza della magistratura.

L’indipendenza della magistratura è un principio costituzionale sacrosanto. Il problema è che è stato usato per cancellare altri principi, altrettanto fondamentali. Si è fatto scempio dei più elementari diritti della persona: il diritto al rispetto della propria dignità, a una privacy, a non vedersi linciati sui media prima ancora non dico di una sentenza, ma di un processo… Hanno imposto un meccanismo in cui sono saltati tutti i confini tra personali opinioni di tipo morale, valutazioni di tipo politico, verdetti giudiziari. È un meccanismo diabolico, dove rischi di trovarti in totale balia dei personalismi e dei protagonismi di certe toghe. Che a volte sembrano proprio aver dimenticato quel che dovrebbero essere: servitori della giustizia, e non «giustizieri» in nome di qualche fanatismo ideologico.

Ma molti sostengono che suo padre insista sui problemi della giustizia soprattutto o solo perché lo riguardano da vicino.

So bene che oggi, con la crisi, le preoccupazioni delle famiglie sono altre. Ma dobbiamo tutti renderci conto che l’incertezza del diritto può distruggere un Paese. In una comunità in cui le regole vengono sovvertite, in cui basta anche un solo avviso di garanzia per cambiare il corso della politica o devastare la vita di un’azienda, in una comunità dalla quale le imprese che potrebbero venire a investire e creare benessere si tengono alla larga spaventate da questa giungla, ecco, non credo si possa far finta di niente dicendo: tanto a me non capiterà mai. A parte il fatto che può capitare a tutti – e ogni giorno leggiamo storie di condannati poi assolti, di assolti poi condannati, di innocenti finiti in galera, di criminali in libertà – a parte questo, quello della giustizia malata non è un concetto astratto, è un problema che tocca direttamente la vita quotidiana di ciascuno di noi.

Con queste critiche, ha già messo nel conto che sarà accusata anche lei di delegittimare la magistratura?

Credo che il problema, per la magistratura, non siano le critiche. Intanto, qui nessuno si sogna di criticare la magistratura, qui stiamo parlando di un gruppo non ampio di magistrati, a cominciare da una pattuglia di procure, che sono, quelle sì per davvero, procure ad personam. E poi, è proprio il comportamento di certe toghe a minare la credibilità della magistratura.

Facciamo un esempio concreto?

Gliene faccio uno fra i tanti. Pensi a quel pm che ha costruito la sua carriera politica sulle inchieste, naturalmente a vuoto, contro mio padre, che si è candidato alle elezioni senza nemmeno avvertire il pudore di dimettersi, che adesso, bocciato sonoramente dal voto, contesta la sua nuova sede di lavoro e continua a comportarsi, tra una dichiarazione infuocata e un tweet, come se non fosse a tutti gli effetti un magistrato ma un leader politico. Le pare normale tutto questo? Non meriterebbe un po’ più di attenzione da parte di chi, in Italia ma anche all’estero, è sempre pronto ad alzare il ditino scandalizzato?

Facciamo pure nome e cognome del pm di cui sta parlando: Antonio Ingroia.

Certo, facciamolo. Questo signore si permette di descrivere la Fininvest come una società che ha riciclato capitali mafiosi. E lo fa ignorando, o addirittura manipolando, i risultati dei processi nati dalle sue stesse inchieste, i quali non hanno potuto che dimostrare l'assoluta inconsistenza di ipotesi simili. Firmerò personalmente l'atto di citazione dei suoi confronti che gli avvocati stanno ultimando. Il tentativo di riproporre la storia del nostro gruppo come quella di un gruppo di malfattori è degno dei peggiori regimi sempre rispettato nel modo più totale le regole. Siamo una delle realtà imprenditoriali più significative del Paese. Negli ultimi vent'anni abbiamo pagato più di 9 miliardi di euro di tasse, ne abbiamo investiti 27, diamo lavoro a quasi 20 mila persone. E' troppo chiedere un po' di rispetto, che poi non è altro che il semplice rispetto della verità?

D’accordo, ma resta il fatto che non tutti credono alla tesi della persecuzione giudiziaria.

Quando è entrato in politica mio padre era, da tempo, uno dei più importanti imprenditori italiani. Era arrivato all’età di 58 anni senza ricevere nemmeno un avviso di garanzia. Poi, non si sa perché, anzi, mi correggo, si sa benissimo perché, nel giro di pochi mesi si è scatenato un attacco che dura ininterrotto da vent’anni e che peraltro non ha portato neppure a una condanna definitiva, nonostante 33 procedimenti. Qualcuno in buona fede può ancora mettere in dubbio che si tratti di persecuzione giudiziaria? Tutti dobbiamo essere uguali di fronte alla legge, e ci mancherebbe, ma anche la legge deve essere uguale per tutti.

E infatti per questo si celebrano i processi. Come quello sulla vicenda Ruby, per il quale il pm Ilda Boccassini ha appena chiesto una condanna a 6 anni di reclusione oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

Il processo Ruby? Quello non è un processo, è una farsa che non doveva neppure cominciare. Le presunte vittime negano, o addirittura accusano l’accusa. I testimoni dei presunti misfatti non ne sanno nulla. Di prove neppure l’ombra. Hanno lavorato per anni, hanno accumulato lo sproposito di 150 mila intercettazioni, hanno raccolto quintali di verbali, hanno vivisezionato in modo morboso e vergognoso la vita di mio padre e tutto per realizzare non un processo, ma una fiction agghiacciante a uso e consumo di media molto compiacenti. Certi interrogatori, nella loro sconcertante insistenza, facevano pensare ben più al voyeurismo che alla ricerca della verità. Finirà tutto in una bolla di sapone, come sempre, ma all’associazione della gogna non importa nulla di come andrà a finire, interessa solo la condanna mediatica. E, quando il teorema dell’accusa crollerà, quale interdizione dovrebbe essere chiesta per coloro che hanno costruito questa montatura infernale?

Intanto ci sono anche le condanne già pronunciate, come quella in primo grado per la vicenda dell’intercettazione su Unipol-Bnl…

Sì, l’uomo più intercettato d’Italia, il presidente del Consiglio che ha visto pubblicati sui giornali migliaia di suoi privati e ininfluenti colloqui, condannato senza la minima prova per una intercettazione di cui neppure conosceva l’esistenza. La prima e unica condanna del genere in Italia.

E' arrivata anche la condanna in appello per la frode fiscale sui diritti Mediaset tra il 2002 e il 2003.

Accusano mio padre per l’evasione di 3 milioni di euro, a fronte dei 567 milioni di imposte che il nostro gruppo ha pagato in quello stesso biennio. E ignorano due sentenze definitive sugli stessi fatti contestati, che lo scagionano completamente, chiarendo che non si occupa più, da tempo, delle aziende. Guardi comunque che all’elenco che lei sta facendo deve aggiungere una voce, pesantissima: gli attacchi al patrimonio. Quell’esproprio da 564 milioni per la vicenda del Lodo Mondadori, ma non solo.

Che altro?

Per chi avesse ancora dei dubbi sull’aria che tira nel palazzo di giustizia di Milano, c’è anche la sentenza sul divorzio di mio padre. La cifra fissata mi pare dimostri come ogni senso della realtà e della misura sia stato ampiamente superato.

Che cosa si attende dai processi in corso e dalle sentenze che arriveranno?

Posso dirle quel che dovrei attendermi. Una cosa soltanto. Giustizia.

Dopo la condanna per i diritti Mediaset, però, anche a sinistra si è sottolineato che non si può essere considerati colpevoli prima del giudizio di Cassazione.

Troppo facile pensare di salvarsi la coscienza recitando l’inciso rituale: «Premesso che nessuno può essere considerato colpevole fino a sentenza definitiva…», e poi però avanti, dagli addosso al Caimano. Di questo garantismo ipocrita non si sa che farsene.

Insomma, a suo giudizio questo Paese resta prigioniero dell’antiberlusconismo, della caccia al nemico che ha sostituito il confronto politico?

Uno dei più gravi errori della sinistra, che mi pare stia pagando a carissimo prezzo, è stato proprio quello di aver rinunciato a fare politica, ad affrontare l’avversario sul terreno della politica. Ha preferito illudersi che altri provvedessero, in altri modi. Si è consegnata così alle procure e a determinati gruppi editoriali, ma ha fatto anche di più: ha perfino inseguito un ex comico che straparla di golpe, sperando che fosse lui a toglierle finalmente le castagne dal fuoco. Sia chiaro, una sinistra così non è un bene per nessuno: prima torna la politica, la buona politica, e meglio è. Almeno questo, per quel che vale, è il mio auspicio.

…lasciando in questo modo ai grillini la bandiera dell’antiberlusconismo?

Facciamo chiarezza: per Grillo e i suoi guardiani della rivoluzione parlerei piuttosto di nullismo, con l’antiberlusconismo e con il loro essere antitutto tentano di mascherare il nulla assoluto di programmi e proposte. La politica avrà mille colpe, ma non può finire nelle mani di un gruppo di dilettanti, o replicanti, allo sbaraglio. Certo, se poi i replicanti dimostrano di avere un’anima e un portafoglio, e se l’antipolitica va subito a impantanarsi nelle questioni più «terrene» della politica, rimborsi spese e diarie, beh, chissà che non ci siano presto sorprese.

Ha appena accusato «determinati gruppi editoriali». Va da sé che in cima alla sua lista c’è L’Espresso-Repubblica. O no?

Va da sé, anche se devo dire che negli ultimi tempi, sul fronte dello sciacallaggio editoriale, la Repubblica ha ceduto abbondanti quote di veleno al Fatto. Ci sono media che sono diventati vere e proprie incubatrici permanenti di faziosità, di menzogne e di odio. E ci sono giornalisti che ormai conoscono solo l’insulto. Ma io mi auguro che chi ha scelto come mestiere quello di spargere odio conservi ancora quel minimo di obiettività per capire che questo gioco perverso rischia di sfuggirgli di mano, di diventare molto pericoloso. In Italia si respira un’aria brutta, un’aria incattivita, non solo nella rete, che è ormai lo sfogatoio della peggiore intolleranza, ma anche nelle piazze, lo abbiamo visto pochi giorni fa a Brescia.

L’Espresso-Repubblica ha un editore, l’ingegner Carlo De Benedetti, che ha appena definito suo padre un impresario, e non un imprenditore.

Certo che vedere De Benedetti dare lezioni di imprenditorialità… Proprio lui, con le macerie industriali che si è lasciato alle spalle… Altro che imprenditore: lui era e resta un inarrivabile prenditore, il numero uno di quel capitalismo cannibale che pensa solo ad arricchirsi senza dare nulla in cambio, anzi, costruisce le sue fortune sulle sfortune altrui. E non mi sorprende che ormai sembri un disco rotto, è innamorato della patrimoniale: la sua unica ricetta per risolvere i guai del Paese è quella di impoverire gli altri.

L’Ingegnere adesso sponsorizza Matteo Renzi alla leadership del Pd…

Sono questioni che non mi riguardano. Anche se, visto com’è andata a finire per tutti quelli che finora hanno ricevuto l’investitura dell’Ingegnere, fossi in Renzi magari qualche scongiuro lo farei.

Fin qui abbiamo parlato molto di antiberlusconismo. Ma mi dia una definizione del berlusconismo.

Posso parlare di quello che conosco, e benissimo: le idee, i valori, i tanti risultati che Silvio Berlusconi ha raggiunto. Ma quello che sento chiamare berlusconismo non so davvero cosa sia, semplicemente perché non esiste. Se l’è inventato l’antiberlusconismo per darsi una identità e legittimare se stesso. È la tattica vecchia come il mondo di creare, quando non hai idee migliori, un nemico che non c’è.

Da tutto quel che ha detto in questa intervista, si potrebbe obiettare che lei parla per amor filiale...

L’amore filiale c’è, chi ha intenzione di negarlo? C’è ed è enorme, perché mio padre se lo merita, per il padre che è sempre stato e per il padre che è. Sono orgogliosa di essere figlia di Silvio Berlusconi, non c’è mai stato nulla che potesse anche lontanamente incrinare questo orgoglio. Ed è un orgoglio che diventa ancora più grande per il coraggio con cui mio padre si difende e si batte per quello in cui crede. A volte mi chiedo come faccia a sopportare tutto quello che gli hanno inflitto e gli stanno infliggendo.

E quale risposta si dà?

È riuscito a rimanere sempre se stesso, a non cambiare mai. Di fronte ai successi ma anche agli attacchi più ignobili. Ha saputo affrontarli senza mai perdere il suo entusiasmo per la vita, il suo ottimismo, e senza mai lasciarsi andare alla rabbia, al rancore, al desiderio di vendetta. Reazioni che, con quel che gli hanno fatto, personalmente ritengo sarebbero state più che legittime.

Che cosa l’ha ferita di più in questi anni?

Tutto quel che mio padre ha dovuto subire e sta subendo mi fa star male. Ma c’è una cosa, una in particolare. Ed è la distanza siderale fra quello che lui è e il modo in cui in tanti cercano di dipingerlo. Sui giornali, in tv, in certe aule di tribunale. Quando vedo personaggi che di Silvio Berlusconi hanno fatto la loro spesso redditizia ossessione descrivere mio padre in un modo che non c’entra nulla, ma proprio nulla con quello che lui è veramente, sento tutto il peso di un’ingiustizia inaccettabile, ma provo anche una gran rabbia, la rabbia dell’impotenza, perché da questa ingiustizia è molto difficile difendersi. Ecco, questa è la cosa più insopportabile.

E questo, mi scusi, non è parlare per amor filiale?

No. Io parlo per amore di verità.

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA. CONTRO LO STRAPOTERE DELLE TOGHE (MAGISTRATI ED AVVOCATI) DISPONETE L’ISTITUZIONE DEL DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO. PROPOSTA DI LEGGE IN CALCE.

PREMESSA

Il Popolo della libertà scende in piazza sabato 11 maggio 2013 a Brescia "in difesa di Silvio Berlusconi". Alle numerose esternazioni di esponenti del suo partito su un "uso politico della giustizia" segue quella dello stesso Berlusconi: "La sentenza di ieri è davvero una provocazione preparata dalla parte politicizzata della magistratura che da vent'anni cerca di eliminarmi come principale avversario della sinistra e il rinvio a giudizio di Napoli fa parte di questo uso politico della giustizia". Da una parte vi è Silvio Berlusconi che si presenta come vittima sacrificale della magistocrazia e dall’altra il solito Marco Pannella con i suoi scioperi della fame e della sete per denunciare la detenzione dei carcerati nei canili per umani. Puntano l’indice su aspetti marginali del problema giustizia. Eppure loro sono anche quei politici che da decenni presentano le loro facce in tv. Tutto fa pensare che non gliene fotte niente a nessuno se i magistrati sono quelli che sono, pur se questi, presentandosi e differenziandosi come coloro che vengono da Marte, sono santificati dalla sinistra come unti dall’infallibilità. Tutto fa pensare che se si continua a dire che Berlusconi è una vittima della giustizia (e solo lui)  e che le celle sono troppo piccole per i detenuti, non si farà l’interesse di coloro che in carcere ci sono, sì, ma sono innocenti. Bene, Tutto questo fa pensare che dopo i proclami tutto rimarrà com’è. E tutto questo nell’imperante omertà dei media che si nascondo dietro il dito dell’ipocrisia. Volete un esempio di come un certo modo di fare comunicazione ed informazione inclini l’opinione pubblica a parlare di economia e solo di economia, come se altri problemi più importanti non attanagliassero gli italiani?

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: «Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!»

«La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera». Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.

Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".

Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»

«Per quanto concerne la remissione per motivi di legittimo sospetto occorre che i capi delle procure generali si attengano a una concezione rigorosamente ristretta dell'istituto». La circolare ministeriale che abbiamo citato non esce dagli archivi del governo Prodi e neppure dal cassetto del terribile ex procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Si tratta invece di una direttiva piuttosto chiara che il ministro fascista Dino Grandi inviava a tutti i tribunali italiani nel 1939, consigliando loro di usare la legittima suspicione con cautela. Eppure se si dà uno sguardo alla storia giudiziaria italiana, se si ritorna su quei casi in cui la legittima suspicione è stata accolta vengono i brividi e si capisce perché la legittima suspicione si trasformi nel legittimo sospetto contro giudici, pubblici ministeri, tribunali. Il caso più drammatico, più doloroso, in cui l'accettazione della legittima suspicione fece danni incalcolabili fu il processo per la strage di piazza Fontana. Non è il caso di soffermarsi più di tanto su quel buco nero della nostra storia. E' tristemente noto: la legittima suspicione riuscì a strappare il processo ai giudici di Milano in un clima golpista e lo trasferì a Catanzaro. Per trent'anni la verità sulla strage rimase sotterrata dalla collusione tra servizi, governi e apparati militari. Il processo di piazza Fontana è il caso più clamoroso ma non certo il primo. Basta scartabellare negli archivi giudiziari per trovare le vittime della legittima suspicione. A due anni dalla fine della guerra si giunge al drammatico processo per la strage di Portella delle Ginestre. Il processo viene spostato da Palermo a Viterbo: la banda di Salvatore Giuliano viene condannata ma i mandanti assolti. Nel 1963 ci imbattiamo nel disastro del Vajont: il processo da Venezia viene trasferito a L'Aquila dove la strage viene definita «evento imprevedibile» e dove governo e Enel vengono assolti. Nello stesso anno il processo per la strage di Ciaculli viene trasferito da Palermo a Catanzaro. Buscetta viene condannato ma altri mafiosi del peso di Pippò Calò se la cavano. Se si leggono gli atti dei processi per mafia si scopre che la richiesta di legittima suspicione viene utilizzata a man bassa, come una chiave magica usata per ottenere in sedi più consone assoluzioni totali o per insufficienza di prove. Il caso più clamoroso è quello di Luciano Liggio, precursore e maestro di Totò Riina. Dopo l'esordio del 1948 con l'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, Liggio nel `58 ammazza il boss concorrente Michele Navarra. Liggio viene processato ma prevale la legittima suspicione: nel processo di Bari il fondatore della corrente dei corleonesi viene assolto dal tribunale di Bari per insufficienza di prove. Un altro caso clamoroso fu quello delle schedature Fiat. Negli anni `60 fu proprio Milano il luogo in cui si celebrò il processo alla Zanzara. Quelli sopra i cinquant'anni si ricorderanno che la Zanzara era un giornalino fatto dagli studenti del Liceo Parini usato per contestare ante litteram le regole del conformismo e dell'educazione borghese. In base a denunce e lamentele della parte più reazionaria dei genitori e dell'opinione pubblica ne nacque un processo che fece grande scandalo. Per evitare che nello scandalo finisse il buon nome di qualche famiglia milanese fu invocato addirittura l'ordine pubblico e per legittima suspicione il processo finì a Genova. Nel 1989, comunque, il legislatore decide che le maglie della legittima suspicione sono troppo larghe e discrezionali e soprattutto che vengono usate come strumento per impedire la celebrazione dei processi. A spingere al cambiamento sono proprio i numerosi processi per mafia finiti con l'assoluzione per insufficienza di prove. Viene introdotta una nuova norma, quella attuale. L'introduzione di questa norma restrittiva taglia le unghie a coloro che usavano la legge come un grimaldello, ma limita anche i diritti di coloro che hanno sospetti fondati . Per tutti gli anni `90 i ricchi avvocati dei ricchissimi imputati per tangenti tentano di utilizzare la legittima suspicione per farla franca. Il caso che tutti ricordano è quello di Bettino Craxi che durante la bufera di tangentopoli chiede attraverso i suoi legali ai giudici della Cassazione di spostare da Milano i numerosi processi a suo carico. La richiesta viene presentata in tutte le sedi processuali ma viene respinta proprio perché la suprema Corte si trova a dover fare i conti con una norma restrittiva che lascia poco scampo a chi vuole fare il gioco delle tre carte.

Il 6 maggio 2013 è stata respinta l'istanza di Berlusconi di trasferimento a Brescia dei suoi processi a Milano. La richiesta di trasferimento è basata sul legittimo sospetto che ci sia un accanimento giudiziario, “un’ostilità” da parte della sede giudiziaria del capoluogo lombardo (che giudica sul caso della giovane marocchina) e da parte della Corte d’Appello, che si occupa del processo Mediaset, nei confronti del Cavaliere. In quaranta pagine, stilate dai legali e giunte in Cassazione a metà marzo, vengono rappresentate una serie di decisioni, atteggiamenti e frasi pronunciate in aula dai giudici che sarebbero la dimostrazione dell’accanimento nei confronti del leader del Pdl; tra queste le ordinanze con cui sono stati negati i legittimi impedimenti, le visite fiscali a carico di Berlusconi ricoverato al San Raffaele per uveite, la sentenza del caso Unipol dove gli non sono state concesse le attenuanti generiche, la fissazione di 4 udienze in 7 giorni nel processo Ruby, e alcune affermazioni in aula del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del presidente del collegio, Giulia Turri. Nel 2003 la richiesta di trasferire da Milano a Brescia i processi del cosiddetto filone toghe sporche (Imi-Sir/Lodo Mondadori), in cui era imputato Cesare Previti (mentre Berlusconi era stato prosciolto per prescrizione) fu respinta dai giudici, i quali ritennero che la situazione prospettata non potesse far ipotizzare un concreto pericolo di non imparzialità a Milano.

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». È l' ennesimo colpo di scena sul caso Avetrana. Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che «turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull'arresto di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo la fuga di notizie che l'aveva preannunciato («Fu un tentativo di linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò versione più volte, accusò sua figlia dell'omicidio e tornò di nuovo al primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»). Per riassumerla con le parole di Coppi: «L'abbiamo sempre detto, in questo procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c'è serenità è giusto trasferirlo». Per argomentare meglio la sua richiesta, Coppi ha citato la sentenza Imi-Sir/lodo Mondadori del 2003 (imputati Previti e Berlusconi) con la quale le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che in quel procedimento non ci fu legittima suspicione. Tutti i punti che in quel processo motivarono la mancanza del legittimo sospetto, nel caso Avetrana dimostrano, secondo Coppi, esattamente il contrario: cioè che esiste la legittima suspicione.

Eppure nonostante il dettato della legge fosse chiaro, la Corte di Cassazione per l'ennesima volta ha rigettato l'istanza.

Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Nonostante ciò da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge Piazza Fontana ll processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969 (foto), ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico Salvatore Giuliano Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica. Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".

C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona". Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.

In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti". Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura". Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini". Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.

Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella. 

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».

Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri. Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri. La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata. Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; dal’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove. Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato. 

Paradossale è anche il fatto che è stato assegnato a Franco Coppi il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof. Coppi è per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato. Il riferimento è, appunto al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Processo la cui levatura professionale rispetto ad altri si è contraddistinta nell’assunzione di due atti fondamentali: richiesta di rimessione del processo per legittimo sospetto e minaccia di ricusazione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini.

L'avrebbe meritato anche Francesco De Jaco che nella sua arringa finale ha detto: «La richiesta dell'ergastolo è scontata. Non è scontata la richiesta di perseguire chi ha osato testimoniare contro la tesi della Procura. Chi tocca i fili, muore.»

Per quanto innanzi detto sarebbe auspicabile la predisposizione di un difensore civico giudiziario a tutela dei cittadini. Senza sminuire le prerogative ed i privilegi dei magistrati a questi doverosamente si dovrebbe affiancare, come organo di controllo, una figura istituzionale con i poteri dei magistrati, senza essere, però, uno di loro, perché corporatisticamente coinvolto. Tutto ciò eviterebbe l’ecatombe di condanne per l’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

PROPOSTA DI LEGGE

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI OPERATORI DELLA GIUSTIZIA

"Presso ogni sede di Corte d’Appello è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO DISTRETTUALE.

Esso svolge un ruolo di Garante della legalità, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione della Giustizia, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi degli operatori amministrativi, degli operatori giudiziari e degli operatori forensi, nei confronti del cittadino.

Il Difensore Civico Giudiziario deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino.

Il difensore civico Giudiziario, ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P..

La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative regionali.

Ogni Presidente di Corte d’Appello si attiva, affinché il Difensore Civico Giudiziario possa avere la facoltà operativa e logistica per poter operare.

Presso il Ministero della Giustizia è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO NAZIONALE, come organo superiore al Difensore Civico Amministrativo e Giudiziario, con compiti di controllo e coordinamento. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni politiche nazionali.

Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari.

La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato, rispettivamente, dell'assise regionale e nazionale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti."

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI UFFICI PUBBLICI E GLI UFFICI DI PUBBLICA UTILITA'

Ogni funzionario, pubblico o privato, addetto ad uno sportello aperto al pubblico, deve essere identificato con cartellino di riconoscimento. 

"Il comma 1 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Ogni Comune, deve istituire la figura del Difensore Civico Amministrativo, con compiti di garanzia della legalità, dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione territoriale in generale e di ogni attività di Pubblica Utilità, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni ed i ritardi nei confronti del cittadino. Il Difensore Civico Amministrativo deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative comunali ).

Il comma 2 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Il Difensore Civico Amministrativo ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P.. Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari).

Il comma 3 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato del Consiglio Comunale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti)".

Le norme precedenti si applicano anche presso i Consigli Provinciali e Regionali.

Purtroppo  Taranto ci si muove così.

ILVA. SEQUESTRO RECORD. AI MAGISTRATI SEMPRE L’ULTIMA PAROLA CON IL PARADOSSO DI FAVORIRE I RIVA.

Ilva, sequestro record da 8,1 miliardi ai Riva, ma per il procuratore: "La fabbrica non si tocca".

Sequestro da oltre otto miliardi di euro su beni riconducibili alla famiglia Riva e in particolare alla società Riva Fire spa. Il provvedimento di sequestro per equivalente è stato disposto dal gip Patrizia Todisco su richiesta del pool guidato dal procuratore capo Franco Sebastio, titolare dell'inchiesta per disastro ambientale in cui è indagato anche il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante. La procura ha ottenuto il sequestro. In pratica i consulenti dei pubblici ministeri hanno quantificato la somma che Ilva avrebbe dovuto investire negli anni per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica. Gli investimenti non eseguiti, secondo i magistrati tarantini, si sono tradotti in un guadagno per la proprietà ritenuto però fonte di reato. Di qui i sigilli per un valore di otto miliardi e centomila euro.

«Il sequestro - ha spiegato il procuratore Sebastio a “La Repubblica” - riguarda solo i beni della società Riva Fire. Abbiamo tenuto conto della legge 231 (legge salva Ilva), e dunque il sequestro non colpisce i beni dell'Ilva. E questo provvedimento non intacca la produzione dello stabilimento. La ratio del sequestro è quella di bloccare le somme sottratte agli investimenti per abbattere l'impatto ambientale della fabbrica. La produzione non si tocca - ha sottolineato Sebastio - Si tratta  di un sequestro preventivo per equivalente sulla base della legge 231 del 2001 sulla responsabilità giuridica delle imprese che dal 2011 contempla anche i reati ambientali. Ma in ogni caso - ha voluto specificare il procuratore - non potranno essere sequestrati beni funzionali all'attività e alla produzione della fabbrica.»

Molti hanno esultato a questo escamotage giuridico, ma evidentemente costoro sono a digiuno di prassi giudiziaria. Il sequestro preventivo non è una confisca,che interviene al termine del naturale decorso giudiziario con esito positivo per le toghe, ma una semplice forma di garanzia a futuro adempimento di obbligazione. Ciò significa che il sequestro di quei beni comporterà che fino alla sentenza definitiva quei soldi non li può toccare più nessuno perchè posti proprio a garanzia del risanamento. La lungaggine dei processi in Italia insegna che la sentenza definitiva dopo primo grado, appello, Cassazione arriverà fra non meno di cinque o sei anni. Nel frattempo la famiglia Riva non potrà risanare, proprio perchè spogliato di tutte le sue risorse. Va da se che per logica, a questo punto, non saranno applicabili le sanzioni previste dalla legge n. 231/2012 in caso di inadempienze nel risanamento dopo i tre anni. Quindi non ci potrà essere la nazionalizzazione dell'azienda, perchè è proprio lo Stato ad aver posto Riva nelle condizioni di non potere adempiere. Insomma i Magistrati hanno dato a Riva l'alibi per non adempiere al risanamento.

Il Dr. Antonio Giangrande, scrittore (su Taranto ha scritto un libro) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, esprime il suo pensiero nel pieno diritto di critica pur nel rispetto della magistratura e senza alcun intento diffamatorio nei confronti dell’ufficio della procura e del giudice per le indagini preliminari. Lo manifesta in un contesto ambientale ed ideologico dove nessuno ha il coraggio di farlo, attraverso l’utilizzo di domande in apparenza retoriche, ma fondamentalmente legittime.

«E’ chiaro a tutti che se prima “alla stampa locale dovevasi tagliare la lingua”, riuscendovici, oggi la stessa stampa continua a tacere anche su questioni fondamentali di diritto. Non è lo stare contro o a favore dei magistrati il punto del contendere, ma se si sta nell’alveo della legge o meno. Giusto affinchè da fuori non si dica: ma a Taranto nessuno conosce la legge?

Dall’arresto del Presidente della Provincia di Taranto, il dr. Gianni Florido, al sequestro dei beni della famigli Riva il tutto sembrerebbe avere l’aria di una ripicca. Se non lo è come si spiega lo strano tempismo adottato. Qualcuno mi chiederà di quale tempismo io parli. Quale tempismo?!?

Il tempismo che il 14 maggio 2013 la battaglia giudiziaria sulle merci dell'Ilva è finita e da qui si è aperto un varco inatteso con atti tardivi rispetto alle esigenze cautelari con conseguenze imprevedibili.

Qualcuno mi dirà: di quale cronologia si parla? La cronologia di cui si parla è presto spiegata!

Per 50 anni si è permesso all’Italsider, poi Ilva, di inquinare a piacimento, poi un bel giorno ci si è scoperti, tutto ad un tratto, ambientalisti radicali.

26 luglio 2012. I sigilli scattano nell'area produttiva.

26 novembre 2012. Il sequestro delle merci prodotte.

24 dicembre 2012. Il decreto, numero 171 del 4 dicembre 2012, è stato convertito nella legge 231. Legge approvata a grande maggioranza dal Parlamento e che ha appunto confermato la doppia impostazione: via libera alla produzione e alla commercializzazione.

Approvata la legge, l'Ilva ha subito cercato di riottenere la disponibilità delle merci ma qui è cominciato uno scontro durato cinque mesi e che ha visto tutte le istanze dell'azienda respinte dai giudici. Dai pm al gip, dal Tribunale del Riesame a quello dell'Appello, ogni qualvolta che l'Ilva ha chiesto di "liberare" semilavorati e prodotti ha collezionato solo no. Accanimento giudiziario tanto da indurre il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante a denunciare in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico. Il presidente del siderurgico ha chiesto ai magistrati potentini di verificare se sono ravvisabili reati nei loro confronti: oggetto del contendere è l'atteggiamento avuto nel corso della diatriba giudiziaria, dal sequestro dell'impianto sino al blocco dell'acciaio prodotto. Procura e giudice hanno fatto sempre muro creando grave danno all'azienda e di conseguenza minato i diritti dei lavoratori.

Si arriva così al 9 aprile 2013, quando la Corte Costituzionale respinge, perché in parte infondate e in parte inammissibili, le eccezioni contro la legge 231 avanzate dai giudici e dice che la 231 è costituzionale. L'Ilva torna quindi alla carica e richiede il dissequestro delle merci: nulla da fare. E per più volte. Nessun dissequestro sin quando le motivazioni della Consulta sulla costituzionalità della legge non saranno state rese note, dicono i magistrati di Taranto. Le motivazioni arrivano il 9 maggio 2013.

14 maggio 2013 il verdetto favorevole del gip. Il valore delle merci dissequestrate è compreso fra gli 800 milioni di euro e un miliardo di lire.

15 maggio 2013 arresto di Gianni Florido.

24 maggio 2013 sequestro del GIP Patrizia Todisco  di 8,1 miliardi di euro alla società Riva Fire spa.

Arresto e sequestro che potevano essere adottati molto tempo prima. E da qui l’infondatezza della necessità ed urgenza dell’adozione di quei provvedimenti.

Cioè in sostanza le conseguenze sono che i Riva vengono privati di ogni disponibilità finanziaria e quindi non potranno più ottemperare ai dettami della legge n. 231/2012 con due possibili esiti nefasti:

nazionalizzazione dell’azienda e confisca dei beni sequestrati (8,1 miliardi di euro), in parole povere espropriazione proletaria per buona pace dei sinistri;

risanamento dell’ambiente a carico dello Stato, liberando i Riva dall’onere economico e restituzione a questi dei beni sequestrati (in caso di buon esito del procedimento penale o dell’esito del ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo), per buona pace dei destri.

Comunque sia la Corte Europea dei diritti Umani ne ha da lavorare sulle nefandezze italiane. 

Appare chiaro che in un quadro ambientale normale è necessitata l’avocazione delle indagini da parte della Procura generale per due ordini di motivi: per quanto attiene l’ufficio del Pubblico Ministero non è stata esercitata la facoltà di astensione per gravi motivi di convenienza; così come il giudice Patrizia Todisco va sostituito con altro Magistrato dell'Ufficio del GIP in quanto esso, a norma dell’art. 36 c.p.p., ha l'obbligo di astenersi e non si è astenuto a seguito di inimicizia grave instauratasi fra lei e una delle parti private, per la denuncia penale e l’esposto in via disciplinare subito.

Ma i magistrati, tutti, fanno quadrato. A tirarla per le lunghe è inevitabile riportare quanto scritto sui giornali: Il presidente della Corte d' appello di Lecce Mario Buffa lancia l'allarme sulla possibilità che "grazie ad una legge di dubbia costituzionalità tutto resti come prima". Ed ancora  “Sull’Ilva si è registrato negli anni un fragoroso silenzio da parte dei sindacati e una disattenzione dei governi che si sono succeduti a livello locale e nazionale (...) il sindacato ha mantenuto il silenzio nonostante la gravità di una situazione visibile a tutti”. Parole come pietre, le parole del procuratore generale Vignola. In effetti, in base ad un accordo stilato nel 1996 tra Fim, Fiom, Uilm  e l’Ilva stessa, sono stati versati 438 mila euro annue alle segreterie dei 3 sindacati. Il tutto giustificato da una fondazione in cambio di una colonia per i figli dei dipendenti, borse di studio e contributi scolastici, oltre ad attività sportive e ricreative. “Un attacco pesante di cui non si sentiva la necessità” è quanto dichiarato da Antonio Talò, leader della Uilm ionica, il sindacato più rappresentativo nel Siderurgico al centro della bufera giudiziaria ormai da mesi.  “Abbiamo sempre denunciato quello che potevamo e dovevamo, certo i controlli sul benzo(a)pirene non spettavano a noi, che non siamo mai stati nè silenti nè conniventi. Se volessi fare polemica, chiederei a Vignola dove è stato, sino al 2012” è la chiosa del capo tarantino dei metalmeccanici della Uil. La chiosa vale anche per tutti i magistrati di Taranto? 

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.

Il caso Scazzi ed il caso Ilva: stessa solfa.

Stante, appunto, la situazione ambientale, non pare che sia necessario ed urgente che le difese si attivino a chiedere la rimessione dei processi anche sul caso Ilva per legittimo sospetto che non vi sia serenità di giudizio, specie con la contrapposizione di piazza tra le rispettive parti, anche politiche? Sempre che gli avvocati in causa abbiano il coraggio di Franco Coppi, che ai magistrati tarantini ha prima presentato l’istanza di rimessione e poi alla Cesarina Trunfio ed alla Fulvia Misserini (giudici togati del caso Scazzi) ha paventato l’ipotesi di una ricusazione:  perché parafrasando Don Abbondio “se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”. Qualcuno mi dirà: Tu cosa proponi? C’è un principio generale: chi inquina paga. Quel principio non dice: chi inquina perseguitalo e fai chiudere la fabbrica e manda i lavoratori a casa. In questo modo si dà la stura ad ogni iniziativa avversa di tutela. Impedire la vendita dei prodotti e sequestrare i beni non è la soluzione. Vendere i prodotti e investirne i proventi fino alla totale sanificazione ambientale sarebbe una espropriazione velata, ma inattaccabile dal punto di vista legale, in quanto la gestione dell’attività economica (produzione e risanamento) rientra tra le prerogative dei consulenti giudiziari nell’ambito della gestione aziendale. Ed ove non fosse così, comunque c’è sempre l'art. 388 c.p. rubricato "Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice", che va bene per tutte le stagioni.»

MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.

Ci sono processi che non cominciano. Processi iniqui e processi che non finiscono mai. E che spesso, quando finiscono, risultano pure fatti male. La fotografia di mezzo secolo di giustizia italiana a Strasburgo mette in luce però molto di più: intrusione illecita nella vita privata da parte dello Stato, negazione del diritto di proprietà, violazioni dell’equo processo. Soluzioni? Vediamole.

LEGGE PINTO. Nel 2001 prese forma la legge Pinto, voluta per arginare gli infiniti procedimenti di risarcimento dell’Italia, togliendoli alla Corte Europea per affidarli alle Corti d’Appello. Il risultato non è mai stato brillante ed è emerso in tutta la sua forza nel 2010: le Corti d’Appello risarcivano un’inezia. Il ministero, che aveva visto lievitare gli indennizzi dai 4 milioni di euro del 2002 agli stratosferici 81 del 2008, pagava a rilento (36,5 milioni non risultavano ancora versati alla fine del 2010). E mille persone erano così tornate a Strasburgo, contestando il ritardo nel pagamento della somma già liquidata dalla sentenza: la “mora” della mora. Si trattava della punta dell’iceberg: perché una sentenza non corrisponde ad un caso, ma può radunare anche centinaia di casi. Il ricorso principale, come si sa, nelle cause contro lo Stato a Strasburgo, riguarda la lunghezza dei processi. I responsabili dei ritardi non si sa mai chi siano, se non una generica burocrazia. Nella relazione annuale 2010 al Parlamento il Governo aveva infatti ammesso che la Legge Pinto non riusciva a “fronteggiare efficacemente eventuali condotte negligenti di singoli magistrati, causative dell’irragionevole ritardo processuale, ovvero a vigilare sull’obbligo dei dirigenti degli uffici giudiziari di realizzare un’efficiente organizzazione del lavoro”.

DI CHI È LA COLPA? Eppure i processi non vanno piano perché i magistrati sono pochi: ne abbiamo una media di 1,39 ogni diecimila abitanti a fronte di uno 0,91 dei Paesi dell’Ue, oltre a quasi mille rincalzi entrati negli ultimi tre anni. E allora? Il Governo Monti ha provato a riformare la legge Pinto con il decreto legge dello scorso giugno, che snellisce la procedura. Con quali effetti, avremo modo di raccontarvelo più avanti, perché una riforma strutturale necessita di tempi medi. Di certo, stando ai numeri di Strasburgo, il problema della giustizia in Italia non riguarda soltanto la lunghezza dei processi, civili in particolar modo. Riguarda anche altro. Pure se, di questo “altro” che stiamo per vedere, se ne parla assai poco. Forse perché non pesa economicamente come la lentezza processuale, calcolata pari ad un punto del Pil. Forse. Di sicuro, in uno Stato di diritto, questo “altro” dovrebbe avere un peso addirittura superiore.

EQUO PROCESSO. La Corte per i diritti dell’Uomo ha pubblicato le statistiche sulle sentenze europee emesse dal 1959 al 2011: e l’Italia, oltre a risultare di gran lunga il più condannato tra gli Stati dell’Ue nel totale delle violazioni (quasi il triplo della Francia, 10 volte la Germania, oltre 20 volte la Spagna), alla voce “diritto al giusto processo” presenta 245 condanne. Si tratta sempre dell’articolo 6 della Convenzione per i diritti dell’Uomo, come per la lentezza processuale, ma riguarda stavolta le violazioni del diritto ad una giusta difesa. Materia penale, per intenderci. Tra i Paesi occidentali, ne ha sei in più unicamente la Francia, dove, in compenso, i processi sono molto più rapidi. Il resto della compagnia è formato da Turchia, Romania, Ucraina e Russia. Sotto, il baratro. Ciò significa che da noi non solo i processi durano una vita. Ma in linea di massima sono fatti pure male. Il che, quando di mezzo c’è il penale, comincia a far nascere angoscia. Perché sui dati non ha pesato affatto solo la nostra normativa sulla contumacia, no. «Sono diverse le condanne in materia di giusto processo: per impossibilità di interrogare i testimoni, le vittime e gli accusatori. Per assenza di difesa effettiva e incapacità dell’avvocato d’ufficio, o per processi conclusi solo per via della testimonianza delle vittime o ancora per assenza di imparzialità negli organi giudicanti o nella pubblica accusa». Sono le parole di Gianna Sammicheli. Formazione giuridica in Germania, Spagna e in una ONG di Londra che porta avanti cause per violazione dei diritti dell’uomo di fronte a tutte le Corti internazionali; si è occupata di diritto nei paesi dell’Est, ma è rimasta sgomenta quando si è confrontata con il sistema italiano, non appena è tornata a lavorare nel Belpaese, La Spezia, esattamente. In Italia infatti, spiega: «si assiste ad interpretazioni della giurisprudenza di Strasburgo inspiegabilmente diverse da quelle che deriverebbero da una traduzione letterale della stessa, tanto che la Corte è di nuovo subissata da ricorsi come prima della Legge Pinto». Snocciola sei sentenze contro l’Italia per ingiusta detenzione: doveva riparare lo Stato, ma la magistratura negava gli indennizzi, dando sostanzialmente la colpa dell’arresto all’arrestato.

SOTTRAZIONE DI MINORI, PROPRIETÀ PRIVATA E DIRITTO DI VOTO. «Moltissime – prosegue la Sammicheli – anche le condanne al nostro Paese in materia di minori, dove i giudici italiani hanno tolto i figli ingiustamente alle famiglie». Nella fotografia della tabella di Strasburgo, tutto questo va alla voce “diritto alla vita privata e famigliare”. E qui non abbiamo davvero eguali: 133 condanne, l’unico Paese con numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se confrontati con Turchia, Russia, Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente noti come templi giuridici. Ma il catalogo di record non finisce qui: 16 sentenze sul diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una sfilza di 0 violazioni) e ben 310 sentenze sulla protezione della proprietà privata. L’Occidente, in questo, è lontano da noi anni luce: al secondo posto dell’Ue c’è infatti la Grecia con “appena” 62 violazioni, un quinto delle nostre, che per contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina.

COME STANNO LE COSE. I nostri dati della giustizia, visti con l’occhio europeo, sono devastanti. Ma non basta. Perché peggiorano ancora se mettiamo a fuoco alcuni archivi. Secondo uno storico dell’Eurispes, infatti, dal dopoguerra al 2003 oltre quattro milioni di italiani furono “vittime” della giustizia e i prosciolti nei processi tra il 1980 e il 1994 erano addirittura il 43,94%. Quasi la metà. E allora la domanda è: chi ha mai pagato per questi errori e per le tantissime violazioni dei diritti dell’Uomo commesse dalla nostra giustizia? Chi ha pagato per le ingiuste detenzioni comminate, per le violazioni dell’equo processo, per aver sottratto un bambino illegittimamente ad una famiglia, una volta che tutto questo è stato acclarato? È difficile fare nomi. Ma chi non paga quasi mai pare siano proprio i protagonisti della giustizia, e cioè i magistrati, neppure in sede disciplinare. Almeno secondo i dati emersi in “La legge siamo noi” (Piemme, 2009) di Stefano Zurlo, che prendeva in esame svariati procedimenti disciplinari del Csm e raccontava di toghe trattate a buffetti o addirittura assolte per le vicende più assurde, o ancora di toghe non espulse neanche quando avevano chiesto l’aiuto di un boss. Il tutto mettendo sul piatto numeri pesanti: tra il 1999 e il 2006, su 1010 procedimenti disciplinari, 812 sono finiti con l’assoluzione o il proscioglimento; 126 con l’ammonimento, 38 le censure. Ma solo 22 volte c’è stato un vero provvedimento minimo (rallentamento di carriera) e 6 volte l’espulsione. Ventotto provvedimenti concreti su 1010. Non sarà un po’ poco?

QUARTO GRADO DI GIUDIZIO. In nome dell’indipendenza della magistratura non si è mai voluto mettere mano ad una strutturale riforma della giustizia. E si è lasciato che quello che è un problema serio, diventasse un mero “equivoco” politico: chi voleva la riforma s’intendeva fosse schierato da una parte, chi non la voleva, s’intendeva schierato dall’altra. Facile. Ma l’indipendenza della magistratura in Italia non è solo quella che stabilisce l’autonomia dalla politica e l’essere soggetta solo alla legge. No. L’indipendenza della magistratura in Italia è quella che consente ad un giudice l’interpretazione della legge, perché possa decidere in libera coscienza. Un principio nobile, che tuttavia può portare, ad esempio, un giudice di secondo grado a condannare un imputato con gli stessi, precisi elementi, con cui questi era stato assolto in primo grado. A fargli decidere di non sentire alcuni testimoni che la difesa ritiene cruciali. E a non fargli rispettare i dettami chiari e netti stabiliti dalla Convenzione per i diritti dell’Uomo, che pure l’Italia ha sottoscritto. Senza, nemmeno in questo caso, stando ai dati pubblicati da Zurlo, subire alcuna seria conseguenza nemmeno in sede disciplinare. Non a caso, per mettere una pezza alle continue condanne della Corte di Strasburgo all’Italia per le violazioni dell’equo processo, la Corte Costituzionale ha emanato ad aprile 2011 una clamorosa sentenza: la numero 113. Trattava il caso di Paolo Dorigo, condannato a tredici anni e sei mesi con l’unica prova fornita da due testimoni che però non furono mai controinterrogati in un confronto diretto. Già nel 1998 Strasburgo definì quel processo “iniquo”, ma Dorigo uscì di prigione dopo aver scontato quasi tutta la pena. La Corte Costituzionale, partendo proprio dalla sua lunga vicenda, ha stabilito che se Strasburgo dichiara il processo “iniquo”, è illegittimo non prevederne la revisione: e ha in pratica introdotto un possibile quarto grado di giudizio. Sostanzialmente, in caso di condanna dell’Italia a Strasburgo, il processo potrebbe essere rifatto. Ma forse è tempo che oggi si superi l’equivoco politico. E che qualcuno metta finalmente mano ad una riforma della giustizia capace di risolvere tutte queste contraddizioni: premiando finalmente i magistrati che non sbagliano. E rallentando davvero chi sbaglia troppo.

LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.

Lo stato della giustizia in Italia: intervista al giudice fatta da Stefano Lorenzetto e pubblicata su "Il Giornale". Questa sconvolgente intervista è un clamoroso atto di denuncia del sistema giudiziario italiano, fatto da chi, Edoardo Mori, magistrato lo è stato in modo instancabile e apprezzatissimo per 42 anni. Quello che racconta è lo sfacelo totale. Una delle sue dichiarazioni..«Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Ed eccone un’altra…«La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». E ancora un’altra...."i periti offrono ai Pm le risposte desiderate, gli forniscono le pezze d’appoggio per confermare le loro tesi preconcette. I Pm non tollerano un perito critico, lo vogliono disponibile a sostenere l’accusa a occhi chiusi. E siccome i periti sanno che per lavorare devono far contenti i Pm, si adeguano".

Edoardo Mori, uno di quegli uomini precisi, scrupolosi e dallo stile impeccabile che sembrano appartenere a un secolo precedente, se ne è andato dalla magistratura con un senso di disgusto. Racconta di come troppe volte si è fatto e viene fatto totalmente carta straccia del diritto. E’ davvero estremamente raro che un Magistrato, specie se ha svolto ruoli importanti, faccia dichiarazioni di questo livello. Ecco perché crediamo che questa intervista vada letta.

Magistrati, alzatevi! Stavolta gli imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la toga, disgustato dall’impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di giustizia. «Sarei potuto rimanere fino al 2014, ma non ce la facevo più a reggere l’idiozia delle nuove leve che sui giornali e nei tiggì incarnano il volto della magistratura. Meglio la pensione». Per 42 anni il giudice Mori ha servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a parte la settimana in cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima per otto anni pretore a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice istruttore, giudice per le indagini preliminari, giudice fallimentare (il più rapido d’Italia, attesta il ministero della Giustizia), nonché presidente del Tribunale della libertà, a Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi contro i terroristi sudtirolesi, ha giudicato efferati serial killer come Marco Bergamo (cinque prostitute sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto giurisprudenziale a esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro. Con un’imparzialità e una competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici. Ovviamente se n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da podestà di Zeri, in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito Mussolini, divenne antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati inglesi venuti a liberare l’Italia. Mori confessa d’aver tirato un sospirone di sollievo il giorno in cui s’è dimesso: «Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Da sempre studioso di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è probabilmente uno dei rari magistrati che già prima di arrivare all’università si erano sciroppati il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi (1910) e il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire di paghetta le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi, interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice delle armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei brocardi latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati come se fossero tre dei 73 libri della Bibbia. Nato a Milano nel 1940, nel corso della sua lunga carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra sentenze e provvedimenti, avendo la soddisfazione di vederne riformati nei successivi gradi di giudizio non più del 5 per cento, un’inezia rispetto alla media, per cui gli si potrebbe ben adattare la frase latina che Sant’Agostino nei suoi Sermones riferiva alle questioni sottoposte al vaglio della curia romana o dello stesso pontefice: «Roma locuta, causa finita». Il dato statistico può essere riportato solo perché Mori è uno dei pochi, o forse l’unico in Italia, che ha sempre avuto la tigna di controllare periodicamente com’erano andati a finire i casi passati per le sue mani: «Di norma ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto – ragiona – provvederà semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati inesperti. Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti». Soprattutto, se il giudice sbaglia, non paga mai. «La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». Il dottor Mori parla con cognizione di causa: ha dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e tutti per aver criticato l’operato di colleghi arruffoni e incapaci. «Dopo aver letto una relazione scritta per un pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto condannare un innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di scrivere al procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo a una gran brutta figura. Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a prosciogliermi. Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver offuscato l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era stato condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché, quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me ne fregava più nulla».

–Perché ha fatto il magistrato?

«Per laurearmi in fretta, visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un po’ in tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica, scienze naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi documentavo sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che nessuno capiva. Be’, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni Falcone».

–Il magistrato trucidato con la moglie e la scorta a Capaci.

«Mi portò al Csm a parlare di armi e balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti dei periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani. Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai Pm: ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università romana, è riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio, elemento chimico non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema solare e prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10 grammi».

–Per quale motivo i pubblici ministeri scambiano i periti per oracoli?

«Ma è evidente! Perché ».

–Ci sarà ben un organo che vigila sull’operato dei periti.

«Nient’affatto, in Italia manca totalmente un sistema di controllo. Quando entrai in magistratura, nel 1968, era in auge un perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato un microscopio abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra mondiale. Per ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale basta essere iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è sempre la possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di pietà. Ci sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione, ottengono dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello vanno a far danni nelle aule di giustizia».

–Sono sconcertato.

«Anche lei può diventare perito: deve solo trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali rigurgitano di tuttologi, i quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi materia, dalla grafologia alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una laurea. Nel mondo anglosassone vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia dei diritti dell’imputato che, se in un processo si scopre che un perito ha commesso un errore, scatta il controllo d’ufficio su tutte le sue perizie precedenti, fino a procedere all’eventuale revisione dei processi. In Italia periti che hanno preso cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm recidivi e imperterriti, come se nulla fosse accaduto».

–Può fare qualche caso concreto?

«Negli accertamenti sull’attentato a Falcone vennero ricostruiti in un poligono di tiro – con costi miliardari, parlo di lire – i 300 metri dell’autostrada di Capaci fatta saltare in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già avrebbe potuto dire a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato. È chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero 500 o 1.000 chili. Molto più interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto costruito oltre vent’anni prima. Conclusione: quattrini gettati al vento. Nel caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un sedile dell’aereo e questa perizia ebbe a influenzare tutte le successive pasticciate indagini, orientate a dimostrare che su quel volo era scoppiata una bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità esplosiva?».

–Prego. Sono rassegnato a tutto.

«Per anni fior di magistrati hanno cercato di farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi attentati attribuiti all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido 904 nel 1984, era stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da un’isoletta, Trimelone, davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco, militarizzata fin dal 1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per la strage di Bologna l’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti s’avvide che uno degli esplosivi, asseritamente contenuti nella valigia che provocò l’esplosione e che pareva fosse stato ripescato nel Benaco dai terroristi, era in realtà contenuto solo nei razzi del bazooka M20 da 88 millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un po’ dura dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945».

–Ormai non ci si può più fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura rimediata dagli inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher.

«Si dice che questo esame presenti una probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta su un database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate fuori ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui uno degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima per capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile e monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente dal primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che sul gancetto del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla Vecchiotti, una delle perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le eventuali impronte genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata meglio a Cogne».

–Cioè?

«In altri tempi l’indagine sulla tragica fine del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza giornata. Gli infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti non erano stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non consente errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il meno possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato nel caso Marta Russo».

–Si riferisce alle prove balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile dell’Università La Sapienza di Roma?

«E non solo. S’è preteso di ricostruire la traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il foro d’ingresso del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi poteva rivolgersi in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di geometria del ginnasio non si studiava che per un punto passano infinite rette? Dopodiché sono andati a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e hanno annunciato trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato che si trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria della capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è stata interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver visto in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno che si comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per violenza privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica sicurezza, anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un ex poliziotto».

–Un sistema che ha fatto scuola.

«La galera come mezzo di pressione sui sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un moderno strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere».

–Che cosa pensa delle intercettazioni telefoniche che finiscono sui giornali?

«Non serve una nuova legge per vietare la barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è perfetta, perché ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine e di distruggere le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da omissis in fase di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una sanzione penale per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In Germania, invece, esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo stravolgimento del diritto da parte del giudice».

–Come mai la giustizia s’è ridotta così?

«Perché, anziché cercare la prova logica, preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche dimostrano invece che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è assurdo andare in cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro il rasoio di Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam».

–In un ragionamento tagliare tutto ciò che è inutile.

«Appunto. Le regole logiche da allora non sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. Il “cui prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva interesse a uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato l’amante, o è stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato dopo 20 anni dal cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri, ovvio. In molti casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi sia l’autore di un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza schiaffando in prigione i sospettati».

–Ma perché si commettono tanti errori nelle indagini?

«I giudici si affidano ai laboratori istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li nascondono sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di Ettore Grandi, diplomatico in Thailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la moglie che invece si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18 perizie medico-legali inconcludenti».

–E si ritorna alla conclamata inettitudine dei periti.

«L’indagato innocente avrebbe più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti».

–No, no, non mi risparmi nulla.

«Vengono pagati per ogni singolo elemento esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente umido, considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov nuovi, ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov. I 700-800 fucili mitragliatori sono stati computati come altrettanti reperti. Parcella da centinaia di migliaia di euro. Per fortuna è stata bloccata prima del pagamento».

–In che modo se ne esce?

«Nel Regno Unito vi è il Forensic sciences service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i maggiori esperti in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60 Stati esteri. Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e impiega 2.500 persone, 1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta autorità a livello mondiale».

–E per le altre magagne?

«In Italia non esiste un testo che insegni come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi interroga non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino intendere ciò che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato dettagli sulle indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui l’inquisito deve rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di questa regola elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo interrogatorio di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco perché il Pm parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli scampoli di conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci sarebbe molto da dire anche sulle autopsie».

–Ci provi.

«È ormai routine leggere che dopo un’autopsia ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si riesumano addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il primo medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli esami autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai visto un cadavere in vita loro».

–Ma in mezzo a questo mare di fanghiglia, lei com’è riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi?

«Mi consideri un pentito. E un corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione preventiva, ma l’ho fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i pregiudicati, mai con un cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per sempre. Mi autoassolvo perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo, tutti hanno dovuto riconoscerlo».

–Non è stato roso dal dubbio d’aver condannato un innocente?

«Una volta sì. Mi ero convinto che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una rapina. Mi fidai troppo degli investigatori e lo tenni dentro per quattro-cinque mesi. Fu prosciolto dal tribunale».

–Gli chiese scusa?

«Non lo rividi più, sennò l’avrei fatto. Lo faccio adesso. Ma forse è già morto».

Intervistato sul Corriere della Sera da Indro Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in pensione, il presidente della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre dell’ex procuratore di Mani pulite, osservò che «in uno Stato bene ordinato, un giudice dovrebbe, in tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza, studiare una causa sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una dichiarazione d’incompetenza». «In Germania o in Francia non si parla mai di giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce i loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia». Si dice che il giudice non dev’essere solo imparziale: deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega che arriva in tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa testata perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato. «Ho smesso d’andare ai convegni di magistrati da quando, su 100 partecipanti, 80 si presentavano con La Repubblica e parlavano solo di politica. Tutti espertissimi di trame, nomine e carriere, tranne che di diritto».

–Quanti sono i giudici italiani dai quali si lascerebbe processare serenamente?

«Non più del 20 per cento. Il che collima con le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80 per cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo saggio Il potere della stupidità».

–Perché ha aspettato il collocamento a riposo per denunciare tutto questo?

«A dire il vero l’ho sempre denunciato, fin dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente sul mensile Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa».

VERGOGNA GIUSTIZIA. LA STORIA SI RIPETE: PALMINA MARTINELLI COME CARMELA CIRELLA FRASSANITO. PALMINA MARTINELLI: BRUCIATA VIVA NON VIENE CREDUTA.

La storia agghiacciante di una adolescente di 14 anni bruciata vita perchè non voleva prostituirsi ed offesa dalla magistratura sino alla Cassazione che non le crede, assolvendo scandalosamente i suoi aguzzini, scrive “Avvocati senza frontiere”.

Napoletana di nascita e tarantina d’adozione, Carmela Cirella Frassanito vive con la sua famiglia la vita normale di una tredicenne. Scappata di casa dopo un rimprovero dei genitori, a causa di un comportamento sbagliato a scuola, non si avranno sue notizie per quattro giorni. In quelle lunghissime ore trascorse lontano dai genitori, la piccola conosce l’inferno e purtroppo non ne uscirà più. Avvicinata da balordi, sarà stuprata ripetutamente e drogata con anfetamine. Indifesa, sola, impaurita, Carmela sarà ritrovata dal padre Alfonso nei vicoli della città vecchia. Sotto shock. Di colpo, con violenza e crudezza approdata nel mondo degli adulti, perduta la sua innocenza di bambina, Carmela farà i conti con la crudeltà  dei grandi che spesso offende i più piccoli. Umiliata due volte. Da vittima a imputata. Trasformata a soli tredici anni nella poco di buono del momento,  instabile psichicamente, che se è stata stuprata forse è colpa sua che andava con tutti. Non dei ragazzi. Né degli adulti che hanno preso parte al gioco insieme ai ragazzi. La colpa è solo di Carmela. Perché nella società civile capita anche questo. Che un avvocato possa sentirsi in diritto di offendere l’onore di una bambina di tredici anni. Che poi a tredici anni l’onore si ha per diritto, non si difende e non si può offendere. Si ha e basta. Perché si è ancora bambine, non si conosce il sesso e si crede alle favole. E l’onore, forse, è una parola priva di significato, antica. Tutti a scagliare la prima pietra contro Carmela e la sua famiglia. Ad insinuare il tarlo del sospetto nei confronti del padre. Povera Carmela. Amava ripetere in continuazione “Io so Carmela”, per affermare la propria identità, per farsi coraggio, per essere amata e accolta. Chi non ha ascoltato la richiesta di aiuto di una bambina? Tutti. Le istituzioni, che l’hanno strappata alla famiglia per chiuderla in un istituto, la giustizia con la procura di Taranto, che non l’ha creduta e con dei provvedimenti troppo lievi nei confronti dei colpevoli. Carmela merita giustizia, è  l’unica cosa che può dare conforto ai genitori adesso che non c’è più. Si perché un mostro l’ha portata via. Si chiama indifferenza, ingiustizia, silenzio. Carmela viene imbottita di psicofarmaci all’insaputa dei genitori, nell’istituto che doveva aiutarla a superare il trauma. Troppo per una ragazzina di tredici anni, troppo dolore da affrontare. Il mostro si chiama anche mal di vivere, solitudine. Il salto nel vuoto del 15 aprile 2007, a Taranto, è solo un dettaglio.

15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. Per dare giustizia e un senso al suo sacrificio e affinché non vi siano più altre “Carmele”, nasce l’associazione in suo onore e memoria “IoSòCarmela”, come la frase che lei stessa ripeteva sempre e scriveva dappertutto per urlare a tutti il suo diritto di esistere e di essere rispettata. Delle lettere scritte si è perso il conto. Soltanto in quest’ultimo mese al ministro di Grazia e Giustizia e al ministro delle Pari Opportunità ne saranno state inviate cinque o sei. Risposte? Nessuna. Certezze che siano state almeno aperte? Nessuna. E così Alfonso Frassanito ha deciso che era il momento di fare qualcosa di più per dare voci a tutti quelli come lui: genitori di bambini o adolescenti che hanno subito un abuso, che forse conoscono anche il nome del colpevole, ma hanno capito che non otterranno mai giustizia. Per la prima volta lui - e tanti altri come lui - saranno sotto il ministero di Grazia e Giustizia a urlare quello che era scritto nelle lettere. «Perché nessuno stavolta possa dire di non aver sentito», spiega Alfonso. Sarà una catena umana di genitori, arriveranno da tutt’Italia, qualcuno ogni giorno per mantenere viva l’attenzione su quello che denunciano essere un vero e proprio business: i servizi sociali, le case-famiglia, gli istituti di accoglienza. Più o meno negli istituti sono collocati circa 30.000 minori per vari motivi: separazioni, abbandono, disagio dei figli e incapacità dei genitori di occuparsene secondo le perizie il Tribunale dei Minori. Per ciascun minore il Comune di appartenenza versa una quota di 100-150 euro al giorno, per un totale complessivo annuale di circa mille milioni di euro che rappresentano un giro d’affari molto interessante. «E che fanno sì che la giustizia italiana a volte provochi più danni degli stessi criminali», ha provato a spiegare Alfonso Frassanito nella sua lettera al ministro Alfano.

La sua storia è esemplare: è il padre di Carmela. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Invece di perseguire chi l’aveva violentata, hanno di fatto perseguito una bambina rinchiudendola in vari istituti in cui Carmela non voleva stare. E, come ha denunciato il padre, usando il metodo facile di «calmarla» con psicofarmaci. Carmela aveva manifestato in vario modo la sua disperazione, ma per tutta risposta era stata classificata come “soggetto con problematiche psichiatriche”. E questi stessi magistrati, psichiatri che hanno deciso per Carmela, contro Carmela, quando è morta, si sono detti «sorpresi». Drogata con anfetamine e violentata. In diverse occasioni e in luoghi diversi, di lei, come poi denuncerà al pm Enzo Petrocelli, abusano in otto. Sette minorenni, che hanno poco meno di 18 anni, tutti identificati e indagati per violenza sessuale, e un maggiorenne. È questo l' episodio che innesca la procedura per l' affidamento della ragazza al centro di accoglienza «L' Aurora» di Lecce. Dal quale, dopo circa tre mesi, Carmela verrà trasferita, per andare nel centro «Il Sipario», a Gravina di Puglia, proprio quello che ospitava Francesco e Salvatore, i fratellini scomparsi di Gravina. Carmela, prima delle violenze subìte in quei quattro giorni, aveva raccontato di un interessamento nei suoi confronti da parte di un giovane sottufficiale della Marina in servizio a Taranto, sul quale però la polizia non aveva trovato riscontri per l' avvio di un procedimento penale. Carmela, dicevano, spesso inventa le cose e non ha la completa padronanza di sé. Poi l' allontanamento da casa e l' intervento di assistenti sociali e medici e giudici. Da qui alla perizia psichiatrica il passo non è stato lungo. E ancora più breve è stato il cammino verso gli abusi sessuali, tanto ormai Carmela era per tutti «quella sbroccata», «quella che ci stava». Chi le avrebbe mai creduto? Il padre di Carmela adesso dice che la colpa è di quei medici e di quell'istituto che somministravano alla ragazza pesanti dosi di psicofarmaci per tenerla tranquilla. Ma sulle scrivanie dei ministri dovrebbe essere arrivata anche la lettera di Luigi Bitonto, padre dei quattro fratellini che a gennaio del 2008 denunciarono con un video inviato da loro stessi su You Tube gli abusi subiti. Dopo tutti questi mesi gli abusi sono stati accertati anche dalle perizie ma i fratellini sono stati allontanati dal padre, unica figura familiare di riferimento, e ora vivono in una casa-famiglia. E a Luigi Bitonto non è rimasto che prendere carta e penna e denunciare «le tragiche lungaggini, che producono confusione, con Tribunali che seguono contemporaneamente strade diverse, perizie che si accavallano e l'una sconfessa l'altra e alla fine chi subisce sono appunto le vittime. E i criminali se ne vanno in giro in tutta tranquillità, casomai continuando a delinquere». D'altro canto c’è anche il risvolto della medaglia. La Corte di Cassazione ha confermato in via definitiva due condanne per molestie sessuali su bambini che frequentavano un asilo a La Loggia. Per Valerio Apolloni, all'epoca dei fatti presidente dell'ente di gestione della struttura, e Vanda Ballario, direttrice, la pena è di due anni e dieci mesi di reclusione, in parte già scontati per effetto di un periodo di custodia cautelare. I due educatori hanno sempre respinto ogni accusa. Anzi, Valerio Apolloni è il figlio di Vittorio Apolloni, presidente dell'Associazione Falsi Abusi, che da anni si batte (dai casi esplosi a Brescia fino a quelli di Rignano) per dimostrare come la stragrande maggioranza delle denunce sia del tutto inventata dai bambini.

 “Palmina era molto bella, aveva 14 anni, vogliono farla prostituire, lei si rifiuta e le danno fuoco” e subito la registrazione della voce della sfortunata adolescente fasanese che racconta, mentre lotta tra la vita e la morte nel reparto di rianimazione del Policlinico di Bari, quello che le è accaduto facendo i nomi dei suoi aguzzini. Ha aperto così la giornalista televisiva, Federica Sciarelli, la puntata del 15 giugno 2010 del programma di Rai Tre “Chi l’ha visto?”. La storia è quella di Palmina Martinelli, la 14enne fasanese data alle fiamme perchè si rifiutava di prostituirsi. Prima di morire la ragazza era riuscita a fare i nomi dei suoi aguzzini, ma il caso venne chiuso come suicidio. I fatti risalgono all’11 novembre del 1981, quando a Fasano, nella sua abitazione, venne ritrovata in fin di vita Palmina Martinelli. Gli investigatori puntarono immediatamente i loro sospetti su quattro giovani di Locorotondo, uno di 23 anni, due di 22 e l’ ultimo di 18. Secondo l’accusa i quattro avrebbero dato fuoco a Palmina Martinelli perché non voleva prostituirsi. La ragazzina morì in ospedale a dicembre. Le prove portate dall’ accusa a sostengo delle tesi di colpevolezza non ressero, però, né in primo né in secondo grado. Alla fine i quattro furono assolti anche dalla Corte di Cassazione. A raccontare una delle più brutte storie accadute a Fasano, nello studio di Rai Tre, c’era una delle sorelle di Palmina, Giacomina (da tutti chiamata Mina) che oggi ha 44 anni, che all’epoca dei fatti aveva 15 anni, un anno in più della sorella morta a causa delle ustioni sul 70% del corpo. Proprio Mina Martinelli ha interpellato la nota trasmissione televisiva di Rai Tre per cercare di fare chiarezza a quasi 30 anni da quella morte, atroce e violenta, che scosse l’opinione pubblica locale e nazionale. Mina Martinelli insegue ancora oggi la verità. E insieme a lei, nel corso della trasmissione con una telefonata, si sono schierati anche altri i due fratelli più piccoli di Palmina: Carmela e Roberto, che all’epoca aveva 8 anni. Ad aprire la trasmissione, come dicevamo, la registrazione audio disposta in ospedale dal Pm Nicola Magrone, che con l’aiuto del prof. Fiore interroga Palmina che, con un filo di voce, alla domanda “Chi ti ha fatto del male?” risponde facendo i nomi di “Enrico e Giovanni” e quando gli si chiede “cosa ti hanno fatto?” risponde “alcool e fiammifero”. Una registrazione agghiacciante che ha toccato veramente il cuore di chi ieri sera ha seguito la trasmissione di Rai Tre. Soprattutto di chi, per la giovane età, non conosceva per niente la storia di Palmina Martinelli. Palmina, però, non venne creduta ed il caso fu archiviato come suicidio. A sollecitare la trasmissione di RaiTre ad occuparsi del giallo di Fasano è stata la sorella di Palmina, Mina Martinelli, che ha dichiarato in diretta di provare a 30 anni ancora “tormento ed emozione ad ascoltare le parole di mia sorella”. L’agonia di Palmina durò 22 giorni, di cui 2 in coma. Ospite alla trasmissione “Chi l’ha visto?” oltre alla sorella Mina, anche il Pm che all’epoca si occupò del caso di Palmina, Nicola Magrone che prese a cuore la vicenda della 14enne fasanese, senza però riuscire a far condannare gli imputati maggiori. Magrone ha scritto anche un libro su questa storia (Fatti tuoi. Cronaca di un omicidio negato. Il processo a Palmina), ed ha dichiarato in una intervista che la vicenda che l’ha coinvolto di più in tutta la sua carriera è stata proprio quella della adolescente fasanese. La trasmissione di Rai Tre ha ricostruito la vita e la storia della sfortunata Palmina, che abitava nelle case popolari di Fasano, in una famiglia povera e numerosa, con il padre disoccupato e la madre donna di pulizie. Sesta di 11 figli, Palmina lascia la scuola in quarta elementare. “Era bella, intelligente – spiega la giornalista di “Chi l’ha visto?” -. Era un fiore cresciuto nel fango. Il suo sogno era quello di sposarsi ed andare via da quella situazione”. “Palmina è piccola, ingenua e vergine – prosegue la giornalista Rai inviata a Fasano alla ricerca di notizie e di immagini – si innamora di Giovanni Costantini che, con il fratellastro Enrico Bernardi, procacciavano ragazzine e le avviavano alla prostituzione”. La stessa sorte era capitata alla sorella maggiore di Palmina, Franca Martinelli, costretta – a seguito di percosse e botte alla propria figlioletta di pochi mesi – a prostituirsi in una chiesa sconsacrata nelle campagne di Locorotondo. È proprio Franca Martinelli che racconta, in una intervista rilasciata alla giornalista di Rai Tre inviata a Fasano, quello che le era accaduto nel lontano 1981. Dopo la testimonianza di Franca, si passa a raccontare gli ultimi momenti in vita di Palmina.

L’11 novembre del 1983 Palmina Martinelli, indossa l’abito buono ed una collanina, esce di casa alle 14.30 per andare alla chiesa della “Salette” per partecipare al catechismo in vista della Cresima. Per strada incontra un suo coetaneo, Bruno, con il quale ha una accesa discussione in quanto questo suo amico avrebbe messo in giro la voce che “se l’era portata a letto”. Palmina reagisce a queste calunnie ed affronta il suo coetaneo con il quale ha una accesa discussione. Alle 15.30 viene raggiunta dal padre e dal cognato, i quali invece di prendere le difese di Palmina, la schiaffeggiano e la riaccompagnano a casa alle ore 16, e vanno via. Palmina quel pomeriggio non andrà più al catechismo e resta sola in casa. Alle 16.25 torna a casa il fratello maggiore, Antonio, che entrando sente un odore di bruciato e dei lamenti provenire dal bagno, nel quale rinviene la sorella mentre sta tentando di aprile l’acqua della doccia per spegnere le fiamme che, ormai, le invadono la maggior parte del corpo. Quel giorno, però, a Fasano l’acqua manca ed è una tragedia. Antonio Martinelli a quel punto carica la sorella in auto e l’accompagna al pronto soccorso dell’ospedale “Umberto I” dove è in servizio il giovane medico Lello Di Bari. Proprio Lello Di Bari (oggi primario del pronto soccorso di Fasano e Ostuni oltre che sindaco di Fasano) racconta quel pomeriggio alle telecamere di “Chi l’ha visto?”, e ricorda che “Palmina era lucida e raccontava quello che le era accaduto”. La 14enne verrà, poi, trasferita d’urgenza nel reparto di rianimazione del Policlinico di Bari dove il suo cuore cesserà di battere 22 giorni dopo. Secondo quanto dichiarato, subito dopo l’accaduto, dal fratello Antonio (il primo a soccorrerla) Palmina gli avrebbe detto che “non ce la faceva più e che voleva morire” che “era stato Gianni ed Enrico” e che “mi hanno dispregiata e che non sarà più bella come prima”.

Il 20 novembre il Pm Magrone mette a verbale il racconto di Palmina Martinelli. “Il primo contatto che ebbi con Palmina in ospedale – racconta Magrone a “Chi l’ha visto?” – fu spaventoso. Era un tronchetto annerito, il viso e gli occhi si vedevano appena. Il prof. Fiore gli tolse i tubi che l’aiutavano a respirare e si riuscì a fare il verbale”. Magrone, però, uscendo dalla stanza decide anche di registrare su nastro il racconto di Palmina. E così fece. Con l’aiuto del prof. Fiore, Palmina viene nuovamente interrogata e la sua deposizione viene registrata su una cassetta che, poi, sarà uno degli elementi di prova portati dal Pm nel processo. Una registrazione che è stata mandata più volte in onda. Nel suo racconto Palmina parla del fatto che i due – Giovanni ed Enrico – prima di cospargerla di alcool e darle fuoco, le fanno scrivere una lettera di addio alla madre. Copia di questa lettera “Chi l’ha visto?” la manda in onda. E su questa lettera vengono fuori altri aspetti mai resi noti alla opinione pubblica. L’associazione “8 marzo”, infatti, costituita da un gruppo di donne che chiedono giustizia contro la mentalità maschilista, nel processo Martinelli si è costituita parte civile. Alla trasmissione è intervenuta proprio l’avvocato di parte civile, Laura Rennidoli, che ha spiegato come proprio il biglietto di Palmina Martinelli lasciato alla madre nel quale lei racconta di essersi stancata di come veniva trattata in famiglia, è stato oggetto di approfondimenti ed indagini. Il biglietto si concludeva con la scritta “ADDIO PER SEMPRE”. Secondo la tesi della parte civile, confermata anche da una specifica perizia grafica compiuta sul biglietto, le parole “ER SEMPREsarebbero state scritte da uno degli imputati, ovvero la grafia, secondo la perizia grafica, apparterrebbe ad uno degli imputati. Quindi è ipotizzabile che Palmina avesse scritto il biglietto perché in procinto di scappare di casa con il suo fidanzato, dopo l’ennesima lite in famiglia. Secondo l’accusa, infatti, i due imputati avrebbero raggiunto la casa di Palmina Martinelli dopo le 16 dell’11 novembre (non ci sono però testimoni che confermano la presenza dei due imputati nella casa di Palmina) per portarla via con la scusa di una vita migliore. Ecco perché il biglietto di addio alla madre firmato con la sola iniziale del nome “P”. Palmina, però, all’ultimo minuto si sarebbe resa conto dell’intenzione dei due fratellastri (Giovanni ed Enrico) di volerla far prostituire, si sarebbe ribellata e, quindi, avrebbe firmato la sua condanna a morte. Ecco, perché, si spiega l’aggiunta della scritta “ER SEMPRE” sotto il biglietto che sarebbe stata opera, sempre secondo la perizia grafica, di uno degli imputati. Insomma un elemento di non poco conto che, però, insieme al racconto di Palmina reso al Pm, non sono stati sufficienti a dimostrare la colpevolezza dei due imputati. Secondo la difesa, invece, Palmina era stanca e depressa ed aveva deciso di suicidarsi.

Il 2 dicembre, dopo 22 giorni di agonia, Palmina muore. Tutto il paese partecipa al suo funerale.

Il 28 novembre 1983 inizia il processo in Corte d’Assise a Bari a carico di Enrico Bernardi e Giovanni Costantini, all’epoca ventenni, accusati di omicidio pluriaggravato e di altri reati. Giovanni Costantini avanza un alibi dicendo che lui l’11 novembre 1981 era a svolgere il servizio militare presso una caserma a Mestre. Il Pm Magrone smonta, però, questo alibi, e scopre, a seguito di indagini ed in base ad alcune testimonianze, che Costantini era andato via da Mestre il 10 novembre e vi era tornato la mattina del 12, ed aveva anche confidato ad alcuni commilitoni di essere tornato a casa. Neanche questo elemento è servito a dimostrare la colpevolezza di Costantini.

Il 22 dicembre 1983 la Corte d’Assise di Bari in primo grado assolve Costantini e Bernardi per insufficienza di prove. I due, però, vengono condannati a 5 anni per sfruttamento della prostituzione di altre donne (tra cui Franca Martinelli).

Il 27 ottobre 1987 la sentenza viene confermata dalla Corte d’Appello, e nel 1988 dalla Cassazione.

La storia di Palmina, grazie a “Chi l’ha visto?” e alla caparbietà della sorella Mina – che ha trovato sostegno anche dalla sorella Carmela e dal fratello Roberto – è tornata alla ribalta facendo tornare Fasano indietro di 30 anni. “Chiedo a chiunque sa o ha sentito qualcosa – è stato l’appello lanciato da Mina Martinelli in conclusione del programma di Rai Tre – di farsi avanti e di dire quello che sa”. Un appello che facciamo nostro nel ricordo di una adolescente morta in circostanze tragiche proprio negli anni più belli della sua vita. Ed è un appello che vale anche per altri omicidi accaduti a Fasano o che hanno avuto come vittima un fasanese, sui quali non si è fatta ancora piena luce: dall’omicidio di Valerio Gentile, a quello di Giovanni Scarpantonio a quello di Vito Margaritondo.

“Palmina giudiziariamente è stata trattata come una strega e giudicata una calunniatrice, manifestazioni come questa testimoniano che nelle coscienze si è affermata una verità che le rende giustizia”. Lo ha detto il magistrato Nicola Magrone a “La Gazzetta del Mezzogiorno”, a proposito di Palmina Martinelli bruciata viva a 14 anni, nell’81, a Fasano (Brindisi) perchè non voleva prostituirsi. Di Palmina e del suo amore per la vita, negato e bruciato, si è parlato in una manifestazione alla quale hanno partecipato giovani di una cinquantina di associazioni e movimenti e studenti di varie scuole di Brindisi e provincia e tenuta nell’ambito delle manifestazioni per One Billion Rising Day, iniziativa mondiale che ha l’obiettivo di pretendere che la violenza sulle donne finisca in ogni angolo del Pianeta. La manifestazione brindisina è stata organizzata dall’associazione Retinopera appunto per ricordare la storia di Palmina Martinelli: una iniziativa assunta nel giorno di San Valentino per sottolineare – ha detto l’organizzatore della manifestazione, Rino Spedicato, presidente di Retinopera e vicepresidente del Centro di Brindisi per il volontariato - “l'amore di Palmina per la vita negato, violentato”. La manifestazione, che si è tenuta nel Santuario di S. Antonio alla Macchia a San Pancrazio Salentino (Brindisi), è stata un incontro dei giovani con Nicola Magrone, presidente della Fondazione “Popoli e Costituzioni”, che fu pubblico ministero nella vicenda giudiziaria nei confronti dei presunti assassini di Palmina Martinelli. “Palmina – ha detto tra l’altro Magrone – ricostruì compiutamente quel che era stato fatto, nello strazio completo mio e dei medici che l’aiutavano nel Policlinico di Bari, parole che uscivano da un tronco annerito, eppure precise. La sua dichiarazione non fu creduta: a parer mio, quei giudici si macchiarono della colpa più grave della quale può macchiarsi un giudice, quella di lasciarsi suggestionare dalla qualità sociale della vittima, dalla sua povertà”. “La gravità di ciò che accadde l’11 novembre 1981 – ha spiegato Spedicato – ancora oggi non può lasciarci indifferenti, spettatori, assenti. Le parole di Magrone ci aiutano a rendere viva la memoria di Palmina Martinelli e a ripercorrere fatti, ricordi, non senza amarezze ed indignazione”. L'iniziativa ha, inoltre, rappresentato la prima tappa di un progetto “di scambio tra scuola e carcere per la prevenzione del reato”.

Palmina Martinelli, a 14 anni bruciata viva a Fasano l’11 novembre 1981, era stata “venduta” da suoi famigliari, senza che lei lo sapesse, per farle esercitare la prostituzione, scrive ancora “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Lei non volle entrare nel 'girò al quale era stata costretta anche sua sorella e fu uccisa come le prostitute: con alcol e fuoco. Per questa ricostruzione esistono “riscontrati fatti certi” dai quali “deriva senza ombra di dubbio la prova dell’omicidio volontario”: è quanto si sottolinea nella denuncia che una delle sorelle di Palmina, Giacomina Martinelli, ha presentato al procuratore della Repubblica presso il tribunale di Brindisi, Marco Dinapoli, chiedendo che si cerchino “gli autori dell’omicidio doloso”. Per l’omicidio di Palmina Martinelli vennero giudicati negli anni Ottanta Giovanni Costantini, che Palmina considerava il suo fidanzato, e il fratellastro di Costantini, Enrico Bernardi, sfruttatore della prostituzione di una delle sorelle di Palmina. Costantini e Bernardi erano stati indicati dalla stessa Palmina come responsabili dell’omicidio: le sue parole sul letto di morte vennero registrate, con l’aiuto dei medici rianimatori, dal magistrato che fu pm del processo in primo grado, Nicola Magrone, e sono state fatte ascoltare in tv di recente nel corso della trasmissione 'Chi l’ha visto?". La precisa denuncia di Palmina già 30 anni fa trovò riscontri nelle indagini al punto che finirono sotto processo i dirigenti della caserma che avevano inizialmente attestato che l’11 novembre '81 Costantini, allora militare di leva, era a Mestre: Palmina aveva detto invece che Costantini era a Fasano quell'11 novembre e, sulla base delle sue parole, la polizia scientifica accertò che effettivamente il giovane era stato per un paio di giorni in 'fugà dalla caserma ed era tornato al paese. Tuttavia, la Corte di Cassazione nell’88 assolse con formula piena, e definitivamente, Costantini e Bernardi, stabilendo che Palmina si era data alle fiamme da sé e spingendo l’allora pm Magrone a commentare che Palmina veniva così di fatto giudicata e "condannata" come calunniatrice. Nella denuncia presentata ora Giacomina Martinelli, assistita dall'avv. Stefano Chiriatti, sottolinea vari aspetti per i quali certamente Palmina è stata uccisa: tra tutti, una perizia che l'anatomopatologo Vittorio Pesce Delfino, docente nell’Università di Bari, ha compiuto utilizzando recenti tecniche di analisi di immagine computerizzata, nel laboratorio della Società Consortile Digamma, sulle ustioni di Palmina. “Il volto di Palmina era protetto - scrive tra l’altro Pesce Delfino – con entrambe le mani prima dello sviluppo della vampata e quindi dell’innesco dell’incendio. L’incendio fu quindi provocato da altri”. A Palmina il 23 aprile 2012 il comune di Fasano ha intitolato la piazzetta adiacente il comando di Polizia municipale: 'Largo Palmina Martinelli: vittima della violenza e del degrado sociale, 1967-1981'. La targa toponomastica è stata scoperta dal sindaco, Lello Di Bari, medico che era stato tra i primi soccorritori di Palmina. Alla cerimonia anche i ragazzi dell’associazione antimafia che da qualche anno ha inserito Palmina nell’elenco delle persone vittime di omertà e di mafia. Primi "risarcimenti questi per Palmina - ha detto Magrone durante la cerimonia – per “l'ingiustizia che le è stata fatta” non credendo alle sue parole.

L'articolo della Gazzetta del 20 ottobre 1988. Non sono Enrico Bernardi e Giovanni Costantini i responsabili della morte di Palmina Martinelli, la ragazza di 14 anni deceduta l'11 novembre del 1981 a Fasano, in provincia di Brindisi, per gravissime ustioni. Accusati d'aver dato fuoco alla ragazza, dopo averla cosparsa di alcool, poiché non aveva accettato di prostituirsi, Enrico Bernardi e Giovanni Costantini, che sono fratellastri, furono assolti in primo ed in secondo grado per insufficienza di prove. Ieri la prima sezione penale delle Cassazione ha sancito in maniera più ampia, e definitivamente, la loro estraneità alla gravissima vicenda. Li ha, infatti, assolti per non aver commesso il fatto, accogliendo sostanzialmente la tesi dei difensori, tra i quali l'avvocato Achille Lombardo Pijola, che ha assistito Bernardi e l'avv. Vincenzo Perchinunno, difensore di Costantini. Lo stesso procuratore generale Aloisio aveva sostenuto l'estraneità dei due imputati alla morte di Palmina, sollecitando il rigetto del ricorso che contro la sentenza dei giudici di secondo grado aveva presentato la procura generale della Corte di Appello del capoluogo pugliese, non condividendo la tesi dell' estraneità dei due fratellastri all'atroce fine della giovane. Confermando ora, e con formula più ampia, l'insussistenza della tesi accusatoria, riemergono gli interrogatori ed i dubbi che hanno circondato l'intera vicenda. Interrogativi e dubbi non risolti dai periti, ai quali in istruttoria e in dibattimento fu chiesto di stabilire se Palmina si dette fuoco volontariamente, ovvero se altri le diedero fuoco perché si rifiutava di prostituirsi. Con la sentenza di ieri, i giudici della prima sezione penale della Cassazione hanno anche affrancato Bernardi e Costantini dall'accusa d'aver tentato di spingere Palmina in un giro di prostituzione che, secondo l'accusa, faceva capo alla loro madre, Angela Lo Re. I supremi giudici hanno ritenuto infondate l'imputazione. La Corte ha, invece, respinto i ricorsi di alcuni imputati minori, tra i quali lo stesso Lo Re e Oronzo Malagnino, contro la sentenza pronunciata nei loro confronti dalla Corte di Assise d'Appello di Bari. I fatti che hanno formato oggetto di giudizi durati complessivamente Palmina Martinelli la ragazza di Fasano morta bruciata nel 1981 quasi sette anni, risalgono all'11 novembre del 1981, quando a Fasano, nella sua abitazione, venne ritrovata in fin di vita Palmina Martinelli. Gli investigatori puntarono immediatamente i loro sospetti sui fratellastri. Bernardi e Costantini ritenendoli responsabili dell'aggressione a Palmina, morta in ospedale, a Bari, dopo dieci giorni di atroci sofferenze. I primi arresti avvennero cinque giorni dopo la scoperta del fatto. Tra coloro che finirono in carcere ci fu Enrico Bernardi. Poi, successivamente su mandato di cattura del giudice istruttore Emilio Marzano furono incriminati ed arrestati altri, compreso Costantini, considerato dal magistrato corresponsabile con il fratellastro Bernardi di omicidio volontario. Le prove portate dall'accusa a sostengo delle tesi di colpevolezza non hanno retto né in primo né in secondo grado. Ed ora la Cassazione ha posto fine alla vicenda processuale, definitivamente confermando i precedenti giudizi assolutori. Soddisfatti ovviamente i difensori degli imputati. «E il trionfo definitivo della tesi da me sostenuta — ha detto l'avv. Lombardo Pijola — ma dalle prime battute: non sussiste l'omicidio per la semplice ragione che si è trattato di un atto autolesionistico in chiave di reazione ai maltrattamenti che la povera Palmina subiva nell'ambito familiare.

L'atto di accusa di una bambina che si volle rimuovere come il gesto di una strega, scrive Francesca Di Ciaula su “Sud Critica”. Palmina Martinelli era una ragazzina di quattordici anni. Abitava in una cittadina pugliese chiamata Fasano. Il 1981 fu l'anno in cui venne barbaramente uccisa, bruciata viva da chi aveva già deciso di destinarla al mercato della prostituzione. I due criminali responsabili della sua morte erano di casa della famiglia Martinelli e quel giorno in cui Palmina, minuta, viso dolce, si rifiutò per l'ennesima volta di far parte della sordida realtà di soprusi e violenze, che attanagliava la sua famiglia, i due entrarono in casa sua, decisi a darle una dura lezione. Uno, il compagno della sorella, ragazza madre costretta a prostituirsi, l'altro, socio in affari in un giro di prostituzione e droga. Uno scenario di degrado, che all'improvviso una cittadina come tante altre, con i suoi notabili e gente perbene, si trovò a dover fronteggiare. E qui che la storia di Palmina colpisce nella crudeltà proprio di quella società che tanto spesso distoglie gli occhi da realtà di violenze e miserie occultate nelle abitazioni, nel quartiere, persino nei piccoli paesi. Palmina, piccola, ultima tra gli ultimi, segnata da un destino infame, desiderava solo una vita normale. Per questo aveva per quel giorno progettato di scappare via con una sua amica che viveva in istituto, scappare forse in Germania dal papà di quell'amica. Dopo la sua morte, che arrivò per lei a quasi un mese dal giorno in cui fu bruciata viva, la società civile con le sue istituzioni si dispose a definire quel fattaccio nei ripetuti processi. In primo grado e in appello i due imputati presunti assassini furono assolti per insufficienza di prove, in Cassazione poi dichiarati innocenti per insussistenza dei fatti. E nel processo di primo grado le parole di Palmina, testimonianza drammatica resa al medico di rianimazione del Policlinico di Bari Tommaso Fiore con un fil di voce proveniente da un corpo dove non era distinguibile più nulla e raccolte dal pubblico ministero Nicola Magrone, finirono con l'essere tacciate come infamanti i suoi assassini. In sede processuale fu questa la tesi che i giudici accolsero: Palmina si sarebbe suicidata, addirittura dandosi fuoco da sola, ma in punto di morte avrebbe voluto calunniare quei ragazzi. In definitiva, dopo essere risalita tra dolori atroci dal suo stato di coma farmacologico, Palmina, aveva voluto infangare quegli individui. Con quella sentenza la società civile mostrò il suo volto più violento, sprezzante della morte, fino al disconoscimento della pietà verso coloro che nulla contano, che scarso peso hanno nella scala sociale dei riconoscimenti delle vite umane. Una ragazzina, vittima inerme di una violenza inaudita, fu giudicata in un processo in cui gli imputati erano i suoi carnefici. Da vittima, Palmina divenne colpevole. “Una condanna non detta, non scritta”, come ha detto il magistrato Nicola Magrone. Palmina giudicata e condannata, “Palmina arsa viva come una strega”. E sono sempre le parole di quel pm che in piena solitudine lottò per sottrarre Palmina all'efferato giudizio del consorzio sociale e del suo perbenismo. Il 23 aprile 2012 a Fasano, il paese da cui Palmina non riuscì più a fuggire, l'intitolazione di una piazzetta a “Palmina Martinelli (1967-1981) giovane vittima di crudele violenza”, alla presenza del magistrato Magrone, del sindaco del paese e di una sorella di Palmina, Mina, è venuta di fatto a negare quella sentenza. Piccolo, tardivo atto di giustizia, che iscrive Palmina in quell'interminabile elenco di vittime, per la gran parte appartenente al genere femminile, della violenza che alligna nelle stesse famiglie, in cui invece la vita dei deboli dovrebbe essere tutelata e difesa. Vite di donne così tante volte lasciate sole, come sola era Palmina a lottare per se stessa, soppresse da una mano maschile con quella violenza che la nostra civile società non riesce ad espellere da sé, che non riesce a riconoscere appieno. Palmina doppiamente relegata tra i perdenti. Due volte oggetto di discriminazione in quanto piccola donna che aveva osato dire di no, coraggioso atto di rifiuto nei confronti di quegli individui determinati a sfruttare il suo corpo e la sua vita. E per questo vittima più volte: dei suoi carnefici e del mondo in cui viveva e poi della società, che ha voluto rimuovere ed espellere da sé quella realtà miserabile in cui lei aveva avuto la sfortuna di nascere. Vittima di violenza di genere, ragazzina non degna di rispetto e considerazione nemmeno in punto di morte, nemmeno in un processo con i suoi assassini alla sbarra. All'unica testimonianza valida, quella di Palmina, non fu dato credito, non alla sua voce registrata in rianimazione al Policlinico e ascoltata in tribunale solo dietro insistenza del pm, non ai suoi racconti al pronto soccorso ai medici (tra i quali, proprio l’attuale Sindaco di Fasano Lello Di Bari), agli infermieri, ai carabinieri. Neppure la testimonianza del fratello che la trovò in casa avvolta tra le fiamme servì a restituire la verità e fare giustizia. Quell'assoggettamento al potere maschile, che si rivestiva di brutalità nell'angusto mondo di Palmina, trovò altra faccia in un potere istituzionale, che dettò una sentenza semplicemente ingiusta, atto colpevole ammantato di giustizia sociale. Fatto sociale e culturale, dove le istituzioni segnarono il passo di una retrograda e incivile cultura maschilista. Adesso, una targa alla memoria, tentativo di riparazione di un vergognoso torto verso quella ragazzina che fu Palmina, è riconoscimento collettivo, rispetto restituito alla persona e a coloro, gli ultimi, per i quali, soprattutto per loro, il diritto alla giustizia dovrebbe tradursi in realtà.

SE TU DENUNCI LE INGIUSTIZIE DIVENTI MITOMANE O PAZZO. IL SISTEMA E LA MASSOMAFIA TI IMPONE: SUBISCI E TACI. LA STORIA DI FREDIANO MANZI E PIETRO PALAU GIOVANETTI.

FREDIANO MANZI UN GESTO ESTREMO CONTRO L'ABBANDONO DEGLI USURATI.

Si è dato fuoco, davanti alla sede milanese della Rai, Frediano Manzi, presidente dell’associazione SOS Racket e Usura. Un gesto disperato, estremo, compiuto per richiamare l’attenzione delle istituzioni sulle tante, troppe, vittime del pizzo, dei soldi prestati a strozzo. Attività monopolio della criminalità organizzata per la quale non esiste crisi. Manzi ha lasciato comunque una lettera in cui spiega le ragioni del gesto e avanzerebbe alcune richieste: “Una commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno”; “rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura”. L’uomo avrebbe riportato ustioni di terzo grado su tutto il corpo, specie alla braccia e al torace. L’episodio è avvenuto poco dopo le 20.30 del 5 febbraio 2013 in corso Sempione. Dopo essersi cosparso il corpo di benzina il coordinatore di SOS Racket e Usura, secondo i giornalisti presenti, ha detto: “Tra 5 minuti mi do fuoco per tutte le vittime di usura. Addio”. Poi ha tirato fuori un accendino e si è dato fuoco. Ad intervenire per primo, mentre Manzi era avvolto dalle fiamme, è stato un autista del tram numero 19 che vedendo la scena è sceso dal mezzo pubblico con l’estintore e l’ha scaricato addosso a Manzi, che altrimenti rischiava davvero la morte o comunque conseguenze ancora peggiori di quelle in cui si trova adesso. L’autista ha raccontato: “Stavo transitando in corso Sempione quando ho visto le fiamme e istintivamente mi sono fermato. Poi ho capito che era un uomo e sono sceso con l’estintore e ho spento il fuoco che lo avvolgeva”. Il 4 gennaio 2013 Manzi si era già tagliato le vene denunciando di trovarsi in una situazione economica disperata e di aver dovuto chiudere due attività. Sotto minaccia da parte dalla criminalità organizzata (“per la ‘ndrangheta sono un morto che cammina”) a fine 2011 aveva scioccato tutti dicendo di aver commissionato due attentati a una della sue attività, un negozio di fiori. Perché? Per attirare l’attenzione su Sos Racket e Usura. Per questo finì indagato a Milano e Busto Arsizio e la sua credibilità, inevitabilmente, subì un duro colpo. Manzi aveva patteggiato un anno e otto mesi di reclusione dopo aver confessato di aver commissionato per 1.200 euro al pluripregiudicato Alberto Marcheselli un finto attentato a un suo chiosco di fiori a Parabiago, per poi denunciare che si trattava di un atto di intimidazione contro l'attività della sua associazione. Ciò non toglie che grazie all’attività dell’associazione da lui presieduta e alle sue denunce sono state aperte diverse inchieste, come nel 2010 quando a Milano erano state arrestate alcune persone per il racket sulle case popolari. Era stato sempre Manzi a sporgere denuncia contro l’ex prefetto di Napoli Carlo Ferrigno, che due anni fa per le accuse di millantato credito e prostituzione minorile ha patteggiato una pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione. Manzi aveva chiesto di parlare ai giornalisti che si occupavano del telegiornale e quando gli addetti alla portineria lo hanno invitato ad allontanarsi ha minacciato di darsi fuoco. Poco dopo, si è cosparso di liquido e ha dato corpo alla sua minaccia. L'uomo è stato soccorso da un tramviere dell'Atm. "Stavo transitando in corso Sempione quando ho visto le fiamme e istintivamente mi sono fermato", ha raccontato il soccorritore. "Poi ho capito che era un uomo e sono sceso con l'estintore e ho spento il fuoco che lo avvolgeva". Sul posto sono intervenuti i carabinieri, che si sono fatti consegnare la lettera lasciata da Manzi agli uscieri e che cominciava così: "Ho deciso di darmi fuoco per portare l'attenzione delle istituzioni su tutte le vittime dell'usura". Prima di cospargersi di benzina e appiccare le fiamme a se stesso con un accendino, Manzi ha consegnato alla tv di Stato una lettera in cui ribadisce il motivo del suo gesto, accompagnandolo con delle richieste, disperate tanto quanto lui. «Per le vittime dell’usura che nessuno aiuta», si legge nel foglio, scritto a mano. Poi alcune richieste, quelle degli ultimi 10 anni di lotte. «Una commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno», o «rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura». In realtà Frediano Manzi da tempo versava in uno stato di profonda prostrazione, e aveva recentemente già tentato il suicidio tagliandosi le vene. Dopo i clamori seguiti alle importanti inchieste che le denunce della sua associazione (che negli anni è diventata un punto di riferimento per le vittime del racket) avevano fatto partire, nell’ambito non solo dell’usura ma dell’intreccio tra la criminalità organizzata e gli enti locali, lui stesso era scivolato nel baratro finendo a sua volta denunciato per aver simulato un attentato a uno dei suoi negozi di fiori. Così era inevitabilmente cominciato il declino della sua credibilità. Una situazione che, insieme ai suoi problemi economici e alle continue minacce della criminalità organizzata, lo avevano minato profondamente spingendolo ormai a una vita border line. Povero Frediano Manzi. Non sa che per essere finanziato e sostenuto basta santificare i magistrati ed essere di sinistra?

IN CARCERE PER AVER DIFESO LA GIUSTIZIA.

Lui non si chiama SALLUSTI... è PIETRO PALAU GIOVANETTI presidente di AVVOCATI SENZA FRONTIERE... sta per finire in carcere in ITALIA  per avere difeso i diritti dei cittadini... «Se potete vi prego di fare qualcosa è assurdo che mi mettano in carcere per avere denunciato la corruzione giudiziaria. Pensate che ieri abbiamo scoperto che la Procura Generale di Brescia ha omesso di trasmettere alla Cassazione il Ricorso per incidente di esecuzione che mi nega sia la prescrizione sia la continuazione sia l'errore di calcolo della pena residua. Lo Stato di diritto è morto....» Pietro Palau Giovannetti. Tra le altre cose questo signore ha scritto sul suo sito questo pezzo.

QUANDO IL P.M. FA L'AVVOCATO DEGLI IMPUTATI: LO SCANDALOSO CASO MASTROGIOVANNI

Udienza 2 ottobre 2012, Vallo della Lucania. Per l'omicidio preterintenzionale di Francesco Mastrogiovanni, come prevedibile il P.M. Martuscelli ha chiesto di derubricare i reati più gravi, smontando l'impianto accusatorio del precedente P.M., Francesco Rotondo, "promosso" per impedirgli di concludere il processo, scrive “La Voce di Robin Hood”. La Segreteria di Avvocati senza Frontiere, mentre è ancora in corso la requisitoria, rende noto che, a seguito della mancata astensione del P.M. Renato Martuscelli che ha ignorato la richiesta del difensore della Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood, costituita parte civile con l'Avv. Michele Capano del Foro di Salerno, ha inviato un circostanziato Esposto al C.S.M. e al Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Salerno per procedere in sede disciplinare nei confronti del P.M. Martuscelli e per valutare la rilevanza penale delle gravi e molteplici violazioni procedimentali che si sono verificate nell'ambito del processo in corso da oltre tre anni. Dopo aver sottoposto ad attenta disamina lo svolgimento del processo, nonché le attività svolte dalle parti, i legali dell'Associazione si sono resi conto dell'intollerabile assenza del P.M. che in spregio alle sue funzioni istituzionali ha assunto in maniera sfacciata, senza mezzi termini, la difesa degli imputati, cercando di minimizzare le gravi responsabilità degli stessi, rivolgendo, viceversa, le proprie attività d'accusa nei confronti della vittima, nel precipuo scopo di alleggerire le condotte dei medici e del personale ospedaliero, nonché delle stesse forze dell'Ordine che hanno eseguito con modalità illegittime, il brutale fermo di una persona assolutamente sana di mente e pacifica che implorava di non venire portato presso il lager psichiatrico del San Luca di Vallo della Lucania, preavvertendo con grande lucidità che sarebbe stato ucciso. A riguardo, i legali di Avvocati senza Frontiere hanno ricordato la pregressa attività persecutoria del P.M. nei confronti del maestro elementare Francesco Mastrogiovanni, quando il povero Mastrogiovanni era ancora in vita, sottoponendolo, ingiustamente, già anni orsono, alla misura della custodia cautelare per oltre 9 mesi, per fatti del tutto insussistenti di pretesa "resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale", dai quali l'odierna vittima è stata poi assolta con formula ampia dalla Corte d'Appello di Salerno, riconoscendo l'abuso da parte delle Forze dell'Ordine, e condanna dello Stato Italiano da parte della Corte Europea per i Diritti dell'Uomo di Strasburgo, per l'ingiusta detenzione. L'esposto prosegue denunciando l'anomalo comportamento endoprocessuale e l'assoluta inerzia investigativa del P.M. Martuscelli, anche nel connesso procedimento R.G.N.R. 1799/09, nell'ambito del quale ha richiesto nelle scorse settimane l'archiviazione nei confronti dei medici che avevano disposto il TSO di Mastrogiovanni, risultando perciò evidentemente incompatibile e impensabile che potesse oggi sostenere la Pubblica Accusa, sostituendo l'originario P.M. che aveva svolto in maniera ineccepibile le indagini e disposto i rinvii a giudizio, venendo infine rimosso, mediante promozione: "promoveatur ut amoveatur" (noto brocardo latino, la cui traduzione è "sia promosso affinché sia rimosso", usato per esprimere la necessità di liberare un ruolo chiave dell'organigramma dalla persona che lo occupa, promuovendola ad un qualunque altro ruolo di rango superiore, quale unico mezzo per poterlo "legalmente" allontanare dalla posizione occupata, ritenuta scomoda agli interessi dei poteri dominanti). Ciò non bastando, anche le stesse condotte endoprocessuali tenute dal Dr. Martuscelli nel corso del dibattimento hanno rivelato la sua manifesta parzialità, animosità e acrimonia verso la persona del defunto Mastrogiovanni, nei cui confronti giungeva addirittura ad infierire con diffamanti e false insinuazioni, dipingendolo come pericoloso sovversivo, spingendo i testimoni ad esprimere valutazioni negative e del tutto inconferenti alla illegittima prolungata contenzione che ne ha provocato la morte. D'altro canto, il Martuscelli rivelava prevenzione e grave inimicizia, omettendo qualsiasi attività, quale rappresentante della Pubblica Accusa, neppure ravvisando la necessità di sollevare eccezione di inammissibilità circa l'ammissione della testimonianza della Dr.ssa Di Matteo, in quanto indagata nel parallelo procedimento connesso R.G.N.R. 1799/09, relativo al TSO, giungendo, infine, ad omettere di richiedere l'acquisizione del video integrale delle oltre 83 ore di tortura con mani e piedi legati, senza acqua nè cibo, da cui si poteva, altresì, accertare la presenza del primario che invece la difesa sosteneva in ferie. Ragioni per cui prima di conoscere l'esito della requisitoria del P.M. che si è poi appreso aver richiesto la derubricazione dei reati più gravi, premonitoriamente il comunicato stampa di Avvocati senza Frontiere avanzava l'ipotesi che vi erano fondati motivi per ritenere che il Martuscelli avrebbe richiesto l'assoluzione del primario del lager psichiatrico e pene miti nei confronti dei terzi imputati aventi causa. In effetti, l'anomala Pubblica Accusa è andata ben oltre, ritenendo insussistente il reato di sequestro di persona, contestato in origine dal P.M. rimosso, a tutti i 18 imputati tra medici ed infermieri, ha fatto cadere l'imputazione di cui all'art. 586 c.p. (morte come conseguenza di altro delitto), sostenendo la mancanza dell'elemento doloso del delitto, chiedendo, infine, la derubricazione ad omicidio colposo. Attraverso tale capzioso percorso argomentativo, insultando il buon senso e l'intelligenza del popolo italiano che ha visto il video integrale dell'atroce agonia inflitta ad un uomo sano, libero e in pieno possesso della sue facoltà mentali, il P.M. Martuscelli, ritenendo la contenzione che ha provocato l'atroce morte della vittima, come "blanda e irrilevante", ovvero (sic!) un "atto medico dovuto", anzichè barbara tortura medievale, ha chiesto lievi pene comprese tra i due anni e i due anni e 7 mesi per il personale medico e sanitario in servizio la notte tra il 3 e il 4 agosto 2009. La difesa di Avvocati senza Frontiere anticipa che nella propria arringa richiederà anche ai sensi dell'art. 523 c.p.p., la visione del filmato integrale, sottolineando che, senza l'acquisizione agli atti di tale basilare prova, nessun giusto verdetto potrà scaturire all'esito del processo. E' da ritenersi infatti che l'anomalo P.M. non si mai neppure peritato di esaminare integralmente il filmato, in quanto ove avesse trovato il coraggio di farlo, posto di fronte alla consapevolezza dei fatti e a quali atroci sofferenze e' stata ininterottamente sottoposta la vittima di tali disumani trattamenti, definiti del tutto incoscientemente "atti medici dovuti" non avrebbe di certo avuto l'ardire di definire la contenzione praticata "blanda e irrilevante", nè tantomeno di coprire le ben più gravi responsabilità penali e sarebbe giunto a ben diverse ipotesi, contestando invece l'omicidio preterintenzionale. A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Per il pubblico ministero decade dunque il capo d'imputazione principale contestato ai sanitari, e di conseguenza anche quello ad esso collegato, la morte come conseguenza di altro delitto. Martuscelli ha così derubricato quest'ultima imputazione, chiedendo invece la condanna per omicidio colposo dei soli medici e infermieri in servizio il 3 agosto del 2009, l'ultimo giorno di agonia del maestro cilentano (che muore alle 2 di notte del 4 agosto). Nel dettaglio: tre anni di reclusione per Michele Di Genio, il primario del reparto; due anni e sei mesi per Americo Mazza e Rocco Barone e due anni e sette mesi per Anna Ruberto (i tre medici in servizio quel giorno). Il pm ha contestato l'omicidio colposo anche ai sei infermieri in servizio il 3 agosto (Antonio De Vita, Antonio Tardio, Alfredo Gaudio, Antonio Luongo, Nicola Oricchio e Raffaele Russo), per i quali ha chiesto la condanna a due anni. In sostanza Martuscelli sostiene che chi era di turno l'ultimo giorno di vita di Mastrogiovanni avrebbe dovuto accorgersi del peggioramento delle sue condizioni. E che l'unica colpa penalmente rilevante dei sanitari di quel reparto sia questa. Viene invece confermata per tutti i medici l'accusa di falso in atto pubblico, per non aver registrato la contenzione sulla cartella clinica: Martuscelli ha chiesto condanne per un anno e due mesi di carcere (oltre che per i tre medici sopra citati, anche per Michele Della Pepa e Raffaele Basso), eccezion fatta per il primario Di Genio (la richiesta è di un anno e quattro mesi). Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla 'cattura' avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la 'storia sanitaria' di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto". Il processo continuerà il 16 ottobre, con l'arringa di Caterina Mastrogiovanni, l'avvocato dei familiari della vittima, e dei legali delle altre parti civili. A seguire ci saranno le arringhe dei difensori degli imputati, fino alla pronuncia della sentenza, prevista per il 30 ottobre.

CHI E’ PIETRO PALAU GIOVANNETTI.

Sono Pietro Palau Giovannetti, presidente del Movimento per la Giustizia Robin Hood e della rete "Avvocati senza Frontiere", nonché direttore responsabile del giornale on line www.lavocedirobinhood.it, Enti no profit che dirigo da oltre 25 anni, battendomi in prima persona per l'affermazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e una giustizia pulita libera da mafie, partiti, logge massoniche e corruzione. Mi permetto di richiedere la solidarietà di tutti gli spiriti liberi e le persone oneste, perché tra qualche giorno sarò tratto ingiustamente in arresto, senza aver mai commesso alcun reato, se non quello che non può certo considerarsi tale, di aver denunciato, sin dai tempi di "mani pulite", la dilagante corruzione politico-giudiziaria e gli abusi nei confronti dei soggetti più deboli che non hanno mezzi o stuoli di avvocati prezzolati, in grado di condizionare le istituzioni, ostacolando il regolare corso della Giustizia. Se nei prossimi giorni il P.G. di Brescia riterrà di arrestarmi, sono pronto ad andare in carcere a testa alta, perché credo in una Legge molto più grande di quella umana, controllata da logiche perverse e dalle varie mafie che soffocano la legalità. Sono intimamente convinto che in uno «Stato-mafia», come quello in cui viviamo che imprigiona ingiustamente i deboli e lascia deliberatamente impuniti colletti bianchi, criminali politici e mafiosi, "anche una prigione sia un luogo adatto per un uomo giusto", come affermava Henry David Thoreau, grande pensatore del Rinascimento americano, il quale nel saggio "Disobbedienza civile", sosteneva tra l'altro che è ammissibile non rispettare le leggi quando esse vanno contro la coscienza e i diritti dell'uomo, ispirando cosi i primi movimenti di protesta e resistenza non violenta. A fronte del mio incessante impegno civile e lotta alla "massomafia", ho subito oltre 750 procedimenti penali, di cui ben 114 solo in Cassazione, con le accuse più disparate per pseudoreati di natura ideologica, scaturenti dalle mie stesse denunce, ritenute assurdamente "corpi di reato", o dagli articoli pubblicati sui siti web dell'Associazione. Procedimenti da cui sono sempre stato per lo più assolto, per manifesta infondatezza delle notizie di reato. Ma ciò nonostante, dal 1986, sono stato fatto continuamente oggetto di rinvii a giudizio e addirittura di ripetute richieste di perizie psichiatriche, come in uso nelle dittature dei Paesi dell'Est, costringendomi a difendermi, senza sosta, in ogni sede, per gran parte della mia vita. Solo attraverso una ferrea difesa e la mia fede nella vera Giustizia sono riuscito a contrastare questa impressionante mole di attività persecutorie che non trovano precedenti nella storia del diritto internazionale, anche tenuto conto dell'enorme dispendio di risorse pubbliche impiegate per l'istruzione di svariate migliaia di udienze e centinaia di procedimenti penali, privi di qualsiasi consistenza, rilevanza e interesse sociale. Per l'abnormità delle procedure adottate il mio caso richiama quello del pacifista nonviolento, Danilo Dolci, che dagli anni '50, in Sicilia, dedicò la sua vita alla causa degli ultimi, lottando per l'emancipazione dalla povertà e dall'ignoranza, venendo, come me, ingiustamente arrestato e condannato per reati di opinione dalla magistratura di regime dell'epoca, tutt'oggi, purtroppo, ancora, asservita agli interessi della politica e della "massomafia", cioè di quel regime occulto trasversale ai partiti che da oltre 150 anni governa il Paese. La sua condanna venne infatti scandalosamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, seppure in sua difesa avessero testimoniato Premi Nobel ed intellettuali di fama mondiale del calibro di Carlo Levi, Erich Fromm, Norberto Bobbio, Elio Vittorini, Lucio Lombardo Radice, Padre David Turoldo, Don Zeno, etc., e l'arringa fosse stata pronunciata da Piero Calamandrei, tra i padri fondatori della nostra amata Costituzione. Oggi anch'io rischio il carcere, stante la definitività di alcune inique condanne per oltre 5 anni di reclusione, confermate dalla Cassazione per reati di pretesa "diffamazione, calunnia, oltraggio, resistenza", nei confronti di magistrati, avvocati e altri infedeli rappresentanti delle istituzioni, seppure, come riconosciuto dallo stesso Tribunale di Sorveglianza - che qui cito testualmente - i cosiddetti "precedenti penali" a me ascritti: "concernono sostanzialmente situazioni e contesti legati ad iniziative sociali quali quelle patrocinate dal Movimento per la Giustizia Robin Hood". Ma ciò nonostante mi vogliono mandare in galera dopo avermi perseguitato per oltre un quarto di secolo, neanche rappresentassi un pericolo pubblico! Le condanne inflittemi non colpiscono infatti un pericoloso delinquente, bensì un Human Rights Defender che, da oltre 25 anni, si adopera a tutela della legalità, denunciando gli abusi del potere e l'impunità di cui godono gli affiliati ai vari comitati d'affari e logge massoniche, che hanno occupato lo Stato, soffocando la democrazia, attraverso il controllo capillare delle istituzioni, dell'economia, dei media e della cultura, garantendosi in tal modo il «controllo sociale» e una forma di governo parallelo, che Ernst Fraenkel denominò "Doppio Stato". Cioè, la compresenza nell'assetto statuario di "normatività" e "discrezionalità", dove a fianco di un sistema apparentemente democratico, convive un ordine perverso, che applica, come ai tempi della Germania nazista, la discrezionalità sistematica nell'applicazione e nel rispetto delle leggi, allo scopo di intimidire, reprimere e sopprimere ogni forma di dissenso, perpetuando proprio grazie a questa autoreferenziale contraddizione di sistema, l'organizzazione del consenso e il dominio sui governati, dove le istituzioni sono invase da politici, pubblici amministratori e magistrati corrotti, in simbiosi con banchieri, massoni e mafiosi, mentre una parte sana ma minoritaria e priva di mezzi dello Stato e della Società civile, cerca di contrastarli, a rischio della propria stessa vita o di venire delegittimati, come fu per Falcone, Borsellino, Cordova, De Magistris, Ingroia e tanti altri fedeli servitori dello Stato. A riguardo, sin dagli anni '80, ho infatti inascoltatamente segnalato, anche con grandi manifesti, che la mafia aveva messo le mani sulla città, denunciando l'imperversante speculazione edilizia e gli abusi ambientali nei quartieri metropolitani milanesi, da parte dei vari comitati d'affari che, già da allora, all'ombra di illecite protezioni, spadroneggiavano impunemente, controllando il territorio e i gangli vitali delle istituzioni, attraverso quella che i P.M. di "mani pulite" definirono come "corruzione ambientale", senza poi però riuscire ad andare sino in fondo. Denunce, occorre ricordare, che hanno permesso alla Procura di Milano di portare alla luce massicci episodi di corruzione nella Guardia di Finanza e nella stessa magistratura, portando all'arresto, tra gli altri, del Generale Giuseppe Cerciello, e dell'allora insospettato Presidente del Tribunale di Milano, Diego Curtò, entrambi da me denunciati, sin dal 1989, venendo io, però, dapprima, incriminato per diffamazione e calunnia, nonché preso per "visionario", fino al loro arresto e alla definitiva condanna degli stessi per fatti di corruzione (quest'ultimo, come molti ricorderanno, in relazione alla megatangente Enimont e al lodo Mondadori). Il Movimento per la Giustizia Robin Hood, spezzando in parte l'azione ostruzionistica nei suoi confronti, ottenne poi il riconoscimento quale Onlus nella sezione civile del Registro del Volontariato della Regione Lombardia, con effetto retroattivo dal 1998, in forza di due sentenze del T.A.R., di cui una per obblighi di fare. Nonostante l'alto valore sociale di tali attività, come riconosciuto dallo stesso Tribunale di Sorveglianza, lo scorso 15/1/13, i giudici bresciani che avevano precedentemente sospeso il processo, rinviandolo a nuovo ruolo, in attesa dell'esito dei giudizi pendenti in Cassazione per incidente di esecuzione e avanti la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - che se accolti comportano la revisione automatica del processo "non equo" -, hanno invece cambiato indirizzo, riservandosi sulla revoca del mio affidamento ai Servizi Sociali, cosa che implicherà nei prossimi giorni l'obbligo di arresto per scontare una pena residua di 2 anni, 8 mesi, 17 giorni, dopo aver già espiato anni 1, mesi 5 e giorni 7 di reclusione, oltre ad 1 anno di Libertà controllata, neanche fossi un mafioso o un criminale, per un totale di ben oltre 5 anni di carcerazione! Taluni media falsamente garantisti quando si tratta di coprire i potenti, sicuramente cercheranno di gettare altro fango, insinuando ogni sorta di dubbio e calunnia nei miei confronti, a partire da il Giornale di Sallusti, che ho già avuto modo di denunciare per il contenuto diffamatorio dell'articolo: "Il nuovo eroe antipremier? E' in realtà un bancarottiere condannato per calunnia", articolo apparso in data 14/5/11, in occasione del processo Mills e del mio fermo illegale avanti al Tribunale di Milano, ad opera della Digos, che molti forse ricorderanno, avendo destato anche presso la stampa estera, notevole indignazione e scalpore per le modalità brutali e la manifesta ingiustizia. Voglio quindi si sappia che, al di là delle calunnie della stampa di regime, non ho mai subito alcuna definitiva condanna per reati societari come il padrone di Sallusti e che l'unica vera ragione dell'accanimento di settori deviati della magistratura nei miei confronti, risiede nel fatto che ho denunciato, per primo, l'esistenza di poteri esterni allo Stato, ovvero di un «Regime occulto», in grado di condizionare l'intero arco parlamentare, media, forze dell'ordine e organi giurisdizionali, sino alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, mettendo in luce il ruolo di subalternità delle mafie agli apparati dell'alta finanza e dello Stato e, quel che, sicuramente, più disturba, alla Massoneria internazionale, secondo la stessa prospettiva investigativa di Giovanni Falcone, che partendo dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta aveva capito, sin dal 1984, come la Massoneria rappresenti il «collante» dei vari poteri criminali con la politica, le istituzioni e i servizi segreti. Non credo perciò di meritare di andare in carcere per le mie denunce, come non lo meritava neppure Sallusti, seppure coltivasse ragioni diametralmente opposte alle mie, perché in un Paese veramente libero nessuno può venire incarcerato per le proprie idee. Grazie di cuore per la Vs. attenzione e per il Vs. sostegno nelle forme che più riterrete opportune.

Pietro Palau Giovanetti secondo “Il Giornale”. E meno male che Sallusti sa cosa vuol dire essere perseguito per reato di opinione. Le urla, «vergogna, vergogna», gli spintoni, la polizia che arriva e trascina via il contestatore: il tutto sotto gli obiettivi delle telecamere, che documentano in diretta l'ennesimo caso di repressione del dissenso. La scena accade davanti al tribunale di Milano, blindato dale forze dell'ordine per la nuova udienza a carico di Silvio Berlusconi. Protagonista della protesta solitaria, racconteranno le cronache e le telecronache, un avvocato: un professionista indignato per le malefatte del capo del governo, e deciso a manifestare il suo sostegno a Ilda Boccassini e ai suoi colleghi. Ma alle 15.36 di ieri pomeriggio un comunicato dell'Ordine degli avvocati milanesi costringe a rivedere la faccenda: «A seguito dei recenti fatti di cronaca divulgati in data 9 maggio 2011 in relazione allo svolgimento del processo Mills, in occasione del quale si è riferito di un contestatore, Pietro Palau Giovannetti, indicato dalla stampa come avvocato, si comunica che tale Pietro Palau Giovannetti non risulta iscritto negli elenchi professionali tenuti dal consiglio dell'Ordine degli avvocati di Milano». E quindi? Se non è un avvocato, come hanno scritto i giornali, chi è il signore alto e robusto che i carabinieri hanno trascinato via mentre urlava «vergognatevi buffoni» ai militanti del Pdl in attesa di Berlusconi sotto il tribunale? L'aspirante icona della sinistra (emulo di Pietro Ricca, che nel 2003 urlò «buffone» a Berlusconi in tribunale e su questo costruì una carriera) è in realtà un personaggio di cui le cronache giudiziarie si sono dovute occupare in più di un'occasione. Titolare di una piccola azienda di auto d'epoca, la Classic Cars, Palau finisce gambe all'aria all'inizio degli anni Novanta e viene inquisito per bancarotta fraudolenta. A quel punto si trasforma in un implacabile accusatore della magistratura che - a suo dire - lo avrebbe ingiustamente inquisito. Attraverso l'associazione «Robin Hood» di cui è presidente, segretario e unico militante lancia la sua crociata contro le malefatte dei giudici. Se la prende in particolare con il procuratore Francesco Saverio Borrelli, che accusa di malefatte di ogni genere: querelato dal capo di Mani Pulite, Palau viene condannato per calunnia. Ma non si arrende, anzi. E qui la faccenda si fa interessante. Il nome di Palau Giovannetti viene infatti citato in una intervista al Corriere, nel maggio 1997, dal pm Piercamillo Davigo. Si parla del misterioso «dossier Achille», un documento attribuito al Sisde in cui si ipotizzavano tra l'altro infiltrazioni ebraiche e massoniche nel pool Mani Pulite. Ed ecco cosa dice Davigo: «Per carità, io posso fare solo un'ipotesi. L'unica cosa che mi viene in mente è la valanga di denunce presentate da Pietro Palau Giovannetti... La conosce la sua storia? Quel signore abitava in uno stabile di un immobiliarista milanese, Virginio Battanta. Ricevuto lo sfratto, Palau lo ha denunciato. Poi, quando è finito sotto inchiesta per due fallimenti, ha cominciato a presentare esposti a Brescia contro i pm di Milano che, a suo dire, non avrebbero indagato. Di lì è nato un groviglio di inchieste a catena, con decine o forse centinaia di denunce incrociate, penso che ora se ne occupi Trento ma non escludo che prima o poi, passando da una Procura all'altra, finisca tutto a Trieste. Ecco, ricordo che una delle tante denunce di Palau fu indirizzata al procuratore Cordova (all'epoca procuratore di Palmi), che all'epoca era titolare della maxi-inchiesta sulle logge coperte. Che io ricordi, quella è l'unica denuncia che abbia mai ipotizzato infiltrazioni giudaico-massoniche, espressione forse usata in senso generico, approssimativo, tra i magistrati di questa Procura». Sono passati quattordici anni. E lunedì scorso il bancarottiere che allora accusava la Procura milanese di essere un covo di massoni riemerge all'improvviso, trasformandosi in «avvocato» e incarnando per mezza giornata la nuova icona del popolo filo-giudici.

“Taranto: non solo Scazzi, Serrano e Misseri. Quel Tribunale è il Foro dell’ingiustizia.”

Libertà di stampa violata ed adozione di atti intimidatori e persecutori per chi ha il coraggio di raccontare la verità. Antonio Giangrande, il noto scrittore di Avetrana, accusato di violazione della Privacy, il 12 luglio 2012 è stato assolto con la formula più ampia: per non aver commesso il fatto. Una sentenza che crea un precedente nel campo della libera informazione. E’ stato assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. E’ stato disposto, altresì, il dissequestro del sito web d’informazione inopinabilmente oscurato per anni dalla magistratura brindisina e tarantina. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. E la notizia dell’assoluzione si deve dare senza remore, così come si fa se, invece, fosse stata una condanna. «Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata – dice il dr Antonio Giangrande, autore di 40 libri pubblicati su “Amazon” e su “Lulu” - Il fatto risale al 2006 quando improvvisamente la Procura di Brindisi chiude completamente il portale web d’informazione dell’ “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Sodalizio nazionale antimafia non allineato a sinistra. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. A tutti coloro, che in apparenza gridano alla libertà di stampa, direi di essere meno ipocriti, codardi, collusi  e partigiani, perché i giornalisti e gli operatori dell’informazione locale, anziché esprimere solidarietà ad un collega, hanno pensato bene di trattarmi come appestato e recidere quelle collaborazioni che avevo con loro. A tutti quelli che spesso rappresentano un potere criminogeno e ciò nonostante proclamano “fuori i condannati dal Parlamento” direi: se i condannati sono coloro i quali sono perseguitati per le opinioni espresse, allora direi fuori le caste e le lobbies e le mafie e le massonerie dal Parlamento, che a quanto a pericolosità sociale non sono seconde a nessuno».

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA. Il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! E che dire dei moventi, a cercare qualcosa che si adatta si trova sempre. Per Sabrina Misseri è la gelosia. Ivano Russo: «C’è stato un momento che io mi sono sentito come un sospettato. Anche perché soprattutto mi ricordo al primo interrogatorio c’è stata una frase di un carabiniere. Parlandomi ha detto che….siccome mi stavano tenendo per parecchie ore, io gli ho chiesto “ma perché mi tenete qua tante ore” e lui mi rispose che praticamente…siccome a me era venuto a mancare mio padre, avevo…ero arrabbiato con l’esistenza, con Dio, poi…allora sarei stato capace di fare qualche cosa di grave, E lì ho incominciato ad aver paura di un errore giudiziario.» In virtù di una giustizia che va alla rovescia (chi si dichiara colpevole sta fuori, chi si dichiara innocente sta dentro) tutta la settimana, ed in special modo la domenica, tutti i talk show pomeridiani condotti da improvvisati conduttori, parlando di Michele Misseri, si concentravano a trovare breccia nelle sue dichiarazioni per minarne la sua attendibilità, fino a tendergli delle trappole televisive. Da un lato domenica 9 dicembre 2012, mentre venivano mandate in onda le dichiarazioni che Michele Misseri aveva rilasciato a Ilaria Cavo, Barbara d’Urso su Canale 5 intervistava Anna Pisanò, supertestimone dell’accusa al processo contro Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Lo zio di Sarah è intervenuto telefonicamente. Misseri si è scagliato contro Anna Pisanò, coinvolgendo anche la conduttrice Barbara d’Urso per quello che ha definito un programma colpevolista che influenza la gente: “Voi la verità non la conoscete. E quando questa uscirà, vedremo chi avrà ragione. Sono arrabbiato non con voi, ma con me. Tu Anna perché vai in televisione? Tu non c’eri quel giorno, sei una bugiarda, vuoi influenzare la gente così nessuno crede alla mia verità. Sarah non voleva più vederti, lo sai!”. Nel proseguo del 16 dicembre la stessa D’Urso, con la sua maschera napoletana, definendosi anch’essa figlia del popolo che conosce il modo di pensare nei paesini (sic) tendeva delle trappole a Michele per trarlo in inganno con l’intento di farlo capitolare e fargli confessare le colpe di Sabrina. Un chiaro esempio di servilismo e sottomissione ai magistrati ed uno sfregio ad una emittente televisiva, se pur privata, che arriva in tutte le case della gente. Né Michele, né sua moglie, né sua figlia da anni non capitolano e non certo perché sono dei professionisti del crimine. 11 ore di interrogatorio di Michele da aggiungere alle altre 11 precedenti e su richiesta di esame della difesa degli imputati non può conseguire per la stessa difesa una risultanza negativa, eppure per la stampa è stato così, influenzando in questo modo il popolino. Certo è che nessuno ha paventato l’ipotesi che confessando l’omicidio Michele Misseri deve essere accusato di omicidio e di calunnia e di falsa testimonianza in aggiunta agli altri reati contestatogli ovvero essere accusato di falsa testimonianza ed auto calunnia, sempre in aggiunta al resto dei reati già contestati. Ma quanto può essere attendibile un testimone ed il suo racconto? Quando si parla di testimonianza si intende il racconto di un evento, filtrato tramite l'esperienza di un narratore che ha vissuto la scena; è chiaramente implicita, dunque, la connotazione soggettiva della testimonianza. Parte proprio da questa semplice osservazione il nodo del problema che si pone a riguardo: quanto può essere attendibile una testimonianza? La testimonianza riporta sia una parte di verità oggettiva sia una costruzione soggettiva dei fatti, legata a componenti emozionali e situazionali che influenzano il ricordo, ma anche ad errori di memoria. Data la grande rilevanza della testimonianza diretta, è posta grande attenzione al testimone oculare in casi giudiziari, in particolare alle caratteristiche della testimonianza, nell'intenzione di giudicare nel miglior modo possibile l'effettiva veridicità della stessa; ma si può credere in assoluto ad un individuo che dice di ricordare esattamente un evento che “ha visto con i suoi occhi”? La memoria è un meccanismo imperfetto, dal momento che è influenzato da molteplici fattori che possono intervenire nelle tre diverse fasi precedentemente citate ed ostacolare così la modalità corretta di codifica, mantenimento e recupero di un ricordo. Molti studi ed esperimenti hanno dimostrato che nell’osservazione e nel racconto di un evento, è fondamentale l’influenza delle caratteristiche proprie di un individuo, dei suoi schemi mentali e delle sue conoscenze pregresse, nonché delle caratteristiche della situazione. Si può affermare che l'attendibilità di una testimonianza possa essere determinata da due fattori principali: Accuratezza, ovvero la corrispondenza tra realtà oggettiva e soggettiva, e Credibilità, ovvero il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a dichiararlo. Purtroppo gli esperimenti hanno evidenziato che il giudicante non è in grado di giudicare in maniera corretta l'attendibilità del testimone ed hanno messo in luce una sorta di processo inferenziale attraverso cui sembra che le persone, per giudicare l'attendibilità di un testimone, si affiderebbero al grado di sicurezza da lui stesso mostrato nel corso di una testimonianza. Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. «L'ultima volta che ho incontrato in carcere Sebai, circa 10 giorni fa, mi aveva chiesto la Bibbia. Nonostante Sebai sia un musulmano – precisa il legale – mi aveva chiesto la Bibbia perchè io, da cristiano, gli ero vicino. - Secondo Faraon, che è anche presidente dell’Anveg, Associazione nazionale vittime errori giudiziari, Sebai, in carcere dal 1997, - decise di confessare altri omicidi nel 2006 per una crisi di coscienza, dopo aver appreso del suicidio in carcere di un tarantino condannato per uno degli omicidi confessati dal serial-killer». Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. L'avvocato Faraon ha chiesto che venga disposta l’autopsia sul corpo. Secondo quanto riferito dal legale, quando aveva sette anni il tunisino sarebbe stato colpito alla testa dal padre con una chiave inglese. Il colpo gli aveva provocato gravi lesioni cerebrali. Ed era del serial killer delle vecchiette l’impronta digitale dimenticata per 9 anni in casa della vittima. Fu rinvenuta su una scatola di caramelle «Rossana» nell’appartamento di Anna Maria Stella, la maestra settantenne di Trinitapoli sgozzata a scopo di rapina nella sua abitazione il primo maggio del ‘97. Ma per scoprire che appartenesse al serial-killer ci sono voluti 9 anni; la riapertura dell’indagine dopo la confessione dell’imputato arrivata nel 2006; l’intuito del pm foggiano Ludovico Vaccaro; gli accertamenti dei carabinieri del Ris. Proprio l’interrogatorio di un sottufficiale del Reparto investigazioni scientifiche di Roma ha caratterizzato l’udienza in corte d’assise del processo a Ben Ezzedine Sebai, il tunisino di 45 anni in cella dal settembre ‘97, già condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi di vecchiette e che nel 2006 ha confessato d’aver ucciso e/o aggredito 15 anziane negli anni Novanta in Puglia e Basilicata. Sostiene d’aver agito perchè erano le voci a ordinargli di ammazzare. «Recentemente la corte di Cassazione ha disposto l'annullamento con rinvio di una condanna a 18 anni di carcere - precisa Faraon – per un omicidio compiuto a Lucera (Foggia) per esaminare, anche sulla base della perizia del prof. Mastronardi, la sua capacità di volere». Il legale ribadisce che nelle vicende giudiziarie che hanno riguardato Sebai ha «sempre visto delle abnormità». «Due confessi omicidi che a Taranto non sono creduti. La magistratura requirente sposa una tesi spesso sbagliata e la magistratura giudicante gli va a ruota. Non è la prima volta che succede. Non era tanto malsana l’idea di Franco Coppi di chiedere la rimessione del processo Sarah Scazzi in altro foro» spiega Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul delitto di Sarah Scazzi e su Taranto ha scritto dei libri inseriti nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Basta ricordare i precedenti. «Non ha altro da aggiungere per fare chiarezza definitiva su tutto?» ha chiesto a Michele Misseri l’avv. Franco Coppi, uno dei difensori della figlia Sabrina. «Devo chiedere solamente – ha risposto zio Michele - perdono a tutti, anche alla mamma di Sarah che io non ho voluto mai contraddire perchè dopo tutto ha perso una figlia. Io sto nei panni suoi. Io non ho mai commentato contro di lei». «Non volete la verità. Solo io sto facendo la verità per quella poveretta. Io l'ho ammazzata una volta, voi chissà quante volte l'avete ammazzata». Lo ha detto Michele Misseri rivolgendosi ai pm Mariano Buccoliero e Piero Argentino in aula durante il processo sull’omicidio su Sarah Scazzi. «Lei – ha aggiunto il contadino riferendosi a Concetta Serrano – è convinta che sono state mia figlia e mia moglie, ma se erano state loro perchè io mi devo assumere ancora la responsabilità? Non ce la faccio ad andare avanti, devo parlare anche per gli innocenti che stanno in carcere». E poi la violenza sul cadavere, spiega Misseri, “era una bugia con altre bugie”. Perchè, sostiene, lui non ha mai tentato di violentarla e tantomeno ha oltraggiato il cadavere. «L’ho fatta trovare nuda nel pozzo e prima che me lo dicessero loro (gli inquirenti) l’ho detto io». Michele spiega il significato che ha per lui il luogo in cui porta il corpo della nipote. «Sotto il fico mio padre mi picchiava». Ha subito altre violenze lì? Gli chiede Coppi. Michele, in difficoltà, non smentisce: «Questo è stato sempre un segreto, che non conoscono né mia moglie né mia figlia. Non vorrei rispondere a questa domanda». Caso Michele Misseri e caso Sebai, stessa sorte, stesso muro di gomma.

Il 13 febbraio del 2009 il giudice per l’udienza preliminare Valeria Ingenito emise sentenza di assoluzione per l’omicidio di Grazia Montemurro, la 75enne di Massafra ammazzata il 4 aprile del 1997, nei confronti del serial killer Ben Ezzedine Sebai, 43enne di Kairouan (Tunisia), reo confesso. Quella sentenza è stata impugnata dall’avv. Giorgio Faraon, difensore di Sebai, e dall’avv. Ignazio Dragone, legale di parte civile. Sebai dopo essere stato condannato in via definitiva a 4 ergastoli per l’assassinio di altrettante anziane, ha deciso di confessare altri 10 omicidi e un tentato omicidio. Autoaccusandosi, intende scagionare detenuti che a suo dire sono stati accusati ingiustamente. Il gup Valeria Ingenito lo ha condannato all’ergastolo per l’omicidio di Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza il 21 agosto del 1997, mandandolo assolto dai delitti di Celestina Commessatti, 73 anni (Palagiano, 13 agosto 1995), Pasqua Rosa Ludovico, 86 anni (Castellaneta, 14 maggio 1997) e, appunto, Grazia Montemurro. A puntare alla condanna di Sebai è in maniera particolare l’avv. Ignazio Dragone, costituitosi parte civile per conto dei parenti della vittima ma legale anche di Cosimo Montemurro, l’ex dj di Massafra condannato a 18 anni di reclusione per l’omicidio della zia Grazia. Secondo l'accusa, Cosimo Montemurro avrebbe assassinato sua zia perchè non sopportava più di essere rimproverato. Il cadavere dell'anziana fu rinvenuto nell'abitazione di via Felice Cavallotti. Il nipote, che aveva trascorso la giornata a Mottola, dove abitava la fidanzata, rientrò a casa intorno alle 22. Fra zia e nipote, secondo le motivazioni della sentenza di condanna, scoppiò l'ennesimo diverbio. Colto da un raptus, Montemurro avrebbe afferrato un coltello da cucina con la lama zigrinata e sferrato un fendente alla gola dell'anziana zia. Poi avrebbe abbandonato l'appartamento per incontrarsi con due amici. Intorno a mezzanotte, sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, il presunto assassino sarebbe tornato sul luogo del delitto per allertare le forze dell'ordine. Il giovane massafrese crollò dopo quattordici ore di interrogatorio, motivando la follia omicida con la reazione ad un pesante rimprovero da parte della donna. Il caso sembrava chiuso. Poi, il presunto assassino ritrattò tutto, attaccando i carabinieri che lo avrebbero indotto, con la forza, a dichiarare il falso. Con la confessione del serial killer, Cosimo Montemurro, tornato in libertà dopo 10 anni di carcere, è tornato a sperare nella revisione del processo. La maestra sgozzata Anna Maria Stella fu sgozzata e rapinata nella sua abitazione di Trinitapoli il primo aprile del ‘97. In quel periodo in tutta la Puglia c’era la psicosi del killer delle vecchiette che aveva già colpito ripetutamente e ucciso: entrava in casa di anziane che vivevano sole, le uccideva con coltelli o punteruoli, rovistando in casa e rubando ori e soldi. All’epoca della morte della maestra trinitapolese, Ben Sebai non era stato ancora catturato: successe qualche mese dopo, il 16 settembre del ‘97, quando il tunisino fu arrestato dai carabinieri in flagranza a Palagianello, in provincia di Taranto, subito dopo aver ammazzato l’ennesima vecchietta. In seguito all’arresto di Ben Sebai, la Procura foggiana lo indagò formalmente - l’informazione di garanzia per omicidio gli venne notificata in carcere nel novembre del ‘98 - per l’omicidio della maestra trinitapolese. Fu disposto l’esame del dna su una cicca di sigaretta trovata in casa della vittima per verificare se fosse di Ben Sebai: visto l’esito negativo di quell’accertamento, le accuse contro il tunisino in relazione all’omicidio Stella furono archiviate. Nessuno pensò in quella fase investigativa di verificare se le due impronte digitali trovate su una scatola di caramelle in casa Stella fossero del serial killer. Le indagini sull’omicidio Stella (ed anche il delitto Garbetta e l’aggressione alla foggiana Assunta Aprile) si riaprirono nel 2006 con la decisione di Ben Sebai, detenuto da 9 anni, di confessare 15 delitti. Il pm Ludovico Vaccaro riaprì le indagini sui casi foggiani; rilesse il fascicolo processuale relativo al delitto Stella (non era lui il titolare dell’inchiesta nel ‘97/98); notò che su una scatola di caramelle rinvenuta in casa Stella furono trovate due impronte digitali; ordinò al Ris d’accertare se appartenessero al seriale killer. Responso positivo per una delle due impronte, il che rappresenta un fondamentale riscontro alla confessione del tunisino: basti pensare che Ben Sebai ha anche confessato l’omicidio di due anziane per le quali non è stato creduto, tant’è che sono stati condannati altri imputati. Quando Ben Sebai fu arrestato nel settembre ‘97 e poi condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi si dichiarava innocente. La svolta e la confessione arrivarono 9 anni dopo nel carcere milanese: disse che le voci gli ordinavano di uccidere le vecchiette che gli ricordavano la madre e la nonna con cui da bambino aveva un rapporto di odio-amore. Il difensore, l’avv. Lucian Faraon, punta ad una perizia psichiatrica, ma Ben Sebai vi è stato già sottoposto recentemente per un altro omicidio scoperto dopo la confessione (quello della lucerina Madonna Celeste uccisa in casa il 24 aprile ‘96, per il quale è stato condannato a 18 anni) e gli esperti hanno escluso l’infermità mentale del serial killer.

La Vergogna di essere italiano. Faiuolo, Orlandi, Nardelli, Tinelli, Montemurro, Donvito sono innocenti, ma colpevoli solo per convinzione personale dei giudici? Ben Mohammed Ezzedine Sebai (il Killer delle vecchiette), che tra il 1995 e il 1997 si macchiò dell’omicidio di ben 14 anziane tra Puglia e Basilicata. Nonostante il legittimo sospetto che non vi potesse essere serenità di giudizio, ed non essendo prevista la ricusazione del PM, si è permesso di giudicare il Sebai a Taranto con il rito abbreviato per delitti di cui altri già erano già stati condannati dal quel foro e accusati, in particolare, dagli stessi PM. Nessuno delle parti in causa (pubblici ministeri, avvocati e giudice), che abbia chiesto la rimessione del processo in altro foro per legittimo sospetto di parzialità nel giudizio.

I media tacciono la vergogna. Nella puntata di “Agorà” dell’8 febbraio 2011 su Rai Tre, dalle 9.00 alle 11.00, sarebbe dovuta andare in onda un’inchiesta della giornalista Angela Caponnetto sulla censurata vicenda Sebai. Nell’inchiesta si sarebbero potute ascoltare le parole di Michele Donvito, fratello di Vincenzo, suicidatosi nel carcere di Teramo nel 2005, accusato dell’omicidio di Celestina Commessatti, uccisa nella sua abitazione di Palagiano, in provincia di Taranto, il 14 agosto 1995. Eppure già nel 1999 il tunisino Ben Mohamed Ezzedine Sebai si era dichiarato colpevole dell’omicidio della stessa, confessione rafforzata di particolari e dettagli solo nel 2006. In studio era presente anche la giornalista che per cinque ore ha intervistato Donvito sulla triste vicenda, che ha coinvolto e stravolto la sua famiglia, eppure, a detta del suo conduttore, Andrea Vianello, di tempo non ce n’è stato a sufficienza e il servizio è saltato. La Caponnetto è stata liquidata con delle semplici scuse e la vicenda rimane nell’oblio. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha accolto la richiesta di revisione del processo, trasmettendo gli atti alla Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Vincenzo Faiuolo, arrestato per il delitto di Pasqua Ludovico, anziana uccisa in provincia di Taranto negli anni '90.

Faiuolo è una delle otto persone arrestate per diversi omicidi di anziane uccise in Puglia in quegli anni. Omicidi dei quali poi si è confessato colpevole Ben Mohamed Ezzedine Sebai, soprannominato 'il serial killer delle vecchiette'. A darne notizia è l'avvocato Claudio Defilippi, legale dello stesso Faiuolo, condannato a 25 anni di carcere, di cui ne ha scontati 15 anni. Defilippi spiega che è stata accolta anche la richiesta di revisione del processo, con rinvio alla sezione per i minorenni della Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Davide Nardelli, all'epoca dei fatti minorenne, che fu condannato a 7 anni per il delitto di un'altra anziana e che ha già finito di scontare la pena. "La Cassazione dice che la revisione dei processi deve andare avanti. Chiediamo ora che siano riaperti i procedimenti per questi diversi omicidi", afferma Defilippi. Il signor Sebai viene schedato con foto ed impronte sin dal 1991, dai carabinieri di Bolzano. Egli, nel corso delle dichiarazioni rese al sostituto procuratore del tribunale di Milano, dottor Nobili, in data 10 febbraio 2006, e successivamente confermate, a dicembre 2008, davanti al sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor, Ludovico Vaccaro, ha confessato i seguenti omicidi, compiuti tra il gennaio 1994 ed il settembre 1997:

gennaio 1994, presunta vittima ignota, in assenza di riscontri investigativi, poi identificata a seguito dell'interrogatorio di Sebai avanti al pubblico ministero di Foggia (avvenuto nel dicembre 2008, come citato in premessa) in Aprile Assunta, la quale è l'unica vittima sopravvissuta;

8 luglio 1995, Vernetti Petronilla, anni 83, Melfi (Potenza), assolto;

13 agosto 1995, Commessatti Celeste, anni 83, Palagiano (Taranto), per il quale delitto sono stati condannati Nardelli Davide e Tinelli Giuseppe, minorenni all'epoca del fatto, e Donvito Vincenzo, suicidatosi nel 2006 nella Casa di Reclusione di Teramo;

24 aprile 1996, Madonna Celeste, anni 81, Lucera (Foggia), omicidio irrisolto, nel 2008 Sebai condannato a 18 anni;

30 maggio 1996, Garbetta Giuseppina, anni 72, San Ferdinando di Puglia (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai;

10 agosto 1996, Stano Anna, anni 85, Ginosa (Taranto), ergastolo;

15 gennaio 1997, Totaro Maria, anni 76, Cerignola (Foggia), ergastolo;

5 aprile 1997, Montemurro Grazia, anni 76, Massafra (Taranto), per il quale delitto è stato condannato diciotto anni di reclusione Montemurro Cosimo, nipote della vittima;

1o maggio 1997, Stella Anna Maria, anni 69, Trinitapoli (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai;

9 maggio 1997, Leone Santa, anni 82, Canosa di Puglia (Bari), processato e assolto;

14 maggio 1997, Ludovico Pasqua, anni 86, Castellaneta (Taranto) per il quale delitto sono stati condannati Faiulo Vincenzo e Orlandi Francesco, rei confessi;

28 luglio 1997, Valente Maria, anni 84, Palagiano (Taranto), ergastolo per il quale delitto, oltre all'ergastolo per Sebai, sono stati condannati anche Tinelli Giuseppe e la di lui madre e sorella;

21 agosto 1997, Lapiscopa Rosa Lucia, anni 90, Laterza (Taranto), ergastolo;

27 agosto 1997, Sansone Angela, anni 84, Spinazzola (Bari), ergastolo;

15 settembre 1997, Nico Lucia, anni 75, Palagianello (Taranto), ergastolo;

per il delitto del gennaio 1994, ai danni di Aprile Assunta, unica sopravvissuta delle 15 vittime, quantunque ricoverata in prognosi riservata, gli investigatori non rilevarono le impronte digitali e, inoltre, a dispetto delle accuratissime descrizioni dell'aggressore, fornite dalla vittima, non fu esperita alcuna ricerca fra le foto schedate nel casellario centrale. Un tale accertamento avrebbe potuto impedire tutti i successivi 14 delitti, risalendo ai dati del Sebai schedati sin dal 1991;

per il delitto del 13 agosto 1995, ai danni di Commessatti Celeste, il signor Sebai viene fermato con la refurtiva sottratta alla vittima, viene fotografato, vengono rilevate le sue impronte digitali e poi rilasciato. In tale circostanza, la negligenza investigativa, manifestatasi già nel 1994, assume connotati gravi aprono la strada ai successivi 5 delitti, confessati dal Sebai;

per il delitto del 1o maggio 1997, ai danni di Stella Anna Maria, nel corso delle indagini successive, furono rilevate le tracce di Dna sulle cicche di sigaretta, rinvenute sulla scena del delitto, nonché le impronte digitali. Comparato il Dna a quello di Sebai, risultando negativo, Sebai fu rilasciato senza comparare le impronte digitali.

Solo nel 2008, cioè 11 anni dopo, a seguito degli accertamenti disposti dal nuovo sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor Ludovico Vaccaro, si scoprirà che Sebai aveva lasciato l'impronta sulla scena del delitto Stella. L'accertamento sulle impronte, omesso nel 1997, consente al Sebai lo stato di libertà nel corso del quale compie altri 6 omicidi. ''La procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia l’avv. Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni “pur essendo innocenti”.

Altra vergogna, altro precedente.

15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.

Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la corte d’appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto».

In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere.

E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono.

Le persone che lo scagionavano furono condannate per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’assise d’appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Altro precedente: Non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro.

Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocenti ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi.

Per la Procura, che sostiene la tesi della colpevolezza di Sabrina e della madre Cosima per il delitto e la responsabilità di Michele Misseri solo per la soppressione del cadavere di Sarah, la ritrattazione della psicologa sono manna dal cielo, un supporto alle proprie tesi. Da tenere presente una cosa: trattare come veritiere le dichiarazioni di Dora Chiloiro rese nell’udienza preliminare e nella precedente testimonianza in Corte d’Assise o considerare quest’ultima trattazione come la vera verità? Certo che a rettificare la dichiarazione nello stesso procedimento, porta la Chiloiro a liberasi del fardello del procedimento penale per falsa testimonianza, non incorrendo così nelle conseguenze di carattere professionale. Questa cosa dà da pensare. Scegliere la propria carriera ed i propri interessi o salvare delle vite umane dal carcere?

Una scelta di carattere pratico o una strategia difensiva, oppure cedere al rimorso della coscienza? Questa è solo una considerazione di carattere logico, non una diffamazione nei confronti di chiunque. Anche perché a Taranto ogni logica, anche giuridica viene disattesa. Taranto dove i magistrati si sentono anche legislatori. I magistrati di Taranto hanno una loro ben definita contrapposizione: «Prendiamo atto che il governo, di fronte ad una situazione complessa e con gravi ripercussioni occupazionali, si è assunto la grave responsabilità di vanificare le finalità preventive dei provvedimenti di sequestro emessi dalla magistratura e volti a salvaguardare la salute di una intera collettività dal pericolo attuale e concreto di gravi danni», dice il segretario dell'Associazione magistrati (Anm), Maurizio Carbone, proprio a Taranto sostituto procuratore. Per Carbone «resta tutta da verificare la effettiva disponibilità dell'azienda ad investire i capitali necessari per mettere a norma l'impianto e ad adempiere alle prescrizioni contenute nell'Aia», tenuto conto che «sino ad ora la proprietà ha dimostrato di volersi sottrarre all'esecuzione di ogni provvedimento emesso dalla magistratura». Ed ancora non ha lesinato critiche al provvedimento d'urgenza di Palazzo Chigi: «È un'invasione di campo, dov'è finito il principio della separazione dei poteri? Il decreto legge vanifica di colpo tutti gli effetti dei provvedimenti presi dai magistrati per la tutela della salute dei cittadini. Il governo, così facendo, si è preso una grossa responsabilità». Per il gip di Taranto Patrizia Todisco la nuova Aia per l'Ilva «non si preoccupa affatto della attualità del pericolo e della attualità delle gravi conseguenze dannose per la salute e l'ambiente». L'attività produttiva dell'Ilva è «tuttora, allo stato attuale degli impianti e delle aree in sequestro, altamente pericolosa». I tempi di realizzazione della nuova Aia sono «incompatibili con le improcrastinabili esigenze di tutela della salute della popolazione locale e dei lavoratori del Siderurgico», scrive il gip. Tutela che «non può essere sospesa senza incorrere in una inammissibile violazione dei principi costituzionali» (articoli 32 e 41).

Come è possibile, sulla base di quanto emerso dalle indagini, «autorizzare comunque l'Ilva alle attuali condizioni e nell'attuale stato degli impianti in sequestro, a continuare da subito l'attività produttiva», senza «prima pretendere» gli interventi di risanamento? aggiunge il gip dicendo no al dissequestro degli impianti. La partita con l'Ilva non è finita, «abbiamo ancora qualche cartuccia da sparare», sorride amaro il procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, che proprio non ci sta a passare per «il talebano», così come viene definito sui giornali, «il pazzo nemico di 20 mila operai», «se solo avessi cinque minuti per un caffè con il presidente Napolitano e con Mario Monti racconterei loro dei bambini che qui nascono già malati di tumore...», si sfoga il vecchio magistrato. La Procura solleva eccezioni di incostituzionalità del decreto legge di Palazzo Chigi, chiedendo l'intervento della Corte Costituzionale. Il diritto all'eguaglianza, ad esempio: la legge è uguale per tutti, no?

Ma se la legge è nata per l'Ilva, dove finiscono i principi di astrattezza e generalità? Intanto, oltre al sindaco di Taranto, alcuni preti della città, alcuni giornalisti tarantini, alcuni parlamentari locali, l’inchiesta coinvolge anche la provincia. Così come per il delitto di Avetrana: nel dubbio, tutti dentro, avvocati compresi. L'inchiesta afferra il Presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, un passato importante da sindacalista quale ex segretario regionale della Cisl e un presente da dirigente locale del Pd. Un'informativa di 182 pagine in parte mutilata da omissis e allegata all'ordinanza di custodia cautelare che aveva già bussato al palazzo della Provincia, relegando agli arresti domiciliari l'ex assessore all'ambiente Michele Conserva, lo fulmina in poche righe. "Si evidenzia - scrivono i militari della Finanza - che alla luce di quanto accertato, vanno ascritte al dottor Gianni Florido, Presidente della Provincia di Taranto, specifiche responsabilità penali per il delitto di concussione o, in subordine, di violenza privata". Certo è che qualcuno dovrebbe spiegare ai magistrati, che si lamentano quando la legge si stila senza la loro dettatura, che non vi è scontro tra poteri, proprio perché la magistratura non è un potere.

Se l’articolo 1 della Costituzione detta che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ne consegue che Potere è quello Legislativo che legifera in modo ordinario e quello Esecutivo che legifera in modo straordinario. La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.” Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla. Per gli effetti l’art. 101 dichiara che “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.” Ergo: i magistrati devono applicare la legge, rispettarla e farla rispettare, non formarla, né criticarla. Non devono sentirsi portatori di una missione non loro. E nessuna risonanza mediatica può essere ammessa, in special modo quando vi sono interessi più grandi che quelli castali. E si deve ricordar loro, ai magistrati ed alla claque che li santifica, che c’è anche quella legge ambientale che prevede il dogma “chi inquina paga”. Non esiste il dettato tutto di stampo tarantino: “chi inquina, chiude i battenti e tutti a casa”, specialmente se l’industria che viene chiusa, con le tasse che paga, mantiene i suoi detrattori.» Una cosa è certa: a Taranto non si deve dire la verità. Chi parla paga. Così come è successo al dr Antonio Giangrande: denuncia la malagiustizia a Taranto e le pratiche mafiose a Manduria, paese retto da un commissario e sotto indagine per infiltrazioni mafiose, e viene processato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa.

Processo che dura da anni e che non vede fine. Giangrande, però, non può bearsi, come per Alessandro Sallusti, della “solidarietà” dei coraggiosi colleghi giornalisti, in quanto il Giangrande non fa parte di un Ordine, come tutti gli ordini professionali, di origine normativa fascista, ma è un semplice scrittore che racconta ai posteri quello che oggi non si osa dire.

SOLO A TARANTO. ILVA, SARAH SCAZZI, BEN EZZEDINE SEBAI. AVVOCATI SUCCUBI DEI MAGISTRATI. Nel resto d’Italia c’è una sana contrapposizione tra la funzione accusatoria e quella difensiva. Interessi diversi che portano PER FORZA a posizioni diverse. QUESTI SIGNORI GIURANO DI RISPETTARE E FAR RISPETTARE LA LEGGE. I MAGISTRATI HANNO L'OBBLIGO DI APPLICARE LA LEGGE NON DI EMANARLA. GLI AVVOCATI HANNO L’OBBLIGO DI DIFENDERE I CITTADINI INNOCENTI ACCUSATI INGIUSTAMENTE DAI MAGISTRATI, NON ESSERE LORO SCHIAVI. INVECE A TARANTO TUTTI FANNO TUTT’ALTRO.

Il decreto legge 207 sull'Ilva ha operato un «grave vulnus ai principi di obbligatorietà dell'azione e di indipendenza del pm» (articoli 112 e 107 della Costituzione) e questo «non appare tollerabile». Così scrive la Procura della Repubblica di Taranto nel ricorso inviato alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sul decreto legge salva-Ilva, convertito in legge il 20 dicembre 2012. Per i pubblici ministeri, il decreto ha fatto di peggio, ha cioè «legittimato la sicura commissione di ulteriori fatti integranti i medesimi reati» contestati, a partire ovviamente da quello di disastro ambientale. Per questi motivi la Procura chiede alla Consulta di dichiarare che «non spetta, nel caso di specie, al Governo della Repubblica autorizzare la prosecuzione dell'attività produttiva per periodo di tempo predeterminato», e che questa autorizzazione non può scavalcare gli eventuali provvedimenti di sequestro di beni dell'impresa adottati dalla magistratura. La vicenda Ilva, al di là degli aspetti processuali e penali, è di «enorme importanza da un punto di vista sociale ed etico» ha voluto chiarire il procuratore, Franco Sebastio, e per questo motivo è stato chiesto alla Corte costituzionale «un contributo di chiarezza», ma «non c'è nessuno scontro». Dubbi di costituzionalità della legge vengono affacciati anche dal presidente dell'Ordine degli avvocati di Taranto, Angelo Esposito, che parla di «problema serio di sospensione dei provvedimenti giudiziari». Per Esposito, se il provvedimento «fosse stato intrapreso da un governo di qualunque matrice politica, sarebbe scoppiata una rivoluzione», ma «è la prima volta che un governo sospende un reato a tempo» e che «assistiamo ad una intromissione così invasiva ed efficace del governo e del legislatore rispetto alla magistratura». Non solo, ma «non è serio dire che chi difende l'operato della magistratura è contro il lavoro», sottolinea Esposito, perchè «se la procura è intervenuta, è perchè aveva il dovere di farlo». Che ci sia o meno scontro istituzionale, sulla legge salva-Ilva si vanno definendo posizioni nette: da una parte magistrati e avvocati, dall'altra governo e, ovviamente, azienda.

Come presidente nazionale di un’associazione che si batte da sempre a tutela dei diritti civili e sociali contro i poteri forti ho interesse a rapportarmi con chi dice di portare avanti le stesse battaglie e magari a gemellarmi con inserimento reciproco dei nostri link nell’altrui sito web, per un’azione sinergica. La mia associazione è stimata e seguita da centinaia di migliaia di sostenitori (basta inserire sul motore di ricerca il nome del presidente o dell’associazione per avere riscontro di quanti siti web li citano. Sarei molto lieto di collaborare con voi, sempre che i nostri fini siano identici: formattare il sapere comune viziato da interessi privati ed ideologie vetuste e rinnovare il sistema democraticamente dalle fondamenta, iniziando dall’informare correttamente i cittadini affinchè essi possano discernere il bene dal male e poter meglio scegliere i rappresentanti dei loro diritti e delle loro aspettative. Rappresentanti che ad oggi non ci sono, in virtù di un’informazione di stampo fascista genuflessa ai poteri politici, economici e giudiziari e di un sistema elettorale di nominati e non eletti. Per questo diffido di chi, senza arte nè parte, si propone senza merito a occupare una poltrona. 

In 20 anni di attività prestata alla difesa dei diritti altrui come presidente nazionale di una associazione antimafia che non è di sinistra e non santifica i magistrati, anche a difesa di chi non se lo meritava, mi sono rapportato con moltissime persone ed ho constatato una miopia intellettuale e culturale, oltre che un immenso egoismo. Ognuno guarda i “cazzi” suoi e se ne “fotte” degli altri. Alcuni erano dei veri e propri "coglioni" a tutti gli effetti. Sa, per dire, quelli che guardano il dito, che indica la luna. Quelli che, comunistoidi o fascistoidi, hanno ancora il loro piccolo cervello manipolato ed ancorato al millennio passato. (L’uso dell’intercalare è adottato per rendere meglio l’idea del concetto). Quelli che, come dicono alcuni, sono come i topolini della famosa fiaba, si fanno incantare dal pifferaio magico di turno, che li porta alla morte. Quelli che non hanno discernimento tra il bene ed il male.

Mi dispiace non poter risolvere alcun problema, comune a tantissimi cittadini. E non mi si deve dire, come molti “coglioni” fanno, “ma che sto a fare?”. Primo, perché non usufruisco di nessun finanziamento (né pubblico, né privato), quindi sono l’unico a non vivere a spese degli altri, e poi perché nessuna associazione seria può fare niente contro una cultura socio-mafiosa che erge dei muri di gomma. Per dire: in Italia non c’è giustizia e non c’è nulla da fare. Il potere ti impone: subisci e taci. Chi dice il contrario è uno speculatore delle disgrazie della gente. Nessuno può pretendere dalle associazioni il sostegno o la soluzione di disservizi o disfunzioni del sistema. Solo le istituzioni hanno il potere d’intervento e non lo fanno, pur da noi pagate con le nostre tasse. Io posso solo denunciare e divulgare quanto è omertosamente censurato dai media. E prendo per esempio la mia storia, per dire che quando racconto i fatti non sono de relato, ma provati sulla propria pelle. E’ un piccolo ristoro delle sofferenze delle vittime. Ed è già molto per chi è perseguitato e non sostenuto economicamente e mediaticamente. Lo faccio in tutto il mondo e con un seguito di centinaia di migliaia di contatti. Prendo spunto da storie esemplari e rappresentative del sistema, senza soffermarmi sui singoli, che spesso per minarne la ragione, sono tacciati di mitomania o pazzia. La mia è solo ricerca di fonti attendibili e didattica (conoscere per giudicare) che mira ad affiancare per territorio o per tematica le situazioni soggettive taciute o ignorate ed elevarli fino a formare l’oggettivo incontestabile. Ogni problematica è legata ad altra problematica e bisogna avere il quadro completo per poter giudicare. Per questo come movimento politico miriamo anche alla istituzione del Difensore Civico Giudiziario locale e nazionale con i poteri dei magistrati, ma senza essere uno di loro, per poter meglio tutelare i diritti dei cittadini che rappresenta contro gli abusi e le omissioni delle toghe. Inoltre altro cavallo di battaglia è l’abolizione dell’esame di Stato per l’abilitazione delle professioni e l’abolizione degli Ordini ed Albi professionali. Inoltre miriamo all’abolizione dei concorsi pubblici: la chiamata diretta per ricoprire incarichi e funzioni pubbliche basate sulla competenza e sui risultati ottenuti e vale anche per i magistrati, a cui deve essere fatta, come per tutti gli altri dipendenti pubblici, l’esame psico-attitudinale.

40 titoli d’inchiesta con i suffissi “opoli” per spiegare l’Italia a chi non la conosce bene.

Si legge gratis, tutto ciò che gli altri non vogliono o non possono scrivere sul sistema “Italia”, e se piace si compra, sostenendo il presidente dell’ “Associazione contro tutte le mafie”.

Si comunica, a titolo di amicizia, che su www.controtuttelemafie.it si possono trovare i libri di Antonio Giangrande da leggere gratuitamente. Se soddisfatti, cercando Antonio Giangrande su www.amazon.it si chiede il formato E-Book, ovvero cercando Antonio Giangrande su www.lulu.com si chiede la copia cartacea. Su Google libri in parte si possono leggere gratuitamente.

4 canali you tube MALAGIUSTIZIA, CONTROTUTTELEMAFIE, ANTONIOGIANGRANDE, TELE WEB ITALIA

Facebook (Antonio Giangrande e gruppi collegati), twitter, netlog e linkedin sono i miei social network.

Per non travalicare la verità ho dato vita a Tele Web Italia www.telewebitalia.eu e http://www.youtube.com/user/TELEWEBITALIA

Sicuramente chi legge o chi vede i video si riconoscerà in qualcosa. Sui miei siti, tra cui www.controtuttelemafie.it , fatti, personaggi o il territorio sarà lo specchio per identificarsi nei miei testi o nelle mie immagini o nei miei video.

www.controtuttelemafie.it, www.malagiustizia.eu, www.ingiustizia.info . Siti web d’inchiesta letti in tutto il mondo da migliaia di navigatori ogni giorno. Pur se osteggiati, siamo sempre molto apprezzati perché siamo i soli ad avere il coraggio di dire la verità. La nostra informazione vale in quantità ed in qualità più di quella mediaticamente conosciuta. Per questo abbiamo bisogno di sostegno. Più siamo meglio è. Tra le nostre fila non mancano magistrati, o professori universitari, giornalisti, avvocati. Professionisti di livello, che spesso devono tacere i disservizi istituzionali.

Non possiamo cambiare il mondo, ma possiamo far conoscere i suoi aspetti peggiori per poterli correggere.

Sarei lieto di poter intervenire presso incontri organizzati di cittadini o studenti per poter meglio spiegare fisicamente quanto io pubblico mediaticamente, con il solo contributo di copertura delle spese sostenute per la trasferta.

Per quanto riguarda l’argomento in oggetto, c’è da chiarire alcuni aspetti. Sul sito indicato vi sono i temi e gli argomenti trattati in modo generale e territoriale da cui trarre elementi di conoscenza da applicare al caso concreto.

Non è importante il mio giudizio sui singoli casi. Le vittime, in base alle ritorsioni subite da me per la difesa dei più deboli, devono dare per scontato la mia solidarietà. Le vittime sono causa del loro male o della loro fortuna. Le denunce e le battaglie sono croci da portare personalmente. Io sarò lì a dare l’aiuto che manca, ma le vittime devono mettere faccia e firma sugli atti di tutela. Possono attivarsi personalmente, quando la legge lo consente, senza l’ausilio di avvocati, attraverso le indicazioni contenute sul vademecum del sito www.controtuttelemafie.it.  L’assistenza diretta agli associati è riconosciuta solo quando è indispensabile e se vi sono avvocati in loco. Un’altra cosa. Se si vuole che si dia risalto alla vicenda, mi si indichi le fonti giornalistiche che se ne sono occupate. Se non ve ne sono si faccia il giro delle redazioni dei maggiori quotidiani. Si coinvolgano i media riguardo alla faccenda. Se vi è il faro mediatico tutto si muove. Poi penserò io a far diventare la cronaca in storia e a darle rilevanza internazionale. Io sono solo uno scrittore che racconta ai posteri ed ai forestieri la quotidianità italiana. E comunque, non vi sia disperazione, la vita continua e, mal che vada, si inizia daccapo, consci però di aver lottato, non dimenticando mai coloro i quali in questa Italia ingiusta hanno maggiori sofferenze. E comunque, per chi ha voglia di lottare, da noi c’è sempre posto per le persone di buona volontà.

PERCHE’ I DIVERSI SONO EMARGINATI E PERSEGUITATI ??

1 web tv nazionale fatta da centinaia di web tv locali con servizio gratuito di pubblicazione dei filmati per gli aderenti, in cui ogni paese o città si presenta al mondo per incentivare sviluppo economico e sociale per battere l’illegalità: eventi rappresentativi, attività di enti pubblici ed associazioni, aziende, video denunce;

5 siti web associativi, con centinaia di contatti al giorno, in cui si riportano, in modo analitico ed imparziale, per argomento e per territorio, le illegalità impunite e sottaciute, affinché non si ignori o non si dimentichi;

5 siti blog di agenzie stampa a cui accedono centinaia di giornalisti per i loro articoli;

2 social network, in cui è inibita la partecipazione a chiunque usi lo strumento a fini di propaganda politica o diffamatoria;

1 libro denuncia di inchiesta sociologica, sunto dei siti web, richiesto da tante biblioteche comunali e scolastiche.

Tutto ciò non basta per avere visibilità, notorietà e sostegno.

Oscurati dai media, pur essendo un sodalizio nazionale, perché non faziosi e non asserviti alla magistratura ed a questa politica di destra, di centro, di sinistra. Per i giornalisti è meglio il gossip o la faziosità, ovvero leggere le veline giudiziarie e dare la parola ai soliti “parrucconi”.

Ridotti alla fame e all’emarginazione. Decine di processi pretestuosi e ritorsivi a carico per reati di diffamazione a mezzo stampa, sol perché si riporta quanto pubblicato da altre fonti note e credibili. Per il potere devi subire e devi tacere.

Penso di fare la mia parte per cambiare la nostra Italia, ma l’Italia, si lamenta, ma non vuol essere cambiata.

Per questo ci ritroviamo da soli a portare avanti una battaglia di civiltà.

Oggi, impotenti, elemosinando visibilità e solidarietà dalle vittime del sistema, possiamo solo riportare ai posteri una realtà ed una verità che non devono essere dimenticate.

Comunque, noi siamo orgogliosi di essere diversi in una omologazione imperante, dove ognuno è clone di un modello istituzionale destinato all’estinzione.

L’Italia è un caos organizzato, dove la giustizia, si prevede, sia amministrata solo in nome del popolo, ma si omette di legiferare, affinché essa sia amministrata anche per conto ed interesse dei cittadini.

L'Italia dove mai nulla cambia e, semmai succedesse, cambia solo in peggio.

Gli anormali non siamo noi, ma lo è chi accetta tutto ciò, con codardia tacendo.

Il Lettore scettico, disabituato al racconto dei fatti umani senza pregiudizi sociali od ideologici, ovvero conditi da ignoranza od approssimazione, si chiederà: perché leggere questo libro e non la miriade di lavori aventi lo stesso tema, stilati da più o meno autori improvvisati ed estemporanei?

Per prima cosa perché tale opera è citata più di altre nei canali d'informazione come punto di riferimento ed addirittura indicata da Wikipedia come resoconto ufficiale del "Delitto di Avetrana".

Per seconda cosa perché il lettore, assuefatto alla cultura omertosa e censoria imperante, proverà a leggere i fatti, scritti senza peli sulla penna e basati sulla conoscenza diretta: insito nello stile di Antonio Giangrande, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo" da poter leggere gratuitamente sui suoi canali web, in quanto nessun editore ha voluto pubblicare i suoi volumi.

Chi legge questo libro, aggiornato periodicamente e da scoprire fino all'ultima pagina, si immergerà nella vicenda umana con riferimento ai fatti della società italiana che fanno da corollario ai fatti di cronaca, divenuti storia.

Si inizia per dire che....ad Avetrana non è venuto alcun giornalista degno di questa qualifica. Il vero giornalista la notizia la cerca nel luogo dell'evento e la dà al pubblico: certamente non la crea. Egli riporta il fatto e poi, se è capace, dà il commento. Ad Avetrana il commento sul luogo e sull'evento (spesso frutto di pregiudizio e/o ignoranza) è diventato un fatto, oggetto di disquisizioni salottiere!!!

BUONA LETTURA.......

Per rimembrare ed a futura memoria si presenta al mondo la composizione e l'elaborazione di un'opera di didattica e di ricerca senza influenze ideologiche, territoriali e temporali.

Opera di me medesimo, Antonio Giangrande, autore di decine di libri di inchiesta e di denuncia. Scrittore non omologato, quindi osteggiato da media ed istituzioni e per questo poco conosciuto.

La mia ricerca e la mia didattica, non per giudicare, ma per conoscere.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perché "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sé, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità.

L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna.

Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione.

Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento verticale, criminale e vessatorio, di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso e non recedo mai dal dire: la mafia ti distrugge la vita, lo Stato ti uccide la speranza.

Partiamo dall’aspettativa di giustizia che hanno le vittime (ed i loro familiari). La mamma di Sarah, Concetta Spagnolo Serrano, non crede nella giustizia. «La morte di Sarah è un segreto che si porteranno sempre dentro Cosima e Sabrina». Queste alcune delle parole di Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, raccolte dall'inviato di Quarto Grado e in onda su Retequattro alle 21.10 del 7 settembre 2012. «Quel 26 agosto - racconta Concetta Serrano parlando con l'intervistatore del giorno della scomparsa della figlia quindicenne - ho avuto l'impressione che a Sarah fosse accaduto qualcosa di grave, ma non sapevo di preciso cosa. Mai avrei immaginato nulla del genere». «Mia figlia - afferma la donna - è stata vittima della cattiveria di Sabrina e Cosima. Il fatto che mia sorella, insieme alla figlia, abbiano rincorso Sarah, mi fa pensare a qualcosa di più squallido della gelosia. Secondo me oltre a quello ci sono altre cose». «In questi mesi non ho mai avuto il desiderio di parlare con loro semplicemente perché tanto, vigliaccamente, non si assumono le loro responsabilità dicendo la verità. Continueranno sempre con quella versione all'infinito. È una pugnalata quando mi guardano con quegli occhi indemoniati e pieni di scherno. Mi sento tradita e penso che un tempo erano altre persone». «Non so se ci sia ancora poco o molto da scoprire sull'omicidio di mia figlia.

L'importante - dice ancora la donna - è che si arrivi alla verità.

Questo è un segreto che si portano dentro Cosima e Sabrina e non so come facciano a sopportare questo peso atroce sulla coscienza, ammesso che ne abbiano una». La donna conclude parlando del processo e del suo stato d'animo quando si trova in aula: «Quando sono in aula - racconta - mi sembra di perdere il contatto con la realtà. In questi mesi ho assistito alle udienze e sono rimasta profondamente turbata. Mi sembra un processo assurdo, tant'è che spesso mi pongo degli interrogativi e dico: ma questo processo perché si svolge? A chi serve? Chi se ne avvantaggia? La vittima? Non direi proprio». «Se la giustizia deve rendere a ciascuno il suo - conclude Concetta Serrano - a Sarah cosa verrà corrisposto?»

La domanda che sorge spontanea è: cerchiamo giustizia o piuttosto pretendiamo vendetta? Ed una persona di fede che crede nella misericordia divina, può perseguire la vendetta e non la giustizia? E poi quale giustizia: quella pretesa dai media; quella pretesa dalle parti; quella imposta dai magistrati?

Nella trasmissione "Quarto Grado", in onda su Rete 4, è intervenuta  la mamma della povera Sarah, la bimba uccisa due volte: prima dall’omicida e dopo dai media. Pur comprendendo il dolore di una madre a cui viene uccisa una figlia, in modo crudele e da parenti, c'è da dire che la signora ha lanciato una serie di nefandezze. Nessuno le toglie il diritto sacrosanto di pretendere giustizia giusta e  vedersi risarcita per la perdita della figlia.

Tuttavia, questo non la autorizza, in pubblico via Tv, a lanciare proclami di vendetta con parole forti e ancor di più fare ingiusta pubblicità alla setta dei Testimoni di Geova. Proprio lei che afferma che chi invita "zio Michele" nelle trasmissioni tv, lo invita in cerca audience a buon  mercato. Concetta Spagnolo Serrano più volte ha detto che vuole vendetta, che questa vendetta è gradita a Dio Geova. Insomma, un Dio vendicatore e giustiziere, una vera eresia mandata in diretta, senza che nessuno degli ospiti avesse avuto il coraggio di contraddirla. A parere della mamma di Sarah Scazzi, Dio dovrebbe mandare fulmini e saette sugli assassini. Una concezione eretica e blasfema, perché detta da una persona di fede. Quel Dio a cui la signora si riferisce forse è il Dio del vecchio testamento, adorato dai Testimoni di Geova, dagli ebrei e dai mussulmani. Il Dio di Gesù Cristo è Dio fatto da amore puro e  misericordia e sa perdonare, se pentito, anche il peggior delinquente. Se Dio fosse stato come dice la signora, non sarebbe morto di Croce, avrebbe sterminato facilmente i suoi aguzzini.

Bisogna distinguere: Dio non manda mai il male, ma lo permette, quando questa specie di catechismo del male, serve per ottenere un bene. La sparata della signora Scazzi, ci fa riflettere su come la Tv esageri con dibattiti relativi ai delitti, alle morti. Si ascoltano parole in libertà, interviste che potrebbero anche essere frutto di contrattazione e teorie spesso senza fondamento, in quanto nessuno dei soloni, ha letto le carte processuali. Non sarebbe ora di smetterla con questi catechizzatori mediatici, senza arte, ma di parte, che ci lavano il cervello?

Nei fatti di cronaca nera si impreca contro il mostro sbattuto in prima pagina, spinti dall’impeto dell’odio ed in base alle informazioni date per un interesse, quindi spesso distorte od artefatte. Al presunto autore si scaglia l’anatema più grave: affinché egli bruci all’inferno per tutta l’eternità. Inferno è il termine con il quale in ambito religioso, si indica il luogo metafisico (o fisico) che attende, dopo la morte, le anime (o i corpi) degli uomini che hanno rifiutato Dio scegliendo in vita il male ed il peccato. l'Inferno è caratterizzato da estremo dolore, enorme disperazione e tormento eterno. Può essere visto come un luogo metafisico o spirituale che ospita le anime incorporee dei morti, oppure come luogo fisico sede di tormenti altrettanto fisici. L'Inferno costituisce una condizione di dannazione eterna e questa condizione è solitamente assegnata in base alla condotta morale e spirituale che la persona ha tenuto in vita. Certo è che nessuno sa che l’inferno in terra si chiama carcere e che lì dentro vi sono persone, spesso, che non meritano di starci.

E’ una discarica di rifiuti umani, spesso frutto di raccolta differenziata (poveri ed indifesi), la maggior parte senza colpa, o colpa apparente, o comunque non tanto grave da giustificarne la reclusione. Di questo tutti stanno attenti a non parlarne, tanto i delinquenti sono sempre gli altri e meritano quella pena. Ce ne rammarichiamo solo quando in discarica ci andiamo noi, ben pensanti. Solo allora scopriamo che l’inferno in terra è ingiusto, specie se esso a noi perviene dalla giustizia terrena e non da quella divina.

INGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera).

Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.

La MALAGIUSTIZIA è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.

L’INGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!! 

A PROPOSITO DI GIUSTIZIA. QUELLO CHE LA STAMPA NON DICE

Possiamo anche passar oltre al fatto che ancora oggi vi siano leggi fasciste a regolare la nostra vita ed ai catto-comunisti vincitori della guerra civile dell'altro millennio questo va bene, ma il grado di civiltà di una nazione si misura in base alla qualità di giustizia amministrata ed alla misura di rieducazione e del recupero del reo concessa. Eppure la Costituzione prevede

Art. 101.

La giustizia è amministrata in nome del popolo (non per conto).

Art. 27.

La responsabilità penale è personale.

L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte.

L’associazione Ristretti Orizzonti passa al contrattacco e lancia l’allarme: dall’inizio del mese nelle carceri italiane sono morte ben sedici persone. L'ultimo in particolare, si è rivelato decisamente un mese nero per i decessi nelle prigioni, con guardie, detenuti e ufficiali di polizia coinvolti nello stesso atroce destino.

In Italia ad oggi si riscontra un alto grado di ingiustizia corrispondente al gran numero di cittadini detenuti illegittimamente perchè presunti innocenti ovvero non beneficianti delle pene alternative di rito. Magistrati troppo zelanti o troppo superficiali o abbastanza incapaci, ovvero diritto di difesa leso perché comunque dentro qualcuno ci deve andare e se non i più poveri ed indifesi che non possono permettersi l’adeguata difesa legale? Difesi da giovani avvocati d’ufficio che non conoscono le carte e che si attengono alla volontà del giudice!

Carcere e storie di ordinaria ingiustizia, così racconta Michele Minorita su “Notizie Radicali”. Thomas Hammarberg è un tranquillo e posato signore dall’inequivocabile aspetto nordico. E’ infatti nato a Ornskoldsvik, in Svezia, e dopo un passato di politico nel suo paese dal 5 ottobre di sei anni fa ricopre la carica di commissario europeo per i diritti umani del Consiglio d’Europa. L’altro giorno Hammarberg, con il tono amabile di chi sa dire con tranquilla serenità cose gravi ci ha ammonito che “il sovraffollamento delle carceri è un problema europeo da prendere molto sul serio e che si potrebbe alleviare riducendo la detenzione preventiva. Per esempio, in Italia il 42 per cento dei detenuti sono ancora in attesa di giudizio o della sentenza d’appello. Quindi, non essendo ancora provata la loro colpevolezza, dovrebbero essere considerati innocenti. Se le carceri sono sovraffollate è perché troppe persone vi vengono rinchiuse in detenzione provvisoria”. Analisi impietosa, schiaffo sonoro, una vera e propria requisitoria: “La carcerazione in attesa di giudizio”, prosegue Hammarberg, “può essere giustificata solo dalla necessità di un approfondimento di indagine, dal timore di inquinamento delle prove o da un reale pericolo di fuga. La detenzione provvisoria deve essere considerata una misura straordinaria. La Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, raccomanda di ricorrervi solo in casi eccezionali e di riconsiderarne continuamente la necessità”. Accade invece che quella della detenzione preventiva sia diventata una è una pratica abituale e abusata. La media europea è del 25%: si va dall’11% nella Repubblica Ceca al 42% dell’Italia. L’eccessiva durata della carcerazione preventiva costituisce un altro gravissimo problema. “Più di una volta la Corte europea dei Diritti dell’Uomo”, dice Hammarberg, “ha esaminato ricorsi di persone rimaste in prigione per quattro, cinque e addirittura sei anni prima del giudizio e non sempre in condizioni umanamente accettabili”. Al di là degli irrisarcibili e incalcolabili costi umani, le conseguenze socio-economiche della detenzione preventiva sono a dir poco più disastrose: “Il più delle volte chi la subisce perde il posto di lavoro, è costretto a vendere i propri beni per il sostentamento della famiglia o viene sfrattato dall’alloggio che occupa. Anche se, poi, viene accertata la sua innocenza, il solo fatto di essere stato in carcere gli condiziona il resto della vita. È incredibile che i governi europei non prendano provvedimenti per prevenire questi inconvenienti e correggere un sistema carcerario che, per di più, è costosissimo, oltre che affollato. Perché non adottare soluzioni alternative più efficaci e convenienti, come arresti domiciliari o libertà sotto cauzione?”. Lo scandalo “generale” è costituito da tanti “piccole” quotidiane vicende emblematiche. Il problema del sovraffollamento delle carceri non è privilegio della sola Italia, è questione con cui devono fare i conti più o meno tutti i paesi europei. Altrove per chi si è macchiato di reati “lievi” fanno ricorso ad alternative alla cella; per esempio, il “braccialetto elettronico”. Ci abbiamo provato anche noi.

Era ministro dell’Interno Enzo Bianco, governo di centro-sinistra, anno 2001. Lo Stato stipulò con la Telecom un contratto: 110 milioni per 400 braccialetti elettronici, fino al 2011. Abbiamo pagato per tutti questi anni. Quanti di questi “braccialetti” sono stati applicati? Appena una decina. Fatevi un po’ voi i conti: oltre un milione di euro a braccialetto per anno. Oggi forse non funzionano neppure quelli. La Gran Bretagna lo usa su 50mila adulti condannati o imputati, spendendo un quinto rispetto alla detenzione tradizionale. Alzi la mano chi sa spiegare perché quello che funziona a Londra, risulta inefficiente a Roma? Un’occhiata, ora alla questione dei “costi”. Per il vitto di ciascuno dei circa 70mila detenuti l’amministrazione penitenziaria spende tre euro e 70 centesimi: colazione, pranzo, cena. Non essendo la matematica un’opinione, i casi sono due: o la ditta appaltatrice ha trovato la ricetta miracolosa per sfamare con pochi centesimi e insieme ritagliarsi un margine di guadagno per il servizio che fornisce; oppure il guadagno deriva da altro. Buona la seconda, evidentemente. Non c’è infatti detenuto che, potendo, non faccia la sua “personale” spesa rivolgendosi agli “spacci” presenti in ogni carcere, per integrare il menù quotidiano che passa l’amministrazione. E qui arriva la mazzata, perché è nel servizio di "sopravvitto", fornito in regime di monopolio, che risiedono i veri utili, realizzati sulle tasche del detenuto, che ovviamente non può fare acquisti all’esterno del carcere. La vicenda è finita in Parlamento. La deputata Rita Bernardini, vera e propria pasionaria delle carceri ha denunciato la cosa, ottenendo che il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria disponesse un’indagine sui costi del sopravvitto, che, dice il capo del DAP Franco Ionta "non possono in alcun modo essere superiori a quelli che il detenuto sosterrebbe se stesse fuori dal carcere". Una circolare inoltre dispone la diversificazione dell’offerta e la costante verifica della congruità dei prezzi. Vedremo gli esiti concreti. E intanto quotidiane vicende di “ordinaria” ingiustizia. Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni racconta il caso di un detenuto olandese, si chiama Winterdaal. Deve scontare quattro anni di carcere, condannato per traffico di droga. Winterdaal chiede di poter scontare la pena nel suo paese. Niente da fare: una ritardata notifica fino a questo momento ha reso inutile il parere favorevole della Corte d'Appello di Roma. Secondo quanto ricostruisce il Garante, l'uomo era stato arrestato tre anni prima, nel 2008, come corriere per l'importazione in Italia di cocaina. All'inizio del 2010 Winterdaal chiede alle autorità italiane di poter scontare la pena in un carcere olandese, diritto che gli viene riconosciuto, nel marzo 2011, dalla IV sezione della Corte di Appello di Roma. “Nonostante ciò, per colpa di una banale disattenzione”, racconta Marroni, “l'ordinanza della Corte d'Appello è stata notificata solo a giugno, perché un ufficiale giudiziario ha erroneamente certificato che l'uomo non era recluso a Regina Coeli ma in carcere calabrese”. Un ritardo che ha avuto gravi conseguenze: “la giustizia olandese”, dice Marroni, “non consente l'estradizione per pene inferiore ai sei mesi che, guarda caso, è il residuo della pena che deve ancora scontare Winterdaal. E fino a questo momento a nulla sono valsi i solleciti e le istanze presentate dal suo avvocato per tentare di far accertare l'errore commesso”.

Una vicenda emblematica della situazione in cui si trova il sistema giudiziario italiano: “Di fronte ad uno stato di crisi causato da sovraffollamento e carenza di risorse” osserva Marroni, “anziché snellire le procedure il sistema sembra arrendersi fatalmente alla burocrazia. E' così, da mesi, lo Stato continua a pagare il mantenimento in carcere di un uomo che da tempo doveva stare in un istituto olandese”. Un’altra vicenda paradossale è quella che viene raccontata da una donna di Vicenza: “Sono una madre di 30 anni e il mio compagno si chiama Franco, ha 44 anni e nel 1997, quando ancora non ci conoscevamo ha commesso reati di riciclaggio e ricettazione finendo in galera. Ora dopo 14 anni, aveva un residuo di pena di 2 anni 4 mesi e 23 giorni e così il 13 gennaio 2011 è stato portato di nuovo in carcere. Le sofferenze che ho passato e che sto passando sono quotidiane, basti pensare che il suo Denis Santiago (è il nome del nostro primo bimbo) ha soffiato la sua prima candelina senza il papà, le spese da affrontare sono molteplici, spese legali, mantenimento mio e del bimbo e mantenimento di Franco in carcere. Ora la legge dice che sotto i 2 anni uno può chiedere misure alternative al carcere e così il 6 giugno Franco si trova con quei requisiti, tramite avvocato facciamo istanza per fissare la data in cui il magistrato può valutare la situazione e concedere la detenzione domiciliare”. Bene, quando è stata fissata l'udienza? Il 6 dicembre 2011. Così Franco si deve fare 11 mesi in carcere. Dice la donna: “C'è gente che ubriaca per strada ammazza e il magistrato la fa tornare a casa dalla propria famiglia mentre Franco per aver commesso reati di riciclaggio e ricettazione 14 anni fa si trova in carcere da sette mesi con una famiglia che a casa ha bisogno di lui e del suo sostegno, con un figlio che chiama sempre "papà, papà" e bacia la sua foto e con una compagna che all'ottavo mese di gravidanza non sa ancora se potrà partorire con il proprio compagno accanto. Io so di essere impotente di fronte a questa ingiustizia, ma il mio vuole essere un appello a chi potrebbe far qualcosa perché questa situazione cambi, poi si parla di sovraffollamento delle carceri e si continua a tenere dentro chi veramente non merita. Grazie per avermi ascoltato”.

Questa la situazione, questi i fatti.

Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia di Ilaria Cavo, che si è occupata anche del caso del delitto di Sarah Scazzi, è uno dei tanti libri scritti per il pianeta giustizia. Un mondo volutamente inesplorato per interesse politico: l'arma del giustizialismo porta voti ed i forcaioli sono sempre di più, fino a che la forca non è dedicata a loro. La trama di Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia. Un professionista dalla vita tranquilla, Ennio Paolucci, ingegnere dell'Anas, vittima di innumerevoli e interminabili processi e additato come responsabile di incidenti dovuti invece a tragiche fatalità. Un pensionato dall'esistenza irregolare, Sandro Vecchiarelli, erroneamente incriminato per la scomparsa di una giovane amica, Chiara Bariffi, nelle acque del lago di Como. Un ragazzo irreprensibile, Melchiorre Maganuco, che vive in una realtà sociale dove forte è la presenza della malavita, coinvolto in un'inchiesta per traffico di droga soltanto perché, in assoluta buona fede, aveva conoscenze e numeri di telefono "sbagliati". Un carabiniere infiltrato, Gian Mario Doneddu, accusato di complicità con i criminali che era impegnato a sgominare. Un padre incarcerato per più di tre anni per violenze mai commesse sulla figlia e assolto con un processo di revisione solo dopo aver scontato l'intera pena. Ilaria Cavo ha sottratto all'anonimato una serie di vicende kafkiane in cui cittadini innocenti finiscono per sbaglio sul banco degli imputati con accuse talora gravissime, che sfociano di frequente, oltre che in un estenuante processo, anche in un'ingiusta detenzione. Un penoso e umiliante iter giudiziario, durato a volte moltissimi anni, prima di arrivare a una sentenza di assoluzione, ma spesso fuori tempo massimo e senza un adeguato risarcimento per il danno subito. Nelle diverse inchieste, sostiene l'autrice, si riscontrano "errori non voluti ed errori invece evitabili...

Naturalmente la stampa ha tutto l'interesse a minimizzare gli errori dei magistrati ed a sminuire le mancanze amministrative. Questione di lana caprina? Dipende....da chi è là dentro ad essere recluso.

Di seguito si riporta l'interrogazione a risposta scritta dell'On. Rita Bernardini del Partito Democratico (Radicale). E' per il Carcere di Taranto, ma è come se valesse per tutte le carceri d'Italia.

"Al Ministro della Giustizia,

Lunedì 20 agosto 2012 l’interrogante ha effettuato una visita di sindacato ispettivo alla Casa Circondariale “Carmelo Magli” di Taranto accompagnata dagli esponenti radicali Maurizio Bolognetti e Maria Antonietta Ciminelli; la visita, durata molte ore, è stata guidata dalla Direttrice Stefania Baldassarri e dal Comandante Giovanni Lamarca;

l’Istituto tarantino ha in carico 595 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 200 posti, sebbene sul sito internet del ministero della giustizia sia indicata una ricettività legale di 315 posti; i detenuti in attesa di primo giudizio sono 153 mentre coloro che scontano una sentenza definitiva di condanna sono 318; in Alta sicurezza sono ristretti in 103; ben presto, con la ripresa, dopo la pausa estiva, dell’attività giudiziaria, l’istituto tornerà alla media dei 700 detenuti presenti; il 40% degli ospiti sono tossicodipendenti e, fra questi, 20 sono in trattamento metadonico;

il carcere di Taranto, entrato in funzione a metà degli anni 80, presenta molte problematiche strutturali, date le scarse risorse destinate centralmente per la manutenzione sia ordinaria che straordinaria: alcune aree risultano transennate perché pericolanti; alcune sale colloqui hanno ancora il muretto divisorio: una di esse è definita “la pescheria” per il cattivo odore che emana l’ambiente sovraffollato all’inverosimile; il percorso per i familiari (bambini e persone anziane comprese) che si appresentano ad incontrare il congiunto detenuto, è sotto il solleone (o con la pioggia, d’inverno) o con coperture, come quella della pensilina prossima all’ingresso, che dovrebbero essere coibentate essendo “roventi” d’estate e con infiltrazioni d’acqua nella stagione delle piogge; per mancanza di spazi, l’ex campo sportivo è stato diviso in due e adattato a passeggio per le ore d’aria: un deserto polveroso privo di servizi e di approvvigionamento di acqua; la casa circondariale è destinataria del piano carceri per la costruzione di un padiglione da 200 posti i cui lavori sono ancora nella fase di aggiudicazione attraverso gara; all’interno dell’area c’è però un padiglione a 48 posti inutilizzato perché per metterlo in funzione - magari per una custodia attenuata come suggerisce la direttrice - oltre al personale, occorrerebbero modifiche strutturali essendo stato concepito per ospitare detenuti malati di aids; un’altra nota dolente, riguarda la caserma degli agenti dove c’è un piano intero transennato e dove le stanze per il pernottamento degli agenti sono addirittura peggiori delle celle di detenzione; nell’istituto non c’è l’area verde per gli incontri della popolazione detenuta con i figli minori; mancano del tutto spazi per attività sportive e ricreative e il teatro non viene utilizzato a causa della carenza di personale e della mancanza di fondi da destinare alle attività trattamentali; la biblioteca, invece, è ben fornita anche grazie ad una donazione di libri effettuata un anno e mezzo fa da parte della Presidenza del Consiglio;

fra le celle visitate ci sono quelle della sezione A, ubicata al primo piano: il sovraffollamento è evidente considerato che in celle di circa 10 metri quadrati sono ospitati tre detenuti e, a volte, anche quattro;

il corpo degli agenti di Polizia Penitenziaria ha un deficit di organico pari a 40 unità; dei 357 agenti previsti dal D.M. dell’8/2/2001, ne risultano effettivamente assegnati 317 di cui 53 impiegati presso il Nucleo traduzioni e piantonamenti;

la situazione degli automezzi del Nucleo Traduzioni è disastrosa a causa della sospensione della manutenzione ordinaria per mancanza di fondi; inoltre capita che le scorte siano sottodimensionate e che a volte non si possano nemmeno rimborsare i buoni-pasto; a proposito dei vari tipi di traduzione, risulta veramente uno spreco la scorta per accompagnare i detenuti ai domiciliari: tre uomini che fanno sostanzialmente i “tassisti” per un servizio che potrebbe essere semplicemente abolito visto che il detenuto, se decide di contravvenire a quanto prescritto dalla legge, può “evadere” da casa un momento dopo essere stato accompagnato ai domiciliari; spesso queste traduzioni prevedono viaggi lunghissimi anche di centinaia di chilometri per raggiungere comunità per tossicodipendenti o domicili situati nelle regioni settentrionali;

l’area educativa risulta sottodimensionata essendo costituita da un responsabile e da 4 educatori; anche l’assistenza psicologica è carente se consideriamo che è portata avanti da 2 psicologi ex art. 80 che fanno in tutto 78 ore mensili e da una psicologa ASL che fa 60 ore e che si occupa esclusivamente dei nuovi giunti;

la prima firmataria del presente atto intende sottolineare – perché non accade quasi mai nelle altre visite ad istituti penitenziari - l’ottimo rapporto del magistrato di sorveglianza sia con la direzione e il comando dell’istituto sia con la popolazione detenuta: non è un caso che sotto ferragosto siano stati concessi circa 80 permessi premio e che la legge 199/10 abbia riscontrato un esito positivo per oltre 200 detenuti che hanno avuto la possibilità di scontare gli ultimi mesi di pena ai domiciliari;

molti dei detenuti trascorrono 20 ore della giornata in cella; 100 in media sono infatti coloro che durante l’anno frequentano un corso scolastico (medie e superiori), 85 sono i posti di lavoro disponibili a rotazione ogni sei mesi e 5 coloro che sono ammessi al lavoro esterno; a differenza di altri istituti è molto positivo il fatto che le mercedi non siano solo simboliche e che i lavoranti riescano a guadagnare intorno ai 6/700 euro al mese; buono è il rapporto con il cappellano che, gestendo una casa famiglia, è disponibile a fornire l’alloggio a quei detenuti, soprattutto stranieri, che non hanno un domicilio per poter scontare a casa il residuo periodo di pena come previsto dalla legge 199/2010 e successive modificazioni; Il volontariato è presente con due associazioni mentre il rapporto con le istituzioni – Provincia e Comune – è connotato dall’assoluta mancanza di collaborazione quasi a significare che il carcere sia un corpo estraneo inserito nella città;

ai detenuti è consentito fare la doccia a giorni alterni per contenere i consumi idrici a causa dell’ingente debito che l’Amministrazione Penitenziaria ha con l’Acquedotto Pugliese S.p.A.;

Fra i casi particolari, si segnalano:

A.S. (Antonio Savonelli), proveniente dal reparto psichiatrico dell’Ospedale Moscati di Taranto, si trova in carcere a causa di un residuo pena di un mese e 20 giorni per poi tornare presso la Comunità Il Delfino dove è assegnato;

E.D.B. (Eva Di Benedetto), ha il fine pena fra sette anni e ha fatto richiesta di trasferimento a Rebibbia o a Civitavecchia per poter fare un valido percorso riabilitativo visto che ha due figli minori ospitati in istituti; non fa colloqui da dicembre, cioè da quando è venuta via da Teramo;

G.C. (Giovanna Cavaliere), ha presentato istanza di trasferimento al Carcere di Pozzuoli; suo marito è morto suicida;

M.B. (Marina Buzdugan) è una ragazza rumena di 22 anni che scoppia in lacrime non appena le chiediamo come stia; orfana di madre, è venuta in Italia prima di Pasqua con il suo ragazzo che l’ha coinvolta in una rapina nella città di Bari; è spaventata e afferma di non essere mai stata in carcere e di non conoscere nessuno nel nostro paese né di sapere alcunché della sua posizione processuale perché ha visto il suo avvocato d’ufficio una sola volta; direttrice e comandante si occuperanno della sua vicenda soprattutto sotto l’aspetto della difesa legale:-

quale sia effettivamente la capienza regolamentare del carcere di Taranto e cosa intenda fare per urgentemente riportare la popolazione detenuta ai livelli di ricettività legali, secondo quanto previsto dall’Ordinamento Penitenziario e dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo;

cosa intenda fare per rimuovere le illegalità strutturali degli edifici dell’intero complesso della casa circondariale di Taranto, tenuto presente che alcune criticità evidenziate in premessa rischiano di mettere in pericolo la salute e la vita del personale e dei detenuti;

a quando risalga e cosa vi sia scritto nell’ultima relazione della ASL di competenza in merito alle condizioni strutturali degli edifici anche sotto il profilo igienico-sanitario;

se intenda immediatamente provvedere a stanziare fondi per la manutenzione straordinaria così da fronteggiare i problemi più urgenti e se intenda ripristinare i fondi pressoché esauriti della manutenzione ordinaria;

cosa intenda fare per incrementare il budget destinato alle attività trattamentali e per ripianare il debito verso l’Acquedotto Pugliese S.p.A così che, fra l’altro, i detenuti possano farsi la doccia tutti i giorni;

quanto al Corpo degli Agenti di polizia penitenziaria, se intenda intervenire per ripristinare l’organico, per rimettere in funzione il parco macchine e furgoni del Nucleo traduzioni e per ristrutturare il piano oggi transennato e chiuso degli alloggi della caserma agenti;

se intenda raccogliere il suggerimento di evitare l’accompagnamento dei detenuti allo loro abitazione (o altro luogo specificato nei provvedimenti quale una comunità terapeutica o una casa-famiglia) quando accedano al beneficio della detenzione domiciliare;

se intenda incrementare il personale dell’area trattamentale e dell’assistenza psicologica;

se intenda valutare, per estenderle magari a livello nazionale, le buone pratiche della Magistratura di sorveglianza di Taranto;

se intenda in qualche modo intervenire per assicurare effettivamente l’assistenza legale ai detenuti, soprattutto stranieri, sprovvisti di avvocati di fiducia;

cosa intenda fare per i casi segnalati in premessa."

Naturalmente tutto questo è rimasta lettera morta.

Perché nessuno parla di carceri, si chiede Roberto Saviano su “L’Espresso". Le condizioni di vita dei detenuti e degli agenti di custodia sono ai limiti di ogni immaginabile umanità. Ma la questione viene ignorata da tutti. E viene il sospetto che creare una 'discarica della democrazia', in fondo, a qualcuno sia molto utile. Che fare per interrompere subito il crimine in corso?", vorrebbe domandarmelo la parlamentare radicale eletta nelle liste del PD Rita Bernardini. E vorrebbe farlo mentre insieme a lei – è un invito che accetto volentieri – visitiamo una delle tante carceri italiane in cui le condizioni di vita dei detenuti e di lavoro del personale sono ai limiti di ogni immaginabile umanità. Cara Rita Bernardini ciò che scrive mi è noto, anzi, per quanto io possa forse essere inviso in alcuni penitenziari per le mie origini campane, per aver "tradito" scrivendo Gomorra la mia situazione di reclusione mi porta ad avere una certa empatia di fondo per chi la propria libertà l'ha persa e magari è ancora in attesa di un giudizio. LA CONSAPEVOLEZZA che 66.500 detenuti e molta parte del personale penitenziario (ogni due mesi, in Italia, un agente di custodia si toglie la vita) vivano condizioni inumane, che il carcere non riesca a essere rieducazione e reinserimento ma solo privazione, punizione e tortura, mi porta, appena possibile, a dare voce alla nostra indignazione. Ho approfittato di qualunque spazio a mia disposizione. Ho parlato di carceri in recensioni, sui social network, in televisione e la reazione più comune è stata "Saviano, smetti di occuparti dei delinquenti, pensa alle persone per bene".

Scrivo di tossicodipendenza? Mi si risponde che farei meglio a parlare di disoccupazione che di drogati. Parlo di Laogai? Sbaglio, la Cina è lontana: dovrei pensare all'Italia. Mi permetto di dire che esiste una Israele che è anche altro rispetto alle politiche dei suoi governi? Che non è solo guerra, così come per venti lunghi anni l'Italia non è stata solo Berlusconi o mafie? Mi danno del sionista. Del tuttologo. "Parla di camorra, Saviano". Ma la vita non è a compartimenti stagni. Non dovrebbero esistere temi di cui non ci si possa o debba occupare. Allora una cosa l'ho capita. Una cosa semplice e dolorosamente vera nella sua semplicità. Una cosa che non deve scoraggiare, ma solo darci la dimensione del problema, che è molto più grave di quanto non appaia. In Italia necessitiamo di una discarica dove confinare tutto ciò che la nostra democrazia crede sia il peggio che abbia prodotto e da cui costantemente desidera distogliere l'attenzione: il carcere, per intenderci, ci è utile. In carcere mettiamo tutti i problemi che non vogliamo affrontare e risolvere. Mettiamo tutta la "spazzatura indifferenziata" (delinquenti comuni, assassini, tossicodipendenti, piccoli e grandi spacciatori, già condannati o in massima parte in attesa di giudizio) con la quale non vogliamo fare i conti. "Spazzatura" che se non trattata finirà per travolgerci. E io, da campano, di emergenze rifiuti incistate, trascurate, sfruttate, ne so abbastanza. Oggi la Campania è una terra che arde di rifiuti tossici, con falde acquifere e mare inquinati.

Ci sono paesi dai quali le persone, pur amandoli, se possono fuggono per non ammalarsi. Ecco cosa sta diventando l'Italia, una terra dalla quale è meglio fuggire, una terra in cui l'unica occupazione del momento sembra essere quella di ridisegnare con ogni mezzo lo scenario elettorale, le alleanze o meglio le accozzaglie, con cui dovremo fare i conti da qui a qualche mese.

Giornalisti e celebri giuristi, costantemente impegnati in questo, restano indifferenti al decesso del nostro sistema giudiziario, vero problema per noi che in Italia ci viviamo e per chi in Italia potrebbe decidere di investire. LO SPERIMENTIAMO ogni giorno sulla nostra pelle e ancor più lo vivono sulla loro, le migliaia di detenuti e operatori carcerari abbandonati da tutti. Ma è evidente che i problemi non si vogliono risolti: le carceri rimarranno la cloaca che sono e senza informazione le persone continueranno a pensare e a dirmi che dovrei "piuttosto" occuparmi d'altro. La giustizia non si riformerà, perché è più utile così com'è, e all'occorrenza utilizzarla per ridisegnare gli orizzonti politici, sempre troppo angusti, del nostro Paese. Allora per una volta, questo lusso decido di prendermelo io e vi domando: ma perché non vi occupate "piuttosto" un po' tutti di carceri? Per scoprire magari che risolvere il problema dei "rifiuti", in fondo, potrebbe anche convenirvi.

Già parlarne da intellettuali liberi è una cosa, essere trattati come pezza da piedi e non alzare il dito contro i magistrati per indicare la causa di palesi ingiustizie è un'altra cosa.

MA IN CHE MANI SIAMO? Ha fatto un'affermazione «politica» il pm di Palermo Antonio Ingroia invitando i cittadini a cambiare la classe dirigente. E con il collega Di Matteo avrebbe dovuto «dissociarsi» dal «plateale dissenso» espresso alla Festa del Fatto quotidiano nei confronti del Capo dello Stato. Lo dice all'Ansa il presidente dell'Anm Rodolfo Sabelli. Sabelli contesta a Ingroia anche questo punto: «Tutti i magistrati, e soprattutto quelli che svolgono indagini delicatissime devono astenersi da comportamenti che possono offuscare la loro immagine di imparzialità, cioè da comportamenti politici». E con il suo invito a cambiare la classe dirigente del Paese, «Ingroia si è spinto a fare un'affermazione che ha oggettivamente un contenuto politico»; con il rischio così di «appannare» la sua immagine di «imparzialità». Ingroia ha anche sbagliato, come pure Di Matteo, ad assistere in silenzio alla «manifestazione plateale di dissenso nei confronti del capo dello Stato», che c'è stata alla Festa del Fatto quotidiano: «In una situazione così un magistrato deve dissociarsi e allontanarsi», aggiunge Sabelli, che invita tutti i magistrati «a evitare sovraesposizioni» e a «non mostrarsi sensibili al consenso della piazza».

E il giudice si tolse la toga: "Non sopportavo più l’idiozia di troppi colleghi". Per 42 anni al servizio dello Stato, 80mila sentenze e mai un giorno d’assenza.  Sei volte davanti al Csm per le critiche alla corporazione: "Sempre prosciolto". Edoardo Mori, l’emblema di un sistema che non garantisce e non tutela i diritti dei cittadini, così viene raccontato da Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Magistrati, alzatevi! Stavolta gli imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la toga, disgustato dall’impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di giustizia.

«Sarei potuto rimanere fino al 2014, ma non ce la facevo più a reggere l’idiozia delle nuove leve che sui giornali e nei tiggì incarnano il volto della magistratura. Meglio la pensione». Per 42 anni il giudice Mori ha servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a parte la settimana in cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima per otto anni pretore a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice istruttore, giudice per le indagini preliminari, giudice fallimentare (il più rapido d’Italia, attesta il ministero della Giustizia), nonché presidente del Tribunale della libertà, a Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi contro i terroristi sudtirolesi, ha giudicato efferati serial killer come Marco Bergamo (cinque prostitute sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto giurisprudenziale a esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro. Con un’imparzialità e una competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici. Ovviamente se n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da podestà di Zeri, in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito Mussolini, divenne antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati inglesi venuti a liberare l’Italia. Mori confessa d’aver tirato un sospirone di sollievo il giorno in cui s’è dimesso: «Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Da sempre studioso di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è probabilmente uno dei rari magistrati che già prima di arrivare all’università si erano sciroppati il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi (1910) e il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire di paghetta le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi, interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice delle armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei brocardi latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati come se fossero tre dei 73 libri della Bibbia.

Nato a Milano nel 1940, nel corso della sua lunga carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra sentenze e provvedimenti, avendo la soddisfazione di vederne riformati nei successivi gradi di giudizio non più del 5 per cento, un’inezia rispetto alla media, per cui gli si potrebbe ben adattare la frase latina che Sant’Agostino nei suoi Sermones riferiva alle questioni sottoposte al vaglio della curia romana o dello stesso pontefice: «Roma locuta, causa finita». Il dato statistico può essere riportato solo perché Mori è uno dei pochi, o forse l’unico in Italia, che ha sempre avuto la tigna di controllare periodicamente com’erano andati a finire i casi passati per le sue mani: «Di norma ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto - ragiona - provvederà semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati inesperti. Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti». Soprattutto, se il giudice sbaglia, non paga mai. «La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». Il dottor Mori parla con cognizione di causa: ha dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e tutti per aver criticato l’operato di colleghi arruffoni e incapaci. «Dopo aver letto una relazione scritta per un pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto condannare un innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di scrivere al procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo a una gran brutta figura. Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a prosciogliermi.

Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver offuscato l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era stato condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché, quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me ne fregava più nulla».

Perché ha fatto il magistrato? «Per laurearmi in fretta, visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un po’ in tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica, scienze naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi documentavo sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che nessuno capiva. Be’, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni Falcone».

Il magistrato trucidato con la moglie e la scorta a Capaci. «Mi portò al Csm a parlare di armi e balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti dei periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani. Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai Pm: ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università romana, è riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio, elemento chimico non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema solare e prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10 grammi».

Per quale motivo i pubblici ministeri scambiano i periti per oracoli? «Ma è evidente! Perché i periti offrono ai Pm le risposte desiderate, gli forniscono le pezze d’appoggio per confermare le loro tesi preconcette. I Pm non tollerano un perito critico, lo vogliono disponibile a sostenere l’accusa a occhi chiusi. E siccome i periti sanno che per lavorare devono far contenti i Pm, si adeguano».

Ci sarà ben un organo che vigila sull’operato dei periti. «Nient’affatto, in Italia manca totalmente un sistema di controllo. Quando entrai in magistratura, nel 1968, era in auge un perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato un microscopio abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra mondiale. Per ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale basta essere iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è sempre la possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di pietà. Ci sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione, ottengono dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello vanno a far danni nelle aule di giustizia».

Sono sconcertato. «Anche lei può diventare perito: deve solo trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali rigurgitano di tuttologi, i quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi materia, dalla grafologia alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una laurea. Nel mondo anglosassone vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia dei diritti dell’imputato che, se in un processo si scopre che un perito ha commesso un errore, scatta il controllo d’ufficio su tutte le sue perizie precedenti, fino a procedere all’eventuale revisione dei processi. In Italia periti che hanno preso cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm recidivi e imperterriti, come se nulla fosse accaduto».

Può fare qualche caso concreto? «Negli accertamenti sull’attentato a Falcone vennero ricostruiti in un poligono di tiro - con costi miliardari, parlo di lire - i 300 metri dell’autostrada di Capaci fatta saltare in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già avrebbe potuto dire a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato. È chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero 500 o 1.000 chili. Molto più interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto costruito oltre vent’anni prima. Conclusione: quattrini gettati al vento. Nel caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un sedile dell’aereo e questa perizia ebbe a influenzare tutte le successive pasticciate indagini, orientate a dimostrare che su quel volo era scoppiata una bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità esplosiva?».

Prego. Sono rassegnato a tutto. «Per anni fior di magistrati hanno cercato di farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi attentati attribuiti all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido 904 nel 1984, era stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da un’isoletta, Trimelone, davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco, militarizzata fin dal 1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per la strage di Bologna l’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti s’avvide che uno degli esplosivi, asseritamente contenuti nella valigia che provocò l’esplosione e che pareva fosse stato ripescato nel Benaco dai terroristi, era in realtà contenuto solo nei razzi del bazooka M20 da 88 millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un po’ dura dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945».

Ormai non ci si può più fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura rimediata dagli inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher. «Si dice che questo esame presenti una probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta su un database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate fuori ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui uno degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima per capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile e monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente dal primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che sul gancetto del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla Vecchiotti, una delle perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le eventuali impronte genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata meglio a Cogne».

Cioè? «In altri tempi l’indagine sulla tragica fine del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza giornata. Gli infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti non erano stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non consente errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il meno possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato nel caso Marta Russo».

Si riferisce alle prove balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile dell’Università La Sapienza di Roma? «E non solo. S’è preteso di ricostruire la traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il foro d’ingresso del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi poteva rivolgersi in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di geometria del ginnasio non si studiava che per un punto passano infinite rette? Dopodiché sono andati a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e hanno annunciato trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato che si trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria della capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è stata interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver visto in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno che si comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per violenza privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica sicurezza, anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un ex poliziotto».

Un sistema che ha fatto scuola. «La galera come mezzo di pressione sui sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un moderno strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere».

Che cosa pensa delle intercettazioni telefoniche che finiscono sui giornali? «Non serve una nuova legge per vietare la barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è perfetta, perché ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine e di distruggere le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da omissis in fase di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una sanzione penale per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In Germania, invece, esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo stravolgimento del diritto da parte del giudice».

Come mai la giustizia s’è ridotta così? «Perché, anziché cercare la prova logica, preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche dimostrano invece che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è assurdo andare in cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro il rasoio di Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam».

In un ragionamento tagliare tutto ciò che è inutile. «Appunto. Le regole logiche da allora non sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. Il “cui prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva interesse a uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato l’amante, o è stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato dopo 20 anni dal cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri, ovvio. In molti casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi sia l’autore di un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza schiaffando in prigione i sospettati».

Ma perché si commettono tanti errori nelle indagini? «I giudici si affidano ai laboratori istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li nascondono sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di Ettore Grandi, diplomatico in Thailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la moglie che invece si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18 perizie medico-legali inconcludenti».

E si ritorna alla conclamata inettitudine dei periti. «L’indagato innocente avrebbe più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti».

No, no, non mi risparmi nulla. «Vengono pagati per ogni singolo elemento esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente umido, considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov nuovi, ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov. I 700-800 fucili mitragliatori sono stati computati come altrettanti reperti. Parcella da centinaia di migliaia di euro. Per fortuna è stata bloccata prima del pagamento».

In che modo se ne esce? «Nel Regno Unito vi è il Forensic sciences service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i maggiori esperti in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60 Stati esteri. Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e impiega 2.500 persone, 1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta autorità a livello mondiale».

E per le altre magagne? «In Italia non esiste un testo che insegni come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi interroga non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino intendere ciò che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato dettagli sulle indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui l’inquisito deve rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di questa regola elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo interrogatorio di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco perché il Pm parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli scampoli di conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci sarebbe molto da dire anche sulle autopsie».

Ci provi. «È ormai routine leggere che dopo un’autopsia ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si riesumano addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il primo medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli esami autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai visto un cadavere in vita loro».

Ma in mezzo a questo mare di fanghiglia, lei com’è riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi? «Mi consideri un pentito. E un corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione preventiva, ma l’ho fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i pregiudicati, mai con un cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per sempre. Mi autoassolvo perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo, tutti hanno dovuto riconoscerlo».

Non è stato roso dal dubbio d’aver condannato un innocente? «Una volta sì. Mi ero convinto che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una rapina. Mi fidai troppo degli investigatori e lo tenni dentro per quattro-cinque mesi. Fu prosciolto dal tribunale».

Gli chiese scusa? «Non lo rividi più, sennò l’avrei fatto. Lo faccio adesso. Ma forse è già morto».

Intervistato sul Corriere della Sera da Indro Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in pensione, il presidente della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre dell’ex procuratore di Mani pulite, osservò che «in uno Stato bene ordinato, un giudice dovrebbe, in tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza, studiare una causa sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una dichiarazione d’incompetenza». «In Germania o in Francia non si parla mai di giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce i loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia».

Si dice che il giudice non dev’essere solo imparziale: deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega che arriva in tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa testata perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato. «Ho smesso d’andare ai convegni di magistrati da quando, su 100 partecipanti, 80 si presentavano con La Repubblica e parlavano solo di politica. Tutti espertissimi di trame, nomine e carriere, tranne che di diritto».

Quanti sono i giudici italiani dai quali si lascerebbe processare serenamente? «Non più del 20 per cento. Il che collima con le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80 per cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo saggio Il potere della stupidità».

Perché ha aspettato il collocamento a riposo per denunciare tutto questo? «A dire il vero l’ho sempre denunciato, fin dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente sul mensile Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa».

Perché, noi poveri mortali, ci felicitiamo delle disgrazie altrui?

La risposta la dà Anna Meldolesi su “Il Corriere della Sera”. Gli americani a volte usano l’espressione «Roman holiday», con un chiaro riferimento ai crudeli giochi gladiatori. I tedeschi hanno un termine ancora più preciso per descrivere la gioia malevola che si può provare davanti alle sofferenze degli altri. Schadenfreude. È il rovescio della medaglia dell’empatia, e probabilmente il più vigliacco dei sentimenti. In italiano non esiste una parola del genere, ma non c’è dubbio che anche noi siamo capaci di avvertire un perverso piacere quando vediamo cadere qualcuno nel fango. Tanto più se era potente e riverito prima di finire in disgrazia, e se a difenderlo non c’è rimasto nessuno. È una miscela tossica di insoddisfazione di sé, risentimento e sadismo, che a volte sporca il più nobile dei sentimenti: il desiderio di giustizia sociale.

La postura e gli atteggiamenti propri di chi codardo subisce e tace e si rivale sui suoi simili. Della serie: gli sfigati alla riscossa. Isterica rivolta morale o linciaggio puro?

Storici e primatologi testimoniano che un maschio alfa può essere deposto da una coalizione di primati di basso rango. Gli psicologi sociali, d’altronde, sanno che i gruppi possono esprimere una violenza che moltiplica i tassi di aggressività individuali. Ma il piacere per le sventure altrui è già annidato nel cervello dei singoli, in ciascuno di noi. Soprattutto in chi ha una bassa autostima, come confermano diversi lavori scientifici, l’ultimo dei quali pubblicato a dicembre su «Emotion». I neuroscienziati che lo studiano hanno adottato la parola tedesca nata dalla fusione di avversità e gioia (Schaden più Freude) e hanno appurato che la Schadenfreude è parente stretta di uno dei sette peccati capitali: l’invidia. I meccanismi cognitivi dello shakespeariano mostro dagli occhi verdi sono stati rivelati sulla rivista «Science» da Hidehiko Takahashi, con l’aiuto della risonanza magnetica funzionale. Il gruppo giapponese ha scoperto che quando si è invidiosi del successo di qualcuno si attiva la corteccia cingolata anteriore, nel circuito neurale del dolore. Quando si gioisce della sfortuna altrui, invece, si attiva lo striato, che fa parte del circuito della ricompensa. Lo stesso che dispensa dopamina e piacere quando ci concediamo vizi e svaghi gratificanti. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Ma resta il fatto che non tutti ce ne compiacciamo allo stesso modo. I soggetti studiati da Takahashi mostrano gradi variabili di attivazione dei centri dell’invidia, una volta messi di fronte a un soggetto che possiede qualità superiori alle proprie, così come dei centri della Schadenfreude quando il loro termine di paragone cade in disgrazia. Chi più soffre nella prima fase, più gioisce nella seconda.

Spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro, come spiega la neuropsicologa olandese Margriet Sitskoorn nel suo I sette peccati capitali del cervello, pubblicato da Orme. Ma non sempre l’invidia è così sciocca o così pericolosa. A volte l’attenzione ossessiva verso le qualità e i difetti degli altri diventa una molla per migliorare. Altre volte quella che sembra invidia è piuttosto un risentimento per le ingiustizie subite. Sono celebri gli esperimenti in cui Frans de Waal ha dimostrato che sia gli scimpanzé che le scimmie cappuccine si ribellano ai trattamenti iniqui. Se gli si offre un pezzo di cocomero come premio per aver svolto un compito, gli animali sono ben contenti. Ma se si accorgono che a un altro esemplare viene data dell’uva, non sono più disposti ad accettare una ricompensa che considerano meno appetibile.

Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. Secondo Sitskoorn, comunque, l’invidia non ha a che fare tanto con l’ingiustizia quanto, più in generale, con la disuguaglianza. Scatta soprattutto quando l’altro possiede più di noi perché è migliore di noi, anche se non sempre siamo disposti ad ammetterlo. Attenzione, ammonisce la neuropsicologa, il travestimento dell’invidia con i panni dell’ingiustizia può risultare talmente perfetto che alla lunga finiamo noi stessi per crederci. 

Una lettera di scuse. L’ha scritta Barbara Palombelli inviandola idealmente a Sarah Scazzi. Barbara Palombelli durante il Tg5 delle 20 del 17 ottobre 2010 ha letto con voce fuori campo una lettera di scuse indirizzata a Sarah Scazzi per l’eccesso mediatico. Secondo alcune voci di redazione, il direttore del Tg5 Clemente Mimun non avrebbe però gradito.

“Cara piccola Sarah, occhi da cerbiatto”. Così comincia la lettera. Mentre scorrono le immagini di quello che è diventato un accanimento mediatico, la voce della giornalista invita a un pentimento generale, che coinvolga tutti, a partire dagli addetti ai lavori. “Noi che, senza conoscerti, ti abbiamo incontrato nei telegiornali e sui giornali, ti abbiamo mangiata proprio come l’umidità di quel pozzo. Un pezzettino al giorno, piano piano, senza sprecare nemmeno una briciola della tua tragica favola”. “Tu, principessa che sei finita sfigurata e putrefatta dopo quaranta giorni in un pozzo, tanto che il professor Strada, che ti ha sezionato e analizzato, ti ha nascosto persino alla tua mamma”, continuava la giornalista che collabora con le reti Mediaset con i toni dolci di una madre che ha guardato “e giudicato con sospetto i manifesti horror, gli stessi che sono su tutti i muri delle stanze delle nostre figlie”. Palombelli poi conclude: “Ora che stai uscendo di scena per lasciare spazio ai tuoi assassini e alla rivelazione del male, in cui hai vissuto forse senza saperlo oppure sì, ora che tutta l’Italia partecipa all’indagine nazionale su di te che non ci sei più, ora è proprio arrivato il momento di pregare, pregare per te e per noi, per il nostro lavoro, per voi che state vedendo queste immagini. Non ti dimenticheremo. Sarah, perdonaci se puoi…».

I toni usati non sarebbero piaciuti al direttore del Tg5, Clemente Mimun che dopo l’edizione avrebbe avuto una discussione con la Palombelli. E, secondo quanto si apprende da fonti della redazione, Barbara Palombelli avrebbe lasciato il Tg5. Mediaset però smentisce e chiude il caso con queste parole diffuse alle agenzie: ”Barbara Palombelli non può avere lasciato il Tg5 per il semplice motivo che non fa parte della testata di Clemente Mimun”. La giornalista lavora infatti per Videonews, la testata Mediaset che produce tra gli altri Domenica Cinque, Mattino Cinque, Pomeriggio Cinque e Matrix, programmi dove Barbara Palombelli si esprime come commentatrice.

La lettera di scuse di Barbara Palombelli, un mea culpa a nome della categoria dei giornalisti, letta al Tg5 delle 20 di domenica, non è piaciuta al direttore Clemente Mimun. Che era allo stadio, ma è stato informato in diretta. E si è arrabbiato. Perché non era quello che le aveva chiesto. La Palombelli ha fatto di testa sua. «Non ha capito le indicazioni» spiegano al Tg5. C'è stata, tra i due, una discussione accesa. La Palombelli, che collabora con la testata Videonews e non con il tg, se n'è andata stizzita. Rottura non si sa quanto insanabile. «Se capiterà, la utilizzeremo ancora», spiega Mimun. Ma dovrà capitare.

“Cara Sarah Scazzi tu che sei finita sfigurata e putrefatta, tanto che il medico legale ti ha dovuto nascondere allo sguardo di tua madre Concetta."

Nel carosello mediatico del delitto perfetto, siamo ormai alla follia.

Una lettera quella di Barbara Palombelli piena di descrizioni horror, sanguinose, quasi violente sulla condizione del corpo di Sarah dopo morto. Necrofilia e giornalismo direi. Una macabra lettera, poesia nello spettacolo del delitto di Avetrana, che ha lo scopo di far giungere al pubblico le scuse tardive di un comitato di giornalisti che ha toppato sotto ogni punto di vista. Le prime lucide e logorroiche analisi sulla scomparsa di quella quindicenne con i poster dei gruppi rock dark appesi alle pareti della camera da letto. Una lettera macabra che descrive nei dettagli il corpo maciullato di Sarah, decomposto dall'acqua, mangiato dalla terra. Una lettera in cui la giornalista Barbara Palombelli invoca le scuse per Sarah, dal momento che lei come tanti altri "vampiri", le si sono gettati sopra il corpo innocente. Come nei clichè dei film horror, Barbara Palombelli scrive una lettera a Sarah Scazzi. Un colpo ad effetto scenico, che arriva nella giornata delle lettere, quella dell'amica di Sabrina ad un redattore del TG5 e le lettere di Cosima Spagnolo alla figlia Sabrina. Lettera che giunge dopo le polemiche che hanno investito la giornalista Barbara Palombelli e i suoi coattori nelle trasmissioni televisive, quelle che cercavano di scavare nella vita di Sarah Scazzi, considerandola una bad girl.

Scrive Barbara Palombelli: "Principessa che sei finita sfigurata e putrefatta tanto che il medico legale ti ha nascosto agli occhi di tua madre il corpo mangiato come l'umidità di quel pozzo..."

Durante la fase delle ricerche, c’è stata una morbosità eccessiva: a quale altra persona sono stati pubblicati i diari di scuola, dalle frasi da adolescente ai disegnini? A chi è capitato vedere pubblicate le confessioni private fatte con le amiche? Frasi del tipo. “Ho litigato con mia madre, mi mancano mio fratello e mio padre”? E poi i differenti profili di Facebook, proposti, raccontati, analizzati come terribili prove del reato, diventati subito terreno di congetture maligne. Gli adulti conosciuti in chat, la sua passione per Marilyn Manson, la sua cameretta ripresa in ogni angolo e mostrata nei collegamenti tv…

Non le è stato risparmiato niente.

Invece Sarah non aveva un amante trentenne, non era scappata al Nord in “fuga volontaria”, non si era affiliata segretamente alla setta satanica del luogo. Quella sua vita di ragazza di oggi, che frequenta Facebook e Internet, anche se la mamma non le ha dato il permesso di avere un computer in casa, è una vita normale, come quella di tanti nostri figli e amici. Una vita che avrebbe dovuto rimanere custodita, protetta e non esposta alle mille insinuazioni malevole dei retroscena quasi sempre inventati. Frutto della fantasia (anche banale) di tanti pseudo giornalisti.

Stringe il cuore due volte la storia di Sarah. Perché è un esempio da manuale di privacy violata di una ragazzina, che faceva le cose che fanno tanti adolescenti. Viveva di sogni, si sfogava con gli amici in Internet e quei suoi pensieri sono diventati pubblici e anzi sono stati usati. I cronisti hanno intervistato persino una sua simpatica amicizia scolastica, un ragazzino ripreso solo dai jeans sdruciti. “Sì mi veniva dietro”. Pensiamo con terrore se una volta toccasse a noi avere contatti con i cronisti, magari ai nostri figli che scrivono su Facebook e lasciano le loro foto e le loro sciocchezze dappertutto e non sanno che un giorno potrebbe esserci l’orco dell’interesse pubblico che mangia in due bocconi la loro vita, chiudendo lo spinoso caso di cronaca nera, con quattro supposizioni da strapazzo.

Ma che razza di giornalismo si pratica oggi in Italia? Non ci sarebbe da vergognarsi e da chiedere scusa? L’ha fatto Studio Aperto, diretto da Giovanni Toti. Rendiamogli merito. Sarebbe bello che questo diventasse un coro: “Scusa Sarah. Il mondo che hai lasciato, troppo presto, era molto brutto!!!"

Eppure, non è finita qui, perché dopo il ritrovamento del cadavere è andata pure peggio. Il caso s’è risolto praticamente in diretta, a “Chi l’ha visto”. A quella drammatica notte sono seguite ore e ore di dirette, per giorni, per mesi, per anni....

Il dr Antonio Giangrande, scrittore, autore del libro sul delitto di Sarah Scazzi, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, senza intenti diffamatori si chiede e chiede agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d'Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l'accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale.

Gli avvocati e la Stampa non potranno mai dare una risposta. Ma la risposta arriva dallo scrittore Massimo Prati, attraverso il suo blog. Un solo avvertimento, non fidatevi di quei  giornalisti che dicono da sempre di saper tutto ma che, se non riportano parole di altri, dimostrano di essere ben poco preparati sul caso Scazzi. Un esempio? Nel Corriere del Mezzogiorno un giornalista nazionale, venerato a Taranto, scrive che la procura, a sorpresa, ha depositato in tribunale una collanina con attaccato uno scoiattolino. "Chissà di chi è?" - si chiede il giornalista - "la famiglia Scazzi non l'ha mai vista addosso alla figlia... sarà mica che appartiene a chi l'ha gettata nel pozzo?". Quindi l'intenzione qual'è? Far sospettare di una ragazza mora, magari figlia dell'occultatore ufficiale, e far pensare al lettore distratto che "l'ha persa" mentre era intenta ad aiutare il padre (come sostiene la procura)? Ma no, quella frase è stata scritta tanto per dire e senza secondi fini, come d'altronde quella in cui si chiede: "Chissà da quanto era in quell'anfratto, forse c'era già da prima che vi fosse gettata Sarah?". Beh, il buon giornalista si tranquillizzi e mi permetta, dato che è una questione di libera e seria informazione, di rispondergli che non serve indagare, che la collanina con lo scoiattolino è caduta nel pozzo lo stesso giorno in cui si è occultato il corpo di Sarah. Forse la famiglia della piccola vittima non conosceva lo scoiattolino, anche se fatico a crederlo dato che lo conosco io, ma il ciondolo è immortalato attorno al collo di Sarah in diverse fotografie. Forse, dico forse, il giornalista si è distratto e non ha capito che la procura sa bene di chi è quella collanina, che l'ha inserita agli atti per creare un nuovo gioco di magia. Serve per far credere ai giudici sia stata strappata durante l'aggressione. Quindi non uno strangolamento improvviso, come sostiene il Misseri reo-confesso, ma una vera e propria esecuzione premeditata partita in auto al momento in cui, oniricamente, la ragazzina è salita sotto l'impulso dell'indice di sua zia. Mi sbaglio? Lo vedremo presto. Per intanto devo dire che non è l'unico appunto che devo fare al giornalista. C'è un filmato sul Corriere del Mezzogiorno, sempre a sua firma, in cui si vede un bell'albero di fico e si sente una voce dire essere quello in cui è stato portato il corpo della ragazza per essere violentato. Mi scuserà se sono inopportuno, ma volevo informarlo che la versione accettata dalla procura non prevede più alcun vilipendio di cadavere. Il dottor Galoppa, nell'incidente probatorio e penando non poco (secondo quanto denunciato da Michele Misseri), è riuscito a far dire al suo assistito che quell'evento era tutta un'invenzione della sua mente malata.

Inoltre, altra cosa che non pare vera presente nel filmato, l'albero segnalato dal Misseri nella confessione è, parole sue, a cinquanta/cento metri dalla casa, e quello che in video ci viene mostrato è attaccato ai muri della masseria. In ogni caso il filmato è un buon filmato, specialmente nella sua parte finale quando viene inquadrato l'ex pozzo in cui la piccola fu gettata. Ed è buono perché ci mostra, tramite vecchie bottiglie di plastica e terra smossa, come la gente, che parla-parla-parla e sovente sparla, pensi davvero a Sarah. Non un fiore, non un biglietto con su scritto una frase a ricordo è presente nel punto in cui la piccola è stata ritrovata. Certo, Sarah riposa al cimitero di Avetrana, come Melania Rea riposa a Somma Vesuviana e Yara Gambirasio a Brembate. La differenza sta nel fatto che al chiosco della Pineta un fiore ed un pensiero ci sono sempre, che a Chignolo d'Isola, pur se confinati a lato del campo per volere del sindaco, un fiore ed un pupazzo ci sono sempre, mentre in contrada Mosca ci sono bottigliette di plastica. So che il luogo è isolato, ma mi aspettavo che chi chiede con veemenza giustizia per Sarah, parlo di chi abita in zona e tanto reclame fa in televisione dell'amore che portava a quel piccolo scricciolo quando era in vita, un minimo di sforzo lo avesse fatto. Visto che si spendono soldi in bombe carta da gettare in casa Misseri, mi aspettavo se ne spendessero anche per qualche litro di benzina ed un fiore da lasciare nel luogo in cui per quarantadue giorni la piccola è rimasta sepolta. Ma tant'è che i soldi mancano, sarà la congiuntura economica e l'aumento della "verde" a frenare le spese, e chi si è riunito di fronte alla caserma dei carabinieri per apostrofare ad assassina la signora Cosima Serrano, ha finito gli spiccioli e non ha tempo per fare una piccola colletta. E neppure il sindaco ha qualche centinaia di euro da investire in una lapide a ricordo, lapide che in pochi vedrebbero (visto che nessuno ci va in contrada Mosca) e non servirebbe a dar lustro mediatico alla cittadinanza. Quindi si può dire che manca la volontà di ricordare Sarah quando non se ne ha un ritorno di immagine, o economico, ma non manca l'intenzione di incamerare qualche spicciolo entrando a processo come parte lesa. Caro il mio sindaco, avrebbe dovuto incamerare soldi querelando chi ha venduto libri o montato trasmissioni tv parlando di Avetrana come di un paese di orchi e mostri, non credo che i suoi concittadini si siano rivisti in quelle parole e non credo che abbiano giovato a far ricordare al resto degli italiani la sua cittadina in maniera sana e amena. Pazienza, lasciamo il giornalista ed il sindaco e concentriamoci sul processo che presto sparerà i primi mortaretti. Tutti son contenti di essere in tribunale. I legali delle imputate, degli imputati e delle parti civili (molti di coloro sono di seconda o terza scelta per abbandono dei precedenti difensori), che non vedono l'ora di far domande ai testimoni; i procuratori, che tanto han fatto per arrivare al giudizio in Assise; le parti civili, a partire dal sindaco per arrivare alla badante rumena che ha chiesto un minimo di indennizzo per quanto subito. Quattro milioni di euro per essere stata additata da Sabrina Misseri quale possibile complice dell'ipotetico rapitore. Certo, la sua memoria va e viene, infatti non ricorda neppure di essere stata lei la prima a sospettare, la prima a dire che non si fidava della cugina di Sarah, additando in tal modo chi poi l'avrebbe additata. Per cui se fosse una partita di calcio il risultato sarebbe uno ad uno e la palla tornerebbe al centro. Ma qui non si tratta di pallone, qui si tratta di business, quindi quattro milioni di euro alla badante che poi si porterà in Romania la palla d'oro con cui s'è giocato.

Un vero affare se il giudice la accontenterà. Ed a proposito del giudice c'è da constatare che la separazione delle carriere avrebbe fatto del bene a questo processo. Per carità, fino a prova contraria il presidente della Corte, la dottoressa Maria Ausilia Cesarina Trunfio, è un buon giudice che non sarà influenzabile dal contesto in cui "vive ed opera". Il problema è che ad ogni istanza difensiva non accolta, ad ogni ulteriore chiusura alla Difesa, ci potrebbero essere polemiche. Questo perché "vive ed opera" a Taranto da più di vent'anni e negli anni novanta era lei stessa un sostituto procuratore di quella città, al pari del dottor Buccoliero per fare un paragone attuale, ed ha lavorato gomito a gomito, tutti i giorni, anche con chi tutt'ora in procura vi lavora. E, per fare un esempio, nell'anno appena passato coi i procuratori ha avuto frequentazioni. Lei ed il dottor Argentino il 28 aprile 2011, dalle 15.30 alle 17.30, hanno parlato agli studenti della sezione di Taranto della facoltà di giurisprudenza (con sede centrale a Bari), sul tema: "L'esame incrociato: insidie e strategie". E l'esame di cui si parla riguarda i testimoni e gli indagati, quindi sia l'uno che l'altra hanno una identica veduta su come lo si deve fare, combacerà con quanto crede la Difesa? Ma non pensate "male", tutto andrà per il meglio. Al limite, se qualcosa non andrà come deve andare (sia per la Difesa che per l'Accusa), se ne riparlerà in Corte d'Appello, il secondo kolossal della serie (e sarà un successo pazzesco). In ogni caso non vi preoccupate di nulla e continuate i preparativi. La poltrona che non fa sudare l'avete? I pop corn, le noccioline, le patatine e le bibite? Presto che è tardi, mancate solo voi, lo sceneggiatore ha già consegnato i copioni e gli attori saranno nuovamente in postazione il prossimo martedì mattina...A proposito del citato “Il Corriere della Mezzogiorno” si riporta "Vita e morte dell’informazione". Intervista a Nazareno Dinoi su “Cronaca Nera”.

Dinoi, lei vive a Manduria e come giornalista ha curato gli articoli di cronaca nera sulla drammatica storia di Sarah Scazzi ad Avetrana. È il direttore de “La Voce di Manduria” e collabora per il “Corriere del Mezzogiorno”. Qual è stato il suo primo pezzo pubblicato sul caso?

Il mio primo articolo su Sarah Scazzi l’ho pubblicato il 29 agosto, tre giorni dopo la sua scomparsa.

La notizia l’avevo avuta il giorno prima, ma parlando con i carabinieri decisi, sbagliando, di aspettare ancora.

Vivendo a Manduria, vicino ad Avetrana, ha potuto respirare anche le sensazioni della popolazione: qual è stata la sua prima impressione, e quale, invece, l’idea che si è fatto in seguito?

L’impressione che ho avuto subito è stata quella che poi si è purtroppo avverata. Nessuno in quel paese, me compreso, ha mai creduto ad una fuga volontaria nonostante le voci iniziali del possibile coinvolgimento di facebook, delle chat e della volontà di fuggire della ragazza. Tutti eravamo convinti del peggio. Un aspetto alquanto strano, questo, che meritava di essere approfondito sin da subito. Solo dopo si è capito che tutti quanti siamo stati manipolati dalla famiglia Misseri che è stata la prima, dai primissimi istanti della presunta scomparsa di Sarah, ad infondere pessimismo sulla sua sorte.

Che cosa significa, per i cittadini di Avetrana, da un punto di vista socio-antropologico, un delitto in una cittadina così piccola e così lontana finora dai fatti di cronaca?

L’abnorme interesse dei media su una comunità così piccola, così distante dai grandi eventi mediatici, difficile da raggiungere persino geograficamente, ha prodotto un’iniziale eccitazione con forte desiderio di partecipare al circo dell’informazione “all inclusive”. Nessuno di noi cronisti, per molti giorni, ha mai avuto difficoltà a raccogliere impressioni, racconti, aneddoti, persino spunti investigativi dagli avetranesi. Dopo, però, la macchina si è guastata e la gente ha cominciato a vederci come degli intrusi; e aveva ragione perché in troppi abbiamo approfittato, anche con l’inganno, della loro disponibilità.

Perché il turismo macabro dell’orrore, e quello squallido voyeurismo, ad Avetrana?

Voglio subito sfatare quello che è stato marchiato come una prerogativa tutta avetranese e del Sud più in generale. Il turismo dell’orrore è sempre esistito laddove si sono consumate le peggiori tragedie a danno di giovani vittime. Casalecchio di Reno, Cogne, Erba e Parma, e prima ancora Vermicino. Anche in quei casi non sono mancati gli altarini con fiori, dediche e orsacchiotti bianchi e gite di gruppo o familiari in visita nei luoghi dell’orrore.

Quale “vuoto” di umanità, relazioni, cultura c’è alla base di questo fenomeno, secondo lei?

Assodato che il voyeurismo noir non predilige latitudini, mi diventa più difficile dare una lettura antropologica del fenomeno. Forse tutto si spiega con il bisogno dell’essere umano di sentirsi partecipe del dolore altrui: più insopportabile è la perdita per gli altri, più ci interessa conoscerla da vicino, studiare i particolari, provare a rendere tangibile quella sensazione di sofferenza che si prova da semplice spettatore. O molto semplicemente per dire: “io sono stato lì”. In quest’ultimo caso giocano un ruolo fondamentale la televisione, le immagini, l’informazione in generale.

In uno dei suoi articoli, si legge che “tutti ci siamo fatti travolgere dall’eccitante ebbrezza del giallo di Avetrana dimenticando la piccola Sarah”. Qual è il modo migliore per ricordare Sarah, allora: costruire e intitolarle un canile come ha pensato il fratello Claudio, cercare verità e giustizia, fare un passo indietro dal punto di vista mediatico e giornalistico…

Bella domanda che merita più risposte. Ribadisco: ci siamo fatti travolgere dall’eccitazione del giallo dimenticando la vittima. Noi operatori dell’informazione, forse per la prima volta nella storia dei grandi omicidi, abbiamo avuto a disposizione una grande quantità di materiale da raccontare.

Dai primissimi giorni abbiamo avuto accesso alle cose più personali, intime di Sarah. Abbiamo potuto raccogliere i ricordi della madre, del padre, gli zii, le cugine, le amiche, i professori. Siamo stati abbondantemente serviti, al limite della liceità, da una mole di dati investigativi spesso imbarazzanti. La prima volta che sono andato a casa Scazzi ho trovato le porte incredibilmente aperte e un’insperata disponibilità della famiglia. Io con altri colleghi siamo entrati nella stanza di Sarah quando c’erano ancora i suoi odori, tutte le sue cose sparse sulla scrivania, persino i jeans che il 26 agosto aveva tolto per indossare il costume da bagno. Conservo ancora le foto e un breve filmato video con il cellulare di quei pantaloni-feticcio rivoltati e gettati disordinatamente e in fretta sul suo lettino. Noi giornalisti, prima ancora degli investigatori, abbiamo avuto tra le mani i diari di Sarah, i suoi quaderni di scuola, le lettere piegate nei libri. I dirigenti della sua scuola hanno permesso la pubblicazione dei suoi diari, delle schede di ammissione, hanno fatto fotografare le scritte che Sarah lasciava sui banchi e sui davanzali dell’aula. Abbiamo tutti coscientemente violato il suo mondo ma pur avendo la possibilità di raccontarlo abbiamo preferito parlare del giallo, del pericolo di facebook, delle insidie di internet, del traffico d’organi, dei sospetti sui familiari, delle cose peggiori della loro vita privata. Nessuno di noi si è preoccupato, se non in minima parte e solo dopo la scoperta della sua morte, del dramma di quella ragazzina vissuta da sola nell’indifferenza di tutti. Sarah, abbiamo scoperto dopo, era un piccolo fantasma passato inosservato persino agli abitanti di una comunità dove si conoscono tutti. Qualcuno dei nostri intervistati, allora, aveva inventato ricordi di lei pur di apparire o di rendersi utile. Tutti abbiamo trascurato il vero dramma di questa storia che è l’abbandono: la mamma di Sarah, Concetta, abbandonata dalla sua famiglia che l’aveva ceduta agli zii diventati secondi genitori, la stessa Sarah abbandonata dal padre che aveva deciso di vivere lontano da lei e abbandonata anche dalla madre divenuta schiava di un credo in Geova che segna l’isolamento suo e della sua bambina dal resto del mondo. Sarah non ha mai potuto festeggiare un compleanno, un capodanno, un Natale, una festa di cresima, un ferragosto, una notte di San Lorenzo. Per questo persino il carattere non dolce della cugina Sabrina diventava un piacere per la povera ragazzina che adorava vivere con la famiglia che l’ha uccisa. L’idea del fratello Claudio di intitolare un canile a Sarah sarebbe stata buona se fosse stata gestita da altre persone.

In un suo articolo, lei ha insistito molto sulla figura di Ivano Russo. Di lui si racconta che, nonostante la confidenza con Sarah, il giorno della scomparsa della quindicenne, Ivano non la cercò mai al cellulare quando gli fu detto che Sarah era scomparsa. Qual è il suo parere su questo aspetto?

Prima che lo zio di Sarah, Michele Misseri, confessasse il delitto, noi giornalisti e credo anche gli inquirenti, eravamo convinti che Ivano sapesse la verità. Credo anche che in quel periodo il suo mandato di cattura fosse già pronto. Per il resto credo che la sua posizione sia tuttora oggetto di forte interesse da parte della procura.

A proposito di Concetta, la mamma di Sarah, lei l’ha descritta come una “madre distratta, prigioniera della sua fede a Geova”. Io credo però che le espressioni del viso, la “poca loquacità” di un essere umano, il suo essere anche un po’ defilato e riservato, non siano condannabili. Forse la affettività e la anaffettività, non possono essere decodificate, non possono equivalere a un modo di comportarsi standardizzato, o assoluto. Credo che pensare in questo modo, cioè attribuire una natura distratta a una madre da una posizione esterna, per giunta attraverso la telecamera, sia il prodotto di una “sovrastruttura sociale” di cui noi stessi siamo vittime. Lei che ne pensa?

Personalmente non ho mai condannato Concetta per l’assenza di lacrime. Anzi, come dicevo prima, dopo Sarah è lei la seconda vittima di questa triste storia: da un’infanzia fatta di abbandoni ha trovato un matrimonio sbagliato che l’ha lasciata sola con la figlia e ora con la figlia ha perso anche ogni seppure minimo legame che aveva con le sue sorelle e il fratello naturale che, di fatto, si sono tutti schierati con la famiglia Misseri. Dopo tutto questo, non le si può fare una colpa se non è capace di piangere. Io ho vissuto con lei tutti i momenti delle ricerche ed ero con lei la terribile notte in cui fu trovato il corpo della figlia gettato nel pozzo. E’ stata l’unica volta che ho visto le lacrime sul suo volto, erano lacrime senza pianto, senza singhiozzi, eppure l’immagine di lei che seguiva le notizie dei telegiornali della notte e quelle che le davamo noi era quella del dolore puro, indimenticabile.

In quale modo “La Voce di Manduria” ha trattato l’argomento del giallo di Avetrana e come hanno reagito i lettori de “La Voce di Manduria”, anche sul vostro sito?

Il sito “La Voce di Manduria” ha trattato costantemente l’argomento con almeno due notizie al giorno. I lettori si sono comportati nella maniera scontata: inizialmente hanno gradito poi, dai commenti che lasciavano, hanno cominciato ad esprimere giudizi negativi dicendoci di chiudere il sipario. Nonostante tutto, ancora oggi, le notizie su Sarah sono le più lette con una preferenza costante di almeno tre volte in più rispetto alle altre.

Qual è dal punto di vista mediatico e giornalistico l’aspetto più squallido della vicenda, secondo lei? L’errore da non commettere mai più?

L’aspetto più squallido è stato il mercato di immagini, di interviste e di documenti dell’inchiesta ad opera di personaggi tuttora, diciamo, “oscuri” e lo sfruttamento televisivo che si è fatto e si continua a fare: troppi esperti da talk show che si inventavano i fatti hanno fatto perdere credibilità alla notizia. A mio avviso sono questi gli errori da non commettere più insieme a quello di non violare l’intimità di una ragazza morta perché era sola.

Già. Da quale pulpito viene la predica!

Ma Nazareno Dinoi non è quello che ha pubblicato su “Il Corriere del Mezzogiorno” e “Il Corriere della Sera” - "Il ritrovamento di Sarah in 71 foto: la sequenza dell’orrore". Foto raccapriccianti che hanno suscitato tanto disdegno anche tra i suoi colleghi? Da ricordare anche che Nazareno Dinoi ha pubblicato su "Puglia Press", un periodico gratuito, l'articolo della mia condanna, Dr Antonio Giangrande, l'autore del presente libro e, cosa più importante, presidente nazionale della Associazione Contro Tutte le mafie, riconosciuta dal Ministero dell'Interno. La notizia passata da soggetti operanti in ambienti giudiziari e forensi manduriani e tarantini, (forse dei giuda) che avevano tutto l'interesse a denigrare la persona e l'operato di chi si batte contro ogni illegalità ed ingiustizia, riportava l'epilogo in primo grado di un procedimento per abusivo esercizio della professione forense e l'indebito percepimento dell'onorario per l'opera prestata. Da sempre Antonio Giangrande si batte contro l'abilitazione forense truccata ed ogni concorso pubblico manipolato e contro gli insabbiamenti delle denunce scomode. Il Dinoi è stato tanto scrupoloso nel dare la notizia della condanna, foriera di ingenti danni, ma non ha dato la notizia del successivo proscioglimento in appello: la procura di Taranto ben sapeva del patrocinio legale risultante dagli elenchi depositati presso l'albo degli avvocati, ciò nonostante ha proceduto, così come ha proceduto per i reati di diffamazione a mezzo stampa, di cui mai, però, è conseguita condanna, in quanto gli articoli incriminati erano stati stilati da altri autori e pubblicati su siti web di altri proprietari. Il tutto facilmente verificabile. Il Dinoi non ha mai pubblicato questa notizia; come non ha mai pubblicato la notizia che il giudice che ha emesso a Manduria la sentenza poi appellata è stata denunciata per anomalie su questa e su altre sentenze; come non ha mai pubblicato le denunce di malamministrazione e di malagiustizia, le pretestuose archiviazioni delle quali sono state oggetto di attenzione addirittura dai giornali del Sud Africa. In loco si pensa bene di tacitare ogni voce libera contro chi denuncia gli abusi e le omissioni dei magistrati e chi tacita, spesso, appartiene proprio alla categoria dei giornalisti.

Bene. Nonostante tutto, come ben si legge, per amore di verità io non censuro, dando a tutti una visibilità immeritata.

Se altri usano la censura o addirittura l'omertà nel nome di una omologazione o conformità alla cultura imperante, faranno i conti con la propria coscienza e con la propria professionalità.

Ciò non basta. Ci si può fidare di quello che dice la tv? La risposta negativa, sembra ovvia in questi ultimi tempi. Sempre più ci troviamo di fronte a servizi giornalistici falsi, e non pertinenti alla realtà. Immagini di catastrofi già accadute anni prima, che vengono riproposte per casi recenti.

Questi giochetti non vengono poi fatte da reti minori, ma bensì da Tg di riferimento per milioni di italiani. Gli ultimi episodi scandalosi, riguardano il famoso affondamento della nave Costa Crociera. In primis i Tg misero in onda immagini che erano già di dominio pubblico su you tube da un paio di anni. Per marciare ancor sopra questa assurda storia, gli autori di varie trasmissioni pseudo-informative, hanno cominciato a costruire delle vere e proprie soap sui passeggeri della nave e la loro triste e sfortunata avventura. L’intento era quello di conquistare il pubblico emozionandolo. L’ultima storia in ordine di tempo è quella della ragazza che a causa dell’affondamento della nave, pare abbia perso il suo bambino che portava ancora in grembo.

Dapprima, questa fantomatica mamma è intervenuta telefonicamente in trasmissioni quale Pomeriggio cinque. Il suo avvocato ospite di Lorella Cuccarini, si è dimostrato disgustato dei circa 11mila euro proposti come risarcimento, in quanto la vita umana non ha prezzo. Tutto andava per il meglio, finchè gli spettatori non hanno segnalato a Striscia la Notizia, la non pertinenza della foto mostrata dagli autori Rai al pubblico italiano. Quei due signori nella foto non erano gli sventurati passeggeri della Costa Crociera. Dietro front di avvocato e Lorella Cuccarini allora, la vera mamma verrà mostrata a Domenica Cinque. Macchè!! Anche qui vedendosi immischiati in “brutte acque”, lasciano perdere e non mandano in onda il Finto scoop. Sfortuna vuole che qualche talpa passi il filmato già registrato da Domenica cinque (avvenuto prima della messa in onda di Striscia che rivelava il finto scoop) alla trasmissione di Antonio Ricci. Poco cambia quindi se la Panicucci non abbia mostrato quell’intervista falsa, già bella e preparata per la domenica. La Tv invece di fare passi indietro e non mostrare i servizi falsi una volta beccati, dovrebbe cominciare a lavorare sulla fonte ed a mostrare al pubblico italiano soltanto la realtà…La storia era stata pubblicata da tutte le agenzie di stampa. Ma chi si è presentato a reclamare in tv il proprio dramma, a quanto pare, sul Concordia non c’è mai salito. Francesco Specchia su Libero ci racconta di un servizio di Striscia la Notizia in cui si mette in dubbio la veridicità della storia. E si ricorda che a mandare in onda due figuranti è stata proprio la Rai:

Accade che, il 5 febbraio scorso (2012), la Cuccarini intervisti via telefono, appunto, Cristina della suddetta coppia - i sedicenti Cristina & Gabrieli sposini in crociera sfuggiti al destino mortale della nave Costa -. Gli ascolti s’impennano, Lorella si commuove. Ma Striscia la Notizia s’accorge che la foto degli sposi usata dalla Rai di sfondo all’intervista è falsa. Palesemente falsa. Al punto che i due ragazzuoli, sotto diversa identità, sembrano essere, invece gli stessi - un po’ più invecchiati - concitati ospiti del legal show "Verdetto Finale" con Tiberio Timperi, guarda caso su Raiuno. Figuranti ad uso di viale Mazzini, parrebbe di prim’acchito. L’avvocato dei due meschini, Giacinto Canzona - un nome, un programma - che all’inizio in diretta s’era indignato contro la mala società che permette gli aborti sulle navi Costa senza risarcirli mai abbastanza, riconosce spudoratamente che Cristina e Gabriele, sì, è vero, non sono proprio quei Cristina e Gabriele; e che la fotografia mandata in onda non è altro che il frutto “di un mero errore materiale”.

Su questa falsa riga scoppia il caso della giornalista ‘postina’ che recapitava le lettere di Salvatore Parolisi all’amante. La notizia shock data il 15 febbraio 2012 dalla trasmissione ‘Chi l’ha visto?’. La vicenda è finita nelle carte dell’inchiesta della procura di Teramo sull’omicidio di Melania Rea. «Un fatto imbarazzante per la nostra categoria», l’ha definita Federica Sciarelli quando ne ha dato notizia. Increduli i parenti della giovane mamma di Somma Vesuviana, presenti in collegamento video. Con tanto di carte della procura in mano la trasmissione ha svelato che «una giornalista Mediaset» avrebbe fatto da ‘postina’ tra Salvatore Parolisi (in carcere con l’accusa di aver ucciso sua moglie) e l’amante, la soldatessa Ludovica. Le missive sarebbero state intercettate dalla direzione del carcere di Ascoli e, ha assicurato la Sciarelli, sarebbero regolarmente arrivate a destinazione. Ma l’aspetto ancor più inquietante è che la ‘postina’ avrebbe recapitato la missiva quando a Salvatore era stato fatto esplicito divieto di avere contatti con l’esterno e soprattutto con la sua amante. «Cara (nome giornalista, non reso pubblico), la busta bianca chiusa non è per voi», scrive Parolisi nella lettera mostrata da Rai3, «ma tu sai a chi mandarla, mi raccomando che arrivi a destinazione, assicurati che sia li». E nella lettera alla soldatessa Parolisi scrive: «ti ho mandato questa lettere tramite (nome della giornalista) perché sul mio verbale di accusa non posso avere nessunissimo contatto con te. Se riceverai questa lettera mi raccomando non lo dire a nessuno e non fidarti di nessuno». Poi Parolisi consiglia a lei di fare lo stesso: «metti in una busta sigillata la lettera che sarà per me». La giornalista e un suo collaboratore sono stati anche intercettati e la Procura ha scoperto che i due, che lavorano per «una trasmissione Mediaset» avrebbero redatto una finta lettera, spacciandola per una missiva di Parolisi alla loro redazione «e poi letta in trasmissione la sera del suo arresto». Incredulo lo zio di Melania, il signor Gennaro, che ha notato che la lettera spedita da Salvatore a Ludovica era datata 23 marzo, ovvero 4 giorni dopo l’arresto. «Salvatore si preoccupava addirittura di scrivere alla sua amante…» ha detto sconcertato. «Adesso mi viene il dubbio che Salvatore non abbia mai amato Melania…», ha commentato invece il fratello della vittima, Michele, «è sotto gli occhi di tutti… che intrallazzi che ha fatto e che faceva. Non si può accettare che dica ‘amo ancora mia moglie’ quando invece si preoccupava di scrivere ancora alla sua amante. Non è giusto e non accetto che lui continui a dire che ama Melania». Ma nella lettera spedita a Ludovica c’è anche una frase che lascia sconcertati. Salvatore scrive alla sua donna: «ho tante ammiratrici che mi scrivono ah ah ah». Sempre ‘Chi l’ha visto?’ nella puntata ha rivelato che nel corso delle indagini è emerso che il caporal maggiore frequentasse siti di trans (video e foto con contenuti pornografici) sia dal pc di casa che da un personale che portava in caserma. «Si tratta di siti che a Melania non avrebbero fatto piacere», ha commentato il fratello, «era una persona di sani principi e se lo avesse scoperto avrebbe sbattuto il marito fuori casa». E’ possibile che la donna si fosse accorta di quello che stava accadendo e si fosse arrabbiata? Potrebbe essere stato proprio questo il movente del delitto? Dal pc fisso sono stati estratti 145 indirizzi di posta elettronica di cui 5 visibili ed attivi e altri 140 cancellati e recuperati attraverso tecniche di ‘data carving’. «Dalla cronologia di navigazione Explorer normale non emergono siti di particolare interesse», si legge nella relazione dei carabinieri, «mentre dalla navigazione ‘in private browsing’ emergono siti di trans» con immagini molto forti. Anche le foto sono state allegate alle carte dell’inchiesta. «Non abbiamo alcuna intenzione di vederle», ha detto il fratello, «anche se possiamo immaginare il genere..». Sciarelli ha ricordato che nei mesi prima gli avvocati Biscotti e Gentile (difensori anche della Famiglia Scazzi) che difendono Parolisi avevano diffidato i giornalisti a parlare di questa vicenda. «Le carte sono qui», ha detto la giornalista. «Queste sono cose che dice la procura». Infine l’amarezza del fratello di Melania: «Salvatore aveva tante cose da fare: chattare con le trans, telefonare all’amante, tutte cose che riguardavano la sua seconda vita che noi non conoscevamo.

Nei momenti successivi alla scomparsa di mia sorella invece di cercare sua moglie tornò in caserma… Andare a cancellare tutto questo gli avrebbe fatto molto comodo». Già. Proprio quella Sciarelli fa la predica a Mediaset e poi sputtana Parolisi ed i suoi avvocati censori. Quella giornalista che ha dato in diretta alla madre la notizia del ritrovamento del corpo di Sarah. La notizia della morte di Sarah viene data in diretta tv alla madre Concetta che era collegata in diretta dalla casa dello zio - l'assassino di Sarah - da Avetrana. Era il 6 ottobre 2010. Era la quarta puntata del programma Chi l'ha Visto? dedicata al caso della scomparsa della 15enne di Avetrana. E poi la svolta. Sarah strangolata e violentata dallo zio. In studio arrivano le prime notizie: i carabinieri sono alla ricerca di un corpo. La conduttrice si trova davanti ad una situazione «terribile»: così Federica Sciarelli definisce la puntata del suo programma “Chi l'ha visto” che ha seguito in diretta i tragici sviluppi della vicenda di Sarah Scazzi, mentre la madre della ragazza era in collegamento. «Le notizie si susseguivano in modo concitato: in un primo momento - racconta la conduttrice - abbiamo cercato di non dire nulla, anche perchè ci auguravamo che si trattasse della solita battuta di ricerca da parte degli investigatori. Poi a un certo punto la situazione è andata fuori controllo perchè alla madre arrivavano le telefonate di altri giornalisti. Allora la mia unica preoccupazione è stata accompagnare in qualche modo la madre di Sarah a casa. Eravamo infatti in collegamento con l'abitazione dello zio: se fossimo stati a casa di Sarah ce ne saremmo andati via noi. Ho cercato anche di allentare la tensione mandando in onda un lungo pezzo di ricostruzione della vicenda, è stato veramente difficile». A chi sottolinea il ruolo invasivo della diretta tv di fronte alla tragedia, la Sciarelli replica: «Se ho sbagliato mi dispiace. La direzione di Raitre ha deciso di mandarci in onda fino a Linea notte, facendo saltare “Parla con me”, ma del resto sarebbe stato assurdo e irrispettoso mandare in onda un programma di satira registrato, che sarebbe stato inevitabilmente fuori tono. Siamo il programma degli scomparsi: dal primo momento abbiamo sostenuto che quello di Sarah non era stato un allontanamento volontario, avremmo preferito che fosse stata trovata viva». Già nel 2008 Chi l'ha visto? seguì in diretta la notizia del ritrovamento dei corpi dei fratellini di Gravina: «Allora però - spiega la conduttrice - avemmo la notizia subito prima della messa in onda. E il padre venne a saperlo mentre era in carcere. Quella di ieri è una situazione che non ci era mai capitato e forse mai ci capiterà più nella vita».

Già, davvero dispiaciuta!

E che dire di Cogne e del Caso Franzoni. La morte tragica del piccolo Samuele ed una responsabile mediatica e giudiziaria. Anna Maria Franzoni condannata a 16 anni: pochi per un omicidio; tanti per una inferma di mente; troppi per una innocente.

Per gli articolisti telematici in principio fu la villetta di Cogne. Esattamente il 30 gennaio 2002 le agenzie battevano la notizia di un bambino di tre anni rinvenuto in casa con la testa fracassata. Iniziava così uno dei casi di cronaca nera più discussi del recente passato italiano. Una tragedia familiare che portò in carcere la mamma Annamaria Franzoni. Ma anche un omicidio che cambiò la storia della televisione e il ruolo dell'opinione pubblica. Un plastico della casa faceva per la prima volta il suo ingresso a Porta a Porta. Vespa si tramutava nella signora in giallo e nascevano i due schieramenti: colpevolisti e innocentisti. Ogni telespettatore si sentiva una via di mezzo tra un Ris di Parma, un giudice e un avvocato. E ancora: lacrime della mamma in tv, annuncio della nuova gravidanza, avvocati di grido esperti tanto in diritto quanto in comunicazione, psicologi e psichiatri, giudici e tuttologi. Tutti insieme nell'arena. Un processo mediatico che, volente o nolente, fondava un genere. Il grande fratello del delitto. L'horror fiction. Seguirono poi Erika e Omar, Meredith kercher, Chiara Poggi, la strage di Erba, Sarah Scazzi, Melania Rea, ecc.. Plastici sempre più dettagliati, completi di auto o bicicletta da spostare all'occorrenza in strada o nel garage per meglio mostrare la presunta dinamica della tragedia. Fino all'ultimo, discusso modellino, quello della Costa Concordia, con tanto di "giallo". Vespa è stato accusato da alcune testate giornalistiche di un supposto favoritismo di cui avrebbe beneficiato la trasmissione ottenendo una riproduzione in scala della nave dalla Costa Crociere che lo avrebbe così negato a Vigili del Fuoco e sommozzatori impegnati nelle difficili operazioni di recupero. Ma Porta a Porta ha replicato di aver chiesto alla società un modellino della nave, ricevendo un rifiuto, e di essersi perciò rivolta a un artigiano che ha fornito una copia perfetta della nave per una cifra molto modesta. Chi di plastico ferisce...

Cogne è un punto di non ritorno. O, quanto meno, un rilevantissimo punto di svolta. Ecco cosa significò, dal punto di vista della comunicazione, il delitto di Cogne, all'indomani della cui gigantesca copertura mediatica si può davvero dire che nulla sarebbe stato più come prima. La tragica vicenda del piccolo Samuele Lorenzi dette inizio a un processo, fino a quel momento sconosciuto, di serializzazione dei programmi televisivi, che cominciarono a gemmare puntate su puntate su quell'unico evento, colorandosi di tinte sempre più noir (e splatter). La tv del dolore si fondeva così con il talk show, dando vita a una sorta di nuovo format di successo, fondato su una cronaca vera (e nera) che si convertiva in serial e veniva sceneggiata come un reality show. Tanti furono infatti i talk show che abbracciarono questa formula pulp di grande impatto emozionale (e un po' ossessivo), dal Maurizio Costanzo show a Matrix, per non parlare di trasmissioni pomeridiane come Buona Domenica e tante altre. Ma a fare da insuperabile laboratorio fu (e chi se lo dimentica più?) il Porta a Porta di Bruno Vespa, che ritornò su quel delitto per svariate decine di serate, conseguendo alcuni dei picchi di audience più alti della sua storia. Lo stesso salotto per antonomasia di un certo giornalismo che aveva fatto contribuito in Italia a creare e promuovere la «politica pop» (come l'hanno chiamata Gianpietro Mazzoleni e Anna Maria Sfardini) si inventava, di fatto, una formula di infotainment nella quale ogni alchimia equilibrata tra le parti saltava, e la dose di informazione veniva travolta da quella dell'intrattenimento (morboso e grandguignolesco). Il caso Cogne divenne, nella «versione di Vespa», un' autentica palestra di (discutibile) innovazione del modo di fare tv. Fu proprio in quell'occasione che venne brevettato un «accessorio scenografico» destinato a notevole fortuna: il famoso (o famigerato, a seconda dei punti di vista) plastico, che riproduceva la villetta dove venne consumato l'infanticidio, antenato di futuri modellini per tragedie successive (dall'omicidio di Avetrana alla nave Concordia). E fu allora che a vivisezionare, da ogni immaginabile (e pure inimmaginabile) punto di vista, quei fatti così tristi, si formò una «squadra speciale» di criminologi, psicologi, opinionisti che avrebbe dato vita a una sorta di compagnia di giro pronta a macinare ospitate su ospitate, e a sbarcare, come una truppa d'occupazione, in altri palinsesti e programmi. L'invenzione di una tradizione (televisiva): quel giornalismo popolare (e con punte trash) che, da noi (a differenza di quanto accaduto in altre nazioni), non si era mai tradotto in carta stampata, trovava il proprio perfetto habitat nel piccolo schermo. Non più informazione spettacolo, ma qualcosa che andava persino oltre: informazione spettacolista, potremmo dire, prendendo a prestito il termine da uno che se ne intendeva come l'intellettuale situazionista Guy Debord. Un «prodotto informativo» che dal tubo catodico rimbalzava sul web, dove i siti si riempivano delle discussioni accanite e feroci tra colpevolisti e innocentisti rispetto alla posizione di Annamaria Franzoni. Dalla tv generalista alla «comunicazione personale di massa» dei blog, insomma, Cogne ha fatto scuola.

E già, perché, non c'è niente da dire, il delitto, in termini di interesse del pubblico, paga sempre. Rotocalchi popolari e tribune televisive si avventano come sciacalli sulle carcasse di uomini e cose (delitti di Erba, Cogne, Novi Ligure, Avetrana, ecc. o affondamento della Concordia.) La cronaca nera impone mode di lunga durata, facendo leva sulla propensione nazionale alla tuttologia e sui corollari geografici che la accompagnano: razzismo, pressapochismo e distacco al nord, dietrologia al centro, fatalismo al sud. Ennio Flaiano, come al solito, aveva capito tutto: “Due anni fa, se non sbaglio, affondò un piroscafo nello scontro con un altro piroscafo. Noi per un mese – e anche due – ogni sera abbiamo parlato, tecnicamente, del disgraziato evento. Pur non avendo una diretta conoscenza della navigazione oceanica (i nostri spostamenti per mare si limitavano al tratto Napoli-Capri) noi sapevamo tutto: quali luci i due piroscafi avrebbero dovuto tenere accese (lo scontro accadde di notte), che intervallo passa tra un segnale di sirena e l’altro in caso di nebbia, come si naviga in alto mare, che differenza passa tra stazza, volume e tonnellaggio…” (Gli esperti” da “Le ombre bianche” è un intervento pubblicato nel 1958 sul Corriere della sera.) In televisione a quei tempi nessuno si sarebbe mai sognato di allestire circhi, arene e teatrini sulle disgrazie altrui, e così restavano i caffè, che erano luoghi di ritrovo, circoli di conversazione e sale da gioco, come in certi bar di città cantati dal giovane Gaber. E se non c’erano disastri navali, si poteva sempre contare sulle esondazioni del Po, su incidenti aerei e ferroviari, uxoricidi. Ci si improvvisava esperti di qualsiasi cosa. La televisione di oggi funziona allo stesso modo: un bar analogico o digitale. Se si desse lo spazio necessario a veri conoscitori dei fatti su cui si sproloquia, basterebbero pochi minuti e si potrebbe passare ad altro. E invece no, i veri esperti si lasciano a caso, nell'indifferenza generale. Ogni compagnia di giro della tv ha i suoi personaggi fissi ed amicali, interpretabili di volta in volta da figure intercambiabili, indistinguibili, probabilmente estratte a sorte da un elenco di amici e iscritte a un apposito registro di collocamento. Non manca mai lo psicologo vestito in maniera informale, tanto presuntuoso quanto benestante, abile nello spacciare sesquipedali banalità per affermazioni provocatorie e straordinariamente intelligenti. Poi c’è il criminologo, abbigliato come un ragioniere del catasto se uomo, come una professoressa dei film di Pierino se donna: più misurato ma non meno apodittico dello psicologo, diventa una belva se qualcuno si azzarda a contraddirlo. Ovviamente c’è anche un prete, con perle di saggezza da sciorinare alla bisogna: quando apre bocca nessuno osa contraddirlo, soprattutto nel primo canale. E qualche giornalista più narciso degli altri, specializzato nel cosiddetto “costume”. Seguono alcune figure minori, ma non meno scenografiche, in presunta rappresentanza della gente comune, o meglio dell’idea, sempre straordinariamente bassa, che autori e funzionari hanno della gente comune: il cantante degli anni ’60, la soubrette in disarmo con le ultime cartucce da sparare (magari un décolleté), la reduce di qualche reality con minigonna inguinale d’ordinanza e il fancazzista professionista con velleità da playboy. Che noia, che barba.

Il processo di primo grado, però non è che l'inizio di un cammino ancora lungo e pieno di sorprese, a cominciare dall'esposto che l'avvocato Taormina consegna alla guardia di finanza di Roma a nome dei Lorenzi e in cui viene fatto il nome di quello che secondo la difesa sarebbe il vero assassino. Poco dopo la procura di Torino apre un fascicolo, il cosiddetto 'Cogne bis', in cui si ipotizza la creazione di false prove nella villetta e in cui figurano 11 indagati, fra cui i Lorenzi e il loro legale. Del caso principale si torna a parlare quando l'avvocato Taormina presenta il ricorso in appello. Il secondo grado di giudizio si apre il 16 novembre 2005 in una delle maxi aule del tribunale di Torino di fronte a una corte presieduta da Romano Pettenati e a una platea di curiosi che per ben 22 udienze, tanto è durato il dibattimento, ha fatto la fila fin dall'alba davanti al Palagiustizia, improvvisando addirittura una distribuzione di numeri per non perdere la priorità d'arrivo. Di tanto in tanto, in aula, aperta al pubblico ma non a fotografi e cineoperatori per decisione della Franzoni, arrivano anche una rappresentanza del comitato nato proprio per sostenere l'innocenza dell'imputata. La battaglia inizia già dalla prima udienza, quando il pg Vittorio Corsi chiede una nuova perizia psichiatrica che viene depositata nel mese di giugno. I periti, che hanno lavorato solo sulle carte e sulle registrazioni di alcune trasmissioni televisive perché la Franzoni ha rifiutato di sottoporsi a un nuovo esame, concludono per un vizio parziale di mente e parlano di ''stato crepuscolare orientato''. Annamaria era stata interrogata qualche giorno dopo l'inizio del dibattimento e ancora una volta ai giudici aveva ripetuto la sua innocenza. Qualcuno pensava che il caso si sarebbe risolto in una manciata di ore. Un bimbo di tre anni era stato ucciso, in casa, in presenza della madre, una donna che non stava molto bene visto che la notte precedente aveva chiamato il 118 per un malore di poco conto. Eppure, con il passare dei giorni, il delitto di Cogne si trasformò nel ''giallo'' di Cogne, appassionò il pubblico dividendolo in colpevolisti e innocentisti, ebbe la sua robusta dose di colpi di scena e si chiuse solo dopo sei anni e quattro mesi, il 21 maggio 2008, quando la Cassazione rese definitiva la condanna a sedici anni di carcere (ridotti a tredici per l'indulto) per Annamaria Franzoni. Il piccolo Samuele muore nel lettone dei genitori, la testa fracassata da 17 violenti colpi inferti con un'arma mai trovata, il 30 gennaio 2002. Ci vuole un mese e mezzo (le manette scattano il 14 marzo) prima che Anna Maria venga arrestata. E subito si scatena la bagarre attorno agli elementi messi insieme dalla procura: il pigiama della donna inzuppato di sangue, le macchie sugli zoccoli, gli otto minuti passati dalla Franzoni fuori casa per accompagnare l'altro figlio allo scuolabus. Ogni discussione, in aula e fuori, si avviterà, fino all'ultimo giorno, attorno a questi e ad altri pochi elementi. Anna Maria, nel marzo del 2002, ha come difensore l'avvocato Carlo Federico Grosso, tratti e modi da antico gentiluomo torinese, ex vicepresidente del Csm, che la fa liberare nel giro di due settimane: mancanza di indizi, scrivono i giudici del tribunale del riesame.

Ed è solo il primo dei tanti stravolgimenti di fronte che scandiranno la storia dell'inchiesta. ''Per individuare l'assassino la procura di Aosta deve avere uno scatto di fantasia'', dice Grosso. Ma la procura di Aosta non molla la presa sulla Franzoni, ricorre in Cassazione e vince: il 10 giugno la Suprema Corte annulla l'ordinanza del riesame. E' in quel frangente che la famiglia di Annamaria chiama in aiuto Carlo Taormina, uno dei personaggi più in voga del momento: avvocato in processi clamorosi, docente universitario, parlamentare, grande frequentatore dei talk-show in tv, uomo dalle dichiarazioni roboanti e aggressive. L'opposto di Grosso (che, in pochi giorni, lascia la difesa della mamma di Sammy). Il 19 settembre, il riesame-bis stabilisce che l'ordine di cattura di Anna Maria è valido, che gli indizi ci sono, ma ormai la donna può attendere i processi in assoluta libertà. L'appuntamento con il giudice è il 19 luglio 2004. Taormina sceglie il giudizio abbreviato, si decide sulla base delle carte raccolte dalla procura, per sciogliere l'enigma al gup Eugenio Gramola basta un'udienza: Anna Maria è colpevole, sono 30 anni di carcere. Parte il contrattacco. Al grido di ''troveremo l'assassino'' Taormina raduna una squadra di collaboratori e, dopo un sopralluogo a Cogne il 28 luglio, compone una denuncia sulla plausibile colpevolezza di un vicino di casa.

Ma è un boomerang. Le carte arrivano alla procura di Torino, che ipotizza un inquinamento della scena del delitto: nasce l'inchiesta Cogne-bis, che anni dopo si chiude con una marea di proscioglimenti e la sola condanna della Franzoni a due anni per calunnia. Il 16 novembre 2005 scocca l'ora del processo d'appello. In teoria è un rito abbreviato, ma la Corte accontenta la difesa riaprendo il dibattimento e la causa si allunga a dismisura: si ascoltano nuovi testimoni, si rifà la perizia psichiatrica e Taormina trasforma ogni udienza in uno show. L'indomabile professore trova però un degno contraltare nella placida e sottile ironia del presidente, Romano Pettenati, e nell'austerità del pg Vittorio Corsi. Il tutto in un'aula stracolma di pubblico, tanta gente che non perde una battuta e soprattutto non stacca gli occhi dalla Franzoni per vedere se piange o se guarda il marito. Taormina polemizza su ogni virgola e il 20 novembre 2006, dopo l'ennesima protesta, lascia il processo. Al suo posto viene nominato un legale d'ufficio, Paola Savio. ''Sulle prime pensavo a uno scherzo'', confessa. E' un'avvocatessa giovane dall'aria mite, ma presto, con l'aiuto del collega Paolo Chicco, prende in mano la situazione. La strategia dei Franzoni cambia di nuovo, ora è più misurata, più centrata sul dolore e sulla commozione. Il pg Corsi non è da meno: ''Annamaria è una bimba che ha commesso un grosso guaio in un momento di debolezza, ammetta ciò che ha fatto e tutti le vorremo bene lo stesso''. La sentenza viene pronunciata il 27 aprile 2007: la mamma di Sammy è di nuovo colpevole ma questa volta merita le attenuanti e la pena è ridotta a sedici anni. Ed è la sentenza che, tredici mesi dopo, viene confermata dalla Cassazione. E' la sera del 21 maggio 2008. Già nella notte per Anna Maria si aprono le porte del carcere.

Certo per i magistrati e per i giornalisti ci sono dubbi, ma per la storia i dubbi permangono. L’arma del delitto non è mai stata trovata così come presumibilmente nemmeno il colpevole dell’ omicidio. Questo processo e questo delitto segnano l’inizio di un’attività mediatica negli omicidi più particolari ed efferati che l’Italia abbia mai avuto. L’avvocato Taormina, che per un certo periodo di tempo ha difeso la mamma di Cogne ha spinto perchè il caso di Anna Maria Franzoni fosse portato in televisione alla luce del pubblico giudice che si è diviso tra chi sosteneva una tesi colpevolista e chi invece sosteneva una tesi innocentista. Grazie alla trasmissione Porta a Porta, condotta da Bruno Vespa poi, il caso ha avuto una risonanza mediatica enorme quasi fosse una telenovela. L’omicidio di Samuele è diventato così un evento che ha coinvolto ogni famiglia italiana nel privato. Il viso della Franzoni e la sua persona sono stati esposti mediaticamente fino al 2008 anno in cui è stata confermata la sentenza che l’ha vista colpevole dell’omicidio del suo bambino e che le sta facendo tutt’ora scontare una pena nel carcere di Bologna. Durante le indagini, alcune prove sono state manomesse altre invece sono state montate nel tentativo di scagionare l’unica indagata, ma non solo, celebre è diventata la frase della Franzoni che di fronte ai Carabinieri venuti a casa sua per interrogarla poco dopo la morte del figlio implorava il marito di farne un altro come se la morte del piccolo Samuele non fosse altro che un cambio di bambino o un capitolo della propria vita da eliminare.

Sono le 8.28 del 30 gennaio 2002: al 118 di Aosta arriva la telefonata di una mamma disperata, che chiede aiuto per il suo bambino che "vomita sangue". Comincia così uno dei casi di cronaca più discussi e controversi, che in dieci anni di polemiche, perizie e colpi di scena, ha continuato ad appassionare l'opinione pubblica. Quella mamma è Anna Maria Franzoni, e il suo bambino il piccolo Samuele Lorenzi. Ucciso, secondo il processo, proprio dalla madre. Mentre l'autopsia accerta che il bambino è stato colpito alla testa da un corpo contundente, da subito i riflettori vengono puntati sulla mamma del bambino, Anna Maria Franzoni, e l'Italia torna a dividersi ancora una volta tra innocentisti e colpevolisti, trasformando la vicenda di Cogne in un caso giudiziario lungo e difficile, sul quale nel corso di questi anni si sono espressi esperti e non, di ogni genere e valore, e dove non sono mancati neppure anonimi "investigatori" che con lettere e perfino cartoline hanno hanno suggerito agli inquirenti la loro personale verità.

Il primo arresto di Anna Maria

A dare ragione a chi è convinto che Anna Maria, che da sempre si proclama innocente, sia colpevole arriva, il 14 marzo 2002, l'ordinanza di arresto firmata dal gip di Aosta, Fabrizio Gandini. L'accusa è di omicidio volontario e la mamma di Samuele viene rinchiusa nel carcere di Torino, dove rimane fino al 30 marzo, quando viene scarcerata su decisione del Tribunale del riesame che accoglie il ricorso presentato dal legale di Anna Maria, Carlo Federico Grosso. Per il Tribunale gli indizi non sono sufficienti, ma la decisione viene a sua volta annullata il 10 giugno dalla Cassazione, che rimanda tutto ad un nuovo collegio giudicante del Tribunale della libertà che questa volta, il 4 ottobre sempre del 2002, dichiara valido l'ordine di custodia per la Franzoni. Prima che il provvedimento diventi definitivo, il gip aostano, però, lo ritira per cessate esigenze cautelari. La donna resta indagata a piede libero.

Arriva l'avvocato Taormina

A difenderla, ora c'è però un altro avvocato. E' Carlo Taormina che il 25 giugno 2002 la famiglia Franzoni include nel collegio difensivo, provocando l'uscita di scena polemica di Carlo Federico Grosso. Intanto, l'8 aprile 2002, Annamaria a Novara incontra i periti incaricati di accertare se la donna, al momento dell'omicidio, fosse capace di intendere e di volere. La perizia stabilirà che Anna Maria è sana di mente e che lo era anche al momento dell'omicidio.

Prima condanna a 30 anni

Il 19 luglio 2004 il gup di Aosta, Eugenio Gramola, condanna la mamma di Cogne a trent'anni di carcere, il massimo della pena previsto con il rito abbreviato scelto dalla difesa. Per Annamaria , che nel frattempo ha avuto un nuovo figlio, Gioele, non si aprono però le porte del carcere. Insieme al marito Stefano Lorenzi e ai due figli si rifugia nel paese natale, protetta dalla famiglia che non ha mai smesso di credere nella sua innocenza.

La controaccusa ai vicini di casa

Il processo di primo grado non è che l'inizio di un cammino ancora lungo e pieno di sorprese, a cominciare dall'esposto che a fine di luglio l'avvocato Taormina consegna alla Guardia di Finanza di Roma a nome dei Lorenzi e in cui viene fatto il nome di quello che secondo la difesa sarebbe il vero assassino. Poco dopo la procura di Torino apre un fascicolo, il cosiddetto "Cogne-bis", in cui si ipotizza la creazione di false prove nella villetta e in cui figurano 11 indagati, fra cui i Lorenzi e il loro legale. Del caso principale si torna a parlare il 2 novembre, quando l'avvocato Taormina presenta il ricorso in appello. Il secondo grado di giudizio si apre il 16 novembre 2005 in una delle maxi aule del tribunale di Torino di fronte a una corte presieduta da Romano Pettenati e a una platea di curiosi che per ben 22 udienze, tanto è durato il dibattimento, ha fatto la fila fin dall'alba davanti al Palagiustizia, improvvisando addirittura una distribuzione di numeri per non perdere la priorità d'arrivo. Di tanto in tanto, in aula, aperta al pubblico ma non a fotografi e cineoperatori per decisione della Franzoni, arrivano anche una rappresentanza del comitato nato proprio per sostenere l'innocenza dell'imputata.

La perizia psichiatrica: "Vizio parziale di mente"

La battaglia inizia già dalla prima udienza, quando il pg Vittorio Corsi chiede una nuova perizia psichiatrica che viene depositata nel mese di giugno. I periti, che hanno lavorato solo sulle carte e sulle registrazioni di alcune trasmissioni televisive perché la Franzoni ha rifiutato di sottoporsi a un nuovo esame, concludono per un vizio parziale di mente e parlano di "stato crepuscolare orientato". Annamaria era stata interrogata qualche giorno dopo l'inizio del dibattimento e ancora una volta ai giudici aveva ripetuto la sua innocenza. Nuovi sopralluoghi, perizie neurologiche e tecniche, interrogatori colpi di scena caratterizzano anche il processo d'appello che si protrae per oltre un anno e mezzo. Nella maxi aula 6 del Tribunale torinese, il pubblico non manca mai, ogni volta si presenta con la speranza di poter cogliere nei gesti o negli atteggiamenti della mamma di Cogne qualche indizio che possa anche solo alimentare il gossip.

Taormina rinuncia, arriva l'avvocato Savio

L'ultimo colpo di scena quando il legale Carlo Taormina, nel novembre 2006, rinuncia al mandato in aperta contestazione con la corte e con quella che per lui, come ha ripetuto più volte, è "una sentenza già scritta". D'ora in avanti sarà un avvocato d'ufficio a occuparsi del processo, l'avvocato Paola Savio, che dopo qualche mese da legale d'ufficio diventa avvocato di fiducia e impronta la sua difesa al massimo fair play, tanto che lo stesso presidente della Corte, Pettenati, prima di ritirarsi in Camera di consiglio per la sentenza, sottolinea: "E' stata una fortuna che il sistema informatico abbia scelto lei quel giorno in cui la signora era stata abbandonata dalla difesa".

Già. Meglio un avvocato di ufficio che un agguerrito e preparato avvocato di fiducia: Cose già viste, anche ad Avetrana.

Confermata la condanna di primo grado

Il procuratore generale, Vittorio Corsi e l'avvocato Savio si confrontano per due udienze ciascuno. Il primo, al termine di una requisitoria durata diverse ore, nella quale, uno dopo l'altro, analizza tutti gli elementi clou del processo, dall'arma del delitto, al pigiama, dagli zoccoli al calzino mancante, al ruolo che la famiglia Franzoni ha svolto negli anni in cui si è dipanata la vicenda, chiede, per Anna Maria la conferma della sentenza di primo grado, 30 anni, non senza prima averla invitata a confessare ed aver invocato la pietas della Corte. Alla pietas del procuratore generale risponde l'avvocato difensore che in due giornate di arringa ribatte punto per punto alle affermazioni dell'accusa e al termine chiede l'assoluzione piena per la sua cliente. Qualche giorno dopo è di nuovo il pg a replicare, conferma la sua accusa e chiede ad Annamaria il coraggio della confessione, mentre la difesa il coraggio lo chiede alla corte. Dicendosi certa dell'innocenza della cliente, appellandosi al "ragionevole dubbio" in processo in cui non ci sono ne arma né movente, chiede alla corte il coraggio di dubitare.

Anna Maria in lacrime davanti ai giudici

La parola fine tocca però ad Anna Maria. Tra le lacrime, la mamma di Cogne, che quel 30 gennaio 2002 chiedeva aiuto per il figlioletto ferito, ora con la voce rotta, ha chiede giustizia. «Siate giusti nel giudizio - ha detto - non ho ucciso mio figlio, non gli ho fatto niente». La corte però decide diversamente e dopo oltre 9 ore di Camera di Consiglio la condanna a 16 anni per l'omicidio del figlio (13 con l'indulto).

Anche la Cassazione respinge: condanna confermata

Contro la sentenza, i legali presentano ricorso in Cassazione che la suprema corte però respinge il 21 maggio 2008 confermando la sentenza emessa poco più di un anno prima dalla corte d'assise di Torino. Anna Maria Franzoni aspetta la sentenza a Ripoli Santa Cristina, sull'Appennino tosco-emiliano, a casa di un'amica. E a casa la raggiungono i carabinieri per notificarle l'arresto e trasferirla in carcere a Bologna.

Prosegue il turismo dell'orrore nella villetta

E non accenna a diminuire il turismo macabro a Cogne. La processione di gente nella casa di Montroz continua ancora oggi, magari in forma più contenuta. E' ancora l'allora sindaco Osvaldo Ruffier, memoria storica della comunità, a trovarsi a dover indicare il percorso da seguire per raggiungere la villetta di Annamaria e Stefano Lorenzi. «Quella vicenda resterà per noi una ferita incancellabile - afferma l'ex sindaco -. Dopo dieci anni va registrato che ci sono ancora persone che arrivano a Cogne e chiedono indicazioni per andare a vedere di persona la casa dove è stato ucciso il piccolo Samuele. Una pratica che, credo, non si interromperà mai». Il tempo, come racconta l'allora sindaco, ha contribuito a fare decantare la vicenda ma dalle sue parole si capisce che ci sono ancora ferite aperte: «chi ha vissuto la vicenda non potrà mai archiviare le infamanti accuse che ci si è sentiti rivolgere. Ad un certo punto è stata messa sotto accusa mezza Cogne, ma la giustizia ha messo da tempo la parola fine alla vicenda. A noi resta la macchia».

Cogne ha neve, gelo. E indifferenza. Il sindaco Franco Allera, primo cittadino dal 2010, geometra, è il progettista della «Villetta di Cogne», come ancora la chiamano, anzi, la rivendicano i turisti. «Sembra che il tempo non passi più, siamo ancora lì», dicono al bar «Centre», piccolo locale nella piazza del paese. Si ferma un'auto di una coppia a due passi del municipio. Lui chiede: «Scusi sa indicarmi la "villetta di Cogne"?». E un altro turista fa tintinnare la porta del tabaccaio, a qualche passo dal bar, e brucia il tempo del saluto con la sua impellente richiesta: «Avete una cartolina della "villetta"? Sa, quella...». Risposta: «So, so... No, non ne esistono». Il turismo macabro non ha limiti. Cogne come Avetrana. La «Villetta» in quel prato ripido in cui sbucano dalla neve rovi di rose selvatiche con bacche color del sangue è un po' meno sola, ma è una casa lasciata alla sua tragica testimonianza. Lasciata lì, non venduta, né affittata. Ad aprirla ogni tanto ci pensava «nonno Mario», il papà di Stefano Lorenzi, morto a fine agosto 2010. Hanno costruito due case appaiate e gemelle appena sopra e una grande di legno brillante e imponenti muri in pietra a fianco. C'è un grande cartello giallo dell'Immobiliare che l'ha costruita: si vende e si affitta. Ma dove Samuele fu ucciso con un oggetto mai scoperto (forse un cristallo di quarzo) tutto pare fermo al 2002. Solo il vento è riuscito a strappare sul lato nord i sigilli del sequestro. Sono spariti anche dalle ante di legno che proteggono gli «occhi» voluti da Anna Maria. Sulle altre finestre e sulle porte i fogli dell'autorità giudiziaria sono ancora lì, incollati da un largo e resistente nastro isolante marroncino. La «Villetta di Cogne» è in frazione Montroz. Guarda dall'alto il capoluogo e la prateria di Sant'Orso. Nessuno sa se sia ancora nei sogni di Anna Maria, forse lo è negli incubi. La mamma di Sammy, in carcere a Bologna, non vuole parlare con nessuno. Si è perfino chiusa nel bagno della sua cella per non incontrare il deputato Melania Rizzoli del Pdl che sta raccogliendo testimonianze per un libro sulle donne in prigione. Il suo avvocato torinese, Paola Savio, che ha tentato in tutti i modi di spegnere i riflettori sul «caso Cogne», mantiene la riservatezza di sempre. E dice: «Non verrà mai un giorno in cui Anna Maria smetterà di professare la sua innocenza».

Anna Maria in carcere riceve soltanto il marito Stefano, da sempre convinto della sua innocenza, e i suoi figli, Davide, che il mattino del delitto accompagnò allo scuolabus e Gioele, nato l'anno dopo. La Cogne tanto amata diventò un «paese di invidiosi» per Anna Maria proprio mentre aspettava il suo terzo figlio. Ne parlava nell'area verde dell'agriturismo della sua famiglia, a Monte Acuto, sull'Appennino bolognese. E lanciava le accuse, i suoi sospetti sui vicini. Si sentiva tradita dal paese che l'aveva accolta e l'aveva sorretta nei giorni della morte di Samuele. Un paese che si spaccò, che fu dilaniato da fronti contrapposti, che diventò a lungo un set tv.

Sindaco nel 2002 era Osvaldo Ruffier: «La gente adesso è indifferente, allora era un tumulto. Anche per Anna Maria è finita, a breve uscirà pure dal carcere. Donna tosta, sa? Eravamo in buoni rapporti anche se Stefano era un consigliere di opposizione. Subito fu la solidarietà, la compassione ad abbracciare quella famiglia, poi cominciarono a fare nomi di vicini e altri come coinvolti nell'omicidio. E allora Cogne si offese. Fu la frattura». E quello di oggi, Allera: «L'imperativo è uno solo, dimenticare e passare oltre. è stato un dramma della follia, una terribile vicenda umana. La giustizia ha fatto il suo corso e Cogne ha ritrovato il suo equilibrio». Dimenticare. Anche il parroco don Corrado Bagnod, che celebrò i funerali di Samuele, non spende parole: «Buongiorno, arrivederci».

La cittadina di Cogne troppo presto ha preso le distanze con i media e con Anna Maria Franzoni. Cosa nasconde la riservatezza di quella gente. Forse niente. Ma ad Avetrana quella stessa riservatezza per i media e per i forestieri è diventata omertà. Sono convinto che dietro il delitto di Cogne ci sia una verità storica non riconosciuta dalla verità processuale e mediatica. Ciò si evince da alcuni dati inconfondibili: manca il movente, manca l'arma del delitto, manca la confessione; la difesa aveva accennato di sapere chi era l'autore vero del delitto, annunciando di poterlo rivelare a tempo debito, ma poi non si è fatto più niente; la difesa insiste su indizi e macchie di sangue in posti della villetta che farebbero pensare ad una fuga precipitosa, ma queste prove non sono state abbastanza approfondite; si sa che la Franzoni non aveva un buon rapporto con Cogne, i cui abitanti, sbrigativamente, puntano il dito contro di lei quale unica indiziata, salvo poi non sapere un bel nulla del perchè del delitto; il sindaco o l'ex sindaco di Cogne affermavano che tutto era chiaro; si accennava che il probabile omicida è una persona di cui molti avrebbero paura. Si dice che la Franzoni potrebbe coprire il secondo figlio quale esecutore materiale del delitto. Si dice che la madre potrebbe aver dimenticato. Si parla persino di amanti della Franzoni. Forse qualcuno voleva rapire il piccolo Samuele e alle strilla di questi l’ha ucciso ed è scappato di corsa. Qualcuno ha fatto allusione anche a possibili interconnessioni politiche legate all’impegno amministrativo del padre dell’ucciso presso il Comune di Cogne. Si accenna anche a screzi continui con i vicini. Ma il fatto più inquietante è una intervista rilasciata da un familiare della Franzoni poche settimane dopo il delitto del piccolo Samuele, che parlava chiaramente di eventi che non possono essere resi pubblici.

Su “Oggi” Carlo Taormina a Giangavino Sulas afferma: è questa l’arma del delitto di Cogne? L’hanno cercata per anni. Dovunque. Hanno rivoltato come un guanto la villetta di Cogne. Hanno scavato in giardino. Hanno setacciato i terreni sottostanti. Hanno scandagliato i corsi d’acqua. Niente. I processi si sono chiusi in Cassazione il 21 maggio 2008 con la condanna definitiva di Annamaria Franzoni, senza l’arma che, la mattina del 30 gennaio 2002 aveva ucciso Samuele Lorenzi. Medici legali, carabinieri del Ris, periti, consulenti e magistrati si sono persi in mille ipotesi: dalla piccozza al martello, dal pentolino al sabò (lo scarpone valdostano), dal mestolo al moschettone da alpinista. L’hanno cercata invano con tale e tanta cocciutaggine che un giorno, qualche mese dopo il delitto, Giorgio Franzoni, il padre di Annamaria, esasperato ma con una buona dose di cinismo si fece intercettare da una microspia piazzata nella sua auto mentre diceva: «Sotterriamo una martellina dopo averla immersa nell’acido muriatico e gliela facciamo trovare. Così la smettono di cercarla». Oggi però la possibile arma che uccise il bambino di Cogne compare nello studio romano di piazza Cavour di Carlo Taormina, l’avvocato che ha difeso la Franzoni dal giugno 2002 al 20 novembre 2006, quando in Corte d’Assise d’Appello, a Torino, annunciò: «Lascio la difesa perché qui la sentenza è già scritta». «E se fosse questo l’oggetto con il quale è stato colpito a morte Samuele?», sorride e sogghigna Taormina mentre da un cassetto della scrivania tira fuori una pinza da elettrauto. «I miei medici legali, ai quali la feci esaminare, sono stati chiari: “È compatibile con le ferite sulla testa del bambino”. Ma io non ci credo perché a farmela trovare è stata una veggente. Questi personaggi sono dei ciarlatani, ma quella volta quella signora insistette tanto che alla fine mi convinse…». Scusi avvocato, quando quella volta? E chi è questa signora? Insomma, da dove salta fuori questa pinza e da quanto tempo la tiene nel suo studio? La storia che potrebbe addirittura portare a una richiesta di revisione del processo sul delitto di Cogne nasce negli studi di Telelombardia una sera del dicembre 2011 durante la trasmissione Iceberg condotta da Marco Oliva. Per poi approdare a Domenica 5 del 5 febbraio 2012, il talk chow di Canale 5 condotto da Federica Panicucci  Si parla della scomparsa di Yara Gambirasio. Va in onda un’intervista a una veggente che dichiara di sapere tutto sul destino della ragazza di Brembate Sopra. Il conduttore chiede a Taormina che cosa ne pensi. «Buffonate », sbotta con la sua solita feroce schiettezza il penalista, che subito dopo però aggiunge: «Anche se a me, anni fa, è capitato un episodio… ». E qui inizia la clamorosa rivelazione: «Una signora insistette tanto sostenendo di avere avuto una visione durante la quale era sicura di avere individuato l’arma con la quale era stato ucciso Samuele. Mi convinse, dopo tante insistenze, ad accompagnarla a Cogne ed effettivamente sul greto di un torrente che scorre sotto la casa dei Franzoni trovammo uno strano oggetto». Fine della trasmissione.

Il giorno dopo chiamiamo Carlo Taormina: «Scusi avvocato, ma quell’oggetto l’ha fotografato?». «No. Io ho l’oggetto. Lo tengo nel mio studio». Andiamo da Taormina ed ecco da un cassetto comparire una pinza, grande e pesante, con i beccucci rotondi in cima. Classico strumento di elettricisti, elettrauto, periti elettrotecnici. Sembra nuova. «Vede, impugnata così, diventa un oggetto snodabile che può aver lasciato quella scia di macchie di sangue sulle pareti della stanza del delitto», dice l’avvocato. «E la forma arrotondata del manico è compatibile con le ferite. Me l’hanno detto i medici legali». Quando l’ha trovata? «Nel settembre 2004. C’era appena stata la sentenza di primo grado con la condanna a 30 anni per la Franzoni. Una signora di Parma che sosteneva di essere una veggente, diciamo solo il nome, Wanda, moglie di un noto imprenditore, cominciò a telefonarmi: “Le faccio ritrovare l’arma che ha ucciso Samuele”. Non le diedi retta finché un giorno mi disse: “Ho sognato il posto dove è stata nascosta. Se andiamo a Cogne la troviamo”. Alla fine cedetti. Partimmo accompagnati dalla mia scorta. In base a quanto diceva di aver visto durante il sogno, la donna iniziò la ricerca del nascondiglio lungo il torrente che scorre sotto la villetta dei Franzoni. Lo individuò dopo due ore e allora, io, lei e gli agenti della scorta iniziammo a cercare l’arma. Passarono altre due ore e proprio uno dei poliziotti, in una specie di piccolo anfratto, trovò questa pinza. “È questa l’arma che ha ucciso Samuele”, disse la donna. Be’, lo ammetto, ne fui impressionato ». Perché non la consegnò agli inquirenti? «Non rientrava nei miei compiti. Io ero il difensore della donna accusata del delitto. Ero tenuto solo alla sua difesa e al segreto professionale. Mi limitai a consegnarla ai miei medici legali. Avuta la loro risposta, decisi di tenerla e seguire gli sviluppi dell’inchiesta e del processo di secondo grado». Perché non la fece analizzare? Su quella pinza si potevano scoprire impronte digitali o genetiche di qualcuno. Forse temeva che potessero diventare la prova provata della colpevolezza della Franzoni? «Questo lo insinua lei. Le prove contro Annamaria dovevano trovarle gli inquirenti, non io. E non le hanno mai trovate». Perché non la consegna adesso, la pinza? «No. Dopo che uscirà il servizio su Oggi, la butterò via».

Con Carlo Taormina non c’è molto da discutere. Però, se quella pinza ha massacrato Samuele, negli spazi fra le ganasce potrebbero ancora essere custodite tracce di materiale biologico. Ma può davvero essere l’arma del delitto? L’abbiamo chiesto all’uomo che più di chiunque altro ha esaminato le ferite che hanno provocato la morte del bambino di Cogne. Francesco Viglino, medico legale e docente universitario, fece due autopsie: il 31 gennaio e il 4 febbraio 2002. L’8 giugno dello stesso anno consegnò la relazione conclusiva del suo lavoro alla Procura di Aosta. Sulle ferite, nella perizia sostiene: «Per quanto si evince dalla morfologia delle lesioni rilevate… si è potuto ipotizzare che le stesse siano state prodotte da corpo contundente che presenta le seguenti caratteristiche: facile e agevole impugnabilità; rigidità; di buona consistenza; dotato di margini acuti, rettilinei e spigoli vivi». E prosegue: «Tale condizione consente di rilevare una superficie di impatto del corpo contundente assai ristretta, come appunto, quella di uno spigolo o di una grossa punta». E conclude: «Ciò detto circa le caratteristiche delle lesioni, dovendo ipotizzare quale possa essere stato il mezzo che le ha prodotte, non può essere identificato in un mezzo ben preciso ma può essere compreso in una vastissima gamma di strumenti idonei a ledere. Ad esempio manganelli o bastoni o mazze per ciò che concerne le armi proprie, martelli, soprammobili, strumenti per l’uso domestico, quali armi impropriamente usate». Chiediamo a Viglino perché nella sua relazione non parli di pinze: «Avrei dovuto enumerare decine di oggetti. Il problema è la forma delle ferite: sono a coda di rondine. Queste pinze, impugnate al rovescio, potrebbero essere l’arma del delitto perché provocherebbero lesioni con le caratteristiche che ho detto». Luciano Garofano, ex comandante del Ris di Parma, allora cercò di scoprire quale fosse l’arma non solo dalla forma delle ferite ma dalla scia di macchie di sangue sulle pareti della stanza: «E conclusi», ci dice oggi, «che doveva essere un oggetto maneggevole e con un manico abbastanza lungo. Un oggetto che facesse “l’effetto aspersorio” trascinando il sangue dal basso verso l’alto. Questa pinza ha un manico che può provocare questo effetto. E anche alcune delle ferite sono compatibili con le punte della pinza rivolte verso il basso. Ma mi chiedo: perché saltano fuori adesso?».

A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana?

Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia.

Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini.

Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione.

Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati.

Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro in elaborazione su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti.

Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda?

Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte.

Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo.

L'omicidio Giusy Potenza: le tappe.

Dal delitto all'arresto del cugino, al coinvolgimento delle due ragazze di Manfredonia per favoreggiamento della prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia.

Giusy Potenza viene uccisa il 12 novembre del 2004 a Manfredonia con una grossa pietra da 4 chili. Il suo corpo è ritrovato nei pressi dello stabilimento ex Enichem e di una scogliera il pomeriggio successivo all'omicidio. Dopo un mese e mezzo di continue voci sulla presenza di un branco e su presunte frequentazioni poco raccomandabili della ragazza, arriva la confessione di Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni cugino del padre. Il 23 dicembre il presunto omicida, sposato e padre di due figli di 2 e 8 anni, racconta agli inquirenti di aver cominciato dalla fine dell'estate precedente una relazione segreta con la giovane studentessa. Il pomeriggio dell'ultimo incontro, dopo aver avuto un rapporto sessuale in auto, l'uomo avrebbe detto a Giusy di essere intenzionato a mettere fine alla relazione.

Il 6 maggio 2005 le indagini hanno una svolta. Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Le due, residenti a Manfredonia e incensurate, avrebbero mentito agli inquirenti per non far sapere di essere implicate in un giro di prostituzione in cui avrebbero trascinato anche Giusy Potenza. Il sospetto di un loro coinvolgimento esisteva da tempo: le due ragazze avevano infatti sostenuto di aver trascorso a casa il pomeriggio dell'omicidio, mentre alcuni testimoni le avevano notate proprio davanti al negozio Bernini, dove Giusy si era recata per comprare dei dischi poco prima che si perdessero le sue tracce. Particolarmente importante la testimonianza di un uomo, secondo il quale le due giovani avrebbero fatto prostituire Giusy in sporadiche occasioni con clienti procurati da loro e con la promessa di dividere gli incassi. In ogni caso, secondo gli inquirenti, le due ragazze non sarebbero coinvolte nell'omicidio, di cui sarebbe unico responsabile Giovanni Potenza.

Poi, il 30 maggio, un nuovo colpo di scena. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. La rabbia innescata dal desiderio di vendetta lo ha spinto a entrare nel bar Olimpia di via Gargano, a Manfredonia, poco distante da casa sua: ha ordinato una birra, si è avvicinato con calma al bancone, ha estratto il coltello, ha urlato: «È ancora vivo questo qua?». Poi ha colpito, una volta sola, alla pancia, forse lo ha fatto seguendo un copione criminale maturato con il passare dei giorni, forse è stato un raptus scattato all'improvviso: fatto sta che in pochi istanti di lucida follia, Carlo Potenza, 37 anni, ha tentato di vendicare la figlia Giusy, la quindicenne massacrata il 12 novembre 2004 a Manfredonia, riducendo in fin di vita Pasquale Mangini, 41 anni, il padre di Filomena Rita, 19 anni, una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver spinto la minorenne alla prostituzione, una storia affiorata nel corso di ulteriori indagini avviate dalla polizia. Potenza è uscito dal bar subito dopo aver colpito, ha tentato di fuggire ma è stato bloccato e arrestato dalla polizia; il ferito è stato trasportato in ospedale: è stato ricoverato nel reparto di chirurgia d'urgenza e poi in rianimazione. I medici lo hanno operato, le sue condizioni sono gravi e la prognosi è riservata. L'uomo viene ferito all'addome, Carlo Potenza è arrestato con l'accusa di tentato omicidio. Il giorno successivo altre due persone vengono arrestate con l'accusa di concorso in tentato omicidio: si tratta di due pescatori, amici del padre di Giusy, che lo avrebbero accompagnato nei pressi del bar e lo avrebbero aspettato fuori. Subito dopo il ferimento avrebbero preso in consegna il coltello e lo avrebbero nascosto mentre Potenza si dava alla fuga. Potenza era stanco delle voci del paese sulla figlia, diffuse sia durante la fase delle indagini ma anche successivamente al fermo del presunto assassino. Incontrò Mangini nel bar Olimpia dove quest’ultimo stava bevendo una birra e lo colpì con un grosso coltello da cucina. Poi uscì dal bar e consegnò l’arma a due amici pescatori, Antonio Varrecchia e Biagio Piemontese. Poco dopo giunsero i poliziotti del Commissariato che lo arrestarono e lo sottrassero al linciaggio della folla. Potenza, anche lui pescatore come il presunto assassino della figlia, venne scarcerato e posto agli arresti domiciliari in una località segreta, lontano da Manfredonia. Da quel momento Carlo Potenza è tornato a vivere a Manfredonia, sempre ai domiciliari presso la casa dei suoceri.

Infine, il 24 ottobre 2006, l’ennesimo lutto: la madre di Giusy, Grazia Rignanese, peraltro in attesa di 7 mesi di un figlio, si è tolta la vita impiccandosi. Non ha retto al dolore per la perdita tragica della figlia e a tutte le altre tragedie.

La ragazza avrebbe reagito male minacciando di riferire tutto alla moglie del pescatore e agli altri familiari. A quel punto la vittima sarebbe uscita dall'auto e, forse per il buio e la pioggia, sarebbe caduta accidentalmente giù per la scogliera profonda 8 metri, ferendosi. L'uomo l'avrebbe aiutata a risalire ma la ragazza avrebbe ripetuto le minacce. In un impeto d'ira, il pescatore le avrebbe fracassato la testa con un grosso sasso, lasciandola esanime sotto una pioggia battente. A incastrare Giovanni Potenza, dopo 40 giorni di indagini, è il confronto tra il suo Dna, abilmente prelevato dagli investigatori, e quello del liquido seminale ritrovato sul corpo della vittima. Una prova che conferma quanto detto dalla ragazza a un suo coetaneo il pomeriggio dell'omicidio in un negozio di dischi, parole alle quali gli investigatori, in un primo tempo, non avevano dato peso. I familiari della ragazza, attraverso il loro legale, sostengono la presenza di altre persone al momento dell'omicidio (smentita dagli investigatori) e negano la relazione di Giusy con l'uomo, di cui peraltro in paese nessuno sembrava essere a conoscenza. Anche dai tabulati telefonici non arrivano elementi che confermano il rapporto. I risultati definitivi dell'autopsia poi sostanzialmente confermano quanto ipotizzato dagli inquirenti in un primo momento: nessuna violenza sessuale e omicidio d'impeto.

8 ottobre 2011. La corte d’appello di Bari ha assolto Filomena Rita (Floriana) Mangini e Sabrina Santoro, le due ragazze accusate e condannate in primo grado a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione di Giusy Potenza, la 15enne di Manfredonia uccisa da un cugino del padre il 13 novembre 2004 a colpi di pietra. In primo grado l’accusa sosteneva che le due ragazze dividessero tra loro i guadagni delle prestazioni di Giusy con i clienti (da 10 a 30 euro), visto che, secondo l’accusa, procacciavano i clienti alla giovanissima. In un secondo momento decadde l’accusa di sfruttamento e restò in piedi solo quella di favoreggiamento. Le dichiarazioni di un amico di Giusy non sono state ritenute credibili in appello, così come dai tabulati telefonici è emerso che non ci fossero contatti tra le due imputate e la ragazzina. Il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione famiglia della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Indagando sull’omicidio della minorenne (l’assassino è stato condannato a 30 anni in via definitiva), Procura foggiana, agenti del commissariato e squadra mobile scoprirono che Giusy si prostituiva per pochi euro, da 10 a 30 euro a secondo della prestazione. E lo faceva - diceva l’accusa che non ha retto al vaglio dibattimentale - perchè Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini le procacciavano i clienti e spartivano i guadagni, vicenda per le quali le due imputate furono arrestate e poste ai domiciliari il 6 maggio del 2005 (l’accusa di favoreggiamento nei confronti dell’omicida inizialmente ipotizzata dal pm fu poi archiviata), per poi tornare libere dopo due mesi. Già la sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007, aveva in parte ridimensionato l’impianto accusatoria: escluse che le due imputate avessero indotto Giusy a prostituirsi e l’avessero sfruttata: furono comunque condannate a 4 anni a testa «solo» per favoreggiamento della prostituzione (e non anche per induzione e sfruttamento). Per questo reato, dopo innumerevoli rinvii, si è celebrato e chiuso in un’unica udienza il processo d’appello a Bari davanti alla «sezione famiglia». Il sostituto procuratore generale chiedeva la conferma della condanna, richiesta ribadita dagli avvocati Raul Pellegrini e Flora Torelli costituitisi parte civile per conto dei familiari di Giusy; i difensori, gli avv. Francesco Santangelo e Mario Russo Frattasi, hanno replicato parlando di accuse prive di riscontri, basate su voci e sulla testimonianza di un cliente di Giusy che tra indagini e processo di primo grado aveva cambiato innumerevoli versioni, dicendo tutto e il contrario di tutto. L’accusa contro Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini poggiava su due testimonianze, essenzialmente. C’era un coetaneo della vittima al quale la minorenne confidò, un mese prima dell’omicidio, d’essere entrata in un giro di prostituzione per soddisfare gli uomini e d’averlo fatto su proposta delle due imputate. E c’era soprattutto un manfredoniano di 34 anni (all’epoca dei fatti) che avrebbe avuto rapporti a pagamento con Giusy, dalla quale fu indirizzato - sostenevano inquirenti e investigatori - dalla Mangini e dalla Santoro («vuoi fre...? C’è quella ragazza lì...» l’invito che gli avrebbero rivolto le imputate, sempre smentito da queste ultime). La difesa replicava che le due imputate conoscevano Giusy solo per essere amiche della sorella maggiore, ma non la frequentavano e tantomeno ne «gestivano» la prostituzione; i tabulati telefonici dimostravano che non c’erano contatti tra la vittima e le imputate, pure «obbligatori» se le due amiche fossero state coinvolte nel presunto giro di prostituzione; il presunto cliente di Giusy aveva detto tutto e il contrario di tutto, negando prima, ammettendo rapporti a pagamento con la vittima, accusando le due imputate e poi facendo marcia indietro. Non è nemmeno certo che Giusy si prostituisse, altro argomento battuto dagli avv. Santangelo e Russo Frattasi per chiedere l’assoluzione delle due sipontine: vero che lei lo aveva confidato ad un amico, ma Giusy non sempre era credibile; e lo stesso presunto cliente ne aveva dette tante da renderlo assolutamente inattendibile e incredibile.

E’ stato scritto un libro sul delitto di Giusy Potenza: "Non ce lo dire a nessuno" di Innocenza Starace. Diario dell'avvocato di Giusy Potenza. Il libro comincia così: “Chiamo per conto di un amico, una giovane uccisa si trova vicino allo stabilimento ex Enichem”. - È un giorno di novembre piovoso quello in cui la telefonata, ovviamente anonima e inquietante, giunge al commissariato di Manfredonia. I poliziotti corrono e rinvengono il corpo di una giovinetta con il volto sfigurato e privo di alcuni denti. I jeans abbassati fino alle ginocchia. La ragazzina non aveva le scarpe e indossava una maglia gialla dal collo alto. Le braccia rivolte all’indietro. Il viottolo dove il corpo è disteso è di terra battuta e procede parallelo alla statale che porta alle spiagge di ciottoli bianchi di Mattinata e alle scogliere dei lidi di quella frazione di Monte Sant’Angelo dal breve nome di “Macchia”. Un luogo appartato, anche se vicino ci sono masserie frequentate da pecorai. Resti di biancheria intima, disseminati qua e là sull’erba, ne fanno intuire l’uso e la gente che lo frequenta quando cala la sera. Il corpo avrà presto un nome: Giusy. È la figlia quindicenne di Grazia Rignanese e Carlo Potenza, di cui era stata denunciata la scomparsa il giorno prima dai genitori, pazzi di terrore e rabbia. Inizia il giallo più sconcertante che abbia mai vissuto questa terra garganica, già insanguinata da faide e violenze. I suoi figli, però, seppur spesso presi da incomprensibili attacchi di violenza, mai si erano macchiati del sangue di una ragazzina innocente. In queste pagine vi è quella storia. È un diario cronaca perché registra i fatti, documenta le vicende, riporta gli atti giudiziari e le testimonianze raccolte negli interrogatori e nella fasi processuali; ma registra anche ciò che lo sguardo della donna avvocato, cittadina di Manfredonia, mamma di due ragazze, educatrice scout, non può fare a meno di vedere. Nella vicenda di Giusy si può entrare in modi diversi. Con la curiosità morbosa dei media o con il legittimo dovere di far luce sulla verità. Con i “lo avevamo sempre detto” della folla anonima e numerosa, sempre presente ad ogni cambio e colpo di scena o con il grido “vendetta e non giustizia” del nonno. Con la rabbia composta ma all’improvviso furente e aggressiva del padre o con il silenzio assordante del suicidio della mamma, ancora più assordante per la morte con lei del bimbo che ha un nome ma non viene al mondo. Con lo sguardo dolce e ammiccante di Michela e il suo prendersi cura, nell’abisso della tragedia, dei capelli di chi le sta accanto: “posso farti i capelli?” Io ci sono entrata perché coinvolta come avvocato di parte. La famiglia mi ha dato fiducia, abbandonandosi totalmente a me. Ci sono entrata al punto tale da capire che la ragione vera da trovare in questa storia non è solo quella della morte di Giusy, ma la ragione per cui si può morire a quindici anni in una città come Manfredonia (ma è solo Manfredonia?) che guarda a se stessa e ai suoi giovani voltando lo sguardo dall’altra parte. Dalla posizione privilegiata di chi è catapultato in una vicenda drammatica e complessa, tragica nel suo apparire e nel suo evolversi, mi è stato permesso di avere uno sguardo più profondo. Di quello sguardo il libro non priva il lettore, il quale può scegliere, una volta terminato la lettura, con la sentenza, di ritenere la vicenda conclusa. Oppure può ricominciare, pagina dopo pagina, a rileggere la storia e le domande vere che quel corpo trovato di fronte all’orizzonte, lasciano aperte. A queste domande ho dato forma non per futura memoria di Giusy ma per il futuro dei ragazzi che a quindici anni hanno molte domande, molti sogni, molti problemi. Ma non sempre hanno la fortuna di trovare le persone giuste.-

Torno a ripetere. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutte come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e sono state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo.

«Oggi 15 gennaio 2011 alle ore 15, visti la situazione venutasi a creare, i comunicati non corrispondenti alla verità e il coinvolgimento di persone che nulla hanno a che vedere con il grave fatto accaduto, si  chiede l’assoluto silenzio stampa per dar modo agli inquirenti e alle forze dell’ordine di svolgere l’attività investigativa con maggior serenità e tranquillità». Ancora più conciso il comunicato del sindaco che «invita gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio». Sembra la giusta presa di posizione della famiglia di Sarah Scazzi o del sindaco di Avetrana. La comunità, a causa dell’evento delittuoso, ha subìto grave danno d’immagine per colpa di un certo modo di fare informazione. Invece no. Da questi nessuna ribellione contro i gossippari. Nonostante l’attacco mediatico sia stato meno strumentale e pregiudizievole ai danni di Brembate di Sopra, senza comparire come avevano fatto per l’appello del 28 dicembre, Fulvio Gambirasio e Maura Panarese si affidano a un comunicato. Appongono le loro firme e lo consegnano al sindaco Diego Locatelli che lo legge in una conferenza stampa organizzata nella sala consiliare. Ancora più conciso il comunicato del sindaco del 16 gennaio 2011 che invita la stampa, le troupe televisive in particolare, ad abbandonare il suolo di Brembate di Sopra. Dopo di che è la volta di un dipendente della Lopav-Pima, una ditta di coperture di Ponte San Pietro. I titolari sono stati blindati in una inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli per traffico di droga e riciclaggio. Si era parlato di rapporti di lavoro fra Fulvio Gambirasio e la Lopav e che il rapimento della figlia potesse essere interpretato come una ritorsione nei suoi confronti. Una ipotesi che non si era mai concretizzata. Alcune trasmissioni televisive, «Chi l’ha visto?» e «Quarto grado», hanno però irritato i dipendenti della Lopav che hanno fissato la loro protesta in un comunicato. In una trentina si sono presentati alla conferenza stampa. «Sono in corso attività ed indagini giuridiche nei confronti dell’amministratore della società Lopav-Pima (attualmente detenuto nel carcere di Bergamo). In attesa di verificare i fatti e la sussistenza di eventuali reati la società è gestita da un commissario straordinario nominato dal Tribunale. I dipendenti che lavorano per la società Lopav-Pima sono 110, l’indotto è di circa 250 persone. Siamo stati dipinti come “mafiosi, corrotti e persone non oneste”». E ancora: «In realtà siamo padri di famiglia, lavoriamo per guadagnare il nostro pane onestamente per le nostre mogli, i nostri figli e continuiamo a farlo con la dignità insegnataci dai nostri genitori. Il sistema mediatico sta creando un mostro inesistente allo stato dei fatti. Chiediamo il diritto e il rispetto di lavorare con tranquillità, senza dover essere additati da chiunque si avvicini ai nostri mezzi. Voi fate il vostro lavoro, con dignità e professionalità. Noi vorremmo fare altrettanto. Concedeteci questo sfogo: perché ogni volta che torniamo a casa la domanda dei nostri figli è “ma è vero papà che sei mafioso?”. Ditemi voi cosa possiamo rispondere. Vi ringraziamo ma è doveroso tutelare il nostro lavoro, i nostri figli e le nostre famiglie». Brembate di Sopra come Avetrana: stessa malasorte a causa di una giustizia inefficiente e di una informazione approssimativa.

SARAH SCAZZI: Resoconto

Cosa differenzia i casi di persone scomparse è nella definizione mediatica dell’atteggiamento delle comunità, che nulla sanno circa modi, tempi e circostanze delle sparizioni: al nord si parla di riservatezza, nel sud di omertà. Certo è che se qualcuno sa, il modo in cui vengono trattati i testimoni, incentivano questi a non dire nulla di quanto loro conoscenza. Andirivieni dagli uffici giudiziari, spese, oneri e perdita di giornate lavorative con risibili rimborsi. Mancata tutela con sputtanamento mediatico e probabili ritorsioni. Eventualità di coinvolgimento con accuse e sospetti infondati.

Cosa accomuna i casi di Ottavia de Luise e Elisa Claps a Potenza, il caso dei fratellini Ciccio e Tore a Gravina di Puglia, di Sarah Scazzi di Avetrana e di Yara Gambirasio di Brembate di Sopra: l’inadeguatezza se non il fallimento del sistema investigativo. Ritardi ed errori delle indagini e delle ricerche. Per Ottavia, Elisa e Sarah si indicò la fuga volontaria come motivo della scomparsa. Per Ciccio e Tore e per Yara si incarcerarono degli innocenti: il padre Filippo Pappalardi per Ciccio e Tore e il marocchino Mohammed Fikri, il primo extracomunitario a portata di mano, per Yara.

Mai che si parta da dei punti fermi nelle ipotesi: intra familiare o extra familiare. Intrafamiliare significa motivi passionali o di interesse economico. Extrafamiliare significa spasimanti respinti o diverbi con soci o vicini di casa, raptus o serial killer, pedofilia, ratto per espianto organi o schiavitù, sette sataniche. L'adottare la tesi della fuga volontaria per ragazzi al di sotto dei 18 anni, significa mancare il dovere di riportare a casa fanciulli che per legge sono incapaci e, comunque, non poter adottare gli strumenti investigativi (quali le intercettazioni, le perquisizioni, i fermi giudiziari), riservati ai reati più gravi, come il rapimento e l'omicidio.

Certo che non ci si può esimere dal citare il pensiero di Rita Pennarola che scrive su “La Voce delle Voci”. Moventi illogici, che non reggono, eppure diventano prove. Armi del delitto mai trovate. E quell'ombra dei clan che lasciano una firma sul cadavere, senza che nessuno voglia vederla. Lontane dalla prontezza delle Direzioni Antimafia, molte Procure di provincia seguono per mesi ed anni piste passionali, ruotando intorno a gelosie familiari, storie a luci rosse o al massimo sballi da balordi di periferia. Ma ecco come, da Melania alle altre, è possibile ricostruire una storia ben diversa. Manca l'arma del delitto. Oppure è lo stesso cadavere che non viene ritrovato, se non per circostanze del tutto fortuite. O ancora, il movente risulta illogico anche rispetto al più elementare buon senso. Restano così per sempre senza giustizia le ragazze sgozzate e lasciate dentro un bosco seminude, con gli occhi ancora spalancati a guardare il cielo, le mani giunte come in preghiera. Le donne belle e innocenti come Melania Rea. Un classico, la vicenda giudiziaria sul suo tragico destino: corpo ritrovato solo grazie ad un telefonista rimasto anonimo, arma (in questo caso un coltello da punta e taglio) finita chissà dove, movente assurdo. E in carcere con l'accusa di omicidio, ovviamente, c’è il marito. Senza che nessuno (o quasi, come vedremo) dei tanti inquirenti succedutisi intorno a questa atroce vicenda abbia saputo - o più probabilmente, potuto - rispondere ai mille interrogativi lasciati aperti dalla pista passionale. Un quadro da manuale che accontenta tutti, quella moglie gelosa accoltellata dal coniuge innamorato pazzo dell'altra. Così nessuno solleverà più il velo su eventuali traffici della malavita organizzata all'interno dell'esercito. E forse cala una pietra tombale sulle vere ragioni dell'assassinio. «Accade talvolta - dice Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nelle più scottanti vicende della storia italiana, da Aldo Moro a Emanuela Orlandi - che il movente di un crimine risulti illogico, non congruente. Ciononostante taluni investigatori continuano a perseguire lo stesso filone d'indagini, che poi o viene smontato in fase processuale, oppure travolge con accuse pesantissime persone risultate poi innocenti». La tesi di Imposimato - che qui non parla in riferimento al delitto Rea, ma risponde ad una nostra domanda sui moventi “illogici” – è stata confermata fra l'altro nel caso della contessa Alberica Filo della Torre: attraverso una rigorosa ricostruzione dei fatti, sulla Voce di aprile 2009 Imposimato smontava la solita pista passionale seguita per vent'anni dagli inquirenti, indicando le responsabilità del cameriere filippino, sbrigativamente scagionato nei primi giorni successivi al delitto. Ed arrestato solo ad aprile 2011, dopo la scoperta del suo Dna in una macchia di sangue nel letto della vittima. «Ero stato colpito - spiega Imposimato - non solo dalla mancata valutazione di indizi che portavano univocamente in direzione del filippino, ma anche da quella che consideravo l'ingiusta incriminazione di alcune persone contro cui non esistevano indizi gravi, precisi e concordanti». Come Roberto Jacono, accusato, arrestato e poi prosciolto, una vita avvelenata da indagini miopi. Perciò ripartiamo da qui. Dalla grande lezione di Imposimato sulla necessità di un solido movente. Che non pare essere un amore folle, per il marito di Melania Salvatore Parolisi. Ma una motivazione forte, come vedremo, manca anche nella ricostruzione giudiziaria attuale di altre vicende che tengono da mesi col fiato sospeso gli italiani. Casi per lo più irrisolti, che nell'immaginario collettivo misurano quanto la nostra magistratura sia in grado di dar pace alle vittime e ai familiari con sentenze e prove definitive. A disporre l'arresto di Salvatore Parolisi è la Procura di Ascoli Piceno, che indaga fin dal quel giorno (era il 18 aprile 2011), prima per la scomparsa e poi per l'omicidio di Melania, dopo il ritrovamento del cadavere, avvenuto due giorni dopo a Ripe di Civitella. Quest'ultima località è in provincia di Teramo. Perciò, quando a giugno l'autopsia rivela che la donna è stata uccisa nello stesso luogo in cui viene ritrovata, la competenza passa da Ascoli a Teramo. Dove Salvatore, già in carcere, si trova di fronte al giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo. Non un magistrato qualsiasi, lui. Basti pensare a quel Premio Borsellino assegnatogli nel 2008 durante un incontro pubblico a Roseto degli Abruzzi. Accanto a Cirillo, come relatori, ci sono Luigi de Magistris e Clementina Forleo. Entrambi erano stati colpiti da punizioni “esemplari” ad opera del Consiglio Superiore della Magistratura. La storia di de Magistris e Forleo è nota. Per loro oggi gli effetti di una giustizia non condizionata dai poteri forti stanno finalmente arrivando. Non così nel 2008. Il fatto che in quel tumultuoso periodo Cirillo fosse schierato al fianco dei due coraggiosi colleghi, la dice lunga sulla rigorosa volontà di non lasciarsi condizionare dai ranghi “alti” del potere, quand'anche essi fossero all'interno della stessa magistratura. Cirillo, che conosce a fondo le indagini sul caso Rea, è il gip che il 2 agosto convalida l'arresto di Parolisi richiesto dal pm ascolano Umberto Gioele Monti. Ed è grazie a Cirillo che le attività investigative cominciano ad assumere una diversa fisionomia. Non solo la ricerca spasmodica fra storie di corna a luci rosse e chat per transessuali, ma qualcosa di più solido, quello sfondo inconfessabile di traffici che forse vedono al centro, assieme all'istruttore delle soldatesse Parolisi, interi pezzi della caserma Clementi di Ascoli Piceno. Sembra di essere ad una svolta. Il gip non tralascia alcuna ipotesi, tanto che viene ascoltato il magistrato romano Paolo Ferraro, l'uomo che aveva dettagliato l'esistenza di riti satanici dentro alcuni complessi militari italiani.

A tal proposito per rimarcare la fondatezza del riferimento si cita l’interrogazione parlamentare “Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06272, pubblicato il 17 novembre 2011, Seduta n. 637. LANNUTTI – Ai Ministri della giustizia e della difesa. - Premesso che: il pubblico ministero di Roma, Paolo Ferraro, ha condotto in prima persona un’indagine su una presunta setta satanica, a cui avrebbero aderito anche alcuni esponenti dell’esercito, un gruppo segreto che si riunirebbe in eventi dove confluirebbero riti esoterici e banchetti a base di sesso e droga. Ad avvalorare questa pista ci sarebbero anche dei file audio che contribuirebbero a dissolvere qualsiasi dubbio sulla tesi del magistrato; l’indagine di Ferraro potrebbe, a detta dello stesso, intrecciarsi anche con il delitto di Ripe di Civitella dove il 20 aprile 2011 fu ritrovata morta Melania Rea, moglie di un caporalmaggiore del 235° Reggimento Piceno; successivamente il Consiglio superiore della magistratura (CSM), nella seduta del 16 giugno 2011, come si legge su “giustizia quotidiana.it”, ha deliberato di collocare in aspettativa per infermità, per quattro mesi, il pubblico ministero di Roma Paolo Ferraro. Il provvedimento è stato adottato con una procedura d’urgenza, motivata dalla asserita gravità ed attualità dell’inidoneità del magistrato ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio; dopo la decisione del CSM di sospenderlo per quattro mesi dal servizio per gravi motivi di salute, il magistrato decide di rendere pubblica la sua vicenda cominciata quando nel 2008 andò a vivere nella città militare della Cecchignola, a Roma; pertanto ad oggi Paolo Ferraro rimane sospeso per quattro mesi per motivi di salute, nonostante lui si dichiari perfettamente abile e a suo sostegno ci siano diverse perizie mediche che lo certificano; i difensori del pubblico ministero denunciano l’anomalia dell’azione del CSM e hanno presentato ricorso al Tar del Lazio per denunciarne l’illegittimità. In particolare gli avvocati Mauro Cecchetti e Giorgio Carta hanno espresso forti critiche verso il modus operandi del CSM nei confronti del loro assistito; si legge sul sito sopra citato: “Il procedimento cautelare seguito dal Csm risulta non solo costellato di violazioni delle garanzie difensive, ma addirittura atipico, perché non previsto da alcuna norma. Non risulta fondato su alcuna perizia medica, se non una risalente al 2008 che, peraltro, attestava l’idoneità allo svolgimento di attività professionali anche complesse”. Un particolare alimenta ulteriori sospetti nei due legali: “Il Csm – hanno riferito gli avvocati – ha stranamente ritenuto ininfluenti le numerose perizie mediche di parte, private e pubblica del 2011, attestanti la specifica idoneità ed anzi qualità intellettuale del magistrato, ed ha ignorato una denuncia analitica e argomentata depositata in atti, che evidenzia fatti gravissimi a suo danno patiti dal 2009 in poi”. Il pubblico ministero Paolo Ferraro non ha mai avuto provvedimenti disciplinari di alcun tipo, mentre ha sempre avuto giudizi di ottimo rendimento, occupandosi di inchieste anche importanti; -considerato che: la signora Milica Cupic, cittadina italiana, lamenta una serie di comportamenti quanto meno opinabili di organi della giustizia militare e civile in ordine a fatti da lei denunciati; in più occasioni ed in data 4 ottobre 2003, la signora Cupic ha denunciato gravi fatti a sua detta ascrivibili a personaggi identificati e identificabili. In particolare riferiti al suo ex marito, generale a due stelle e dunque alta carica dell’Esercito italiano, che ella ebbe a denunciare già nel 1996 in relazione alla morte violenta della propria figlia e di un sottoufficiale dell’Esercito avvenuta il 3 febbraio 1986; secondo quanto riferito dalla stessa signora Cupic ella avrebbe altresì avuto modo di segnalare come un alto grado della Guardia di finanza avrebbe favorito la promozione al suo ex marito. Tale personaggio sarebbe poi diventato Comandante Generale della Guardia medesima; la Procura della Repubblica di Roma, dopo aver ricevuto l’esposto firmato dalla signora Cupic, lo avrebbe trasmesso al Procuratore Aggiunto, dottor Ettore Torri, come esposto anonimo, mentre, ad avviso dell’interrogante, ne risultava esattamente identificato il soggetto che lo aveva inviato; tali denunce sono state archiviate, ma è evidente che in tal caso la signora Cupic avrebbe dovuto essere indagata per calunnia, cosa che non è mai avvenuta; sembra per la verità che la denuncia della signora Cupic in merito alla morte del Sottoufficiale e della propria figlia siano state archiviate, giustificandole con il fatto che la signora sarebbe affetta da «sindrome delirante lucida» e che di ciò la procura militare, per quanto riferito dall’interessata, sarebbe stata informata nel 1996, in modo improprio dal Tenente Colonnello dottor Corrado Ballarini di Bologna. La Cupic ha avuto più incontri, di sua spontanea volontà con il Capitano psichiatra criminologo Marco Cannavici nel 1995 presso il Policlinico Militare Celio di Roma, il quale fece in effetti un rapporto al direttore del Celio pro tempore sullo stato psicologico della signora, nel quale tuttavia mai pronunciò la diagnosi che avrebbe portato all’archiviazione; in data 15 gennaio 2005, la signora Cupic presentò alla procura militare di Roma una formale denuncia contro il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Giulio Fraticelli, per «omissioni in atti d’ufficio», in relazione alle denunce presentate nei confronti dell’ex marito ed alla documentazione a suo dire inviata al generale Pompegnani. Il generale Fraticelli avrebbe comunicato alla signora Cupic di aver relazionato al procuratore Intellisano, il quale, peraltro, in un incontro avvenuto con la Cupic il 7 dicembre 2004, negò di aver mai ricevuto alcuna cosa; della denuncia di cui sopra esiste traccia nella lettera che la Procura militare della Repubblica presso il tribunale militare di Roma ha inviato allo studio legale Lombardi in data 16 maggio 2005, (Numero 8/C/04INT «mod. 45» di protocollo) a firma del Procuratore Intellisano; nel dicembre 2004 la Cupic ebbe a presentare una denuncia alla Procura Militare contro il Tenente Colonnello Ballarini inviandola al A.G. Maresciallo Cervelli; considerato infine che la sospensione del dottor Ferraro, improvvisamente ritenuto inadatto ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio, appare all’interrogante di dubbia legittimità, si chiede di sapere: di quali informazioni disponga il Governo sui fatti esposti in premessa; quali iniziative di competenza intenda adottare.”

Il 9 agosto 2011 Giovanni Cirillo lascia da un giorno all'altro il tribunale di Teramo. A sorpresa, nel pieno delle indagini sul delitto di Melania, il Csm lo manda a presiedere la Corte d'Assise di Giulianova. Ma lui non molla del tutto. Ed affida a Vanity Fair un'intervista che avrebbe dovuto imprimere la giusta accelerazione alle indagini. E invece è caduta nel vuoto. Il giudice parla con la giornalista di Vanity appena due ore dopo aver lasciato l'incarico: «da due ore - esordisce - non me ne occupo più, quindi non ho il dovere del silenzio». Cirillo ha ragionato a lungo sulle ragioni alla base del delitto. Sa che la pista della gelosia traballa. E spiega perchè: «il movente passionale ipotizzato dai magistrati di Ascoli (su cui è interamente basata l'ordinanza di custodia cautelare del pm Monti), l'idea che Parolisi fosse finito in un “imbuto”, stretto fra moglie e amante, non corrisponde alla sua condizione». Di più: «Parolisi non era un uomo disperato, lui con i piedi in due scarpe ci stava a meraviglia e non avrebbe mai lasciato entrambe. I pianti continui con l'amante erano finti, lo scrivono anche i carabinieri nelle intercettazioni: “Finge di piangere”. Inoltre, ha avuto fino all'ultimo rapporti con la moglie. Il movente è un altro». Non può spingersi oltre, Cirillo, consapevole com'è di dover rispettare il lavoro che ha ormai lasciato ai colleghi. Ma uno scenario ampiamente logico e credibile prende corpo dalle sue parole: «Melania - dice il gip – è stata uccisa perché aveva scoperto un segreto inconfessabile, forse legato alla caserma dove Parolisi lavorava. In tutta l'indagine resta un margine di dubbio sul fatto che Parolisi abbia accompagnato la moglie nel boschetto e lì sia intervenuta una persona che, però, non ha lasciato tracce di sè». Questo, aggiunge Cirillo, «sposterebbe tutto su un piano di premeditazione a aprirebbe scenari inquietanti, se Salvatore Parolisi stava rendendo conto a qualcuno di qualcosa che non sappiamo, se la moglie aveva scoperto qualcosa e lui è stato costretto a portarla lì». Non sapremo mai come sarebbero andate avanti le indagini se fosse stato il gip Cirillo a condurle in porto nei lunghi mesi che hanno preceduto il rito abbreviato per Parolisi. Nei primi giorni di giugno 2011 al 235esimo Reggimento Piceno fa ritorno la soldatessa Laura Titta, napoletana, che proprio presso quel reparto di stanza alla caserma Clementi era stata addestrata nel 2009. Dopo un anno di servizio a Napoli, ormai congedata, stranamente fra aprile e maggio fa domanda per tornare ad Ascoli. Tanto nel 2009 quanto nel giugno 2011, dentro quella caserma l'addestratore delle reclute femminili è il caporal maggiore Parolisi. Ma quando il 14 giugno le forze dell'ordine inviate dalla Dda partenopea arrivano alla Clementi per arrestare la Titta nell'ambito delle indagini sul boss Michele Zagaria, il fresco vedovo Parolisi dichiarerà agli inquirenti ascolani che lui la Titta non la ricorda, non l'ha mai frequentata. E tanto basterà, tanto sarà sufficiente ad allontanare l'immagine dei boss che estendono il loro potere nei reparti delle caserme, infiltrandosi tra le nostre forze armate. La reputazione dell'esercito, anche stavolta, è salva. Anche perché nessuno fra i tanti militari che erano in quell'area il 18 aprile, a quell'ora, per esercitazioni, ha sentito nulla, neppure un gemito della donna colpita con 37 coltellate. E per tutti va bene così.

Poi c'è un'altra donna. La cui storia, ben al di là di tutte le vere o presunte amanti di Parolisi, serve a chiarire i contorni degli inconfessabili traffici che probabilmente andavano avanti da tempo in quella, come forse in altre caserme italiane. Il 13 agosto del 2011 Alessandra Gabrieli, 28 anni, caporalmaggiore dei parà nell'esercito italiano, viene arrestata a Genova, la sua città, per spaccio di eroina. Il volto segnato dalla droga, la ragazza racconta agli investigatori: «mi hanno iniziato all'eroina alcuni militari della missione Isaf di ritorno dall'Afghanistan. È successo nel 2007 ed eravamo nella caserma della Folgore a Livorno. Ritengo che quello stupefacente, molto probabilmente, venisse portato direttamente dall'Asia». La giovane, che a settembre è stata condannata in primo grado a tre anni e mezzo di reclusione, aveva raccontato agli inquirenti che quanto capitato a lei era già successo ad altri colleghi. Aprendo di fatto la strada ad un'indagine della magistratura militare sui traffici nelle caserme italiane di droga proveniente dall'Afghanistan, che ne è notoriamente il primo produttore al mondo, con un fatturato salito alle stelle dopo l'arrivo delle forze Isaf. Altra centrale di smercio per hashish e dintorni in arrivo dalle “missioni di pace” deve poi essere stata un'altra caserma, quella degli Alpini a Tolmezzo, dove ha peraltro prestato servizio a lungo Salvatore Parolisi di ritorno dall'Afghanistan e prima di arrivare ad Ascoli. Ad aprile 2011, proprio nello stesso periodo in cui Melania viene assassinata, dentro la caserma di Tolmezzo qualcuno scopre che le canne dei fucili rientrati dall'Afghanistan sono imbottite di hashish. Un ritrovamento casuale, che porta alla scoperta di 360 grammi di sostanza stupefacente contenuta nei fucili. Un metodo ingegnoso, che ricorda tanto l'arte di arrangiarsi. Fatto sta che nessuno si presenta a ritirare quei fucili, benché la notizia delle indagini non fosse stata ancora diffusa. Unico indagato, un militare nato a Capua, che però nega ogni addebito. Ad oggi non si sa nulla né dell'inchiesta aperta dalla Procura militare, né di quella condotta dalla magistratura ordinaria, dopo che i fascicoli erano stati trasferiti da Tolmezzo a Roma. Indizi, solo indizi. Ma come non soffermarsi sulla loro evidenza? Perché ostinarsi a considerare un “depistaggio” quella siringa conficcata sul petto dilaniato di Melania, con accanto un laccio emostatico? «Quasi un marchio - commenta un avvocato del vesuviano da sempre alle prese con omicidi di camorra - quella siringa sul petto. Interpretando bene certi segnali, farebbe pensare più ad una tremenda punizione per il marito, con relativo avvertimento per gli altri, che alla necessità di sopprimere un testimone scomodo, cosa che generalmente i clan fanno con modalità meno appariscenti». E tutto questo, spiegherebbe anche le frasi che Parolisi dice nei primi minuti dopo aver denunciato la scomparsa della moglie («me l'hanno presa»), o le frasi che bofonchia con rabbia da solo in macchina («gli devo strappare il cuore dal petto, mi devo fare trent'anni ma lo devo fare»), e infine lo scambio di battute con la sorella Francesca (lei: «ora esce fuori tutto». E lui: «mi dispiace che ci ha rimesso Melania»). Salvatore sa. Conosce il volto degli assassini, di cui è  stato in qualche modo complice?. Ma sa ancor meglio che non può e non deve parlare. E' la “legge” ferrea della camorra. Se parli, tu o i tuoi familiari prima o poi farete la stessa fine.

E a proposito di morti improvvise nell'esercito, sempre in quella tarda primavera del 2011, il 4 giugno, a Kabul viene ucciso il tenente colonnello Cristiano Congiu in circostanze che lasciano aperta la strada a molti dubbi. Se infatti l'esercito si affretta a precisare che si è trattato di un delitto di criminalità comune (avrebbe difeso una donna dagli “scippatori” in suolo afgano...), va ricordato subito che in quel bollente contesto mediorientale Congiu si occupava precisamente di segnalare e consegnare alla giustizia gli artefici dei traffici di stupefacenti, forte di una lunga esperienza in materia. L'aveva acquisita, forse, nei lunghi anni in cui era stato in servizio a Napoli, caserma del Rione Traiano. Un'ombra si allunga, inoltre, su quell'ultimo messaggio di Cristiano affidato alla sua pagina Facebook: «Qualcuno mi vuol far tacere». Scrive il Messaggero all'indomani dell'agguato che «la sua morte potrebbe quindi essere legata alla sua attività di investigatore, un agguato studiato nei minimi particolari per farlo tacere». Sono state aperte ben due inchieste su quei fatti, una della magistratura e l'altra dell'Arma dei carabinieri. Ad oggi, nulla è stato reso noto sui risultati. Congiu, che era balzato alle cronache per aver arrestato un pericoloso esponente dei Casalesi, quel giorno a Kabul aveva ricevuto la visita di una donna americana. Così sintetizza Peacereporter i contorni finali del giallo: «Rimane senza risposta da parte del ministero della difesa l'interrogativo della presenza in quella zona del militare e della sua ospite statunitense, in visita a una miniera di smeraldi a cinque ore da Kabul». L'informatissimo Corsera.it ha da tempo messo in relazione l'elementare puzzle tra l'atroce fine di Melania, l'omicidio Congiu, la presenza di Laura Titta alla Clementi e perfino il “suicidio” di Marco Callegaro, che a metà 2010 aveva denunciato sprechi e strani movimenti nel battaglione dell'esercito di stanza a Kabul. Tutti elementi che, a parte il coraggioso giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo, nessuno fra gli inquirenti ad Ascoli o a Teramo ha messo in connessione fra loro per dare una spiegazione al massacro di Melania e trovare un movente ben più convincente rispetto a quello del presunto folle amore per la soldatessa: un sentimento che le stesse intercettazioni mostrano invece fragile, se non addirittura inesistente («ma chesta è scema?», dice Salvatore parlando con se stesso di Ludovica). E c'è ancora una frase, detta a botta calda, che accomuna Parolisi ad un'altra protagonista di un caso recente, anche lei imputata per omicidio. Salvatore Parolisi la dice, subito dopo la scomparsa di Melania, all'allora amico Raffaele Paciolla: «me l'hanno presa...». Pari pari l'esclamazione di Sabrina Misseri dopo la sparizione della cugina Sarah Scazzi: «l'hanno presa...».

Chi aveva preso Sarah? E perchè? Anche qui, la cortina di silenzio sulle tante incongruenze della ricostruzione ufficiale, è diventata di piombo. Cristallizzata, per giunta, dalle mille sequenze realizzate per la tv ripercorrendo quasi esclusivamente le carte dell'inchiesta giudiziaria. Nessuno, insomma, che provi almeno una volta a porre apertamente domande sugli stessi investigatori. I quali spesso non guardano dentro quei piccoli squarci rivelatori, illuminanti di un'altra verità. Quella che non si può dire. Forse qualcuno è disposto a scontare 30 anni di carcere piuttosto che svelare i veri mandanti. Un terrore imposto a chi ben conosce logiche e linguaggi della malavita organizzata.

«Cosa accomuna i casi di Elisa Claps a Potenza, di Sarah Scazzi ad Avetrana e di Yara Gambirasio di Brembate di Sopra? L'inadeguatezza, se non il fallimento, del sistema investigativo. Ritardi ed errori delle indagini e delle ricerche. Per Elisa e Sarah si indicò la fuga volontaria come motivo della scomparsa. Per Yara si incarcerò un innocente, il marocchino Mohammed Fikri, il primo extracomunitario a portata di mano». Lo sfogo è di Antonio Giangrande, avvocato di Avetrana e personaggio noto del web attraverso la sua battagliera associazione “Contro tutte le mafie”. Nel monumentale dossier dedicato alle tragiche vicende di queste giovani donne, Giangrande è forse l'unico che non teme di indicare con chiarezza elementi che riguardano gli stessi investigatori. E a chiedersi, per esempio, «come è possibile che a presiedere la Corte d'Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio nonché collega dell'aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero, cioè ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l'accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto?». «Qualsiasi decisione finale sarà presa - rincara la dose l'avvocato – sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale». C'è solo Giangrande a ricordare come nel 2004, in quella stessa zona, le indagini sul delitto di una coetanea di Sarah, Giusy Potenza, avessero avuto come sfondo quella prostituzione minorile che nei territori fra Taranto e Foggia vede da sempre all'opera la Sacra Corona, orrenda gemmazione della camorra in terra pugliese, e come vittime centinaia di bambine innocenti, cui la natura aveva donato una bellezza senza pari. Abbandonata subito, infine, anche la pista del delitto di camorra nel caso di Yara Gambirasio, benché entrambi i titolari della ditta per la quale lavorava il padre della ragazza siano stati arrestati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. E così, mentre si continuano ad eseguire gli oltre diecimila esami del Dna ad interi paesi, sperticandosi fino alla ricerca di possibili “figli naturali” dei presunti assassini, nessun rilievo è stato dato dagli inquirenti alle voci che fin dai primi giorni si rincorrevano in paese, a Brembate, su quella droga che circolava a fiumi nelle zone periferiche, gestita - come ormai ovunque in Lombardia e in tutto il Nord - da uomini che portano cognomi calabresi o campani. E che in zona vivono e lavorano da tempo anche con attività imprenditoriali alla luce del sole. Per Yara insomma, proprio come per Melania e Sarah, ad essere privilegiata rimane la strada del delitto passionale, o al massimo di un balordo. E a ricordarci qualcosa sulla principale investigatrice del caso Brembate, il pm Letizia Ruggeri, era stato solo il quotidiano Libero. Che il 9 marzo 2011, con il corpo della bambina appena ritrovato, ricorda come quel 26 novembre 2010, quando Yara scompare, sia lo stesso giorno in cui va in pensione il procuratore capo di Bergamo Adriano Galizzi. E che il sostituto Ruggeri, cui era stato assegnato il fascicolo, il 4 dicembre 2010 parte per due settimane di vacanze sulla neve. Situazione: «Nei 40 giorni cruciali per le indagini - sintetizza Libero - il pubblico ministero era in vacanza». Indignazione che si è materializzata con una raccolta di firme per l’estromissione del PM dalle indagini. Finale: ad oggi, mandanti ed assassino di Yara Gambirasio sono ancora senza volto.

Non meno stravagante e bizzarra è anche la coincidenza per la quale gli avvocati di Parolisi e della famiglia Scazzi sono gli avvocati di Perugia Walter Biscotti e Nicodemo Gentile, che si sono occupati anche del caso dell’omicidio di Meredith Kercher. Essi difendevano il condannato Rudy Guede. Per quel delitto sono stati assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Anche loro vittime dei PM di turno innamorati della loro ipotesi investigativa.

Palesi e fondate critiche sulla conduzione delle indagini, per quanto riguarda Sarah, sono a firma di Giorgio Sturlese Tosi su Panorama del 9 dicembre 2010.

Gli italiani, è storia vecchia, sono tutti allenatori della nazionale di calcio. Ma da qualche tempo sono diventati anche un popolo di investigatori. Le serie televisive e i grandi gialli, trattati in tutte le trasmissioni, hanno svelato i segreti di ogni tecnica investigativa e, al bar come al mercato, uomini e donne discettano con competenza di autopsie, luminol, guanti di paraffina e dna. Le indagini sulla morte di Sarah Scazzi vengono ormai seguite con più attenzione e trasporto delle serie tv sui Csi americani. Ma proprio dal confronto con i delitti più celebri e le crime fiction più apprezzate emergono alcuni aspetti dell’inchiesta sul caso Scazzi che lasciano perplessi. E il pubblico, sempre più preparato, segue con sconcerto l’evolversi dell’inchiesta. A cominciare dalle prime mosse dei carabinieri, dopo la denuncia di scomparsa del 26 agosto.

La prima pista falsa, seguita per troppe settimane. All’inizio, e per settimane, fu battuta la pista dell’allontanamento volontario. Si scoprì, con stupore, che Sarah aveva creato più profili su Facebook mentre una frase banale, che tradiva un adolescenziale desiderio di andarsene da Avetrana, fu interpretata come la prova che si trattasse di una messinscena.

Le intercettazioni, disposte solo in settembre. In quasi tutti i casi di scomparsa le prime attenzioni degli investigatori si concentrano sulla cerchia familiare. Ma fra agosto e settembre nessuno pensò d’intercettare le telefonate e le conversazioni delle persone legate alla vittima. Concetta Serrano, madre di Sarah, disse subito: «Indagate anche sulla famiglia, pure su di me». Ma nel mirino finì il padre di Sarah, Giacomo. Non i Misseri, nella cui casa Sarah trascorreva gran parte delle sue giornate. Solo il ritrovamento del cellulare di Sarah da parte di Michele Misseri, il 29 settembre, ha portato a una svolta nelle indagini.

Le ricerche a vuoto, ma qualcosa si poteva sospettare. Inutili anche le battute condotte sul territorio da decine di volontari e dai carabinieri. Il cadavere di Sarah verrà scoperto solo grazie a Misseri, unico regista dell’inchiesta. Eppure, era noto in paese che l’uomo, nel giorno del delitto, aveva lavorato in quel campo di contrada Mosca.

La scena del delitto, isolata alcuni giorni dopo la confessione. È la prima regola di ogni indagine. Ma il garage dove sarebbe avvenuto il delitto è stato setacciato dai tecnici della scientifica solo alcuni giorni dopo la confessione di Misseri. Lo stesso è accaduto per la casa di via Deledda, più recentemente indicata come il luogo dove sarebbe stata uccisa Sarah. Nessuno, in procura, aveva pensato di mandarvi gli esperti del Ris.

L’ambiguità della traccia telefonica. Impossibile anche tracciare gli spostamenti del cellulare di Sabrina, cugina di Sarah e oggi principale sospettata. Nella guerra di perizie, già iniziata tra accusa e difesa, persino il fatto che il suo telefonino abbia agganciato il ripetitore vicino al pozzo dove è stato trovato il cadavere, un dato apparentemente di univoca interpretazione, è in realtà motivo d’incertezza: perché i periti della procura ritengono che a seconda di circostanze del tutto casuali i cellulari di Avetrana possano agganciare la zona di Nardò (dove si trova il pozzo) e viceversa.

Gli interrogatori, un po’ troppo incalzanti. Quasi tutti gli interrogatori di Michele Misseri sono stati condotti con sollecitazioni incalzanti, che sembrano volerlo condurre verso una strada precisa. Ma le otto versioni rese fin qui dall’indagato hanno avuto fondamentalmente l’effetto di renderlo poco credibile.

L’arma del delitto, non ancora scoperta. Insolito è stato anche l’approccio che gli inquirenti e i carabinieri del Ris hanno avuto con la Seat Marbella di Misseri, l’auto utilizzata per il trasporto del cadavere, che è stata sequestrata e custodita per giorni nel cortile della caserma dei carabinieri. I tecnici inizialmente ne hanno ispezionato il bagagliaio, senza però tenere conto di una cintura in cuoio. Soltanto dopo che Misseri l’ha indicata come arma del delitto (ma poi è stato smentito dall’autopsia) quella cintura è stata portata in laboratorio.

I possibili complici: ci sono, oppure no? Anche le modalità dell’occultamento del cadavere sono avvolte nel mistero e i periti non sono ancora riusciti a stabilire se Michele abbia fatto tutto da solo o se qualcuno l’abbia aiutato a calare il corpo di Sarah nel pozzo.

Le visite dei familiari in carcere. Del tutto particolare appare poi l’autorizzazione concessa dalla procura alla moglie e alla figlia di Misseri, Cosima e Valentina, di visitare Michele e Sabrina. Tanto più considerando che uno accusa l’altra e che il resto della famiglia si è da subito schierato con la ragazza. Un’interferenza che rischia di compromettere l’intero quadro testimoniale.

L’autopsia incerta. Di nessun aiuto è stata la prova scientifica per eccellenza: l’autopsia. Luigi Strada, consulente tecnico dalla procura, non è riuscito a stabilire se a strangolare Sarah sia stato suo zio Michele, un contadino abituato a lavorare nei campi, oppure sua cugina Sabrina, una ragazza di 22 anni. Il medico legale deve ancora completare la sua analisi, tuttavia il corpo di Sarah è già stato sepolto.

L’ora del delitto, ancora non stabilita. Neanche questa è certa. L’assenza di tracce di un «cordon bleu» ingerito da Sarah prima di uscire di casa, rilevata dal Ris, stravolge l’intera ricostruzione del delitto fin qui fatta da Misseri e sposta di oltre un’ora il momento del decesso.

Le ricostruzioni, che lasciano molte incertezze. Condotto una seconda volta in contrada Mosca, Misseri ha ripetuto i gesti compiuti per gettare Sarah nel pozzo, allo scopo di dimostrare di avere fatto tutto da solo. Ma gli inquirenti, non avendo di meglio e forse inclini alla teoria del «dove sta il più sta il meno», gli hanno fatto sollevare prima un robusto carabiniere e poi un grosso masso che si trovava a portata di mano. Non solo, il consulente Strada, nel tentativo di far ripetere l’esecuzione a Michele Misseri in carcere, non avendo a portata di mano una cintura né una corda, ha utilizzato «un foulard arrotolato a mo’ di fune». Che, nelle sue rudi mani, ha evidenziato l’incertezza dei movimenti di zio Miche’.

Il segreto istruttorio, violato per due mesi. Nonostante quanto prevede la legge, gli audio dei verbali di interrogatorio, i filmati dei sopralluoghi, i tabulati telefonici e i risultati delle perizie sono finiti sui giornali, in televisione e sul web. Tardivo, e inutile, il sequestro della procura di tutti gli atti ormai di dominio pubblico.

Ecco, in sintesi, le diverse versioni fornite da Michele Misseri agli inquirenti sull'uccisione della nipote Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010.

6 OTTOBRE 2010, MISSERI 'UNO': Michele Misseri si imbatte in Sarah che, alla ricerca della cugina Sabrina, entra nel garage dello zio, dove lui sta sistemando il trattore. L’uomo tenta un approccio sessuale con la nipote, che respinge le avances. Michele l’aggredisce alle spalle e con una corda la strangola. Nasconde il cadavere, poi lo colloca nel bagagliaio della sua auto, si dirige nelle campagne di Avetrana, denuda la salma e si lascia andare a un rapporto sessuale completo. Depone di nuovo il cadavere in auto e, infine, lo getta in un pozzo. L’uomo non chiama mai in causa la figlia Sabrina.

15 OTTOBRE 2010, MISSERI 'DUE': Sarah arriva in casa Misseri e la cugina Sabrina la trascina nel garage con la forza, avendo la stessa Sabrina ed il padre concordato di darle una lezione per intimorirla ed evitare che la ragazza diffondesse in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza. Mentre quest’ultima tiene per le braccia la cugina, Michele Misseri avvolge una corda intorno al collo di Sarah e la strangola. Sabrina, nel momento in cui vede la cugina accasciarsi, impaurita molla la presa e si allontana. L’uomo poi fa sparire il cadavere gettandolo nel pozzo. Alcuni giorni dopo, tramite il suo legale, Michele Misseri fa sapere di voler ritrattare la precedente confessione nella parte relativa agli atti sessuali sul cadavere.

4 NOVEMBRE 2010, MISSERI 'TRE': Sabrina e Sarah si incontrano per andare al mare e litigano, forse per gelosia nei riguardi di un amico comune, Ivano Russo. Sabrina trascina nel garage Sarah: la discussione degenera e lei strangola la cugina con una cintura trovata in garage. Sabrina sale a casa ed informa il padre Michele, che stava dormendo. L'uomo rassicura la figlia, che si allontana con l’amica Mariangela. Michele Misseri carica la salma di Sarah in auto, si dirige in campagna, abusa sessualmente del cadavere e, infine, lo getta nel pozzo calandolo con una corda.

19 NOVEMBRE 2010, MISSERI 'QUATTRO': Michele Misseri conferma sostanzialmente l’ultima versione, ma ritratta le presunte avances alla nipote e l’abuso sessuale del cadavere.

VIGILIA DI NATALE 2010, MISSERI CINQUE: Michele Misseri scrive due lettere alle figlie Sabrina e Valentina, scagionando di fatto la secondogenita e scusandosi per averla accusata ingiustamente ma senza spiegare i motivi delle precedenti accuse. È proprio in una lettera di poche righe inviata alle figlie Valentina e Sabrina (quest’ultima detenuta in carcere perchè accusata di concorso in omicidio) che Michele Misseri fa riferimento al fratello Carmelo: «mi hanno detto – scrive testualmente – che se non faccio quella confessione dovevano arrestare la mamma e zio Carmelo io per non mettere altri innocenti o dovuto fare la falsa».

16 FEBBRAIO 2011. MISSERI SEI. L’ultima confessione, sarebbe contenuta in una lettera che Michele Misseri avrebbe consegnato, o forse spedito, al suo difensore di fiducia, l’avv. Francesco De Cristofaro del foro di Roma. La circostanza è stata riferita nella trasmissione di Rai Uno “La vita in diretta”La missiva, secondo quanto riferito nella trasmissione tv, sarebbe stata scritta il 16 febbraio. Misseri vi avrebbe raccontato che quel maledetto 26 agosto Sarah sarebbe entrata nel garage mentre lui era adirato perchè non partiva il motore del trattore. L’uomo avrebbe invitato bruscamente la nipote ad andar via, la ragazzina non gli avrebbe dato retta e Misseri, preso da un raptus d’ira, avrebbe strangolato la nipote con una corda. Il corpo esanime sarebbe caduto sul compressore. Era stato proprio Michele Misseri, in una lettera inviata mesi fa alla figlia maggiore Valentina, a parlare di un compressore, scrivendo che Sarah vi avrebbe battuto la testa cadendo dopo essere stata strangolata.

 

 

 

SARAH SCAZZI: IL DELITTO DI AVETRANA

IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

Di Antonio Giangrande

 

 

 INTRODUZIONE E PREMESSA

SCOMPARSA, RITROVAMENTO ED INDAGINI

PROCESSO

CONSIDERAZIONI E CONCLUSIONI

 

LA SCOMPARSA, IL RITROVAMENTO E LE INDAGINI

 

LA SCOMPARSA, IL RITROVAMENTO E LE INDAGINI

 

26 agosto 2010 ore 14,30, Sarah, 15 anni, per la legge incapace di intendere volere, esce di casa per andare al mare con sua cugina.

27 agosto, stranamente, è iniziato il circo mediatico senza pari, con tv e giornali nazionali e locali.

4 settembre, il procuratore di Taranto Franco Sebastio, per imprimere una svolta alle indagini e cambiarne evidentemente il passo, si è voluto rendere conto personalmente della situazione.

7 settembre, l’Associazione Contro Tutte le Mafie propone a tutti i media di divulgare la possibilità di contattare il suddetto sodalizio

9 settembre, l'Associazione Contro Tutte le Mafie su tutti i media denuncia lo sciacallaggio mediatico a danno di Sarah.

10 settembre, in base alle indagini svolte il dr Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie viene fuori una incredibile verità.

12 settembre, l'apoteosi della disinformazione.

13 settembre, la mamma di Sarah, la sig.ra Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, accusa pubblicamente gli inquirenti ed investigatori di incapacità e impreparazione e l'utilizzo di strumenti investigativi obsoleti.

29 settembre, Michele Misseri, padre di Sabrina e Valentina e zio di Sarah, fatalmente trova il cellulare della ragazza scomparsa.

6 ottobre, ore 22,35. Il dramma si chiude con l’epilogo più imprevisto ed infausto.

7 ottobre, la redazione di "Studio Aperto" di Mediaset, prima ed unica, ha fatto ammenda e chiesto scusa a Concetta e soprattutto a Sarah per come è stata dileggiata dai media.

8 ottobre, Interrogatorio di Garanzia a Michele Misseri.

9 ottobre, è giunto il momento. L’ultimo addio a un piccolo angelo, a Sarah Scazzi.

15 ottobre, il Colpo di Scena. Sabrina Misseri, la cugina 22enne di Sarah Scazzi, è in stato di fermo perché, come scrive la Procura in un comunicato stampa, «gravemente indiziata di delitto».

17 ottobre, l'inimmaginabile. Nasce il tour del macabro alimentato dal tourbillon mediatico.

19 novembre. L’incidente probatorio.

22 novembre 2010. Le motivazioni del Tribunale del riesame sulla sua ordinanza di rigetto del ricorso avverso alla misura cautelare nei confronti di Sabrina Misseri.

15 gennaio 2011. La ritrattazione di Michele Misseri.

25 gennaio. Cosima Serrano al contrattacco.

3 febbraio. La revoca di Daniele Galoppa.

23 febbraio. Dopo sei mesi dal fatto, nuovi arresti.

2 marzo. Avvocati interdetti.

10  marzo. Carmine e Mimino non dovevano essere arrestati.

23 marzo. La verità di Cosima.

6 aprile. L’esame del DNA.

8 maggio. Il presunto testimone.

IL “SOGNO DEL FIORAIO” (Interrogatorio davanti ai pubblici ministeri)

17 maggio. La Cassazione sulla carcerazione di Sabrina Misseri bacchetta i giudici di Taranto: "Michele Misseri inattendibile, caso da riesaminare".

23 maggio. L’avviso di garanzia per Cosima.

25 maggio. La notizia dell’arresto di Cosima.

26 maggio. L’arresto di Cosima.

30 maggio. La scarcerazione di Michele Misseri.

Gli strumenti di difesa. Gli interrogatori di garanzia??

1 luglio. Inchiesta chiusa, quindici gli indagati…., anzi di più!!!

29 agosto. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale.

5 settembre. Michele Misseri prosciolto dall’accusa di omicidio e luci della ribalta per i magistrati.

La Cassazione annulla le ordinanze di custodia cautelare.

22 settembre. Carmine Misseri e Cosimo Cosma, rispettivamente zio e cugino di Sabrina Misseri accusata dell'omicidio di Sarah Scazzi, non torneranno in carcere.

26 settembre. Sono state annullate con rinvio le ordinanze di custodia cautelare in carcere per Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano.

12 ottobre. Il rigetto dell’istanza di rimessione.

14 ottobre. L’udienza preliminare.

22 novembre. Udienza del Tribunale del riesame in merito all’ordinanza di custodia cautelare in carcere annullata con rinvio dalla Cassazione per una serie di motivi, tra i quali la carenza di gravi indizi di colpevolezza.

 

 

 

 

 

LA CRONISTORIA

26 agosto 2010 ore 14,30, Sarah, 15 anni, per la legge incapace di intendere volere, esce di casa per andare al mare con sua cugina. 400 metri più in là, da Sabrina, sua cugina, non è mai arrivata. Non aveva soldi ne indumenti di ricambio: solo un asciugamani e il telefonino. Dopo un’ora la denuncia ai carabinieri. I 5 carabinieri di Avetrana si sono subito attivati per le ricerche ed a comunicare il fatto al Magistrato di turno Mariano Buccoliero. Questi apre un fascicolo contro ignoti: «sottrazione consensuale di minore», in quanto si pensa ad una fuga.

27 agosto, stranamente, è iniziato il circo mediatico senza pari, con tv e giornali nazionali e locali. Cose mai viste con scandalosa violazione della privacy, dell'immagine e della reputazione delle persone e del segreto istruttorio. Con una regola fondamentale: mai parlar male dei giornalisti e dei magistrati. Le tv nazionali in modo morboso e strumentale, nei tg e con trasmissioni dal pomeriggio alla notte e dal lunedì alla domenica e con ospiti pseudo esperti per tutte le stagioni sponsor di se stessi e delle loro idee, tanto da influenzare l'opinione pubblica a secondo gli sviluppi successivi e indurla a seguire il caso come una fiction con indici di ascolto elevati. Solo La7 è rimasta sempre muta, salvo che intervenire quando l'audience raccomandava di farlo. Le tv locali, dopo un disinteresse iniziale dovuto alla scarsa attenzione da sempre prestato alla provincia, sono state costrette a dedicare spazi di cronaca sulla vicenda, ovvero a tenere spazi di approfondimento con invitati pseudo esperti mai di Avetrana. Inizialmente tutti hanno pensato alla fuga della ragazza. La madre mai. Tante associazioni si sono improvvidamente avvicinate alla famiglia con i più disparati scopi, tra cui l’associazione “Famiglia Ristretti”, ed un suo sedicente membro, Valentino Castriota di Trepuzzi, nominato portavoce, ovvero l'associazione "Penelope", sodalizio di familiari di persone scomparse. L’Associazione Contro Tutte le Mafie, con competenza e notorietà, invece no. Il suo presidente, dr. Antonio Giangrande è rimasto attivamente dietro le quinte per non essere accusato di sciacallaggio.

4 settembre, il procuratore di Taranto Franco Sebastio, per imprimere una svolta alle indagini e cambiarne evidentemente il passo, si è voluto rendere conto personalmente della situazione. Il capo della procura ha così presieduto nella caserma dei carabinieri di Avetrana una riunione alla quale hanno preso parte il pm titolare dell’inchiesta, Mariano Buccoliero, il comandante provinciale di Taranto dei carabinieri, col. Giovanni Di Blasio, e altri ufficiali dell’Arma. L’ipotesi di reato cambia: “sequestro di persona”, movente ed esito sconosciuto. Cambiano gli strumenti d'indagine: ricerca a tappeto della ragazza o del suo corpo con l'ausilio di elicotteri e cavalli; perquisizioni presso le abitazioni di alcuni ragazzi del posto; accertamenti tecnici su schede telefoniche e computer. In tale occasione solo sulla Gazzetta del Mezzogiorno a firma di Carlo Bollino c’è un appunto condivisibile: Come si è indagato finora? "Che nessuno ce ne voglia ma sappiamo tutti molto bene che per venire a capo di un mistero i primi giorni di indagine sono quelli decisivi. Mentre ricordiamo invece come troppo spesso taluni gialli siano rimasti irrisolti per anni proprio a causa degli errori di valutazione commessi nelle fasi iniziali. E qui basti citare il delitto di Elisa Claps (spacciato per mesi come fuga volontaria) o la scomparsa dei fratellini Gravina Ciccio e Tore, cercati per settimane ovunque tranne che intorno al luogo nel quale erano stati visti per l’ultima volta, e trovati proprio lì - purtroppo ormai morti - solo due anni dopo. Nessuno ce ne voglia, ma apprendere che la scomparsa di Sarah possa essere stata considerata nella prima fase dalla procura solo come fuga volontaria, ci allarma. L’iscrizione nel cosiddetto «modello 44» del reato di «sottrazione consensuale di minore», potrebbe aver infatti impedito agli investigatori per giorni (i primi, quelli cruciali) di effettuare intercettazioni telefoniche e ambientali, inutili (e proibite) per la scappatella di un’adolescente ma decisive per un sequestro di persona. Sappiamo che i 5 carabinieri in servizio alla stazione di Avetrana nelle 48 ore successive alla denuncia (le prime, quelle decisive) hanno cercato con ogni sforzo di ritrovare le tracce di Sarah, ma erano appunto solo in cinque o poco più. Ora finalmente l’aria sembra cambiata, si vede uno spiegamento di forze imponente, e molti investigatori sono rientrati appositamente dalle ferie. Resta un dubbio: non sarebbe stato meglio che tutto questo fosse avvenuto sin dalla prima ora?" Da allora non si è più capito se l’intervento massiccio delle Forze dell’Ordine nelle ricerche e gli interventi istituzionali di Napolitano e Mantovano siano intervenuti per il circo mediatico smosso, ovvero è stato il contrario. Fatto sta che le ricerche si sono concentrate sul territorio di Avetrana o zone limitrofe, (giustificabili in caso di omicidio con la ricerca del corpo, ma inutili se si tratta di sequestro di persona, con la vittima, forse, portata addirittura all’estero), e le indagini si sono arenate.

7 settembre, l’Associazione Contro Tutte le Mafie propone a tutti i media di divulgare la possibilità di contattare il suddetto sodalizio, riconosciuto dal Ministero dell’Interno perché iscritto presso la Prefettura di Taranto, per rendere notizie utili alle indagini, rimanendo anonimi. La viltà e il pregiudizio ha reso vano il tentativo. Come la prima genitura degli scoop e la volontà di censurare l'Associazione Contro Tutte le Mafie, dannosa per il sistema.

9 settembre, l'Associazione Contro Tutte le Mafie su tutti i media denuncia lo sciacallaggio mediatico a danno di Sarah. Adottando improvvidamente la tesi della fuga volontaria, dal primo giorno in Tv e sui giornali hanno evidenziato, storcendone il significato, tutti gli elementi atti a dimostrare l’intento della fuga. E il libro (letto per il compito in classe), e il calendario (segnato per data in procinto dell'inizio della scuola), e i profili Facebook (diari collettivi pubblici come li hanno tutti, compreso i media che ne sparlano), e le chat (come fanno tutti i ragazzi), e il diario, e le schede (tante secondo le promozioni), e le confidenze con amici e cugini (voglia di fuga: Sarah, come tutti i pari età, ha contrasti con i genitori e ha voglia di evadere da una realtà falsa e bigotta, che sente stretta). I Media hanno fatto apparire Sarah come una poco di buono.

10 settembre, in base alle indagini svolte il dr Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie viene fuori una incredibile verità. Vi è una forte rassomiglianza tra il portavoce della famiglia e il presenzialista sui servizi di Striscia la Notizia. Fatto che, se risultasse vero, farebbe riconsiderare molti fatti in modo diverso. Per il bene di Sarah e per dare una svolta alle indagini è stato avvisato il Maresciallo Cocciolo di Avetrana. Contestualmente sono stati avvisati i media per approfondire la segnalazione, perchè, dati i precedenti e i non buoni rapporti con la magistratura tarantina, la stessa potrebbe essere stata ignorata. A conferma dei dubbi, il giorno dopo i familiari sono stati chiamati in Caserma dai carabinieri. In seguito è stato tolto l’incarico al portavoce designato. "Blustar Tv" l'11 settembre coglie lo scoop e dipinge il soggetto come noto alle forze dell'Ordine. Questi, sulla stessa emittente, il 12 settembre, dichiara che è intervenuto su incarico della redazione di "Mattino 5" di Canale 5, emittente in cui ci sono le sue comparsate ed accusa qualcuno di aver speculato sulla ragazza, vendendo i diari di Sarah a "Panorama". Gli altri giornali e TV, invece, hanno pensato bene di censurare la loro gaffe, avendo collaborato o utilizzato il portavoce per battere la concorrenza. Strano come gli inquirenti non l'abbiano scoperto, tenuto conto che, a loro dire, le indagini erano svolte principalmente sulla famiglia e sulle persone che vi gravitavano intorno.

12 settembre, l'apoteosi della disinformazione. In diretta su Rete 4 alle 21 si trasmette "Quarto Grado". Lì ci si impegna a far apparire Sarah come una ragazza ribelle e una "poco di buono" ed Avetrana come paesino brutto, arretrato ed omertoso.

13 settembre, la mamma di Sarah, la sig.ra Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, accusa pubblicamente gli inquirenti ed investigatori di incapacità e impreparazione e l'utilizzo di strumenti investigativi obsoleti.

29 settembre, Michele Misseri, padre di Sabrina e Valentina e zio di Sarah, fatalmente trova il cellulare della ragazza scomparsa in un uliveto di un amico sulla strada che da Avetrana porta a Torre Colimena e poi svincola per Porto Cesareo-Nardò, lungo la “Tarantina”, in zona “Tumani”. A suo dire, lo trova proprio lui, il giorno dopo aver lavorato lì ed essere ritornato per cercare un cacciavite perso il giorno prima e vicino al ciglio della strada, in una zona battuta a tappeto, (a loro dire) dalle Forze dell’Ordine incaricate per le ricerche e dalla protezione civile. «Ho visto la mascherina del telefonino affiorare dalla cenere del cumulo più vicino alla strada. Ho visto anche la catenina che si era staccata a causa del fuoco, il lucchettino, le linguette delle lattine della Red Bull. E’ quello di Sarah mi sono detto subito. L’ho preso in mano e ho telefonato a casa per chiedere se mi sbagliavo. Sì, papà è di Sarah, mi ha detto Valentina. Lascialo lì, torna e avvisiamo i carabinieri. Lo so che questo fatto può far pensare male la gente. Molti possono chiedersi: ma come proprio a lui doveva capitare di trovare il cellulare di Sarah, allora lo zio nasconde qualcosa, ha a che fare con la scomparsa della nipotina?».

6 ottobre, ore 22,35. Il dramma si chiude con l’epilogo più imprevisto ed infausto. Era il più sospettabile eppure quello apparentemente al di sopra di ogni dubbio. Lo zio di Sarah, Michele Misseri, che per colmo di coincidenza aveva ritrovato il telefonino dell’adorata nipote, ma che sembrava avere un alibi di ferro per il giorno della sua scomparsa, ha infine confessato: «L’ho uccisa io». Convocato sin dalle prime ore del mattino presso la caserma dei carabinieri di Taranto insieme alla figlia Valentina e alla moglie Cosima, sorella di Concetta, madre di Sarah, Michele Misseri è stato interrogato per l’intera giornata. Poi d’improvviso decine di pattuglie hanno lasciato la caserma e la voce è iniziata a circolare tra i giornalisti giungendo alla madre di Sarah, Concetta, mentre si trovava in diretta negli studi di «Chi l’ha visto». Notizie prima contraddittorie poi via via sempre più dettagliate, pur se prive di ogni ufficialità. Infine l’annuncio: lo zio di Sarah ha confessato l’omicidio indicando in un pozzo a ridosso di un casolare di campagna in località «Mosca» tra San Pancrazio e Avetrana (in direzione di Erchie), il luogo in cui si trova il corpo della nipotina. La svolta nelle indagini grazie ad una frase sfuggita alla figlia Sabrina e intercettata dalle cimici della procura. La ragazza, durante una discussione con la madre avvenuta tra lunedì 27 e martedì 28 settembre, avrebbe manifestato i suoi sospetti proprio sul padre: «Lui se l’è portata», avrebbe detto la ragazza, forse alludendo al fatto che Sarah sarebbe stata vista salire sulla macchina del padre. Il giorno dopo Misseri ritrova curiosamente il telefonino della nipote. La fine atroce di un incubo in cui è stata vittima una ragazzina e la sua comunità. Sarah, vittima sacrificale di un gesto insano e da attacchi mediatici tesi a giustificare una sua fuga a causa del paese brutto, retrogrado ed omertoso. Scarnificata fin dentro i suoi più reconditi segreti per buona pace dei media e di una società civile affamata di pettegolezzo, che gode dei guai altrui, pronta a dare giudizi gratuiti e non richiesti fondati su prove artefatte.

7 ottobre, la redazione di "Studio Aperto" di Mediaset, prima ed unica, ha fatto ammenda e chiesto scusa a Concetta e soprattutto a Sarah per come è stata dileggiata dai media. Nessuno chiederà mai scusa ai ragazzi di Avetrana, sottoposti illegalmente a perquisizione, e a tutti quei protagonisti della vicenda, familiari ed amici, vittime della gogna mediatica. Così come anche alla comunità, che ha subito l'orda di giornalisti appostati in un vicoletto in cerca di scoop, pronti ad intervistare miratamente le persone più umili e meno scolarizzate.

8 ottobre, Interrogatorio di Garanzia. Michele Misseri interrogato risponde al gip Martino Rosati, al procuratore aggiunto Pietro Argentino, al pm Mariano Buccoliero, e poi al suo avvocato Michele Galoppa. D’un fiato. «Che volete, confermo quanto detto. L’avevo già toccata un’altra volta, e lei mi aveva respinto. Successe all’ingresso di casa mia, dopo aver allontanato mia figlia con la scusa di prendere un bicchier d’acqua. L’avevo palpata. Anche per questo ero nervoso quel giorno, perché temevo che parlasse, più di quanto non aveva già fatto con mia figlia. Così l’ho invitata a entrare nel garage, le ho detto che non doveva parlare di quelle cose, che non si fa così con uno zio, poi le ho detto ‘guarda che io ti voglio bene’, le ho messo una mano sulla spalla, l’ho tirata a me, lei… aveva i pantaloncini corti… non ho retto e l’ho toccata addosso. Allora lei si è spaventata, si è voltata e ha preso il telefonino dicendo ‘E mo’ basta! Ancora! Ti faccio vedere!’. E così ho staccato la corda dal muro, la prima che capitava, e l’ho rincorsa…». Fa una pausa e aggiunge: «Manco se ne è accorta, sino a che non aveva la corda attorno al collo. E allora era troppo tardi…». Ricostruisce il tragitto in auto con il cadavere nel bagagliaio fermandosi a 300 metri da casa, la chiamata di sua figlia sul cellulare di Sarah, che lui interromperà spegnendolo. E poi la violenza sessuale consumata nel campo, una volta spogliata la povera Sarah (‘l’ho spogliata per bruciare i suoi vestiti e non lasciar tracce, poi mi son lasciato prendere la mano’), e quindi l’occultamento del cadavere nella cisterna. «L'ho strangolata con una cordicella mentre era di spalle e ho abusato di lei dopo che era già morta». È la confessione di Michele Misseri, che ha ammesso di avere ucciso la nipote quindicenne Sarah Scazzi. L'omicidio è avvenuto il 26 agosto 2010 nel garage della casa dell'uomo. Prima di occultare il cadavere gettandolo in un pozzo, l'assassino lo ha denudato e successivamente ha bruciato i vestiti. Ha strangolato la nipote adolescente (come confermato dall'autopsia) dopo aver perso la testa per il rifiuto opposto dalla ragazza alle sue ripetute attenzioni morbose. Il corpo di Sarah è stato poi gettato in una sorta di cisterna piena d'acqua in un podere tra Avetrana e San Pancrazio Salentino, di proprietà della famiglia Misseri, dove è stato trovato in stato molto avanzato di decomposizione. «È trascorso troppo tempo da quando Sarah è stata uccisa e gettata nel pozzo - spiega il professor Luigi Strada, direttore dell'istituto di medicina legale dell'Università di Bari. - Per questo motivo ho fatto alcuni prelievi e alcuni tamponi per chiarire l'aspetto della violenza sessuale. Per quanto riguarda il resto, confermo che sul collo della ragazza abbiamo trovato segni di strangolamento». A una precisa domanda sull'aspetto del corpo di Sarah, il medico aggiunge: «Il volto è sfigurato, sul corpo ci sono segni di putrefazione avanzata. La permanenza nell'acqua ha danneggiato i tessuti, Sarah è irriconoscibile. Per questo ho consigliato, anzi quasi obbligato, la madre a non vederla. Le ho spiegato che la cosa migliore è mantenere il ricordo, l'immagine di sua figlia com'era in vita». Il telefonino era privo di batteria ma aveva all'interno la scheda Sim, contrariamente a quanto si era saputo. L'uomo lo aveva tenuto nascosto nel suo podere vicino al luogo in cui aveva gettato il corpo della ragazza. Successivamente lo aveva abbandonato per circa un'ora vicino a un supermercato presso la caserma dei carabinieri di Avetrana con l'intento di farlo ritrovare. Poco dopo Misseri ha deciso di riprenderlo nascondendolo nuovamente nel suo podere. Poi il 29 settembre la messinscena del ritrovamento. «L'ho sognata queste sere Sarah, due, tre volte di seguito: mi diceva zio coprimi, ho tanto freddo. L'ho sognata così tante volte che ora vorrei morire: non ce la faccio più, basta. - È cominciata così la confessione fiume di Michele Misseri, 57 anni, lo zio, l'assassino di Sarah Scazzi.- Quel giorno - ha spiegato in sintesi, - ero nel mio garage, come sempre. Aggiustavo il trattore che aveva avuto un problema. Ero molto arrabbiato, nervoso perché non riuscivo a metterlo in moto. Saranno state le 14,30 e ho visto Sarah che si è affacciata alla porta del garage. - L'ingresso è venti passi dalla porta di casa: si può accedere o dalla strada oppure direttamente dall'appartamento. - Sarah si era affacciata dall'alto, il pantaloncino e la maglietta rosa, l'infradito, l'asciugamano. Mi ha detto che aspettava Sabrina, era leggermente in anticipo. Mia figlia era ancora in casa, l'amica Mariangela non era ancora arrivata in macchina. Le ho fatto segno di scendere. Non so che cosa mi è scattato, all'improvviso Sarah mi intrigava, è successo tutto in un momento. - Ha provato a toccarla, da dietro, probabilmente le ha sfiorato un seno. Sarah ha reagito immediatamente. Forse lo ha colpito, tanto che il medico legale ha visitato anche Misseri riscontrandogli un ematoma sul braccio che potrebbe essere frutto di quella colluttazione.- A quel punto ho perso la testa.- Ha afferrato una corda che era lì in quella cantina maledetta, dove lui passava le intere giornate, tanto che le ragazzine della strada la chiamano la casa dei fantasmi, "perché è sempre buio e lui è sempre lì sotto, fa una paura". - Ho preso quella corda e ho stretto. Sarah è morta». "Non ha sofferto" spiega il procuratore capo Franco Sebastio. Non è una consolazione. Misseri ha giurato che era la prima volta, che mai in precedenza aveva provato ad abusare della nipote. Il fratello Claudio ha raccontato in televisione che sapeva di precedenti molestie. Ai carabinieri non lo ha mai detto. Così come non ci sono segnali in questo senso sui diari di Sarah, dove invece la ragazza appuntava tutto. C'è però un particolare che aveva messo in allarme gli investigatori. Lo aveva raccontato mamma Concetta il 29 settembre: "Sarah mi ha raccontato che lo zio le aveva regalato cinque euro in due occasioni, non chiedendole nulla in cambio, ma facendole promettere che non avrebbe raccontato nulla né a me né alla zia". Gli investigatori hanno immediatamente obbligato Concetta a non raccontare a nessuno questo elemento, soprattutto con sua sorella, perché avrebbe potuto compromettere le indagini. Concetta ha tenuto il segreto.  «Poco dopo - ha ricostruito ancora l'assassino - questione di minuti, si è affacciata mia figlia Sabrina. Lei era in casa, non ha visto niente. Mi ha chiesto di Sarah, mi ha detto se la vedi dille che la stiamo cercando. È andata via. Sarah era accanto a me, morta. Poco dopo l'ho caricata in macchina, l'ho messa dietro, con una coperta e sono andato verso i terreni a San Pancrazio. - In questo passaggio ci sono due degli elementi che lo hanno inchiodato: ai carabinieri aveva raccontato di essere rimasto tutto il giorno ad aggiustare il trattore. E invece un testimone, un suo parente, ha raccontato di averlo visto in auto intorno alle 17 e soprattutto i tabulati telefonici hanno dimostrato che era nella zona di Nardò alle 16,45. - È vero. Con la macchina sono andato nel campo verso San Pancrazio. Sono arrivato, non mi ha visto nessuno. Ho tirato fuori Sarah, l'ho spogliata: ho abusato di lei, è stato un attimo era nuda e l'ho presa. Soltanto in quel momento mi sono accorto di cosa avevo fatto. - Ha bruciato i vestiti, buttato il corpo nella fossa-cisterna da una fessura strettissima. - L'ho coperto con i filari del vigneto e sono andato via. - Misseri l'aveva fatta liscia. Aveva lasciato poche tracce, difficilmente gli investigatori sarebbero arrivati a lui. Poi, il ritrovamento del telefonino. - In quel periodo l'avevo portato sempre con me. Tre giorni prima del 29, se non sbaglio, lo avevo messo in una campagna nella speranza che lo trovaste voi. Niente. Allora ho pensato di darvelo io». Perché? La risposta è arrivata dalla relazione del Rac, il Reparto analisi criminologiche dei carabinieri: i tecnici dell'Arma hanno delineato già nel pomeriggio di martedì, quando Misseri era solo un sospettato, il profilo di chi avrebbe potuto far ritrovare il cellulare, parlando di un assassino pentito, non di un criminale che si era macchiato di un delitto in prenda a un raptus e che inconsciamente voleva essere scoperto. "Vi ho detto tutta la verità, ve lo giuro. Se volete vi porto anche in quel posto". Sono le 10 e cinque della sera. Il procuratore e il comandante Giovanni Di Blasio saltano su un auto in borghese. Davanti c'è Misseri. Arrivano in campagna, la pozza, "scoprite, scoprite lì", insiste lo zio. Basta accendere una luce e chinare la testa per vedere un pezzo di una vita, quel che resta di Sarah.

9 ottobre, è giunto il momento. L’ultimo addio a un piccolo angelo, a Sarah Scazzi, I funerali si sono svolti alle ore 16.30 presso lo stadio di Avetrana per contenere l'immane folla. Più di dieci mila persone. In paese, ma come nel resto d’Italia, si respira un clima di profonda tristezza. In paese, ma come nel resto d’Italia, si respira un clima di profonda tristezza, ma soprattutto di rabbia e dolore, per una fine talmente ingiusta e così violenta. E’ una storia sconvolgente. Nessuna avrebbe mai osato immaginare tanto. Eppure è successo, eppure Sarah è in quella bara bianca. La salma è giunta presso la camera ardente, allestita nell'auditorium Caduti di Nassiriya di Avetrana. La piccola è stata accolta da infiniti applausi, da tante lacrime. Il Consiglio comunale ha proclamato il lutto cittadino. I funerali con  rito cattolico, la liturgia della parola e il rito delle esequie, con nulla osta arcivescovile per una ragazza non battezzata e l'autorizzazione della madre Concetta, Testimone di Geova. Migliaia di persone e una bara bianca. Tutti hanno partecipato al dolore: le telecamere tv e le penne dei giornalisti hanno raccontato la rabbia del popolino che gridava “morte all’orco”. Quelli che prima hanno dileggiato Sarah, pensando che fosse scappata di casa, poi l’hanno santificata. Ipocrisia all’ennesima potenza. Sarah è stata ammazzata una volta e violentata dai media per 42 giorni. La Sensitiva Rosemary Laboragine aveva preannunciato tutto! "Non avrei potuto salvare Sarah, ma se mi avessero creduta almeno non sarebbe rimasta così tanto tempo lì... sono indignata! ..non ho mai chiesto nessun compenso, ne mai lo farò per questi casi e tantomeno pubblicità, non ne ho bisogno ..me la sono sempre pagata; io e Francesca Palazzotti, appena mi apparve il flash che era stato lo zio ..abbiamo chiesto aiuto a molti che potevano fare qualcosa e non ci hanno aiutate". Esordisce con queste parole dal suo profilo Facebook la sensitiva Rosemary Laboragine, che aveva in tempi non sospetti espresso le sue sensazioni negative riguardo il caso di Sarah. Nelle interviste rilasciate ai media infatti, la donna aveva più volte dichiarato che la quindicenne ragazza pugliese non si era allontanata volontariamente da casa, ma era stata vittima di una violenza, secondo le sue visioni. A confermare il tutto il 9 ottobre è il direttore della testata giornalistica “La Voce di Manduria”. «Vedo la ragazza con gli occhi chiusi, vicino a lei ci sono delle foglie e dell’acqua…». Questa era l’immagine dei flash che lampeggiavano nella mente della sensitiva di Padova, Rosemary Laboragine. E questo noi scrivevamo il 3 settembre scorso. In seguito la stessa veggente, che sin dall’inizio si è appassionata al caso di Avetrana, ci aveva riferito che altre visioni indicavano la zona dove si trovava la ragazza morta: «nelle campagne tra Avetrana e Erchie». E così è stato. Sull’epilogo della storia, Carlo Bollino, direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, è ancora l’unico ad essere controcorrente nell’omologazione generale: la magistratura si osanna, non si critica. Egli si chiede, e noi con lui, con un articolo pubblicato l’11 ottobre 2010: «Se gli investigatori ci hanno messo 42 giorni per venire a capo del giallo, «Saetta» conosceva la verità da subito. Il cagnolino che Sarah accudiva in strada, e che per ricambiare l’affetto la seguiva ovunque, per giorni è rimasto accucciato davanti al garage dell’orrore: attendeva invano che uscisse la padroncina, evidentemente dopo avercela vista entrare. Qualche vicino di casa notandolo gli aveva portato da mangiare, ma l’animale rifiutava il cibo: «Soffre anche lui per la scomparsa di Sarah», dicevano in tanti. Se si fosse prestata maggiore attenzione all’insistenza con la quale quella bestiola restava in via Grazia Deledda, forse il luogo del crimine si sarebbe scoperto prima. Nei manuali del buon investigatore probabilmente non è spiegato che anche i cani a volte possono parlare, ma in quello della logica è certamente scritto che il primo luogo da controllare debba essere lo stesso in cui la persona scompare. E invece, sorprendentemente, si viene a sapere che il garage (e la sua auto), e la casa di Michele Misseri verso la quale Sarah era diretta, non sono mai stati perquisiti. Almeno non prima che l’uomo confessasse il crimine. Lo avevamo scritto, ma speravamo di sbagliarci, e invece fatalmente per Sarah Scazzi si è ripetuto lo stesso identico copione già visto per Elisa Claps e per Ciccio e Tore, i fratellini di Gravina: cercati ovunque tranne che nel posto più ovvio, cioè l’ultimo nel quale erano stati. Nelle indagini sulla tragica fine della ragazzina di Avetrana si continua a parlare di punti oscuri, ma nella confusione che sin dal primo giorno caratterizza questa storia finiscono per confondersi anche i misteri, ignorando quelli veri e coltivandone altri fasulli. La mancata perquisizione nel garage dello zio di Sarah è certamente un’anomalia, e lo sarebbe stata anche se Saetta, il cagnolino che seguiva la ragazza scomparsa, non lo avesse indicato dormendoci davanti. In quello che si è scoperto essere poi il luogo del delitto, non potevano non trovarsi tracce di Sarah, e se la procura ne avesse ordinato un controllo sin dal primo giorno il giallo sarebbe ormai bello e chiarito. E invece le esitazioni (e i ritardi) accumulati all’inizio dell’indagine continuano a mostrare i danni provocati. La sparizione di Sarah Scazzi venne rubricata per la prima settimana come «sottrazione consensuale di minore», insomma una fuga volontaria al seguito di qualche adulto, e questo aveva impedito nei giorni più caldi dell’indagine di ordinare intercettazioni telefoniche e ambientali. Eppure, registrare i discorsi tra Michele Misseri, la moglie e la figlia a poche ore dalla scomparsa di Sarah servirebbe oggi ad allontanare dalla cugina l’orribile dubbio di sapere, ma di aver taciuto. Allo strazio provocato dalla morte della migliore amica, e all’orrore di scoprire che ad ucciderla è stato il padre, per questa giovane donna si aggiunge ora il supplizio del sospetto collettivo. Molto più difficile da sconfiggere proprio perché basato sul nulla. Nella ricostruzione del delitto fornita da Michele Misseri ci sono ancora molti punti da chiarire e tante contraddizioni, probabilmente su alcuni aspetti mente, eppure nulla di tutto questo consente al momento di mettere in dubbio la sua personale colpevolezza, né lascia aperti spazi per collocare Sabrina e sua madre (che si trovavano insieme) sulla scena del delitto. Basterebbe ricordare che la tragedia si è consumata in appena 12 minuti (proprio grazie al tempestivo allarme lanciato da Sabrina) e che mentre Sarah veniva strangolata Sabrina la chiamava al cellulare, e non si è mai visto che la testimone di un omicidio provi a telefonare alla vittima. Nei 42 giorni precedenti al suo arresto, molti in famiglia hanno potuto sospettare di Michele Misseri, e forse persino Concetta, la mamma di Sarah, alludeva a suo cognato, quando implorava gli investigatori di indagare tra i parenti. Ma sospettare è cosa completamente diversa dal sapere, e soprattutto è penalmente irrilevante. E allora invece che concentrarsi nello sforzo di verificare se Sabrina abbia dubitato oppure no di suo papà, bisognerebbe chiarire altri aspetti di questo giallo. A cominciare dalla batteria del telefonino di Sarah, dall’asciugamano e dal suo zainetto: dove sono finiti? Misseri avrebbe detto di averli bruciati. Ma la plastica di uno zaino non scompare nel fuoco, al massimo si trasforma. E un telo da mare per quanto carbonizzato non si dissolve nel nulla, proprio come il costume da bagno o i sandali infradito che la ragazzina indossava al momento della sua scomparsa. Dove sono finiti questi brandelli di verità? E dove è finita la corda con la quale Michele Misseri ha detto di aver strangolato la nipote? E dove il cartone con il quale ne ha coperto il cadavere?» Nessuno si aspetta che i nostri investigatori abbiano l'affilato intuito del tenente Colombo (anche se spesso ne imitano la trasandatezza), nè che abbiano le fulminee deduzioni dei protagonisti del telefilm Csi. Però nemmeno ci aspettiamo che siano maldestri e imbranati come l'ispettore Clouseau della Pantera Rosa. Le indagini sulla scomparsa di Sarah Scazzi sono l'ennesimo episodio di approssimazione e scarso acume investigativo a cui assistiamo. L'aspetto più vistoso di questo torpore è il fatto che lo zio della ragazza aveva detto 10 giorni dopo la scomparsa di aver trovato la sim del telefonino della nipote per terra, davanti all'autoscuola, ma di non ricordarsi bene dove l'aveva messa. «Domani la cerco», ha detto ai poliziotti, che si sono accontentati della promessa. Questo semplice dettaglio avrebbe dovuto far rizzare le orecchie agli investigatori per due ragioni: primo, perchè già di per sè sembrava un ritrovamento anomalo e poi perchè non si capisce come facesse lo zio, noto per la poca dimestichezza coi cellulari, a sapere che quella sim era di sua nipote. Già questo avrebbe dovuto indirizzare le indagini, tanto più che gli inquirenti sanno che - come affermano i criminologi - gli assassini non professionisti spesso vengono presi dalla smania di uscire allo scoperto e, seppur velatamente, di confessare. Michele Misseri aveva cominciato a farlo, peccato che le orecchie degli investigatori fossero foderate e impermeabili e così si sono perse almeno tre settimane a inseguire gli amici della ragazza e a scavare su internet nella speranza di trovare tracce, se non addirittura l'adescatore misterioso nascosto nelle pieghe di Facebook. Solo quando Misseri, praticamente confessando, ha detto di aver trovato anche il telefonino della nipote, quelle aquile degli inquirenti lo hanno messo sotto. Imbattibili. L'FBI ha già chiesto i loro curriculum. «Mi sa che ho trovato la scheda del telefonino di Sarah…». Così disse Michele Misseri ai due poliziotti che aveva di fronte nel salotto di casa sua. Era passata una settimana, al massimo dieci giorni, dalla scomparsa di sua nipote Sarah Scazzi, il 26 di agosto. «Come la scheda di Sarah? E che scheda è?» chiese uno dei due agenti. «Non lo so, non la trovo più. Forse Vodafone o Wind, non so». «Dove l’hai trovata?» chiese a quel punto Sabrina. «Era per terra davanti all’autoscuola qui dietro». «E dove l’hai messa?». «Non so più dov’è perché l’ho messa nel fazzoletto e poi non l’ho più trovata. L’avrò persa in campagna o magari giù, in cantina..». «Allora cercala» fu l’obiezione di tutti. «Domani la cerco, sì». E rivolto a sua figlia Sabrina Misseri disse di nuovo: «Domani andiamo a cercarla assieme in cantina con la torcia, andiamo a controllare…». Uno dei poliziotti (in servizio tutti e due nella provincia di Taranto) informò un suo superiore, ma la questione alla fine rimase senza seguito, uno dei tanti rivoli perduti di questa storia. Del resto né Sabrina né Michele aggiornarono più i due agenti sull’annunciato controllo in cantina e la faccenda finì presto, fra i tanti dettagli dimenticati del caso Scazzi. Michele non era nemmeno lontanamente sospettato, aveva zero dimestichezza con i telefoni cellulari, chissà che scheda avrà raccolto… pensarono i suoi interlocutori. Le attenzioni, in quei giorni, erano tutte per gli amici della ragazzina scomparsa, per eventuali malintenzionati conosciuti via chat, per sconosciuti rapitori, semmai per il maniaco occasionale. Insomma: si sentirono tutti autorizzati a scartare quell’informazione. E invece già allora Michele Misseri stava cercando di fare quello che avrebbe poi tentato a più riprese: farsi scoprire, offrire la pista giusta a chi indagava. Ci provò in quell’occasione, poi di nuovo nelle settimane successive abbandonando il cellulare di Sarah in diversi punti di Avetrana, finanche presso un supermercato vicino alla caserma dei Carabinieri: «Ma purtroppo nessuno l’ha notato» dirà poi lui nella confessione. Ci provò fino al 29 settembre, Michele: alla fine, visto che la gente sembrava ignorare quel benedetto cellulare, fece finta di trovarlo lui (con la scheda inserita, ma senza batteria) e, finalmente, le indagini presero la sua direzione. Della batteria non c’è traccia. Lui racconta di averla buttata in un campo, ma finora nessuno l’ha trovata, come nessuno ha ancora rintracciato il punto esatto in cui lo zio-mostro di Sarah dice di aver «bruciato tutto»: i vestiti, lo zainetto, le scarpe, le cuffiette e tutto ciò che Sarah aveva con sé quando lui la uccise nel suo garage-cantina, strangolandola. La mise in macchina e la portò in campagna dove la violentò per poi spogliarla e buttarla in fondo a una cisterna piena d’acqua piovana.

15 ottobre, il Colpo di Scena. Sabrina Misseri, la cugina 22enne di Sarah Scazzi, è in stato di fermo perché, come scrive la Procura in un comunicato stampa, «gravemente indiziata di delitto». Ad accusarla è il padre, Michele Misseri, già reo confesso che con due dichiarazioni successive, a sorpresa, l’ha tirata in ballo. Fino all’ultima accusa da choc: «Sabrina teneva Sarah mentre io la strangolavo». Sabrina si è sempre professata innocente, ma gli inquirenti hanno comunque firmato il fermo e condotto la ragazza in carcere a Taranto. Le accuse mosse contro Sabrina sono di concorso in omicidio e sequestro di persona. Un nuovo e sconvolgente colpo di scena. I Ris erano tortati a casa di Michele Misseri per ispezionare l'auto con la quale era stato presumibilmente trasportato il corpo di Sarah e il garage dove si sarebbe consumato l'omicidio. «E' un movente intrafamiliare, un fatto che si è sviluppato all’interno della famiglia»: lo ha detto il procuratore della Repubblica Franco Sebastio, in conferenza stampa. Secondo l'accusa il movente sta nelle molestie sessuali che Michele Misseri aveva compiuto nei confronti di Sarah. Sabrina ne era venuta a conoscenza probabilmente proprio dalla stessa Sarah. Sarah Scazzi è stata costretta con la forza a scendere nella rimessa dove è stata uccisa, questo secondo gli investigatori. Sabrina Misseri non avrebbe dunque indotto la cuginetta a scendere, ma avrebbe collaborato col padre a trascinarla giù. Frammenti che potrebbero essere delle cuffiette del cellulare di Sara sono stati trovati tra i resti degli effetti personali e degli abiti che Michele Misseri ha bruciato in campagna. «Le cuffiette - ha detto il comandante provinciale dei carabinieri, colonnello Giovanni De Blasio, nella conferenza stampa – non sono state trovate nel garage. E' stata trovata anche la batteria del telefonino di Sarah. Il recupero è stato possibile sulla base delle dichiarazioni fatte dallo zio Michele Misseri, in un luogo diverso da quello dove l’uomo ha bruciato gli abiti della piccola Sarah e diverso anche da quello nel quale è stato trovato il corpo.» In questo modo si rafforza l’ipotesi del fratello di Sarah che ha ribadito con forza in più occasioni che il giorno precedente all'omicidio, Sarah, la sorella, e Sabrina, la cugina, avevano litigato proprio per le avances che Michele Misseri avrebbe rivolto alla ragazzina.

17 ottobre, l'inimmaginabile. Nasce il tour del macabro alimentato dal tourbillon mediatico. Diritto di cronaca non è assalire mamma Concetta dal ritorno dall'obitorio dove vi era Sarah, o attaccare Valentina, che porta il ricambio in carcere a sua sorella Sabrina Misseri, o intervistare miratamente tutti i meno colti nelle vie per dimostrare che Sarah voleva scappare da un paesino retrogrado ed omertoso, o sentire gli pseudo esperti pagati a gettone nei salotti televisivi, che smentiscono sè stessi a secondo l'evolversi delle circostanze. Il turismo dell'orrore visita i luoghi dello scempio: la fossa dove Sarah è stata per 42 giorni; la casa della vittima; la casa dell'orco; il cimitero. Tutti a verificare se la verità soggettiva del giornalista, esposta con gli occhi di chi pensa di scendere da Marte su Avetrana a dettare etica, morale, cultura ed emancipazione, corrisponda alla realtà. Si è aspettato il "giornalista" non omologato alla menzogna o al clamore, anticonformista e fuori dagli schemi. Ad Avetrana non è mai arrivato. Avetrana, Italia. Questa è l'informazione. Intanto Avetrana non sarà più la stessa. Se prima era la città dell'Avvocato più giovane d'Italia e il paese dell'autore del libro "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", ora sarà il luogo dove vi è stato il delitto mediaticamente più seguito dall'umanità.

19 novembre. L’incidente probatorio. Michele ha detto che il 26 agosto, quando è sceso in garage, chiamato da Sabrina, ha visto Sarah per terra con una cinta al collo, le ha toccato gli occhi e la bocca, ma la ragazzina era già morta ed era fredda, ma non si ricorda l'orario. E ha poi detto di avere sentito Sarah ancora più fredda quando l'ha portata nel pozzo. «Prima di buttarla nel pozzo ho preso la mano di Sarah e l'ho guidata, le ho fatto fare il segno della croce».  Michele Misseri parla. Nell'aula del carcere c'è un silenzio irreale. Lui accarezza il Tau, il simbolo francescano che gli ha regalato il cappellano del carcere e che si è portato in udienza, legato a un dito. «Io voglio bene a mia figlia» dice. «Ma deve prendersi le sue responsabilità». Parla, Michele Misseri. Conferma tutto. Consegna alla procura la prova che incastra sua figlia Sabrina mentre lei lo ascolta dal fondo dell'aula, a tratti soffoca le lacrime. È finito così, quasi a mezzanotte, l'incidente probatorio fissato nel carcere di Taranto per lo zio di Sarah Scazzi. Le tensioni del mattino, l'ipotesi che lui potesse bloccarsi e non dire una parola, sapendo di essere in presenza di Sabrina, si sono rivelati timori ingiustificati: si è dissolto tutto con la prima domanda. Misseri non ha fatto scena muta. Al giudice Martino Rosati ha ripetuto più o meno la versione del suo ultimo interrogatorio, quello del 5 novembre. Quindi la versione data davanti al gip sarebbe questa: a strangolare la sua nipotina quindicenne Sarah Scazzi il 26 di agosto non è stato lui, ma Sabrina, con una cintura, in cantina. Lui ha soltanto fatto sparire il cadavere buttandolo nel pozzo, in cui poi è stato ritrovato. Ha fatto tutto questo per coprire sua figlia «perché io sono ormai vecchio mentre lei ha tutta una vita davanti». E sua moglie Cosima «non ha mai saputo niente». Ci sarebbe un solo dettaglio sul quale la versione di Michele Misseri risulterebbe diversa rispetto al racconto del 5 novembre: gli abusi sessuali su Sarah, sia da viva sia da morta. Lo zio di Sarah stavolta ha negato le molestie del giorno dell'omicidio, quelle della settimana precedente e anche lo stupro sul cadavere. «Non l'ho violentata», «io le volevo bene», «non l'ho mai nemmeno sfiorata, la creatura», ha ripetuto a più riprese al gip Michele Misseri a conferma di quanto il suo avvocato Daniele Galoppa aveva anticipato da tempo. Un particolare, questo, che secondo avvocati e consulenti di Sabrina la dice lunga sulla sua credibilità: prima confessa la violenza sul corpo della ragazzina ormai senza vita, poi il suo legale annuncia che la ritratterà, dopodiché lui viene interrogato e non la ritratta affatto e, adesso, Misseri torna sull'argomento per negarla. Perché ha raccontato la violenza se non è vera? «Perché era meglio per tutti, soprattutto per Sabrina» dice lui.  Francesca Conte ed Emilia Velletri, le due avvocatesse della ragazza, hanno cominciato ad interrogare Misseri alle otto e mezza di sera. Una raffica di domande per cercare di smontare la sua versione e rivelare i passaggi di una strategia processuale che punta a scaricare su Sabrina l'omicidio. «Sono soddisfatta, così cade il movente» dice Francesca Conte riferendosi alla ritrattazione della violenza, che era uno dei reati sui quali si fondava il movente della prima ora, poi superato da quello della gelosia. Se il racconto di Misseri fosse creduto, per lui rimarrebbe in piedi soltanto l'accusa di occultamento di cadavere e dal suo orizzonte scomparirebbe il rischio del carcere a vita, potrebbe perfino sperare in una libertà non troppo lontana. Le sue dichiarazioni sono importanti perché varranno come prova al processo ed è per questo che i magistrati e gli avvocati (c'erano anche i legali della famiglia Scazzi) hanno colto ogni sfumatura. C'è stato un momento, in cui Misseri è sembrato in difficoltà. Quando il giudice Rosati lo ha incalzato: «Possibile che nei 42 giorni prima di trovare il cadavere lei e Sabrina non avete mai parlato di quello che era successo?». Intanto Sabrina resta in carcere.

22 novembre 2010. Le motivazioni del Tribunale del riesame sulla sua ordinanza di rigetto del ricorso avverso alla misura cautelare nei confronti di Sabrina Misseri. Nelle 54 pagine di motivazioni dell'ordinanza emessa il 13 novembre, il Tribunale, ripercorrendo gli atti investigativi, allo stato degli atti, ha sostenuto che Michele Misseri è credibile, anche perché il solo movente dell’uccisione di Sarah è quello della gelosia che Sabrina nutriva per Ivano Russo, il cuoco che temeva di perdere proprio a causa della cugina 15enne. I giudici hanno quindi scartato il movente sessuale, «ovviamente riconducibile alla sola persona di Michele Misseri, il quale ha escluso che la figlia fosse venuta a conoscenza dell’episodio, unico, in cui aveva toccato i glutei della nipote». Il Tribunale del riesame quindi cambia il punto del movente dell’omicidio di Sarah Scazzi e, sposando integralmente le dichiarazioni del padre dell’estetista avetranese, la inchioda a responsabilità ben precise. Infatti il Tribunale riporta alcune affermazioni dell’amica di Sabrina, Stefania De Luca: «In qualche circostanza ricordo che Sabrina ha manifestato il suo disagio - riportano le motivazioni - perché si sentiva eccessivamente robusta e poteva non piacere ad Ivano, che preferiva la cugina».  "Ciao mi chiamo Sarah, in questo periodo sono molto legata ad 1 ragazzo che ha 27 anni, io ne ho solo 15 ma lui è dolcissimo con me e mi coccola sempre, si chiama Ivano, e lui piace anche a mia cugina Sabrina (…)". Era il 27 luglio quando Sarah Scazzi si raccontava, come si stesse mandando un sms, nel suo diario segreto. Non sapeva di raccontare quello che secondo i giudici del Riesame è il movente del suo omicidio: la gelosia di sua cugina nei confronti di Ivano. «Sarah era una sorta di sorella minore di Sabrina, ma questo contesto di normalità è mutato allorchè Sarah da bambina da coccolare era diventata una rivale da controllare» scrivono i giudici Massimo De Michele, Alessandro de Tomasi e Benedetto Ruberto nelle 54 pagine di motivazioni con le quali hanno spiegato il perché Sabrina Misseri deve rimanere in carcere. I giudici sostengono che a carico della Misseri ci siano tutti gli elementi della carcerazione preventiva: "Sabrina è un´assassina" che ha agito d'impeto, anche se non è da escludere la preterintenzionalità dicono i giudici. Che sostengono che la ragazza sia in grado in inquinare le indagini (con la manipolazione dei media, con le pressioni ai testimoni, le false piste offerte agli investigatori "ha offerto un abile e scaltro depistaggio"), di fuggire ma anche e soprattutto di uccidere ancora. Ma soprattutto i giudici non hanno alcun dubbio che Sabrina abbia ucciso sua cugina Sarah con le modalità raccontate dal padre Michele nel suo ultimo interrogatorio. I giudici parlano di "riscontri esterni" alle dichiarazioni di Misseri che arrivano dal racconto di Mariangela e degli altri amici, dai tabulati telefonici e dai racconti della stessa Cosima e di sua sorella Concetta. Tutti piccoli elementi che portano, secondo i giudici, Sabrina ad aver ucciso Sarah tra le "14:28:26 (orario in cui la Scazzi ha inviato lo squillo di conferma) e le 14:35:37" quando Sabrina risponde a un messaggio dell'amica Cimino che ha ricevuto alle 14:31 e 44 secondi. I giudici ritengono inoltre solidissimo il movente, e cioè la gelosia per Ivano. Movente che viene supportato anche in questo caso dai racconti dei testimoni ma soprattutto dal diario della stessa Sarah, che Sabrina aveva tenuto nascosto agli inquirenti per alcuni giorni. Proprio il giorno dell'omicidio Sarah scriveva: "Oggi ho avuto il dolce risveglio con il trapano, ieri sera poi sono uscita un po' con Sabrina e la sua amica Mariangela, siamo andate in birreria x una red bull veloce, poi siamo tornate a casa e Sabrina come al solito si è arrabbiata xk dice ke quando c'è Ivano sto smp con lui, e ti credo almeno lui mi coccola a differenza sua, potexi avere 1 fidanzato così! Mah, vabbè tanto ci sono abituata…".

LA POSIZIONE DI SABRINA - La forte attrazione, scrivono ancora i giudici, «nutrita dalla Misseri per Ivano e il conseguente sentimento di gelosia provato, che vedeva coinvolta la vittima, non lascia dubbi sul movente dell’uccisione della 15enne di Avetrana». «Con dolo intenzionale, plausibilmente d'impeto nel senso che, sebbene non sia possibile escludere aprioristicamente una premeditazione (...)». E' la gelosia il movente del delitto di Sarah Scazzi. Sabrina Misseri – secondo il Tribunale del Riesame di Taranto – era infatti “fortemente innamorata, anzi ossessionata” da Ivano Russo che “temeva di perdere ad opera” della cugina. Ma la “goccia, ovvero il punto di rottura che ha fatto scattare” in Sabrina “una forma di rancore nei confronti” della cugina si è verificata quando Sarah riferì al fratello Claudio la confidenza, che le fece la cugina su un “rapporto sessuale interrotto” avuto con Ivano. A carico di Sabrina Misseri il Tribunale del riesame ha ravvisato tutte le esigenze cautelari che ne giustificano la permanenza in carcere: il «concreto pericolo di fuga», il rischio di inquinamento delle prove e quello che la giovane «commetta delitti della stessa specie per cui si procede». Secondo il tribunale, l’attività di depistaggio comincia con «il messaggio delle 14.35.37 inviato alla Cimino (Angela Cimino, una cliente di Sabrina che in precedenza le aveva fatto una telefonata cui non aveva ricevuto risposta) al fine di suscitare nei terzi un’apparente normalità». Vengono poi ricordati, a titolo di esempio, i colloqui con un’altra sua cliente, Anna Pisanò, «alla quale veniva intimato (stai zitta, non dire niente) di non rivelare ai Carabinieri l’umore della Scazzi la mattina del giorno della scomparsa».E' emerso che la sera della scomparsa della 15enne, Sabrina Misseri andò in birreria "per dimenticare". "Sono in birreria per dimenticare" disse, mentre si cercava Sarah, a Miriam e Tony, una coppia di fidanzati che avevano sentito dei rumori che venivano dal palazzetto dello sport di Avetrana. Ma Sabrina li prese in giro dicendo che i rumori non potevano avere a che fare con la sparizione della 15enne. Questi particolari sono stati raccontati da Anna Pisanò, madre di Miriam. Quella sera, secondo la donna, Sabrina disse anche che gli autori del 'rapimento' di Sarah erano 'quelli di San Pancrazio'. Anna Pisanò ha anche parlato di un'altra corda conservata a casa di Emma Serrano, sorella di Cosima e zia di Sabrina Misseri. "Era a casa sua in una busta prima della scoperta del corpo" di Sarah, ha detto la donna. Emma l'aveva trovata in bocca a un cane e l'aveva conservata. Anna Pisanò è la supertestimone della procura, la donna che ha anche raccontato dello sfogo di Sabrina la sera del ritrovamento del cadavere (la ragazza, ora accusata dell’omicidio assieme al padre Michele Misseri, si sarebbe vantata di non aver ceduto agli interrogatori: «sono stata più brava di papà»). Davanti agli ufficiali di polizia giudiziaria che la interrogano per oltre tre ore racconta anche: «Io chiesi a Concetta perché la sorella non avesse portato la corda ai carabinieri, e lei mi rispose che, per il momento l’avrebbero tenuta loro e che, se avessero ravvisato la necessità, l’avrebbero consegnata agli inquirenti». Ma sempre la stessa teste racconta anche che dopo un po' di tempo «sempre prima del ritrovamento del cadavere di Sarah chiesi a Concetta se avessero consegnato la corda ai carabinieri, ma lei mi rispose che la corda era ancora nella disponibilità di Emma». Chi mente in questa storia, chi dice il vero e soprattutto perché dietro la morte e la scomparsa di questa ragazza ci sono tanti misteri e tante bugie? Un sospetto depistaggio nelle ore immediatamente successive al delitto di Sarah Scazzi. Sarebbe emerso anche questo nel racconto di Mariangela Spagnoletti, l’amica di Sabrina Misseri accusata dell’omicidio della cugina. Con la ragazza è stato ascoltato anche Alessio Pisello, l’amico ventisettenne, che quel pomeriggio aveva partecipato alle ricerche della minorenne scomparsa. Mariangela e Alessio hanno confermato che erano insieme, intorno alle 15,30, quando incontrarono Sabrina e la madre Cosima Serrano. Dalla ragazza ricevettero un preciso invito: «Mi stavano dando informazioni su quello che dicevano i carabinieri… infatti mi ha detto: dici ai due ragazzi di vedere verso la zona dove noi andavamo al mare», racconta Mariangela al pm nell’interrogatorio del 19 ottobre. In effetti così fecero i due amici, spostandosi da Avetrana sino al mare. «Abbiamo girato verso il Villaggio Aurora, quelle zone là (della spiaggia che frequentavano con Sarah), perché avevano detto di vedere quelle zone», completa il racconto Mariangela ricordando poi il successivo incontro con Sabrina quando erano già le 20. Di questo, ma non solo, avrà riferito la testimone chiave le cui dichiarazioni (secretate come le precedenti) contrastano con quelle di Sabrina a partire dalla sua presenza in strada (e non sulla veranda), quando Mariangela la vide sconvolta prima di salire in macchina pronunciando le famose parole, «l’hanno presa ... l’hanno presa».  Sarah Scazzi avrebbe confidato all'amica Francesca "di farle compagnia perché aveva paura della cugina Sabrina". Lo ha rivelato il papà di Francesca, Donato, intervistato dal programma Pomeriggio cinque, che ne dà notizia in un comunicato. In particolare, "una volta uscite da scuola, che avevano perso il pullman e Sabrina voleva accompagnarle - ha detto l'uomo - Sarah disse a mia figlia vieni con me e fammi compagnia". Ma non finisce qui. Secondo Donato, Cosima e Sabrina temevano che Sarah abbia potuto raccontare qualcosa all’amica. Non a caso, il 4 settembre, alcuni gironi dopo la scomparsa della piccola, le due erano andate a casa di Francesca e l’avevano incitata a salire in macchina. Ma la ragazzina, impaurita, chiamò il padre e a qual punto le due donne fecero finta di nulla.

LA POSIZIONE DI MICHELE - «Può ragionevolmente affermarsi che sono il disagio morale e il dolore infinito provati che hanno determinato la confessione progressiva e graduale di Michele Misseri», sottolinea il Tribunale del Riesame. I giudici spiegano che Michele Misseri, durante gli interrogatori nei quali ha fornito versioni differenti del delitto prima di arrivare a quella definitiva, ha patito un grande 'travaglio'. «Le differenti versioni – si legge nell’ordinanza – non sono sintomatiche di inattendibilità bensì espressione del travaglio necessario per giungere, riferendo la verità dei fatti, ad abdicare all’impegno assunto con la figlia di tenerla immune da ogni responsabilità». Ad avviso dei giudici, se «Misseri fosse realmente il turpe assassino della nipote, volenteroso di restare impunito per quanto fatto», «non è davvero comprensibile perché, invece di rimanere in attesa dell’evoluzione delle indagini (che verosimilmente non avrebbero condotto a nulla) e al contempo di far sparire qualunque traccia che potesse ricondurlo ai fatti, abbia conservato il telefono cellulare e le chiavi di casa di Sarah; si sia spontaneamente offerto agli inquirenti facendolo ritrovare; e, quindi, abbia confessato l’omicidio facendone ritrovare il corpo». Così come, «laddove si voglia ritenere che cerchi l’impunità accusando calunniosamente la figlia, non si capisce in alcun modo perché non lo abbia fatto immediatamente». Secondo il tribunale, la spiegazione è che Misseri – uomo dalla «personalità assolutamente mite» – si era impegnato con la «figlia prediletta» a tenerla «immune da ogni responsabilità». Una tesi sostenuta da «riscontri estrinseci di natura oggettiva», come il fatto che Misseri «non è stato autonomamente in grado di riproporre azioni di strangolamento compatibili con l’impronta-solco riscontrata sul collo della Scazzi», e «riscontri individualizzati», come le dichiarazioni di alcuni testimoni. La confessione di Michele Misseri è un unico discorso, secondo i giudici del Riesame, «alla cui conclusione definitiva costui perviene attraverso un percorso ben preciso connotato da logica e razionalità». Secondo i giudici, inizialmente il suo obiettivo è stato quello di far trovare il cadavere della nipote per un fatto di coscienza, tant’è che lo stesso contadino di Avetrana, nel corso del suo interrogatorio dice: «Perché non me lo potevo tenere dentro, io mi sono scaricato quella sera quando siamo andati là, e siamo andati al pozzo, da allora mi sono scaricato un po’». Michele Misseri era un uomo provato che lottava da giorni e settimane contro questo enorme peso che si portava dentro, tant’è che alla figlia Valentina in più di un’occasione aveva riferito di sognare Sarah che nel sonno gli chiedeva di coprirla perché aveva freddo. Ma lo stesso Michele ha deciso, secondo i giudici del Riesame, autonomamente di addossarsi integralmente la responsabilità dell’omicidio così evitando conseguenze negative per la figlia alla quale, «immediatamente e di sua esclusiva iniziativa», aveva assicurato l’impunità. «È dunque l’istinto immanente - scrivono ancora i giudici del Riesame - ad ogni genitore che lo ha determinato ad assumere questo suo primo comportamento». Questo fatto, secondo il collegio giudicante, è da ritenere spontaneo e non concordato neanche con la figlia Sabrina.

LA POSIZIONE DI COSIMA - Cosima Serrano, la madre di Sabrina Misseri, ha mentito quando ha affermato di non essere in casa la mattina del 26 agosto, il giorno dell'omicidio di Sarah Scazzi, uccisa nel primo pomeriggio. Così affermano i giudici del Tribunale del riesame. Nell'ordinanza infatti si legge che «la presenza di Serrano Cosima all'interno della abitazione la mattina del 26.8.2010 (costei ha sempre negato questa circostanza affermando di essere andata a lavorare nei campi e di essere rientrata per l'ora di pranzo, dopo le 13.00) è confermata oggettivamente dall'acquisizione di documentazione bancaria da cui risulta che costei, alle ore 12.18, aveva effettuato il versamento di due assegni bancari sul proprio conto corrente acceso presso la Banca di credito cooperativo di Avetrana». «In tal senso - prosegue il Tribunale del riesame - convergono anche le dichiarazioni rese in data 2.11.2010 dal funzionario di banca Milizia Angelo Carmelo che ha affermato di ricordare perfettamente tale circostanza, negata dalla ricorrente (Sabrina Misseri) e dalla stessa Serrano, ma che conferma il racconto del Misseri».

LA POSIZIONE DELL’ACCUSA. E' “plausibile ipotizzare”, a carico del professor Luigi Strada, il medico legale che ha eseguito l’esame autoptico sul cadavere della quindicenne Sarah Scazzi, i reati di “abuso di ufficio” e “consulenza infedele” per essersi comportato scorrettamente danneggiando il diritto di difesa di Sabrina Misseri, la giovane in carcere con l'accusa di aver ucciso la cugina minorenne. Lo scrive il tribunale del riesame di Taranto nelle motivazioni della conferma della custodia cautelare a carico di Sabrina Misseri. Il tribunale ritiene che debba essere trasmessa alla Procura di Taranto la richiesta dei pubblici ministeri di approfondire le indagini sulla condotta tenuta da Strada, in base a quanto segnalato nelle “note critiche sulla relazione tecnica di autopsia sul cadavere di Sarah Scazzi” depositate dalla difesa di Sabrina Misseri e firmate dal dottor Enrico Risso, consulente medico del collegio difensivo dell’indagata. Proprio Risso aveva prospettato – rileva il Tribunale del riesame – “una compromissione del diritto di difesa della Misseri posto in atto attraverso un comportamento del prof. Strada malizioso e non accompagnato da correttezza”. Strada, in particolare, avrebbe depositato gli esiti autoptici senza avvertire il consulente della difesa e, dunque, non consentendo a Risso “di esaminare la documentazione in parola”. Risso più volte gli aveva chiesto di essere tempestivamente avvertito del deposito delle risultanze peritali, e Strada si giustificò dicendo di “aver lavorato tutta la notte a seguito delle forti pressioni ricevute dalla Procura di Taranto”. Il riesame ritiene che sia necessario approfondire quanto denunciato da Risso nelle sue note. Se quanto sostenuto dal consulente della difesa di Sabrina Misseri non dovesse risultare vero, sarà lui – allora – ad essere indagato “per calunnia”.

Michele Misseri, oltre che del delitto di Sarah Scazzi e della violenza sessuale ai danni della giovane, risponde anche di sottrazione di cadavere (articolo 411 Codice penale) e non solo del meno grave reato di occultamento, come finora si è detto. Per il primo reato è prevista la misura detentiva, per il secondo no.

15 gennaio 2011. La ritrattazione di Michele Misseri. Ecco il testo integrale della lettera che Michele Misseri ha inviato alla figlia Sabrina per Natale e pubblicata su “Repubblica”. Un'altra missiva l'ha spedita all'altra figlia Valentina. Sono scritte in un italiano incerto, ma il contadino di Avetrana il 15 gennaio 2011 ne ha riconosciuto la paternità davanti ai legali di Sabrina nell'interrogatorio in carcere. "Cara Sabrina, sono io che scrivo, papà. Perdonami se ti ho dato la colpa, ma io non volevo, sono stato costretto a fare la falsa perché io mi sono sentito ricattato. Stavano scrivendo la verità però mi hanno detto che se non faccio quella confessione dovevano arrestare la mamma e zio Carmelo. Per non mettere altri innocenti in mezzo ho dovuto fare la falsa. So che è difficile chiederti perdono, io so che sei innocente. Tutte le sere dico la preghierina per te e per Sarah e io per te e per Sarah ho due pesi sopra lo stomaco che sono così pesanti che non ci riesco più a sopportarli. Spero che finisca tutto in fretta. Ho richiesto ai giudici e ai miei avvocati che a gennaio mi interroghino per l´ultima volta. Sabrina ti chiedo un favore, se vuoi fare colloquio con papà devi fare una domandina e anche io faccio una domandina, così ci fanno fare un colloquio".

25 gennaio. Cosima Serrano al contrattacco. “Cosima Serrano, la madre di Sabrina Misseri, ha mentito quando ha affermato di non essere in casa la mattina del 26 agosto, il giorno dell’omicidio di Sarah Scazzi, uccisa nel primo pomeriggio”. E’ quanto affermano i giudici del Tribunale del Riesame di Taranto. Nell’ordinanza infatti si legge che “la presenza di Serrano Cosima all’interno della abitazione la mattina del 26.8.2010 (costei ha sempre negato questa circostanza affermando di essere andata a lavorare nei campi e di essere rientrata per l’ora di pranzo, dopo le 13:00) è confermata oggettivamente dall’acquisizione di documentazione bancaria da cui risulta che costei, alle ore 12:18, aveva effettuato il versamento di due assegni bancari sul proprio conto corrente acceso presso la Banca di Credito Cooperativo di Avetrana”. “In tal senso – prosegue il tribunale del riesame - convergono anche le dichiarazioni rese in data 2.11.2010 dal funzionario di banca Milizia Angelo Carmelo che ha affermato di ricordare perfettamente tale circostanza, negata dalla ricorrente (Sabrina Misseri) e dalla stessa Serrano, ma che conferma il racconto del Misseri”. Ma non sarebbe riconducibile a Cosima Serrano, la moglie di Michele Misseri, la grafia sui documenti firmati in una banca ad Avetrana il 26 agosto 2010, il giorno della scomparsa e dell’uccisione di Sarah Scazzi. E’ quanto, secondo indiscrezioni, avrebbe stabilito il consulente nominato dalla Procura. Un accertamento che escluderebbe la presenza di Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri, l’agricoltore accusato insieme a sua figlia Sabrina dell’omicidio, nell’istituto di credito intorno a mezzogiorno, due ore prima della probabile morte di Sarah. Cosima Serrano allora passa al contrattacco e denuncia tutti. Per ora la querela è toccata al dipendente della banca di Avetrana che aveva giurato di averla vista al suo sportello il giorno della scomparsa e uccisione di Sarah Scazzi. La moglie di Michele Misseri è intenzionata a fargliela pagare anche al suo datore di lavoro il quale sostiene di non ricordare se quel giorno era andata a lavorare nella sua azienda agricola. A ricevere l’incarico delle denunce, è l’avvocato Francesco De Jaco, del foro di Lecce, il cui nome s’inserisce nel ricco carnet dei legali che a vario titolo si stanno occupando del giallo di Avetrana. «Abbiamo querelato il bancario – spiega l’avvocato De Jaco – e stiamo valutando di fare la stessa cosa con il proprietario dell’azienda agricola dove la signora Cosima Serrano ha lavorato in quel periodo». Secondo il difensore della mamma di Sabrina, la sua assistita «quel giorno è andata in campagna a lavorare» mentre il suo datore di lavoro «ha detto un mucchio di bugie che la giustizia saprà riconoscere e far pagare».  Le due circostanze, il versamento degli assegni in banca e la sua presenza in casa la mattina del 26 agosto, rafforzerebbero la tesi dell’accusa secondo cui la donna sarebbe stata testimone della lite scoppiata la mattina tra Sabrina e Sarah e ripresa nel pomeriggio con l’uccisione della più piccola. La perizia calligrafica sul modulo di versamento dei due assegni, però, ha escluso che a firmare sia stata Cosima. L’impiegato, interrogato dai magistrati, si era detto invece sicuro di averla vista. Convinzione, questa, che gli costerà una denuncia per calunnia. Chissà se mai una querela sarà presentata da Cosima contro i media che l'additano e i magistrati che sospettano di lei, come l’artefice e regista della morte di Sarah e con Valentina, l’altra figlia, dei seguenti depistaggi. Intanto Michele Misseri continua a scrivere alle sue figlie. Un’altra lettera, la quarta, il contadino di Avetrana l’avrebbe scritta il 16 gennaio alla figlia Sabrina. Le missive di identico contenuto ribadiscono la ritrattazione di quanto già confessato ed affermano l’innocenza di Sabrina. Allo stato degli atti non si capisce come un soggetto inattendibile possa essere creduto solo quando fa comodo all’accusa e su tale assunto possa essere fondata la motivazione che inchioda una presunta innocente ad una misura detentiva. Accusa che si fonda anche su testimonianze contraddittorie e su una discutibile acquisizione delle fonti di prova. I magistrati che indagano sull’omicidio di Sarah Scazzi sarebbero venuti in possesso (con estremo ritardo) di un secondo telefonino della quindicenne, uccisa il 26 agosto 2010 ad Avetrana. La notizia è pubblicata dal Nuovo Quotidiano di Puglia e dal Messaggero. Il telefonino sarebbe stato consegnato agli inquirenti dal fratello di Sarah, Claudio, quando è stato ascoltato durante le festività natalizie. Purtroppo le vicende e le anomalie inerenti al caso Scazzi non cessano di finire. Giunge inoltre notizia dalla stampa che sia scomparso il diario di Sarah dalle prove custodite in Procura. Pare che nella Procura di Taranto, mentre riordinavano tutti i dettagli ed i documenti pertinenti alla giovane ragazza, si sono accorti che mancava un diario, scomparso nel nulla. Tutti sono rimasti interdetti e non sanno dare spiegazioni in merito a questa strana scomparsa, di un elemento anche abbastanza importante. Ci si domanda chi possa averlo preso e come sia possibile che in Procura possa scomparire nel nulla un documento, durante un processo anche abbastanza importante. I diari si Sarah dovrebbero essere cinque, elementi fondamentali ove lei scriveva tutta la sua vita. Che probabilmente se analizzati potrebbero nascondere delle prove fondamentali per il caso. Pare che manchi proprio il diario che in precedenza fu sottratto alla giovane vittima dalla cugina Sabrina.

3 febbraio. La revoca di Daniele Galoppa. Daniele Galoppa non è più l'avvocato di fiducia di Michele Misseri. È stato il contadino di Avetrana, in carcere dal 7 ottobre 2010 per l'omicidio della nipote Sarah Scazzi, a revocare la nomina al penalista grottagliese, che lo aveva seguito dalla drammatica notte tra il 6 e il 7 ottobre, quando Misseri decise di confessare, facendo ritrovare il corpo della 15enne. Galoppa fu estratto a sorte dal call center degli avvocati d'ufficio. Nei giorni precedenti Galoppa aveva più volte ripetuto di essere disponibile a restare quale difensore di fiducia di Michele Misseri solo se quest'ultimo avesse continuato il percorso di verità e giustizia. Attività d’indagine questa, però, di pertinenza propria dei magistrati, che ai sensi dell’art.358 cpp  hanno l’obbligo di provare l’innocenza o la colpevolezza dell’indagato. Il difensore deve solo difendere. Forse per questo Cosima e Valentina non vedevano di buon occhio un avvocato ossequioso con la magistratura e avverso alla posizione di Sabrina, tant’è che hanno consigliato la nomina di un altro avvocato, il penalista romano Francesco De Cristofaro. L'avvocato De Cristofaro ha sostenuto che «il fatto che il signor Misseri mi abbia voluto nominare suo difensore non piace ad alcuni personaggi che prestano servizio permanente effettivo in questa immensa quanto arbitraria aula mediatico-giudiziaria. Mi limito – aveva aggiunto l'avv. De Cristofaro - ad informare tutti coloro che hanno osato o in futuro oseranno seminare gratuite insinuazioni sulla rigorosa fedeltà al mandato conferitomi dal signor Misseri, che avranno modo di spiegarsi meglio nelle sedi giudiziarie».

23 febbraio. Dopo sei mesi dal fatto, nuovi arresti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto, nell'ambito dell'inchiesta sull'omicidio di Sarah Scazzi, hanno arrestato Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello e nipote di Michele Misseri, l'agricoltore di Avetrana, che ha confessato il delitto chiamando in correità la figlia Sabrina. L’arresto è avvenuto 6 mesi dopo il presunto reato e il giorno dopo la visita a Taranto del Generale dei Carabinieri. Il Generale di Corpo d’Armata Maurizio Scoppa, Comandante Interregionale Carabinieri “Ogaden”, che guida il comando di vertice dell’Arma con sede a Napoli e giurisdizione sulle Regioni Campania, Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise, è giunto nella caserma di Viale Virgilio nella prima mattinata, dove è stato accolto dal Comandante Provinciale, Col. Giovanni Di Blasio, alla presenza di tutti gli ufficiali dei reparti operanti in provincia e di una folta rappresentanza di Comandanti di Stazione e militari di ogni ordine e grado. In quella sede, così come riportato nei tg locali, il generale si è soffermato sul caso di Sarah Scazzi e sullo scandaloso trattamento riservato alla vicenda dai media ed in particolare quello riservato alla vittima nei giorni antecedenti il ritrovamento del suo cadavere. I giornali dopo pochi minuti l’arresto già ne avevano notizia e ne hanno dato il resoconto. Gli arrestati sono accusati di concorso in soppressione di cadavere. La misura della custodia cautelare in carcere è stata adottata per esigenze probatorie ed ha una durata di 30 giorni. Al fratello e al nipote di Misseri il gip Martino Rosati ha imposto nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere anche il divieto di parlare con i propri legali sino all'interrogatorio di garanzia. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, il 26 agosto 2010, giorno del delitto, il corpo di Sarah venne trasportato dal garage dell'abitazione di Michele Misseri, in via Deledda 20 ad Avetrana, nelle campagne del paese in contrada Mosca e nascosto in un pozzo in un podere appartenuto agli stessi Misseri. A far ritrovare il cadavere fu Michele Misseri, nella sua prima confessione del 6 ottobre 2010. Per gli inquirenti, la prova del tentativo di Michele Misseri di coprire i due parenti che lo avrebbero aiutato nel sopprimere il cadavere di Sarah sarebbe nelle telefonate dell'uomo al fratello Carmine e al nipote, detto «Mimino » contenute nei verbali degli interrogatori. Le due telefonate sono proprio del 26 agosto 2010, giorno dell'uccisione della quindicenne. Alle 15.08, poco dopo l'omicidio di Sarah, Michele Misseri telefonò al fratello Carmine, ma su che cosa si siano detti quel giorno i due hanno riferito cose molto diverse. «Mi ha detto che Sarah non si trovava», ha raccontato Carmine in una deposizione, riferendosi a quella telefonata. Michele invece ha sempre detto di non ricordare quella frase e di aver riferito al fratello che, se lo avesse cercato la moglie, avrebbe dovuto rispondere che era andato in campagna perché «erano scappati i cavalli», motivando questo col fatto che aveva litigato con la consorte. Ma Michele non aveva litigato con la moglie e nessun cavallo era fuggito dalla proprietà di famiglia. La telefonata di Michele Misseri al nipote è delle 18.28 del 26 agosto, peraltro chiamando sull'utenza della moglie di «Mimino». «Per caso da sopra la Riforma (una zona di Avetrana) è passata qualche macchina sospetta che c'era Sarah dentro?» avrebbe chiesto Michele al nipote, secondo il racconto dell'agricoltore. «No, di qua non è passato nessuno» sarebbe stata la risposta. Ma se il nipote, ragionano gli inquirenti, davvero non fosse stato al corrente della scomparsa di Sarah, perché parlare di una presunta auto sospetta con a bordo la quindicenne? In quel momento, Sarah era morta da più di quattro ore e il cadavere era stato già nascosto nel pozzo di contrada Mosca.

Ma a seguito dell’interrogatorio di garanzia, l'attesa svolta in seguito ai nuovi arresti nel caso Scazzi non c'è stata. I magistrati della Procura della Repubblica di Taranto speravano che Carmine Misseri e Cosimo Cosma "cantassero" davanti al gip Martino Rosati, permettendo loro di chiudere definitivamente il cerchio attorno all'omicidio della quindicenne di Avetrana. Ma i due uomini hanno fermamente respinto l'accusa di avere aiutato il congiunto a sbarazzarsi del corpo di Sarah Scazzi - secondo l'accusa uccisa  da Sabrina, la figlia di Misseri. Nell'ordinanza del Gip Martino Rosati che li ha mandati in carcere, Carmine Misseri, 51 anni, e Cosimo Cosma, 45, sono accusati di concorso in soppressione di cadavere in base all'art. 411 del codice di procedura penale che fa distinzione di pena tra chi occulta un cadavere in modo temporaneo e chi lo sopprime facendolo sparire per sempre. Secondo quanto scrive la Procura, al pozzo di contrada Mosca, la gelida tomba in cui i resti mortali di Sarah avrebbero dovuto essere consegnati per sempre all'oblio, c'erano pure il fratello e il nipote di zio Michele. E la tesi della Procura è sostenuta da clamorose intercettazioni telefoniche ed ambientali raccolte dai carabinieri in questi lunghi mesi di indagini.

Per Carmine Misseri, fratello di Michele, le indagini sulla morte di Sarah Scazzi destavano preoccupazione. Una deduzione che gli investigatori hanno elaborato dalle intercettazioni ambientali effettuate sull’auto di Carmine. L’uomo parlando con sua moglie non nasconde una certa apprensione sullo svolgimento delle indagini, soprattutto quando scopre che il nipote di Michele, Cosimo Cosma (figlio di una sorella di Michele e Carmine), si trova a Taranto presso la caserma dei carabinieri per essere interrogato.

Ecco cosa dice Carmine Misseri alla moglie Lucia il 16 novembre 2010, (atti pubblicati da tutti i giornali), temendo che Cosma possa aver detto qualcosa di compromettente:

CARMINE: Cosma ha aiutato zio Michele a buttare la … bambina nella cisterna… Sarah Scazzi

LUCIA: Avevo capito bene allora io… ho capito…

CARMINE: Adesso non sappiamo, non è che lo hanno trattenuto… boh…

LUCIA: Io non vengo più

CARMINE: Nemmeno io…

LUCIA: Però della telefonata ha dichiarato pure lui che ti ha chiamato a te…

CARMINE: e va be’ e lui che cazzo ne sa che mi ha chiamato scusa… sa

LUCIA: Lo hai detto tu?

CARMINE: Eh “lo hai detto tu”… che se stavano parlando quella sera…

LUCIA: Ah, cazzo come escono le cose, hai visto!

CARMINE: …quando stavamo parlando quella sera quando disse: “perché ti hanno interrogato?” E io dissi: “no, per il fatto che quello mi ha chiamato per i cavalli”, che Mimino disse…

LUCIA: E hai parlato pure dei cavalli…

CARMINE: Quando andò la prima volta lui disse “ tutti e due noi teniamo la telefonata a quell’orario”… però se ha parlato dei cavalli e loro hanno… è giusto pure quello che ho dichiarato io.

LUCIA: Quando gli piace a loro scavano … se lo ha aiutato sono cazzi amari per tuo nipote … quello si mette guai sopra guai

LUCIA: Che ha detto?

CARMINE: Ha detto niente… lui a Taranto sta, lo hanno chiamato nuovamente.

LUCIA: Mannaggia e adesso ti chiamano a te nuovamente.

CARMINE: e va bene ho chiamato per i cavolfiori… se lo tengono sotto controllo hanno visto quello che ho detto

LUCIA: Ma si fissano sai

CARMINE: Adesso lo hanno chiamato nuovamente. A Taranto ha detto che sta… “mi devono interrogare oggi”… portava una voce brutta… dice: “io a Taranto sto”.

LUCIA: E adesso ti chiamano a te nuovamente.

CARMINE: per questa chiamata?

LUCIA: No, no...

CARMINE: Ah, si adesso mi chiamano nuovamente… che me ne fotto io… prendo l’avvocato e dico “andiamo”… eh… ha detto: “io a Taranto sto”, va bene, me’… se tengono il numero sotto controllo hanno visto che l’ho chiamato per cavolfiori… per mangiare, insomma per altro

LUCIA: Mannaggia …., ma perché lo hai chiamato, vaffanculo!

CARMINE: Si, ma non fa niente Lucì… che mica l’ho chiamato per caso… cazzo, non hanno chiamato lui e adesso mi chiamano nuovamente a me… adesso mi chiamano nuovamente

LUCIA: Non avresti dovuto chiamarlo proprio per oggi...

CARMINE: Sapevo poco che stava a Taranto...

LUCIA: E vaff….., ti ho detto di lasciarlo andare… (…)

CARMINE: Speriamo che la finiscano al più presto… allora sai quando mi chiameranno a me… venerdì

LUCIA: Si, che come...

CARMINE:… venerdì Michele non deve dire, non deve fare la confessione di fronte alla figlia… e venerdì mi chiamano a me… poi vedi.

LUCIA: Se dice: “come mai questo numero proprio oggi ti ha chiamato nuovamente?

CARMINE: Però se lo tengono sotto controllo hanno visto quello che ho detto, babba.

LUCIA: Ma vaff….., quando si fissa...

CARMINE: Hanno visto quello che ho detto… menchia… hanno visto quello che ho detto...

LUCIA: Non hanno visto proprio niente quelli. Stanno reinterrogando tutti sul percorso di quel giorno.

CARMINE: E adesso mi chiamano nuovamente pure a me allora… perché quel giorno Lucì mi ha chiamato quello stronzo

LUCIA: Tu ti preoccupi?

CARMINE: No… nemmeno per un cazzo...

LUCIA: Però (incomprensibile) sta pizza… loro uccidono e a noi ci devono rompere le scatole… dice che Valentina la andò a prendere l’avvocato Russo o dalla stazione o con l’aereo… fino ad adesso hai fatto il bravo e non chiamarlo mai… ehi, proprio oggi...

CARMINE: Ehi, non ti preoccupare, se lo tengono sotto controllo hanno sentito cosa ha detto, hanno sentito… tutto hanno sentito quello che ha detto. Se avessi preso quei discorsi allora mi avresti potuto dire… ma hanno sentito il discorso e stai tranquilla… non ti mangiare la testa.

LUCIA: Ha bestemmiato?

CARMINE: No.

LUCIA: Mimino…

CARMINE: No, niente ha detto. (incomprensibile) no “che io a Taranto sto, che mi devono interrogare oggi”…. quell’altro, sa che sta così, è recidivo e tutte cose, e non si mette l’avvocato?

LUCIA: Ma se quello abita da quelle parti, no?

CARMINE: Eh, la cellula non deve prendere per forza da là…»

Significativo per gli inquirenti anche il passaggio intercettato in cui la stessa signora Lucia ricorda di aver fornito un falso alibi al marito: “Guarda porto un rancore verso quella famiglia (quella di Michele Misseri, n. d. r)… che mi hanno messa nei guai e meno male che ho detto che stavi con me quel giorno”. Secondo la procura e il gip qualcuno ha aiutato Michele. I due sono proprio Misseri jr e Cosma. Il primo riceva la telefonata alle 15,08 da parte del fratello, quel 26 agosto. Lui racconterà che gli aveva chiesto che "qualora mi avesse chiamato la moglie Cosima, avrei dovuto dirle che ci trovavamo insieme alla masseria Cuturi perché erano scappati i cavalli che erano rinchiusi in un recinto". Una bugia, secondo gli investigatori che sostengono che in quella telefonata Michele gli chiedesse aiuto. A dimostrarlo, dice il giudice, un'intercettazione ambientale del 9 novembre quando Carmine parlando con la moglie diceva: "Bucco (ndr, il pm Buccoliero) mi ha chiesto, quando ti ha telefonato cosa ha detto?", "che erano scappati i cavalli"... Io lo avevo imparato a memoria".

Il gip cita espressamente una frase di una intercettazione ambientale in cui la moglie di Carmine Misseri, Lucia Pichierri, dice al marito: ''....e meno male che ho detto che stavi tu con me quel giorno''. E in un'altra occasione due giorni dopo aggiunge: ''...ti ho salvato le chiappe...le tue...''.

Il primo ad essere interrogato è stato Cosimo (Mimino) Cosma. "Si è dichiarato innocente - ha riferito uscendo dal carcere il suo difensore di fiducia, l'avv. Raffaele Missere di Torre Santa Susanna (BR) - non ha scaricato la responsabilità su nessuno, non conosce la responsabilità di altri nè in ordine alla soppressione del cadavere nè in ordine ad altri fatti di reato". In parole povere, non sa nulla neppure sulla fase dell'uccisione di Sarah. Per il legale, anche un paio di telefonate 'sospette', citate nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere, fatte dalla moglie di Cosma al marito sul cellulare, mentre loro hanno sempre detto di essere rimasti a casa per tutto il pomeriggio, avrebbero una spiegazione. La moglie di Cosma, ha spiegato, spesso chiama il marito quando non lo vede perchè "credo abbia dei dubbi sulla fedeltà" dell'uomo. E poi la casa in campagna in cui vive la coppia ha degli spazi coperti che "non consentono, se una persona sta in casa, di capire se l'altra sia nelle vicinanze".

Il legale ha criticato la motivazione tecnica dell'ordinanza di custodia cautelare (che ha una durata di 30 giorni). Ha chiesto al gip la sostituzione o la revoca del provvedimento e comunque ha depositato ricorso al Tribunale del Riesame. Alla trasmissione RAI “Pomeriggio Sul 2” del 24 febbraio 2011, lo stesso legale si è soffermato sul metodo della Procura sull’uso del “Tintinnio di manette” per costringere qualcuno a confessare colpe proprie o altrui. Anche Carmine Misseri non sarebbe stato da meno nel respingere le accuse. Il fratello non lo avrebbe mai coinvolto nell'operazione di nascondere il cadavere di Sarah nel pozzo, anche se dalle intercettazioni ambientali su Carmine e sua moglie emergono continue apprensioni sull'evolversi dell'inchiesta e soprattutto su quello che Michele Misseri avrebbe potuto riferire nei vari interrogatori agli inquirenti.

Apprensioni, dunque, preoccupazioni ma non timori, avrebbe cercato di spiegare l'indagato, perchè lui, Carmine, non avrebbe da temere nulla. Anche il suo legale, l'avv. Lorenzo Bullo di Manduria (TA) (che non ha voluto fare alcun commento all'uscita dal carcere), ha presentato ricorso al Tribunale del Riesame, ma non ha presentato alcuna istanza al gip che ha emesso l'ordinanza di custodia cautelare in carcere. Il giorno dell’arresto su Porta a Porta Bullo rilevava l’inutilizzabilità delle prove acquisite e criticava l'operato della procura al di là delle norme procedurali. In sostanza, sul capitolo d'inchiesta riguardante la soppressione del cadavere di Sarah bocce ferme e posizioni immutate anche dopo gli ultimi arresti.

Dubbi sono sollevati da Cristina Bassi su “Panorama”. I nuovi arresti del fratello e del nipote di Michele Misseri sono avvenuti quasi quattro mesi dopo la confessione del presunto assassino. E sei mesi dopo l’omicidio di Sarah Scazzi. L’accusa di «soppressione di cadavere», diversa da quella più comune di «occultamento», permette le misure cautelari come il carcere, se necessarie. Ma in questo caso viene il dubbio che la decisione sia un tentativo (tardivo) di ottenere una confessione.

Gli inquirenti hanno infatti spiegato che Cosimo Cosma e Carmine Misseri sono finiti in carcere sulla base di intercettazioni e contraddizioni nelle testimonianze e perché esiste una «eccezionale intensità del pericolo di inquinamento delle prove». Hanno persino negato ai due arrestati di vedere i propri legali fino all’interrogatorio di garanzia, per impedire che concordino la versione. Ma dal 26 agosto a oggi non avrebbero avuto tutto il tempo di inquinare e concordare? Nella vicenda di Avetrana, nonostante l’eccezionale attenzione mediatica, non è la prima volta che si ha l’impressione che gli inquirenti brancolino nel buio.

Il 7 ottobre 2010, dopo la prima confessione di Misseri, il procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, dichiarò in conferenza stampa che il caso era chiuso «al 95 per cento». Da allora è successo di tutto, Misseri ha chiamato in causa la figlia Sabrina e le carte in tavola si sono rimescolate. Ci sono forti dubbi anche sulla scena del delitto. Sarah potrebbe essere stata uccisa in casa Misseri e non in garage, come ha invece detto zio Michele. E se comunque il garage è la scena dell’omicidio, i sopralluoghi fatti lì con gli inquirenti (come si vede nei video e come ha sottolineato un servizio di Chi l’ha visto?), affollati e senza misure precauzionali come copriscarpe né cuffie, l’hanno irrimediabilmente inquinata. Il caso è più che mai aperto.

E che dire della porta che dall'interno della casa collega l'interno del garage: un po' si può aprire; un po' è impedisce l'accesso.

2 marzo. Avvocati interdetti. Il gip del tribunale di Taranto Martino Rosati ha emesso l'interdizione dall'esercizio della professione di avvocato a carico di Vito Russo, il legale di Sabrina Misseri. La procura aveva richiesto per lo stesso avvocato l'emissione di un ordine di custodia cautelare agli arresti domiciliari per tentato favoreggiamento, minacce a teste, falso ideologico ed altro. Anche l'avvocato Emilia Velletri, moglie di Vito Russo e componente del collegio difensivo di Sabrina, è indagata per falso in sottrazione, uno dei reati contestati al marito. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno notificato la misura interdittiva. Sono state effettuate perquisizioni, una a casa dei due legali ed una presso lo studio, dove sarebbero tra l'altro stati copiati "importanti" file dai computer dello studio legale. Un'altra perquisizione è stata effettuata presso l'abitazione di una terza persona alla quale sono stati sequestrati i file audio delle indagini difensive che gli stessi avvocati Russo e Velletri hanno compiuto a favore di Sabrina. Gianluca Pierotti è stato nominato difensore di fiducia da parte degli avvocati Emilia Velletri e Vito Russo. In pratica, secondo l'accusa, come riportata da “La Repubblica” l'avvocato Russo con le menzogne e le minacce ha tentato di intimidire il teste Ivano Russo, facendogli dichiarare che a fargli la corte non era Sabrina, ma l'amica Mariangela Spagnoletti, e che per questo motivo la stessa Spagnoletti accusava Sabrina, per la quale si è ipotizzato il movente della gelosia. Secondo il gip, l'avvocato - per assicurare alla ragazza l'impunità, minacciò il giovane - persona già sentita dal procuratore generale e dal pubblico ministero - rivolgendogli queste parole: "Gli inquirenti stanno preparando un provvedimento di fermo nei tuoi confronti. Se tu mi rendi queste dichiarazioni possiamo contrastare". Lo stesso avvocato, in concorso con la moglie, Emilia Velletri, altro difensore di Sabrina, sempre mentre sentiva Ivano, decise di sospendere l'atto, strappando il relativo verbale e cancellando la registrazione audio dicendo che quanto dichiarato dal ragazzo poteva essere controproducente per Sabrina. Inoltre, il legale indagato per aver minacciato il giornalista di 'Matrix' Salvatore Gulisano, facendogli sottoscrivere una dichiarazione con la quale affermava falsamente di non aver mai sentito dire all'avvocato frasi lesive della reputazione dell'avvocato Francesca Conte, con la minaccia in caso contrario di far passare guai allo stesso giornalista e alla sua redazione. Francesca Conte aveva assunto la difesa di Sabrina Misseri, che poi le fu revocata e fu presa da Russo. Sempre Russo con il collega Gianluca Mongelli erano stati iscritti nel registro degli indagati il 6 dicembre 2010 con l'accusa di favoreggiamento e tentativo di alterazione del testimone; sospettati di aver fatto pressione sul fratello di Michele Misseri, Carmine - che lo ha raccontato ai magistrati - per convincerlo a cambiare avvocato. Non è chiaro se la misura dell'interdizione si riferisca a quelle accuse. L'episodio risale al 16 ottobre 2010 quando dallo studio Mongelli venne inviato in carcere a Misseri un telegramma, firmato proprio dal fratello Carmine, con il quale lo si invitava a nominare un legale di fiducia al posto di Daniele Galoppa, dopo 'scaricato' da Misseri. Secondo la procura il tentativo era finalizzato a far cambiare versione a Misseri, in modo tale da scagionare Sabrina. Il tentativo naufragò, ma Galoppa fu revocato e con lui tutta la squadra di esperti cui partecipava anche la criminologa Roberta Bruzzone. Non solo: a Russo venne contestato anche di aver fatto inviare a Sabrina dal suo cellulare un sms ai familiari subito dopo il fermo. Inoltre, ci sarebbero nei suoi confronti sospetti sui tentativi di condizionare la testimonianze delle persone sentite sul caso. Inoltre gli inquirenti dopo mesi tornano sul presunto luogo del delitto. Accertamenti tecnici sono stati effettuati da parte dei carabinieri nell'abitazione della famiglia Misseri, in via Deledda 20 ad Avetrana. Al centro dell'ispezione una piccola macchia di colore rossastro con un leggerissimo gocciolamento sulla porta che dall'abitazione conduce al garage. E' questo particolare l'oggetto dei rilievi svolti da parte dei carabinieri in casa Misseri ad Avetrana. Lo hanno riferito i legali della famiglia Scazzi, Walter Biscotti e Nicodemo Gentile, poichè l'accertamento, disposto dalla procura della Repubblica di Taranto, è conseguenza del sopralluogo compiuto in casa Misseri il 14 febbraio 2011 dagli stessi legali di parte civile e coordinato dal consulente di parte, generale Luciano Garofano. I legali di parte civile avevano consegnato una relazione sull'esito del sopralluogo sottolineando la presenza della macchia su una porta. Particolare sfuggito agli inquirenti. "Riconoscendo che può trattarsi di qualsiasi cosa - hanno detto i due legali - è preciso dovere nostro non lasciare nulla di inesplorato in un caso di omicidio così grave. Pertanto abbiamo relazionato alla procura quanto rilevato, chiedendo rispettosamente l'accertamento della natura di questa macchia nel contraddittorio tra le parti". Anche il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto fa dei rilievi. A Daniele Galoppa viene contestata la sovraesposizione mediatica, a Vito Russo e Emilia Velletri anche l'accaparramento di clientela. Per Russo si aggiunge anche la violazione delle norme di correttezza e decoro. In seguito agli eventi su esposti l'avv. Russo e l'avv. Velletri potrebbero lasciare la difesa di Sabrina Misseri. Sicuramente, questi, non hanno l'opportunità, riservata a Galoppa, Biscotti e Gentile, (per questi la sovraesposizione mediatica mai contestata), di presenziare nei talk show televisivi, non invitati da quei media poco inclini a dare spazio alle tesi difensive o a sposare la tesi dell'innocenza di Sabrina o Cosima, ovvero sentire rimostranze contro gli atteggiamenti della procura di Taranto e del GIP Martino Rosati. 

L'avvocato Vito Russo, difensore di Sabrina Misseri, «ha mostrato di esercitare il suo mandato difensivo con assoluto disprezzo delle fondamentali regole professionali». Così il gip del tribunale di Taranto Martino Rosati motiva l'ordinanza interdittiva. Una scelta di comportamento nell'esercizio dell'attività professionale, scrive ancora il giudice, «pervicacemente improntata alla spregiudicatezza». Il gip, a conclusione dell'ordinanza, invita anche Russo a rivedere i suoi comportamenti per non incorrere in provvedimenti più gravi. «La dimensione pubblica acquisita dalla vicenda - scrive Rosati riferendosi all'omicidio di Sarah Scazzi - nonchè la correlata notorietà assunta dal Russo permettono di confidare che egli, rimeditando sulla sua sciagurata scelta comportamentale, rispetti tale divieto e si attenga volontariamente, in avvenire, da qualsiasi comportamento analogo per cui egli è indagato. Nessuno meglio di lui, in ragione della sua qualità professionale - conclude il gip - è consapevole del fatto che un eventuale violazione di tale divieto lo esporrebbe al serio rischio di una più grave limitazione cautelare». Sulla faccenda bisogna fare chiarezza. Bisogna discernere l’intimidazione giudiziaria per inibire la corretta difesa, dal depistaggio del difensore con azioni di reità. Dalle accuse presentate c’è un po’ di tutto: si contesta anche l’aver chiesto di nominare un avvocato di fiducia al posto di Galoppa, legale d’ufficio, e aver scartato atti che non erano utili alle indagini difensive. A riguardo l’art. 96 c.p.p. recita che l’indagato-imputato ha diritto alla nomina del difensore di fiducia. In questo caso Galoppa è stato nominato dalla Procura. Cioè contro cui doveva battersi. Se l’art. 358 c.p.p. prevede che il P.M. deve svolgere indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale ed altresì svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini, per l’avvocato l’art. 88 c.p.c. prevede il dovere di lealtà e correttezza. Lo stesso giuramento è indicativo: "Giuro di adempiere ai miei doveri professionali con lealtà, onore e diligenza per i fini della giustizia e per gli interessi superiori della Nazione". Fine di giustizia è difendere il proprio cliente contro tutti: accusa e parte civile. Come il medico ha l’obbligo di salvare la vita umana, l’avvocato ha l’obbligo di salvaguardare la libertà umana da errori od accanimenti giudiziari. Senza incorrere in azioni illecite. Bene. Escludere atti non compiuti, prevedibilmente sfavorevoli alla difesa, comporta corretto esercizio di difesa, in caso contrario sarebbe infedele patrocinio. Infedele patrocinio è commesso, per esempio, da chi nelle comparsate in tv sbandiera da avvocato la missione di ricerca della verità. Missione, questa, propria della procura, con i mezzi destinati a ciò dallo Stato. Se si adottano atti per indurre alla falsa testimonianza, allora si parla di reato punito dall’art. 377 c.p. (intralcio alla giustizia, che ha preso il posto della subornazione). A riguardo l’avv. Francesco De Jaco, legale di Cosima Serrano, concorda. All'indomani dell'interdizione dalla professione di avvocato di Vito Russo, già legale di Sabrina Misseri, in carcere con l'accusa di aver ucciso la cugina 15enne Sarah Scazzi, parla il suo avvocato. É Franco De Jaco, del foro di Lecce, che già rappresenta Cosima Serrano, moglie e madre dei presunti assassini Michele e Sabrina. Le accuse rivolte al suo assistito sono gravi, ma - ha detto De Jaco il 3 marzo su TRnews - stiamo già dimostrando che il provvedimento si basa su dichiarazioni completamente false. I reati contestati a Russo sono: favoreggiamento, induzione a rendere false dichiarazioni e soppressione di atti. Vito russo avrebbe distrutto i documenti delle dichiarazioni rese da Ivano Russo, amico di Sabrina Misseri e della vittima Sarah Scazzi, in sede di indagini difensive, ovvero le parole che il giovane di Avetrana ha reso alla sola presenza dei legali di Sabrina, Vito Russo e sua moglie Emilia Velletri. Non è stato distrutto nulla ma se così fosse, non sarebbe comunque reato - spiega De Jaco -. La Procura ha agito legittimamente su input ricevuti da qualcuno. Verso quel qualcuno De Jaco procederà con la querela per calunnia. Però guai a farlo sapere in giro. I media hanno pensato bene di non dare spazio a queste dichiarazioni, ospitate solo in una tv, il cui editore e lo stesso avvocato sono accomunati nella battaglia per la realizzazione della "Regione Salento". 

10  marzo. Carmine e Mimino non dovevano essere arrestati. Tornano in libertà per "carenza di esigenze cautelari" Carmine Misseri e Mimino Cosma. Arrestati il 23 febbraio con l’accusa di aver aiutato Michele Misseri - di cui sono rispettivamente fratello e nipote - nell’occultare il cadavere di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa il 26 agosto 2010. Lo ha deciso alle 21, dopo quasi sette ore di camera di consiglio, il tribunale del riesame, accogliendo il ricorso formulato dagli avvocati Lorenzo Bullo (per conto di Carmine Misseri), Raffaele e Serena Missere (per conto di Mimino Cosma). Mimino Cosma ha detto: "Mai mi sarei aspettato di finire in carcere per questa storia. E' stata una esperienza iniziata in maniera terribile perché terribile era l'accusa di aver gettato in un pozzo una ragazzina che ha l'età di mio figlio. Spero che ora sia tutto finito". L’udienza al riesame era stata aggiornata dopo che gli avvocati Raffaele e Serena Missere avevano eccepito sulla mancata consegna alla difesa delle intercettazioni ambientali tra Mimino Cosma e la moglie Maria Ferrara depositate dal procuratore aggiunto Pietro Argentino e dal sostituto Mariano Buccoliero direttamente in aula. I legali di Mimino Cosma avevano denunciato la violazione del diritto di difesa. Si tratta di intercettazioni compiute a novembre nelle quali Cosma e la moglie Maria Ferrara commentano l’inchiesta sull'omicidio di Sarah Scazzi e gli interrogatori cui sono stati entrambi sottoposti dai carabinieri quali persone informate sui fatti. I loro colloqui vengono captati da una cimice piazzata nell’auto della coppia. Per i legali di Cosma non solo sono irrilevanti ai fini dell’accertamento della verità - ed in effetti non c’è davvero nulla riguardo il reato ipotizzato - ma sono anche parziali in quanto la Procura non ha provveduto al deposito di tutte le intercettazioni, come previsto dal codice, ma soltanto di quelle ritenute rilevanti ai fini investigativi, impedendo così alla difesa di valorizzare invece i colloqui favorevoli agli indagati. Gli avvocati Missere hanno lamentato anche la mancata trasmissione del verbale relativo all'incidente probatorio del 19 novembre scorso, in cui Michele Misseri fornì la sua ultima versione dei fatti confessando di aver nascosto da solo il corpo della nipote quindicenne, senza aiuto di alcuno. L’annullamento degli arresti costituisce una pesante battuta d’arresto per una inchiesta che sembrava vicina alla sua definizione.

“Sono stato in carcere 16 giorni da innocente. Ora sono felice, ma spero che finisca tutto al più presto. Mi devono spiegare perchè è accaduto tutto questo. Non avrei mai fatto quello che mi contestano, occultare il cadavere di una bambina”. Sono le prime parole – riferisce l'avv. Raffaele Missere – pronunciate dopo la scarcerazione da Cosimo Cosma, detto Mimino, 43 anni. “E' stata – ha aggiunto Cosma – una esperienza terribile. Sono stato diversi giorni in isolamento senza televisione, senza giornali. Spero che sia fatta giustizia”. Ad accogliere Cosma, che è uno dei nipoti prediletti di Michele Misseri, c'erano la moglie e il figlio di 15 anni, che era stato compagno di classe di Sarah Scazzi. Cosimo Cosma, il nipote del presunto omicida della 13enne di Avetrana, Sarah Scazzi, interviene dopo la scarcerazione. "Certo per me è la fine di un incubo", tuttavia "non credo che Michele possa aver ucciso Sarah" dice a Quarto grado su Rete Quattro. Poi torna sul giorno del delitto: "Io quel giorno - spiega - stavo a casa con la mia famiglia. Dormivo". "In questo momento sto bene - prosegue Cosimo - Non mi spiego neanche perché‚ mi hanno arrestato. Non so chi ha ucciso Sarah. Ho saputo che mi scarceravano da una guardia che mi ha detto di preparare le mie cose perché ero libero. Ora sono felice". "Io quel giorno - spiega - stavo a casa con la mia famiglia. Dormivo. Non sono mai andato a trovare Michele in carcere. Per come conoscevo io Michele non credo proprio che possa aver ucciso Sarah. Era tutto casa e lavoro. Michele non si è mai confidato con me". Come mai allora è stato sospettato? "Mia moglie è molto gelosa e alcune sue frasi purtroppo hanno forse tratto in inganno gli inquirenti e mi hanno danneggiato. Sarah la conoscevo bene perché andava a scuola con mio figlio. Era una ragazza dolce e timida. Quando ho sentito della sua morte ho provato terrore. Come si fa a buttare una ragazza in un pozzo? Come si fa! Se avessi visto davvero Michele mentre cercava di occultare il cadavere di Sarah glielo avrei impedito".

«È la fine di un incubo. Non ho fatto niente, sono innocente. Non odio nessuno ma provo rancore per Michele. Non doveva farmi quella telefonata». Lo ha detto Carmine Misseri, fratello di Michele, in un'intervista a Matrix. Nell'intervista Carmine Misseri racconta della mattina dell'arresto. «Non me l'aspettavo proprio. All'alba hanno suonato i carabinieri: mia moglie ha risposto al citofono, i carabinieri sono saliti, mi hanno fatto cambiare e mi hanno portato a Taranto. E solo lì ho capito che mi stavano arrestando. Quel giorno ho pianto, ero preoccupato e avevo paura di non esser creduto». Quanto al fratello Michele, Carmine Misseri aggiunge: «In quei giorni, dopo la scomparsa di Sarah, Michele era tranquillo. E allora gli credevo. Ora non gli credo più».

Intanto al posto dell’avv. Vito Russo ed Emilia Velletri per la difesa di Sabrina Misseri viene nominato Nicola Marseglia, già dominus di Lorenzo Bullo. L’Avv. Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri è stato praticante dell’avv. Nicola Marseglia, oggi difensore di Sabrina Misseri.

Inoltre l’amministrazione di Avetrana adotta una delibera in cui si annuncia la costituzione di parte civile nel processo e la contestuale nomina dell’avv. Pasquale Corleto, principe del foro di Lecce.

Intanto lo stesso giorno del 10 marzo Cosima Serrano e la sorella Emma, moglie e cognata di Michele Misseri, si sono recate nella caserma dei carabinieri di Avetrana per sporgere denuncia nei confronti della mamma e la sorella di Cosimo Cosma, nipote dei Misseri. Le due donne che sono assistite dall’avvocato leccese, Franco De Jaco, contestano alcune dichiarazioni rese dalle parenti durante la trasmissione televisiva «Porta a Porta» di due giorni prima. In quell’occasione sia la madre che la sorella di Mimino avrebbero ipotizzato il coinvolgimento nel delitto di Cosima Serrano e della figlia Sabrina.

Qualche giorno dopo, giustappunto il 19 marzo ancora Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri, ha depositato ai carabinieri della stazione di Avetrana una querela per diffamazione nei confronti della giornalista Mariella Boerci e della società editrice 'Anordest', che ha pubblicato il libro della Boerci 'La bambina di Avetrana' inerente all'inchiesta sull'omicidio di Sarah Scazzi. Lo ha riferito il legale di Cosima Serrano, l'avvocato Franco De Jaco. Nella querela Cosima Serrano chiede anche il sequestro del libro su tutto il territorio nazionale. Secondo la donna, conterrebbe valutazioni diffamatorie sulla famiglia Serrano e anche alcuni dialoghi frutto di invenzione.

23 marzo. La verità di Cosima. Per ristabilire la sua verità, oltre alla presentazione delle querele, dopo mesi di silenzio Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri e madre di Sabrina, è tornata a parlare pubblicamente. Lo ha fatto in tre interviste del 23 marzo, una al quotidiano La Stampa con Maria Corbi (forse l'unica che ha difeso Sabrina e Cosima), una al programma di canale 5 Matrix e una al programma Quarto grado su Rete 4.

Cosima è la zia di Sarah, la sorella della madre. Su di lei si è sempre vociferato che non potesse non sapere quello che è accaduto quel 26 agosto in casa sua, quando la piccola Sarah è stata strangolata e uccisa. Il venticello calunnioso soffiato da tutte le tv, che però, queste sì, non sono state investite dalle querele. Non solo, si è anche ipotizzato che Cosima in qualche modo abbia avuto un ruolo attivo nella vicenda, ma la sua posizione finora è sempre rimasta pulita e non è mai stata indagata. Per questo Franco De Jaco si definisce "Legale" e non "Difensore". La donna, poi, ha sempre sostenuto la completa innocenza di sua figlia Sabrina (in carcere perché accusata dal padre) ed è convinta che l’assassino sia suo marito Michele. Per giorni il tam tam delle notizie ha parlato di un suo imminente arresto. E lei, rassegnata al destino che le sta portando via tutto, si era accorciata i pantaloni e preparata la borsa nonostante non sia mai stata nemmeno indagata. Quel tutto che un branco di iene è pronto a divorare. Tutti ricordano l’immagine di lei che tira dentro al garage il marito Michele, e tutti hanno interpretato quel gesto come quello di una donna che comanda con arroganza. E lei vuole partire proprio da questo. Tante volte seduta da sola sul divano di casa sua ha sentito opinionisti definirla in tutti i modi per quel gesto e lei avrebbe voluto difendersi. «Quando scrivono e dicono delle cose devono essere certi», dice con la voce bassa.

Allora Cosima, iniziamo da quel gesto.

«Io l’ho fatto per difenderlo, perché non volevo che parlasse delle cose dette in caserma altrimenti si sarebbe trovato nei guai. I carabinieri sempre ci dicevano che non dovevamo parlare».

Chi è Cosima Serrano?

«Certamente non sono come mi hanno descritta, sono una donna e una moglie come tante altre, forse più di altre. Ho sempre cercato di dare il meglio al marito e ai figli e alla casa. Ho lavorato non molto, moltissimo e ancora oggi lo faccio».

Come è la sua vita oggi?

«Peggio di così è impossibile con tutto il dolore e tutte le calunnie che devo sopportare».

L’hanno definita una donna misteriosa, con dei segreti da proteggere...

«Non so che ci sia di misterioso. Certamente non sono una pettegola, non sono una che si ferma con le vicine, non ne ho mai avuto il tempo, ho sempre lavorato. Di quel maledetto giorno io non ricordo tanto l’ho sempre detto. Il problema è che molti ricordano il falso, non la verità. Per esempio hanno detto che sono andata in banca mentre ero al lavoro. E se non ci fosse stata quella firma falsa a scagionarmi sulla ricevuta della banca io adesso sarei in prigione. Io quelle poche cose che ho detto sono la verità E quando ho detto non ricordo è veramente perché non ricordo».

Cosa ricorda?

«Quando stavo andando a riposarmi dopo pranzo Sabrina era già a letto. Ricordo solo lo squillo del messaggio e che poi Sabrina ha detto “devo avvisare Sarah che dobbiamo andare al mare” e poi lo sbattere della porta e ancora Sabrina che chiede al padre se era arrivata Sarah. In quel momento ho pensato “finalmente posso dormire”. E poi mi sono svegliata quando mi ha chiamata Sabrina».

Lei cosa ha pensato subito dopo la scomparsa di sua nipote?

«Il primo pensiero è stato “forse l’hanno investita mentre veniva e l’hanno portata all’ospedale”. Non ho mai pensato a un rapimento».

Gli investigatori cercano di spostare l’omicidio di Sarah dal garage alla casa e qui entra in ballo la famosa porta, che dalla casa porterebbe al garage e dove hanno trovato una macchia che comunque pare non sia di sangue.

« Io non ho mai pulito quella porta perché sono tranquilla. Altrimenti lo avrei fatto non le pare? Sono 7/8 anni che non è mai stata aperta. Non so come l’abbia chiusa Michele, ma so che non c’era la maniglia e c’erano bidoni di olio, vasetti della salsa vuoti davanti. La tenevamo chiusa perché mettendo in moto il trattore il fumo arrivava fino a dentro, alla dispensa. Se fosse successo qualcosa in casa lo avrei sentito. Se avessi sentito litigare, avrei detto smettetela».

E in casa si sentono le cose che accadono in garage? Se qualcuno urla?

«Io sono sempre con la televisione accesa, anche di notte, e quindi è difficile sentire qualcosa dal garage».

Sarah secondo la ricostruzione degli inquirenti veniva verso casa vostra dalla parte delle scuole e in questo caso arrivava prima al portone di casa che al garage. Si è mai chiesta perché è andata a garage dallo zio invece che suonare al citofono?

«Il campanello del citofono è accanto al mio letto. Io mi lamentavo spesso perché mi disturbava quando suonava a quell’ora. Forse ha visto la porta del garage aperta e si è affacciata aspettando che Sabrina uscisse, avrà sentito le urla di mio marito che gridava contro il trattore che era rotto».

Cosa le ha raccontato suo marito?

«Lui dice che quel giorno stava arrabbiatissimo per il trattore e Sarah gli ha chiesto “zio perché urli? perché sei arrabbiato?” Lui le ha detto “vattene che è meglio”, ma Sarah ha continuato a fare domande. Allora lui l’ha spostata di peso e poi le ha buttato la corda (al collo, ndr)».

Hai mai avuto un sospetto su suo marito?

«Se non avesse fatto ritrovare il corpo non ci avrei mai creduto, mai e poi mai».

E quando ha ritrovato il cellulare di Sarah?

«Ho pensato che era una cosa stranissima. Proprio lui lo doveva trovare? Se fosse stata Sabrina avrebbe fatto ritrovare il cellulare? Invece quando mio marito lo ha trovato ha subito chiamato la figlia per chiedergli come era fatto il cellulare di Sarah e lei ha spiegato come era. Se fosse stata Sabrina a uccidere Sarah gli avrebbe detto: “papà ma sei pazzo?».

Lui le ha spiegato perché lo ha fatto?

«Dice se una cosa non ti capita non ci credi, non sa spiegare perché lo ha fatto. Lui dice che non aveva il coraggio di consegnarsi, se avesse saputo che fosse stata Sabrina, invece avrebbe chiamato i carabinieri. Mi ha detto che si voleva far prendere per questo ha consegnato il cellulare».

Lei subito dopo la confessione di Michele aveva giurato di non volere vedere più suo marito neanche da morto. Invece non è andata così. E in molti pensano che lei ci vada per fare pressioni in modo che ritratti le accuse su sua figlia.

«Se Sabrina fosse colpevole sarei stata la prima io ad andare dai carabinieri. Avevo giurato che non sarei mai andata a trovarlo, è vero. Se avessi voluto coprire Sabrina, come dicono, però sarei andata subito per tranquillizzarlo. E non l’ho fatto. Quando poi ho saputo il motivo per cui ha accusato sua figlia allora mi sono detta: “Non lo abbandonerò”. E poi lo vedo indifeso, ho capito che il suo è stato un gesto da folle e ho pietà per mio marito. Quando ci si sposa si dice nel bene e nel male in ricchezza e in povertà».

E i motivi per cui ha accusato Sabrina ce li può spiegare?

«Meglio di no. Comunque tutto quello che so, che mi ha riferito mio marito l’ho detto ai carabinieri».

In molti dicono che tra suo marito e sua figlia ha scelto sua figlia

«Non è stata una scelta. Io so che non è stata lei».

Secondo gli inquirenti Sabrina avrebbe auto il movente della gelosia nei confronti della cuginetta per le attenzioni di Ivano.

«La gelosia? Ma scherziamo? il più grande castigo per Sarah sarebbe stato quello di escluderla, di non farla più venire a casa».

Sabrina cosa dice?

«E cosa deve dire? E’ arrabbiata con il padre non capisce perché deve rimanere in galera. Se fosse colpevole starebbe più tranquilla. Come il padre che si è liberato la coscienza per Sarah facendola trovare e poi ha chiesto perdono alla figlia che ha accusato ingiustamente. I chili che sta perdendo in carcere mia figlia li sta prendendo mio marito».

Quale delle tante versioni di suo marito pensa che sia quella vera?

«Il racconto vero è quello della prima sera. Quando ha iniziato a parlare, conoscendo mio marito, ha detto tutta la verità. Lui non è tipo da dire mezza verità e mezza bugia».

E’ crollato?

«Si».

Aveva già provato a molestare Sarah?

«Io in casa non mi sono accorta mai di niente, non so se le cose che ha detto sono vere o se le ha dette per incolparsi di più».

Negli ultimi tempi suo marito era cambiato?

«Nei miei confronti era molto cambiato, si arrabbiava subito con me, mai con le figlie però».

Sarah si sarebbe potuta salvare?

«Forse. Se mi avessero detto dei soldi che gli regalava mio marito, cinque euro, lui che non dava mai un centesimo a nessuno. Mi sarei allarmata, mi sarei preoccupata e avrei fatto delle domande. Per tanti anni quando una persona non da mai un centesimo e poi fa regali dicendo di non dire niente...».

Le manca Sarah?

«Manca ed è come se non mancasse, come se non fosse morta. Forse perché non sono ancora andata al cimitero, perché non l’ho vista da morta, me la vedo in casa».

Si sente in colpa?

«Non so» (piange).

Torniamo a quello che hanno detto della vostra famiglia, che Michele veniva trattato male, che mangiava avanzi da solo.

«Michele da solo ha mangiato parecchie volte come del resto io. Quando non lavoravamo mangiavamo tutti insieme. Gli avanzi? Li abbiamo mangiati tutti, a volte cucinavamo di più in modo che restasse per il giorno dopo. Sono state dette tante calunnie».

A un certo punto hanno arrestato suo cognato e suo nipote.

«Altri innocenti in galera».

Come passa la sua giornata? E’ vero che non le danno più lavoro?

«Già c’è poco lavoro figurati se lo vengono a dare a me».

Cosa si augura?

«Della mia vita non mi importa, spero che Sabrina possa rifarsi una vita».

Lei non è mai andata sulla tomba di Sarah perché?

«Perché per me pensarla sotto terra è un dolore troppo forte. Vado e rimango in macchina. Quando verrà Sabrina andrò da Sarah con lei. Sarah è come se fosse sempre in casa, la vedo mentre passa veloce in corridoio in cucina, in camera di Sabrina. Io l’ho sognata due volte sempre dietro il cancello che suonava “Sono io zia, apri, apri”. Ci penso sempre soprattutto quando sono sola a casa sul divano. Sono libera ma è come se fossi in galera anche io».

Cosima a "Matrix", su Canale 5, aggiunge: ''Michele mi dice 'non so cosa mi sia successo, non so perchè…purtroppo se non ti capita non ci credi'. Io molte volte gli chiedo: 'Ma ti rendi conto?' E lui mi risponde: 'Se non ti capita, non ci credi': per esempio, il fatto che ha fatto passare tanti giorni, dice che non aveva il coraggio di consegnarsi, mentre dice che se fosse stata Sabrina i carabinieri li avrebbe chiamati quel giorno stesso, mentre per lui non ha avuto il coraggio. Molte volte voleva andare da un signore, un amico, una brava persona, però, mentre andava poi tornava indietro, non ce la faceva da andare a dire 'portami dai carabinieri che ho fatto tutto questo'''. ''Michele dice che si voleva far prendere, non aveva il coraggio di consegnarsi, però si voleva far prendere, anche quando diceva 'mi sento che Sarah la devo trovare io', aspettava che qualcuno andasse a dirgli 'ma perchè dici così ? Tu sai qualcosa?'… Mi ha detto che si voleva far prendere, portami dai carabinieri che ho fatto tutto questo'. Mio marito è una persona umile, indifesa e poi quando ho saputo il motivo per cui ha accusato Sabrina allora ho detto: non lo abbandonerò''. E sull'innocenza della figlia Sabrina: ''Per quale motivo Sabrina doveva uccidere Sarah? Come dicono, la gelosia? Ma Sarah sarebbe stata più castigata a non farla venire a casa. Ammazzarla non era niente. Il castigo più grande sarebbe stato non farla uscire con lei. Sui 'famosi' 5 euro che Michele dava a Sarah, Cosima racconta: ''E' qui che mi sto smacellando il cervello in questi mesi: forse si sarebbe potuta salvare proprio per quei 5 euro, se quando l'ha detto alla mamma, questa (Concetta, ndr) fosse venuta da me, o da Michele o da Sabrina a dire 'come mai ha dato questi soldi e ha detto di non dire niente'?. Perchè lui non ha mai dato soldi, mai''. Sulla nipote Sarah: ''Manca ed è come se non mancasse, è come se non fosse morta, non lo so, forse perchè non sono ancora andata al cimitero, non lo so. La bara l'ho vista, ma non l'ho vista nella bara. Al cimitero ci sono andata con mia sorella due o tre volte però non sono scesa, non sono entrata; eppure prima ci andavo due o tre volte alla settimana perchè ci sono mio padre e mia madre, però ora no, non ci sono ancora andata dentro. Sarah la vedo sempre bella, sorridente, camminare veloce in casa, che va in cucinino, che va nella stanza di Sabrina. Ho dei momenti di cedimento quando sono seduta e sono sola, quando non sto facendo niente: quelli sono i momenti in cui si pensa di più. E penso a Sarah e non riesco a credere che sia morta, anche se sono passati tanti mesi''. Cosima parla anche di ciò che è stato detto e scritto in questi mesi a proposito della sua vita familiare: ''E' stato detto mio marito dormiva sulla sdraio, che veniva maltrattato, che mangiava avanzi: non è vero. Da solo ha mangiato parecchie volte come anch'io ho mangiato parecchie volte da sola… quando non lavoravo mangiavamo assieme… quelle sono tutte calunnie che hanno detto. Gli avanzi? Li abbiamo mangiati tutti del giorno prima: se li mangia una sola persona sono avanzi, ma se li mangiano tutti non sono avanzi''. ''Ora sono tornata a lavorare in campagna e faccio il lavoro ai ferri, ma per molti mesi è come se fossi stata agli arresti domiciliari: con tutti i giornalisti fuori casa non potevo uscire. Oggi io spero solo per Sabrina, che quando uscirà possa lavorare; la mia vita ormai non è che mi importa tanto, per l'età che ho, Sabrina ha 35 anni in meno e ce ne vuole ancora''.

Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri e mamma di Sabrina, un mese dopo aver aperto le porte di casa alla troupe di Quarto Grado per filmare la porta d’ingresso del garage, sempre il 23 marzo rompe ancora il silenzio e lo fa con Remo Croci sempre su "Quarto Grado". La donna, che anche il giorno prima ha visitato in carcere marito e figlia, ha le idee chiare: sul delitto della nipote Sarah. “Se gli investigatore fanno bene i conti degli orari di quel 26 agosto, capiranno bene che Sabrina non avrebbe mai potuto compiere l’omicidio”Lei si dice sempre più convinta dell’innocenza della figlia: “E’ in carcere ingiustamente perché l’ha accusata mio marito, ma lei non centra nulla. Quando i carabinieri sono giunti a casa per il sopralluogo nel garage, furono loro ad aprire la porta che era bloccata: c’erano attrezzi e recipienti di olio a terra si vedeva bene che la porta era chiusa da molto tempo”. Cosima aggiunge anche che, se qualcuno avesse gridato dal garage, chi era a casa non l’avrebbe potuto sentire e comunque aggiunge: “Avrebbero potuto fare le prove quando sono arrivati a fare i sopralluoghi e potevano verificare che dal garage all’abitazione non si sente nulla”. Nel salone vicino alla cucina Cosima ci mostra la posizione dove suo marito Michele abitualmente riposava: “Dormiva sempre il pomeriggio su questa sdraio e appoggiava i piedi su questa piccola seggiola”. Cosima conclude: “Ora non parlerò più finché mia figlia non tornerà libera”.

Ricordiamo che Cosima, più volte indicata come “custode dei segreti di famiglia“, non è mai stata indagata. Al momento, mentre le indagini proseguono, le uniche due persone accusate del delitto di Sarah Scazzi sono lo zio Michele e la figlia Sabrina.

Nonostante la promessa di non parlare più fino alla liberazione di Sabrina, Cosima rilascia l'ennesima intervista. «Qualcuno in famiglia deve essere forte. Se nessuno si vuole prendere le responsabilità, qualcuno se le deve prendere: a casa mia è successo che me le sono dovute prendere io». Inizia con queste parole l’intervista esclusiva di Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri, accusato insieme con la figlia Sabrina dell'omicidio di Sarah Scazzi, a Massimo Giletti e trasmessa nel corso della puntata di 'Domenica In - L'Arena' su Rai1 il 3 aprile 2011. Cosima ha poi spiegato le ragioni del mutato rapporto con il marito: «C'è stato un pomeriggio che eravamo andati a lavorare nei campi, nel vigneto con il trattore, e gli ho detto di fare questo lavoro e lui subito si è arrabbiato: “qui ti stavo aspettando”, mi disse. Mi ha detto una parolaccia. Mi ha detto: “se continui a parlare ti tiro pure una pietra” e da quel momento lì mi sono sentita molto offesa. Io tutte le altre volte mi sono portata sempre indietro. Quella volta decisi di no. Era già accaduto ma quella volta mi sono rifiutata di piegarmi, ed è per questo che avevo iniziato a dormire sola. Anche lui si deve prendere le responsabilità quando sbaglia o quando non ha ragione, deve dire “ho sbagliato”, ma non è successo. Non l’ho mandato io - ha ribadito Cosima, riferendosi al fatto che Misseri non dormisse più con lei - per lui contava molto l’apparenza, l’essere buono e bravo fuori casa e anche con le figlie - ha proseguito Cosima, spiegando il carattere del marito - una volta ho litigato con mio marito per dire: è possibile che sempre io devo litigare con le figlie perché arrivano tardi o non rispondono al cellulare? Lui mi disse: se magari le rimprovero poi non mi vogliono più bene. Con le figlie è sempre stato un bravissimo padre, le ha sempre accontentate. Con me no, ha fatto sempre diciamo “il duro”, quando aveva qualcosa da dire me la diceva». E per spiegare per quale motivo avesse fatto rientrare il marito nel garage, il giorno del ritrovamento del cellulare di Sarah (gesto immortalato dalle tv ed eletto ad icona per personificarne il carattere), Cosima ha chiarito: «Quel gesto era gesto minimo di protezione. Sempre per proteggerlo. La mattina aveva fatto ritrovare il cellulare, la mattina l’hanno interrogato un’altra volta. Io sapendo che quando siamo andati dai carabinieri hanno detto: “quello che dite qui non deve uscire fuori”, mentre là c’era un casino di giornalisti e lui stava parlando. Gli ho detto “'Michè non parlare troppo”, allora siccome insistevano ho detto: “mettiti dentro che quando se ne vanno esci”. Era per non farlo parlare con i giornalisti, per non fare dire quello che aveva detto ai carabinieri», ha concluso Cosima. L’avvocato De Iaco, legale della moglie, ha chiarito: «Il gesto fu spiegato anche dalla figlia perché i carabinieri avevano sollecitato a non parlare con i carabinieri». In un periodo di disaccordo in cui l’armonia familiare era alterata da questi screzi tra coniugi iniziati con la minaccia della pietra, Michele Misseri, secondo quanto riferito dalla moglie, dormiva sulla sedia sdraio e non in camera da letto non per consuetudine, ma per questioni circostanziali di un piccolo arco temporale. Lo stesso avvocato della donna ha chiarito: «Ero a conoscenza di questo gesto. Io suggerivo di raccontare come era la vita familiare e la signora mi diceva che sono cose che succedono solo da noi e che se no sembrava che volesse accreditare la versione contro il marito. La signora Cosima ha rappresentato la caratteristica del marito e ha voluto spiegare perché il marito dormiva sulla sdraio». Poi sui rapporti con la sorella Concetta Cosima afferma: «A mia sorella Concetta non ho da chiedere scusa di niente. Perché lei pretende scuse per la verità, ma di quale verità parla? Mia figlia Sabrina è innocente, io sono convinta della sua innocenza, mentre per le colpe di mio marito lei mi aveva già abbracciato e perdonato. Non ho motivo di chiedere scusa a mia sorella, si è fatta plagiare da chi l’ha circonda. Noi volevamo bene a mia nipote, era una di famiglia, ancora non realizzo che sia morta tanto da non riuscire ad andare al cimitero, sapendo che non può essere lì..., mi fa male sapere che sia morta per responsabilità di un componente della mia famiglia, ma Sabrina è innocente, di questo ne sono sicura, e mia sorella non ha motivo di credere che ci sia una premeditazione da parte di qualcuno di noi, finanche, mia. Come faccio ad andare da mia sorella se ci ha presi tutti per colpevoli. Anche per rispetto. Secondo me si sta facendo plagiare adesso. Se fosse stata veramente Sabrina non l’avrei coperta. Prima se n’è andata Sarah, poi mio marito, poi Sabrina, poi mia sorella. Si sono persi in troppi». Alla domanda “Chi ha fatto fuori l’avvocato Galoppa”, Mimina risponde con un disarmante: «Bohhhh, chiedetelo a Michele, lui guarda la tv a poi decide tutto da solo, sicuramente non è stata Valentina, che non vedeva il padre da dicembre, mentre l’avvocato è stato ricusato a febbraio, a noi andava bene, l’ho chiesto a mio marito, ma ormai fa tutto da solo». 

6 aprile. L’esame del DNA. Dopo quasi 6 mesi e mezzo da quel 29 settembre 2010, data del ritrovamento del telefonino, è stato disposto dal procuratore aggiunto, Pietro Argentino, e dal sostituto, Mariano Buccoliero. Gli inquirenti hanno ritenuto necessario prelevare campioni salivari per estrarre da essi tracce del Dna delle persone, al fine di compararlo con quello trovato su mezzi e attrezzi sequestrati nel garage di casa Misseri, e sul telefonino di Sarah Scazzi. Secondo indiscrezioni, i carabinieri del Ris avrebbero isolato un Dna completo e tracce con Dna parziali, ma le notizie non sono state confermate agli avvocati delle persone sottoposte all'esame, che hanno accompagnato i rispettivi clienti nella caserma di Avetrana. L’inchiesta doveva essere alle battute finali. E invece ha ripreso vigore con l'esame del Dna a cui sono stati sottoposti famigliari e amici di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010. Sarah il 4 aprile avrebbe compiuto 16 anni. Nella caserma di Avetrana sono stati convocati Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri e madre di Sabrina, entrambi in carcere per l'omicidio; Carmine Misseri, fratello di Michele, e Cosimo Cosma, suo nipote; Ivano Russo, l’amico di cui Sarah e la cugina Sabrina si erano invaghite e per il quale avrebbero litigato, e altri familiari. Ha sorpreso proprio la presenza di Ivano Russo, che era finito sulla lista dei sospettati in un primo momento ed era, per così dire, uscito di scena dopo la confessione di Michele Misseri. Gli inquirenti hanno individuato il movente del delitto nella gelosia che Sabrina Misseri nutriva, o meglio avrebbe nutrito, nei confronti di Sarah Scazzi, che negli ultimi tempi si era avvicinata ad Ivano fino ad oscurare la cugina del cuore. Ha rifiutato di sottoporsi al tampone salivare Cosimo Cosma, nipote di Michele Misseri, in quanto non era stata data alcuna comunicazione al suo difensore, avv. Raffaele Missere, e nell’invito a comparire era indicata semplicemente la convocazione nella caserma di Avetrana “per questioni di giustizia”. Carmine Misseri e "Mimino" Cosma sono stati arrestati per concorso in soppressione di cadavere e poi scarcerati per disposizione del tribunale del riesame. I tamponi saranno confrontati con alcune tracce biologiche trovate su attrezzi sequestrati nel garage della famiglia Misseri e nei pressi della cisterna dove fu gettato il cadavere della ragazzina, oltre alle tracce trovate sul telefonino. «Sono turbato per il processo mediatico che si sta attuando in questo momento. Io non sono indagato, io sono un testimone». Lo ha detto alla 'Vita in diretta' su Rai 1 del 8 aprile 2011 Ivano Russo, amico della quindicenne Sarah Scazzi, uccisa il 26 agosto ad Avetrana (Taranto), e di sua cugina Sabrina, in carcere perché accusata, insieme con il padre, Michele Misseri, dell’omicidio della ragazzina. Ivano si è sottoposto spontaneamente alla prova del Dna, così come richiesto dagli investigatori, che stanno compiendo accertamenti sul cellulare di Sarah. “Pensi che ci siano tracce del tuo Dna sul cellulare?”, gli è stato chiesto. «Non lo so - ha risposto- Penso che magari manipolandolo qualche giorno prima, allora ci possa essere. Sono sicuro - ha anche detto Ivano - che non sarò mai indagato perchè non sono stato io». Cosa ti ha fatto più male in questi sette mesi, a parte ovviamente la morte di Sarah? «Se avessi capito prima che c’era gelosia, se è stata Sabrina, forse avrei potuto fare qualcosa. Non mi sento responsabile dell’uccisione di Sarah - ha detto Ivano - ma moralmente ti abbatte tanto perché, se mi fossi accorto di qualcosa avrei potuto aiutare Sarah, ma anche Sabrina. L'altra cosa che ha fatto più male in questi mesi è che si insinuano cose che fanno star male. La mia vita - ha detto Ivano - è cambiata tanto. C'è pressione mediatica, la gente mi riconosce. In questo periodo mi guardano con sospetto. Io ci sto male, io non sono indagato. I dubbi sono nati perchè sta lì, il padre l’ha accusata e io cerco di allontanarmi un attimino per capire. Se è realmente colpevole della scomparsa di Sarah, ha tradito anche me. Io spero che non sia stata lei e che ne esca pulita» Perché - gli è stato anche chiesto nel corso della trasmissione - non hai cercato Sarah sul suo cellulare nelle ore successive alla sua scomparsa? «Che si era intensificato il rapporto telefonico con Sabrina testimonia il fatto che io, proprio per informarmi del fatto di Sarah, andavo a telefonare a Sabrina, che era quella più vicina alla cugina quindi cercavo di tenermi informato tramite Sabrina e sapevo che il cellulare di Sarah era spento», ha risposto Ivano. «Ognuno - ha aggiunto il giovane - ha il suo carattere. Reagisce in maniera diversa. Io ho pensato di comportarmi così perchè trovavo inutile andare a chiamare Sarah. Con Sabrina c'era un’amicizia, però negli ultimi tempi ho capito che non bastava e io ho cercato di allontanarla». Ti eri accorto che Sarah era innamorata di te? - gli è stato anche chiesto. «Sarah - ha raccontato il giovane - è sempre stata una ragazza timida e vedendo questa differenza di età non mi mostrava questo». «Rispetto ai prelievi effettuati non ci è stata fornita alcuna spiegazione - ha spiegato l'avvocato De Iaco - non sappiamo a cosa serva il Dna delle persone convocate, né dove siano state trovate le tracce da comparare». E se Cosimo Cosma, nipote di Michele, ha rifiutato di sottoporsi all’esame ritenendo che la convocazione avrebbe dovuto essere notificata anche al suo legale Raffaele Missere, Cosima Serrano (che pure ha una posizione diversa non essendo indagata) non ha avuto alcun tentennamento. «La mia cliente rispetta totalmente la richiesta della Procura - ha spiegato il suo legale – perché non ha nulla da nascondere e perché ritiene che ogni ulteriore indagine sia utile per accertare la verità, ovvero la non colpevolezza della figlia Sabrina. Inoltre a “La Repubblica” Cosima Serrano racconta di non aver mai disfatto la valigia. Quella che aveva preparato, pronta nel caso in cui dovessero portarla in carcere. "Hanno preso tutti, non vedo perché non potrebbero prendere me".

8 maggio. Il presunto testimone. Il mistero di Avetrana si è arricchito di un nuovo personaggio. Un supertestimone che avrebbe avvalorato l’ipotesi della Procura che Sarah Scazzi sia stata uccisa in casa. L’uomo sarebbe un fioraio del paese, ma ha rifiutato di confermare la testimonianza davanti ai giudici. A svelare la presunta identità del testimone è stata la tv pugliese “Telenorba”. L’inviato Francesco Persiani, che indicava Giovanni Buccolieri come il testimone, nel procedere all’intervista all’interno del suo locale commerciale, è stato cacciato dallo stesso fioraio in malo modo.

Il fioraio avrebbe visto Sarah che cercava di scappare dalla casa degli zii, ma invano perché trattenuta da qualcuno dentro l’appartamento. Secondo le indiscrezioni l’uomo avrebbe raccontato questa versione per la prima volta a una sua commessa, prima di decidere di collaborare con le autorità. Decisione che ha ritrattato. Da Telenorba si apprende: “A lei avrebbe raccontato che il pomeriggio dell’omicidio, intorno alle 14:00, avrebbe visto Sara uscire dalla villa dei Misseri, agitata o addirittura gridando, e che qualcuno della famiglia dello zio Michele l’avrebbe inseguita e riportata in casa con la forza. Il racconto di Buccolieri coincide, a quanto pare, con i riscontri tecnici e scientifici dei carabinieri, che anticiperebbero l’ora dell’omicidio di circa 30 minuti e sposterebbero il luogo dal garage all’abitazione.”

Anche in quest’occasione giornalisti di dubbia deontologia e preparazione si sono sbizzarriti a dare patenti di moralità al paese. E ciò non avviene, come già avvenuto sulle reti nazionali in virtù di pregiudizio o ignoranza, ma addirittura anche su un quotidiano tarantino. Annalisa Latartara (Corrieredelgiorno.com, 6 maggio 2011 20:30. Titolo: caso Scazzi, un uomo accusato di false dichiarazioni al pm. Indagato un testimone chiave): «Sicuramente in questa storia non è l’unico ad aver assunto un atteggiamento reticente considerando l’omertà diffusa ad Avetrana e anche i tentativi di depistare le indagini sull’assassinio della povera Sarah Scazzi.» Tutto ciò è scritto su un quotidiano che, guarda caso proprio in tema di omertà e censura, mai ha pubblicato le notizie riguardanti l’Associazione Contro Tutte le Mafie che denunciava casi di malagiustizia ed illegalità.

Organi di stampa cartacei e televisivi della città di Taranto che in tema di omertà e censura sono maestri. Hanno ben taciuto la notizia che il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio nazionale antimafia e d’informazione e d’inchiesta, con sede legale proprio in Avetrana, nell’inerzia della politica e dell’associazionismo locale, ha prodotto un film documentario su quella città per stabilire una verità storica sull’immagine del territorio, così distorta dai media con un marchio negativo indelebile. Il Trailer è pubblicato sulla pagina di Avetrana di Tele Web Italia. Il documentario è essenziale per far conoscere il paese per quello che è. Questo perché in Italia ogni volta che si pronuncia il nome di Avetrana, inevitabilmente scatta il commento: «ahh, il paesino omertoso dove hanno ucciso Sarah Scazzi !!!».

Molto meglio si sono comportati i giornali Manduria Oggi e la Voce di Manduria.

Per questo bisogna discernere i fatti: supertestimone reticente, come sostiene la procura, o vittima di un terribile equivoco come si sforza di far credere lui? A otto mesi dall’omicidio di Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa e gettata in un pozzo nelle campagne di Avetrana dove viveva con la madre, ecco un altro giallo. Quello di un fioraio che il pomeriggio dell’uccisione della ragazza avrebbe visto l’assassino che la inseguiva. “Era solo un sogno, un brutto sogno”, ha ripetuto l’uomo agli inquirenti che lo hanno interrogato non credendogli. “L’effetto della suggestione di quei giorni in cui televisioni e giornali non parlavano d’altro”, insiste ancora oggi il commerciante. Un racconto troppo ricco di particolari per essere frutto della fantasia onirica, sostengono invece i due magistrati, Pietro Argentino e Mariano Buccoliero che sono convinti della malafede del testimone. Lui ora non intende più ricordare quel sogno che lo avrebbe turbato, non vuole più parlarne soprattutto con i giornalisti ai quali concede solo poche battute. “Magari i sogni servissero a risolvere il caso”, si lascia sfuggire con un sospiro mentre sposta i vasi da uno scaffale all’altro del negozio gestito con la moglie. “Sfortunatamente per me ogni giovedì pomeriggio vado a Leverano per caricare la merce”, dice il fioraio a Nazareno Dinoi, direttore della Voce di Manduria e inviato del Corriere del Mezzogiorno, ricordando quel giovedì del 26 agosto quando Sarah fu uccisa. Quel viaggio nella città dei vivai fu reale, “il resto è stato tutto un sogno”, ribadisce l’uomo rimettendo i vasetti al posto di prima. Percorreva via Kennedy in direzione mare quando da un incrocio che s’interseca con Via Grazia Deledda ha visto Sarah fuggire da qualcuno o più di uno che la inseguiva. Un sogno di quelli che sembrano veri che confida alla moglie, poi a qualche parente e così, di bocca in bocca, l’indiscrezione è arrivata ai carabinieri che hanno voluto sentire con le proprie orecchie. Questa, almeno, è la sua versione perché un’altra lo vuole prima collaborante ma poi, al momento della conferma, l’improvvisa retromarcia con la storia del sogno equivocato. “Se avessi visto qualcosa l’avrei detta da subito”, commenta il fioraio chiedendo di essere lasciato in pace. E’ visibilmente scosso per quel sogno che lo ha sconvolto “ed ha sconvolto anche i magistrati”, conclude a bassa voce quasi a nascondere le parole.

La stampa riporta che il fioraio non abbia comunque firmato il verbale della sua testimonianza e che sia stato iscritto nel registro degli indagati per falsa testimonianza. Il suo legale è l’avvocato Giovanni Scarciglia di Avetrana.

Per ora l’avvocato del testimone, Giovanni Scarciglia in attesa di un eventuale nuovo interrogatorio del suo assistito si trincera dietro il segreto istruttorio e spiega solo che il suo assistito «si sente fiducioso nella giustizia perché prima o dopo le verità vengono a galla».

A riguardo c’è anche l’intervento di Tonio Tondo sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 12 maggio 2011. “Giovanni Buccoliero, 42 anni, fioraio di Avetrana, arriva puntuale, alle 16.15, al negozio di via Kennedy. «La mente mi ha ingannato» dice con un filo di voce. Per un attimo trema Buccoliero. «Siamo persone semplici e timide, è una sorpresa trovarsi sotto i riflettori, è la prima volta e non sappiamo come comportarci con voi giornalisti» aggiunge la moglie Giuseppina.

«Sarah l’ho vista in sogno a ottobre, subito dopo il ritrovamento del corpo nel pozzo», rivela il fioraio. La scena o la visione, riferita al primo pomeriggio del 26 agosto, giorno della scomparsa di Sarah, è nitida e annunciatrice di altre sorprese: Sarah che tenta di uscire, anzi di scappare, dalla casa dei Misseri in via Deledda, e una persona che la blocca per riportarla dentro. Questa ipotesi, se trovasse riscontro, porterebbe alla quadratura del cerchio che la procura sta cercando da mesi: la scena del delitto collocata nella abitazione e non nel garage come ha detto Michele Misseri nella prima rivelazione per allontanare i sospetti dalla figlia Sabrina, anche lei in carcere come il padre, e dalla moglie Cosima che ha sempre negato coinvolgimenti nell’omicidio.

Buccoliero è considerato in paese una brava persona. «Tutto lavoro e famiglia» dicono i vicini. Il “Girasole”, in effetti, è un bel negozio e Buccoliero, che vende fiori a metà Avetrana, ha inventato anche il servizio a domicilio: composizioni di ogni tipo e grandezza, piante, bouquet per spose e prime comunioni, centro tavola, consegne in occasioni di compleanni e anniversari. Giovanni si muove in continuazione, sempre puntuale e preciso negli incontri con i clienti: conosce ogni buco e ogni famiglia della cittadina. Facile trovarlo in una strada periferica o in un vico del centro storico. E’ così tutto l’anno, escluso una settimana d’estate quando marito e moglie partono per una vacanza low cost nelle Americhe o in Europa, in base alle offerte via internet. Un uomo affidabile e attendibile. Che Giovanni, quindi, abbia potuto vedere la scena di Sarah sul pianerottolo della villetta dei Miseri, alle 14.30 del 26 agosto, non meraviglierebbe nessuno ad Avetrana. Che tutto questo l’abbia sognato in una visione notturna è un’altra storia che pochi tra i suoi compaesani ritengono plausibile. «Eppure è andata proprio così - sottolinea il fioraio -. E così l’ho raccontata a mia moglie per prima, poi a un amico e alla commessa».

Qui nascono i primi misteri. La commessa, Vanessa, che da due mesi è in Germania con il marito, secondo la famiglia Buccoliero, avrebbe raccontato la storia ai suoi genitori. Vanessa è figlia di Anna Pisanò, la cliente di Sabrina, aspirante estetista, che la mattina del 26 agosto era nella casa dei Misseri e notò la profonda tristezza di Sarah. Ora Anna Pisanò nega con decisione che la figlia abbia raccontato in famiglia la storia del fioraio alle prese con i sogni. «Se ce l’avesse detto l’avremmo portata subito dai carabinieri. Vanessa non ci ha riferito nulla ed è veramente strano che dai Buccoliero vengano queste notizie. Noi stimiamo Giovanni e la moglie, ma questo non significa accettare tutto quello che dicono. E se fosse stato l’amico a parlare? Oppure l’altra commessa che va al negozio quando c’è molto lavoro?». Anna e suo marito fanno parte della congregazione dei Testimoni di Geova, come Concetta, la mamma di Sarah. Avetrana assiste a queste storie con incredulità. Che realtà e visioni facciano ormai parte di una fantasmagoria martellante, fino ad incarnarsi nella vita collettiva e a scuoterla, tanto da confondersi l’una con l’altra, potrebbe essere possibile. Sarah però fa parte della comunità concreta e palpitante. Non è una semplice memoria nè oggetto di sogni inconcludenti. Ad Avetrana si vota. Veleni e schizzi di fango sono inevitabili. Qualche sera fa Giacomo Scazzi, papà di Sarah si è presentato dal candidato del centrosinistra, Conte: «Ci hanno riferito che in caso di vittoria sposterete la tomba di Sarah». Pronta e dura la smentita. Le tragedie non si digeriscono, il loro compito è di unire le comunità. Ma Sarah chiede la verità perché tragedia e verità vanno insieme. Non vuole sogni, ma parole del cuore.” 

Versione del sogno che il fioraio ha confermato il 12 maggio ai microfoni di Pomeriggio 5 a Barbara D’Urso. A riguardare il testimone ci sarebbe, secondo il Corriere del Mezzogiorno del 12 maggio, anche un’intercettazione telefonica in cui la madre della commessa del suo negozio, a cui per prima aveva raccontato il presunto sogno, lo esortava a dire quello che aveva visto anche ai magistrati. Cosa che poi ella stessa smentisce.

Sempre su La Voce di Manduria del 14 maggio, a firma di Nazareno Dinoi, i fatti indicati si integrano di ulteriori indiscrezioni fatte trapelare chissà come e chissà da chi. Nel sogno che avrebbe fatto il fioraio Giovanni Buccolieri, è Cosima Serrano, moglie e mamma di Michele e Sabrina Misseri, entrambi in carcere con l’accusa di omicidio volontario, a prendere per i capelli la nipote Sarah Scazzi e trascinarla in macchina, sequestrandola, per portarla a casa in via Deledda da dove la ragazza tentava di fuggire. Nella macchina con Cosima ci sarebbe stata anche un’altra donna, probabilmente Sabrina. Che si sia trattato di un sogno, però, non ne sono convinti i magistrati che indagano l’uomo per falsa testimonianza e reticenza. D’altra parte lo stesso fioraio ad ottobre, subito dopo il ritrovamento del corpo di Sarah in fondo al pozzo in contrada Mosca, aveva raccontato questa scena ad una sua ex commessa come se fosse realmente accaduta. La stessa cosa Buccolieri aveva confermato e sottoscritto ai magistrati che, avendolo saputo da terze persone, lo avevano convocato ad aprile 2011 in procura. Salvo ripresentarsi nello stesso ufficio due giorni dopo dicendo di non essere più sicuro di aver vissuto realmente quelle scene che potevano essere «frutto di un sogno perchè fortemente suggestionato dai racconti delle televisioni e dai giornali».

Questa è la trascrizione dell’incredibile sogno fatto da Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana indagato per false dichiarazioni al giudice che a metà di aprile 2011 aveva raccontato l’episodio ai magistrati per poi ritrattarlo tutto dicendo che si trattava di un sogno e non di realtà. Dopo il lungo racconto del testimone, le considerazioni del giudice Martino Rosati.

IL “SOGNO DEL FIORAIO” (Interrogatorio davanti ai pubblici ministeri)

«(… ) Dopo aver finito il pranzo ho salutato mia moglie ed i bambini e sono andato via. Sono quindi sceso dalla scala che direttamente mi porta all’esterno dell’abitazione; potevano essere circa le 13:20. (… ) Sono entrato quindi nel mio furgone ed ho percorso diverse vie di Avetrana sino a raggiungere il luogo dove effettuare lo consegna commissionatami. Ricordo di avere percorso via Verdi (…). Ricordo di avere quindi svoltato in via Umberto I. Nella circostanza, al momento della svolta, ovviamente ho dovuto rallentare all’incrocio con via Umberto I, quasi a passo d’uomo. In quel momento in via Umberto I, a circa 3-4 metri dall’incrocio, ho visto l’autovettura “Opel Astra SW”, di colore azzurro-grigio, vicino alla quale si trovava Cosima Serrano, che si rivolgeva alla nipote Sarah Scazzi, dicendole con tono minaccioso: “mo’ ha ‘nchianà’ intra la machina”,  facendo al suo indirizzo un gesto altrettanto perentorio con il braccio e con l’indice della mano rivolto all’indirizzo di Sarah. Ricordo che Sarah, che conoscevo di vista, era molto turbata e con lo testa chinata. Ricordo anche non solo che Cosima era all’esterno dell’auto, che intimava a Sarah quello che ho già detto, ma anche che lo sportello posteriore destro dell’auto di Cosima Serrano era aperto.

DOMANDA DEGLI INQUIRENTI: I finestrini del suo furgone come li aveva? Erano aperti o chiusi?

RISPOSTA: il finestrino lato guida era sicuramente aperto. Non ricordo se l’altro fosse anche aperto. Voglio precisare che il mio mezzo non è fornito di aria condizionata.

DOMANDA: Di che colore è il suo furgone?

RISPOSTA: il mio furgone è di colore bianco.

DOMANDA: Quale era lo posizione di Sarah sulla strada?

RISPOSTA: Sarah si trovava sul marciapiede destro di via Umberto I, dal lato dell’abitazione della sig.ra Emma Serrano (sorella di Cosima), con direzione via Martiri d’Ungheria, con le spalle quasi appoggiate al muro delle abitazioni.

DOMANDA: Qual era la posizione della sig.ra Cosima Serrano?

RISPOSTA: Cosima Serrano, come ho già detto, si trovava vicino alla sua macchina, non sul marciapiede, ma sulla strada.

DOMANDA: Lei già conosceva l’autovettura di Cosima Serrano?

RISPOSTA: La macchina era quella di Cosima Serrano perché la conoscevo. Voglio precisare che ho notato che nella parte posteriore dell’auto vi era verosimilmente il copri-vano bagagli leggermente sollevato. Preciso, altresì, di avere notato all’interno dell’auto di Cosima, nella parte posteriore, una sagoma che si abbassava. Mentre superavo lo macchina di Cosima ho notato che Cosima era ancora all’esterno dell’autovettura e Sarah che, invece, stava entrando dentro attraverso lo sportello posteriore destro. Ho quindi proseguito per la mia strada recandomi a Leverano.

DOMANDA: Può chiarire meglio le caratteristiche della sagoma di cui ha parlato sopra?

RISPOSTA: Posso dire che la sagoma che ho notato apparteneva ad una persona di sesso femminile e di robusta costituzione.

DOMANDA: Perché lei dice di sesso femminile?

RISPOSTA: Dico di sesso femminile perché ho notato i capelli che erano più lunghi di quelli che porta un uomo e soprattutto erano legati e raccolti all’indietro e di colore scuro.

DOMANDA: Ricorda l’abbigliamento di Cosima Serrano?

RISPOSTA: Ricordo che Cosima era vestita di scuro. Ricordo che quando le sono passato accanto con il furgoncino ho incrociato il suo sguardo ed ho notato che lo stessa ha avuto un sussulto di sorpresa spalancando repentinamente gli occhi. (…)

DOMANDA: Dopo aver assistito a tale episodio che cosa ha fatto?

RISPOSTA: Ho proseguito per Leverano, giungendovi circa un’ora prima dell’apertura del mercato floreale, anche se sull’orario non posso essere preciso. Di solito i tempi di percorrenza sono da 20 a 25 minuti. (…)

DOMANDA: Dell’episodio a cui ha assistito, ne ha parlato con altre persone?

RISPOSTA: Ricordo che di questi fatti ne ho parlato con mia moglie, con una mia ex operaia, di nome Vanessa Cerra.

DOMANDA: Quando ha riferito di questo episodio a sua moglie e alla sig.ra Cerra Vanessa?

RISPOSTA: Ricordo di avere parlato di questi fatti a mia moglie ed alla mia operaia Cerra Vanessa dopo il ritrovamento del corpo della piccola Sarah. Tale ritrovamento mi ha fatto pensare sui fatti a cui avevo assistito ed ai quali fino ad allora non avevo dato una grossa importanza, atteso che tutti pensavamo, come anche si diceva in TV, che Sarah era stata rapita per strada. Successivamente, dopo aver appreso dalla televisione che Michele Misseri aveva fatto ritrovare il cadavere di Sarah, ho iniziato a pensare a quello cui avevo assistito tanto che ho sentito la necessità di parlarne con mia moglie e con lo mia operaia Vanessa, con la quale avevo instaurato un ottimo rapporto di amicizia e con la quale mi confidavo.

DOMANDA: Dello stesso episodio ne ha parlato con qualcun altro? E se sì, quando?

RISPOSTA: Ho riferito tali circostanze anche al mio amico Galasso Michele. A questi avevo detto però, raccontando i fatti, che non ero certo che si fosse trattato di un fatto reale o di un sogno. Tale racconto è avvenuto sempre dopo il ritrovamento del cadavere di Sarah e dopo averne parlato con mia moglie e lo mia operaia Vanessa. Intendo precisare che, quando ho saputo del ritrovamento del cadavere di Sarah, ho anche fatto mente locale alle dichiarazioni rese dai due fidanzatini, avendole sentite in TV, che all’epoca raccontavano di aver visto Sarah intorno alle 14:25 - 14:30; ho quindi compreso che l’orario che indicavano era assolutamente incompatibile con i fatti a cui avevo assistito e che certamente gli stessi avevano visto Sarah molto prima.

DOMANDA: Perché lei è certo che i fatti si riferivano al 26.08.2010?

RISPOSTA: Sono certo che i fatti a cui ho assistito si riferivano al 26 agosto 2010 perché li ho chiaramente associati al giorno della scomparsa di Sarah.

DOMANDA: Quando ha raccontato l’episodio alla Cerra, quest’ultima quale reazione ha avuto?

RISPOSTA: Quando ho raccontato i fatti a Cerra Vanessa, la stessa mi esortava a raccontarli ai Carabinieri. Io le dissi che non mi sentivo di fare questo per evitare che le mie dichiarazioni, in quel momento delle indagini, potessero creare più confusione che chiarezza, anche se dentro di me avevo il dubbio se andare dagli investigatori o meno. Ogni notte pensavo ai fatti ed ero macerato dal dubbio se potesse essere utile che io riferissi i fatti ai Carabinieri. (…) Ricordo che, dopo che Cerra Vanessa era stata ascoltata dall’Autorità Giudiziaria, verso lo fine di ottobre, ebbi un colloquio con la stessa che mi raccontava quello che le avevano chiesto gli inquirenti, che stavano ascoltando tutti i residenti di via Grazia Deledda, nella circostanza, mi esortò nuovamente a raccontare quello a cui avevo assistito ai Carabinieri. Io le dissi, come le avevo già ribadito, che avevo paura che le mie dichiarazioni potessero pregiudicare le indagini in corso e che comunque avrei deciso successivamente se recarmi o meno dagli inquirenti. (…)

DOMANDA: Ci indichi con precisione che cosa ha riferito a sua moglie? E quando?

RISPOSTA: Dei fatti che ho raccontato a voi e sopra meglio descritti ho riferito a mia moglie solo il momento in cui avevo visto Cosima gesticolare verso Sarah e dirle perentoriamente: “mo’ ha ‘nchianà’ intra la machina”. Anche a mia moglie, forse per tranquillizzarla le ho detto che non ero certo se i fatti raccontati erano il ricordo di un sogno oppure la realtà.

DOMANDA: Quando ha raccontato i fatti su descritti a Vanessa e a sua moglie, erano entrambe presenti, ovvero il racconto è stato fatto in tempi diversi?

RISPOSTA: Non ricordo se quando ho raccontato i fatti fossero entrambe presenti oppure ciò è avvenuto in tempi diversi. Posso dire che in qualche occasione in cui abbiamo parlato di tali fatti stavano insieme. Posso dire che dell’argomento ne abbiamo parlato in più occasioni.

DOMANDA: Lei è proprio certo di aver raccontato di detto episodio alla Cerra dopo il ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi oppure ciò è avvenuto verso lo fine di settembre del 2010 e cioè, prima del ritrovamento del cadavere di Sarah?

RISPOSTA: Non posso escludere che io abbia riferito i fatti alla Cerra anche prima del ritrovamento del cadavere di Sarah. In merito non posso essere più preciso. lo ricordo, come già detto, di aver parlato dei fatti dopo il ritrovamento del cadavere. Evento questo che mi aveva portato a meglio riflettere su quello che avevo visto e che sopra vi ho detto.

DOMANDA: Invitandola a ritornare con la memoria al momento in cui ha notato Sarah Scazzi e Cosima Serrano, può dire se lo ragazza, quando è stata da lei notata, era ferma oppure correva?

RISPOSTA: Quando ho visto lo ragazza, la stessa era ferma. (…)

Ecco cosa scrive in proposito il gip Martino Rosati nell’ordinanza di arresto di Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri:

«E’ un’allegazione, questa del sogno, offensiva per l’intelligenza degli inquirenti, ma, prim’ancora, per la memoria della piccola Sarah e per il dolore dei suoi più stretti congiunti. Le alternative, invece, alla luce di quella verbalizzazione, possono essere soltanto tre: o che i magistrati abbiano verbalizzato in maniera infedele; o che Buccolieri abbia detto il vero; ovvero che egli abbia affermato, in tutto od in parte, il falso. Escludendo la prima, sempre per rispetto alle persone offese ma anche alla dignità degli indagati, rimane da scegliere tra le altre due.

Ebbene, l’allegazione dell’evidente pretesto del sogno, se valutata insieme al lungo tempo durante il quale Buccolieri ha evitato di parlare con gli inquirenti ed all’assenza di altri elementi di riscontro obiettivi alle sue parole, non può che minare dall’interno la credibilità di tale racconto, rendendolo fragile e necessario di robusti sostegni esterni.

Fin quando questi non ci sono, ed in attesa che le indagini sul punto facciano il loro corso, esso non è sufficiente a fondarvi una valutazione di gravità indiziaria.»

A tal fine si allunga la lista delle persone iscritte nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla morte della quindicenne Sarah Scazzi. Gli ultimi in ordine di tempo sono Antonio Colazzo e Anna Scredo, cognati del fioraio Giovanni Buccolieri, l'uomo che avrebbe raccontato di un presunto tentativo di sequestra da parte di Cosima Serrano nei confronti della nipote e che poi ha ritrattato dicendo di aver sognato tutto.

Per l'episodio Buccolieri è indagato per false dichiarazioni, mentre i suoi parenti sono accusati di favoreggiamento personale. Infatti, i due si sarebbero accordati sulle risposte da dare ai pm durante le audizioni come persone informate sui fatti.

Il 20 maggio 2011 i coniugi, Anna Scredo e Antonio Colazzo, cognati del fioraio Giovanni Buccolieri, si recavano a Taranto per essere interrogati. Una cimice montata sulla loro auto intercettava una conversazione. I due che sanno il motivo della convocazione, concordano ciò che dovranno dire ai magistrati.

Anna istruisce il marito Antonio: «Dico: "è stato sempre una persona corretta, non ha mai… anche da fidanzato... nemmeno ... hai capito? ...Tu non sai niente, non hai mai sentito niente prima». Antonio: «Che ne so». Anna insiste: «...soltanto parole, dì "io tramite mia moglie, ho saputo che lo hanno portato un giorno in caserma" ...solamente questo ...poi sempre tramite mia moglie, mi ha detto che era per un sogno". Poi se dicono "mi puoi raccontare i particolari del sogno?", tu dici (incomprensibile) anche perché non mi sono più visto con lui". Capito?». Antonio: «Io, i particolari non li so perché ho dato sempre per scontato che è un sogno». Anna: «Che è un sogno: "non è che pensiamo che può essere la realtà ...poi si sa ho detto che Antonio (incomprensibile) non si ricorda, non è che .., capito?».  L’accusa per Buccolieri e cognati è sostenuta in base a quanto dichiarato da Donato Massari, il 42enne di Avetrana padre di un’amica di Sarah, che quel 26 agosto si è imbattuto nella Opel Astra station wagon condotta da Cosima Serrano. «Ho visto con certezza il 26 agosto, tra le 14 e le 14.20, l’auto di Cosima Serrano in via Michelangelo Buonarroti, quasi all’incrocio con la via per il Mare. L’auto - mette a verbale l’uomo - percorreva la strada ad alta velocità, quasi rischiando di provocare un incidente stradale». Secondo gli inquirenti, e soprattutto stando alla ricostruzione del fioraio, Cosima e Sabrina inseguivano Sarah che probabilmente era scappata dall’abitazione degli zii, per essere raggiunta ad alcune centinaia di metri di distanza dove Cosima avrebbe costretto la nipote a salire sull’auto. Pochi giorni dopo, per ben due volte, Cosima e Sabrina si presentarono a casa Massari per chiedere informazioni sul furgone blu visto dall’operaio quel giorno e sulle sembianze del conducente del mezzo. 

Naturalmente al paradosso non c’è limite. Enrico Risso, medico legale genovese e consulente della difesa di Sabrina Misseri, da quanto riportato dal Secolo XIX sempre del 14 maggio, è stato arrestato dopo una notte brava tra alcol e prostitute e dopo avere reagito in maniera violenta contro la polizia. Risso è stato fermato a Sestri Ponente all’ingresso della Fincantieri, dopo che in via Sampierdarena una giovane cittadina romena aveva segnalato a una pattuglia della polizia di essere stata malmenata «da un uomo sulla quarantina», poi fuggito su un’auto. Di fronte ai poliziotti, come detto, Risso ha reagito, opponendo resistenza. Non solo: l’etilometro ha dimostrato che nel suo sangue circolava troppo alcol, dunque per lui è scattata un’altra denuncia.

17 maggio. La Cassazione sulla carcerazione di Sabrina Misseri bacchetta i giudici di Taranto: "Michele Misseri inattendibile, caso da riesaminare".

Queste in sintesi le motivazioni con cui è stata annullata una delle ordinanze di carcerazione della figlia Sabrina. La Suprema Corte, che non sostiene l'estraneità della ragazza all'omicidio, bacchetta i giudici che non hanno verificato le dichiarazioni e i comportamenti del contadino e approfondito tre aspetti: le dichiarazioni della sua amica Pisanò, la retrodatazione dell'orario del delitto e il movente delle gelosia. Le sette differenti versione fornite da Michele Misseri in relazione all'omicidio della nipote quindicenne, Sarah Scazzi, sono "tra di loro incompatibili e sovente contrapposte" e ciascuna "porta con sé una totale o parziale, ma sempre significativa, quota di ritrattazione e, con essa, un grave segnale di inattendibilità". Questo uno dei passaggi delle motivazioni, depositate in base alle quali  la Cassazione ha annullato con un rinvio una delle ordinanze di carcerazione di Sabrina Misseri, ordinando al Tribunale del Riesame di Taranto di rivalutare tutto il materiale indiziario e di rispondere a tutte le obiezioni della difesa di Sabrina. La prima sezione penale, pur ricordando che questa decisione non comporta "la rimessione in libertà" di Sabrina, ha disposto infatti un nuovo esame in quanto l'ordinanza del 18 gennaio 2011 ha adottato "la scelta dell'opzione interpretativa sfavorevole all'indagata" senza prendere in alcuna considerazione la "possibilità di letture divergenti e di adeguate risposte alle obiezioni difensive". La Cassazione, nell'accogliere il secondo ricorso presentato da Coppi (il primo presentato da Russo e Velletri è, invece, stato dichiarato inammissibile) dice che non siamo "in presenza di una chiamata in correità che rimane ferma nel suo nucleo essenziale (abbiamo commesso l'omicidio insieme e in questo modo), arricchendosi di dettagli su aspetti collaterali. Si tratta invece di versioni tra di loro incompatibili e sovente contrapposte" che denotano "un grave segnale della inattendibilità" dello zio Michele. In particolare, i supremi giudici, con la sentenza depositata, bacchettano i giudici che hanno confermato la custodia in carcere di Sabrina, non sostenendo l'estraneità della ragazza all'omicidio di Sarah, ma criticando aspramente la circostanza di aver dato retta al racconto di Michele Misseri senza "alcuna verifica dei comportamenti da lui effettivamente tenuti" e soltanto riscontrando il suo racconto con le sue stesse dichiarazioni mentre il procedimento di verifica deve essere "compiuto dall'esterno". La Suprema Corte, inoltre, accogliendo le obiezioni sollevate dalla difesa di Sabrina sui metodi usati dai magistrati nell'interrogatorio di Michele Misseri, rileva che non è stato tenuto nel debito conto la "suggestionabilità" dell'uomo, il quale, ricorda la Cassazione, aveva già ricevuto dal Gip il richiamo "a non mentire". Per la Cassazione, inoltre, il Tribunale del Riesame non ha dato sufficienti spiegazioni agli altri tre elementi in base ai quali, oltre alle dichiarazioni accusatorie del padre Michele, è stata incarcerata Sabrina: le dichiarazioni della sua amica Pisanò, la retrodatazione dell'orario del delitto e il movente delle gelosia. Su questo punto, la Cassazione non ritiene che il movente della gelosia per Ivano Russo sia stato l'elemento scatenante il delitto. Anzi, quello della gelosia non è neppure "un indizio" a carico di Sabrina: "obiettivamente esile", è stato definito. "Il solo movente, per il carattere di ambiguità che è ad esso intrinseco, non è comunque mai di per sè assimilabile ad un grave elemento indiziario - aggiunge la Cassazione - e intanto può fungere da aspetto rafforzativo del quadro probatorio in quanto gli altri elementi siano precisi e convergano a un unico significato". Questi principi della Cassazione, ricorda la stessa sentenza della Suprema corte, sono già stati affermati nella famosa sentenza su Giulio Andreotti, difeso, anche lui come Sabrina Misseri, dal professor Franco Coppi, che, dunque, se ne è 'servito' anche per il 'giallo di Avetrana'. In più, ritengono i giudici, è necessario approfondire meglio l'ipotesi del movente sessuale che potrebbe aver spinto Michele Misseri a uccidere la nipote. In proposito la Cassazione osserva che questo movente è stato ritenuto falso dal Tribunale del Riesame di Taranto, interpretando alcune dichiarazioni di Sabrina Misseri ad un amico, che devono essere nuovamente analizzate come la ritrattazione dello stesso Misseri in quanto "inattendibile". Per quanto riguarda le dichiarazioni con le quali Sabrina esprimeva incredulità questo tipo di movente, la Cassazione osserva che "a seconda del contesto, questa opinione (di Sabrina) potrebbe addirittura validamente essere spiegata con atteggiamenti di incredulità favorevoli alla tesi della innocenza della ragazza". La Cassazione ricorda anche che il tribunale del Riesame "non ha fornito giustificazione congrua sulla piena attendibilità della ritrattazione delle dichiarazioni auto-accusatorie del Misseri". Nonostante tutto ciò, però, Sabrina, pur proclamandosi innocente, resta in carcere. «Cosima - replicano gli avvocati della famiglia Scazzi Nicodemo Gentile e Walter Biscotti - è un fortino da espugnare». Il “fortino” Cosima. La definiscono così da sempre in tutte le sedi Nicodemo Gentile e Valter Biscotti, gli avvocati della famiglia di Sarah. «L'impacciato silenzio e le goffe risposte con le quali Michele Misseri tenta di giustificare il ruolo e i movimenti della moglie in questa ferale vicenda sono indice certo che la verità ancora non è stata pienamente raggiunta e che probabilmente Cosima rappresenta il 'fortino' da espugnare se si vuole raggiungere la vera ricostruzione dei fatti». E su queste dichiarazioni la stampa scandalistica ci marcia. Certo è che nessuno legalmente a questi signori gli chiude la bocca, in quanto non è permesso diffamare chicchessia, specie se i diffamati non sono nemmeno indagati. Purtroppo spesso, però, cane non mangia cane e in questa vicenda ce ne sono a branchi e a pagarne le spese è la comunità di Avetrana. «Sarebbe stato bello - ha detto Cosima Serrano al Tgcom (e ripreso da tutta la stampa) a proposito di quanto stabilito dalla Cassazione - ma ci speravo poco visto che già due volte la richiesta di scarcerazione era andata male. E se volessero arrestare anche me, lo facciano pure. Tanto il carcere di Taranto lo hanno già sistemato, finirò con mio marito e mia figlia». Sulle lettere scritte dal marito Michele in carcere, Cosima ha aggiunto: «Quelle lettere sono come un testamento. Se un testamento deve essere rispettato, lo stesso vale anche per le lettere». L'avvocato di Cosima, Franco De Jaco, è intervenuto successivamente con una nota. «Diffidiamo Mediaset a mandare in onda dichiarazioni non autorizzate e dalle quali la signora Serrano prende assolutamente le distanze in quanto in contesti non coerenti. La signora Cosima - ha aggiunto De Jaco - ha accolto serenamente il verdetto della Cassazione e confida che il tribunale del Riesame possa finalmente dare alla propria figlia una speranza per il suo futuro». 

Questa storia, con l'attenzione mediatica eccezionale, sembra un reality show. I protagonisti e gli inquirenti sembrano pedine. I giornalisti e gli pseudo commentatori e pseudo esperti influenzano le scelte ed alimentano i dubbi del pubblico, dando in pasto all'opinione pubblica la privacy e la reputazione del malcapitato di turno. I telespettatori ed i lettori sembrano indicare volta per volta chi deve essere arrestato e condannato, ergendosi a giudice in base alle prove presentate dai media e passate illegalmente da fonti investigative-giudiziarie-forensi. Processo da bar o di piazza, al di là delle norme di rito e quindi senza garanzia di imparzialità e giustizia.

Dall'inizio della vicenda sembra che la "nominata", predestinata ad essere "eliminata", sia Cosima Serrano e si fa di tutto affinchè ciò avvenga, nonostante le "eliminazioni" intermedie". Non mancano tentativi di eliminare l'intera Avetrana, nonostante la reticenza dei suoi amministratori alla tutela dei cittadini, ma sarebbe troppo: sarebbe "game over".

23 maggio. L’avviso di garanzia per Cosima. A forza di evocare la colpevolezza di Cosima, è arrivato l’avviso di garanzia. L'avvocato Franco De Jaco, legale di Cosima Serrano, ha reso noto a Chi l'ha visto? che la sua assistita ha ricevuto un avviso di garanzia per «concorso in omicidio, sequestro di persona e soppressione di cadavere» di Sarah Scazzi. «È un atto dovuto in riferimento alle perizie genetiche in programma il 25 maggio», ha spiegato l'avvocato della moglie di Michele Misseri e madre di Sabrina. Proprio il giorno prima la Serrano era stata in tv, a Domenica 5: «Non soffro la solitudine, soffro per il motivo per il quale sono sola. Sabrina non ha fatto niente e non è giusto che stia dove sta, mentre Michele, se ha fatto quello che ha fatto, è giusto che stia dove sta», aveva detto. Sul verdetto della Cassazione, Cosima Serrano aveva affermato che «è come se si fosse girata la palla… Finalmente hanno visto che era tutto contro Sabrina e che le cose a favore di Sabrina erano state messe da parte. Sicuramente usciranno anche le cose a favore di Sabrina. Io, quel giorno quando sono arrivata a casa, se non fossi stata a casa avrei avuto anche io dei dubbi, non so, ma siccome io l’ho vista a letto, io ho sentito il messaggio, io l’ho sentita quando è uscita sbattere la porta – spiega – Possono dire quello che vogliono. Quello era e quello è. Abbiamo speranza, crediamo nella giustizia, nella vera giustizia, però, non nella giustizia costruita – dice – Spero che si proceda adesso affinchè Sabrina torni al più presto libera. Libera però, libera. Non agli arresti domiciliari, perché non ha fatto niente e non è giusto che sia condannata per una cosa che non ha fatto». Sul fatto che la Cassazione dice che il movente della gelosia di Sabrina nei confronti di Ivano è un movente esile, la madre della ragazza sottolineava: «Anche un bambino lo capirebbe – commenta – Sarah era una sorella per Sabrina, ma una sorella vera non la puoi mandar via, in quella casa ci deve stare. Invece, se Sarah le dava fastidio, sia per Ivano sia per altri motivi, la poteva mandare via in qualunque momento». La Cassazione, in buona sostanza ha bacchettato la procura di Taranto, assieme al Gip ed al tribunale del riesame del posto, ricordando loro che l’art. 358 c.p.p. obbliga il PM a svolgere accertamenti per dimostrare la colpevolezza, ma altresì l’estraneità dell’accusato riguardo i fatti contestati. Sempre a Domenica 5 Alessandra Mussolini ha reiterato imperterrita e senza ostacoli la sua fustigazione sulla famiglia Misseri e evidenziando la correità dei suoi membri. Questo nell’indifferenza di De Jaco, che non ha minacciato querele né per la Mussolini, né per i responsabili del programma. Stesso tono e parole che Alessandra Mussolini ha usato anche nell’ennesima puntata di “Pomeriggio Cinque” del 20 ottobre 2010, quando era invitato Andrea, l’ex fidanzato di Sabrina che non ha evitato le telecamere e si è mostrato per difenderla contro l’accusa di omicidio volontario. La Mussolini che urla: «Sarah Scazzi è da giorni sotto terra e Michele e Sabrina Misseri e tutta la famiglia continuano a mentire, ci vorrebbe un passaggio in carcere per tutti». La curiosità morbosa di Barbaro D’Urso, anziché tacitare la Mussolini va oltre e inizia a chiedere ad Andrea non solo da quanto tempo il loro amore è finito, ma anche se si amavano ancora o se è rimasto dell’affetto. Dopo la pubblicità Andrea non è più stato in collegamento, assalito dagli altri giornalisti ha scelto di andare via, mentre la D’Urso ha confidato che dietro le quinte, qualcuno le ha chiesto il perché non avesse insistito con le domande per sapere, magari, chi dei due aveva lasciato l’altro e così via… Ma questo cosa c’entra con Sarah?

Si tratta dunque di una confronto tra i DNA di tutti i componenti della vicenda fino ad ora tutti possibili indagati, ma nessun reale assassino: Michele Misseri, Sabrina Misseri, Cosima Serrano, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Ivano Russo. L'indagine, diversamente da quello che il bombardamento mediatico vorrebbe farci credere, non sembra essere giunto a nessuna svolta decisiva, sta solo facendo il suo corso. Lo stesso avvocato di Cosima Misseri, Franco De Jaco, ha spiegato che se la Procura avesse considerato la donna "responsabile dei reati contestati anche a Sabrina e agli altri parenti sarebbe già stata fermata"; in merito alle perizie del 25 maggio fa sapere "non saranno nemmeno presenti perché assolutamente tranquilli". Lo stesso legale di Ivano Russo, Enzo Tarantino, ha fatto sapere che si tratta solo di "un avviso di accertamenti tecnici irripetibili"; "questo gli dà la possibilità di nominare consulenti di parte, anche se non è obbligatorio. Ciò non significa che il mio assistito è indagato".

Il gioco delle parti. A questo punto non si spiega perché per Cosima c’è un avviso di garanzia, perché indagata per atto dovuto, e per Ivano un avviso di accertamenti tecnici irripetibili, avendo per quest’ultimo lo stesso risultato dall’esito dell’esame del DNA.

Tante cose in questa vicenda non vanno: inchiesta approssimativa e sotto influenza mediatica; tutti dentro (in carcere) compresi gli avvocati, se possibile, affinchè qualcuno canti; nessun rispetto per le persone; ritardi nelle indagini e nelle ricerche; ecc... Insomma un processo indiziario in cui si va a tentoni, con persone detenute, e in cui gli indizi non sono affatto gravi, precisi e concordanti!!!

«Tutti questi mesi sono stati difficili e dolorosi, ma la cosa che mi fa più male è avvertire l'odio della gente. Essere costretta alle visite in carcere alla propria figlia e al proprio marito. Sono circostanze e momenti dolorosi e molte volte insopportabili». Lo afferma in un’intervista Cosima Serrano a  “Il Corriere della Sera” del 24 maggio. Certe notti qualche scugnizzo di paese passa per via Deledda e tira una sassata: lì, proprio sotto il patio, a sfasciare le ultime lampadine di Mimina. Qualcuno le scrive pezzo di m... sulla fiancata della Opel Astra. Lei sospira e dedica sofferenze e angherie cristianamente sopportate «al buon Dio», dice: «Come penitenza per ciò che ha fatto Michele». Brutte cose. Giusto per tacitare coloro i quali pretendono la cattiveria all’indifferenza, che a Brembate per Yara Gambirasio è citata come riservatezza, mentre ad Avetrana è bollata come omertà.

Certe notti pare che l'inverno non passi mai anche se il calendario certifica che è primavera, in quella villetta al civico 22 che è diventata la casa della morte e dell'orrore nell'immaginario degli italiani; sembra che tutti i lorsignori in toga della città a un'ora da qui ce l’abbiamo solo con te e che tutti i tuoi compaesani ti guardino come un'assassina. Certe notti il corridoio è troppo lungo, la stanza da letto troppo fredda, il tinello troppo vuoto.

Si è mai sentita perseguitata ingiustamente, signora?

«Sa, ormai mi sono abituata a sentire tante cattiverie contro di me! Gliel’ho detto, l'ingiustizia di cui sono vittima la offro al Signore».

Eccola qui, Cosima Mimina Misseri, zia di Sarah, mamma di Sabrina, moglie di Michè, il povero mostro a confessioni alternate. Eccola nel suo giorno più lungo, coi cronisti e le tv di nuovo a premere al cancello: perché se la Cassazione le apriva il cuore alla speranza facendo a pezzi l'inchiesta, che ha fatto a pezzi la sua famiglia («Mi sento come se fosse girata la palla, adesso usciranno cose anche a favore di Sabrina», ha detto a Domenica Cinque), è arrivato quest'avviso di garanzia che certo sarà «un atto dovuto», come sostiene il suo avvocato Franco De Jaco, e tuttavia non è bello leggersi indagati per concorso in omicidio, sequestro di persona e soppressione del cadavere della piccola Saretta; il domani, poi, è in mano al Padreterno. Perché per molti Mimina resta quella che «comandava in casa», quella che «non poteva non sapere», una deviazione noir del familismo amorale che i sociologi si dilettano a descrivere nel nostro Sud. Ciclicamente si leva tra Taranto e Avetrana un vento di voci e vocine, «la arrestano, stavolta la arrestano proprio». Lei non può far altro che tirar giù le serrande. Se è innocente come dice, qualcuno dovrà pur risarcirla, un giorno o l'altro.

Dalla morte di Sarah sono passati quasi nove mesi, quali sono stati i momenti più difficili?

«La morte di Sarah, sicuramente, e poi l’avere appreso dell'accusa a Sabrina da parte di Michele. Quell'accusa che fa rimanere mia figlia in carcere innocente».

Mi riferivo alla vita di tutti i giorni...

«Tutti questi mesi sono stati difficili e dolorosi».

Cosa fa più male?

«Avvertire l’odio della gente. Essere costretta alle visite in carcere alla propria figlia e al proprio marito. Sono circostanze e momenti dolorosi e molte volte insopportabili».

Come immagina il suo futuro?

«Il mio futuro è finito...».

...dicevo: ad Avetrana o lontano da Avetrana?

«...è finito in qualunque luogo io vada. Ho perso una nipote che amavo come una figlia, per mano di mio marito. Ho una figlia in carcere ingiustamente. Cosa vuole che mi interessi il mio futuro?».

Che cosa conta allora per lei, adesso?

«Ciò che conta oggi è che un futuro ce l'abbia Sabrina. Per il resto non posso sapere cosa accadrà».

Da mamma: se Sabrina uscisse prosciolta da questa storia, cosa dovrebbe fare per ricostruirsi una vita?

«Certamente la sofferenza di questi mesi e le accuse ingiuste di cui è tuttora vittima hanno inciso sul suo carattere. Ma sono convita che non debba fare nulla di diverso da ciò che faceva prima di questa drammatica esperienza».

E com'era Sabrina, prima?

«Una brava ragazza e una onesta lavoratrice».

Da moglie: cosa prova oggi quando va in carcere a trovare suo marito?

«Oggi ho compassione per Michele. Ma non posso perdonargli ciò che ha fatto a Sarah e a Sabrina».

Ha qualche rimorso verso Sarah?

«Rimorsi non posso averne in quanto non ho fatto nulla perché si realizzasse un evento così triste».

Pensa almeno che avrebbe potuto fare qualcosa per cambiare il corso degli avvenimenti?

«Forse, se avessi saputo per tempo che Sarah prendeva soldi da Michele e che Michele le aveva detto di non dire niente, mi sarei chiesta perché».

E dunque?

«Mi sarei potuta allarmare e quindi avrei potuto allarmare mia sorella Concetta e Sarah stessa».

Signora, lei è rimasta in quella casa... senza più Michele e senza più Sabrina. Quanto pesa la solitudine?

«Ho la fortuna di avere mia sorella Emma che mi sostiene e mi aiuta».

Ha mai paura?

«Paura? Vede, c'è anche qualche altra cosa che mi sostiene e mi aiuta».
Cosa?

«La convinzione che la giustizia, quella vera e non costruita, riconoscerà Sabrina innocente. Ridandole fiducia nel futuro».

D’altrocanto, però, anche Anna Pisanò si sente tradita dalla giustizia. Nazareno Dinoi sulla Voce di Manduria del 25 maggio e sul Corriere del Mezzogiorno riporta le sue parole. «Sono delusa dalle parole dei giudici della Cassazione che non danno credito alla mia testimonianza» . Anna Pisanò, che non si aspettava un simile trattamento dalla corte suprema che annulla con rinvio l’ordinanza del tribunale del riesame di Taranto sull’arresto di Sabrina Misseri, usa parole forti per descrivere il suo stato d’animo: «Mi sento offesa, se lo avessi saputo prima non mi sarei messa in mezzo a questi casini» .

È pentita di averlo fatto?

«Secondo lei? Chi me l’ha fatto fare? Se me lo permettessero andrei personalmente a Roma per parlare con questi giudici. Gli parlerei guardandoli negli occhi» .

Cosa vorrebbe dire loro?

«Direi ciò che ho visto e sentito quella sera quando Michele Misseri fece trovare corpo di Sarah nel pozzo e sua figlia piangeva disperata sulle mie spalle. Ricordo tutto di quei momenti, anche com’ero vestita io e le altre persone presenti» .

E cosa le disse Sabrina?

“Ma a che serve parlare, serve a qualcosa dirlo se poi nemmeno ti credono?»

In effetti i giudici della Cassazione danno scarsa importanza alle parole riferite a quella sera perché non sono state registrate né trascritte immediatamente.

«Questa è bella! Così avrei dovuto dire a Sabrina: aspetta prima di piangere e di parlare perché devo trovare un registratore oppure un taccuino con una penna? Le sembra normale?» .

Con l’andare del tempo, pensano i giudici, qualche particolare potrebbe sfuggire o essere distorto.

«Le ripeto che ricordo tutto di quella sera e se proprio insiste le ridico parola per parola quello che mi disse Sabrina mentre urlava “lo hanno incastrato, mio padre lo hanno incastrato”. Mi parlò in dialetto: Anna, mi disse, dopo tante ore viene quella cosa di dire la verità… di finire là… Così finisce tutto… Ma io non l’ho fatto, io non sono stupida”. E’ vero, non ho registrato e non ho preso appunti, ma subito dopo raccontai tutto a mio marito (che seduto vicino annuisce, confermando la circostanza, nda). Lo chieda a lui se non è vero, lo chiedano anche i giudici di Roma così diffidenti» .

In compenso i magistrati tarantini la ritengono attendibile.

«E meno male, già ho sofferto e soffro abbastanza. Cosa crede che non mi è costato niente tutto questo? Se non mi avessero chiamato (gli inquirenti, nda), non avrei mai tradito Sabrina che nonostante tutto non riesco ad odiare. Sono una mamma anch’io e non posso non pensare al dramma che sta vivendo, ai progetti che aveva e che sono saltati. Ma c’è di mezzo la morte di una ragazzina e tutti dovremmo offrire il nostro contributo alla giustizia» .

Anche Valentina Misseri si sfoga su “La Stampa” sempre del 25 maggio, intervistata da Maria Corbi, la giornalista che sin dall’inizio è stata l’unica che ha trattato con oggettività la vicenda ed è stata l’unica ad essere stata vicina alle donne Misseri ed a non abbandonarle come hanno fatto altri giornalisti, quando, dopo averle  usate, le hanno attaccate.

«Se quel 26 agosto fossi stata ad Avetrana, invece che a Roma, adesso sarei indagata anche io per la morte di Sarah». Sono parole amare quelle di Valentina Misseri il giorno dopo l’avviso di garanzia a sua mamma Cosima per concorso in omicidio, sequestro di persona e soppressione di cadavere. Ormai è lei l’unica persona della famiglia libera da sospetti e accuse. Ma non dagli insulti. «Sono esterrefatta e schifata dalla cattiveria della gente e di voi giornalisti che avete fatto a pezzi mia sorella, poi mia madre, colpevoli senza che neanche sia iniziato il processo. Ma in Italia esiste la presunzione di innocenza fino a prova contraria?».

Una domanda amara che Valentina Misseri, sola nella sua casa romana, si fa leggendo i giornali, ascoltando la televisione. È dispiaciuta di non poter stare vicina a Cosima, perché «la vita va avanti insieme alle bollette». Ha tanta rabbia nel ricordare come tutte loro sono state insultate anche per la loro fisicità. «Ma essere grasse, avere problemi alimentari, non è un reato», sorride. «Come non lo è essere antipatiche, visto che secondo molti, che non ci conoscono, lo siamo». Valentina legge i giornali come un esercizio doloroso ma necessario. Le parole su Cosima le fanno male. «Una donna ha scritto che mia madre non ha mai provato emozione, rimpianto, rimorso per la nipotina. Ma che ne sa lei? Amavamo Sarah e lei amava noi visto che era sempre a casa nostra. Adesso chi non ci conosce scrive quello che gli viene in mente o peggio quello che la gente assetata di sangue vuole sentire. Le parole sono come pietre». E loro, le donne Misseri sono state lapidate. Valentina quando non lavora è sempre attaccata al computer, su Facebook, sui siti dei quotidiani, nel blog dove si discute del caso. «L’altro giorno ho sentito la Mussolini che diceva che siamo tutte colpevoli noi Misseri. Le avrei voluto dire che pensasse a quello che ha fatto suo nonno, alle persone che ha ucciso e fatto uccidere. Con lo stesso ragionamento potrei dire che lei è colpevole per i crimini commessi da suo nonno». Valentina è sola, addolorata: «Quando penso a Sarah e a quello che ha fatto mio padre ho un dolore fisico, al cuore. Ma Sarah deve avere giustizia, non vendetta. C’è bisogno del colpevole e non di un colpevole». «Mia sorella dicono che è antipatica, ma non è un assassina. Se avessi avuto dei dubbi non l’avrei mai difesa, perché per me sarebbe stato più facile sapere lei colpevole invece che papà. Papà è papà, è quello che mi ha cresciuto, portato a scuola. E anche mia madre non la avrebbe mai coperta. Se sbaglia una sorella o una figlia non la abbandoni ma accetti il fatto che deve pagare». Intanto anche Sabrina nel carcere di Taranto ha saputo delle novità sulla madre. «La notizia l’ha avvilita e abbattuta», ha detto Nicola Marseglia che la difende insieme a Franco Coppi. «Non riesce a darsi una spiegazione soprattutto in relazione alla decisione positiva della Cassazione di qualche giorno fa». La scorsa settimana la Suprema Corte ha annullato con rinvio una delle ordinanze del Tribunale del Riesame di Taranto che avevano confermato la detenzione in carcere di Sabrina Misseri demolendo tutto l’impianto accusatorio. Ma la procura non ne ha tenuto conto.

25 maggio. La notizia dell’arresto di Cosima. Una barbarie. Una bestialità. Ancora una volta, non un giornale nazionale, ma un giornale locale, abituato a tenere rapporti stretti con la procura di Taranto, tanto da non eccepire le sue pecche, dà sfoggio delle sue capacità. La Procura di Taranto avrebbe chiesto l'arresto di Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri e madre di Sabrina, entrambi in carcere da diversi mesi per l'omicidio di Sarah Scazzi. La notizia viene pubblicata dal Quotidiano di Puglia (Taranto). La notizia, poi, è stata ripresa e riportata su scala nazionale. Nell'articolo, a firma di Lino Campicelli, si parla di due richieste d'arresto. Oltre a quella per Cosima, la Procura avrebbe chiesto anche una nuova ordinanza di custodia in carcere per Sabrina Misseri.

Nel dare questa notizia, delle due, una: o è diffamazione commessa dal Campicelli e dal suo direttore; o è violazione del segreto istruttorio commesso dalla Procura. Nella seconda ipotesi, comunque, vi è una chiara discrasia con la pronuncia della Cassazione: più che mettere dentro Cosima, bisognerebbe scarcerare Sabrina, non sussistendone i presupposti, ma tant’è l’Italia e piena di carceri con detenuti innocenti. Tutto ciò nell’indifferenza di una società civile egoista e giustizialista (ma solo quando si tratta degli altri). E i magistrati che compiono tali nefandezze non pagano mai.

«Se è una notizia fondata, è una fuga di notizie e quindi un fatto illecito, se invece non è fondata è una calunnia, una diffamazione. Strano che lo sappiano i giornalisti. A me certo non lo dicono». Così l'avvocato Franco De Jaco, legale di Cosima Serrano commenta in diretta alla “Vita in Diretta” dello stesso giorno, senza, però, minacciare azioni di tutela concrete. Di tutt’altro piglio, invece, Maria Corbi di “La Stampa”, che in trasmissione si sforzava, invano, di convincere Mara Venier e gli altri ospiti, omologati ad accusare tutto e tutti, che, quando si parla delle donne Misseri, si tratta della vita di persone, quantunque presunte innocenti, ma sempre persone in carne, ossa e sentimenti e non di personaggi dei fumetti.

Intanto nello stesso giorno le fughe di notizie si rincorrono. Il telefono di Cosima Misseri alle 15.25 del 26 agosto 2010, proprio negli istanti in cui veniva uccisa la nipote Sarah Scazzi, si trovava nel garage della sua casa di Avetrana. Un luogo dove lei ha sempre negato di essere stata quel giorno e in quelle ore. Lo rivela, come riporta il settimanale Panorama, il rapporto dei carabinieri del Ros depositato in Procura a Taranto.

Per soli 40 secondi, un tempo breve ma sufficiente ai tecnici per rilevarlo, quel giorno il cellulare di Cosima ha agganciato un'altra cella, quella del garage, che non è stata mai captata nella veranda, nel cortile e nell'abitazione. Il garage è posto sotto il livello della strada, e secondo il rapporto in quella zona i telefonini agganciano frequenze diverse da quelle delle altre zone della proprietà. Secondo Panorama, gli inquirenti sospettano ora che la ragazza sia stata uccisa in casa, e che il suo corpo sia stato portato in garage. E gli inquirenti sanno che c'è un buco negli spostamenti di Cosima. Quel buco, rileva il settimanale, coincide proprio con il momento in cui, stando al responso delle analisi tecniche condotte sulle celle telefoniche, il cellulare della zia di Sarah si trovava in garage.

Il giorno seguente, il 27 agosto 2010, dalle 10.26 alle 10.40, i telefonini di Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri si trovavano invece in un'area rurale compresa tra Avetrana (Taranto) e San Pancrazio Salentino, una zona compatibile sia con la contrada Mosca, dove poi fu trovato il cadavere di Sarah, sia con la zona dove c'è l'albero di fico sotto il quale vennero rinvenuti i resti dei vestiti bruciati della vittima.

Come sia stato possibile per Panorama ottenere un rapporto riservato, non si sa: bravi loro e criminali chi lo ha dato. Naturalmente c’è da aggiungere che anche i cellulari di altri indagati sono stati intercettati dalla stessa cella che li poneva sempre in contrada Mosca. Gli esperti indicano questi accertamenti come poco affidabili.

26 maggio. L’arresto di Cosima. In concomitanza con la sberla ricevuta dalla Cassazione, la risposta della Procura di Taranto e del Gip Martino Rosati. Contestualmente all’ordinanza di custodia cautelare in carcere per Cosima Serrano e Sabrina Misseri (quest’ultima già detenuta dal 15 ottobre 2010), il gip del Tribunale di Taranto, Martino Rosati, ha firmato anche l’autorizzazione all’interrogatorio di Michele Misseri così come chiesto dai due legali di Sabrina, Franco Coppi del Foro di Roma e Nicola Marseglia di Taranto. All’incontro parteciperanno anche i due pubblici ministeri, Mariano Buccoliero e Pietro Argentino, su richiesta di questi ultimi. «Un fatto anomalo» , l’aveva definito Coppi che rivendicava l’autonomia nell’ottica delle prerogative di atti difensivi. «Che stiano anche loro, così nessuno potrà dire che abbiamo usato domande suggestive per l’indagato», aveva infine dichiarato il penalista noto per aver difeso il senatore vita Giulio Andreotti. In quell’occasione Michele Misseri, su cui pende ancora l’imputazione di omicidio volontario in concorso con la figlia Sabrina, soppressione e vilipendio di cadavere (contestazioni queste che alla luce degli ultimi sviluppi dell’inchiesta dovrebbero essere sostituiti con la sola soppressione del corpo), potrà finalmente riferire la sua nuova versione dei fatti affidata alle numerose lettere inviate alle figlie e al suo legale Franco De Cristofaro. In quelle missive, tutte note tranne l’ultima ancora nelle mani di Sabrina, il contadino di Avetrana smonta completamente l’ultima confessione cristallizzata nell’incidente probatorio nel corso del quale addossava ogni responsabilità dell’uccisione della nipote a sua figlia Sabrina. Versione, questa, che la procura ha sempre ignorato rifiutando qualsiasi confronto che pure l’indagato e i suoi famigliari chiedevano. Un comportamento di chiusura, da parte della Procura di Taranto, stigmatizzato anche dai giudici della Cassazione nella recente sentenza che accoglie con rinvio il ricorso contro l’arresto della ragazza presentato dai suoi legali. È stata fissata invece per il 9 giugno l'udienza del Tribunale del Riesame di Taranto sul ricorso dei difensori di Sabrina, dopo che la Cassazione ha annullato con rinvio l'ordinanza con la quale lo stesso Tribunale, in altra composizione, aveva confermato il rigetto dell'istanza di scarcerazione della ragazza deciso dal gip Rosati.

Su queste basi prettamente giuridiche è arduo dimostrare, anche per Cosima e dopo mesi, il movente, la gravità degli indizi, il pericolo di fuga, la reiterazione del reato e la pericolosità sociale. Ma tant’è. L’ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari Martino Rosati su richiesta del procuratore aggiunto Pietro Argentino e Mariano Buccoliero, ridisegna il delitto di Avetrana. Sabrina Misseri, a cui il provvedimento è stato notificato in carcere, risponde di omicidio premeditato, sequestro di persona e concorso in soppressione di cadavere. Quest’ultima è una accusa nuova mentre l’ipotesi di omicidio diventa aggravata dalla contestata premeditazione. Il gip Rosati a Cosima Serrano contesta il concorso in omicidio, per aver assistito inerme (non impediva l’evento), mentre la figlia Sabrina uccideva Sarah, nell’abitazione di via Deledda e non più nel garage come emergeva sinora dagli atti giudiziari, e il concorso nella soppressione del cadavere. Secondo il magistrato, infatti, Cosima e Sabrina la mattina del 27 agosto si sarebbero recate in contrada Mosca per gettare il corpo di Sarah nella cisterna dove fu ritrovato quaranta giorni dopo grazie alle indicazioni date da Michele Misseri ai carabinieri. Nell’ordinanza si parla anche di Michele Misseri a cui, in questo caso, viene contestato unicamente l’occultamento di cadavere su ordine, una ipotesi di reato che sarebbe legata a quanto successo il pomeriggio del 26 agosto.

Ad accusare Cosima, secondo la procura, ci sarebbe un rapporto dei Ros secondo cui il giorno della scomparsa (e della morte) di Sarah, il telefono di Cosima Misseri alle 15.25 si trovava in garage. Secondo i militari, i telefoni della famiglia Misseri quando sono nell’abitazione agganciano una cella Umts. Cella, questa, che non viene agganciata quando i telefoni si trovano nel garage interrato vicino all’abitazione. In questo caso i segnali dei telefonini vengono ritrasmessi da una cella Gsm che non verrebbe mai captata - ma si tratta di ipotesi investigative - quando i telefoni si trovano sul piano stradale, nella veranda oppure nell’abitazione dei Misseri. I telefonini di famiglia, comunque, non sono dotati di dispositivo satellitare Gps, quindi è estremamente difficile rilevarne con precisione l’effettiva ubicazione. Ora Cosima è accusata di concorso in omicidio volontario, Sabrina di omicidio premeditato e Michele di «occultamento di cadavere in seguito a ordine». Secondo questa ricostruzione, Sarah sarebbe stata uccisa in casa da Sabrina con l’aiuto di Cosima, mentre a Michele sarebbe poi stato ordinato di sbarazzarsi del cadavere.

La costruzione del delitto familiare è l’unico modo che gli inquirenti hanno per incastrare Sabrina sulla scena del delitto. E nonostante la Cassazione con una sentenza durissima abbia bocciato il loro teorema, smontando tutte le ipotesi fatte, continuano per la loro strada. E per «sviare» la Cassazione in procura hanno lavorato per tentare di fare a meno delle parole del padre di Sabrina, Michele, che da mesi, inascoltato, sostiene attraverso delle lettere inviate alle figlie e al suo avvocato di averla accusata falsamente perché ricattato. Così hanno emesso un nuovo ordine di custodia cautelate per Sabrina dove aggravano le accuse contestandogli l’omicidio premeditato. Un giallo che continua ad aggiungere capitoli. Con un grande accusatore (e reo confesso), Michele Misseri, che ha dato in tutto sette versioni diverse del delitto. La difesa di Sabrina aspetta da tempo di poterlo interrogare in carcere, un’autorizzazione che è arrivata contestuale all’arresto di Cosima.

Dalla Gazzetta del Mezzogiorno del 27 maggio il resoconto secondo i dettami mediatici e giudiziari, che per spirito di verità non vogliamo censurare, anche se per tutti dovrebbe valere sempre il principio della presunzione d’innocenza e per deontologia dare voce anche alla difesa e non essere solo megafono dell’accusa. “Un delitto premeditato per paura di perdere il suo «Dio». Perché Sabrina Misseri, la 23enne in carcere dal 15 ottobre scorso con l’accusa di aver ucciso la cugina Sarah Scazzi, avrebbe sfogato la sua furia omicida, strangolandola con le sue mani secondo l’ordinanza, sulla 15enne in quanto divorata dalla gelosia e dall’invidia per il rapporto nato tra la vittima e Ivano Russo, il suo «Dio», come lo chiamava in alcuni sms finiti agli atti dell’inchiesta. Un delitto compiuto in casa, sotto gli occhi di sua madre Cosima Serrano, finita in carcere, a due passi da Sabrina, con l’accusa di concorso morale in omicidio volontario e concorso in soppressione di cadavere. Gli inquirenti hanno ridisegnato tutta la scena del delitto. Sarah arriva a casa Misseri attorno alle 14 e viene uccisa prima delle 14.20. Il delitto avviene in casa, al culmine di un violento litigio con Sabrina, figlio di una lita iniziata la sera prima e proseguita la mattina, che Sarah trascorre a casa della cugina. Cosima assiste, probabilmente impotente. Il cadavere di Sarah viene portato nel garage utilizzando il varco interno alla villetta di via Deledda, quindi caricato nella Seat Marbella da Michele Misseri e abbandonato, seminudo perché Sabrina Misseri nella sua furia omicida ha strappato i vestiti indossati dalla cugina, sotto un albero di fico poco distante dalla cisterna. L’obiettivo probabilmente era quello di inscenare il rapimento a scopo di violenza ma nessuno si accorge di quel corpo che la mattina dopo viene ritrovato lì dov’era stato lasciato e dunque buttato nella cisterna. Inizia così un depistaggio lungo mesi e mesi che gli inquirenti riescono a smontare con grande fatica, fino all’epilogo. «Continuiamo a lavorare per completare il mosaico di questa vicenda» ha spiegato il procuratore capo Franco Sebastio, aggiungendo che «c'è sempre la presunzione d’innocenza. Abbiamo continuato a lavorare raccogliendo una notevole quantità di nuovi elementi». Sono stati in particolare i carabinieri del Ros a fornire un impulso importante alle indagini, ricostruendo oltre 4mila sms che Sabrina e Ivano si sono scambiati nei quattro mesi precedenti il delitto, messaggi dai quali sarebbe emerso in maniera inequivocabile il movente del delitto, definito esile dalla Cassazione nei giorni scorsi, ma invece ritenuto assai solido e incontrovertibile dal gip Martino Rosati che nelle 90 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare ha anche indirettamente risposto ai rilievi della Suprema Corte. Nel provvedimento ci sarebbero anche i contenuti di alcune intercettazioni ambientali in carcere tra Cosima Serrano e suo marito Michele Misseri, colloqui dai quali, stando a quanto trapelato, sarebbero emerse le pressioni che la donna avrebbe fatto sul contadino riguardo alla versione da fornire al suo nuovo avvocato, un elemento che se confermato si inserirebbe a pieno titolo nella lunga teoria di depistaggi che ha contrassegnato questa vicenda.” Fine del resoconto giornalistico locale, megafono giudiziario.

Per sapere di più sull’arresto e per analizzare la verità contrapposta della difesa, ancora una volta ci rifacciamo al resoconto di Maria Corbi, sul “La Stampa” del 28 maggio. "Quando Sabrina ha saputo che la madre era in carcere ha iniziato a vomitare e non ha più smesso. Sta malissimo e certo non è stata meglio quando ha saputo che la mamma di Sarah, sua zia, ha chiamato Cosima «assassina». Perché? si chiede Sabrina. E la risposta è nelle 90 pagine del gip, anche se non esiste una prova, ma solo indizi.

Scrive il giudice: «Cosima Serrano non è soltanto la moglie di colui che ha fatto ritrovare il corpo della vittima e che - almeno a oggi, poiché con suo marito non si sa mai - si dichiara esclusivo autore dell’omicidio; non è soltanto la madre di colei che, invece, come sin qui detto, risulta raggiunta da una mole impressionante di indizi di colpevolezza per tale fatto. Ella è, soprattutto, per quello che interessa ai fini della ricostruzione degli eventi, la terza persona - senza contare, ovviamente, la povera vittima - presente sul luogo nel momento dell’omicidio».

Dall’esame delle celle telefoniche fatta dai Ros di Roma il gip evince che Cosima era in casa, dunque, e che alle 15,25 sarebbe scesa in garage, mentre lei ha sempre negato. Ed evince anche che Sarah era in casa Misseri perché il suo telefonino aggancia la cella che copre l’abitazione (diversa da quella del garage) alle 14,28, 14,23, 14,25, 14,28 e 13 secondi e 14 e 26 secondi. Prova del fatto, secondo il gip, che il delitto è stato consumato in casa da Sabrina. Ma il gip si dimentica di riportare che i Ros hanno spiegato chiaramente a pagina 3 della loro perizia che quella cella è compatibile «anche con il percorso compiuto dalla vittima tra la propria abitazione e quella Misseri, nonché con l’abitazione della stessa Scazzi Sarah)». Insomma secondo i Ros è ampiamente possibile che in quei momenti Sarah stesse a casa o in marcia verso casa Misseri, ipotesi che smonta la colpevolezza di Sabrina che potrebbe essere inchiodata alla scena del crimine solo anticipando gli orari di uscita da casa e arrivo a casa Misseri di Sarah. Ancora una volta il giudice sceglie l’indizio più sfavorevole all’indagata e non quello favorevole alla sua difesa, come ha invece sollecitato a fare la Corte di Cassazione.

Tornando a Cosima, la sua posizione, scrive il gip «sempre in bilico tra concorso nel reato e favoreggiamento», «si è disvelata» quando è stato chiaro che il delitto è stato compiuto a casa. Cosima quindi poteva benissimo sentire quello che avveniva in casa e anche il citofono «sicuramente suonato da Sarah al suo arrivo». Un «sicuramente» che non è supportato da testimonianze ma solo dalla logica del gip. «Dunque nella migliore delle ipotesi per lei, Cosima Serrano», ... «non può non aver assistito, per lo meno, a un’ampia parte dell’azione omicidiaria protrattasi per vari minuti (che in quel contesto sono un’eternità) e, in una simile situazione, non ha fatto nulla per impedire che siffatta condotta giungesse a termine».

Secondo il gip poi vi sarebbero «buone ragioni per sostenere che Cosima Serrano, in prima persona, non nutrisse sentimenti particolarmente benevoli verso la nipote Sarah». Un soliloquio di Misseri registrato nella sua auto inchioderebbe la donna: «Mi dispiace per la mia famiglia... se vanno (termine incomprensibile) io adesso li scoprirò... cosa vogliono dire, dicano quelli... è andata così, che vogliono fare, fanno a tua figlia... io non li credo (pausa) se uno non fosse voluto andare...».

Il gip interpreta questa folla di parole senza senso come una conversazione con Cosima a cui Michele direbbe «che vogliono fare, fanno a tua figlia». In secondo luogo, dice il gip, appare chiaro che a subire le conseguenze della sua scelta saranno i suoi famigliari. E poi la frase «se uno non fosse voluto andare» con cui Michele Misseri rivelerebbe, sempre secondo questa interpretazione dell’accusa, l’ordine di disfarsi del corpo. Il gip contesta sia a Sabrina che a Cosima il fatto che non abbiano saputo dire cosa abbiano fatto per quasi un’ora dalle 16,19 alle 17,15. In realtà le due donne hanno sempre detto di essere state in giro alla ricerca di Sarah.

E nell’ordinanza entra anche il sogno del fioraio Giovanni Buccolieri, una visione di Cosima che intima alla nipotina di salire sulla sua auto quel pomeriggio del 26 agosto. Il fioraio non ha voluto firmare il verbale che trasformava il sogno in realtà, ma gli inquirenti dicono che mente.

La nuova ordinanza nei confronti di Sabrina Misseri attinge a pieno nell’ordinanza emessa dal Tribunale del riesame in sede di appello annullata dalla Cassazione.

Niente di nuovo per lei se non la conferma del movente (la gelosia per Ivano Russo) che sarebbe confermata da cinquemila messaggini. Ma la gelosia, ha ricordato la Cassazione, non è un movente e il movente in sé non può essere prova e neanche indizio."

La stampa di Taranto e i corrispondenti locali di testate nazionali, salvo qualche rara eccezione in provincia, sono stati il megafono della procura di Taranto, sposandone in toto la strategia giudiziaria. Sono stati i primi a denigrare Avetrana; i primi a condannare senza processo i protagonisti della vicenda, iniziando proprio dalla vittima: da Sarah Scazzi. Mai una critica ai magistrati su come sono state svolte ricerche ed indagini. Critiche devolute addirittura dal supremo organo di giustizia. Poco spazio alle difese, salvo che non fossero quelle dedicate “alla ricerca della verità” (attività, questa, però, propria della magistratura).

Sin dall’inizio vi sono state indiscrezioni a danno degli indagati, frutto di fughe di notizie.

Nessuno come i giornalisti tarantini hanno violato la deontologia. Si impari da Maria Corbi de “La Stampa” come si redigono i servizi asettici e cos’è la coerenza. Ella non usa e getta.

La vicenda di Sarah Scazzi culmina con la gogna mediatica dell’arresto di Cosima Serrano, con claque a seguito, in concomitanza con la chiusura dei salotti in tv. L’arresto preannunciato per dare tempo alle troupe televisive di ritornare ad Avetrana e stazionare in via Deledda per riprendere in diretta Cosima in manette. Evento atteso da mesi. Anche i mostri, quando sono tali, meritano il dovuto rispetto.

Avetrana non è quella latrante contro Cosima. Avetrana è quella che pretende giusta pena in giusto processo, senza gogna mediatica, né tintinnar di manette.

Ancora Maria Corbi, racconta sulla “La Stampa”, l'aspetto prettamente personale della vicenda. «Che dici, mi daranno il tempo di mettere le ultime cose nella borsa?». Cosima Serrano è rassegnata da giorni, sa che la devono venire ad arrestare. «Mi vogliono prendere», diceva mercoledì 25 maggio, dopo aver letto su un giornale locale la notizia dell’ordine di custodia cautelare pronto per lei. La hanno chiamata la sfinge per quel tenersi tutte le emozioni dentro, ma adesso che sa con certezza che i carabinieri arriveranno per strapparla alla sua vita, non riesce più a celare bene il dolore, l’angoscia, la paura. «Non per me, ma per Sabrina, sarà distrutta quando lo saprà». Ha passato le ultime ore da libera con la sorella Emma, asserragliata in casa con fuori cento telecamere pronte a riprendere le manette. Sciacalli e iene in cerca di carogne. Così appena il suo avvocato Franco De Iaco le comunica che le cose stanno proprio così, che non ci sono più dubbi, lei decide di «consegnarsi». Usa proprio questo termine. «Vado io a Taranto, con la mia macchina, così risparmiano tempo e strada». E lo avrebbe fatto se l’avvocato non l’avesse trattenuta. Vuole farla finita Cosima con quella che definisce tortura: «Da giorni tutti parlano del mio arresto e io aspetto, ogni macchina che si ferma davanti a casa penso: “sono loro”. Adesso il tempo è arrivato. Non ho mai pensato di scappare, e poi dove potrei andare? Il mio posto è qui, nella mia casa con la mia famiglia». Anche se adesso quella famiglia non c’è più. Sabrina è in carcere, Michele anche. Valentina è a Roma che grida come un animale ferito quando le dicono cosa sta succedendo alla madre. «Perché, perché? Non ha fatto niente.. qualcuno deve ascoltarci, voglio parlare con il Presidente della Repubblica, con Berlusconi, con Bersani, tutti devono sapere quello che sta accadendo». Povera Valentina. Non sa che nel momento del bisogno nessuno ti aiuta, specialmente coloro che, sopravvalutati dal popolino, non sono capaci nemmeno di farlo o se ne fottono. Cosima al telefono tranquillizza Valentina, la sua pena è per le ragazze. «Tanto non mi cambierà molto in carcere, è da mesi che sono agli arresti domiciliari, non posso neanche tenere le tapparelle aperte che subito qualcuno mi fotografa, mi riprende».

Cosima parla con l’affanno, combatte con le emozioni, quelle che tanti che non la conoscono sostengono non provi. «Io sono sempre stata riservata, non è vero quello che scrivono che sono fredda. La mia vita è stata solo lavoro e famiglia, non sono abituata alle chiacchiere. Sono così addolorata che la gente mi giudichi senza conoscermi. Perché lo fanno? L’altro giorno una giornalista che non ho mai incontrato ha scritto che non provo emozioni per Sarah, che non le ho mai provate. Ma se io l’ho cresciuta quella bambina, la penso ogni giorno. Quando vado al cimitero non ho la forza di entrare, aspetto mia sorella in macchina per il dolore che provo. Ma ormai la gente ha deciso che sono una strega e vogliono bruciarmi, e per dare soddisfazione a tutti quelli che la pensano così adesso mi arrestano». Cosima è una donna pratica e in attesa dei carabinieri pensa alle cose da fare: «Devo mettere la macchina in casa, prendere i panni che ho steso, chiudere tutto». Parla lentamente Cosima, con le lacrime che si intuiscono dalla voce. Parla con Valentina che si dispera al telefono, così lontana, a Roma, impotente. «Non è giusto, non è giusto», grida. Cosima che cerca di tranquillizzarla. «A me fa male il dolore delle mie figlie, per me non importa». Cosima racconta di questi giorni incollata alla televisione ascoltando pezzo del suo futuro. «Dicevano che mi avrebbero arrestato, che avrebbero perquisito casa, e io pensavo: “Ma cosa devono cercare ancora”? Tutta questa gente che si ricorda cose non vere. C’è anche che ha detto che mi ha sognato mentre trascinavo via Sarah. Ma adesso i sogni sono prove? Me lo chiedo ma non mi arrabbio, tanto hanno deciso che sono colpevole e anche se uscirò per la gente continuerò ad esserlo. La gente non ragiona, vuole scaricare la cattiveria su qualcuno. Mi chiedono perché io difendo Sabrina e non Michele. E la risposta è facile: perché io quel giorno c’ero a casa e ho sentito le ragazze che si mettevano d’accordo per andare al mare, ho sentito lo squillo del messaggino e so che le cose che dice mia figlia sono vere. Non la difenderei mai se fosse colpevole. Io stessa la avrei portata dai carabinieri».

Cosima parla lasciando libero sfogo ai pensieri, sempre gli stessi che ogni giorno le affollano la mente. «Sono pronta», dice. «Forse è meglio che è successo perché aspettare che ti vengano a prendere giorno dopo giorno è una tortura». E la donna che si consegna al carcere, non è una sfinge, ma una mamma piena di dolore.

Nonostante ciò ti scontri con l’Avetrana che non ti aspetti.

La valvola che conteneva la rabbia degli avetranesi è esplosa quando Cosima Misseri è uscita dalla caserma dei carabinieri per essere trasferita in carcere con l’accusa di avere ucciso e soppresso il cadavere della nipote Sarah Scazzi in concorso con la figlia Sabrina, già in galera da sette mesi. Sputi, insulti, mani protratte per sfiorarla, toccarla, aggredirla. Parole di rabbia come «assassina», «maledetta», «devi marcire in galera», «Sarah vuole vendetta», rivolte alla donna che non si è scomposta mentre i carabinieri facevano fatica a proteggerla e strapparla alla folla stizzita, cattiva. Infine il lungo applauso di scherno quando l’auto con le sirene è allontanata dirigendosi a Taranto. Si sono viste anche le lacrime di donne sopraffatte dall’emozione e dalla tensione accumulata in tanti mesi di dubbi. Secondo Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria” del 27 maggio Tra la gente c’erano anche alcuni protagonisti della vicenda, la supertestimone Anna Pisanò, ad esempio, come anche Francesca, l’amichetta di Sarah e Virginia Coppola, la nuova fidanzata di Ivano Russo. Era presente anche Mariangela Spagnoletti, la testimone chiave dell’inchiesta, quella che sin da subito aveva fatto sollevare dubbi su Sabrina.

Alla domanda del Tg5 che le chiede se c'è giustizia per Sarah, Concetta replica: «La giustizia umana è inadempiente, purtroppo. Io spero sempre in quella divina, l'ho detto e lo ridico». Ma ora ci siamo? «Sotto certi aspetti sì, poi dobbiamo vedere in futuro», dice Concetta. Ma si aspettava che sua sorella Cosima la tradisse così? «No, per quale motivo mi deve tradire?», si domanda Concetta, che si fidava di Cosima «come una sorella». Ieri l'arresto, quelle terribili accuse di concorso in omicidio e soppressione di cadavere. E oggi, se avesse Cosima davanti cosa le direbbe Concetta? La risposta è secca: «Che è un'assassina».

Per spirito di verità bisogna dire che erano pochi i perditempo sbraitanti assiepati di fronte alla caserma dei carabinieri. Alcuni non erano nemmeno di Avetrana. Tutti, di certo, erano poco scolarizzati e, non per colpa loro, ignoranti di diritto. Facili prede dell’influenza mediatica, pronti a saltare da un carro all’altro. Identica claque festante di manifestanti di associazioni di sinistra che in Sicilia, nelle mediatiche occasioni, inneggiano alla cattura di noti mafiosi. Di tutti loro l’Avetrana onesta si vergogna. Mentre per Concetta c’è fraterna comprensione. Non una parola in più.

«Come possono degli adulti usare violenza e togliere la vita a una bambina? Cosa avrà pensato in quei momenti Sarah? Avrà gridato? A chi avrà chiesto aiuto? Ogni notte queste domande mi assalgono. Solo le belve umane possono ammazzare una ragazzina». Così Concetta Serrano Spagnolo intervistata il 28 maggio da Antonio Tondo della Gazzetta del Mezzogiorno.

Signora Concetta, c’è qualcuno che è stato leale e sincero in questa brutta storia?

Maria, la badante rumena, mi ha detto il primo giorno, dopo la scomparsa di Sarah: stai attenta Concetta, in questa vicenda è coinvolta Sabrina. Forse Sarah le aveva confidato qualcosa. Le ho risposto: stai zitta, stai sbagliando. Era assurdo pensare che Sabrina potesse tradire Sarah, che almeno a parole considerava una sorellina. Lei aveva una fiducia assoluta di Sabrina. Ricordo che nel nostro primo incontro disse: parli con Sabrina, lei sa più di me di Sarah. Sì, Sarah usciva con Sabrina. La casa di via Deledda era per lei una sorta di calamita. Mia figlia era convinta che l’amavano.

Nulla l’ha colpita? Mai ha avuto sospetti?

La sera della scomparsa di Sarah, Sabrina e Cosima vennero da me e mi dissero “apriamo il diario di Sarah, quello con il lucchetto, forse troveremo qualche pensiero utile”. Quella sera appresi la storia di Ivano e i sentimenti di Sarah nei confronti del giovane. Per me fu una sorpresa, Sabrina invece sminuì la cosa. Con il passare dei giorni, nella mia testa aumentava la confusione. Maria ritornava sui suoi pensieri. Lei era attentissima, osservava, ordinava parole e pensieri. Cosima e Sabrina la consideravano un pericolo per loro, tanto che mi dissero: Maria deve badare solo ad assistere zio Cosimo (il padre adottivo di Concetta, poi morto, ndr) e non deve impicciarsi. Il mio appello a indagare tra i parenti serviva a rompere il cerchio che mi stava soffocando. Sentivo che Sabrina nascondeva qualcosa, che a volte sviava l’attenzione, senza però pensare al peggio.

Quali sono stati i veri rapporti tra lei e le sue tre sorelle? E’ possibile che nessuna si sia schierata apertamente con lei?

Io ho vissuto da sola. Una volta adottata da Cosimo Spagnolo, sono cresciuta lontana da loro. Cosima, Emma e Dora sono state sempre unite tra di loro. Cosima e Sabrina sono gelose e invidiose per natura. Adesso addirittura me le vedo nemiche. I magistrati le indicano complici nel delitto. Mia sorella assassina, insieme alla figlia: scioccante, disumano e crudele.

Ed Emma, come si è comportata? L’abbiamo vista sempre in casa Misseri...

Emma qualche volta è venuta, poi sempre più raramente. Lei si atteggia in modo diverso. Mai un’espressione di vero dolore per la morte di Sarah. Da quando Sabrina è stata arrestata non è più venuta a casa mia. Ho perduto mia figlia e le mie sorelle non sono capaci di solidarietà autentica».

Forse c’entra la storia dell’eredità?

No, non credo proprio, sarebbe assurda una cosa del genere. Uccidere una bambina per soldi è fuori da ogni logica. Lei è cresciuta con un suo ordine interiore e con un relativo benessere, non ha fatto la bracciante, come Cosima. Forse il distacco è dovuto al fatto che le sue sorelle hanno sofferto la fame e hanno dovuto lavorare in campagna. È sufficiente questo per odiare e per arrivare ad usare violenza, fino alle conseguenze estreme, contro una bambina? Non credo. Come non credo che sia sufficiente la gelosia per spingere a gesti di male assoluto. A volte penso: forse Sarah era a conoscenza di storie, di relazioni o di episodi di degrado inconfessabili che hanno coinvolto Sabrina, forse Sabrina temeva che Sarah li rivelasse.

Concetta parla anche di Michele, «abituato a subire gli ordini, mai arrabbiato». «Michele non aveva motivi né per molestare né per uccidere». La mamma di Sarah sostiene che ciascuno deve pagare il suo conto con la giustizia in base al grado di colpevolezza. Certo, anche lui è un malvagio per aver sepolta Sarah in un pozzo. Il perdono? «Dio può perdonare. Ma il perdono arriva con il pentimento vero dei cuori. In questa storia, invece, ci sono solo bugie, reticenze, complicità nel male, mai una parola di pentimento».

Zia Cosima non nutriva sentimenti particolarmente benevoli nei confronti della nipote Sarah anche per una storia di eredità. Lo sostiene nell’ordinanza di custodia cautelare che ha portato in carcere Cosima Serrano ed ha aggravato la posizione della figlia Sabrina, il gip del tribunale di Taranto Martino Rosati. Il marito Michele, più volte nel corso degli interrogatori ha riferito che la moglie mal sopportava la costante presenza della ragazzina a casa loro.

«Sarah, con la sua ancora acerba ma crescente avvenenza - scrive Rosati -, era anche colei che stava creando non pochi problemi alla figlia Sabrina, peraltro in un contesto di esacerbati rapporti familiari». Sarah era la figlia di sua sorella Concetta, ovvero colei che, da piccola era stata data in adozione alla sorella del loro padre, la quale era sposata con un signore piuttosto benestante. La coppia non aveva avuto figli. «Tale adozione, pertanto, aveva determinato che, alla morte dei suoi genitori adottivi, Concetta ereditasse l’intero patrimonio, impedendo, con la sua presenza, la devoluzione quanto meno della quota legittima ai fratelli di Filomena Serrano e ai loro figli, tra cui anche Cosima».

«Questa, a differenza di Concetta - scrive Rosati -, aveva avuto una vita nient'affatto agiata, trascorsa a lavorare nei campi e lontana dal marito immigrato. Peraltro, come se tanto già non bastasse, Concetta, in quanto pur sempre figlia dei suoi genitori naturali, alla morte di questi ultimi, aveva concorso con i propri fratelli alla suddivisione pure di tale asse ereditario, benché non avesse prestato alcuna assistenza alla loro madre, a differenza di quanto compiuto dalle altre sorelle».

«Tutto questo - si legge nell'ordinanza - aveva determinato contrasti mai sopiti in famiglia, come si può desumere a rigore di logica, ma come, soprattutto risulta confermato dalle parole di Valentina Misseri nel corso di una sua conversazione telefonica intercettata durante le indagini: "..mia nonna stava male e non è venuta un giorno ad accudirla però quando ha diviso l'eredità si è presentata la prima"...».

Rosati sposa la tesi dei pm: «Cosima nel rapporto tra Sarah e Sabrina rivedeva un film già visto e per lei molto doloroso: ossia la replica del suo rapporto con la sorella Concetta».

Si è detto che l’uccisione di Sarah Scazzi ha suscitato una così morbosa attenzione nell’opinione pubblica nazionale per le corde profonde (l’adolescenza, la solitudine, la ricerca di affetto, la gelosia) che da sola è riuscita a toccare, ma per quanto atroce possa essere stato il delitto, oggi il suo epilogo lo supera di gran lunga.

Eppure c’è qualcosa che al solo pensiero suscita un’angoscia pari a quella per la morte di Sarah e per lo scoprire quanto le fossero vicini i suoi assassini: è il dubbio che Sabrina e Cosima possano essere le vittime di un errore giudiziario. Ecco perché nel saperle in cella con il loro carico di infamanti accuse, c’è da augurarsi che siano davvero colpevoli.

I dubbi sollevati sono condivisi il 28 maggio dal direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Carlo Bollino. E’ un processo indiziario questo, di pistole fumanti non se ne vedono e a ben guardare mancano anche in questa ultima ordinanza di custodia cautelare. Ricchissima di dettagli su quello che ragionevolmente sembra essere il movente del delitto (Sabrina non era soltanto gelosa di Sarah, ma ai suoi occhi era colpevole di averne tradito la fiducia, che è ancora più grave); convincente nell’elencare le contraddizioni di Sabrina; puntuale nel ricostruire lo scenario - anche logistico - nel quale il delitto si sarebbe compiuto; accurata nel ricostruire con credibili riscontri tecnologici le posizioni dei protagonisti prima e dopo il delitto; e infine apparentemente implacabile nel concludere che poichè Sarah Scazzi il pomeriggio del 26 agosto raggiunse casa Misseri viva e ne uscì morta, i colpevoli non possono che essere coloro che in quella casa si trovavano: cioè Michele, Sabrina e Cosima. Di indizi per sostenerlo ce ne sono a fiumi, ma poiché manca una prova definitiva e schiacciante, questo teorema rappresenta la sola Verità possibile? Basta dire: «È così perché non potrebbe essere altrimenti» per convincerci della colpevolezza dell’intera famiglia? E reggerà tutto questo alla verifica del processo?

C’è un dettaglio, cruciale e irrisolto, che continua ad impedire alla ricostruzione degli eventi fornita finora dai giudici di apparire totalmente convincente. E’ quello che viene indicato come l’astuto alibi che Sabrina Misseri avrebbe orchestrato dopo aver ucciso la cuginetta, cioè lo scambio di sms tra lei e il telefonino di Sarah che in quel momento si troverebbe ormai nelle sue mani. Immaginiamo la scena evocata dalla procura: è la controra del 26 agosto, l’omicidio è appena compiuto, il cadavere della ragazzina è ancora sul pavimento di casa e sta per essere trasportato nel garage (c’era la porta interna attraverso cui trasferirlo: ora è stato provato pure questo) e Sabrina fa scattare il piano. Tra le 14:25 e le 14:28 invia due messaggini a Sarah invitandola a raggiungerla con il costume da bagno per andare al mare. E poi, digitando sul telefonino della cuginetta, fa partire uno squillo verso il proprio cellulare: segnale convenuto con il quale Sabrina fa dire a Sarah «sono arrivata». Il primo dubbio è questo: quello che a parere degli inquirenti è un alibi, si poggia in realtà sul fatto che Mariangela per prima (alle 14:23) invia un sms a Sabrina dicendole di essere pronta ad andare in spiaggia. A quel punto Sabrina le chiede se può chiamare anche Sarah, e Mariangela risponde «ok». È solo in quel momento che partono i messaggini alla cugina. Ma che alibi avrebbe costruito Sabrina se Mariangela le avesse invece risposto «no», non invitare Sarah? E ancora: perché far partire quello squillo, certificando in questo modo l’arrivo della cuginetta sotto la propria abitazione? Non sarebbe stato più logico, al contrario, tentare di allontanarla dal luogo del delitto, facendo insomma credere che fosse stata rapita lungo il tragitto?

Si può ragionare sostenendo che le mosse di Sabrina furono dettate dalla confusione e dal panico (quindi nessun piano preordinato), e che in definitiva si sono rivelate un errore. Ma in assenza di prove schiaccianti (o di una confessione autentica e liberatrice), può altrettanto correttamente sostenersi che Sabrina non orchestrò proprio nulla, che quello scambio di chiamate con la cugina fu autentico, e che di conseguenza - a questo punto senza incertezze - lei e la madre sarebbero assolutamente innocenti. Perché indispensabile presupposto della loro responsabilità è che il delitto sia avvenuto prima di quell'ultimo squillo. Se invece Sarah era ancora viva alle 14:28 non possono averla assassinata loro per il semplice fatto che non ne avrebbero avuto il tempo.

È solo un dubbio dentro una miriade di indizi che invece depongono per la loro colpevolezza. Ma fino a quando questa ombra esiste si impone per tutti (inquirenti, giornalisti e opinione pubblica) cautela e rispetto. Quindi mai più applausi all’indirizzo degli arrestati, perché anche il solo immaginare Sabrina e Cosima innocenti in carcere è molto peggio che saperle assassine.

30 maggio. La scarcerazione di Michele Misseri. In 236 giorni un orco non si è trasformato in eroe. E forse nemmeno in innocente. Michele Misseri, otto mesi dopo il suo arresto, è tornato però a casa. Alle 19,15 ha varcato da uomo libero insieme con la figlia Valentina la villetta degli orrori di via Deledda dove secondo gli investigatori sua moglie Cosima e sua figlia Sabrina hanno ucciso Sarah Scazzi. A decidere la scarcerazione è stato il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto, Martino Rosati, che ha accolto le istanze della difesa di Misseri, ma anche quella della Procura. Misseri resta indagato per l'omicidio di Sarah (oltre che per il vilipendio e la soppressione del cadavere), ma secondo la Procura non esistono più i gravi indizi. Da qui il parere positivo alla scarcerazione. Il gip ha accolto la richiesta nel giro di poche ore, lasciandogli come unico obbligo quello della firma: dovrà presentarsi ogni pomeriggio alla caserme dei carabinieri per firmare la presenza.

«Mi dispiace per la mia famiglia se vanno... Io adesso li scoprirò... Cosa vogliono dire ... è andata così, che vogliono fare. Se uno non fosse voluto andare...». Il gip riporta questa frase, tratta dall’intercettazione ambientale disposta prima della confessione di Michele, per sostenere la tesi che l’uomo «abbia ricevuto per lo meno la richiesta, se non proprio l’ordine, di recarsi da qualche parte», cioé ad occuparsi «dell’immediato trasporto del povero corpo di Sarah lontano da casa». La custodia cautelare per quel capo d’accusa, così riformulato, è di 6 mesi. E i termini di custodia preventiva sono quindi scaduti.

Michele Misseri ha trovato casa come l'aveva lasciata, assaltata da fotografi, cameraman e giornalisti oltre a tanti curiosi che si sono lasciati andare anche a qualche applauso quando è sceso dall'auto. Tra gli altri c'erano anche due sorelle e una nipote, che lo hanno visto entrare in casa, ma non sono riusciti ad avvicinarlo. Dal carcere era andato a prenderlo la figlia Valentina arrivata da Roma, dove vive, all'alba. La ragazza era stata già nella prima mattinata in carcere a trovare Sabrina insieme con la zia Emma. Nel pomeriggio, a sorpresa, ha ricevuto la telefonata dei carabinieri, che le dicevano che Michele era stato scarcerato e che qualcuno avrebbe dovuto andarlo a prendere dal carcere. "È sempre mio padre" ha confessato Valentina agli amici. La ragazza è però convinta della colpevolezza del padre e dell'assoluta innocenza sia di sua madre Cosima, sia di sua sorella Sabrina. "In galera - ripete da giorni - ci sono due innocenti ed è assurdo che i magistrati continuino a non credere né a loro né a mio padre, che ora sta dicendo tutta la verità".

«Sono sconvolta - commenta da casa sua invece Concetta Serrano, la mamma di Sarah, su “La Repubblica”. - Non me l'aspettavo che Michele tornasse libero così presto e ora non so se sono pronta per esempio per incontrarlo. Se lo avessi davanti l'unica cosa che potrei dirgli è di dire tutta la verità, perché io sono convinta che in questa storia non è ancora stata detta tutta la verità».

Le prime emozioni nella casa di via Deledda non sono stati facili per zio Michele. Ha lo sguardo fisso e un po' perso, il corpo composto in quella camicia da cowboy di campagna che ormai è diventata il feticcio di questa storia. Guarda dritto e ripete con la voce ferma: «Sono stato io. Ho ucciso io Sarah. Hanno liberato un assassino mentre in carcere ci sono due innocenti». Michele Misseri è seduto nella cucina di casa sua, la stessa dove secondo gli inquirenti è stata uccisa Sarah.

«Sbagliano, i giudici sbagliano – ripete - Io ora sto dicendo la verità e se loro mi credono, io voglio dirla di nuovo, la verità». La verità è quella delle ultime lettere, secondo Michele: Sarah l'ha ammazzata lui nel garage. È stato un raptus, l'ha stretta con la corda del compressore. «Queste immagini del paese sono incredibili: ma come hanno fatto a trattare così Cosima? Perché hanno battuto le mani se arrestavano un innocente? - insiste l'agricoltore. - E poi mi dispiace per Sabrina. Anche lei non ha fatto niente ed è in galera per colpa mia: io ora vorrei chiederle perdono, il perdono di un padre che ha rovinato la vita della figlia. Perdono, Sabrina, perdono. Sono stato io, lei con la morte di Sarah non c'entra nulla».

Frasi ripetute ossessivamente, tanto che qualcuno nella tarda serata ha chiamato un'ambulanza del 118. Il personale medico ha consigliato una visita specialistica, Misseri nella notte è stato accompagnato all'ospedale di Taranto, ma la consulenza ha escluso patologie importanti. Poche ore dopo Misseri è stato riportato nella villa di via Deledda. Pare che le sue condizioni siano buone e che nei suoi confronti non fosse stato emesso il provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio, che sembrava fosse stato assunto dal sindaco di Avetrana per disporre il ricovero in ospedale.

Le circostanze che hanno portato al trasporto in ospedale e alle successive dimissioni di Michele Misseri dalla struttura sanitaria sono abbastanza oscure. A quanto si è saputo, al suo ritorno a casa, Misseri avrebbe parlato con qualche giornalista. Poi, secondo il racconto fatto dalla figlia Valentina, interpellata al riguardo, «sono venuti i medici del 118 dicendo di aver ricevuto una chiamata, ma io non ho chiamato nessuno. Michele stava bene - ha aggiunto Valentina - era meravigliato per essere uscito dal carcere e si è sfogato, ma stava benissimo». Valentina ha detto ancora di aver chiesto perché il padre venisse portato via e di aver ricevuto dai medici la risposta che era stato il sindaco di Avetrana a disporre con un'ordinanza il ricovero.

La scarcerazione di Misseri è arrivata nello stesso giorno in cui sia Cosima, sia Sabrina non hanno voluto rispondere alle domande del gip durante l'interrogatorio di garanzia. "In questo momento non era opportuno che rispondesse" hanno detto i legali di Cosima, che hanno già annunciato ricorso al tribunale del Riesame contro l'ordinanza di custodia, che ha portato in carcere la donna. Sulla stessa linea anche i legali di Sabrina: "A questo punto non c'era alcuna utilità processuale. Non avrebbe avuto alcun senso se avesse risposto" ha detto Nicola Marseglia, uno dei difensori di Sabrina insieme con il professor Franco Coppi.

Maria Corbi de “La Stampa” ha avuto un colloquio esclusivo con Michele nell’immediatezza della scarcerazione. Torna a casa Michele e guarda la foto che all’ingresso lo mostra con la figlia Valentina il giorno delle nozze. Papà orgoglioso. Adesso Valentina lo riporta a casa dopo 8 mesi di galera, 8 mesi di continue versioni sulla morte di sua nipote Sarah: sono stato io, no è stata Sabrina, forse è stato un gioco finito male, e poi ancora: sono stato io. Un altro padre. È spaesato quando entra e muove passi lenti nella sua casa, costruita pezzo a pezzo, col il sudore del lavoro in Germania e nei campi. Piange: «Non dovevo uscire io, ma Sabrina e Cosima che sono innocenti. Se le condannano la mia morte sarà sulla tomba di Sarah». Una vita senza macchie fino a quel giorno, come dice lui, che gli è «andata via la testa», «ho sentito un calore che dalle spalle è salito alla testa» e ha ucciso Sarah. Piange Michele ingrassato in cella «come quando stavo all’estero». «A chi non mi crede quando dico che non so cosa mi sia successo dico che le cose bisogna provarle». Hai fatto tu Michele, sicuro? «Si, tutto io, lo giuro sulle ossa di mia madre». Inizia da qui ancora una volta il racconto minuzioso della sua verità. Michele vuole partire da lontano, da maggio quando è esplosa la sua crisi personale e con Cosima, racconta di quando in campagna stava per tirargli una pietra. «Lei si sfogava con me, ma io mi tenevo tutto dentro. Quel maledetto 26 agosto io stavo arrabbiatissimo perché il trattore non partiva e pensavo che tutti ce l’avevano con me, gridavo e Sarah è venuta a vedere, questo ho pensato. Io gli ho detto vattene, ma lei mi doveva dire qualcosa, allora l’ho sollevata di peso, l’ho girata per cacciarla. E quando mi ha dato un calcio sono esploso, tutta la mia rabbia l’ho messa sopra di lei. Avevo una corda sul parafango del trattore e gliela ho girata due volte al collo. Sarah aveva il telefonino in mano ed è caduto aprendosi in due. Quando l’ho lasciata lei è caduta con il collo sul compressore e quando l’ho presa da terra aveva il collo storto». Non sa dire gli orari: «Non porto orologio, proprio non so dire gli orari».

Dalla sacca che ha portato dal carcere Michele tira fuori un fascio di fogli protocolli: «Qui c’è la verità», dice. È il suo memoriale che tiene stretto, dentro c’è anche il motivo che lo ha spinto ad accusare la figlia. «Adesso non posso dirlo, perché lo devo dire al giudice». Racconta però che solo due giorni dopo l’incidente probatorio si è reso conto che Sabrina sarebbe rimasta in carcere «tutta la vita» e non come gli avevano detto: «Che stavamo due anni tutti e due e poi uscivamo». «Ma da allora nessuno mi ha più voluto ascoltare. L’ho chiesto tante volte». Il memoriale Michele lo voleva dare alla procura: «Ma dopo che ho visto quello che hanno fatto con le lettere non l’ho più dato».

Michele mima con una corda come ha fatto a seppellire Sarah nel pozzo, dice che ha detto di averla violata perché l’aveva spogliata. Piange: «Io sono cosciente che devo tornare in carcere, perché so quello che ho fatto e devo pagare. Volevo ammazzarmi prima di andare in carcere con il veleno che usavo per pompare le olive. E adesso mi ammezzerei, ma non lo faccio perché ci sono due innocenti in carcere». Quando gli hanno detto che poteva uscire ha detto di avere paura. «Ho pianto». «Sicuri?». L’avvocato Francesco De Cristofaro gli ha spiegato che sono decorsi i termini di durata massima di custodia cautelare in carcere alla luce della nuova contestazione di reato, ossia la soppressione di cadavere. Rimane indagato anche per omicidio e vilipendio di cadavere, ma venendo meno i gravi indizi di reato, vengono attenuate le esigenze cautelari. A Misseri rimane l’obbligo di firma ai carabinieri ogni giorno tra le 17 e le 18. Per la procura Michele non è un assassino. «Sono stato io», ripete invece con sicurezza Michele. Piange quando pensa alle immagini dell’arresto di Cosima con i compaesani che esultavano e sputavano come lama. «E molti li ho anche riconosciuti. Non ci ho dormito la notte Perché? Perché?». Stesse domande che si è fatto quando ha visto la gente che lo ha applaudito come un eroe che torna dal fronte: «Non sanno quello che fanno, quelli non sono applausi, dovranno applaudire Sabrina e Cosima quando usciranno». Dice che non è vero che era trattato male a casa, che «gli avanzi li mangiavamo tutti» e che ha denunciato chi ha detto «che stava meglio in cella che in casa». E poi le lettere che secondo i pm sono state scritte sotto dettatura: «Nessuno mi ha detto di scriverle perché alla vigilia di Natale mi ero arrabbiato visto che nessuno mi credeva. Non sapevo nemmeno che a Sabrina potevo scrivere». Non porterà un fiore sulla tomba di Sarah perché non se la sente Michele: «Volevo suicidarmi su quella tomba. Per me era come una figlia. Volevo tirarla fuori da quel pozzo perché due giorni dopo l’ho sognata che diceva “zio ho freddo”. Allora sono andato al pozzo, ho legato la corda a un ceppo per uscirla fuori, ma il pozzo era troppo stretto». Piange ancora Michele quando pensa a Sabrina: «Come potrò mai chiederle perdono?». Di Cosima dice: «La capirò se non vorrà più parlarmi, per colpa mia c’è andata di mezzo. E come lei anche mio fratello e mio nipote. Io ho fatto tutto da solo e cosa ci vuole a sollevare 40 chili, tanto pesava Sarah e a volte la sollevavo con una mano». Sei pentito Michele? «Sì sono pentito e ho già chiesto perdono a Dio, ma non so se me lo ha dato».

Gli strumenti di difesa. Gli interrogatori di garanzia?? Il 30 maggio 2011 si sono avvalsi del diritto di non rispondere: Sabrina Misseri, difesa dall’Avvocato Nicola Marseglia, e sua madre, Cosima Serrano, difesa dagli avvocati, Franco De Jaco e Luigi Rella, Presidente dell'Ordine degli Avvocati della Provincia di Lecce. Da notare che ci sono avvocati di Lecce, De Jaco e Rella, e ancor prima la Francesca Conte per Sabrina. Avvocati extra Foro per dare garanzia di affidabilità. Si ignora che ci sono sempre i rapporti stretti tra avvocati e magistrati di Taranto, Lecce e Brindisi. Il legame stretto che li lega è proprio l’esame di abilitazione forense che si tiene a Lecce e che abilita tutti gli avvocati dei tre Fori. Esame che varie inchieste inducono a dubitarne la legalità e i cui commissari sono gli stessi avvocati e magistrati.

Le due donne non hanno proferito parola dopo che il Gip Martino Rosati le ha interrogate successivamente alla sua ordinanza di custodia cautelare in carcere, motivata con oltre 90 pagine, da cui traspariva la sua piena convinzione della colpevolezza di entrambe.

Comunque bene hanno fatto a stare zitte ed ecco il perchè.

In Italia ogni giorno c’è un innocente che viene incolpato ingiustamente ed un colpevole che riesce a farla franca. E’ in questo dilemma che si opera. In virtù di esso, chi conosce bene la Giustizia in Italia, è abituato a conoscere l’uomo nei momenti più tristi della sua vita: o perché è accusato di aver commesso un crimine o perché lo ha subito. In entrambi i casi, l’uomo della strada deve difendersi in giudizio e quindi si prepara ad andare incontro al calvario giudiziario, che comporta il rischio di un crollo non solo economico, ma anche sociale, familiare e psicologico.
Quanti dicono: “Se sei innocente non hai nulla da temere” sono, a dir poco, ingenui o ignoranti, se non addirittura in malafede, perché la realtà nei nostri tribunali è ben diversa, posto che non basta avere ragione, ma occorre ottenerla. Sorprende l’incredulità o l’indifferenza di quei politici che prima fanno compiere la riforma del codice penale e di procedura penale ai penalisti, senza il supporto di veri esperti, e poi s’indignano quando le storture della procedura penale li colpisce direttamente o da vicino. Consideriamo un attimo lo strumento tecnico del cosiddetto “interrogatorio di garanzia” davanti al Gip (ma un’analoga riflessione la possiamo fare, ancor prima, tra l’avviso di garanzia e l’interrogatorio davanti al Pm). L’arresto in flagranza  o il fermo, tecnicamente misure temporanee e precautelari, sono richieste dalla Pg e dal Pm e convalidate dal Gip, ovvero la custodia cautelare è disposta dal Gip su richiesta del Pm. Per questi istituti fa seguito il cosiddetto “interrogatorio di garanzia”, ma garanzia di cosa? Per chi?

L’arresto è la cosa più grave che può capitare ad una persona, perché lo priva della sua libertà personale e gli fa crollare addosso, in un attimo, tutte le certezze di una vita. Ora, una riforma penale dotata di senso umanitario e disposta secondo una giustizia amministrata in conto del popolo (non solo in nome), disporrebbe l’interrogatorio di garanzia prima dell’arresto, non dopo. Difatti, se il Gip dispone l’arresto oggi, ben motivandolo a pena di invalidità, come può il giorno dopo fare marcia indietro? Non sarà invece psicologicamente interessato (perché predisposto, anche in perfetta buona fede) a cogliere di più gli elementi di colpevolezza che quelli d’innocenza?

Il risultato di chi entra dal Gip con una situazione penalmente rilevante e ne esce con un aggravio di responsabilità (secondo il Gip, ovviamente), può essere causato: uno, dal meccanismo bizzarro dell’interrogatorio di garanzia, come suddetto; due, dalla psicologia del reo, ove questi non è consapevole (anche in buona fede) che determinate condotte corrispondono a determinate fattispecie di reato; tre, dalla “devastazione psicologica” del reo, il quale, tratto in arresto e finito sulla gogna mediatica deve fare i conti con lo stigma della colpevolezza (anziché dell’innocenza) fino a prova contraria. Per la persona accusata ingiustamente di un crimine, non contano tanto i provvedimenti giudiziari (se pur gravi e devastanti), quanto il fatto che nessuno sembra più disposto a credergli, da qui il rischio psicopatologico che col tempo tende ad accettare lo stigma della colpevolezza (ed a comportarsi di conseguenza), pur essendo innocente. Questo fattore trae in inganno molti periti psichiatri e giudici, se non sono esperti di criminologia. Togliere la credibilità al reo è il principale indizio del complotto. Ora, capita spesso che una persona quando è raggiunta da un avviso di garanzia grida al complotto; ma chiunque volesse incastrarlo, come primo atto, farebbe di tutto per togliergli l’attendibilità anche e, soprattutto, sui giornali, con articoli telecomandati. E così è successo!!

1 luglio. Inchiesta chiusa, quindici gli indagati…., anzi di più!!! Notificati gli avvisi di conclusioni delle indagini a 15 persone. Michele Misseri, 57 anni, Cosima Serrano, 56 anni, Sabrina Misseri, 23 anni, Carmine Misseri, 55 anni, Cosimo Cosma, 43 anni, Gianluca Mongelli, avvocato di 38 anni, Vito J. Russo, avvocato di 38 anni, Emilia Velletri, avvocato di 41 anni, tutti di Taranto, gli ultimi due ex legali di Sabrina. E ancora, Giovanni Buccolieri, 40 anni, il fioraio di Avetrana, Anna Scredo, 39 anni, Antonio Colazzo, 39 anni, cognati del fioraio e residenti a Parma (indagati per favoreggiamento personale), Cosima Prudenzano, 50 anni, suocera del fioraio, Francesco De Cristofaro, 45 anni, avvocato romano di Michele Misseri, Giuseppe Nigro, 37 anni, amico del fioraio, e Michele Galasso, 36 anni, parente del fioraio, entrambi di Avetrana. Per la procura, Cosima e Sabrina le assassine: il delitto sarebbe stato compiuto nell'auto della zia. Michele Misseri imputato solo di occultamento di cadavere. Di seguito l’articolo di Mario Diliberto Foschini su "La Repubblica", abbastanza diffamatorio, menzoniero e razzista. Questo la dice lunga sulla professionalità dei giornalisti, che, se e quando ad Avetrana sono venuti, hanno trovato quell’ospitalità, che a Brembate, per esempio, gli è stata giustamente negata. Quei giornalisti, megafono della procura di Taranto e strumento di depistaggio dei protagonisti della vicenda, che hanno pensato bene di mai intervistare il dr Antonio Giangrande, del posto, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, esperto di questioni giudiziarie e in particolare del Foro di Taranto, che bene avrebbe spiegato il modus operandi dei magistrati di Taranto, dati i precedenti. “Quindici indagati, due assassine e una nuova scena del delitto. Sarah Scazzi è stata ammazzata in auto, trascinata da sua zia Cosima e da sua cugina Sabrina. In tanti hanno visto ma nessuno ha raccontato. E quando un uomo - il fioraio Giovanni Buccolieri - ha provato a dire la verità, ha subito ritrattato raccontando che si trattava soltanto di un sogno ottenendo la copertura della sua famiglia e di mezzo paese. Per la procura di Taranto, però, sono finite ufficialmente le indagini sul caso di Sarah. La prossima tappa sarà il processo. La ricostruzione finale è questa: Sarah è stata uccisa da Cosima e Sabrina. Lo zio Michele Misseri ha occultato il cadavere, aiutato da suo fratello Carmine e da suo nipote Cosimo Cosma. Le indagini sono state lunghe e difficili perché ci sono stati tanti silenzi e troppi depistaggi: è quelli che avrebbero provato a fare gli avvocati Vito Russo (il primo legale di Sabrina) e Gianluca Mongelli, facendo pressioni sul fratello di Michele Misseri perché cambiasse legale. Oppure Emilia Velletri, l'altro avvocato di Sabrina, che avrebbe contribuito a distruggere un verbale di Ivano Russo acquisito in sede di indagini difensive. C'è poi il ruolo di Francesco de Cristofaro, il nuovo avvocato di Michele Misseri, accusato sostanzialmente di infedele patrocinio, perché avrebbe spinto Misseri ad accusarsi di un reato (l'omicidio di Sarah), che in realtà non aveva commesso. C'è poi l'incredibile storia dei vicini e dell'omertà. Uno, il fioraio Giovanni Buccolieri, avrebbe visto quella mattina Cosima e Sabrina trascinare Sarah in auto e avrebbe taciuto la circostanza per mesi agli investigatori. Poi gli è sfuggita in un colloquio informale e quando è stato richiamato per metterla a verbale, ha raccontato che si trattava di un sogno. "Una bugia" dicono gli investigatori, che si è sviluppata anche grazie alle complicità offerte all'uomo da amici e parenti: Anna Scredo, Antonio Colazzo, Cosima Prudenzano, Giuseppe Nigro e Michele Galasso sono tutti indagati per averlo coperto.”

Invece questo è il resoconto reale estrapolato dall’atto giudiziario. Sarah Scazzi fu rapita da sua zia Cosima Serrano e Sabrina Misseri e fu strangolata nell’abitazione di via Deledda con una cintura. Lo scrivono il procuratore aggiunto Pietro Argentino e il sostituto Mariano Buccoliero nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato ai 15 indagati nell’inchiesta sul delitto di Avetrana.

Mesi e mesi di lavoro investigativo, fatto spesso in salita alla luce degli innumerevoli tentativi di depistaggio, sono serviti agli inquirenti per fare luce su un omicidio che ha attirato su Avetrana i riflettori mediatici di mezza Italia.

A Sabrina Misseri, in carcere dal 15 ottobre, e a sua madre Cosima, in cella dal 26 maggio scorso, sono contestati, come detto, il concorso nel sequestro di persona e il concorso in omicidio, un delitto che secondo gli inquirenti sarebbe stato determinato da un sentimento di odio e vendetta comune, scaturito da ragioni di gelosia, invidia, tradimento e dal fatto che Sarah aveva reso di pubblico dominio l’esistenza di un rapporto sentimentale e sessuale tra Sabrina e Ivano Russo.

Sono cinque gli indagati per la soppressione del cadavere delle 15enne: si tratta di Sabrina e Cosima che avrebbero ordinato a Michele Misseri di trasferire il cadavere con la sua Seat Marbella nel terreno di contrada Mosca dove si trova il pozzo-cisterno nel quale il corpo sarebbe stato calato con l’aiuto di Carmine Misseri e Cosimo Cosma, rispettivamente fratello e nipote di Michele Misseri.

Al solo Michele Misseri, che, lo ricordiamo, è stato in carcere dal 7 ottobre al 30 maggio con l’accusa di omicidio ora rubricata soltanto alla moglie e alla figlia, ora invece viene contestato il danneggiamento per aver distrutto, incendiandoli, i vestiti e lo zainetto della nipote Sarah. In concorso con Sabrina e Cosima, invece, Michele risponde di furto aggravato per l’impossesamento del cellulare di Sarah.

Esaurita la parte che riguarda direttamente la commissione del delitto, i magistrati inquirenti passano poi in rassegna la lunga teoria di depistaggi che ha contrassegnato l’indagine. Sabrina Misseri è indagata per calunnia per aver accusato, pur sapendola innocente, la badante rumena della famiglia Scazzi Maria Ecaterina Pantir, in un interrogatorio reso l’8 settembre del 2010.

Indagati per tentato favoreggiamento sono gli avvocati Vito Russo e Gianluca Mongelli che, in concorso con Valentina Misseri (non punibile in quanto avrebbe agito per favorire suoi parenti) avrebbe cercato di favorire Sabrina Misseri, difesa all’epoca dei fatti da Vito Russo e da sua moglie Emilia Velletri, portando a Carmine Misseri, fratello di Michele, il testo di un telegramma da inviare in carcere a Michele per invitarlo a nominare quale suo difensore di fiducia, per far decadere l’avvocato d’ufficio, giacché tanto era necessario per «aiutare Michele e anche per aiutare Sabrina». Il telegramma fu in effetti inviato ma il tentativo fallì perché Michele Misseri non effettuò la nomina che gli era stata suggerita.

L’avvocato Vito Russo è indagato anche per subornazione di testi perché, usando minaccia nei confronti di Ivano Russo, avrebbe cercato prima di indurlo a riferire falsamente, in un verbale redatto nell’ambito di indagini difensive, che anche Mariangela Spagnoletti, teste contro Sabrina, era innamorata di lui, e per favoreggiamento perché, avrebbe cercato di gettare discredito nei confronti della stessa Mariangela che aveva già rilasciato ai pubblici ministeri dichiarazioni rilevanti a carico di Sabrina Misseri. In concorso con la moglie Emilia Velletri, infine, Vito Russo è indagato anche per soppressione di atti veri in quanto avrebbe strappato il verbale e cancellato il relativo audio di alcune dichiarazioni rilasciate da Ivano Russo nel corso dell’interrogatorio reso loro il 31 ottobre del 2010 nell’ambito delle indagini difensive. C’è poi un altro avvocato finito nei guai ed è il professionista romano Francesco De Cristofaro, legale di Michele Misseri, indagato per infedele patrocinio perché avrebbe arrecato nocumento agli interessi della parte da lui difesa facendo pervenire lo scorso 9 febbraio alla Procura una lettera con la quale Misseri tornava ad accusarsi dell’omicidio. De Cristofaro avrebbe poi consigliato al suo cliente, per essere più credibile, di confermare di aver abusato del cadavere della nipote: «Pure che non c’è stata violenza, tu hai detto che è stata violentata...che l’ha fatta eh...nuda; devi dire lo stesso - si legge nell’avviso - e poi quando dicono perché hai detto così e poi dopo non l’hai detto più? Che me lo ha detto l’avvocato e la criminologa; di non dirlo più che non è vero».

Nell’elenco degli indagati c’è poi il fioraio di Avetrana Giovanni Buccolieri, indagato per false dichiarazioni al pubblico ministero, e cinque tra suoi parenti (la suocera Cosima Prudenzano, la cognata Anna Scredo, il cognato Antonio Colazzo) e conoscenti (Giuseppe Nigro e Michele Galasso) che avrebbero avallato la tesi del sogno riguardo a quanto visto da Buccolieri il pomeriggio del 26 agosto: Sarah che viene costretta a salire sull’auto di Cosima.

I 15 indagati sono difesi dagli avvocati Francesco De Cristofaro, Massimo Saracino, Francesco De Jaco, Luigi Rella, Franco Coppi, Nicola Marseglia, Lorenzo Bullo, Franz Pesare, Raffaele e Serena Missere, Antonio Raffo, Gianluca Pierotti, Giovanni Scarciglia.

Questi si contrapporranno a agli avvocati delle parti civili. Per la famigli Scazzi la parte civile sarà rappresentata dagli avvocati Valter Biscotti e Nicodemo Gentile. Per il Comune di Avetrana la parte civile sarà rappresentata al processo dall'avvocato Pasquale Corleto del foro di Lecce.

Ed ancora sono apparsi in scena Mariangela Spagnoletti ed Ivano Russo, rappresentati dall'avv. Enzo Tarantino.

Un grande circo. Tutti insieme per godere delle luci della ribalta. Ma a spese di chi ....?

A questi si aggiungono altri indagati. Hanno ricevuto un avviso di garanzia per concorso in falso la deputata del PdL Melania Rizzoli e la giornalista di "Libero" Cristiana Lodi. L’accusa è di essere penetrate in maniera fraudolenta nel carcere in cui si trovava detenuto lo zio di Sarah, Michele Misseri, per un colloquio che sarebbe poi diventato un’intervista non autorizzata. Una vera e propria frode, appunto, con la deputata che usufruisce dei suoi diritti di ispezione alle carceri per entrare nella casa circondariale, portandosi appresso la giornalista del quotidiano di Maurizio Belpietro, presentandola come una sua collaboratrice; in realtà, la Lodi era lì per ascoltare il colloquio fra la Rizzoli e Misseri, trasformandolo in un’intervista mai concessa e però regolarmente pubblicata su Libero del 15 febbraio 2011.

Inoltre, la notizia del rinvio a giudizio della giornalista di Matrix, Ilaria Cavo e dell’ex consulente della difesa di Sabrina, Raffaele Calabrese (saranno processati il 6 dicembre 2011), implicati in una compravendita di foto del garage di via Deledda trasmesse poi da Matrix.

Ancora c’è la posizione del funzionario di banca Milizia Angelo Carmelo della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana querelato da Cosima Serrano per la questione della firma sull’assegno versato in banca.

Una querela di Cosima Serrano per diffamazione nei confronti della giornalista Mariella Boerci e della società editrice “Anordest”, che ha pubblicato il libro della Boerci “La bambina di Avetrana” inerente all’inchiesta sull’omicidio di Sarah Scazzi. Cosima Serrano ha querelato anche la madre e la cognata di Cosimo Cosma, nipote di zio Michele, per le dichiarazioni rese in due interviste mandate in onda a 'Porta a Porta'. Ecc. ecc..

L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica.

Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".

C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona".

Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.

In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti".

Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura".

Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini".

Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.

Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella. 

29 agosto. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?».

«La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».

Capelli ordinati tagliati da poco, viso rasato e lucido, occhiali con montatura dorata e una spavalda t-shirt modello marinaro a righe orizzontali bianche e nocciola. Così si è presentato Michele Misseri all’appuntamento con la moglie Cosima e la figlia Sabrina che nell’aula delle udienze preliminari, dall’angolo riservato agli imputati reclusi, non lo hanno degnato di un sorriso sbirciandosi di sottecchi a vicenda. Michele ad un certo punto ha avuto uno slancio tentando di avvicinarsi alle due donne separate dal vetro, ma gli agenti di scorta glielo hanno impedito. Pessima è stata anche l’accoglienza del gruppo di curiosi che lo attendeva all’ingresso del palazzo di giustizia e che non gli ha riservato certo parole dolci. «Non parlare che è meglio e fatti chiudere buttando la chiave», urlava un signore distinto mentre zio Michele scompariva schiacciato dalla morsa di giornalisti, fotografi e operatori televisivi che non gli lasciavano spazio.

Ancora più dura è stata l’accoglienza all’uscita del tribunale dove l’attesa e la calura di chi era venuto lì apposta aveva esasperato gli animi ed anche le frasi a lui indirizzate. Qui molte parole non sono ripetibili. «Devi fare la fine che hai fatto fare a Sarah», urlava un giovane condendo la frase con epiteti più colorati. Ancora peggio, ma tutte di questo tono, sono stati altri insulti che lo hanno inseguito sino alla macchina del suo avvocato.

«Michele si sente solo e abbandonato», fanno sapere le persone che lo frequentano. Di questo parlano le sette lettere che ha scritto alla figlia tra febbraio e agosto. Ieri gli avvocati di Sabrina le hanno depositate alla segreteria del GUP rendendole così consultabili tra gli atti del processo. «Tutti mi incitano ad accusare mia moglie e mia figlia, persino le forze dell’ordine», dice Michele in una delle ultime missive dove racconta dell’altarino dedicato alla nipote Sarah costruito nel garage. «Ho ritagliato da un giornale una foto di Sarah dove prego tutti i giorni visto che al cimitero non posso andare», fa sapere alla figlia a cui continua a chiedere perdono per quello che ha fatto. «Sono stato un mostro – scrive – ma adesso non è colpa mia se nessuno mi crede che sono stato io».

In un’altra lettera il contadino esprime l’amarezza perché nessuno lo vorrebbe difendere: «Anche gli avvocati hanno paura». Infine il dispiacere per ciò che ha fatto: «Mi hanno portato dove volevano loro perché sono un debole». Non tutte le lettere hanno un tono di scuse. Altre parlano semplicemente come può parlare un padre che scrive alla figlia lontana. Racconta ad esempio del sussidio di disoccupazione «che è finalmente arrivato», oppure la informa sul precario stato di salute di un parente stretto che ha paura di perdere. La parte che più interessa ai difensori di Sabrina è ovviamente quella in cui Misseri si autoaccusa scagionando la figlia.

Nell'udienza mamma Concetta, papà Giacomo e il fratello Claudio, parenti diretti della vittima, si sono costituiti parti civili chiedendo risarcimenti milionari a ciascun imputato. Il collegio difensivo delle parti civili ha chiesto complessivamente 33 milioni di euro con provvisionale di 300mila euro. La maggior parte delle richieste (27 milioni) è a carico dei tre imputati principali, quote minori (sei milioni) sono stati chieste agli altri due imputati di concorso in soppressione di cadavere e cioè il fratello di Michele, Carmine Misseri e il nipote Cosimo Cosma, detto Mimino. Dei cinque, solo Carmine mancava all'udienza di stamane.

In aula per la prima volta la famiglia si è ritrovata al completo. Da un lato, dietro un vetro, c'erano Sabrina Misseri e Cosima Serrano, arrivate insieme a bordo di un blindato della polizia penitenziaria, dall'altro invece c'era Concetta. Seduto al banco degli imputati zio Michele Misseri. È stato lui il primo ad arrivare in Tribunale questa mattina alle 9.20 scortato dai carabinieri. Ad attenderlo però c'era una folla di curiosi. "Dì la verità" gli hanno gridato i cittadini arrivati appositamente in via Marche, dove si trova il Tribunale, per veder sfilare i protagonisti del delitto Scazzi.

Mamma Concetta, maglia rosa e pinocchietto blu, ha preferito l'ingresso secondario per evitare le telecamere. Nel corso dell'udienza Sabrina ha cercato con lo sguardo il papà. I quattro dopo mesi si sono ritrovati tutti insieme in pochi metri quadrati. Michele ha provato ad avvicinarsi alla moglie e alla figlia ma è stato fermato dagli agenti di polizia penitenziaria. Gli imputati nel processo, per il quale il 29 luglio è stata formulata la richiesta di rinvio a giudizio da parte del pm Mariana Buccoliero, sono in tutto 13.

Michele cerca con lo sguardo la figlia Sabrina nella piccola stanza dove si svolge l’udienza preliminare. Sono separati da un vetro, lei è in jeans e maglietta bianca, molto dimagrita, la faccia pallida. Avrebbe voluto guardare il padre negli occhi e chiedergli: «Perché mi hai accusato falsamente?». E gridare la sua innocenza alla zia Concetta. Ma la richiesta dei suoi avvocati di rimessione del processo ad altra sede congela tutto, rimanda anche le dichiarazioni spontanee. Michele Misseri e la figlia non si vedevano dal 5 ottobre scorso. «Non è Sabrina», dice il padre. «Non la riconosco, ha il volto cambiato, è diversa per colpa mia», Piange Michele e va a nascondersi dietro a una colonna per non farsi vedere. Poi torna di nuovo a cercare i volti delle sue donne, di sua moglie Cosima che è impietrita, una maschera di dolore, della sua bambina. «Era lei che mi proteggeva sempre, che stava dalla mia parte, una brava ragazza. Cosa le ho fatto?». Michele sembra non reggere questa emozione. A pochi passi da lui c’è sua cognata Concetta, il cognato Giacomo, il nipote Claudio. Ma non gli parla. Eppure voleva chiedere perdono. «Volevo inginocchiarmi davanti a loro, ma poi quando tutti mi hanno aggredito qui in Tribunale, gridandomi e insultandomi, non ce l’ho fatta più. Il 26 agosto ho visto Giacomo davanti al mio garage in lacrime e anche io mi sono messo a piangere».

I legali della figlia depositano le ultime lettere che lui le ha scritto in cui ancora una volta riafferma di essere l’unico colpevole, come ricorda il professor Coppi. E Claudio, il fratello di Sarah si rivolge allo zio. «Mi ha detto “allora siamo a posto è tutto finito”», ricorda Michele. «Ma io non gli ho risposto, la verità ho detto, solo la verità, prima quando accusavo Sabrina dicevo bugie. Ma io ai medici, allo psichiatra non ho mai cambiato versione, sempre ho detto che sono stato solo io».

Quando il Gup interrompe l’udienza per decidere se sospenderla fino al pronunciamento della Cassazione sulla richiesta della difesa che vuole il processo in altra sede, Michele tenta di nuovo di avvicinarsi alla piccola stanza dove sono Cosima e Sabrina. «Non mi hanno permesso di andare, volevo abbracciarle. Ho potuto salutare con la mano Cosima ma non credo che Sabrina mi abbia visto e comunque so che mi odia e ha ragione. Come può perdonarmi per quello che le ho fatto? Lei è innocente e sta dentro, io colpevole sono fuori. E’ così lo giuro sulle ossa di mia madre».

E’ stata una lunga notte quella prima dell’udienza preliminare per Michele Misseri. «Non ho dormito e alle due di notte sono sceso in garage a pregare e a piangere. Ho costruito un altare per Sarah». Michele scende in quell’antro dove tutto è accaduto e mostra una bacheca di legno alla parete, di fronte al trattore rosso, con al centro una fotografia di Sarah. «L’ho ritagliata dal giornale, perché non ne ho trovate altre. Li, su una mensolina ha anche il libro delle preghiere e gli occhiali. Un piccolo rosario è appeso accanto alle immagini della nipote e della madonna del Rosario. «Questa notte ho pregato Sarah di fare un miracolo, di fare capire ai magistrati che dico la verità, che il colpevole è fuori». Michele racconta a Maria Corbi del “La Stampa” che qualche notte prima quando ha guardato l’immagine della nipote gli occhi si sono mossi. «Lei è ancora qua sotto, perché le anime non battezzate rimangono dove sono morte finché non è arrivata la loro ora». Misseri ricorda ancora una volta quel giorno maledetto: «Ero nervoso perché il trattore non partiva. Quando Sarah è scesa l’ho presa per le spalle e l’ho spostata. Lei mi ha dato un calcio forte dove agli uomini fa più male e io non ci ho visto più e le ho buttato la corda al collo».

Michele non vuole tornare a casa sua assediata dalla gente e dai giornalisti. Ha «fortificato» il portone, innalzandolo e mettendo delle tende, ma non basta. «Mi lanciano oggetti, l’altro giorno una tanica piena di un liquido strano, pietre grosse che possono uccidere. Le vedi? Stanno ancora là, voglio che le vedano i carabinieri. Gli avetranesi mi odiano perché vogliono che io accusi Sabrina, ma non lo posso fare perché è innocente. Se fosse stata colpevole non l’avrei mai coperta. Io non ero lucido quando ho detto quelle cose e si sono approfittati della mia debolezza».

Michele è solo: «Solo mia figlia Valentina ho. E di 8 fratelli solo uno me ne è rimasto, Salvatore, che non mi ha abbandonato. Per fortuna ci sono i gatti che mi fanno compagnia. Io sono abituato a lavorare e faccio tutto da solo, ogni giorno mi lavo i vestiti dei campi per rimetterli il giorno dopo. Non dovrei stare qui, ma in carcere. E invece ci sono due innocenti. Mi vorrei ammazzare ma non posso perché farei un altro guaio. In carcere gli agenti mi dicevano che non dovevo fare sciocchezze se veramente ero solo io il colpevole perché avevo il dovere di salvare mia figlia. E io cerco di farlo. Ma non mi credono».

Vengono alla luce una nuova lettera che Michele Misseri ha scritto il 10 agosto 2011 alla figlia Sabrina. Righe che sono state rese pubbliche nell'udienza preliminare di oggi e pubblicate in esclusiva dal Tgcom. “Cara Sabrina, sono io che ti scrivo, Papà”, così il contadino di Avetrana si rivolge alla figlia, continuando poi ad ad autoaccusarsi dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi: “Sto vivendo tristemente. Il diario che sto scrivendo si intitola proprio così ed è il mio diario della tristezza. Sto sempre male perché voi non centrate proprio niente, però io, in quei giorni che ti ho incriminato, ero troppo debole. Il mio legale per me non era un avvocato, ma un giudice. Mi hanno portato dove hanno voluto loro. A me dispiace per quello che ti ho fatto, lo so che ho sbagliato e solo adesso mi rendo conto di quello che ho fatto. Adesso sono diventato molto aggressivo, mi viene da dare le botte a tutti i turisti, che, ogni volta che devo uscire, sono come le formiche che escono da tutte le parti. L’ho detto ai carabinieri ma non fanno proprio niente. Anche loro sono contro di me. Sono preoccupato per il 26 agosto. Perché sicuramente verranno turisti e giornalisti e non potrò uscire di casa, come quando devo andare in caserma. Tanti saluti da papà. Io non mi sento più papà”.

L'ultima mossa per evitare che il rinvio a giudizio di Sabrina Misseri venga deciso in un ambiente nel quale «l'abnorme interesse mediatico» per la vicenda ha contribuito a generare «un pesantissimo condizionamento e inquinamento dell'attività inquirente e giurisdizionale»: è quella che hanno tirato fuori i difensori di Sabrina, gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia, nella prima udienza preliminare per l'omicidio di Sarah Scazzi, a poco più di un anno dal delitto. Una richiesta di rimessione per incompatibilità ambientale, con immediata sospensione del processo in corso, che i due legali hanno depositato sul tavolo del gup del Tribunale di Taranto Pompeo Carriere. Il giudice l'ha accolta, ha sospeso l'udienza rinviandola al 10 ottobre ed ha disposto, come da legge, la trasmissione della richiesta alla Cassazione. Sarà la Suprema Corte a decidere se Taranto non è la sede giudiziaria adatta per affrontare serenamente il processo per l'uccisione di Sarah.

Automaticamente, con il deposito della richiesta di rimessione, sono sospesi i termini di custodia cautelare e di prescrizione sino alla decisione della Cassazione. Sabrina, dunque, almeno per ora non tornerà in libertà; per lei i termini di custodia cautelare sarebbero scaduti il 14 ottobre prossimo. È durata un paio d'ore la prima udienza preliminare nella piccola aula al piano terra del Palazzo di giustizia, assediata da giornalisti, fotografi e cameramen ma anche dagli immancabili curiosi. Non tutti i 13 imputati erano presenti, ma i protagonisti dell'inchiesta sì. Tra i primi ad arrivare Michele Misseri, che ha affrontato la ressa passando per l'ingresso principale, accompagnato a braccio dal suo legale, Armando Amendolito; e suo nipote Cosimo Cosma, anche lui insieme al difensore, Raffaele Missere. Tra gli ultimi ad entrare in aula la famiglia Scazzi (Giacomo, la moglie Concetta e il loro figlio Claudio) e le due principali imputate e uniche detenute, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, accusate del delitto. 

La famiglia Scazzi e le due detenute sono arrivate in tempi diversi da un corridoio secondario: così è stata evitata la ressa mediatica. In aula la famiglia Scazzi si è costituita parte civile attraverso i suoi legali (gli avvocati Walter Biscotti e Nicodemo Gentile) depositando una richiesta di risarcimento danni di 33 milioni di euro, con provvisionale di 300mila euro: 27 milioni nei confronti della famiglia Misseri, altri sei nei riguardi di Carmine Misseri e Cosimo Cosma. Parte civile sarà anche l'ex badante romena di casa Scazzi, Maria Ecaterina Pantir (assistita dall'avv. Luigi Palmieri): la richiesta di risarcimento sarà quantificata in sede processuale. Pronte le memorie difensive dei legali di Cosma (Raffaele Missere) e Cosima (Franco De Jaco e Luigi Rella), ma non depositate perchè è arrivata la richiesta di rimessione di Coppi e Marseglia, alla quale si sono associati i legali di alcuni imputati. Il condizionamento dei media, hanno scritto i legali di Sabrina, è riferibile al Tribunale di Taranto «in ognuna delle sue componenti», ed è «talmente grave e radicato da non poter essere rimosso se non attraverso la rimessione del processo ad altra sede giudiziaria».

Coppi e Marseglia, nelle 31 pagine della richiesta, aggiungono che la prima confessione di Michele Misseri, quella in cui si accusava di tutto, dal delitto alla soppressione del cadavere di Sarah, era «pienamente lineare e perfettamente plausibile», ma è stata poi sovrastata «da un continuo e perverso scambio di umori della gente, chiacchiere di paese, fughe di notizie in merito alle indagini e incessanti commenti giornalistici su ogni particolare della vicenda» che ha finito con il diffondere la convinzione che Michele non avesse agito da solo. Tutto questo, sostengono i legali di Sabrina, ha avuto «imponenti ed immediati riflessi sull'andamento delle indagini e sulle decisioni di tutte le componenti del Tribunale di Taranto, che ne sono risultate condizionate in modo totale e assolutamente inaspettato». Sarà la Cassazione a stabilire se in questi 11 mesi di inchiesta è andata davvero così.

«Nessuno venga a dire che abbiamo chiesto la rimessione del processo per guadagnare tempo sulla custodia cautelare perchè per il codice l'istanza proposta comporta la sospensione dei termini di custodia cautelare e quindi, verosimilmente, la nostra assistita non potrà essere scarcerata a metà ottobre». Lo ha detto l'avv. Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri, commentando la richiesta avanzata al gup Pompeo Carriere di trasferimento del processo in altra sede per incompatibilità ambientale. «Sabrina - precisa il legale - rimane in cella fino a quando la Corte di Cassazione non deciderà. Solo dopo cominceranno a decorrere i termini, quindi non si possono fare dietrologie su questa iniziativa e non è possibile pensare di aver voluto sgraffignare 10-15 giorni per la scarcerazione». L'avv. Coppi ha parlato di «mancanza di libertà di determinazione delle parti». «Il giudice - ha proseguito - può essere serenissimo, bravo ed imparziale ma il problema è un altro. In che misura - si chiede il legale - le parti che partecipano a questo processo sono libere nella loro determinazione con una oppressione di opinione pubblica come quella che abbiamo registrato? Il problema è proprio la tenuta psicologica e nervosa di soggetti che dovranno rendere dichiarazioni e di coloro che dovranno prendere delle decisioni.

UN ANNO DI INDAGINI

Queste le tappe fondamentali dell'inchiesta relativa al sequestro e all'omicidio di Sarah Scazzi, che approda domani all'udienza preliminare:

26 AGOSTO 2010 - Sarah Scazzi, 15enne di Avetrana, esce da casa per andare al mare con la cugina Sabrina Misseri, che abita a 400 metri di distanza. Scompare nel nulla.

29 SETTEMBRE 2010 - Michele Misseri, padre di Sabrina e zio di Sarah, consegna ai carabinieri un telefonino semibruciato, che risulterà appartenere a Sarah, dicendo di averlo trovato in un podere nel quale stava lavorando nelle campagne di Avetrana.

6 OTTOBRE 2010 - Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna. 

15 OTTOBRE 2010 - In un colloquio in carcere con i magistrati inquirenti, Misseri chiama in correità la figlia Sabrina: lui l'ha strangolata mentre lei la teneva ferma. Nel pomeriggio Sabrina viene interrogata nella caserma dei carabinieri a Manduria: alle 23 scatta il fermo per concorso in omicidio e viene trasferita in carcere. 

19 NOVEMBRE 2010 - Nel carcere di Taranto si tiene l'incidente probatorio sulle dichiarazioni di Michele Misseri: l'uomo conferma le accuse alla figlia Sabrina, ma non parla di avances alla nipote e di vilipendo del cadavere.

VIGILIA DI NATALE 2010 - Michele Misseri scrive le prime due lettere di una lunga serie, scagionando di fatto la figlia e sostenendo che in carcere ci sono “innocenti”.

23 MARZO 2011 - In una lettera inviata al suo avvocato Francesco De Cristofaro e datata 9 febbraio 2011, Michele Misseri si accusa di nuovo del delitto. Dice di aver strangolato Sarah con una corda nel garage di casa durante un raptus scaturito dal fatto che non riusciva a far partire il suo trattore. 

19 MAGGIO 2011 - La Cassazione, su ricorso dei difensori di Sabrina, annulla con rinvio il provvedimento cautelare nei confronti della ragazza. Per i giudici Misseri è inattendibile (ha fornito sette versioni con dettagli diversi) e il movente della gelosia di Sabrina per Sarah non regge.

26 MAGGIO 2011 - Su ordinanza del gip del Tribunale di Taranto, i carabinieri arrestano Cosima Serrano, moglie di Michele e madre di Sabrina, per concorso in omicidio e sequestro di persona insieme alla figlia Sabrina, alla quale viene notificata in carcere un'altra ordinanza di custodia cautelare. 

30 MAGGIO 2011 - Michele Misseri viene scarcerato dal gip su richiesta della Procura. Il giudice gli impone solo l'obbligo quotidiano di firma nella caserma dei carabinieri ad Avetrana. Michele torna a casa con l'altra figlia, Valentina.

1 LUGLIO 2011 - I carabinieri notificano l'avviso di conclusione delle indagini preliminari a 15 indagati, tra i quali quattro avvocati. Per Cosima e Sabrina le accuse di concorso in omicidio e sequestro di persona, per Michele solo di soppressione del cadavere.

29 LUGLIO 2011 - La Procura chiede il rinvio a giudizio per 13 indagati. Cosima e Sabrina sono accusate di concorso in omicidio e sequestro di persona; Michele, insieme alle due donne, al fratello Carmine e al nipote Cosimo Cosma, della soppressione del cadavere. Stralciate, per motivi procedurali, le posizioni di un fioraio, Giovanni Buccolieri (che ha indicato il presunto sequestro in auto di Sarah, dicendo poi che era stato un sogno) e di un suo amico, accusati di false informazioni al pm.

3 AGOSTO 2011 - Il Tribunale dell'appello, esaminando l'annullamento con rinvio del primo provvedimento cautelare nei confronti di Sabrina disposto dalla Cassazione il 19 maggio, conferma la detenzione in carcere per la cugina di Sarah. Nell'ordinanza si giudica inattendibile la nuova autoaccusa di Michele Misseri.

4 AGOSTO 2011 - Il gup del Tribunale di Taranto Pompeo Carriere fissa per il 29 agosto l'udienza preliminare per l'omicidio, facendola precedere da un'ordinanza dichiarativa dell'urgenza del processo. Il 14 ottobre scadono infatti i termini di custodia cautelare (un anno) per Sabrina Misseri.

5 AGOSTO 2011 - Il Tribunale di Taranto accoglie l'appello della Procura che chiedeva di contestare a Cosima e Sabrina anche il reato di sequestro di persona, richiesta rigettata in prima battuta dal gip nell'ordinanza di custodia cautelare del 26 maggio. L'applicazione della decisione del Tribunale resta sospesa in attesa di un eventuale ricorso dei difensori in Cassazione.

29 AGOSTO 2011 –Viene presentata istanza di rimessione.

Riguardo alla richiesta di Rimessione per incompatibilità ambientale presentata ai sensi dell’art. 45 ss C.P.P. dalla difesa di Sabrina Misseri per il processo sul delitto di Sarah Scazzi, il Dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie, esperto di cose giuridiche e prassi giudiziaria tarantina e nazionale afferma: «Apprezzo la richiesta fatta dall’avv. Franco Coppi, che delinea bene la sua capacità e il suo coraggio, tenuto conto che nel Distretto di Lecce e Taranto ben pochi avvocati dimostrano tali doti. Lo dimostra anche il fatto che a Roma la Camera Penale è stata pronta a difendere il loro collega inquisito a Taranto, mentre il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ha pensato bene di non dire una parola a favore dei loro iscritti. A Taranto si parla di “Correttezza nei confronti degli “amici” magistrati”, a Roma, nei corridoi degli uffici giudiziari, si parla di “Codardia”. Bisogna tener presente che nel processo “Sebai, il killer delle 12 vecchiette” nessuno a Taranto ha avuto il coraggio di presentare rimessione per ben più gravi motivi (Foro che ha accusato e condannato dei soggetti e poi lo stesso Foro ha accusato e giudicato colui il quale li dichiarava innocenti con riscontri concreti. Creduto solo per i delitti senza colpevoli). Inoltre c’è da sottolineare che io stesso sono stato promotore a titolo personale di una istanza di rimessione, ma per legittimo sospetto, perché i magistrati di Taranto mi accusano e mi vogliono condannare per averli criticati con denunce penali e con articoli di stampa sul loro modo di amministrare la giustizia. Nessun avvocato mi ha sostenuto, anzi, mi hanno abbandonato nei processi di diffamazione a mezzo stampa quando ho chiesto la ricusazione dei magistrati denunciati. Io il 28 settembre a Roma presenzierò all’udienza sulla mia richiesta di rimessione per farmi giudicare dai Magistrati di Potenza, che ha avuto già il marchio preventivo di inammissibilità. Istanza basata sul fatto che i magistrati di Taranto siano poco sereni nel giudicare colui il quale li ha denunciati per abusi ed omissioni, senza che questi si tutelassero denunciandomi per calunnia. Si può considerare che effettivamente la mia richiesta possa essere infondata ed io essere un mitomane o un pazzo. Ma resta un fatto eclatante, e non voglio essere una “Cassandra”, ma la stessa cosa succederà a Franco Coppi. Si tenga presente che mai una istanza di rimessione è stata accolta dalla Corte di Cassazione, nemmeno per Berlusconi, o Dell’Utri, o per le vittime del terremoto dell’Aquila. L’art. 45 ss C.P.P. è una norma da sempre inapplicata perché delegittima il foro giudicante e questo in Italia non si deve fare: è lesa Maestà di chi effettivamente detiene il potere. La decisione negativa scontata che mi riguarda e che arriverà il 28 settembre, però, darà modo a me di potermi rivolgere alla Corte Europea dei Diritti Umani e presso le Istituzioni dell’Unione Europea perché in Italia, non solo non si applica una norma in vigore che danneggia i magistrati, ma si viola sistematicamente il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, anche tramite stampa, e si violano sistematicamente le norme del giusto processo.» 

5 settembre. Michele Misseri prosciolto dall’accusa di omicidio e luci della ribalta per i magistrati. Il gip del Tribunale di Taranto Martino Rosati ha firmato il decreto di archiviazione nei confronti dell’agricoltore per il reato di omicidio. Era stata la stessa procura della Repubblica di Taranto a chiedere l’archiviazione per questo reato, depositando sul tavolo di Rosati la richiesta alla fine di luglio in contemporanea con quella, consegnata al giudice dell’udienza preliminare Pompeo Carriere, di rinvio a giudizio per 13 imputati. Su zio Michele restano dunque le accuse di soppressione del cadavere (in concorso con la moglie e la figlia, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, un fratello, Carmine, e un nipote, Cosimo Cosma), danneggiamento seguito da incendio (la distruzione degli effetti personali di Sarah) e furto aggravato (il telefonino della quindicenne).

Del delitto sono accusate Cosima Serrano e Sabrina, le sole persone attualmente detenute. Con l’archiviazione, per lui, dall’accusa di omicidio, Michele Misseri può davvero considerarsi «una figura di secondo piano nel panorama istruttorio» del procedimento, così come aveva già scritto il gip Rosati nell’ordinanza di custodia cautelare firmata nei confronti di Cosima e Sabrina il 26 maggio scorso. Nel decreto di archiviazione il gip sottolinea che zio Michele non ha saputo indicare con esattezza l’arma del delitto, nè l’ha fatta ritrovare, al contrario di gran parte degli effetti personali di Sarah. L’agricoltore inizialmente aveva detto agli inquirenti di aver strangolato la nipote con una corda; poi aveva parlato di una cintura, fino a tornare ad indicare, più di recente, ancora una corda. Ma né questa né la presunta cintura sono state trovate.

Il gip fa proprie anche le motivazioni contenute nella richiesta di archiviazione depositata oltre un mese fa dalla Procura. Tra queste, il luogo presunto del delitto (la casa dei Misseri e non il garage, come indicato dallo stesso Misseri nella sua prima confessione), l’ora in cui sarebbe stato commesso il delitto (poco dopo le 14 e non tra le 14.28 e le 14.42, arco di tempo ipotizzato nella prima fase delle indagini preliminari), le frasi pronunciate da Misseri, da solo in auto, il 5 ottobre 2010, oggetto di intercettazione ambientale, nelle quali preannuncia la confessione che farà il giorno dopo ai carabinieri in caserma («Mi dispiace per la famiglia...io mò li scoprirò...») e altre intercettazioni. Michele Misseri, insomma, si sarebbe addossato la responsabilità del delitto solo per proteggere i famigliari e non avrebbero credito le lettere, scritte negli ultimi mesi, nelle quali si accusa nuovamente dell’omicidio.

«Dopo 40 giorni, avevamo un colpevole bello e pronto. Il caso dell'anno sembrava risolto, potevamo sembrare dei mattacchioni quando abbiamo deciso, avendo come unico scopo quello di accertare la verità, di andarci a complicare la vita, ma non era così».

Dopo un anno di silenzi parla per la prima volta Martino Rosati, giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto, che dopo aver archiviato l'accusa di omicidio per Michele Misseri ed aver così compiuto l'ultimo suo atto nell'inchiesta sul delitto di Sarah Scazzi, ha accettato l'invito di Gazzetta del Mezzogiorno e Tg1, e racconta una esperienza umana e professionale probabilmente irripetibile.

Lunedì 29 agosto gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia, legali di Sabrina Misseri (in carcere assieme alla madre con l'accusa di omicidio e sequestro di persona) hanno presentato alla Cassazione tramite il gup Pompeo Carrieri richiesta di rimessione del procedimento, sostenendo che nel tribunale di Taranto non ci sono le necessarie condizioni di tranquillità e imparzialità a causa del condizionamento che i magistrati hanno subito e ancora subirebbero da parte dell'opinione pubblica. Una istanza che censura pesantemente l'operato dei giudici che si sono occupati dell'inchiesta, a partire proprio dal gip Martino Rosati.

«Nella richiesta di rimessione, lasciatemelo dire, vengono scritte, come peraltro è già avvenuto in altri atti prodotti dalla difesa di Sabrina Misseri, parole gravi - commenta il magistrato - parlare di annullamento di capacità critica da parte del gip, parlare di singolari reazioni del gip, incapace al pari degli altri magistrati di prendere acriticamente le distanze dall'opinione popolare.... francamente mi sembra che si sia andati oltre le legittime critiche».

Eppure il 7 ottobre, con Michele Misseri in carcere e il corpo di Sarah finalmente ritrovato, il caso sembrava davvero risolto.

«Capisco che la difesa di Sabrina Misseri, in altri suoi atti, ha definito stravaganti e frutto di capziose illazioni alcuni miei provvedimenti, ma se noi non avessimo avuto la convinzione che quello che ci diceva Michele Misseri non bastava, non ci saremmo inutilmente complicati la vita. Già nella prima ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Michele Misseri, scrissi che c'era la confessione ma che permanevano aspetti ancora nebulosi nelle sue dichiarazioni. Era una confessione che lasciava delle ombre su molti aspetti. Ecco perché duole leggere nella richiesta di rimessione che i magistrati, ma io parlo sempre per me, hanno deciso di indagare su Sabrina sull'onda del chiacchiericcio popolare o addirittura, ho letto, dei pettegolezzi pubblicati su Facebook».

Lei ieri ha archiviato l'accusa di omicidio per Michele Misseri, accogliendo la richiesta formulata dalla Procura mentre lui si continua a professare colpevole. Ma ha mai avuto dubbi su di lui?

«I dubbi che fosse davvero lui l'assassino li ho avuti sin dal momento in cui l'ho interrogato nell'udienza di convalida del fermo. E i dubbi che ho avuto io, li hanno avuti, penso, tutti coloro che erano presenti. Davanti a me, l'8 ottobre, si è presentato un uomo che, può essere una curiosità, non aveva nemmeno il coraggio di chiedere di spostarsi dal punto in cui arrivava il getto di aria fredda del condizionatore che si trovava nella stanzetta del carcere dove ci trovavamo, e congelava, fino a quando non l'ho invitato io a spostarsi. È lo stesso uomo che raccontava quelle nefandezze e che alla fine dell'interrogatorio ha esitato a porgermi la mano per salutarmi. Non è vero, come sostiene la difesa di Sabrina Misseri, che Michele aveva già parlato del movente sessuale sin dal primo interrogatorio, quello svoltosi al comando provinciale, quando fece ritrovare il corpo di Sarah. Michele Misseri ha affacciato il movente sessuale soltanto davanti a me, a seguito, me lo lasci dire, delle mie vibranti obiezioni. Lui è venuto davanti a me cercando di convincermi di aver ucciso Sarah perché il trattore non partiva. Visto che insisteva, gli dissi: signor Misseri, facciamo una cosa, cambiamo posto. Lei si mette in quello mio e mi dice se crede ad una versione simile. Lui mi guardò e allargò le braccia. Allora gli dissi, mi dica la verità, per quale ragione ha ucciso Sarah. Mi raccontò la storia della mano tesa verso le parti intime di Sarah. Gli chiesi di mimare il gesto ma lo fece in una maniera così innaturale che subito apparve non credibile a me e a tutti coloro che si trovavano con me». 

Cosa risponde a chi sostiene che tutti i magistrati di Taranto sono appiattiti alla vulgata popolare che vuole Sabrina Misseri colpevole? 

«Guardi, questa indagine rappresenta l’esempio dell’applicazione del famoso articolo 358 del codice di procedura penale, che obbliga il pubblico ministero a raccogliere prove anche a favore dell’indagato. Non so se lo hanno fatto raccogliendo le mie titubanze, i miei dubbi - certamente i pubblici ministeri hanno fatto uno splendido lavoro - ma lo ribadisco: pur avendo un colpevole dopo 40 giorni, i pubblici ministeri e la polizia giudiziaria hanno insistito e hanno fatto ulteriori accertamenti, ovviamente non conoscendo quale poteva essere l’esito di questa attività. È brutto leggere in certi atti, soprattutto da parte di difese così qualificate, che le indagini sono state fatte sull’onda del chiacchiericcio popolare. Non è vero, non è vero, e quella frase mi auguro che sia dovuta ad una lettura parziale degli atti anche perché gli attuali difensori di Sabrina Misseri sono subentrati nell’inchiesta più tardi, mentre chi legge l’intero fascicolo, non può fare tali valutazioni».

Faccia un esempio... 

«Per esempio il ritrovamento del cellulare di Sarah da parte di Michele, e che avrebbe costituito la svolta nell’indagine. Non è così. Almeno da una settimana prima avevamo concentrato le nostre attenzioni sulla famiglia Misseri, mi dispiace segnalare questa ulteriore inesattezza presente nella richiesta di spostamento del processo. Quanto al presunto appiattimento mio sul lavoro svolto dalla Procura, vorrei ricordare che io sono stato il primo a non credere al racconto del fioraio riguardo il sequestro di persona. Il gip non si è mai ripiegato sulle richieste dei pubblici ministeri, anche nel corpo delle motivazioni dei provvedimenti, come si può evincere per esempio dalla lettura dell’ordinanza a carico di Carmine Misseri e Cosima Cosma. Io, peraltro, sono stato cassato più volte dal tribunale del riesame ma questo rappresenta la fisiologia del processo e dunque dispiace leggere certe cose sulla richiesta di rimessione presentata dalla difesa di Sabrina Misseri. Non può passare il messaggio all’opinione pubblica che quando una vicenda giudiziaria non va bene, è possibile prendere a male parole i giudici. Non mi interessa l’opinione sulla mia persona, ho però l’onore di svolgere una funzione importante e credo che tra i doveri del pubblico funzionario ci sia anche quello di proteggere la sua funzione, perché abbiamo fatto tutto in piena coscienza».

Eppure c’è ancora qualche ombra su tutta la vicenda, la verità non sembra emersa del tutto.

«Probabilmente sì. Qualche riserva su alcuni aspetti rimane. L’ho scritto nell’ordinanza di custodia cautelare firmata il 26 maggio nei confronti di Sabrina Misseri e sua madre, ho invitato ancora una volta Michele Misseri a sciogliere i suoi dubbi e a parlare, a dire tutto. Altrimenti deve tacere, tacere per sempre, fermando questo stillicidio di dichiarazioni e lettere, in alcuni casi, duole dirlo, anticipate prima alle telecamere e poi consegnate all’autorità giudiziaria. La mediatizzazione del processo ha danneggiato in primo luogo l’inchiesta, questo vorrei sottolinearlo, e quanti si stavano adoperando per cercare la verità».

Perché non ha disposto un nuovo interrogatorio con Michele Misseri e non ha sequestrato le sue lettere o il suo memoriale?

«Michele Misseri il modo per presentarsi in Procura e dare ai pubblici ministeri e alla polizia giudiziaria i suoi documenti, poteva farlo anche il suo difensore ma nulla di tutto ciò è stato fatto. Michele Misseri per i pubblici ministeri è ormai una figura istruttoria di secondo piano, così come emerso grazie alle attività tecniche svolte. Vorrei ricordare che l’8 ottobre, quando firmai l’ordinanza di custodia cautelare per Michele Misseri, quel signore era per tutta l’Italia lo zio orco, nessuno sospettava della figlia o della moglie, eppure scrissi che la sua versione era piena di ombre. Mi ha sorpreso che una difesa così capace come quella di Sabrina non lo abbia compreso ma sono convinto che presto tutto rientrerà nel solco di un giusto e sereno processo, come è giusto che sia».

Non le pare che in tutta questa vicenda spesso si sia dimenticata la vittima, Sarah «Quando ho visto per la prima volta le immagini della cisterna, del pozzo dove era stato gettato il cadavere di Sarah, pur avendo fatto per dieci anni il giudice di corte d’assise e dunque pur avendo visto le immagini di decine di cadaveri, ecco quel corpicino abbandonato così, faceva rabbia e faceva rabbia ascoltare dalle intercettazioni una certa reticenza, una certa diffidenza verso gli inquirenti. E questo dispiace molto, moltissimo». 

Che impressione le ha fatto Sabrina?

«Mi è parsa una personalità forte, strutturata. Anche se vista dal suo lato si tratta di una terribile tragedia, perché se emergerà che è stata lei ad uccidere Sarah, la sua vita sarà irrimediabilmente segnata. Non troverete mai nei miei provvedimenti gratuite affermazioni nei suoi confronti, ho sempre avuto ben chiaro che si tratta di una tragedia anche per lei. Mi auguro che il tempo spinga anche coloro che non hanno ancora detto tutto, a farlo nel processo, se saranno chiamati. Dalle intercettazioni, si evince che molti non hanno detto tutto quello che sanno e alla fine vorrei che per rispetto di Sarah ma anche di Sabrina, l’omertà sia sconfitta. La ricostruzione a cui sono giunti gli inquirenti mi sembra molto plausibile e soprattutto non mi sembra allo stato adeguatamente contrastata da ricostruzioni alternative: non dico abbastanza, ma neanche minimamente plausibili. Io non sono depositario di verità, ma vorrei che fosse riconosciuta la buonafede. Mi dispiace che venga insinuata la malafede, soprattutto perché viene da una difesa dotata di considerevoli mezzi intellettuali e dunque certamente in grado di comprendere appieno il lavoro che è stato fatto in 10 mesi di indagine. Me lo lo lasci dire: vorrei che fosse consegnato alla opinione pubblica un messaggio rassicurante. Dopo questa vicenda tornerò nel mio silenzio ma non poteva passare un messaggio di questo tipo a conclusione di una indagine scrupolosa e corretta: si figuri cosa poteva capitarmi se fossi stato io a definire un atto della difesa stravagante, o frutto di un disastro logico. Quella emersa finora è la verità».

Al lettore bisogna spiegare che il giudice per le indagini preliminari non ha autonomi poteri di iniziativa probatoria, ma provvede solo su istanza di parte. Il GIP è anche privo di un proprio fascicolo, a differenza del giudice del dibattimento, che ha a disposizione il fascicolo per il dibattimento. Gli atti conosciuti dal giudice per le indagini preliminari sono solitamente quelli che il pubblico ministero decide di allegare all'istanza che presenta. Mancano gli atti delle difese. Il GIP deve controllare l’attività del PM.

Quel NOI ripetuto sta ad indicare che non vi è autonomia e distinzione di funzioni tra PM e GIP: commistione che la casta dei magistrati si ostinano a negare, nonostante l’evidenza.

Il GIP è colui che ha svolto l’interrogatorio di garanzia per Sabrina Misseri e Cosima Serrano: GARANZIA DI CHE ?!?

Non ci dimentichiamo che un punto fermo in un mare di indizi è Michele Misseri, perché lui ha fatto trovare il cadavere di Sarah e, si presume, che lui l’abbia occultato. E non è cosa da poco il gettare in un pozzo il corpicino della ragazza, che mai si sarebbe trovato, se Michele non avesse indicato il punto. Il paradosso è che dobbiamo ringraziarlo per questo. E non ci dimentichiamo che da sempre si dichiara colpevole.

Dall’intervista, invece, appare un povero cristo in balie di streghe. In libertà: nonostante sia accusato di azioni inumane riprovevoli.

Questo è che non si sopporta: la supponenza prevale sulla logica.

La Cassazione annulla le ordinanze di custodia cautelare.

22 settembre. Carmine Misseri e Cosimo Cosma, rispettivamente zio e cugino di Sabrina Misseri accusata dell'omicidio di Sarah Scazzi, non torneranno in carcere. Lo ha deciso la prima sezione penale della Cassazione, che ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Taranto, che chiedeva invece il ripristino della custodia cautelare. Accolto, invece, il ricorso dei parenti di Sabrina accusati di avere aiutato Michele Misseri il 26 agosto 2010, a introdurre il corpo di Sarah nel pozzo cisterna dove poi è stato ritrovato.

Adesso il tribunale del Riesame di Taranto dovrà riesaminare la posizione dei due indagati. La Cassazione ha «annullato con rinvio» la parte dell’ordinanza con la quale il tribunale del Riesame di Taranto, il 23 marzo, aveva confermato la sussistenza dei «gravi indizi» di colpevolezza. Sarà dunque il Tribunale di Taranto a dovere riesaminare le accuse nei confronti dei parenti di Sabrina che, in Cassazione hanno lamentato con successo che nei loro confronti non c'erano "gravi indizi" e che non erano stati valutati tutti gli "elementi a loro discarico".

"Una debacle completa per i pm di Taranto". Così l'avvocato Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri commenta la decisione della Cassazione. "Poco a poco si sta tornando - ha detto Coppi - alla prima versione del delitto fornita da Michele Misseri, che si è autoaccusato dell'omicidio della nipotina Sarah Scazzi". "Certamente questa decisione sui due parenti che avrebbero, secondo l'accusa, aiutato Michele Misseri a far scomparire il cadavere della povera giovanissima vittima, è un punto a vantaggio anche per la difesa di Sabrina". Secondo l'impostazione accusatoria - ha ricordato Coppi - "Michele Misseri non poteva aver fatto tutto da solo, e si sarebbe servito dell'aiuto dei due parenti: ma la Cassazione dimostra, con questa decisione, di non credere a questa versione". Infine il difensore di Sabrina ha sottolineato come "questo ennesimo insuccesso dei pm di Taranto dimostra il loro accanimento miope: hanno un uomo, Michele Misseri, che si dichiara colpevole dell'omicidio e si ostinano a tenere in carcere la figlia Sabrina e la moglie Cosima, che si dichiarano estranee al delitto". Il prossimo lunedì Coppi discuterà in Cassazione, innanzi alla Prima sezione penale, la stessa sezione che ha emesso il “verdetto” sui due presunti complici di Michele Misseri, il ricorso con il quale si chiede la scarcerazione di Sabrina.

Nell'udienza sarà fatto valere anche il dispositivo depositato.

La Cassazione, dicendo no al riarresto dei parenti di Sabrina Misseri, nelle motivazioni depositate il 22 dicembre 2011 che seguono la decisione del 21 settembre, ha bacchettato il tribunale del Riesame di Taranto colpevole di "non avere esaminato" i presunti "gravi indizi" nei confronti degli indagati accusati di soppressione del cadavere di Sarah Scazzi e di avere così dato vita ad una serie di "incongruenze con il racconto dell'unico reo confesso del delitto Michele Misseri". In particolare, la Prima sezione penale ha bacchettato il tribunale del Riesame di Taranto perchè, il 10 marzo 2011, "pur dilungandosi nella confutazione dei ritenuti falsi alibi che sarebbero stati indicati" da Carmine Misseri e da Cosimo Cosma, rispettivamente zio e cugino di Sabrina Misseri, accusati di aver soppresso il cadavere di Sarah Scazzi insieme a Michele Misseri, non ha esaminato "con il doveroso impegno gli elementi che, ove ritenuti fondati e non smentiti da elementi di forza maggiore, sarebbero idonei a giustificare un serio dubbio, ancorato a dati temporali e spaziali oggettivi, in punto di concorso materiale degli indagati, in ausilio a Michele Misseri, nella soppressione del cadavere della Scazzi secondo le modalità indicate nell'ordinanza genetica, corrispondenti a quelle indicate dall'unico reo confesso del delitto, Michele Misseri, e confermate dal Tribunale".

Nel dettaglio, la Suprema Corte, dichiarando inammissibile il ricorso della Procura di Taranto che chiedeva il riarresto dei parenti di Sabrina Misseri, e accogliendo i ricorsi presentati dai difensori di Cosimo Cosma e di Carmine Misseri, ha evidenziato come "le incongruenze spazio-temporali segnalate dal Cosma non sono state affatto valutate dal tribunale, che ha ignorato le mappe con la topografia dei luoghi prodotte a sostegno del suo assunto di non essere stato raggiunto dallo zio Michele prima della soppressione del cadavere e di non avere partecipato all'azione criminosa, come del resto costantemente sostenuto dallo stesso Michele Misseri, non trovandosi la casa del Cosma sul percorso descritto dallo zio e non essendo il tragitto ipotizzato dagli inquirenti, incrociante l'abitazione dell'indagato, quello più breve per raggiungere da Avetrana la contrada Mosca". Stessa sottovalutazione, lamenta la Cassazione, è stata commessa nei confronti di Carmine Misseri nei cui confronti "le incongruenze spazio temporali evidenziate sono state sbrigativamente liquidate dal tribunale come indicative di tempi di percorrenza tra l'abitazione dello stesso Carmine Misseri, in Manduria, e il pozzo in contrada Mosca, non dissimili da quelli che sarebbero stati calcolati dalla polizia giudiziaria come compatibili con la partecipazione al fatto dell'indagato". Sarà ora il Tribunale di Taranto a dovere riesaminare le accuse nei confronti dei parenti di Sabrina e in particolare a "procedere ad una rinnovata valutazione degli elementi indiziari e, segnatamente, di quelli addotti a propria difesa dai ricorrenti, di sicura rilevanza probatoria, che sono stati illegittimamente trascurati dal Tribunale del riesame".

26 settembre. Sono state annullate con rinvio le ordinanze di custodia cautelare in carcere per Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano. Lo ha deciso la Cassazione, che ha disposto un nuovo esame, da parte del tribunale della Libertà di Taranto, della posizione e delle accuse a carico delle due imputate per l'omicidio e il sequestro della quindicenne Sarah Scazzi uccisa ad Avetrana il 26 agosto del 2010. Le due donne, nel frattempo, rimangono in carcere. La Suprema Corte, dopo una lunghissima camera di consiglio, ha deciso di rinviare la vicenda al Riesame sia relativamente all'ordinanza di custodia cautelare per l'uccisione di Sarah Scazzi, sia relativamente all'accusa di sequestro di persona. Le difese di Sabrina e della madre Cosima sono state presentate contro il provvedimento del Tribunale del Riesame di Taranto, che il 20 giugno aveva confermato la custodia cautelare emessa dal gip nei confronti delle due donne che sono detenute a Taranto nella stessa cella. L'accusa di sequestro di persona riguarda invece l'episodio riferito e, poi ritrattato, dal fioraio Giovanni Buccolieri, che disse di aver visto Cosima costringere la nipote Sarah a salire nella sua macchina con la forza per riportarla nella casa di via Deledda.

«L'alibi di Sabrina è consacrato da una serie di telefonate che lei aveva in corso per organizzare una gita al mare - aveva sottolineato l'avvocato Franco Coppi al termine dell'udienza in Cassazione - :i tabulati certificano queste chiamate nei momenti in cui, secondo l'accusa, veniva uccisa la povera Sarah Scazzi». E poi ha aggiunto, dopo la sentenza: «Cosa volete che vi dica, siamo tornati in Cassazione ed è la seconda volta che i Supremi giudici annullano, se pur con rinvio, un provvedimento emesso dall'Autorità giudiziaria di Taranto...». Sabrina Misseri è in carcere dal 15 ottobre del 2010. Il 19 maggio, sempre la Cassazione, aveva annullato con rinvio una ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico di Sabrina Misseri ritenendo inattendibile il padre Michele che la accusava di aver ucciso la cugina quindicenne Sarah Scazzi, e ritenendo troppo debole il movente della gelosia.

«Finalmente la serenità di un giudice terzo ha saputo analizzare con assoluto equilibrio una vicenda tristissima - ha invece sottolineato l'avv. Francesco De Jaco, uno dei difensori di Cosima Serrano - che nel corso di questo ultimo anno è stata appesantita da scelte che probabilmente la Suprema Corte ha ritenuto non consone al reale svolgimento dei fatti». «Siamo comunque sereni - ha aggiunto De Jaco - perchè riteniamo, così come lo ritiene la nostra assistita, che il sistema giudiziario italiano alla fine trovi i giusti parametri per arrivare non ad una verità, ma alla verità».

12 ottobre. Il rigetto dell’istanza di rimessione. La prima sezione penale della Cassazione ha infatti respinto la richiesta di rimessione del processo per incompatibilità ambientale, con conseguente trasferimento di sede a Potenza, avanzata il 29 agosto 2011 dai difensori di Sabrina Misseri, gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia.

Eppure la stessa Corte ha reso illegittime tutte le ordinanze cautelari in carcere emesse dal Tribunale di Taranto.

La Corte di Cassazione critica il lavoro svolto dai pm e soprattutto fa notare che non ci sono gravi indizi contro Cosima Serrano e Sabrina Misseri, in carcere per l’uccisione della ragazzina. Prima di entrare nel merito della mancanza dei gravi indizi, i giudici della Cassazione hanno bacchettato la procura di Taranto, avvertendo i pm che tenere in piedi due ordinanze di custodia cautelare (con due versioni alternative riguardanti lo stesso delitto: prima Sabrina in concorso con il padre e poi con la madre) crea un problema “di tenuta logica” e contrasta con uno dei principi cardini del nostro ordinamento processuale.

Per quanto riguarda Cosima e Sabrina, invece, secondo i giudici della Cassazione gli indizi raccolti sono “insussistenti” per quanto riguarda la parte relativa ai “reati di omicidio volontario e sequestro di persona”; permane invece l’accusa di concorso in soppressione di cadavere. Questo vuol dire che mentre è stato accuratamente ricostruito che cosa madre e figlia fecero nelle ore precedenti il delitto, manca invece ogni riferimento a quanto accaduto tra le 14:00 e le 14:42 del quel 26 agosto, lasso di tempo fondamentale, perché in esso si colloca la consumazione dell’omicidio.

La Cassazione, poi, dà ragione alla difesa anche per quanto riguarda “l’omessa valutazione critica”, sempre da parte dei giudici di merito, delle “diverse dichiarazioni rese da Michele Misseri” nell’ambito degli interrogatori e delle lettere che ha scritto.

E una ulteriore bacchettata ai giudici di merito, arriva per non aver preso in considerazione le perizie della difesa sui tabulati telefonici. In sostanza quel che rimane in piedi, delle ordinanze di merito, sono gli indizi che sostengono l’accusa di soppressione di cadavere e che, al momento, sembrano le uniche a sorreggere la custodia in carcere di Sabrina e Cosima.

«Decidetevi» sembra suggerire la Cassazione ai giudici di merito del caso Scazzi, la ragazzina di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2011: o Sabrina ha ucciso Sarah in concorso con suo padre oppure l'ha fatto con sua madre.

Così, tanto per cominciare. Ma la lista delle «inconciliabilità logiche», delle «omissioni», delle questioni «non affrontate espressamente» va ben al di là di quell'esortazione. I magistrati della prima sezione della Corte Suprema hanno depositato le motivazioni che li avevano convinti, il 26 settembre scorso, ad annullare e rinviare al Tribunale del riesame l'ordinanza che teneva e tiene ancora in carcere Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano. Sono 44 pagine di critiche all'impianto accusatorio e, soprattutto, sono 44 pagine che attaccano i «gravi indizi» raccolti contro le due donne: «Insussistenti», dicono i giudici della Cassazione, nella parte che riguarda «i reati di omicidio volontario e sequestro di persona», mentre resterebbe in piedi l'accusa di concorso in soppressione di cadavere.

La prima confessione di Michele Misseri. Il padre di Sabrina disse di aver ucciso Sarah da solo, in garage per uno scatto d'ira. Poi i continui cambi di rotta: da «Sabrina la teneva, io la strangolavo» fino all'ultima, tenace, versione e cioè «ho fatto tutto da solo, lei e Cosima non c'entrano nulla». Nel frattempo lui è uscito dal carcere e il giudice delle indagini preliminari lo ha prosciolto dall'accusa di omicidio mantenendo, anche nel suo caso, la sola accusa di soppressione di cadavere. Ora, il problema è che fra ricorsi e controricorsi la vecchia ordinanza con la quale Sabrina finì in carcere per aver ucciso Sarah assieme al padre non è ancora uscita di scena.

Ma le cose sono cambiate: Sabrina è stata accusata con una nuova ordinanza di aver ammazzato la cuginetta non più assieme al padre ma in concorso con la madre. Da qui il rimprovero della Suprema Corte: se ci sono «elementi probatori nuovi» si può «o riversarli nel procedimento in corso» oppure inserirli in una nuova richiesta. «Ma una volta effettuata la scelta non si può coltivare anche l'altra iniziativa». Ricostruendo «l'assenza del quadro di gravità indiziaria» i giudici bacchettano i colleghi del Tribunale di Taranto che hanno «omesso ogni riferimento a quanto accaduto fra le 14 e le 14.42 del 26 agosto 2010, lasso di tempo fondamentale perché in esso si colloca la consumazione dell'omicidio».

Ci sono «discrasie», secondo la Suprema Corte, anche sul luogo esatto della morte, individuato in un'ordinanza all'interno del garage, nell'altra all'interno dell'abitazione e, nel racconto di una testimone, anche dentro l'auto di Cosima. C'è altro: una «omessa valutazione critica» delle «diverse dichiarazioni rese da Michele Misseri», scrivono i giudici, e sulle accuse a Cosima parlano di «erronea applicazione» della legge con «riflessi sulla completezza e sulla logicità» del provvedimento. «Non è stato in alcun modo specificato», si legge, che «tipo di apporto» la donna avrebbe dato all'uccisione della nipote, se «materiale o morale». I giudici rimproverano i colleghi di merito perfino sulla mancata risposta a una memoria presentata dalle difese delle due indagate. Riguardava una consulenza dei Ris sulle celle telefoniche di Avetrana. «Una rilevante carenza argomentativa su un aspetto importante» scrivono.

La decisione della Cassazione ha in un certo senso sorpreso, dopo che, in camera di consiglio, anche il Pg della Suprema Corte Gabriele Mazzotta aveva appoggiato la richiesta dei difensori di Sabrina, sostenendo che a Taranto c'era troppa “emotività ambientale” in grado di alterare l’acquisizione delle prove. Tutto ciò citando circostanze (intimidazioni nei confronti di persone coinvolte nel procedimento, lancio di pietre durante l'arresto di Cosima Serrano e intimidazioni nei confronti di Michele Misseri, che si è dovuto anche chiudere in casa), che avrebbero dovuto indurre, a suo parere, a trasferire il processo. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova».

Ma la Cassazione ha stabilito che il processo si terrà a Taranto, sua sede naturale.

Il procuratore di Taranto, Franco Sebastio, resta imperturbabile e accoglie il provvedimento senza battere ciglio. Ma non risparmia comunque una stoccata agli avvocati che auspicavano un trasferimento del giudizio a Potenza. «Alla base della richiesta di rimessione del processo – dichiara il magistrato – c'era una sorta di offesa alla popolazione locale che, si diceva, avrebbe potuto interferire sulle decisioni; con questo – prosegue Sebastio – non voglio muovere critiche a nessuno e non entro nel merito della questione, qui nessuno ha fatto un gol o lo ha subito, è il processo che segue il suo iter: ricordiamoci – aggiunge – che c'è sempre la presunzione di innocenza e che quelli adottati sono provvedimenti interlocutori e non sentenze». «In un processo penale non esistono soddisfazioni o insoddisfazioni, tutti gli attori svolgono il loro ruolo in maniera seria e professionale» ha detto a chi gli chiedeva con quale stato d’animo aveva appreso la lieta notizia. Più pungente la risposta alla domanda successiva. «Se ci facciamo influenzare? Nel nostro lavoro di magistrati cerchiamo di lavorare degnamente magari commettendo degli errori com’è insito nella natura umana a qualunque livello. Però in tutto questo – ha aggiunto – non c’è emotività e non ci deve essere altrimenti è un lavoro che non si potrebbe fare». Infine una difesa rivolta alla popolazione dipinta come un’orda di giustizialisti privi di sentimenti. «Forse – ha concluso Sebastio – certe accuse di qualcuno si potevano evitare, risparmiando pareri così negativi alle civilissime popolazioni del tarantino». E ancora. «Addebitare ad un’intera popolazione – ha aggiunto il procuratore – atteggiamenti esasperati e arrivare al punto di dire che non si può tenere un processo qui perchè chissà cosa può essere commettere, tanto da deciderne lo spostamento, beh, oltre che senza precedenti – ha concluso Sebastio – sarebbe stato ingiusto nei confronti di quella stessa popolazione».

Anche il sostituto procuratore, Maurizio Carbone, presidente della sottosezione tarantina dell’Associazione nazionale magistrati, difende la categoria. «Conoscendo la preparazione e la serietà dei miei colleghi – ha dichiarato – non ho mai avuto dubbi sulle loro decisioni e sul fatto che mai sarebbero stati influenzati da pressioni esterne di chicchessia». Il rappresentante dell’Anm si è detto soddisfatto della decisione della suprema corte che ha impedito così lo scippo del processo.

Segue la solita litania. «Vogliamo ribadire la nostra fiducia – ha aggiunto Biscotti - anche a nome della famiglia Scazzi, sull'autorità giudiziaria di Taranto, che ha sempre saputo svolgere il proprio dovere nel pieno rispetto delle regole del diritto con la massima serenità».

Ognuno sventola la bandiera avetranese come più gli fa comodo.

Avetrana è omertosa, anzi no; è giustizialista, anzi no; civilissima, anzi no!!!

Gli avetranesi sono relegati a semplici comparse, pronti a muoversi sotto il ciak del regista di turno.

È dal 1989, fanno notare i difensori, cioè dall'introduzione del nuovo Codice penale, che la Cassazione non dà il “disco verde” al trasloco di un processo. Questa volta, se la prima sezione avesse detto sì, «sarebbe la prima senz'altro a partire dal 1989 - ha rilevato Marseglia - ma per trovare un trasferimento, anche con il vecchio codice, bisogna fare ancora più strada indietro». Proprio l’assenza di precedenti in materia, rischia di rendere il caso di Avetrana ancora più unico di quanto non lo sia, perché un eventuale spostamento del processo per condizionamento ambientale potrebbe aprire le strade a numerose istanze di questo tipo (basti pensare ai procedimenti per i morti all’Ilva di Taranto, senza spostarsi dal capoluogo jonico, ma ovviamente di esempi se ne possono fare a centinaia).

Più pragmatica è la famiglia Scazzi. «Ad Avetrana - ha detto invece Claudio Scazzi, ospite di una trasmissione Mediaset - c’è un po’ di agitazione, dirti che vai a fare il processo a Potenza rispetto a Taranto può avere tante sfaccettature, per mia madre e mio padre vuol dire farsi tre ore e passa per un’udienza che può durare anche solo 10 minuti. Dal punto di vista giuridico credo che tutti i tribunali siano validi».

Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente: “Sono in carcere da innocente, ma io quattro anni qui dentro non resisto”.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri.

Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

·            Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

·            Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

·            Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

·            Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri.

La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata.

Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. La mazzata è arrivata poi dai rilievi dei Ris che - seppur in alcuni casi effettuati tre mesi dopo l'omicidio - non hanno dato alcun risultato: non ci sono tracce di Sarah a casa Misseri e in nessuno dei presunti luoghi del delitto. E soprattutto non ci sono tracce della ragazza sulle armi del delitto possibili sequestrate nel corso dei mesi. Le cinquanta cinture di Sabrina, la corda di Michele, il compressore del garage: è stato tutto analizzato senza alcun esito. La procura colloca l’ora del delitto tra le 13.55 quando Sarah viene vista per strada e le 14,25 quando a casa Misseri arriva Mariangela Spagnoletti. Lo stesso fa la Cassazione ritenendo genuina la testimonianza di un uomo che è sicuro di aver visto Sarah poco prima delle 14 passeggiare verso casa Misseri. "La ragazza è arrivata lì e ha trovato la morte: Sabrina ha poi aspettato per strada l'amica Mariangela per evitare che si accorgesse dei movimenti in macchina e ha mentito alla zia Concetta, quando è andata a chiedere di Sarah, sostenendo che i genitori non erano in casa", dice in sintesi la Procura. La difesa fa notare, però, che c'è stato uno scambio di squilli e sms tra Sarah e Sabrina intorono alle 14,30 quando la ragazza secondo questa ricostruzione avrebbe già dovuto essere morta. "Ha fatto tutto Sabrina - risponde l'accusa - per depistare e avere un alibi". "Ciao mi chiamo Sarah, in questo periodo sono molto legata ad un ragazzo che ha 27 anni, io ne ho solo 15 ma lui è dolcissimo con me e mi coccola sempre, si chiama Ivano, e lui piace anche a mia cugina Sabrina". Sarah appuntava queste parole sul suo diario qualche giorno prima di essere ammazzata. Mentre Sabrina tempestava Ivano di sms e scenate di gelosia. Sono le prove inoppugnabili, secondo la procura, che sta nella gelosia il movente dell'omicidio. La tesi però non convince la Cassazione che ha chiesto al Riesame di Taranto di rimotivare meglio anche questo punto.

«Lotterò sempre per farle scagionare, ma se non riuscirò a farle uscire, la farò finita perché non riesco ad andare avanti così». Intervistato dalla trasmissione Mediaset Domenica Cinque, solitamente affollata di reduci del grande Fratello, Michele Misseri si rammarica per non aver lasciato tracce evidenti della sua colpevolezza. «Mi pento di non aver lasciato nessuna traccia del delitto. La corda l'ho buttata insieme alle scarpe nel bidone della spazzatura». E ancora: «Gli abitanti di Avetrana vogliono che io dica che sono state Sabrina e Cosima ad uccidere Sarah. Soffro per la mia famiglia perché quella poveretta di Sarah non riposerà mai in pace».

Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; da l’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove.

Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato.

Se fosse per le serie televisive come i "Ris" o "La Squadra" l'Italia sarebbe la patria dei casi risolti. Ma purtroppo qui stiamo parlando solo di fiction e la realtà ci racconta ben altre storie. Partiamo proprio dal Reparto Investigazioni Scientifiche, i famigerati carabinieri dei Ris. La letteratura e la televisione (programmi, film, ecc..) li hanno reso imbattibili, mentre invece sul campo spesso e volentieri banali errori commessi da questo reparto compromettono l'arresto o la detenzione del colpevole.

L'omicidio Meredith Kercher, ma soprattutto l'assoluzione per non aver commesso il fatto di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, è solo l'ultimo dei casi irrisolti.

I "delitti imperfetti", da cui prendono il nome sia i libri dell'ex comandante Luciano Garofano che la famosa serie televisiva, diventano perfetti proprio a causa di grossolani errori degli inquirenti. Tutto è iniziato quando i Ris sono diventati famosi all'opinione pubblica durante il caso del duplice omicidio di Novi Ligure nel 2001. Per tutti fu un vero e proprio successo, nato dall'ottimo lavoro del reparto dei carabinieri. Ma non va dimenticato, però, che a mettere sulla pista giusta gli investigatori fu proprio Erika, che quando era ancora solo sospettata di aver ucciso madre e fratellino venne filmata in una stanza della caserma dei carabinieri mentre mimava ad Omar, fidanzatino e complice, come avesse pugnalato la donna. Quindi la chiave di volta di questo caso furono le intercettazioni ambientali. Forse possiamo considerare proprio delitto di Novi l'ultimo delitto risolto senza che ci fossero ombra di dubbi. Tracce, arma del delitto, confessioni: insomma, tutti i tasselli del mosaico al loro posto.

Lo stesso non si può dire di Cogne. Nonostante la condanna di Anna Maria Franzoni per l'omicidio del piccolo Samuele ancora oggi l'Italia è divisa in due, innocentisti e colpevolisti. Infatti, seppure ci siano degli indizi manca l'arma del delitto e l'assassina, in questo caso la madre della vittima, tutt'altro che reo confessa. Molti sono stati gli errori degli inquirenti sul caso Cogne che hanno portato a un ritardo di anni sulla verità che ancora oggi, come detto, può avere dei punti deboli e traballa.

Vi ricordate dell'omicidio di Garlasco della giovane Chiara Poggi? Tanti sospetti sul fidanzato Alberto Stasi e i pochi indizi raccolti facilmente smontati dalle perizie di parte. Anche qui errori di chi dovrebbe essere (o si considera) infallibile. Basti pensare che dopo il delitto la "scena del crimine", come ormai siamo abituati a chiamarla dopo essere stati influenzati dai Csi vari, venne addirittura inquinata da un gatto, che la scientifica chiuse dentro la villetta per un giorno intero a scorrazzare! Anche qui nessun elemento valido per trovare l'assassino. Un esempio: la prova ferrea data da una macchia di sangue della vittima sul pedale della bici di Stasi venne facilmente smontata dai difensori del ragazzo, che riuscirono a dimostrare che si poteva trattare benissimo di macchie di flusso mestruale calpestate accidentalmente giorni prima del delitto dal giovane. Ad oggi nessuno è riuscito a respingere la tesi difensiva seppur a prima vista improbabile.

L'omicidio di Perugia è ormai noto a tutti. In molti nonostante la sentenza della corte d'appello sono convinti che Raffaele e Amanda non fossero estranei all'assassinio di Meredith. Ma anche qui i Ris e affini non sono riusciti a dimostrare nulla e per i periti è stato facile evidenziare i loro errori, smontando così la tesi accusatoria. Unico colpevole Rudy Guede (difeso guarda caso dagli avvocati mediatici Gentile e Biscotti).

Nel caso della piccola Yara Gambirasio, invece, ci troviamo di fronte a una vera e propria sfida da parte dell'assassino, o assassini, agli inquirenti, i quali stanno facendo di tutto per perderla: ritardi nelle indagini, auto e furgone dell'unico sospettato, il marocchino Mohamed Fikri, non perquisito, etc, etc. Si è preferito schedare tutto il dna degli abitanti di Brembate e dintorni, ma non degli operai o di chi ha lavorato nel cantiere che potrebbe essere la vera scena del crimine, come viene suggerito dalla polvere di calce nei polmoni della piccola vittima e dalla presunta arma del delitto (un utensile da lavoro utilizzato nel campo dell'edilizia).

E arriviamo al caso del giorno. Fino a ieri tutti eravamo convinti che i magistrati avessero in mano dei saldi indizi sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, nell'omicidio della piccola Sarah Scazzi, ad Avetrana. Invece, anche questa volta le granitiche prove appaiono argillose. Addirittura si parla di elementi inconsistenti, che potrebbero alla prossima udienza del Tribunale del Riesame portare alla scarcerazione delle uniche due accusate dell'omicidio, dopo il proscioglimento di Michele Misseri (prima reo confesso poi scagionato e ora nuovamente reo confesso, ma non creduto).

Nel caso di Melania Rea ci sono tutti gli elementi del vecchio "delitto all'italiana": lui, lei, l'altra, quattrini. Parolisi è in galera (difeso guarda caso dagli avvocati mediatici Gentile e Biscotti), ma anche qui come in quasi tutti i casi che abbiamo elencato si rischia di andare ad un processo indiziario e quindi a tenere aperte le porte del dubbio. Negli ultimi decenni nel campo investigativo la scienza ha dato una grossa mano. Però a volte è proprio la certezza scientifica o l'ossessione di trovarla che conduce, come abbiamo visto, a degli errori in cui spesso il fiuto del vecchio investigatore non incappava. Uno su tutti negli anni Settanta l'indimenticabile commissario della squadra mobile di Torino Giuseppe Montesano, uno "sbirro" alla vecchia maniera che ispirò registri e scrittori grazie ai suoi successi. Tutti veri.

14 ottobre. L’udienza preliminare. Nell'aula Alessandrini del Palazzo di giustizia di Taranto è cominciata l'udienza preliminare dinanzi al gup Pompeo Carriere per l'omicidio di Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010. Tredici gli imputati. La Cassazione ha stabilito che il processo si terrà a Taranto, rigettando la richiesta di rimessione del processo e trasferimento a Potenza avanzata dai difensori di Sabrina Misseri.

L'udienza preliminare si svolge - come di norma a porte chiuse. In aula ci sono Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, entrambe detenute e accusate in concorso tra loro di omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere. Presenti anche Michele Misseri, il fratello Carmine e il nipote Cosimo Cosma, tutti e tre accusati con le due donne della soppressione del cadavere di Sarah. Non c'è Concetta Serrano, madre di Sarah: i legali della famiglia, Walter Biscotti e Nicodemo Gentile, hanno annunciato una conferenza stampa di Concetta ad Avetrana, una volta conclusa l'udienza odierna.

Sapientemente, come una partita a scacchi, che non si gioca nelle aule dei tribunali, ma nei salotti mediatici. Poi ci si lamenta che il popolino, ingenuo, ne venga influenzato.

Stretta ai lati dai suoi avvocati, Valter Biscotti e Nicodemo Gentile, abili registi di un processo mediatico, e assediata da giornalisti e telecamere che ha accolto nella sua casa, Concetta Serrano Spagnolo, la mamma di Sarah Scazzi, ha voluto sfogarsi come non faceva da tempo. Sotto il fuoco incrociato delle domande dei cronisti la donna dai capelli rossi e lo sguardo senza pianto né sorrisi ha voluto puntare subito sulla nipote Sabrina: «Dico a Sabrina che se dice la verità, starà bene lei stessa. Se la verità non continua a dirla, sono certo che Dio Geova farà parlare persino le pietre per far uscire fuori la verità. Perché se Sarah ha sofferto pochi istanti, la sofferenza che lei potrà provare a non dire la verità sarà un tormento senza pace. Mia figlia ha sofferto pochi minuti, ma se lei non parla e dice la verità vivrà nel tormento per tutta la vita». Ricordando i tempi in cui sua figlia frequentava chi l’avrebbe poi uccisa, mamma Concetta ha parlato di una Sabrina diversa da come lei stessa si vuole presentare. «Mia figlia si lamentava per come Sabrina la usava e la chiamava solo quando voleva aiuto mentre spesso la lasciava a casa da sola». Parole dure anche nei confronti della sorella Cosima. «Non riesco ancora ad inquadrare il suo ruolo. Lei che non parla mai – ha detto Concetta – sarebbe ora che parlasse e che dicesse finalmente quello che certamente sa. Se è vero che mamma e figlia hanno aiutato Michele a gettare Sarah nel pozzo, vuol dire che hanno anche ucciso. Provo tanta rabbia per loro e non riesco a capacitarmi di come abbiamo potuto uccidere una bambina per di più loro parente». A proposito della sorella Cosima, poi, la mamma di Sarah ha ricordato un episodio accaduto il giorno della scomparsa di sua figlia: «Eravamo in caserma per la denuncia e ricordo che trattenendo le lacrime disse così: “questa volta Sarah l’ha fatta veramente grossa”. Fu allora che cominciai a pensare che mia sorella sapesse qualcosa». Parole di sdegno anche per il cognato Michele. «Prima mi faceva solo pena ora mi fa schifo lui e la sua famiglia; mio cognato ha sempre fatto quello che hanno voluto gli altri ed ora è un bugiardo; se deve venire a parlarmi per dire le sciocchezza che sta dicendo è meglio che resti dov’è, perché quando dice quelle cose mi fa schifo». La donna non ha risparmiato accuse «a certi giornalisti – ha detto – che invece di concentrarsi sulla giustizia e sulla verità, si concentrano su altro, per esempio quando sono andati a casa di Michele quando è stato scarcerato: quella è stata una cosa di pessimo gusto». Come «squallida – ha aggiunto – è stata la messinscena dell’altarino di mia figlia sotto al garage dove è stata uccisa. Tutta l’attenzione ora è rivolta a queste persone squallide mentre di mia figlia che non c’è più sembra se ne siano dimenticati. Provo rabbia e dolore quando sento che Michele parla e piange parlando di mia figlia. In questo modo non fa che infangare il suo nome e il suo ricordo». Dopo mesi di silenzio è tornata a parlare Concetta Serrano Spagnolo, la madre di Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa ad Avetrana (Taranto). La donna ha incontrato i giornalisti, perché «voglio conoscere la verità, voglio sapere chi ha ucciso mia figlia. Se non ci fosse stata la stampa Sarah non sarebbe stata mai trovata. Ma non tutti i giornalisti fanno il loro lavoro con coscienza. Certi giornalisti li disprezzo, perché invece di ricercare la verità si concentrano su altro. Si concentrano tutti su questi possibili criminali, sembrano dei miti, mentre Sarah viene dimenticata da tutti. La sogno spesso come se fosse viva. Tutti la conoscevamo come una ragazza allegra, solare, sorridente. Questa tragedia mi ha lasciato sinceramente allibita: chi si aspettava una cosa del genere da familiari? C’è tanta rabbia perché non riesco a capire come siano riusciti a uccidere una bambina, dei familiari poi!?! Mi rendo conto che sono state delle persone che non solo hanno ucciso Sarah, ma hanno ingannato anche me con la loro presenza. A tante domande devono rispondere loro. Per questo dico sempre che devono dire la verità, una verità che ancora non è venuta fuori. Io mi faccio mille domande, penso a tante cose. Non posso escludere che Sarah abbia sentito discorsi o visto quello che facevano in casa». Quanto a ricucire i rapporti con la famiglia Misseri? «Questo sarà difficile che avvenga. Loro non hanno mai detto la verità, nemmeno ai giudici. Hanno paura che esca fuori la verità. Michele mi faceva pena prima, oggi mi fa schifo come il resto della sua famiglia. Lui ha un suo bagaglio di bugie e si carica anche di quelle di moglie e figlia. Mia figlia non sarebbe mai entrata nel garage, perché Sarah ha paura del buio. Michele fa quello che gli dicono di fare. Sta recitando solo una parte per compiacere i suoi famigliari. E' un uomo che non ha il senso della giustizia, della moralità. Quell'altarino nel garage è una cosa squallida. Vuole chiedermi perdono? Che la smetta di dire tutte quelle cretinate e racconti solo come è morta mia figlia».

Dopo circa tre quarti d’ora di domande e risposte Concetta ha chiuso l’incontro con un desiderio: «Voglio che sia fatta giustizia, ma non voglio un colpevole – ha detto – ma il vero colpevole che ha ucciso mia figlia».

«Mia figlia ha ragione: sono un vigliacco. Contro di me non ci sono riscontri, ma anche contro di lei e contro mia moglie non ci sono prove» Atteso da un plotone di telecamere e reporter, Michele Misseri si è affacciato sulla rampa sopraelevata che conduce i disabili nel tribunale e, da quel palco un po’ improvvisato, con occhiali dorati indosso, ha arringato i giornalisti. È stata la fine di una giornata da disastro.

«Nessuno mi crede, ma io ho ucciso Sarah», ha affermato lui in aula, riconfermando il racconto standardizzato della sua ricostruzione del delitto. Non mancava nulla, dal «caldo alla testa», fino alla ipotetica «caduta sul compressore». Al termine della sessione del 18 ottobre dell’udienza preliminare, zio Michele da Avetrana ha chiesto di potersi avvicinare alla figlia che, per inciso, in aula non lo ha degnato di uno sguardo. «No, non può farlo», gli ha risposto inflessibile il gup rifilandogli l’ennesimo «ceffone» della giornata. Ma il lunedì nero del «confessatore» seriale non era ancora finito. Michele ha chiesto al suo legale, Armando Amendolito, di poter incontrare la stampa dopo l’udienza preliminare. La richiesta ha rischiato di trasformarsi in ammutinamento. Tra i giornalisti, più di qualcuno ha storto il naso di fronte all’ipotesi di fare da cassa di risonanza per Michele. Ma non hanno resistito alla tentazione. Per tenere fede alla loro personale deontologia, i rappresentanti di carta stampata e tv hanno risposto all’appello di Misseri. La conferenza non è andata oltre la seconda domanda. «Il Ris non ha trovato tracce di Sarah sulla corda? Non hanno trovato nemmeno le mie, quindi la corda volava» ha risposto pronto. Ma quando la giornalista di Quarto Grado, Filomena Rorro gli ha chiesto se l’arma del delitto fosse la cintura dello zainetto di Sarah, così come aveva detto qualche giorno prima Misseri in una precedente intervista, la risposta è stata raggelante: «Tu sei una cretina! Prima cosa. Non hai capito niente ... Prove non ce ne sono, né per mia figlia, né per mia moglie» Poi ha spiegato meglio cosa intendesse dire nella precedente intervista, parlando di azione simultanea di corda e cintura. «E allora Misseri - ha domandato Rorro - chi ha ucciso Sarah?». Nella risposta, Michele è stato bruciato sul tempo da un curioso, che attratto dalla ressa, si era fermato ad ascoltare: «Sarah ha preso la corda e si è uccisa da sola, no Miche’?».

«Mi aspettavo che Sabrina dicesse di essere stata accusata ingiustamente, ma questa parola, vigliacco è stata pesante». Intervistato da "Pomeriggio Cinque", Michele Misseri ancora una volta racconta la sua verità e decide di rispondere a sua figlia che, nel corso dell'udienza preliminare a Taranto, ha dato del vigliacco al padre. «La reazione quando ho visto mia figlia - aggiunge Michele Misseri – è che mi sono scappate le lacrime ma ci sono rimasto male quando ha detto che lei è stata incolpata dal vigliacco di suo padre, certamente non posso dire altro. Per questo mi sono alzato e sono andato al microfono con il memoriale che pensavo me lo sequestrassero in carcere, cosa che non è mai successo, e così l'ho dato al giudice e non agli inquirenti. Io dovevo esplodere. Ho raccontato tutto, come è andata tutta la storia - continua Michele - il trattore che non partiva, che ero nervoso, che mia moglie era a letto con Sabrina, non è sfuggito niente, anzi c'è stato più di quello che dovevo dire. Mi sento più libero. Non so se sono convinti ma questa è la verità».

«Sai dov’è che abbiamo sbagliato? Quando è successo il fatto avremmo chiamato i carabinieri … il pronto soccorso… e allora era successo un incidente, una roba del genere. Invece noi abbiamo fatto i furbacchioni… i furbacchioni e mo vedi come ti trovi. Perché la condanna come la prendo io… la prende pure lei». Era l’8 novembre del 2010 quando Michele Misseri confidava queste cose alla nipote Maria Greco che era andata a trovarlo in carcere. Erano passate circa tre settimane da quando il contadino di Avetrana aveva raccontato la versione dell’omicidio in due: «Sabrina teneva ferma Sarah, mentre io la uccidevo». Il 5 novembre aveva cambiato versione: «È stata Sabrina ad ucciderla, io ho solo portato il corpo nel pozzo». Tre giorni dopo la nipote Maria lo va a trovare in carcere: «Certamente Sabrina deve fare la parte sua… non è che sono solo eh … cioè siamo stati incolpati tutti e due…se noi invece avessimo chiamato un dottore», ripete Misseri alla nipote che è convinta della sua innocenza e cerca di consolarlo. Così prosegue quel drammatico colloquio ripreso anche dalla telecamera nascosta dietro lo specchio del parlatorio. «Perché ti volevi avvelenare?», chiede la nipote. «Che Sarah chi l’ha messa dentro il pozzo? Chi l’ha messa? Chi tiene la colpa, eh? Chi l’ha portata la ragazza in campagna? Mica l’ha portata Sabrina. Io l’ho portato il cadavere…». L’interlocutrice tenta di confortarlo. «Si però la cosa più brutta, secondo me, è quando l’ha uccisa…». Michele scuote la testa e dice: «La stessa cosa è…». Più esplicita la confessione contenuta al 34esimo minuto della conversazione. «Purtroppo la versione mia la devo fare… l’ho già fatta… la devo fare, per forza hai capito? La verità che l’ho portata io nel pozzo… che ho bruciato le robe… il telefonino… tutte queste cazzate qua tutte io le ho fatte».

Non è ancora il tempo delle lettere in cui si accusa nuovamente del delitto. Le visite in carcere della moglie Cosima e dell’altra figlia Valentina, che secondo gli inquirenti influenzeranno l’agire di Michele, non sono ancora così frequenti. Il suo difensore è ancora Daniele Galoppa. L’incontro con la parente a cui è affezionato e che ha battezzato diventa occasione di sfogo e pentimenti. Si tormenta per aver lasciato il corpo della nipote per 42 giorni nell’acqua, racconta di averla sognata spesso. La nipote continua a dire di credere alla sua innocenza e lo invita a dire tutta la verità. Misseri a questo punto è come se parlasse da solo: «…tu non devi dire chi è stato … sono stato io… chi l’ha portata …(a bassa voce)… se stavamo tutti e due… diciamo che stavamo tutti e due». A questo punto la nipote Maria lo incalza: «Si lo so che stavate tutti e due, però l’importante zì è che non l’hai uccisa… che a quella bambina sono state spezzate le ali della vita… L’unica cosa è che chiunque l’avrebbe fatto al posto tuo… ma pure io se una figlia mia avesse fatto una cosa del genere, nascondevo… tu quante volte hai detto, preferisco soffrire io anziché la famiglia mia… l’hai detto sempre… però non è giusto perché chi ha fatto quella cosa a Sarah, cioè almeno deve essere punito, no?». Michele è attonito e con il capo chino chiede di Sarah: «Dice che gli hanno fatto una tomba bella, non so se è grande o è piccola». «Quando esci la andiamo a vedere», risponde la nipote.

«Come deve finire. Che tu esci prima di quella. Tu sei il santo e quella è l'assassina»: così Cosima Serrano al marito Michele Misseri, in un colloquio avvenuto il 3 marzo 2011 nel carcere di Taranto, nel quale lo zio di Sarah Scazzi era detenuto, e che è stato intercettato a loro insaputa. L'"assassina" alla quale fa riferimento è la figlia Sabrina. Ma il tono con il quale Cosima dice quella frase lascia intendere l’esatto contrario. Ossia che Sabrina è innocente e zio Michele colpevole. Il colloquio è stato trasmesso dal Tg1 delle 13.30 del 18 ottobre 2011. «Stai scrivendo ancora il memoriale?» - chiede Cosima a Michele, riferendosi al documento che proprio l'uomo ha consegnato al Gup e nel quale si dichiara unico colpevole dell'omicidio di Sarah. «Sì, sempre scrivo» - risponde il contadino di Avetrana, che poi aggiunge - «dobbiamo vedere come finisce». «Certo, come deve finire - gli dice la moglie - che tu esci prima di quella. Tu sei il santo e quella è l'assassina. Così è, così hai detto tu. E così stanno facendo, come hai detto tu, stanno facendo. Gli assassini fuori e gli innocenti stanno dentro. Che situazione, che situazione... Una vita di fatica, una vita di fatica... Quella ragazza tolta di mezzo, quell'altra dentro. Mamma che disastro». A questo punto Michele chiede se Cosima abbia parlato con l'altra figlia, Valentina, ma la moglie invece di rispondere continua a lamentarsi: «Sarebbe stato meglio se un fulmine fosse caduto sulla casa e ci avesse fulminati tutti quel giorno».

Tutta la verità di Michele Misseri, circa l'omicidio della nipote Sarah Scazzi, raccontata, per filo e per segno, in una ventina di pagine, consegnate, durante l'udienza preliminare, al gup Pompeo Carriere.

Da aggiungere quaranta pagine trascritte delle dichiarazioni spontanee rese da Michele Misseri nell’udienza preliminare. Niente di diverso dal memoriale di venti pagine che aveva consegnato ad inizio seduta (tutte incentrate sull’innocenza delle figlia Sabrina), con delle varianti non contenute nel testo, che rimettono in piedi scenari accantonati del tutto: le presunte avance sessuali nei confronti della nipote che in questo nuovo racconto riprendono tragicamente forma. Con molta chiarezza lo si legge a pagine 32 del verbale. «Della mano era vero, ma ho fatto così (probabilmente Michele mima la pacca sul sedere della ragazza), e Sarah aveva detto: «non lo devi fare più sennò lo dico a Sabrina». E si ritorna quindi alla prima versione contenuta nel suo interrogatorio di garanzia, quando ammise di aver toccato il sedere della nipote il giorno prima che la ragazza si trasferisse a San Pancrazio e quindi a cinque giorni dal suo assassinio. Dubbi anche sul vilipendio del cadavere, anche questo confessato la notte del suo arresto e ritrattato sinora. «Poi quando io ho detto del fatto della violenza - racconta Misseri - Galoppa (il suo ex avvocato) diceva a me: «Ma io lo so che non è vero, perché lo dici, non lo devi dire» ed infatti quella sera prima dell'incidente probatorio io l'avevo detto di nuovo che l'avevo violentata, perché lui mi aveva detto di non dirlo più e l'avevo detto di nuovo e lui mi ha detto: "Ti raccomando, nell'incidente probatorio questa parola non la voglio sentire più" ed io sono stato attento attento a non dirlo».

Ed ecco il memoriale di cui si è parlato. 'Zio Michele', in un italiano molto stentato e a tratti incomprensibile, ricostruisce l'intera giornata di quel tragico 26 agosto, fino ad arrivare al pomeriggio in cui Sarah, in vista di una gita al mare insieme alla cugina Sabrina e all'amica Mariangela, si reca nella villetta di via Deledda. Michele si accorge che il trattore “non partiva” e che quindi non poteva andare a lavorare. Di lì a pochi minuti arriva Sarah, che gli chiede perchè stesse “cridando” e lui le intima “vattene”, ma la ragazzina rimane in garage. Zio Michele sente “cuesto calore alla testa” e con “tutta la sua forza” strangola Sarah con una corda. Misseri fa seguire la descrizione della soppressione del cadavere, nascosto nel “cofano” della Seat Marbella e poi buttato nel pozzo, dopo essersi fatto il segno della croce. Riferisce di aver detto “unaltra bugia”, alla moglie Cosima, a cui dice di dover andare all'azienda del fratello perchè sono scappati i cavalli e la finzione “di interessarsi” con i parenti alla scomparsa di Sarah. Segue il racconto dei pomeriggi successivi, quando Misseri si reca al pozzo “per pregare” per l'anima di quella bambina che in sogno gli dice “di sentire freddo”. Altre pagine, dalla scrittura sempre più incomprensibile, fino al pentimento: “Io sono pentito” perchè “le volevo bene: nessuno saprà mai perchè lofatto”.

Ma nel memoriale Michele Misseri, oltre a descrivere la dinamica dell'omicidio, chiama in causa anche il suo ex difensore, l'avvocato Daniele Galoppa, e la consulente di parte Roberta Bruzzone: «Non sono mai arrivato alla verità perchè con il mio avvocato Galoppa tutte le volte che è venuto a trovarmi in carcere che io dicevo che ho ucciso la povera Sarah, il mio avvocato Galoppa non mi ha mai creduto, ma mi ha solo ubriacato, che mi diceva 'ma perchè dici così'?». Michele, rivolgendosi ai pm, aggiunge di non essere mai riuscito a convincere il suo avvocato e che questo gli avrebbe detto «tanto gli inquirenti non ti credono e nemmeno io ti credo». Per questo «io mi sono sentito depresso - continua Michele - perchè quando dicevo che io ho ucciso Sarah, il mio avvocato mi ha fatto piangere tutte le volte che veniva a trovarmi. Io ho sbagliato quando il mio avvocato mi ha detto 'facciamo venire la dottoressa di Roma', mi sono pentito perchè stavamo scrivendo la vera verità sui fatti. Non sono riuscito perchè erano 2 contro 1. Io non sono mai creduto, come dovevo arrivare alla verità. Tutti quelli dell'opinione pubblica dicevano che io stavo coprendo Sabrina e io avevo perso le speranze». Poi dopo l'incidente probatorio «io mi sono ricordato del compressore » e «avevo detto al mio avvocato di fare una richiesta ma non è stata mai fatta», per questo «ho cominciato a capire che per me non era un bravo avvocato, lui doveva fare il giudice per questo l'ho revocato».

“Cari inquirenti, (comincia così) se ho fatto la farsa e non sono arrivato alla verità perchè con il mio avvocato Galoppa tutte le volte che è venuto a trovarmi in carcere che io dicevo che ho ucciso la povera Sarah, il mio avvocato Galoppa non mi ha mai creduto ma mi ha solo ubriacato, che mi diceva ‘ma perchè dici così, al di là del cancello ti vogliono tutti bene’ e non sono mai riuscito a convincere il mio avvocato mi diceva tanto gli inquirenti non ti credono e nemmeno io ti credo’. Poi per questo mi sentivo depresso. Michele spiega perchè ha revocato l’incarico a Galoppa: “Io ho detto sempre la verità ma l’avvocato Galoppa non mi ha mai creduto per questo l’ho mandato a casa perchè quando non mi crede non mi serve”. Dopo l’incidente probatorio, prosegue il testo, “io mi sono ricordato del compressore e avevo detto al mio avvocato di fare una richiesta ma non è stata mai fatta, per questo ho cominciato a capire che non era un bravo avvocato lui doveva fare il giudice per questo l’ho revocato perchè era diventato il più famoso del mondo”. Della criminologa Roberta Bruzzone non fa il nome ma la chiama “la dottoressa di Roma”, il riferimento a lei è chiaro: “Io ho sbagliato quando il mio avvocato mi ha detto se facciamo venire la dottoressa di Roma mi sono pentito perchè stavamo scrivendo la vera verità sui fatti non sono riuscito perchè erano due contro uno”. Nelle venti pagine prive di punteggiatura, lo zio di Sarah scagiona Sabrina “che è innocente”. Adesso scrive, “sono lucido e ricordo bene mentre prima non ero cosciente e mi hanno portato dove hanno voluto loro”. Al memoriale gli inquirenti non attribuiscono alcun valore, altrimenti lo avrebbero acquisito alcuni mesi fa. Dal punto di vista processuale, per gli inquirenti le uniche dichiarazioni di Michele, che hanno rilevanza sono quelle contenute nel verbale dell’incidente probatorio. Un interrogatorio di dieci ore, tenuto col contraddittorio delle parti, in cui accusa Sabrina. Mentre lui continua a sostenere di essere l’unico responsabile dell’omicidio e della soppressione del corpo della nipote, il suo avvocato Armando Amendolito precisa: «Lo difenderò dai capi d’imputazione che gli vengono contestati».

In questo modo da parte della difesa di Michele Misseri non vi è l’interesse a far rendere interrogatorio in contraddittorio, a scanso di infedele patrocinio. Interrogatorio che, invece, Michele vuol rendere.

Dall’altra parte, le difese delle altre parti imputate possono solo appigliarsi a quanto rende Michele senza il doveroso contraddittorio, per smontare quanto dichiarato nell’incidente probatorio.

Avvocati e magistrati. Tutti impegnati a dimostrare la loro personale verità processuale.

Michele Misseri ha elencato le sue accuse nei confronti di Galoppa, chiamato giudice e non avvocato perché secondo lui faceva unicamente gli interessi degli inquirenti. Misseri ha raccontato di averlo messo alla prova per due volte, allo scopo di capire se si poteva fidare. La prima quando gli raccontò che gli avevano tolto il televisore: non era vero, ma poi sentì che il legale aveva riferito questa circostanza ai giornalisti, pur avendo promesso di non farlo. L’altra quando raccontò all’avvocato che non gli era più permesso coltivare l’orto del carcere, altra circostanza che doveva restare segreta e che invece fu divulgata ai mass media.

«Sabrina non l’ho mai potuta sopportare, non mi piaceva come persona, aveva un modo di fare che mi dava fastidio». Parola di Maria Ecaterin Pantir, l’ex badante rumena della famiglia di Sarah Scazzi che è tornata a lavorare ad Avetrana, dopo un breve periodo di ritorno in patria, e che ha seguito come parte civile, tramite l’avvocato Luigi Palmieri, l’udienza preliminare a carico di 13 imputati. La Pantir è parte civile in quanto Sabrina Misseri risponde di calunnia nei suoi confronti per aver detto ai carabinieri, nel corso di un interrogatorio, che proprio la rumena poteva aver svolto un ruolo nella scomparsa di Sarah.

L’8 settembre 2010, una decina di giorni dopo la scomparsa della 15enne, Sabrina fu convocata dai carabinieri, ai quali disse, tra l’altro: «Mi viene da ricondurre, quale altra persona ipoteticamente coinvolta nella scomparsa di mia cugina, la badante rumena di nome Maria e già nota a voi carabinieri. Tali mie personali considerazioni scaturiscono da un radicale cambiamento comportamentale della predetta, in quanto prima della scomparsa di mia cugina, si intratteneva continuamente in conversazioni telefoniche di cui sconosco gli interlocutori, trascurando il proprio lavoro di assistenza a persona disabile, mentre attualmente avuta notizia e contezza della scomparsa, ha ridotto al minimo indispensabile il suo tempo trascorso al telefonino. A rafforzare questa mia ricostruzione mentale, è proprio una esternazione rivolta all’indirizzo della mamma di Sarah, ed in mia presenza, con la quale la badante rumena si preoccupava della possibilità, in virtù delle indagini, di essere anche lei sotto intercettazione telefonica. Non solo - proseguì Sabrina - ma lei era una delle poche persone, escluse io, Sarah e Mariangela, compresi i genitori di Sarah, a sapere che avevamo intenzione di recarci al mare il giorno della scomparsa, e soprattutto era certa del momento dell’uscita di Sarah dalla propria abitazione. Non solo: la badante è talmente tanto informata delle faccende domestiche della famiglia di Sarah, che anche mia zia, per ricordarsi i dettagli dei momenti salienti della scomparsa di Sarah, chiedeva alla ragazza rumena».  «Mi hanno provocato una sofferenza incredibile - dice Maria alla Gazzetta del Mezzogiorno - perché tutti hanno cominciato a sospettare di me, la gente mi guardava con disprezzo e sui giornali e nelle televisioni si parlava di questa fantomatica pista rumena. Quando è morto lo zio di Concetta, e dunque ho perso il lavoro, ho deciso di tornare in Romania anche se Cosima, la mamma di Sabrina, insisteva perché restassi. Mi aveva offerto di andare a lavorare con lei in campagna, ma non ho mai accettato. C’era qualcosa dentro di me che mi spingeva a non farlo. Mi sono costituita parte civile perché voglio essere riabilitata». La badante ricorda con affetto e commozione Sarah. «Parlavamo e giocavamo spesso assieme, lo abbiamo fatto anche poche sere prima dell’omicidio. Mi vedeva come una sorella maggiore. Io la sfottevo, le chiedevo se aveva un fidanzato ma lei mi rispondeva con forza: “Maria, ma che dici? Sono ancora una bambina”. Mi manca Sarah, mi mancano i suoi sorrisi. Per fortuna con Concetta si è tutto chiarito e dunque sono tornata a vederla, a salutarla».

A Pomeriggio Cinque del 14 ottobre la testimonianza della psicologa Cinzia Gimelli: «Sabrina sa delle cose ma non le può dire». Il “ Caso Scazzi” si arricchisce della testimonianza fornita dalla psicologa Gimelli, che in passato ha fornito un parere psicologico-giuridico nell’interesse della difesa di Sabrina Misseri.

La psicologa Cinzia Gimelli ospite in studio a “Pomeriggio Cinque” e che in passato ha fornito un parere psicologico-giuridico nell’interesse della difesa della cugina di Sarah afferma: «Sabrina sa, sa delle cose come anche Cosima, ma queste cose che sa non sono dirette a se stessa, alla sua famiglia. Lei sa delle cose ma non le vuole dire o non le può dire e queste sono le parole di Sabrina»”. La psicologa continua affermando che le indagini devono essere allargate. E lei, in studio dice inoltre che sono state fatte delle trascrizioni dalla procura e ne sono state tralasciate altre, e lei si riferisce a intercettazioni telefoniche anche tra altre persone che non sono Sabrina, Cosima e Michele.

Anche l’ex fidanzato di Sabrina, Andrea Merico, ha commentato in diretta le dichiarazioni di Concetta Serrano, affermando prima di tutto di essere sempre «convinto dell’innocenza di Sabrina. Ho sempre creduto che una delle prime confessioni fatte, sia più vicina alla realtà, tante persone la pensano come me e che sia stato Michele e non Sabrina a uccidere la piccola Sarah».

La villetta di via Deledda è un bunker avvolto da teloni verde cupo. di quelli che non fanno passare neanche i raggi del sole. Si è chiuso nel buio Michele. Dentro i muri di casa, ma anche quando sta nel giardino è perso nel buio della sua anima. «Nessuno di noi lo ha mai disturbato - dicono i vicini di casa -. Anzi, abbiamo capito il dramma di questa famiglia disgraziata e abbiamo cercato di mantenere un profilo di silenzio e rispetto». Ma il comportamento del contadino non è piaciuto. Un vicino di casa, un suo amico vero, che lo ha difeso più volte, è rimasto male quando ha scoperto che Michele non è stato sincero con lui. La richiesta dei difensori di Sabrina di spostare la sede del processo da Taranto è stata accolta male anche in via Deledda. «Mai abbiamo dato fastidio ai Misseri, mai una parola fuori posto». È vero invece che in via Deledda continua un via vai di persone strane. Sono arrivati due ragazzini, due studenti di Nardò, a bordo di una minicar. «Abbiamo marinato a scuola - hanno detto - per vedere la casa dei Misseri». Poi, una decisione improvvisa. I due hanno scavalcato il muro, sono scesi dall’altra parte nel giardino della villetta, hanno strappato qualche mela cotogna da un albero e sono poi velocemente tornati per strada allontanandosi con la minicar. Un contadino di Sannicola, un paesino vicino a Gallipoli, ha abbandonato il suo campo per arrivare in via Deledda alle 12. «Sono venuto nella speranza di incontrare Michele» ha detto. «Anzi, vorrei fargli una foto». Perché? gli abbiamo chiesto. «La voglio come ricordo». Nel garage di via Deledda Michele ha allestito un altarino con la foto della nipote. «Così posso dire una preghiera» ha detto tempo fa. «Quando uscirà il colpevole andrò al cimitero» ha aggiunto.

Alla sesta sessione dell’udienza preliminare, il 24 ottobre, Cosima Serrano, accusata insieme alla figlia Sabrina Misseri dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi, ha reso dichiarazioni spontanee dinanzi al gup del tribunale di Taranto Pompeo Carriere, parlando per circa 30 minuti e ribadendo la propria innocenza. La donna inizialmente ha fatto riferimento all’intercettazione di un colloquio in carcere tra lei e il marito, all’epoca detenuto, nella quale aveva detto, riferendosi alla vicenda di Sarah, che sarebbe stato meglio quel giorno che sulla loro casa fosse caduto un fulmine. L’espressione, ha spiegato Cosima, era legata al fatto che in quel periodo sia la figlia sia il marito erano finiti in carcere. Rendendo dichiarazioni spontanee al gup dinanzi al quale si celebra l’udienza preliminare, Cosima Serrano ha ricostruito anche la giornata del 26 agosto 2010, giorno in cui Sarah Scazzi venne uccisa. La donna ha detto in particolare di essere rientrata dal lavoro tra le 13,30 e le 13,40 e che ci sarebbero testimonianze al riguardo. Ha quindi mangiato qualcosa, si è "rinfrescata" ed è andata a letto, dove era la figlia Sabrina. Dopo un pò di tempo ha sentito la figlia che si alzava e poi sbattere la porta quando Sabrina è uscita. Quindi, ha udito la figlia chiedere al padre se avesse visto Sarah. Cosima si sarebbe svegliata, secondo quanto da lei dichiarato, quando Sabrina l’ha chiamata al telefono per dirle che Sarah non si trovava. La donna avrebbe consigliato alla figlia di recarsi dai carabinieri.

«Tutto quello che si è venuto a realizzare nell’inchiesta è avvenuto sulla base di alcune testimonianze che si sono modulate nel tempo senza poi arrivare a costituire una prova. L’attendibilità dei testimoni dell’accusa si mette in discussione da sola». Lo ha dichiarato alla stampa e a “Pomeriggio 5” di Mediaset l'avv. Franco De Jaco, che insieme all’avv. Luigi Rella difende Cosima Serrano. «Questi testimoni – ha proseguito De Jaco – hanno rilasciato decine di interviste, hanno partecipato al bailamme indegno che c'è stato all’uscita dalla caserma e all’arresto della signora Serrano gridando e applaudendo, e già questo mina la loro credibilità. Non dimentichiamo che molti di questi soggetti hanno ricevuto compensi ogni volta che andavano in televisione». «Noi chiediamo il proscioglimento di Cosima Serrano – ha concluso il legale – a cui farebbe seguito ovviamente la scarcerazione. Sosteniamo l’assoluta estraneità della signora Serrano all’omicidio e che quindi debba essere assolta, così come Sabrina è assolutamente innocente rispetto all’atto che le viene contestato».

«Abbiamo depositato delle intercettazioni di alcuni testimoni che contrattavano apertamente con le varie emittenti televisive le loro presenze in trasmissioni e non mi riferisco ai programmi di Mediaset». A parlare è Franco de Jaco avvocato di Cosima Serrano che ha raccontato ai microfoni di “Pomeriggio cinque” di aver chiesto il proscioglimento di Cosima perché «le testimonianze si sono evolute nel tempo e inquinate da comportamenti non condivisibili come quello che alcuni dei testimoni si sono prestati a interviste dietro pagamento. Se la signora Cosima ha probabilità di uscire dal carcere? Noi ce lo auguriamo – continua l’avvocato – Perché tutti le ritengono Sabrina e Cosima colpevoli? Perché si genera un’antipatia mediatica, e la gente si fa un’idea senza aver le carte processuali davanti.»

Intanto dal “Il Corriere della Sera” si viene a sapere una cosa sconcertante: c'è un’altra verità nelle foto di Sarah. Un’immagine mostra i lividi ai polsi della ragazza. Il medico legale Strada: «Io non l'ho mai vista».

La foto per intero non è stata proposta per la crudezza delle immagini. È stato ritenuto necessario invece mostrare il particolare dell’avambraccio sinistro (quello destro non è visibile) che presenta, proprio al di sopra dei polsi, delle evidenti ecchimosi con la caratteristica forma a «bracciale» o «manetta». I segni sembrerebbero quelli tipici di legacci o da ammanettamento o da forti strette con le mani. «Sembrerebbe», perché l’autopsia fatta dal professore Luigi Strada, incaricato dalla procura di Taranto, non ha evidenziato «nulla di vistoso» sul corpo sottoposto ad esame. Il fotogramma ingrandito che farebbe invece credere il contrario, è stato scattato la mattina del 7 ottobre del 2010, quando, dopo dieci ore di lavoro con l’escavatore e i badili, le forze dell’ordine e i sommozzatori del nucleo carabinieri di Taranto riuscirono a tirare fuori il corpo martoriato di Sarah Scazzi, rimasto per 42 giorni sommerso nel pozzo-cisterna dove l’avrebbe gettata lo zio Michele Misseri. Dopo circa otto ore da quello scatto, la salma diventerà oggetto di esame sul tavolo operatorio dell’obitorio dell’ospedale Santissima Annunziata a disposizione del medico legale Strada. La foto, una tra tante di quelle scattate lo stesso giorno e depositate agli atti dell’inchiesta, prende una strada diversa e finisce tra i reperti doppioni oppure di scarso interesse per le indagini. A distanza di un anno, la testimonianza fotografica ricompare in qualche modo nel palazzo di giustizia e cattura l’attenzione della procura. Che cautamente smentiva la circostanza facendo rilasciare dichiarazioni stringate del tipo: «Non stiamo compiendo accertamenti su altre foto del cadavere di Sarah». Anche Strada è di poche parole: «Dall’esame autoptico - dice - non è emerso nulla che potesse preoccuparmi». In merito alle indiscrezioni di una sua presenza in procura a Taranto, dovuta proprio al ritrovato reperto, il medico legale taglia corto: «Se qualcuno ha altre foto non lo so e se la procura riterrà di farmele esaminare, ovviamente lo farò». Intanto c’è chi comincia a chiedere di più, addirittura di esumare il corpo per farlo nuovamente esaminare con una nuova autopsia. È il caso dell’avvocato Raffaele Missere che nella sua relazione depositata alla segreteria del gup, Pompeo Carriere, motiva così la necessità di una nuova perizia autoptica: «Non parliamo di fratture macroscopiche - ha precisato il legale - ma anche di segni da ricollegare a traumi ante mortem o post mortem».

La posta in gioco è molto alta (la dimostrazione che Sarah sia stata uccisa da almeno due persone). E già questo è motivo di prudenza e discrezione degli inquirenti consapevoli del delicato momento della vicenda giudiziaria giunta alle battute finali e molto vicina alla fine della decorrenza dei termini dell’imputata principale, Sabrina Misseri, che tornerebbe libera se alla data del 27 novembre il giudice non deciderà per il rinvio a giudizio. A dare importanza al nuovo scenario aperto da questi segni sui polsi, è lo psichiatra Alessandro Meluzzi, consulente di parte della famiglia Scazzi. «Non ho visto le foto, ma ne ho sentito parlare e mi sono state descritte da chi le ha potute visionare e questo - dice - conferma la mia tesi secondo cui si è ancora lontani dall’individuare le modalità e il luogo in cui la ragazza è stata uccisa». Per lo psichiatra, notoriamente convinto della non colpevolezza di Sabrina Messeri e della madre Cosima Serrano, la figura oscura di questa vicenda è proprio Michele Misseri. «Nei suoi racconti - dice - ci sono troppe cose che non tornano, il suo è il ruolo di Igor il becchino, che continua a depistare e a nascondere la verità e complicità diverse».

Meluzzi attribuisce importanza ai segni riportati nella foto tanto quanto ne assegna all’assenza di cibo nello stomaco di Sarah. «Sono i due gravi deficit che nessuno vuole affrontare e risolvere: lo stomaco senza tracce di cibo e quindi la prova che la ragazza è morta almeno quattro ore dopo la tesi della procura e i segni sui polsi (che secondo me sono dei legacci e non impronta di mani) che se confermati disegnano uno scenario del tutto nuovo ancora pieno di colpi di scena». Una strada alternativa al delitto di famiglia che portava ad investigare luoghi lontani da via Deledda, l’avevano tracciata anche gli ex avvocati difensori di Sabrina Misseri, Vito Russo e Emilia Velletri, prima della loro uscita di scena per le note vicende giudiziarie che, ironia della sorte, li vedono tra gli imputati della stessa inchiesta.

Il gup del Tribunale di Taranto, Pompeo Carriere, il 7 novembre ha rigettato la richiesta di riesumazione del cadavere di Sarah Scazzi e di nuovo esame autoptico avanzata in udienza preliminare dall’avvocato Raffaele Missere, difensore di Cosimo Cosma, nipote di Michele Misseri, imputato con lui di concorso in soppressione di cadavere.

Intanto sono stati chiamati tre testimoni: sono la psicologa e lo psichiatra del carcere di Taranto, Dora Chiloiro e Giovanni Primiani, e il cappellano del carcere, don Saverio Calabrese. Tutti hanno avuto modo di parlare nei mesi scorsi con Michele Misseri quando questi era detenuto. L'audizione di psicologa e psichiatra era stata chiesta in una precedente udienza dall’avvocato Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri, accusata con la madre Cosima Serrano dell’uccisione di Sarah. L’audizione di don Saverio era stata chiesta invece dal pm Mariano Buccoliero. Quella di Michele Misseri è stata disposta dal gup Pompeo Carriere in relazione all'imputazione di infedele patrocinio di cui risponde il suo ex difensore di fiducia Francesco De Cristofaro.

Il cappellano del carcere di Taranto, don Saverio Calabrese, citato come testimone, si è avvalso del segreto confessionale e quindi non ha riferito nulla circa i colloqui avuti con Michele Misseri quando questi era detenuto nella stessa casa circondariale.

Lo psichiatra Giovanni Primiani ha testimoniato che Michele Misseri gli ha riferito di essere l’unico colpevole dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi.

La psicologa del carcere di Taranto, Dora Chiloiro, ha testimoniato che Michele Misseri avrebbe ritrattato la prima confessione dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi, accusando del delitto la figlia Sabrina, perchè "consigliato" da qualcuno.

«Psicologo e psichiatra hanno confermato in linea di massima ciò che Michele Misseri ha detto loro sin dall’inizio, quando ha detto che è stato lui» ad uccidere Sarah. Lo ha dichiarato l’avv. Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri, al termine dell’udienza preliminare.

Nell’udienza preliminare per l'omicidio di Sarah Scazzi, Michele Misseri ha detto di non ricordare che il suo ex difensore di fiducia, l'avvocato Francesco De Cristofaro, in un colloquio in carcere gli avrebbe suggerito di accusarsi anche della violenza sessuale ai danni del cadavere di Sarah e di dire che la precedente versione in cui negava questa circostanza gli sarebbe stata suggerita dal precedente legale e dalla criminologa. Misseri ha riferito questo in relazione alla imputazione di infedele patrocinio per la quale è imputato lo stesso De Cristofaro. Era stato il gup Pompeo Carriere a disporre l'audizione di Michele Misseri su questo particolare dell’inchiesta.

«Cosa sta nascondendo Sabrina?». è la domanda che Michele Miseri rivolge in dialetto alla figlia maggiore Valentina in un colloquio nel carcere di Taranto intercettato il 22 ottobre 2010. Una settimana prima, il 15 ottobre, Michele ha accusato dell’omicidio di Sarah la figlia più piccola Sabrina, ritrattando la prima confessione.

Michele Misseri il 15 ottobre 2010, alcune ore prima di esser interrogato dagli inquirenti nel giorno in cui accusò la figlia Sabrina dell’omicidio di Sarah, avrebbe assunto farmaci che gli avrebbero provocato una temporanea perdita di lucidità. E’ quanto lo stesso Misseri ha riferito allo psichiatra del carcere, Giovanni Primiani. La circostanza è stata riferita da Primiani nell’udienza preliminare. La circostanza della presunta assunzione di farmaci da parte di Michele Misseri era già emersa nel corso dell’inchiesta, riferita al periodo nel quale era detenuto: come risulta dagli atti, quattro testimoni, tra i quali due infermieri del carcere di Taranto, hanno detto che Misseri aveva rifiutato qualsiasi assunzione di farmaci tranquillanti, firmando per il rifiuto.

Michele Misseri allo psichiatra Giovanni Primiani e alla psicologa del carcere Dora Chiloiro avrebbe sempre detto di essere stato l’unico colpevole, solo lui avrebbe ucciso Sarah, esattamente come aveva spiegato nella prima confessione, quella del 6 ottobre. E anche quando davanti ai pm ritrattava accusando la figlia, nella sua cella, agli operatori del carcere, ribadiva la sua responsabilità esclusiva.

La psicologa Dora Chiloiro, incalzata pesantemente dagli inquirenti (apparsi molto nervosi) ha detto che dalle sue sedute con Michele Misseri è emerso che qualcuno lo ha aiutato ad accusare la figlia. «Non so se volontariamente o no», ha spiegato. «Misseri mi diceva sempre: "mi hanno consigliato». I due professionisti hanno anche detto di aver appreso dal loro paziente del «movente sessuale», ossia delle molestie che lui avrebbe fatto alla nipote i giorni precedenti l’omicidio. Michele Misseri ha poi sempre detto che quel 9 ottobre quando è stato portato in garage per un sopralluogo, data di inizio delle sue accuse alla figlia, non era in condizioni di intendere e di volere. E lo psichiatra ha confermato che quel giorno era stato svegliato alle tre di notte e gli era stata data una doppia dose della sua terapia, a digiuno e dopo solo cinque ore invece delle dodici disposte dal medico.

Ed è stato sentito anche il cappellano del carcere, don Saverio, chiamato dai pm Pietro Argentino e Mariano Buccoliero, che però ha preferito mantenere il vincolo del segreto: «Per mantenere il segreto della confessione sono pronto al martirio». Non c’è stato bisogno, anche perché è stato lo stesso Misseri in un certo modo a sciogliere questo vincolo raccontando al Gup i contenuti delle sue chiacchierate con il sacerdote e anche perché dopo l’incidente probatorio (in cui Misseri ha detto che la morte della nipotina era stata causata da un gioco, «il cavalluccio», che le due cugine stavano facendo in garage) non è più andato a confessarsi. «Perché avevo detto una bugia su mia figlia e mi vergognavo che a lui avevo detto una cosa e al giudice un altra», avrebbe spiegato Misseri. E il prete mentre ascoltava sorrideva muto.

Soddisfatta la difesa. Il professor Franco Coppi, legale di Sabrina insieme a Nicola Marseglia, spiega: «i testimoni hanno confermato che Michele Misseri ha a loro confidato fin dal primo momento della sua detenzione di essere l’unico esecutore dell’omicidio e della soppressione del cadavere».

«Io a loro, allo psichiatra, alla psicologa e al cappellano ho sempre detto che sono l’unico colpevole», ripeteva Misseri che è stato ascoltato dal Gup Pompero Carriere anche in merito alla vicenda che vede il suo ex legale accusato di infedele patrocinio. Ma Misseri non ha avuto dubbi, difendendo l’operato dell’avvocato, Francesco De Cristofaro e spiegando che è sempre stato solo lui a insistere perchè facesse conoscere ai pm la sua versione dei fatti. Con una lettera visto che i magistrati si rifiutavano di ascoltarlo di nuovo. E inoltre ha spiegato il contenuto di un’intercettazione con sua moglie Cosima da cui i pm hanno dedotto l’infedele patrocinio. Sempre difendendo l’operato del suo ex legale. E questa è un altra sconfitta per l’accusa che vede pian piano crollare il castello accusatorio con il Gup Pompeo Carriere.

Depositate anche alcune intercettazioni, tra cui quella del primo colloquio in carcere tra Valentina Misseri e suo padre che aveva da poco accusato Sabrina. Misseri non sa che la figlia è stata arrestata dopo le sue accuse. E, secondo la lettura che di queste frasi in dialetto fanno i colpevolisti chiederebbe alla primogenita: «Che cosa ha da nascondere Sabrina?» Ma il ricordo di Valentina è diverso così come riferito a Maria Corbi de “La Stampa”: «Papà non mi ha mai fatto quella domanda. Mi ha detto invece: "che cosa ho detto io di Sabrina? Per quale motivo sta qua?". E io gli ho risposto: "non so se te lo posso dire". Quel giorno non glielo ho detto. Non avevo intenzione di andare in carcere, ma quando ha accusato Sabrina volevo vederci chiaro, ero sicura dell’innocenza di mia sorella perché avevo vissuto con mia sorella la notte dell’arresto di mio padre quando non voleva credere che papà fosse colpevole. Io gli dicevo:« E’stato lui». E lei mi diceva. "No, me lo deve dire lui in faccia"».

Inoltre da “Il Corriere della Sera” si viene a sapere di un altro fatto sconcertante. Lo strano caso della cocaina rinvenuta nelle casa al mare della famiglia Scazzi.

Il 6 settembre 2010, dieci giorni dopo la scomparsa della 15enne, i carabinieri trovarono un coltello e un bilancino di precisione nel ripostiglio della villetta.

Il 6 settembre del 2010, dieci giorni dopo l'uccisione di Sarah Scazzi, tra i tanti luoghi battuti per cercare la quindicenne scomparsa, i carabinieri del nucleo investigativo di Taranto visitarono anche la villetta al mare della famiglia Scazzi. E lì fecero una scoperta che per i giorni successivi diede una piega differente alle indagini: in un ripostiglio della casa, i militari trovarono un coltellino, delle tracce di polvere bianca («presumibilmente cocaina» scrivono nel rapporto) e un bilancino di precisione di quelli utilizzati per suddividere le dosi.

Ecco cosa scrivono in quell'occasione gli investigatori del nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri di Taranto nella relazione trasmessa alla Procura della Repubblica: «Trattavasi di un'abitazione di circa 80 metri quadrati, con un giardino pertinenziale su tutti i lati completamente recintato da un muro di cinta in tufo calcareo alto circa 2,20 metri. Nel corso della ispezione di detta abitazione - si legge nell'informativa -, veniva rinvenuto in un vecchio comò tutto il materiale in oggetto indicato il quale appariva intriso di una sostanza stupefacente verosimilmente cocaina». Si trattava di questo: «un coltello da innesto, un bilancino di precisione marca Digitai - New pocket scale - l,ti - I8, un sacchetto per la spesa a cui sono stati praticati alcuni fori di forma tondeggiante della dimensione oscillante di circa 8-10 centimetri».

I reperti raccolti furono poi inviati ai laboratori della sezione scientifica dei carabinieri di Taranto che diedero questi risultati: «Le analisi chimiche e gas cromatografiche condotte sul materiale sequestrato hanno permesso di accertare che nei campioni analizzati (bilancino e coltello) è stata riscontrata la presenza in tracce di cocaina». In seguito al ritrovamento i carabinieri vollero approfondire la vicenda sottoponendo a sommaria informazione i componenti della famiglia i quali esclusero di essere a conoscenza di quella presenza affermando di non usare la casa da diversi anni perché fatiscente. Una sola visita fugace, ammisero gli stessi, fu da loro fatta in occasione del ferragosto di quello stesso anno.

Acquisite queste informazioni gli investigatori dell'arma non hanno ritenuto di andare oltre classificando il reato «a opera di ignoti - si legge ancora - non potendo al momento ipotizzare responsabilità a carico di nessuno, essendo detta abitazione praticamente alla mercé di tutti una volta scavalcato il muro di cinta». L'abitazione in questione che era intestata al Cosimo Spagnolo, zio e papà acquisito di Concetta Serrano, mamma di Sarah, si trova nella vicina località balneare di Torre Colimena. Al sopralluogo dei carabinieri il 6 settembre prese parte Giacomo Scazzi che si recò per indicare il posto alle forze dell'ordine.

Nelle 103 pagine del verbale di udienza del 7 novembre, c’è anche un passaggio che riguarda un episodio rimasto sempre molto misterioso, ovvero il trasferimento di Michele Misseri nell’ospedale Nord il 30 maggio, giorno della sua scarcerazione. Michele si trovava in casa sua da alcune ore, era in compagnia della figlia Valentina dopo aver rilasciato una intervista a due giornaliste di Matrix e della Stampa, quando in via Deledda arrivò un’ambulanza. A parlare del fatto, sollecitato dall’avv. Nicola Marseglia, che con Coppi difende Sabrina Misseri, è stato il dottor Primiani, che proprio quella notte era di turno nel reparto di psichiatria.

«Verso le 0.30 arrivò in ospedale il signor Misseri con una ordinanza firmata di trattamento sanitario obbligatorio. Non avendo però visto nessun certificato medico, perché normalmente quando noi chiediamo o la proposta o la convalida ci vogliono normalmente i soliti due certificati, di due medici diversi. Uno deve proporre e l’altro convalidare la precarietà tale del soggetto e del cittadino che può essere addirittura ricoverato contro la volontà. Chiesi - ha detto Primiani - alla collega del 118 se avesse fatto la proposta di trattamento sanitario e lei mi disse di no. Chiesi se avesse effettuato qualche trattamento farmaco terapeutico e disse di no, perché lei lo aveva trovato abbastanza calmo e tranquillo. Personalmente non ho ritenuto opportuno il ricovero, non ho neanche somministrato farmaci, ho ritenuto che tornasse a casa perchè non ce n’era motivo».

Eppure secondo quanto ha riferito la figlia Valentina, l'ordinanza per il «Tso» (trattamento sanitario obbligatorio) sarebbe stata firmata dal sindaco di Avetrana. Subito dopo la scarcerazione, Michele Misseri era stato portato in ospedale, si era detto su ordine del sindaco il quale aveva disposto un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio). Il primo cittadino di Avetrana, il giorno seguente, ha smentito la circostanza, spiegando di non aver emesso alcuna ordinanza. Ma ora spuntano i documenti che lo contraddicono pubblicati sulla pagina web del TGCOM del 1 giugno 2011. Nel documento, su carta intestata del comando di polizia municipale del comune di Avetrana, si legge chiaramente che "il sindaco, vista la proposta" avanzata dal maresciallo dei carabinieri che richiedeva l'emissione di un Tso per zio Michele, "considerato che dalle informazioni assunte dai medesimi carabinieri occorre effettuare, con estrema urgenza, l'accertamento delle condizioni sanitarie sotto il profilo psicologico, nonché la presenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici", "dispone il trattamento sanitario obbligatorio". Firmato, il sindaco avvocato Mario De Marco.

E' stata violata la legge nel richiedere per Michele Misseri, uno dei protagonisti del giallo di Avetrana, il trattamento sanitario obbligatorio (tso) il 30 maggio, qualche ora dopo la sua scarcerazione? L'interrogativo è posto ai ministri della Salute, della Giustizia e della Difesa dalla deputata radicale Rita Bernardini, la quale ipotizza che si sia trattato di una ''procedura gravemente irregolare''.

A tal riguardo, la deputata radicale Rita Bernardini, membro della Commissione giustizia alla Camera, ha depositato un’interrogazione parlamentare ai Ministri della Salute, della Giustizia e della Difesa in funzione di sindacato ispettivo.

Interrogazione 4-12248. Degenza ospedaliera di Michele Misseri.

Di seguito il testo dell’interrogazione: Atto Camera, legislatura XVI, Interrogazione a risposta scritta 4-12248, presentata da RITA BERNARDINI, mercoledì 8 giugno 2011, seduta n.483.

Al Ministro della Salute, Al Ministro della Giustizia, Al Ministro della Difesa Per sapere

- Premesso che:

il Trattamento Sanitario Obbligatorio (T.S.O.), istituito dalla legge n. 180/1978 e attualmente regolamentato dalla legge n. 833/1978 (articoli 33 - 35), è un atto composito, di tipo medico e giuridico, che consente l’effettuazione di determinati accertamenti e terapie ad un soggetto affetto da malattia mentale che, anche se in presenza di alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, rifiuti il trattamento;

il concetto di T.S.O. è basato su valutazioni di gravità clinica e di urgenza ed è quindi inteso come una procedura esclusivamente finalizzata alla tutela della salute e della sicurezza del paziente;

dal punto di vista normativo, il Trattamento Sanitario Obbligatorio viene emanato dal Sindaco del Comune presso il quale si trova il paziente, su proposta motivata del medico. Qualora il trattamento preveda un ricovero ospedaliero, è necessaria inoltre la convalida di un secondo medico, appartenente ad una struttura pubblica;

il Sindaco può emanare l’ordinanza di Tso nei confronti di un libero cittadino solo in presenza di due certificazioni mediche che attestino che la persona si trova in una situazione di alterazione tale da necessitare urgenti interventi terapeutici;

che gli interventi proposti vengono rifiutati e che non è possibile adottare tempestive misure extra ospedaliere;

le tre condizioni di cui sopra devono essere presenti contemporaneamente e devono essere certificate da un primo medico (che può essere il medico di famiglia, ma anche un qualsiasi esercente la professione medica) e convalidate da un secondo medico che deve appartenere alla struttura pubblica;

le certificazioni oltre a contenere l’attestazione delle condizioni che giustificano la proposta di Tso, devono essere motivate nella situazione concreta. In altre parole non dovrebbero essere ammesse certificazioni che si limitano alla mera enunciazione delle tre condizioni sopra indicate, né tanto meno prestampati. Così come non dovrebbero essere prese in considerazione certificazioni che si limitano alla sola indicazione della diagnosi;

in data 30 maggio 2011 il Sindaco di Avetrana, avv. Mario De Marco, ha disposto “il trattamento sanitario obbligatorio in considerazione di degenza ospedaliera del Sig. Michele Misseri da effettuarsi presso una struttura ospedaliera idonea mediante trasporto con unità di pubblico soccorso 118”;

il provvedimento del Sindaco di Avetrana è stato adottato, contrariamente a quanto stabilito dalla legge n. 833 del 1978, non su proposta motivata di un medico né su domanda del medico curante del Sig. Misseri, ma sulla base di una richiesta formulata in data 30 maggio 2011 dal Comandante della Stazione dei Carabinieri di Avetrana, Maresciallo Fabrizio Viva, e, quindi, sulla scorta di non meglio precisate informazioni assunte dai medesimi carabinieri in base alle quali, a parere del Primo Cittadino di Avetrana, si rendeva necessario effettuare, con estrema urgenza, l’accertamento delle condizioni sanitarie del Sig. Misseri sotto il profilo psicologico;

peraltro il Tso disposto nei confronti del Sig. Misseri prevede il ricovero ospedaliero, sebbene non risulti esservi agli atti la convalida del provvedimento da parte di un secondo medico appartenente ad una struttura pubblica così come previsto dalla normativa di settore;

l’articolo 33 della legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, stabilisce che gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari;

qualora previsti, i trattamenti sanitari obbligatori devono comunque rispettare la dignità della persona, i diritti civici e politici, compreso, per quanto possibile, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura;

l’articolo 33, comma 3 della legge n. 833 del 1978 aggiunge inoltre che gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato.

- quale sia stata l’esatta dinamica degli avvenimenti che hanno portato alla degenza ospedaliera coatta del sig. Misseri, e per quali motivi il Maresciallo dei carabinieri di Avetrana abbia proposto il Tso nei confronti del signor Misseri e il Sindaco di Avetrana lo abbia disposto;

- se non si ritenga opportuno che siano resi pubblici tutti gli atti in base ai quali è stato attuato tale provvedimento (compresi i verbali dei carabinieri);

- si chiede di sapere se il Ministro in indirizzo intenda fare chiarezza sulla vicenda, verificare la regolarità della procedura e appurare se vi era la necessità di sottoporre il Sig. Michele Misseri al Tso. 

A tale interrogazione è stato inoltrato sollecito di risposta il 06/07/2011, il 21/09/2011, il 11/10/2011. Tutto lettera morta. Se non si rende conto ai parlamentari interroganti, figuriamoci ai poveri cristi.

Comunque tanto si è fatto per rinchiudere Michele Misseri in ospedale, ma le medesime istituzioni nulla hanno fatto per proteggerlo dalle cosiddette persone “normali”.

«Devo rimanere ad Avetrana per difendere la mia casa». Ormai da settimane, Michele Misseri sostiene che la sua abitazione sia diventata una sorta di bersaglio. Nel giardino vengono lanciate pietre, bottiglie, lattine e altri oggetti. Quanto pare, in giardino, gli è stato fatto trovare anche un cappio. Un invito molto esplicito ed allo stesso tempo macabro. E dopo giorni di allarmi segnalati ai carabinieri la premonizione di Michele si è concretizzata. Una bomba carta è stata lanciata nel giardino della villetta di via Deledda ed è esplosa provocando danni ad una fioriera in cemento collocata vicino alla veranda. L’episodio si è verificato mentre Michele non era in casa. Si era recato in caserma per ottemperare all’obbligo di firma a cui è stato sottoposto a partire dal 30 maggio, giorno in cui ha lasciato il carcere di Taranto. Il botto è stato udito da alcuni vicini di casa che hanno allertato immediatamente i carabinieri. Sul posto sono intervenuti i militari della locale stazione, diretti dal maresciallo Fabrizio Viva, per effettuare un accurato sopralluogo alla ricerca di tracce utili per l’attività investigativa. Stando ai primi accertamenti, gli ignoti autori del gesto, hanno utilizzato un ordigno rudimentale. Una delle ipotesi al vaglio degli investigatori dell’Arma, è che si sia trattato del gesto di un teppista. Quest’ultimo come i precedenti episodi sono stati segnalati ai carabinieri. Per proteggersi da curiosi e vandali, Michele, ad agosto, ha ricoperto la recinzione e il cancello con un telo scuro e spesso. A quanto pare, adesso si annota i numeri di targa delle auto di coloro che si soffermano per guardare con insistenza o che gli sembrano sospetti e li consegna ai carabinieri. A suo dire, si tratta di individui che lo perseguitano. Segnalazioni e denunce inutili. Ormai per i “normali” si tratta di Michele Misseri: sub-persona indegna di protezione, destinata alla punizione che si merita.

Inoltre si viene a sapere che non era di Sarah Scazzi la macchia rinvenuta sul sedile posteriore della Opel station wagon di sua zia Cosima Serrano, in carcere con la figlia Sabrina Misseri con l’accusa di aver sequestrato e ucciso la 15enne di Avetrana. sono stati resi noti gli esiti della perizia, conferita tramite incidente probatorio dal giudice per l’udienza preliminare Pompeo Carriere alla biologa Paola Montagna della terza sezione del dipartimento investigativo della polizia scientifica di Roma.

Non mancano, però altri colpi di scena. Questo a dimostrare l’assunto che chi si mette contro i magistrati paga fio. Fin ora la strategia dei Pm di Taranto è stata “tutti dentro” poi si vedrà, perché qui chi comanda detta legge.

Il procuratore aggiunto Pietro Argentino, in particolare, ha chiesto al gup Pompeo Carriere la trasmissione degli atti riguardanti la deposizione della psicologa del carcere Dora Chiloiro per verificare la possibilità di contestarle la falsa testimonianza. La dottoressa Chiloiro, in particolare, nel corso della sua deposizione, sollecitata dalla difesa di Sabrina Misseri, ha detto, come risulta dal verbale, di aver avuto diversi colloqui con Michele Misseri («all’inizio della detenzione con più frequenza, poi successivamente sono divenuti più radi»), aggiungendo di averlo rivisto dopo l’incidente probatorio del 19 novembre, di aver saputo che verso Natale stava scrivendo lettere alle figlie e stava preparando il memoriale che poi ha consegnato al dottor Carriere nel corso dell’udienza preliminare. Testualmente la dottoressa Chiloiro ha detto: «Nelle lettere scriveva alle figlie e chiedeva perdono. Poi le lettere non venivano lette da noi. Il memoriale era invece la sua versione dei fatti, la sua confessione».

La Procura, però, ha dimostrato, depositando un accertamento effettuato dal nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri, che, registri dei colloqui del carcere alla mano, in realtà risultano tre soli incontri tra Michele Misseri e la psicologa Chiloiro (il 10, il 13 ed il 17 ottobre) e che gli stessi sono avvenuti quando il contadino di Avetrana non solo non era stato ancora sottoposto a incidente probatorio, ma non aveva nemmeno iniziato a scrivere le lettere alle figlie e il memoriale. A difendere la psicologa è subito intervenuto il professor Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri, il quale ha detto che non è possibile sollevare dubbi su una professionista per un colloquio in più o in meno, aggiungendo (accusando velatamente i magistrati) che «mancava ancora qualcosa per completare una corona, la richiesta di incriminazione di un'altra persona».

Intanto si viene a sapere da TeleNorba che Michele ha denunciato l’avvocato Daniele Galoppa, anche all’Ordine degli avvocati. Secondo l’esposto scritto a mano da Michele, il suo primo avvocato, appunto Galoppa, rilasciava alle tv l’oggetto delle dichiarazioni rese dal suo cliente.

Nella moltitudine di storie, vicende e retroscena che caratterizzano il caso che ruota attorno all’omicidio di Sarah Scazzi, arriva anche quella dell’avvocato che denuncia il suo ex assistito.

Daniele Galoppa ha infatti denunciato Michele Misseri per diffamazione: ad essere contestate le parole con le quali lo zio di Sarah ha detto di aver accusato sua figlia Sabrina su “consiglio” proprio del penalista grottagliese. A stretto giro Galoppa sporgerà denuncia anche per calunnia. Lo stesso Galoppa aveva presentato denuncia anche nei confronti del colonnello Luciano Garofano, consulente della famiglia Scazzi, del giornalista Paolo Liguori e del suo collega Francesco De Cristofaro. Da quanto si è appreso, il legale ha depositato tre esposti in Procura a Taranto. Due di essi sono stati firmati insieme alla criminologa Roberta Bruzzone, ex consulente della difesa, dimessasi insieme al medico legale Umani Ronchi dopo la revoca dell’incarico a Galoppa da parte di Michele. Galoppa e la Bruzzone hanno deciso di sporgere querela nei confronti dell’ex capo del Ris e del giornalista di Mediaset per le dichiarazioni rilasciate in alcune trasmissioni televisive. Un tempo erano codifensori di Michele Misseri, ma procedevano in totale autonomia. Oggi, fra l’avvocato Francesco De Cristofaro, difensore di Misseri, e l’avvocato Daniele Galoppa, che lo fu inizialmente d’ufficio e poi di fiducia prima di essere revocato, è guerra dichiarata. Secondo quanto è stato possibile sapere, l’avvocato De Cristofaro ha infatti a sua volta presentato denuncia contro Galoppa, in riferimento alle dichiarazioni fatte dall’avvocato Galoppa a «Quarto grado», trasmissione delle reti Mediaset. A ravvisare gli estremi della denuncia sarebbero state le riserve mostrate dall’ex difensore di Michele Misseri sulla condotta dell’avvocato De Cristofaro.

Quest’ultimo aveva ricevuto dal suo cliente la lettera in cui Michele Misseri si autoaccusava, ancora una volta, dell’omicidio di Sarah Scazzi. Quella lettera fu consegnata dal legale alla procura per le determinazioni del caso. Secondo l’avvocato Galoppa, quella condotta non sarebbe stato in linea con i criteri di deontologia professionale di un difensore di fiducia. Le critiche larvate mosse dall’avvocato non sarebbero affatto piaciute al collega che, appunto, ha inteso tutelarsi con una denuncia. Sin qui le vicende collaterali al procedimento sull’omicidio.

Nel contempo vengono pubblicate le motivazione della Corte di Cassazione del rigetto dell’istanza di rimessione. Pur condannando «la celebrazione di processi virtuali» paralleli a quelli naturali, l’«eccezionale rilevanza mediatica attribuita alla vicenda di Sarah Scazzi» non può avere una «incidenza causale sul sereno e obiettivo esercizio della funzione giudiziaria». Ad affermarlo sono i giudici della Cassazione che motivano così il provvedimento del 12 ottobre 2011 che respingeva la richiesta della difesa di Sabrina Misseri di spostare l’inchiesta da Taranto per incompatibilità ambientale. Riconoscendo, comunque, la difficoltà di un’inchiesta così complessa, «gli ermellini» invitano ad una maggiore attenzione alle singole acquisizioni processuali, comprese le dichiarazioni dei testimoni «e le diverse versioni di Michele Misseri», da cui «potranno essere dedotte eventuali invalidità» per «l’inosservanza delle regole processuali da parte del pubblico ministero».

A Taranto non c’è un clima ostile nei confronti delle Misseri e il clamore del caso non ha condizionato le decisioni dei magistrati. E’ infondata, secondo la Cassazione, la richiesta di spostare il processo presentata dalla difesa di Sabrina e Cosima. Nelle motivazioni della sentenza di rigetto depositate il 15 novembre 2011, la Prima sezione penale “scagiona” magistratura tarantina e stampa locale responsabili, secondo la difesa di Sabrina, dell’asserito clima locale avverso su cui si basava la richiesta di rimessione. Le due donne, è la tesi difensiva, sarebbero state arrestate sull’onda di una volontà popolare giustizialista da giudici “inconsapevolmente influenzabili” dal clamore mediatico e dalla stampa locale, definita nella memoria integrativa degli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia, una paladina dell’autorità giudiziaria tarantina, oltre che la principale causa del clima ostile. Il pg aveva chiesto l’accoglimento della richiesta, ma il collegio l’ha rigettata. Sul delitto di Avetrana, attraverso la “celebrazione di processi virtuali paralleli a quelli in corso di trattazione” è stata “alimentata una morbosa ed esasperata attenzione” che “ha mortificato il principio di pari dignità di ogni persona”. Su questo non ha dubbi la Prima sezione penale (relatrice Margherita Cassano) che in 13 pagine spiega perchè il 12 ottobre 2011 ha detto no al trasferimento del processo in corso a Taranto per l’omicidio di Sarah. Secondo gli “ermellini” manca, però, il presupposto della “grave situazione locale” tale da determinare la rimessione del processo. La Suprema Corte riconosce che “l’eccezionale rilevanza mediatica attribuita alla vicenda in alcune occasioni, ha travalicato le esigenze di una doverosa informazione su un fatto di incontestabile gravità per dare luogo alla celebrazione di processi virtuali paralleli a quelli in corso di trattazione nell’unica sede deputata”, alimentando “una morbosa ed esasperata attenzione che ha mortificato il principio di pari dignità di ogni persona solennemente affermato dall’articolo 2 della Costituzione”. Ma, fa notare la Cassazione, “la dimensione non locale bensì nazionale delle campagne di stampa e televisive riservate alla vicenda processuale” su Avetrana porta a ritenere che quand’anche il processo fosse stato spostato “in altre parti del territorio” non avrebbe in alcun modo “eliminato l’eccezionale clamore mediatico nazionale nell’interesse dell’opinione pubblica da esso alimentato”. A modo di vedere della Suprema Corte, che il 13 ottobre aveva respinto i ricorsi presentati dai difensori di Sabrina, avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia e della madre Cosima, avvocati Luigi Rella e Franco De Jaco, “non è in alcun modo comprovato che la massiccia campagna mediatica sviluppatasi su tutto il territorio nazionale abbia in alcun modo influito, menomandola, sul sereno e imparziale esercizio delle funzioni giudiziarie da parte dei magistrati di Taranto e abbia condizionato le loro scelte processuali o il contenuto dei provvedimenti di loro rispettiva competenza”. Mentre in altre sentenze i giudici della Suprema Corte avevano riservato qualche bacchettata alla magistratura tarantina, in quest’ultima difendono l’operato della pubblica accusa ritenendo i comportamenti e le scelte del pubblico ministero censurati dalla difesa di Sabrina e di Cosima, non “il riflesso di una grave situazione locale determinata da una abnorme pressione mediatica” ma “fatti interni alla dialettica processuale”. In questa ottica spiegano gli “Ermellini” che “le progressive acquisizioni investigative, la plurima assunzione delle dichiarazioni delle persone informate sui fatti, la valutazione della loro credibilità intrinseca ed estrinseca, l’approfondimenti degli accertamenti medico-legali in base all’evoluzione degli accertamenti disposti”, come pure “la scelta dei tempi degli interrogatori di Michele Misseri, la valenza e gli elementi raccolti a carico di Sabrina Misseri e Cosima Serrano rispondono alla finalità di ricostruzione del fatto e delle singole responsabilità e non possono, invece, essere lette come l’espressione di un patologico condizionamento della imparzialità e serenità della funzione giudiziaria ad opera di una massiccia campagna mediatica nazionale con riflessi anche in ambito locale”. In ogni caso, la Cassazione ricorda che “le singole acquisizioni processuali, comprese le dichiarazioni rese dalle persone informate dei fatti e le diverse versioni dell’accaduto fornite nel tempo da Michele Misseri, dovranno formare oggetto delle doverose e approfondite verifiche giudiziali nel contraddittorio fra le parti e che in tale sede potranno essere dedotte eventuali invalidità degli atti causate dall’inosservanza delle regole processuali da parte del pubblico ministero”. Quindi, secondo la Suprema Corte, i provvedimenti adottati dal gip e dal Tribunale di Taranto “non costituiscono il frutto del condizionamento operato da una grave situazione locale ma rappresentano l’espressione fisiologica dell’esercizio della funzione giudiziaria”. Infine, secondo la Cassazione, è “indimostrata la negativa incidenza causale sul sereno e obiettivo esercizio della funzione giudiziaria e sull’adozione dei singoli provvedimenti dei commenti proliferati sui social network aperti ai commenti e ai contributi di una pluralità di persone dislocate in varie parti del territorio nazionale”. Tutte queste opinioni, è la conclusione dei giudici, “non consentono di prevedere reali ostacoli al corretto svolgimento del giudizio o di formulare fondatamente dubbi sulla imparzialità dei giudici tarantini e sull’esito non imparziale e sereno del giudizio”.

Intanto nuovi elementi emergono dagli atti dell'inchiesta sulla morte di Sarah Scazzi. In particolare vien fuori come il traffico telefonico dal cellulare di Sabrina Misseri la notte tra il 6 e 7 ottobre 2010 quando suo padre confessò l’uccisione della nipote facendo ritrovare il corpo nel pozzo in contrada Mosca. «Papà, perché non me lo hai detto prima?» chiede Sabrina al genitore. Sono le ore 3 e 47 minuti di quella notte. Zio Michele si è liberato di un peso e attende di essere trasferito in carcere. Ha ancora il telefono in tasca. Il numero che compare è sempre quello di Sabrina che lo ha chiamato più volte, una ventina nelle ultime 3 ore. I militari fanno finta di non vedere il reo confesso che afferra l’apparecchio e risponde alla chiamata (le utenze sono intercettate). La voce della ragazza è pacata. La risposta di papà Michele alla domanda di Sabrina è un addio. «Si, non mi aspettare più». Ma Sabrina vuole sapere. «Si, va bene no… papà, io ti voglio parlare però poi…». E lui: «Ma chissà quando». La figlia lo incalza ancora. «No ma chissà quando…vedi che puoi decidere quando vuoi tu per parlare con noi». Il contadino che poco prima si era accusato di terribili reati come l’aver strangolato la nipote quindicenne e di avere approfittato del suo corpo senza vita, pecca d’ingenuità: «Si, però il telefono se lo lasciano a me». La ragazza dice che ci penseranno gli avvocati a farlo parlare con i familiari. Poi la domanda a cui l’uomo non sa rispondere: «Però, papà, perché lo hai fatto? Io non me lo so spiegare proprio… tu non hai mai fatto niente di male… perché in quel momento… cosa ti è venuto?». «Non lo so», dice Michele che sente i saluti della figlia: «Poi parliamo, ciao». In effetti quelle sono state le ultime parole che si sono dette padre e figlia.

Quel "Papà perché l'hai fatto? Ti voglio parlare" detto a caldo potrebbe dare una doppia lettura:

Perché lo hai fatto (cioè confessare)?

Perché lo hai fatto (cioè uccidere Sarah)?  

A questo punto è interessante il reportage con l’album della famiglia Misseri che Raffaella Fanelli fa su Panorama. «L’ho uccisa io… l’ho uccisa io». Michele Misseri quasi lo sussurra davanti al portone in ferro del garage di via Deledda. A pochi metri da quella villetta al civico 22 che è diventata la casa dell’orrore e della morte, lì dove venne uccisa la piccola Sarah Scazzi, due ragazzini giocano a pallone e urlano: Assassino! Lo fanno prima di scappare e di sparire dietro l’angolo che incrocia la via Sanzio.

«C’hanno ragione, c’hanno… vabbanni», un “vattene” quasi urlato, e in un dialetto che chi scrive conosce benissimo. Forse è per questo, per l’inaspettata chiacchierata in pugliese, che zio Miché si ferma davanti alla villetta trasformata in bunker, con reti in metallo e un’impenetrabile copertura in tela verde: «Mi buttavano dentro di tutto… pure due bombe carta mi hanno lanciato in giardino. Ma me lo merito, è niente per ciò che ho fatto». Sospira, Michele Misseri, mentre spinge la sua vecchia bici all’interno del garage. Chiedo di entrare, di vedere l’altarino che ha fatto in ricordo di Sarah. Ma niente. Il portone si richiude per riaprirsi pochi minuti dopo. La domanda: «Lei si fa pagare per le interviste?» lo fa reagire stizzito. «Mai preso soldi».

Sarah è stata strangolata con la fascetta dello zaino? «Basta con questa storia dello zaino… è una cretinata di voi giornalisti». Lei tornò al pozzo dopo l’omicidio? «Ci tornai perché mia nipote, in sogno, mi aveva detto che aveva freddo. Portai la corda che avevo usato per metterla dentro al pozzo, la legai al vigneto per tirarla fuori ma non si vedeva niente. Era tutto buio. E nel pozzo io non c’entravo, era troppo stretto». Il flash della macchina fotografica di chi mi accompagna lo spinge all’interno del garage. Il portone si richiude. Senza più riaprirsi.

Inutile l’attesa, anche il campanello viene staccato. Michele Misseri non ha altro da dire. Resta barricato in quella villetta dove ormai tutto è troppo grande. Anche il tinello. La casa è vuota. Vuota la stanza da letto, vuota la camera di Sabrina. C’è solo lui in quei duecento metri quadrati. Valentina è tornata a Roma. Da lì sono partiti i messaggi che Virginia Coppola, la nuova fidanzata di Ivano Russo, il ragazzo conteso e preteso da Sabrina Misseri, dice di aver ricevuto su Facebook. «Mi ha scritto che sua madre e sua sorella sono innocenti… che ama Avetrana ma che qui ce l’hanno anche con lei, e che tutti i compaesani la guardano con disprezzo». Ma è stata minacciata da Valentina? «Minacce a me? Non si deve permettere, vado a Roma a prenderla per i capelli… non possono incriminarla perché è parente, ma se lo meriterebbe. Lei sapeva tutto fin dall’inizio». Un messaggio di minacce sarebbe invece arrivato ad Ivano Russo, l’oggetto del desiderio di Sabrina, che, forse, a causa sua avrebbe ucciso la cugina quindicenne Sarah.

Il bell’Ivano, ribattezzato “l’Alain Delon di Avetrana”, avrebbe trovato, stando alle dichiarazioni della giovane Virginia, un messaggio di minacce fuori dal cancello di casa. «Mi sono arrabbiata con lui, gli ho detto: “che me lo porti a fare? Devi darlo ai carabinieri…”, ma Ivano non ha voluto». Cosa c’è scritto sul quel biglietto? «Solo una frase, “Basta Ivà, adesso dovete stare zitti”… e l’hanno attaccato al cancello di casa». Dovete… perché al plurale? «Non lo so, ma di certo chi l’ha scritto non può essersi riferito a me». E allora a chi? La bella mora che ad Avetrana fa l’assicuratrice giura di non saperlo. Sapeva, invece, Valentina. Per Virginia sapeva tutto.

Ribattezzato dai rotocalchi pomeridiani come l’Alain Delon di Avetrana, Ivano sembra essersi legato stabilmente ad una bella mora avetranese. La «lei», che vanta amicizie con i cronisti che si sono occupati del caso Scazzi con le corrispondenze da Avetrana, si chiama Virginia Coppola, ha 32 anni e fa l’assicuratrice.

La notizia della coppia, passata di bocca in bocca, è arrivata addirittura sulla «home page» del sito internet di gossip più informato d’Italia, «Dagospia», che ha battuto queste poche righe: «Ivano Russo, uno dei principali testimoni del caso Sarah Scazzi, nonché ex flirt di Sabrina Misseri, si è innamorato. Ad Avetrana tutti parlano della sua nuova fidanzata».

Il sentimento, secondo i bene informati di Avetrana, è ampiamente ricambiato. Virginia non fa certo mistero del suo amato bene. Lo ha piazzato in bella vista nella foto del suo profilo di «Facebook» e scriveva ai suoi amici: «Quando meno te lo aspetti... senti il cuore che arriva a mille appena lo vedi... in quel momento capisci che sei perdutamente innamorata».

Anche Cosimo Cosma, nipote di Michele Misseri, accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello di zio Michè, Carmine Misseri, ne è convinto: «Sono rimasti in quella casa per 42 giorni, insieme. Qualcosa sapeva». Cosimo Cosma si dice “innocente”. Non avrebbe mai aiutato suo zio ad occultare il corpo della piccola Sarah: «Andava a scuola con mio figlio, aveva la sua stessa età.

Come avrei potuto fare una cosa del genere? Non sapevo neanche dov’era quel pozzo… la contrada Mosca sì, ci passo due volte all’anno… Mi hanno indagato per una telefonata, perché mio zio, quel giorno, mi cercò sul cellulare di mia moglie dopo aver trovato spento il mio».

Il 21 novembre 2011 Il gup Pompeo Carriere, dopo undici udienze preliminari, finalmente e scontatamente si è pronunciato.

Assoluzione dei tre imputati che hanno chiesto ed ottenuto il rito abbreviato. Per Emilia Velletri accusata di soppressione di atti veri in concorso con il marito Vito Russo. Come per lei, sono cadute le accuse degli altri due avvocati Francesco de Cristofaro, del foro di Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri (era accusato di infedele patrocinio) e Gianluca Mongelli (tentato favoreggiamento personale). La procura aveva chiesto un anno di reclusione per Velletri e De Cristofaro, sei mesi per Mongelli.

Proscioglimento per Anna Scredo, cognata del fioraio Giovanni Buccolieri, presunto testimone oculare del sequestro di persona, accusata di favoreggiamento personale. Prosciolto per non luogo a procedere anche l’avvocato Vito Russo, ma solo per due imputazioni su tre: di tentato favoreggiamento personale e di soppressione di atti veri, quest'ultima in concorso con la moglie. Questi ultimi due avevano scelto il rito ordinario.

Rinvio a giudizio, che ha fissato per la prima udienza il 10 gennaio 2012, di 9 su 10 imputati giudicati con il rito ordinario. Sabrina Misseri e Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia materna della vittima, hanno ascoltato in aula il verdetto. La procura contesta loro le accuse più pesanti: concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere. Per quest'ultima accusa, oltre a Michele Misseri, padre e marito delle due donne, sono chiamati a giudizio anche due suoi parenti: Cosimo Cosma e Carmine Misseri, rispettivamente nipote e fratello del contadino di Avetrana. Secondo l'accusa, i tre uomini avrebbero contribuito a far scomparire il corpo della ragazzina calandolo in fondo al pozzo di contrada Mosca, nelle campagne di Avetrana, dove poi fu trovato 42 giorni dopo l'omicidio. Michele, zio della vittima, e' accusato anche di furto, danneggiamento seguito da incendio e ricettazione del telefonino della vittima. Per Sabrina confermata anche l’imputazione di calunnia ai danni della ex badante di casa Scazzi, Maria Ecaterina Pantir. Rinviato a giudizio anche l'avvocato Vito Russo, ex difensore di Sabrina Misseri, che non ha optato per il rito abbreviato: è accusato di intralcio alla giustizia. Gli altri imputati sono tutti presunti favoreggiatori del fioraio di Avetrana Giovanni Buccolieri: si tratta del cognato Antonio Colazzo, la suocera dello stesso Buccolieri, Cosima Prudenzano, e l'imprenditore turistico Giuseppe Nigro.

Sarà la Corte di Assise di Taranto a decidere il loro destino.

Posizioni stralciate invece per Giovanni Buccolieri, del suo amico Michele Galasso e di un anziano di Manduria. L'uomo avrebbe negato di aver parlato telefonicamente con un testimone, conversazione che era agli atti degli inquirenti, finendo così indagato, come Buccolieri e Galasso, per false informazioni al pm.

Dei nove imputati che andranno a processo, solo Cosima e Sabrina sono in carcere. Quest'ultima, in particolare, è detenuta dal 15 ottobre del 2010, ovvero da quando il padre la accusò di aver avuto un ruolo nell'omicidio di Sarah. Cosima è in carcere dal 26 maggio 2011. Michele Misseri è invece tornato libero il 30 maggio 2011.

A questo punto l’autore del libro, Antonio Giangrande, vorrebbe commentare, se glielo si permette, quanto sta avvenendo a Taranto nel caso del delitto di Sarah Scazzi. Lo fa in virtù del fatto che, da avetranese e tarantino e per il ruolo che svolge, bene conosce la vicenda e bene conosce i fatti che succedono a Taranto, tanto da aver scritto un libro su Sarah Scazzi e un libro su Taranto. Libri da leggere sul web ed aggiornati periodicamente.

Pur conoscendo bene la vicenda Scazzi, avendola approfondita in testi ed in video, laddove non lo ha fatto certa stampa che da del “tu” ai magistrati tarantini, abbarbicati dietro le porte dei loro uffici, di ciò si vorrebbe parlarne in modo oggettivo.

Quando si parla di vicende giudiziarie, non bisogna mai dimenticare che il Foro di Taranto dall’autore è definito “IL FORO DELL’INGIUSTIZIA”.

Il Foro di Taranto è quello della vicenda di Martino Scialpi, che da 30 anni aspetta che gli venga riconosciuta la vincita del 13 al Totocalcio, per la quale a luglio 2010 la procura di Potenza aprì un fascicolo di indagine sui magistrati di Taranto, che nell’arco di oltre vent’anni si sono occupati della vicenda di Scialpi.

Il Foro di Taranto è quello del caso di Carmela Cirella che volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto.

Il Foro di Taranto è quello del caso Sebai, il killer delle 15 vecchiette, per il quale Faiuolo, Orlandi, Nardelli, Tinelli, Montemurro, Donvito sono stati condannati, nonostante altri testimoniano la loro colpevolezza. Donvito aveva sempre proclamato, inutilmente, la propria innocenza e si è determinato a togliersi la vita non potendo più reggere il peso di una ingiusta detenzione.

Il Foro di Taranto è quello che ha condannato da innocente Domenico Morrone a più di 15 anni di carcere.

Il Foro di Taranto è quello che ha condannato da innocenti per il caso “Strage della Barberia”  Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello tra gli 11 e i 30 anni.

Il Foro di Taranto è quello che ha condannato senza processo 292 braccianti agricoli.

Non dimentichiamoci poi che il Foro di Taranto, e colpevolmente la stampa omertosamente tace, è quello che, come molti ricorderanno, arrestò il compianto On. Pietro Franzoso. L’on. Franzoso, tarantino, all'epoca non ancora deputato, ma assessore regionale ai trasporti della Giunta Fitto, a dicembre del 2004 fu arrestato da innocente come un malfattore, rinchiuso in cella per una settimana, accusato di voto di scambio che avrebbe ottenuto attraverso la concessione di non precisati favori a una cosca mafiosa.

Il Foro di Taranto poi è anche quello dove un fallimento può durare anche mezzo secolo !!!

Il Foro di Taranto è anche quello con il rapporto denunce-condanne pari all’11%.

Il Foro di Taranto è quello dei magistrati arrestati o inquisiti.

Il Foro di Taranto è ecc., ecc, . ecc.                                                       

Il Foro di Taranto è anche quello che ha disposto il sequestro preventivo d’urgenza del sito web di informazione ed inchieste dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il sito web oscurato pubblicava, tra le migliaia d’inchieste attinte dai maggiori organi d’informazione, anche quelle attinenti il Foro di Taranto.

Il Foro di Taranto è quello che presso la Sezione distaccata del Tribunale Manduria, il 1 dicembre 2011, procederà alle udienze dibattimentali per 3 distinti processi a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, per il reato contestato di “Diffamazione a mezzo stampa” o “Violazione della Privacy”.

Ossia aver pubblicato inchieste attinenti il Foro di Taranto.

Sarebbe buona cosa che la stampa seguisse i processi in cui il giudice ricusato si è poi dovuto astenere, con la conseguenza che gli avvocati hanno pur loro abbandonato la difesa. Processi che potrebbe riguardare tutti i giornalisti, se solo facessero identico approfondimento dei fatti. 

Quindi quando si parla del caso Sarah Scazzi, bisognerebbe non dimenticarsi, nei servizi e negli articoli, che nella circostanza ci troviamo di fronte a delle persone che, come i magistrati di Taranto, non sono infallibili od unti dal signore, ed ovviamente ci troviamo di fronte a persone come Sabrina Misseri, che hanno già scontato più di un anno di carcere, senza che vi sia alcuna condanna.

Considerazione fatta a prescindere dall’esito finale, che stando allo stato delle carte avrà una stesura differente presso la Cassazione rispetto all’esito della Corte d’assise di Taranto e della relativa Corte d’Appello.

Come già Antonio Giangrande annunciò mesi prima il rigetto dell’istanza di rimessione dei processi ad altro Foro, presentata dall’avv. Coppi, per il quale rigetto lo stesso Giangrande ha presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti Umani per la sistematica disapplicazione di una norma giuridica, oggi conoscendo bene i magistrati di Taranto, inquirenti-requirenti e giudicanti, può profetizzare la condanna per gli imputati, in 1° e 2° grado, con assoluzione in Cassazione. 

C’è da constatare altresì la circostanza del “tutti dentro”, ossia chi si oppone od intralcia la tesi accusatoria, paga fio. Lo sanno bene gli avvocati, i consulenti, i testimoni.

In questa sede non è compito di nessuno criticare forme e tempi delle indagini. Il Prof. Coppi avrà modo di farlo nei modi e nei luoghi opportuni, tanto più che ha molto da insegnare a Taranto, anche nel saper porsi nei rapporti con i magistrati, con rispetto, ma senza sottomissione.

Inoltre oggi, oltre ad avere in carcere presunte innocenti, ci troviamo di fronte al paradosso che in carcere vi sono chi si dichiara innocente (Sabrina Misseri e Cosima Serrano) e libero è chi si dichiara colpevole (Michele Misseri). E questo fatto la gente non solo di Avetrana poco lo capisce.

Si invita anche la stampa a non valutare le prove prodotte nella fase delle indagini preliminari e nell’udienza preliminare conformemente con gli occhi dei PM. Per esempio, quando si traduce una conversazione intercettata a strascico, ad essa si deve dare nella traduzione un senso consono al tempo, al luogo, alla volontà ed allo status sociale di chi parla e non solo all’interesse di chi ascolta. Questo per non dare interpretazioni non realistiche, ma foriere di conseguenze interpretative fuorvianti e dannose . Oltremodo i magistrati sono di Sava (Buccoliero) e Torricella (Argentino), a pochi km da Avetrana, quindi il dialetto è identico, salentino e non tarantino, ma spesso si riscontrano valutazioni differenti delle parole dette. Quanto successo a Mohamed Fikri nel caso di Yara Gambirasio dovrebbe fare scuola.

E proprio per questo che la scaramuccia tra accusa e difesa sul caso Scazzi nasce sull’interpretazione del dialetto avetranese parlato dai protagonisti. Su una intercettazione, in particolare, si è concentrata l’attenzione della difesa di Sabrina Misseri che ha consegnato alla cancelleria del dottor Carriere una lettera scritta da Valentina Misseri, sorella di Sabrina, diretta al professor Franco Coppi, uno dei legali della 23enne di Avetrana. Stando a quanto si è appreso, Valentina contesta la trascrizione del colloquio fatta dagli inquirenti, sostenendo che l’interpretazione del dialetto di Avetrana porta a conclusioni diametralmente opposte. Secondo la pubblica accusa, Michele Misseri, incontrando per la prima volta la figlia Valentina - 15 giorni dopo il suo arresto - usa espressioni inequivocabili: «Ce sta mùccia la Sabrina? Cu ni parla». Ovvero, secondo una traduzione in italiano condivisa anche dal giudice: «Che sta nascondendo Sabrina? Che ne parlasse». Michele parla con le mani giunte, piangendo. La figlia, forse intuendo (secondo il giudice) che il padre stava per dire cose compromettenti, lo abbraccia e cambia discorso. La scena è la seguente. Valentina Misseri fa il suo ingresso nella sala colloqui del carcere di Taranto e appena vede il padre Michele, piange e lo saluta con due baci sulle guance. 

VALENTINA: Papà, papà, io guarda che ti voglio bene lo stesso sai, pure la Sabrina ti vuole bene... certo adesso non può venire, lo sai che sta qua no?

MICHELE: Lu fattu sì. Ce sta muccia la Sabrina? Cu ni parla....(il fatto sì. Che sta nascondendo Sabrina? Che ne parlasse ovvero che ce ne parlasse).

VALENTINA: Beh, mettiti così... vedì papà che io venerdì stavo venendo insieme alla Sabrina, stavo venendo qua, poi hanno fatto l’ispezione e non siamo potuti venire più, poi la Sabrina è stata arrestata e non è potuto essere. Io a tutti sto dicendo che tu hai fatto una cosa così, tu sei stato sempre bravo.

MICHELE: Invece non mi credono che sono stato io e mi stanno tenendo ancora cussì.

VALENTINA: Ah, senti per l’avvocato, tu tieni l’avvocato di ufficio, non tieni l’avvocato di fiducia.

MICHELE: No, ma l’avvocato che tengo è buono...

Padre e figlia parlano del legale e Michele conferma pienamente la fiducia in Daniele Galoppa, l’avvocato d’ufficio estratto a sorte dal call center la notte del suo arresto, fiducia invece poi revocata a febbraio 2011 quando accusa Galoppa di essere responsabile della decisione di avergli fatto accusare la figlia Sabrina.

Ma veniamo alla frase in dialetto contestata dalla difesa. Per Valentina Misseri, il padre non dice «Ce sta mùccia Sabrina?» ma, piuttosto, perché mi accusano di nascondere - mucciare in dialetto - Sabrina? Stessa frase insomma, ma significato ribaltato.

Il gup Carriere ha utilizzato anche questa intercettazione per motivare il «no» alla scarcerazione di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, sostenendo che «è estremamente significativo - come si vede benissimo nel video - che la figlia Valentina, avendo compreso al volo ciò cui intende alludere il padre, cambia completamente e repentinamente atteggiamento, gli aggiusta il collo del maglione, smette all’improvviso di piangere e si siede, portando subito il discorso su altri argomenti.

In relazione all’audio, bisogna tener conto che non è nitido, quindi non solo la traduzione, ma anche la percezione può essere disturbata.

L’invito che si rivolge alla stampa a affinchè essa non si conformi alle tesi accusatorie è per non far passare i giornalisti, come altri, ad essere dei semplici passacarte.

«Non vorrei che dietro tutto ció vi sia l'idea che il GIP o il GUP debbano continuare ad essere i passacarte del pubblico ministero o in ogni caso coloro che poi alla fine rinvieranno al giudice del dibattimento l'esame approfondito della vicenda processuale perchè non hanno la necessaria esperienza, perché non conservano piú la memoria storica di ció che é avvenuto e perchè sono da considerare quasi dei giudici di serie B.» Questo ha detto il senatore e magistrato e componente della Commissione Giustizia ed Antimafia Roberto Centaro al Senato Legislatura 13º - Aula - Resoconto stenografico della seduta n. 683 del 5 ottobre 1999 in riferimento alla discussione sui disegni di legge di modifica del Codice di procedura penale.

E se lo dicono loro, c’è da credere.

Si sa quello che la legge dice. Che siamo presunti innocenti fino a sentenza definitiva. Che al processo, di regola, dovremmo andare senza i ferri ai polsi, senza inutili umiliazioni, in una condizione di vera parità con l’accusa. So che il giudice dovrebbe essere terzo, dovrebbe dare del lei al pm e non soltanto all’avvocato della difesa. Dovrebbe. Già dovrebbe!

Nelle esplosive carceri italiane il 42% dei detenuti è in regime di custodia cautelare, quindi presunta innocente. La media europea è del 25. Oltre ventottomila persone in attesa di giudizio. La metà di queste sarà dichiarata innocente. Ci sono i Naria, i Tortora, i Sollecito, a ricordarcelo, ma i magistrati hanno la memoria corta. Meglio un innocente in galera che un colpevole a piede libero. “Pochi, maledetti e sicuri” (i giorni in galera), questa la regola d’oro. La carcerazione preventiva è divenuta uno strumento di anticipazione della pena, il calmiere dell’allarme sociale. I processi vanno per le lunghe? Allora anticipiamo. Tanto in caso di errore paga lo Stato, paga il cittadino, paghiamo noi. La shakespeariana libbra di carne per saziare la sete di (in)giustizia. Di vendetta. Fino a quando?

22 novembre. Udienza del Tribunale del riesame in merito all’ordinanza di custodia cautelare in carcere annullata con rinvio dalla Cassazione per una serie di motivi, tra i quali la carenza di gravi indizi di colpevolezza.

Dinanzi al Riesame (presidente Michele Petrangelo, relatrice Rita Romano e Luca Ariola) in diversa composizione, tornano in discussione gli indizi per il reato di omicidio, ma non la ricostruzione cronologica dell’accusa (l’arrivo di Sarah e la consumazione del delitto sarebbero avvenuti fra le 14 e le 14.42).

I giudici di merito dovranno approfondire alcuni punti indicati nella sentenza:

·            colmare le carenze nelle motivazioni relative al ruolo di Cosima;

·            dirimere la questione delle due ordinanze di custodia cautelare (quelle del riesame del 20 giugno e del 4 agosto) con due versioni alternative dello stesso delitto, che, secondo la Cassazione, crea un problema di “tenuta logica” e contrasta con uno dei principi cardine dell’ordinamento processuale (il ‘ne bis in idem’);

·            valutare più approfonditamente le argomentazioni della difesa.

Mentre, sulla parte della sentenza relativa al ricorso dei magistrati inquirenti, il Riesame dovrà affrontare la questione della qualificazione giuridica dell’episodio  contestato alle due donne, ossia  Sarah costretta dalla zia a salire a bordo dell’auto in cui c’era anche Sabrina. L’attendibilità del fioraio Giovanni Buccolieri non è stata messa in discussione, ma i giudici di merito del tribunale di Taranto dovranno stabilire in quale fattispecie di reato sia da inquadrare: sequestro di persona o violenza privata. Blindata, invece, l’imputazione di soppressione del cadavere. La decisione della Cassazione sul presunto coinvolgimento delle due donne forma ormai il giudicato cautelare. Su questo gli Ermellini non hanno avuto dubbi.

I giudici del Riesame hanno esaminato il provvedimento della Corte di Cassazione che il 26 settembre ha annullato con rinvio due precedenti ordinanze, sempre del Tribunale del Riesame del 20 giugno e del 12 luglio 2011 relative agli arresti di Sabrina e della madre Cosima eseguiti il 26 maggio. L'unica udienza del Riesame si è tenuta il 22 novembre. Poi i giudici si sono presi 10 giorni per pronunciarsi. L'ordinanza depositata il 2 dicembre è lunga 258 pagine. Il Tribunale del Riesame di Taranto, oltre a rigettare l'istanza di scarcerazione nei confronti di Cosima Serrano e Sabrina Misseri, ha accolto il ricorso della procura che aveva chiesto l'arresto delle due donne anche per il reato di sequestro di persona, che il gip non aveva invece accolto in maggio. C’è da far riflettere il fatto che a Taranto tutti i magistrati del foro, nei vari gradi e nelle relative impugnazioni, hanno deciso in conformità tra loro e con i PM, pur in contrasto con l’unica voce stonata che per loro è quella della Corte di Cassazione.

L'omicidio di Sarah Scazzi è stato compiuto "in un arco temporale non superiore ai dieci minuti quando con assoluta certezza Sarah era in compagnia di Cosima e Sabrina", ed è quindi "chiaro che lo strangolamento di Sarah era opera delle due donne". Lo scrivono il procuratore aggiunto di Taranto, Pietro Argentino, e il sostituto procuratore Mariano Buccoliero in una memoria di 71 pagine depositata al tribunale del Riesame che ha discusso l'ordinanza di custodia cautelare per omicidio e sequestro di persona emessa nei confronti di Cosima Serrano e della figlia Sabrina Misseri il 26 maggio 2011. L'ordinanza, poi confermata dal Riesame, su ricorso dei legali delle due imputate, era stata annullata con rinvio dalla Cassazione per una serie di motivi, tra i quali la carenza di gravi indizi di colpevolezza. Sabrina, è scritto nella memoria, aveva "un movente forte (la gelosia per Ivano Russo) e in tal senso riconosciuto anche dalla Suprema Corte; Cosima, altrettanto, avendo condiviso quel movente di cui era perfettamente al corrente", come emergerebbe dall'interrogatorio di Cosima del 6 ottobre 2010. "La povera Sarah è stata uccisa senza opporre alcuna resistenza", emerge dalla consulenza del medico legale Luigi Strada citata nella memoria. "Uno strangolamento solitario - è scritto - avrebbe consentito certamente alla vittima il pieno movimento di mani e piedi che nel caso di Sarah non vi è stato. Nessun segno di reazione. L'unica spiegazione possibile era che Sarah era stata bloccata da due persone. Una la teneva e l'altra la strangolava".

Per la Procura era maturato "un grave risentimento di Cosima nei confronti di Sarah, colpevole di aver da un lato mostrato interesse per la persona amata dalla figlia, Ivano Russo, interesse che era causa della rottura del rapporto sentimentale di questa; dall'altro divulgato i particolari intimi del rapporto tra Ivano e Sabrina idonei a screditare, nel contesto del piccolo paese di Avetrana, la famiglia Misseri. Effettivamente, e purtroppo per la povera Sarah - sostiene la Procura - tale 'maturazione' era avvenuta in un contesto familiare non proprio sereno che investiva Concetta e le sue sorelle, Cosima compresa". In un altro passaggio la Procura si sofferma sull'assenza di tracce di Sarah all'interno dell'abitazione di Misseri, nonostante le ricerche dei Ris, per sottolineare come i Misseri si siano dati da fare per cancellare le prove della presenza della ragazza. "La cosa appariva alquanto strana - scrivono i magistrati - atteso che Sarah frequentava abitualmente l'abitazione dei Misseri e addirittura dalla mattina fino alle 12-12.30 del 26 agosto 2010 era stata lì. Era verosimile ricondurre l'assenza di tracce di Sarah a un'attività di 'bonifica' del luogo del delitto a opera dei Misseri". Questi ultimi avevano avuto a disposizione quei luoghi per 42 giorni, dalla scomparsa di Sarah fino al ritrovamento del cadavere. "Era evidente che nulla poteva essere ritrovato dai Ris - scrive ancora la Procura - nemmeno le tracce che naturalmente dovevano esserci indipendentemente dal loro legame con l'omicidio". "Non può seriamente affermarsi che Sarah Scazzi e il suo cellulare siano mai entrati dentro casa Misseri e, anzi, è assolutamente possibile che la ragazza, ove sia mai giunta nei pressi dell'abitazione del Misseri, sia rimasta tutta il tempo in garage (proprio come dichiarato dal Misseri nella prima versione resa dallo stesso)". Lo scrivono gli avvocati Luigi Rella e Francesco De Jaco, difensori di Cosima Serrano nella memoria difensiva depositata al tribunale del Riesame di Taranto. Secondo i legali di Cosima, di conseguenza, "non vi è stato alcuno spostamento del corpo della vittima dalla casa nel garage.

Nel corso dell'udienza i difensori di Sabrina hanno inoltre depositato le trascrizioni delle audizioni avvenute in udienza preliminare dello psichiatra e della psicologa del carcere di Taranto, Giovanni Primiani e Dora Chiloiro, i quali hanno dichiarato di aver incontrato numerose volte in carcere Michele Misseri, quando questi era detenuto, e che l'uomo avrebbe sempre detto di essere l'unico colpevole dell'omicidio. Le dichiarazioni della psicologa, però, vengono contestate dalla Procura che ha già chiesto la trasmissione degli atti relativi all'audizione perché dalla documentazione carceraria risulterebbe che la stessa psicologa ha avuto solo tre colloqui con Michele Misseri nel mese di ottobre 2010. Di certo, però è che le accuse contro la Serrano ruotano intorno a quello che il fioraio Buccolieri dice di avere visto mentre dormiva: Sarah prelevata in mezzo alla strada da Cosima e Sabrina che la costringono a salire in macchina. Quando viene ascoltato dagli inquirenti lui chiarisce che è un sogno, ma questa precisazione non compare nel verbale. Sarà lui, il giorno dopo, quando si accorge dell’errore (questa la sua versione) a pretendere di firmare un verbale diverso. Scelta che lo porta diretto all’accusa di false dichiarazioni al pm. Stessa sorte per tutti i familiari e gli amici (quattro persone) che dicono di aver sempre saputo che quel racconto era in realtà un sogno. Solo una di loro, Anna Scredo, è stata prosciolta. Assolta anche Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina, dall’accusa di aver distrutto un verbale di Ivano Russo assunto durante le indagini difensive. Anche l’ex legale di Misseri, Francesco de Cristofaro costretto ad abbandonarlo dopo l’accusa di infedele patrocinio formulata nei suoi confronti dai pm, è stato prosciolto. Le accuse sono state considerate talmente abnormi dalle camere penali di Roma (il foro di De Cristofaro) da portare a uno sciopero, il 19 luglio 2011, con proteste formali inviate al ministro della Giustizia. La notizia dell'assoluzione di Francesco De Cristoforo, difensore di Michele Misseri, conferma che i penalisti hanno fatto bene a scioperare a tutela della funzione difensiva. E' quanto sostiene l'Unione delle camere penali commentando le decisioni del gup nell'ambito del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: ''L'avevamo pubblicamente denunciato - si legge in una nota dell'Ucpi - ed era uno dei motivi dell'astensione dalle udienze. Ora l'accusa di patrocinio infedele a carico di un difensore che segue una linea sgradita all'accusa è caduta per mano del giudice''. ''L'avvocato De Cristoforo, reo d'aver depositato in atti una lettera del proprio cliente che si attribuisce responsabilità che il pm ritiene essere della figlia, è stato assolto all'esito del giudizio abbreviato - spiegano i penalisti - Con lui sono stati assolti o prosciolti anche altri avvocati inopinatamente travolti dal processo in cui prestavano la propria attività difensiva, secondo uno schema che l'Unione aveva fortemente criticato''. E però  ''sbaglierebbe chi pensasse di cavarsela dicendo 'c'è un giudice a Berlino' - avvertono i penalisti - perche' rimane la valenza intimidatoria di improvvide iniziative del genere, così come l'atteggiamento culturale che ad esse inevitabilmente conduce''. Insomma, ''la notizia dell'assoluzione conferma che l'astensione non era pretestuosa, ma il problema dell'attacco alla difesa non è superato: anzi, è più che mai attuale''.

Il fatto che sia stato considerato estraneo alla ritrattazione di Misseri, poteva far pensare a un indebolimento della tesi accusatoria secondo cui il contadino di Avetrana si autocalunnia per salvare la figlia. Come sembravano farlo pensare le parole dello psichiatra e della psicologa del carcere che hanno ribadito come Misseri abbia sempre detto loro di essere l’unico colpevole, anche quando tirò in ballo Sabrina. O ancora le tre sentenze della Cassazione secondo cui non esistevano agli atti gravi indizi di colpevolezza tali da far presagire una futura condanna. Ma tutto ciò non ha pesato abbastanza, per il gup, che ha deciso: solo un processo potrà sbrogliare la complicata matassa. Da far notare ai lettori però l’evidente incoerenza dell’azione degli uffici giudiziari. Qui ognuno dice la sua, alla bisogna, certo di avere sostegno dal collega magistrato di turno, che convalida qualsiasi tesi accusatoria che gli venga promanata.  

Cosima Serrano passa da concorrente morale, a concorrente materiale. Il gip nell'ordinanza di custodia cautelare del 26 maggio 2011  parla di concorso morale per la madre di Sabrina e scrive «Cosima Serrano ha avuto un nitido e decisivo concorso morale nel delitto, sotto il profilo del rafforzamento del proposito omicida della figlia Sabrina». Per il giudice Sabrina «confortata, se non altro, dall'inerzia della madre, presente al fatto e non intervenuta in alcun modo per impedirlo, ha tratto da ciò quel sostegno morale decisivo per insistere in un'azione così drammatica per tutto quel tempo, fino a condurla a termine». Cosima Serrano, dunque, «ha offerto alla figlia - scrive ancora il Gip - un contributo, quantomeno agevolatore, nella realizzazione dell'omicidio, e va perciò ritenuta concorrente in tale reato».

LA RICOSTRUZIONE - Secondo la ricostruzione del gip Martino Rosati Sarah Scazzi venne strangolata con una cintura il 26 agosto 2010 nell'abitazione dei Misseri tra le 14 e le 14,20. A quell'ora nell'edificio, cioè tra abitazione e garage, c'erano Michele Misseri, sua moglie Cosima Serrano, e la loro figlia Sabrina, ritenuta dagli inquirenti autrice materiale del delitto. Dopo il delitto, Sabrina Misseri e Cosima Serrano, insieme con Michele Misseri, avrebbero soppresso il cadavere, aiutando l'agricoltore a portare via il cadavere e nasconderlo nell'auto Seat Marbella di Michele Misseri. Il cadavere venne poi trasportato in contrada Mosca, nelle campagne tra Avetrana (Taranto) e S.Pancrazio Salentino (Brindisi), per essere gettato in un pozzo-cisterna che venne poi chiuso.

IL MOVENTE - «Per uccidere occorre avere un motivo, e anche piuttosto cogente»: lo sottolinea il gip nell'ordinanza di custodia cautelare per Cosima Serrano e Sabrina Misseri. E il movente «cogente» è - secondo il gip - la gelosia che Sabrina nutriva per il suo amico Ivano Russo del quale era invaghita, ma che però frequentava Sarah Scazzi. Nei confronti di Ivano Sabrina Misseri provava una forte attrazione tanto da definirlo «dio» in tantissimi sms rintracciati dagli inquirenti.

Secondo l'ultima versione dei magistrati inquirenti, che sono giunti ad una nuova ricostruzione dell'omicidio, il 20 agosto 2010 Sarah Scazzi sarebbe giunta a casa della cugina e dopo poco si accende la lite fra lei e Sabrina, che la aggredisce fisicamente. Sarah riesce a divincolarsi e a fuggire, e a quel punto, Sabrina e la madre la raggiungono con la macchina di quest'ultima, la costringono a salire a bordo e la riportano indietro. Nuovamente in casa Misseri, la lite si riaccende, e pare che Sabrina abbia afferrato il collo della cugina con una cintura mentre la madre Cosima la teneva ferma. Nello spazio di un paio di minuti tutto finisce, e Sara è morta.

Secondo la ricostruzione, è a questo punto che le due donne fanno entrare in scena Michele Misseri, obbligandolo a fare sparire il cadavere. Mentre Michele Misseri getta il corpo di Sarah nel pozzo dove poi viene ritrovato, Sabrina e Cosima ideano la messinscena e cominciano a diffondere la notizia della misteriosa scomparsa della ragazza.

I pm spiegano perché vi sarebbe la certezza che le due donne avrebbero agito insieme nel compiere l'omicidio: uno strangolamento eseguito da una sola persona avrebbe consentito, per istinto di salvezza, che la vittima agitasse mani e piedi, lasciandone le relative tracce, cosa che nel caso di Sarah Scazzi non è avvenuto. Di conseguenza è evidente che mentre una agiva strangolando la ragazza, l'altra la teneva bloccata perché non si agitasse e non fuggisse una seconda volta.

Sono alcuni frammenti della relazione depositata agli atti, in 71 pagine complessive, da parte del pm di Taranto Pietro Argentino e del sostituto procuratore Mariano Buccoliero, sulla ricostruzione del delitto di Avetrana, che non ha ancora finito si stupire. Tale relazione è stata presentata al Tribunale del riesame, che ha respinto l'istanza del collegio difensivo. Le accuse sono basate principalmente su reperti fotografici effettuati sul corpo della giovane vittima e sui particolareggiati esami autoptici, ed indicano come movente del delitto la gelosia di Sabrina nei confronti della cugina a causa dell'interesse da quest'ultima suscitato in Mariano Russo, un ragazzo per il quale entrambe avevano un particolare interesse ed evidentemente un movente che anche Cosima Serrano condivideva a favore della propria figlia.

Intanto nell’attesa della decisione del Tribunale del Riesame di Taranto, Michele Misseri mercoledì 23 novembre 2011 va in TV, direttamente ospite in studio.

L’avevamo lasciato in carcere dove si confessava colpevole dell’omicidio della nipote, Sarah Scazzi, morta il 26 agosto 2010.

L’avevamo lasciato dietro le sbarre a ricostruire gli eventi con la lucidità di una persona estranea ai fatti.

L’avevamo lasciato a testimoniare la sua colpevolezza al Tribunale di Taranto o nella sua villetta di via Deledda o nel suo scantinato-garage.

L’avevamo lasciato il giorno prima da Bruno Vespa a “Porta a Porta” in una puntata dedicata interamente a lui, collegato da casa.

Adesso lo ritroviamo protagonista addirittura in uno studio televisivo di una puntata intera dedicata interamente a lui, quella di Matrix, in onda su Canale 5, in cui Alessio Vinci, conduttore del programma, lo fa parlare, gli fa confessare quell’omicidio che ha fatto parlare costantemente italiani, giornalisti, esperti e non. Ed è record stagionale per "Matrix". Il programma, che vedeva ospite in studio Michele Misseri, si aggiudica la seconda serata con 1.455.000 spettatori e il 15.67%di share sul target commerciale. Michele Misseri è al centro di uno show, e come in ogni spettacolo che si rispetti, è stato lanciato anche un RVM per ricordare le sue “imprese” nella descrizione dei fatti, per far riaffiorare alla mente, come in un reality, la sua quotidianità tra interviste, dichiarazioni di colpevolezza.

Forse si è confusa la realtà con la finzione, forse qualcuno ha dimenticato il significato di dignità, sta di fatto che ormai il grande compito affidato alla TV negli anni ’50, quello di istruire, è rimasto nel dimenticatoio e si fa sfoggio di scoop, scordando il “contegno” e inseguendo lo share. Michele Misseri, allora è colpevole e innocente allo stesso tempo? L’”omicida” dichiarato diventa eroe, la televisione assiste il personaggio, collabora alla sua confessione e quasi mostra pietà nei suoi confronti, dandogli la possibilità di parlare, di raccontare la sua “Verità”, quella di “Zio Michele” che dichiara: “in carcere ci sono 2 innocenti, io sono un uomo libero e non me la sento. Prima avevo solo un peso sullo stomaco, l'Angelo biondo (Sarah Scazzi) ora ne ho tre". Queste parole, sono le parole di un uomo ferito, che soffre, e vedere la sofferenza in TV, adescare gli spettatori con i sentimenti, è ormai cosa facile e risaputa. Si è iniziato un’anno prima con l’immagine inespressiva di Concetta Serrano su “Chi l’ha visto?” di Rai tre, a cui gli veniva comunicato il ritrovamento del corpo della figlia Sarah. Oggi si da voce al confessante carnefice. Il signor Michele Misseri ha abbandonato tra i campi i vestiti sporchi da contadino, quelli che abbiamo visto in centinaia di interviste, per ritornare ad essere, almeno nell’estetica, una persona decente. In TV ha l’occhialino da erudito, la faccia pulita ed è vestito in modo decoroso. Accusa il suo ex legale, Daniele Galoppa e la criminologa Roberta Bruzzone, : "Non mi hanno mai creduto io non ho mai cambiato versione, me l'hanno fatta cambiare […] Io dovevo fare quello che mi diceva il mio avvocato. Due volte la Bruzzone si è stesa per terra per farmi vedere come dovevo mettere la cinta, e una volta Galoppa disse: forse è meglio con la testa in alto”.

Sono dichiarazioni che creano confusione. Eroe o omicida? Colpevole o innocente?

Ma si sa, la Tv distorce e travisa e come extrema ratio resta solo la moralità di ogni singolo, sia esso omicida dichiarato, che butta in un pozzo la vittima, ovvero ragazzi senza arte, né parte, pagati nei seguitissimi reality show, che insegnano a vivere ai loro coetanei, ovvero Istituzioni mafiose e corrotte che pretendono rispetto, senza meritarlo.

E per la comparsata in TV ecco pronta la censura.

Il pm Mariano Buccoliero e il procuratore aggiunto Pietro Argentino hanno chiesto gli arresti domiciliari per Michele per presunta violazione dell'obbligo di firma. L'uomo, mercoledì 23 novembre 2011 si sarebbe presentato, in anticipo alla caserma di Avetrana insieme al suo difensore, di circa un quarto d'ora. Il gup il 28 novembre ha invece deciso per una misura più lieve e cioè per l'obbligo di dimora nella cittadina per tutta la giornata e per l'obbligo di non allontanarsi dalla sua abitazione dalle 19 alle 7 del mattino. «Mi sembra una misura esagerata», rileva l’avvocato Armando Amendolito, difensore dell’agricoltore, che ha appunto spiegato la natura del provvedimento adottato dal gup dottor Pompeo Carriere. «Il mio assistito non ha mai violato l’obbligo di firma, tranne che in due occasioni; ma era impegnato nell’udienza preliminare ed ha dato subito comunicazione ai carabinieri. Formalmente, neanche queste circostanze possono essere interpretate come violazioni. L'anticipo con il quale il mio assistito si è presentato in caserma giovedì non è dovuto a ragioni particolari, ma al fatto che quella sera su Avetrana pioveva a dirotto», sottolinea l'avvocato Amendolito.

Il 23 novembre Michele Misseri doveva essere ospite di Matrix e così è andato dai carabinieri, accompagnato dal suo avvocato Armando Amendolito, una manciata di minuti prima del previsto (l’obbligo doveva essere rispettato dalle 17 alle 18, è arrivato in caserma alle 16.40). Amendolito ha detto ai militari di aver anticipato un pochino l’orario della presentazione per portare Michele a Taranto allo scopo di fargli trascorrere una serata di relax, piccola quanto grossolana bugia scoperta dopo qualche ora vista la presenza a Roma di Misseri e del suo legale per partecipare alle diretta su Canale 5.

Per il dottor Carriere - che il 21 novembre aveva rigettato la richiesta di revoca dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria sostenendo l’esistenza di un pur tenue pericolo di fuga - tale condotta viola le prescrizioni a cui Misseri era sottoposto, violazione oltretutto aggravata dall’aver offerto ai carabinieri una giustificazione falsa e ingannevole. E dunque, mentre la richiesta di arresti domiciliari presentata dalla Procura è parsa eccessiva, il gup ha disposto nei confronti del contadino l’obbligo di dimora nel territorio di Avetrana, l’obbligo di non allontanarsi da casa dalle 19 alle 7 di ogni giorno, l’obbligo di presentarsi dai carabinieri dalle 12 alle 13 e dalle 17 alle 18, e infine ha inviato gli atti al consiglio dell’ordine degli avvocati per le valutazioni in ordine alla condotta dell’avv. Armando Amendolito, riguardo in particolare alla violazione del codice deontologico.

Sembra evidente però, che più che ad una bugia, tuttalpiù ci troviamo di fronte ad una giustificazione gratuita, perché non richiesta. Essa ha valore di peccato veniale. I Carabinieri di Avetrana dovevano far rispettare le regole. Il fatto che Misseri dia la sua versione sull’omicidio a tutte le ore e su tutti i canali mediatici è una situazione che i PM non avevano tenuto in conto ed oggi non possono porre rimedio. Naturalmente nessuna sanzione è stata elevata ai carabinieri che hanno permesso l’anticipazione della firma.

Ma quella dei Magistrati è una sanzione vana, oltre che insussistente. Le interviste possono essere rilasciate in casa. Tranquillamente. Comunque le restrizioni vanno date nei vincoli di legge, (pericolo di fuga, inquinamento delle prove, reiterazione del reato), non per tacitare qualcuno che grida una verità scomoda. Quella sua comparsa televisiva aveva provocato la reazione di Concetta Serrano, mamma della ragazza uccisa il 26 agosto 2011, che aveva scritto  in una lettera alla stampa tutta la sua indignazione. Concetta Serrano che non è disposta a perdonare, nonostante sventoli ai quattro venti la sua appartenenza ai Testimoni di Geova. Inoltre odia tutta la famiglia Misseri, forse mal consigliata da qualcuno che ha tutto l’interesse ad istigare all’odio. Odio mal riposto, in quanto al momento non si sa chi sia il vero colpevole.

E’ da vivere e da ridere, però, la pantomima dei giornalisti a dare la notizia, anche quelli di Mediaset che si sono avvantaggiati dell’esclusiva con Misseri in studio.

TG com : Punito per l’ennesima bugia. Sarah, nuove misure cautelari per Misseri.

Il Corriere della Sera: Nuove restrizioni per Michele Misseri. Basta uscite dalle 19 alle 7 del mattino.

La Repubblica: Michele Misseri fa il divo in tv, la procura ne chiede l'arresto.

Libero News: Zio Michele fa ancora la Star: mente alle autorità per Matrix.

La Stampa: Michele Misseri in tv, il giudice impone doppia firma dai carabinieri.

La Gazzetta del Mezzogiorno: Omicidio di Sarah, per Misseri «televisivo» «restrizioni cautelari»; Dopo il Matrix-show «arrestate Misseri».

Nuovo Quotidiano di Puglia: Misseri, stop alle interviste in tv. Per lui obbligo di dimora ad Avetrana.

La Voce di Manduria: Stop agli show televisivi per Misseri domiciliari per 12 ore al giorno.

E giù di questo passo.

Nessuno di questi scienziati dell’informazione, però, ha sollevato il dubbio che a causare la costernazione pubblica dovesse essere non la firma anticipata, e favorita dai carabinieri, ma il fatto che i magistrati tengano libero colui il quale ha infilato una bambina in un pozzo e comunque, dichiarandosi lui colpevole anche di omicidio, si tengano in prigione due presunte innocenti.

Tant’è vero che le intercettazioni spesso dimostrano che nulla è da dare per scontato. 

«Se fossi un carabiniere o poliziotto, sapendo queste cose, i sospetti li avrei … visto che lui (Michele Misseri) stava sotto il garage a quell’ora, alle due e mezza, possono pensare pure che se l’è tirata dentro la cantina (Sarah Scazzi)». Era il 3 ottobre del 2010 quando per la prima volta il garage - cantina viene indicato come luogo del delitto. A farlo, quando nessuno ancora sospettava tanto e dimostrando un’inspiegabile preveggenza, fu proprio Cosima Serrano, moglie di Michele, parlando con le figlie Sabrina e Valentina. Il colloquio tra le tre donne, intercettato da una cimice montata nella Opel Astra di Cosima, è trascritto nei brogliacci che fanno parte dei faldoni dell’inchiesta. Si parla del telefonino che Misseri ha fatto trovare cinque giorni prima nell’uliveto. Valentina dice che il padre «non è intelligente…. se lo fosse stato allora tutto si era macchinato». La moglie cerca di difenderlo. «Non sto dicendo proprio che non è intelligente», dice Cosima. «Se era intelligente, non avrebbe toccato il telefonino», commenta la ragazza. Poi le tre parlano di una scheda sim che Michele avrebbe trovato e di un poliziotto. «Però un poliziotto che sa della sim, della carta, del telefonino, se fanno… ohi mamma, mamma», dice preoccupata Cosima. Poi Valentina che chiude il discorso: «Vabbè… di questa sim non ne deve uscire proprio». Altre intercettazioni ambientali come questa sono state oggetto di discussione nell’udienza del tribunale del riesame, i cui giudici si dovevano esprimere sulla richiesta di scarcerazione presentata dai legali di Sabrina e Cosima. Ad insistere sulle presunte verità contenute nelle numerose intercettazioni è stato il pm Mariano Buccoliero, che ha rispolverato vecchie trascrizioni focalizzandone alcune di particolare interesse probatorio. Tra queste, quella del colloquio in carcere tra Misseri e la nipote Daniela Greco. «Abbiamo fatto i furbacchioni a non chiamare il 118 o i carabinieri e i furbacchioni vanno sempre fiacchi», si sfogava il contadino con la nipote che l’8 novembre lo andava a trovare in carcere. Singolare un'altra registrata nella sala colloqui del penitenziario di Taranto tra Michele, sua moglie Cosima e la figlia Valentina. È il 27 dicembre del 2010, le due donne si fanno raccontare gli attimi in cui Michele porta via il cadavere di Sarah dal garage. La moglie vuole sapere dove ha poggiato il corpo della nipote. «Sul terriccio, se vedono non trovano niente, poi l’abbiamo pulito». La moglie non è d’accordo. «E no, possono fare le analisi». Il marito insiste e rassicura: «Che se abbiamo pulito, pure…». Da un altro colloquio tra i tre Misseri svolto il 7 febbraio scorso, la pubblica accusa tira fuori un’altra incongruenza. Le due donne incalzano l’uomo, vogliono conoscere anche i particolari macabri dell’occultamento. Qui Michele Misseri parla di una rigidità del corpo della bambina uccisa: «Le braccia quasi non si chiudevano più», dice il contadino aggiungendo altre specifiche. Considerando i tempi brevi intercorsi tra la morte e la sepoltura, il pm non si spiega come mai l'uomo descriva una rigidità cadaverica che dovrebbe presentarsi dopo diverse ore.

Si limita il diritto di parola a Michele Misseri, ma non si può fermare il fenomeno che i media hanno creato e per ovviare a questo problema, Checco Zalone ha in serbo nuovi personaggi, fra cui salta all’occhio un Michele Misseri trapiantato dalla tragedia di Avetrana, agli studi di Cotto e Mangiato, «dove cambia idea sugli ingredienti ogni due secondi». Lo vedremo in prima serata, su Canale 5, nei due speciali del Resto umile world show  andati in onda il 2 e il 9 dicembre 2011 e che riportano sul piccolo schermo il comico pugliese, dopo il boom del suo secondo film "Che bella giornata" e della tournée teatrale. La gag su Misseri «verrà fatta in chiave intelligente, con una satira sociale e della tv che elimina ogni riferimento al fatto delittuoso e che si appella invece a Gaber e alla spettacolarizzazione della tragedia – precisa Zalone, all’anagrafe Luca Medici -. Mi ritengo meno sfigato di chi strumentalizza questi eventi».

Ma la detenzione domiciliare parziale  non è il solo problema di Misseri:  Michele Misseri non può beneficiare del patrocinio a spese dello Stato. Lo ha deciso il gup del Tribunale di Taranto Pompeo Carriere, rigettando l'istanza presentata il 10 ottobre 2011 dall’agricoltore di Avetrana, il quale sosteneva di non essere in grado economicamente di pagarsi un avvocato. Nell’istanza Misseri precisava che, pur vivendo con i familiari, bisognava tener conto solo del suo reddito personale, cioè poco o nulla, poichè c'era una situazione di conflitto di interesse processuale con la moglie Cosima Serrano e la figlia Sabrina. Secondo il giudice, invece, il conflitto di interesse potrebbe configurarsi solo nei riguardi di Sabrina, ma non tra Misseri e la moglie «non avendo il primo mai reso dichiarazioni accusatorie nei confronti della seconda, ed essendovi, allo stato attuale, una coincidenza di versioni difensive». Di conseguenza, conclude il giudice, l’istanza va calcolata in relazione al reddito di due componenti familiari, e non deve superare la somma di 11.661,07 euro.

Ma nel 2010, secondo quanto accertato dalla Guardia di finanza delegata ad hoc dal gup Carriere, la somma dei redditi della famiglia Misseri è stata pari a 15.277,00 euro. Dunque, Michele Misseri dovrà pagarsi il suo difensore di fiducia, Armando Amendolito.

Naturalmente ciò vale per il solo 2010. Per il resto si vedrà.

 

 

 

 

SARAH SCAZZI: IL DELITTO DI AVETRANA

IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

Di Antonio Giangrande

 

 

 INTRODUZIONE E PREMESSA

SCOMPARSA, RITROVAMENTO ED INDAGINI

PROCESSO

CONSIDERAZIONI E CONCLUSIONI

 

 

 

IL PROCESSO

 

IL PROCESSO

 

10 gennaio 2012: via al processo mediatico sull’omicidio di Sarah, almeno 250 i testimoni.

17 gennaio 2012. Seconda udienza del processo. Parla Stefania De Luca e Angela Cimino.

31 gennaio. La terza udienza. Parla Ivano Russo, Giacomo Scazzi, Pamela Nigro, Anna Lucia Dell’Atti e Salvatore Erroi.

7 febbraio. Quarta udienza. Parla Claudio Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo e Maria Ecaterina Pantir.

14 febbraio. Quinta udienza. Parla Giuseppina Nardelli, Fedele Giangrande, Antonio Petarra, Pamela Trono, Vincenzo Maresca, Giuseppina Di Bari, Salvatora Minò.

21 febbraio. Sesta udienza. Parla Mariangela Spagnoletti, Alessandra Spagnoletti, Alessio Pisello, Giuseppe Olivieri, Vito Antonio Spagnoletti, Cosimo Giangrande, Vito Donato Lastella.

28 febbraio. Settima udienza. Parla Donato e Francesca Massari, Giuseppe Serrano, Isabella Pernorio, Daniele Lanzo, Anna Parisi, Salvatore Sacco ed Anna Dimitri.

6 marzo. Ottava udienza. Parla Battista Serrano, Giuseppa Serrano, Ada Maria Serrano, Livia Olivieri, Oronzo Dimitri, Bruno Scarciglia, Cosimo De Vanna, Marianna Cucci e Carmelo Sacco.

13 marzo. Nona udienza. Parla Giacomo Conforti, Pasquale Di Mauro, Giovanna Donvito, Vito Lippolis, Gianvito Rossano, Biagio Caraglia, Giuseppe Di Noi, Carmelo Salvatore Parisi ed Emma Serrano.

27 marzo. Decima udienza. Parla Antonio Rizzato, Antonio Calò, Giovanni Bardaro, Paolo Vincenzoni, Giuseppe Pirò.

3 aprile. Undicesima udienza. Parla Claudio Russo.

17 aprile. Dodicesima udienza. Parla Salvatora (Dora) Serrano.

24 aprile. Tredicesima udienza. Parla. Antonella Spinelli, Elena Baldari, Maria Ferrara, Salvatore Misseri, Michele Genovino, Clorinda Ferrara, Antonietta Genovino e Claudio Benni.

8 maggio. Quattordicesima udienza. Parla Anna Pisanò, Antonella Tondo, Fabrizio Viva, Biagio Blaiotta e Giovanni Risi.

15 maggio. Quindicesima udienza. Parla Maria Rosaria Carrozzo, Maria De Santis, Giancarlo Greco e Vito Ferrara.

22 maggio. Sedicesima udienza. Parla Giuseppina Scredo, Rocco Zecca, Marco Buccolieri, Gaetano Colucci, Donata Prudenzano.

ATTENTATO DI BRINDISI. LA MORTE DI MELISSA BASSI E DEL TERRITORIO. SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA.

5 giugno. Diciassettesima udienza. Parla Giovanni Lamarca, Giuseppe Finizia, Andrea Berti, Cosimo Maggi, Giovanni Prignani, Clemente Di Crescenzo, Roberta Bruzzone, Rosa Martino, Anna Lucia Morleo.

19 giugno. Diciottesima udienza. Parla Adolfo Semeraro e Cosimo Monopoli.

3 luglio. Diciannovesima udienza. Parla Valentina Misseri, Luigi Strada, Vanessa Cerra, Giovanni Cucci, Sergio Civino.

10 luglio. Ventesima udienza.

17 luglio. Ventunesima udienza. Chiamati Sabrina Misseri, Cosima Serrano, Angelo Milizia, Giovanni Buccolieri, Michele Galasso, Giuseppe Nigro, Antonio Colazzo, Anna Scredo e Cosima Prudenzano, Anna Lucia Pichierri.

SOSPENSIONE UDIENZE. PAUSA ESTIVA: 31 LUGLIO - 15 SETTEMBRE.

PUGLIA. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

PUGLIA. Regione-avvelenata: la Puglia è la capitale dell'inquinamento.

TARANTO, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

MANETTE? NON PER TUTTI. IL PRESIDENTE DEL TAR DI LECCE, ANTONIO CAVALLARI.

STUDIO CENTO TV NEI GUAI.

26 AGOSTO 2012: L’ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI SARAH.

25 settembre 2012. Ventiduesima udienza.  Parla Antonio Colazzo, Anna Scredo, Valeria Scazzari, Michele Galasso.

2 ottobre 2012. Ventitreesima udienza.  Parla Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Vito Russo.

GIOCA CON I FANTI, MA LASCIA STARE I SANTI. DELLA SERIE: SUBISCI E TACI, SE NO TI TACCIO. MA IN CHE MANI SIAMO? I VELENI ALLA PROCURA DI BARI E LA PERSECUZIONE DEI GIORNALISTI.

29 ottobre 2012. Ventiquattresima udienza.  Parla Michele Misseri. Da imputato.

PARLIAMO DELLA MAFIA DEGLI AUSILIARI GIUDIZIARI.

PARLIAMO DI INTIMIDAZIONE DEI GIORNALISTI.

PARLIAMO DI TOGHE INFAMI E FALSE.

PARLIAMO DI SCIENZIATI CON LA TOGA.

30 ottobre 2012. Venticinquesima udienza.  Avrebbero dovuto parlare Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Da imputate.

6 novembre 2012. Ventiseiesima udienza. Parla Stefania Zizza,  Antonio Panzuto.

20/26/27 novembre 2012. Ventisettesima, ventottesima, ventinovesima udienza. Parla Sabrina Misseri.

4 dicembre 2012. Trentesima udienza. Parla Andrea Merico, Nicola Abbasciano.

5 dicembre 2012. Trentunesima udienza. Parla Michele Misseri.

10 dicembre 2012. Trentaduesima udienza. Parla Dora Chiloiro e Luigina Quarta.

12 dicembre 2012. Trentatreesima udienza. Riparla Michele Misseri.

18 dicembre 2012. Trentaquattresima udienza. Richiesta di sopralluogo garage e pozzo.

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA.

8 gennaio 2013. Trentacinquesima udienza. Parla Paolo Arbarello.

14 gennaio 2013. Trentaseiesima udienza. Michele Misseri. La prima e l’ultima confessione a confronto.

29 gennaio 2013. Trentasettesima udienza. Parla Liala Nigro. RICUSAZIONE DEL GIUDICE POPOLARE.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. LA STRAGE DI ERBA.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. FABRIZIO CORONA.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. OMICIDIO DI MELANIA REA.

25-26 febbraio, 4-5 marzo 2013. 38ª, 39ª, 40ª, 41ª udienza. Requisitoria dell’accusa: Mariano Buccoliero e Pietro Argentino.

IL MOVENTE: LA GELOSIA E L’IMBARAZZO.

I TEMPI ED I DEPISTAGGI.

LA RICOSTRUZIONE DEL DELITTO.

IL PRESUNTO SEQUESTRO.

LE CONCLUSIONI.

LE COMPLICITA’.

LE RICHIESTE.

11 marzo 2013. 42ª udienza. Arringhe delle Parti civili: Pasquale Corleto per il Comune di Avetrana, Nicodemo Gentile, Valter Biscotti e Francesco Cozza per Concetta Serrano, Giacomo Scazzi e Claudio Scazzi; Luigi Palmieri per Maria Ecaterin Pantir.

12 marzo 2013. 43ª udienza. Arringhe delle Difese di Michele Misseri e delle parti meno importanti: Paquale De Laurentiis per Giuseppe Nigro, Giovanni Scarciglia e Lello Lisco per Cosima Prudenzano e per Antonio Colazzo, Gianluca Pierotti per Vito Russo, Luca Latanza per Michele Misseri.

18 marzo 2013. 44ª udienza. Arringhe delle Difese di Carmine Misseri e Cosimo Cosma, Lorenzo Bullo per Carmine Misseri e Raffaele e Serena Missere per Cosimo Cosma.

19 marzo 2013. 45ª udienza. Arringa della Difesa di Cosima Serrano. Franco De Jaco e Luigi Rella.

25, 26, 27 marzo, 9 aprile 2013. 46ª, 47ª, 48ª, 49ª udienza. Video fuori onda, astensione dei magistrati ed arringa della Difesa di Sabrina Misseri. Franco Coppi e Nicola Marseglia.

10 aprile 2013, 50ª udienza. Replica finale dell’accusa: Pietro Argentino e Mariano Buccoliero.

15 aprile 2013, 51ª ed ultima udienza. Replica finale delle difese.

LA CORTE SI E’ RIUNITA IN CAMERA DI CONSIGLIO PER LA SENTENZA.

Cronologia dei fatti principali.

20 aprile 2013, ore 14,13 LA SENTENZA

 

 

 

 

10 gennaio 2012: via al processo mediatico sull’omicidio di Sarah, almeno 250 i testimoni. R.G.N.R. 9077/10 R.G. GIP 7045/10.

A Taranto è iniziata la prima udienza del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa il 26 agosto 2010 ad Avetrana. In aula, in una gabbia alla sinistra della Corte di Assise, le due imputate, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, mamma e figlia. Sono accusate di concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere. Presente anche Michele Misseri, accusato di concorso in soppressione di cadavere. In tutto gli imputati sono nove, tra i quali c'è anche l’ex legale di Sabrina, l’avvocato Vito Russo, accusato di aver minacciato un testimone al fine di fargli riferire dichiarazioni false durante le indagini. In aula è presente anche la famiglia Scazzi: la madre Concetta Serrano, il padre Giacomo Scazzi e il fratello Claudio. Le persone ammesse ad assistere all’udienza del processo, fornite di apposito pass, sono in tutto settanta. E' presente anche il sindaco di Avetrana, Mario De Marco, che intende costituirsi parte civile per conto del Comune nei confronti della famiglia Misseri. I difensori di Sabrina e Cosima si sono duramente opposti alla riprese televisive del processo e, in particolare, delle loro assistite che sono in aula dietro le sbarre. La Procura si è dimostrata favorevole alle riprese, così come la famiglia di Sarah che, tramite l’avvocato Valter Biscotti, ha fatto sapere di essere favorevole a patto che non vengano mostrate fotografie o reperti riguardanti la vittima che potrebbero urtare la loro sensibilità. Cesarina Trunfio, presidente della Corte, dopo aver sospeso l’udienza per decidere in proposito, ha stabilito il divieto di ripresa per tutte le telecamere, tranne per quelle della trasmissione "Un giorno in Pretura", in onda su Rai3. "L’abbiamo detto fin dall’inizio: in questa vicenda di cronaca nera purtroppo ci sono due vittime, una indiscutibile, la povera Sarah Scazzi, la seconda vittima è la città di Avetrana che ha subito un danno di immagine non indifferente". Queste le parole del vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia, che continua: "Non so se la responsabilità è di qualche mass media o di qualche attore protagonista di questa vicenda: questo lo stabilirà la Corte, confidiamo nella giustizia". Scarciglia ha poi confermato che il Comune chiederà un risarcimento, già proposto dal legale alla Corte. Anche la famiglia Scazzi ha già chiesto un risarcimento ai 5 principali imputati, che ammonta a circa 9 milioni di euro. Intanto dietro le sbarre Sabrina piange, cercando di nascondersi dietro la madre per non farsi riprendere dalle telecamere. Il processo sul delitto di Avetrana, che ha strappato alla vita la giovane 15enne Sarah Scazzi il 26 agosto del 2010, inizia esattamente il 10 gennaio. L'attenzione mediatica sulla vicenda si riaccende, tanto che già una 50ina di giornalisti di 21 testate hanno chiesto alla presidenza del Tribunale di Taranto di essere accreditati per seguire il dibattimento in aula, anche se solo una parte vi potrà accedere. Per gli altri sarà allestito un maxischermo in sala stampa, mentre le riprese video verranno dalle telecamere di "Un giorno in pretura", che registrerà l'intero processo. Una indiscrezione trapela però prima ancora dell'avvio del dibattimento. Nel pozzo situato a Contrada Mosca, a circa 7 chilometri dalla villetta dei Misseri e dove fu soppresso il cadavere di Sarah Scazzi, sono state rinvenute anche due collanine. Finora i media non erano mai venuti a conoscenza dell'esistenza dei due reperti, particolare che ha animato molte curiosità. Le collane infatti non dovrebbero essere tra quegli oggetti appartenuti a Sarah Scazzi, che al momento della scomparsa sembra indossasse solo un braccialetto di cotone nero. La prima collanina è "presumibilmente d’argento" mentre la seconda è composta da un laccio di cuoio con un ciondolo di acciaio che raffigura uno scoiattolo. Anche se il pozzo fu costruito ben 60 anni fa, da circa 4-5 anni era chiuso perché non più utilizzato. Il fatto che tali collanine siano, apparentemente, "moderne", farebbe quindi pensare che qualcuno le abbia perse o gettate nel pozzo in un periodo relativamente recente. Tra le ipotesi più "intriganti" quella che vorrebbe che le due collanine siano state perdute da chi ha contribuito a gettare nel pozzo la povera Sarah Scazzi, anche se tale teoria non sembra finora essere suffragata da alcun tipo di prova. Michele Misseri non figura nella lista dei testi dell’accusa e delle parti civili ma soltanto in quelle dei difensori di Cosima e Sabrina. Dopo i pm Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno depositato una lista con 124 nomi nella cancelleria della Corte d’Assise, hanno presentato un lungo elenco anche i difensori di parte civile (96 i testimoni citati), avvocati Luigi Palmieri, Walter Biscotti e Nicodemo Gentile, che rappresentano in giudizio la famiglia Scazzi e la badante Maria Ecaterin Pantir. Mentre i legali di  Sabrina, il professor Franco Coppi e l’avvocato Nicola Marseglia hanno depositato una lista di 158 testi. Folta la schiera di coloro che sono stati citati anche dai difensori di Cosima, gli avvocati Luigi Rella e Franco De Jaco.

Alcuni testimoni sono stati citati dai legali delle diverse parti ma complessivamente sarà un processo con almeno 250 testi fra i quali figurano i componenti della famiglia Scazzi (Concetta, Giacomo e Claudio), diversi familiari dei Misseri, amici di Sabrina, come Ivano Russo, Mariangela Spagnoletti, Anna Pisanò, Angela Cimino e Francesca Massari, vicini di casa, il fioraio Giovanni Buccolieri, l’ex commessa Vanessa Cerra e ovviamente investigatori e consulenti della pubblica accusa e della difesa dei nove imputati.

Il processo dinanzi alla Corte d’Assise di Taranto, presieduta dal giudice Rina Trunfio (a latere Fulvia Misserini e sei giudici popolari) inizia 10 gennaio 2012. Non è escluso che il collegio decida di ridurre le lunghe liste dei testimoni. Sono 124 testimoni e 11 indagati le persone convocate dalla pubblica accusa per deporre nel processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. E tra gli inquisiti spicca a sorpresa il nome di Angelo Milizia, l’impiegato di banca che dichiarò il falso dicendo che a versare i due assegni di circa quattromila euro, il giorno della scomparsa della ragazza uccisa, era stata Cosima Serrano e non, come provano le perizie calligrafiche, dal marito Michele Misseri. I pubblici ministeri titolari dell’inchiesta, Pietro Argentino e Mariano Buccoliero, gli contestano il reato di falso in scrittura privata in concorso con Misseri la cui posizione e ruolo nel delitto sono ben più gravi del suo presunto complice la cui figura, è bene dirlo, è assolutamente marginale dal punto di vista penale. Quindi, 135 testimonianze in tutto per l’accusa che si sommeranno a quelli della difesa il cui numero, si pensa, potrebbe addirittura equipararsi se non superare il primo.

Un processo molto complicato e sicuramente lungo su cui l’opinione pubblica ha già dato prova di essere molto interessata. Un’attenzione amplificata soprattutto dai mezzi mediatici che stanno già scaldando i motori in attesa di quello che si preannuncia essere l’evento processuale dell’anno che verrà. Per questo il presidente del Tribunale di Taranto, Antonio Morelli, ha convocato tutti i referenti delle varie testate televisive (diverse decine) che hanno già inoltrato richiesta di accredito per i propri inviati. L’intenzione del presidente del palazzo di giustizia è quella di regolare gli accessi stabilendo prima quali e quante telecamere dovranno eventualmente riprendere le udienze fatta salva sempre la volontà dei protagonisti (testi o imputati che siano) di farsi riprendere. Un piccolo esercito quindi sarà chiamato a testimoniare contro le due imputate principali, Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, entrambe in carcere con l’accusa di avere sequestrato e ucciso la quindicenne loro parente e di averne soppresso il cadavere con il concorso di Michele Misseri, padre e marito delle detenute, e di Carmine Misseri e Cosimo Cosma, questi ultimi fratello e nipote del capofamiglia.

Tra i nomi della lista ci sono praticamente tutti gli amici e parenti delle due cugine, da Mariangela Spagnoletti a Francesca Massari a Alessio Pisello con cui si frequentavano nel periodo precedente alla scomparsa. Ma soprattutto Ivano Russo, il giovane ventisettenne che piaceva sia a Sarah sia a Sabrina e pertanto ritenuto motivo di attrito e quindi movente del delitto. Tra le testimonianze più attese del processo sicuramente i primi posti li occupano Anna Pisanò, ex amica e frequentatrice della famiglia Misseri e il fioraio Giovanni Buccoliero. La prima avrebbe raccolto confidenze di Sabrina divenute elementi principali di prova a suo carico; il secondo, indagato da valutare in una seconda fase del procedimento, conserverebbe, secondo i pm, la chiave stessa del giallo. Sarà chiamato in aula per raccontare al pubblico e alla corte il presunto sogno del violento sequestro di Sarah nella macchina della zia Cosima.

Tra i testimoni c’è Antonio Petarra, che con le sue dichiarazioni ha consentito di confermare l’orario del delitto. Poi Mariangela Spagnoletti che per prima si accorse della strana agitazione di Sabrina. Ma anche Stefania De Luca, la giovane che rivelò agli inquirenti di aver visto piangere Sarah il giorno prima di essere assassinata, dopo una lite con la cugina. Intanto davanti a microfoni e telecamere il contadino di Avetrana continua a scagionare la figlia e ad accusarsi dell’omicidio. Zio Miché spera ancora di confondere, cerca di insinuare dubbi. Minacciando il suicidio se la moglie e la figlia saranno condannate.

Intanto ad Avetrana vi è l’ennesimo atto vandalico a casa di Michele Misseri. I carabinieri indagano per identificare le persone che hanno forzato la serratura della porta del garage dello zio di Sarah Scazzi, la ragazzina di 15 anni uccisa il 26 agosto ad Avetrana. La notizia è riportata su alcuni giornali locali. E' stato l'uomo a contattare i militari per segnalare l'episodio. Ai carabinieri Michele Misseri ha detto di aver sentito un forte rumore mentre era all'interno della sua abitazione e di aver scoperto l'accaduto intorno alle 6.30. Quando è entrato nel garage, ha visto un copertone gettato all'interno (forse con l'intento di appiccare un fuoco) e ha notato che la porta era stata aperta dopo che la serratura era stata forzata. Michele Misseri ha presentato denuncia contro ignoti. Sarà il processo dei grandi numeri e degli ascolti televisivi record quello sul delitto di Sarah Scazzi che si aprirà nel tribunale di Taranto. Nell’aula Alessandrini della Corte d’assise, al primo piano del palazzo di giustizia, si alterneranno non meno di 500 persone tra imputati, indagati, testimoni, consulenti e periti, pubblico, giornalisti, tele e foto operatori e naturalmente avvocati, magistrati, giudici e personale amministrativo e dell’ordine pubblico. L’evento giudiziario dell’anno che per interesse mediatico e di opinione pubblica si candida per la palma d’oro nei fatti di cronaca degli ultimi anni, sarà ripreso integralmente dalle telecamere della trasmissione televisiva di Rai 3, «Un giorno in pretura» che trasferirà il segnale all’esterno dove una regia unica le distribuirà ad una rete di emittenti e programmi tv che ne hanno chiesto l’utilizzo. Il numero degli operatori dell’informazione che si sono fatti accreditare per seguire il processo, supera di poco le cinquanta unità tra giornalisti e operatori appartenenti a 21 testate, 12 delle quali tra carta stampata e agenzie e nove televisive, nazionali e locali. Nessuna tv estera ha ancora chiesto una postazione. Per la prima volta a Taranto sarà allestita per l’occasione una sala stampa. 

L’ubicazione è stata individuata al primo piano nel corridoio centrale di fronte all’aula Alessandrini. Lì sarà montato uno schermo che trasmetterà le immagini riprese dalle telecamere di «Un giorno in pretura» mentre una regia cederà il segnale alle altre televisioni collegate. Sarà la presidente della Corte, durante le udienze, a decidere la quantità e le caratteristiche delle immagini sulla base anche del volere degli imputati. Sabrina Misseri, ad esempio, avrebbe fatto sapere di non essere d’accordo con le riprese integrali anche del volto. Il presidente del tribunale di Taranto, Antonio Morelli, ha convocato i rappresentanti dell’informazione per una riunione in cui sono state decise le regole per l’evento. Ogni testata non potrà nominare più di un giornalista (due per quelle televisive che prevedono l’operatore di ripresa) che occuperanno i trenta posti a loro riservati nell’aula delle udienze. Altrettante sedie ci saranno per i parenti degli imputati e il pubblico. Il presidente Morelli ha deciso in che modo regolare l’accesso degli spettatori.

Sul tavolo della presidente della Corte d’assise, Cesarina Trunfio, continuano a giungere gli elenchi dei testimoni indicati dalla pubblica accusa e dai difensori degli imputati. I due pubblici ministeri che hanno condotto l’inchiesta, il procuratore aggiunto Pietro Argentino e il sostituto Mariano Buccoliero, hanno chiesto di sentire 135 testi di cui undici imputati e un indagato (l’impiegato di banca che dichiarò di aver visto il giorno del delitto Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri, mentre versava due assegni al suo sportello). Almeno duecento, invece, i testimoni chiamati dai 18 avvocati difensori. Sarà prerogativa della presidente della Corte, poi, valutare quali e quanti testimoni accogliere per le deposizioni sia a favore dell’accusa sia della difesa. A rispondere, in concorso tra loro, di omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere, saranno Cosima Serrano e Sabrina Misseri, madre e figlia, zia e cugina di Sarah, entrambe detenute. Michele Misseri, marito di Cosima e papà di Sabrina, è invece accusato di concorso in soppressione di cadavere insieme con Cosima e Sabrina e con altri due familiari, il fratello Carmine e il nipote Cosimo Cosma. Gli altri imputati, tra i quali l’avvocato Vito Russo, sono accusati a vario titolo di intralcio alla giustizia e favoreggiamento personale. La Corte di assise presieduta da Cesarina Trunfio avrà come giudice a latere Fulvia Misserini più sei giudici popolari. 

Tra i tanti documenti e immagini dell’inchiesta sull’uccisione di Sarah Scazzi, nell’aula Alessandrini della Corte d’assise di Taranto sfilerà anche l’orrore del ritrovamento del corpo straziato da 42 giorni di sommersione nell’acqua fangosa del pozzo cisterna dove fu gettata il giorno della sua uccisione. Non mancherà l’occasione (l’implacabile esigenza della giustizia lo imporrà), di vedere la sequenza fotografica di quella terribile notte tra il 6 e il 7 ottobre del 2010 quando Michele Misseri confessò il delitto (da lui stesso in seguito ritrattato e addossato alla figlia Sabrina), portando magistrati e inquirenti sul pozzo in contrada Mosca.

Sarà un film composto da settantuno scatti, non sarà facile guardare. La lunga sequela di immagini parte dalle 22,45 di quel mercoledì 6 ottobre per concludersi alle 10 del giorno dopo.

La prima foto riprende l’arrivo sulla zona del pozzo del pubblico ministero Mariano Buccoliero che per primo ha raccolto la confessione del contadino. Si vede il magistrato che indica ad uno dei suoi uomini il punto dove scavare così come gli è stato suggerito da Misseri.

Da quel momento in poi inizia una interminabile serie di fotogrammi in bianco e nero (tutti depositati agli atti del processo) che mostrano minuto per minuto, centimetro per centimetro, la difficile e pietosa ricerca della tomba di Sarah. Si vedono le mani dei carabinieri che strappano l’erba per raggiungere l’accesso del pozzo, poi i badili che scavano e che dopo quasi un’ora mettono allo scoperto l’antro buio così stretto da rendere difficile credere che un corpo possa esserci passato attraverso. Ancora scatti. I fasci di luce delle torce tentano di penetrare il profondo di quel budello fatto di terra e pietre, senza riuscirvi. Quello che le immagini non possono catturare lo avvertono le persone: l’odore di morte che proviene dal fondo del pozzo che da conferma al racconto dell’orco. Si cala una fune per misurarne la profondità della cisterna che è di circa due metri e mezzo a filo dell’acqua.

Poi il lavoro passa all’escavatore meccanico che crea una voragine smantellando la cisterna. Da questo punto in poi le immagini sono inguardabili perché l’antro allargato dalla pala d’acciaio mostra qualcosa che galleggia che è ricoperto di terra. Sarà quella la parte peggiore per chi vorrà resistere. Le fasi del recupero della salma di un essere umano che chiamare ragazzina non è più possibile.

Qualche ora dopo la stessa madre, Concetta Serrano Spagnolo, costretta al pietoso riconoscimento attraverso due foto mostratele all’obitorio dell’ospedale Santissima Annunziata di Taranto dal medico legale Luigi Strada che le ha scattate, dirà che quella «cosa» non è sua figlia, non può dire che è lei.

Per questo, scriverà il perito nel referto, saranno i prelievi istologici e la comparazione del Dna dei parenti a certificare.

La lunga e interminabile vicenda legata all'uccisione di Sarah Scazzi aggiunge un altro tassello: al processo per il "delitto di Avetrana" arriva il momento delle 71 fotografie scattate nella notte tra il 6 e il 7 ottobre del 2010 durante il sopralluogo delle forze dell'ordine al pozzo in contrada Mosca, ad Avetrana, gentilmente concesse dal Corriere del Mezzogiorno. Quella notte Michele Misseri confessò di avere ucciso Sarah Scazzi, per poi ritrattare in un secondo momento.

Questa è la storia di una schizofrenia giornalistica. L’ennesimo oltraggio a una ragazzina, Sarah Scazzi, uccisa e gettata in un pozzo 15 mesi fa. Un caso che racconta l’ipocrisia del mestiere del giornalista e l’immaturità che ancora si ha nel lavorare con gli strumenti digitali.

Una vicenda che mette disagio perché in questo caso si parla di un giornale, il Corriere della Sera che per vizi e virtù è un’istituzione dell’informazione del nostro paese.

Veniamo alla nostra storia. E cominciamo con le parole di Goffredo Buccini, che sul Corriere della Sera, raccontando del processo per l’omicidio di Avetrana che inizia a Taranto, firma un pezzo dal titolo “Il metro dell’orrore sul pozzo di Sara - Gli scatti del ritrovamento della ragazzina”. Buccini si riferisce alle 71 immagini riprese la notte tra il 6 e il 7 ottobre del 2010 durante il sopralluogo degli inquirenti nella campagna in cui Michele Misseri, 42 giorni prima, aveva gettato il corpo della nipote di 15 anni. “In 71 scatti terribili”, commenta Buccini, “le immagini che fecero gridare alla madre ‘Questa non è mia figlia!’ e che è giusto restino il più possibile congelate negli atti giudiziari e dell’aula, lontano dagli sguardi morbosi e dai talk show del ribrezzo”. E prosegue (la citazione è lunga, ma necessaria): “Quella mostruosa bocca spalancata nella terra ha inghiottito per quasi un anno e mezzo pudore, prudenza, misericordia. E ha alimentato tra noi follie, avidità, protagonismi cancellando deontologie professionali e senso del limite. (…) Che anche il circo trovi modo di moderare suoni e luci”. Condivisibile dalla prima all’ultima riga. Se non fosse che proprio in quelle ore le foto di Sarah, del suo corpo bocconi nel pozzo semicoperto dal fango, campeggiano con un richiamo proprio nella home del sito del Corriere.it. Come è potuto accadere?

Le foto giravano già da giorni. Diversi quotidiani le hanno viste e rifiutate. Il Corriere del Mezzogiorno, l’edizione locale del Corriere che viene pubblicata in Puglia e in Campania e il cui sito internet è un sottodominio del Corriere.it, le prende e le pubblica fin dal giorno prima, 4 gennaio 2012. Sono tre gallerie. Per la maggior parte gli scatti si riferiscono alle misurazioni degli inquirenti. Ma in una, preceduta dall’ipocrita cartello che le immagini potrebbero ferire la sensibilità dei lettori, ci sono due foto del corpo di Sarah. La galleria macina clic. Il circo dell’orrore, cito ancora il profetico Buccini, si dimostra una volta di più “un affresco della nostra Italia osceno quanto la trama di questo giallaccio”.

Esempi di pessimo giornalismo. Mi chiedo come possa il Corriere della Sera online pubblicare un articolo come quello di tale Nazareno Dinoi dal titolo delirante "Il corpo di Sarah estratto dal pozzo. In 71 scatti la sequenza dell'orrore". E' il classico caso da citare nelle scuole di giornalismo come trappole in cui non cadere. Titoloni urlati approfittando delle tragedie altrui per attirare i lettori e sotto il vestito niente. A corredo dell'articolo una squallida fotogallery che ovviamente non è composta dai 71 scatti della sequenza dell'orrore perchè quelli li vedranno in aula, ma da foto in bianco e nero del pozzo da cui è stata estratto il corpo di Sarah Scazzi. La prima slide tuona addirittura "ATTENZIONE IMMAGINI PARTICOLARMENTE CRUDE E SCONSIGLIATE AD UN PUBBLICO SENSIBILE", le slides a seguire sono tutte immagini del buco per terra, misurazioni ecc, non c'è nessuna foto che possa urtare la sensibilità di alcuno ma l'intelligenza si. Premesso che io la cronaca nera la eliminerei tout court perchè non ne vedo proprio l'utilità se non quella di appagare un lato oscuro e morboso degli esseri umani, turisti nelle disgrazie altrui, quando invece ci sarebbero tanti altri argomenti interessanti da approfondire, ma capisco che se fatta professionalmente e con rispetto possa essere un termometro della società (o almeno di alcune sue parti). Aggiungo che in questo mirabile articolo di questo credo giornalista non capisco quale sia il diritto - dovere di cronaca. La notizia è che durante il processo saranno proiettate le immagini del ritrovamento del cadavere, quindi il titolo è falso e fuorviante, così come la photogallery. Vi sono poi ammiccamenti nel testo da fare venire i brividi : "Non mancherà l’occasione (l’implacabile esigenza della giustizia lo imporrà), di vedere la sequenza fotografica di quella terribile notte tra il 6 e il 7 ottobre del 2010". e ancora: "Sarà un film composto da settantuno scatti, non sarà facile guardare." e poi: "Da questo punto in poi le immagini sono inguardabili perché l’antro allargato dalla pala d’acciaio mostra qualcosa che galleggia che è ricoperto di terra. Sarà quella la parte peggiore per chi vorrà resistere." Questo è un articolo del Corriere del Mezzogiorno ripreso dal Corriere della Sera, il mio consiglio per le prossime photogallery del genere è come prima slide di mettere la seguente scritta: ATTENZIONE IMMAGINI SCONSIGLIATE A UN PUBBLICO INTELLIGENTE.

''L'unico sentimento che si può provare per la diffusione delle foto di quel che restava della povera Sarah Scazzi è di vergogna. Quello non è giornalismo, non il giornalismo che, nello spirito della Costituzione, serve ai cittadini''. Così il presidente dell'Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino commenta la pubblicazione delle foto del recupero del corpo di Sarah Scazzi ad Avetrana sul Corriere della Sera e sul Corriere sul Mezzogiorno. Le immagini riportate sui siti on line dei quotidiani sono state poi rimosse.

Non si dovrebbe fare di tutta l’erba un fascio, ma è innegabile il fatto che la maggior parte dei giornalisti, saccenti e spregiudicati, hanno molto da vergognarsi e, cosa più grave, è che di ciò non se ne rendono conto.

Riflettori per tutti, anzi niente riflettori, Sabrina Misseri ha deciso a sorpresa. Riporta il Corriere della Sera: «Non farò la tigre in gabbia, quelli se lo possono scordare», annuncia Sabrina. E per «quelli» intende i tantissimi cineoperatori e fotografi a Taranto per cogliere una sua espressione, uno sguardo che valga più di tante parole.  «Non mi presto a nessuna curiosità morbosa, non voglio fotografie e non voglio essere ripresa» si raccomanda lei con Nicola Marseglia, l'avvocato che la difende assieme al professor Franco Coppi. E sempre che entro domani non cambi idea, a Marseglia Sabrina ha chiesto (testuale) di battersi «come un leone» per evitare che anche una sola immagine esca dall'Aula Alessandrini di Taranto.

Scrive lettere, Michele. In questi ultimi giorni prima del processo ne ha spedite due a sua moglie e una a sua figlia. («Scrivo a Sabrina ma non ho risposte e mi fa rabbia», dice). «Finalmente in queste lettere parla del perché mi ha tirato in ballo», commenta sua figlia con l'avvocato, «ma so già che questo non cambierà le cose...». Non che sia rassegnata, sia chiaro: «Combatterò fino alla fine perché non sono un'assassina, non mi arrenderò mai. Sarah era una sorella per me». Ma finora dal Palazzo di giustizia di Taranto Sabrina ha incassato soltanto rifiuti: no, sempre no a una miriade di ricorsi, istanze e controricorsi, anche quando la Cassazione le aveva fatto sperare in un risultato diverso. Per questo adesso è lei stessa a mettere in conto anche l'ipotesi peggiore: «Lo so che diranno cose orribili di me, e magari mi condanneranno all'ergastolo...» si è lasciata sfuggire nell'ultimo colloquio in carcere con il legale. «Ma io sono innocente e non ho intenzione di mollare».

Fra accusa e difesa, se saranno ammessi tutti, sfileranno davanti alla Corte più o meno trecento testimoni. «Voglio guadarli negli occhi ad uno ad uno quando racconteranno bugie» promette Sabrina. «Voglio prendere nota di ogni dettaglio, voglio fare l'elenco di tutte le assurdità di questa storia». In cella accanto a sua madre Cosima - «determinata almeno quanto lei a dimostrare la propria innocenza», come dice il suo legale Franco De Jaco - Sabrina passa il tempo a studiarsi le carte del processo, da un mese non esce dalla cella nemmeno per l'ora d'aria. «Mi porterebbe un codice penale al prossimo colloquio?» ha chiesto all'avvocato Marseglia.

«Se Sabrina e Cosima non escono di prigione io la faccio finita, mi butto in un pozzo, poi vediamo se riescono a trovarmi»: lo ha detto Michele Misseri in un collegamento telefonico a Tgcom24, riaffermando di essere l’unico responsabile dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi. «Nessuno mi vuole credere. Però l’ho detto cosa farò: io quando parlo di Sarah e dico che mi faccio giustizia da solo, dico che la faccio finita. Poi voglio vedere se riescono a trovarmi». «Nella mia vita sono stato sempre bravo - ha poi aggiunto - quello era un periodo particolare». «Quella mattina - ha affermato ricordando il giorno del delitto - ero nervoso: mia moglie non mi cucinava più, Sabrina mi cucinava ma sembrava seccata, dormivo sulla sdraio, il trattore non partiva. Poi è arrivata Sarah e io ero nervoso, quindi ho fatto una cosa brutta».

«Martedì - ha concluso riferendosi all’imminente inizio del processo - guarderò Cosima e Sabrina ma so che loro non mi guarderanno. Saranno piene di odio. Perché loro mi odiano per quello che ho fatto». «Se sono cambiato e parlo meglio, ringrazio le persone del carcere. Nel carcere ero isolato da tutti e avevo diverse persone che mi facevano da professori».

Queste le parole di Michele Misseri a Tgcom24 a due giorni dal processo: «Quando vado ad Avetrana e parlo in italiano - ha aggiunto - mi dicono 'adesso sei diventato italiano?'. Poi forse è pure perchè io scrivo molto, scrivo sempre e tutti i giorni. Prima parlavo solo in dialetto. Scrivo quello che faccio, della tristezza, perchè sono solo. Scrivo di tutto. E' come un calendario. Andrò a Taranto, ho fatto già la richiesta perchè io non posso uscire da Avetrana. Martedì sarò in aula e spero di rivedere Sabrina e Cosima, anche se non le posso salutare e non posso fare niente. poi non so ancora se mi farò riprendere. Io non ho paura - ha sottolineato Michele Misseri - perchè sto dicendo la verità e affronterò tutto. La paura ce l'avevo prima, adesso non più. Ribadirò la mia colpevolezza. La verità è questa. Sono state dette delle bugie, io le ho dette ma per colpa degli altri, ho messo in mezzo mia figlia che non c'entra niente. Io a Sabrina chiedo perdono e non smetterò mai di farlo. Le scrivo le lettere ma non ho risposte e mi fa rabbia. Sono vittima e colpevole. Il mio senso di colpa è che ci sono due innocenti in carcere - ha aggiunto Michele Misseri in collegamento con il Tgcom24 - una ragazza che è stata giustiziata, le volevamo tutti bene, poi all'improvviso mi è successo questo. Io ho sempre detto di essere colpevole. Non ho fiducia nella legge terrena, chissà quanti innocenti ci sono in carcere. Quella mattina ero nervoso: mia moglie non mi cucinava più, Sabrina mi cucinava ma sembrava seccata, dormivo sulla sdraio, il trattore non partiva. Poi è arrivata Sarah e io ero nervoso, quindi ho fatto una cosa brutta. Ma in vita mia sono stato sempre bravo. Quello era un periodo particolare. Martedì guarderò Cosima e Sabrina ma so che loro non mi guarderanno. Saranno piene di odio. Perchè loro - ha concluso - mi odiano per quello che ho fatto».

Non trattiene le lacrime. Sabrina Misseri non ce la fa, piange dietro le sbarre della gabbia. In disparte, dietro a sua madre Cosima Serrano. Al via la prima udienza del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi al Tribunale di Taranto. Entrambe le donne sono accusate di concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere. Mentre Michele è imputato di concorso in soppressione di cadavere. In tutto gli imputati sono nove.

Capelli lunghi, cappotto nero, i suoi occhiali da vista neri, la 24enne Sabrina si passa spesso un fazzolettino sugli occhi. La madre, ferma e imperturbabile è davanti, mani conserte, gli occhi fissi all'aula. Gli avvocati difensori delle donne hanno dichiarato il loro dissenso nei confronti delle riprese televisive del dibattimento. La Corte di Assise ha stabilito, dopo un'ora e mezza di camera di consiglio, che le immagini del processo potranno essere mandate in onda solo dopo la conclusione del processo stesso. E ha quindi autorizzato la ripresa integrale da parte della trasmissione di Rai Tre «Un giorno in pretura». Non potranno essere ripresi dalle telecamere gli imputati Cosima Serrano, Sabrina Misseri, Carmine Misseri, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano, nonché testimoni e consulenti che ne facciano esplicita richiesta, come avevano fatto gli imputati. Vietata anche la presenza in aula dei fotografi. Le immagini potranno essere mandate in onda solo dopo la conclusione del processo. Nel pubblico, oltre alla famiglia Sarah, presente anche il sindaco di Avetrana, Mario De Marco: il Comune chiederà di costituirsi parte civile nei confronti della famiglia Misseri.

Il Resoconto di una giornata mediatico giudiziaria.

8.30 - Il processo per l'omicidio della 15enne di Avetrana. Il presidente del tribunale di Taranto, Antonio Morelli, ha ripristinato per decreto, considerata l'eccezionale risonanza mediatica del caso e ritenendo doveroso assicurare la regolarità e la serenità del giudizio oltre che il continuo svolgimento della vita normale del palazzo di giustizia, l'ingresso d'onore del tribunale e ha riservato agli operatori dell'informazione una apposita sala stampa in un corridoio di fronte all'aula di corte di assise. La corte di assise è composta da donne: il presidente Cesarina Trunfio, il giudice a latere Fulvia Misserini, e sei giudici popolari. I togati dovranno decidere del destino dei 9 imputati. E' scoppiata più volte in lacrime davanti alla Corte d'Assise di Taranto Sabrina Misseri, imputata con la madre per l'omicidio di Sarah Scazzi, la studentessa 15enne di Avetrana (Taranto), uccisa il 26 agosto 2010 e sepolta in un pozzo. Sabrina s'è lasciata andare al pianto all'avvio dell'udienza in cui è accusata di concorso in omicidio volontario aggravato e sequestro di persona con sua madre Cosima Serrano, 56 anni, entrambe agli arresti. Le due donne, con il padre e marito Michele Misseri, che più volte si è autoaccusato di essere l'unico responsabile dell'omicidio, risponderanno anche di concorso nella soppressione del cadavere. Sabrina Misseri è scoppiata a piangere seduta in disparte nella gabbia degli imputati. Aveva chiesto di essere protetta, non voleva essere ripresa dalle telecamere e dai flash dei fotografi, e resta indietro, alle spalle della mamma Cosima. Capelli lunghi, cappotto nero, occhiali da vista neri, Sabrina è molto dimagrita. Si passa spesso un fazzolettino sugli occhi. La madre, ferma e imperturbabile, è davanti a lei, mani conserte, gli occhi fissi all'aula. La prima ad arrivare in Corte d'assise è stata Concetta Serrano, la madre della 15 enne uccisa. La donna è entrata nell'aula accompagnata dal marito Giacomo, dal figlio Claudio e dagli avvocati di parte civile Valter Biscotti, Nicodemo Gentile e Antonio Cozza. Il volto contratto ed emaciato, si è seduta nella seconda fila, dietro ai difensori dei principali imputati. Assediata dalle telecamere e dai flash dei fotografi, è rimasta in silenzio, immobile. Michele Misseri, accompagnato dal suo legale, Armando Amendolito, è indagato a piede libero. E' passato dinanzi ai famigliari di Sarah e si è seduto a distanza, su una sedia vicino ad una delle due gabbie della moglie Cosima e della figlia Sabrina. L'amministrazione comunale di Avetrana si è costituita parte civile al processo, cominciato davanti alla Corte d'Assise di Taranto, per l'omicidio di Sarah Scazzi. In aula è presente il sindaco di Avetrana, Mario De Marco. La presidente della Corte, Cesarina Trunfio, ha sospeso l'udienza e si è ritirata per decidere se consentire o meno le riprese tv in aula del dibattimento. I difensori degli imputati si sono rimessi alla decisione della Corte, tutti tranne i legali di Sabrina Misseri che, interpretando la volontà della loro assistita, si sono opposti. «La presenza costante delle telecamere in aula - ha detto Nicola Marseglia, difensore della Misseri -, nuoce al dibattimento». I rappresentanti legali della famiglia di Sarah hanno chiesto che le riprese vengano sospese quando in aula saranno mostrate le foto della vittima. C'è stata una gara ad aggiudicarsi i posti a sedere riservati al pubblico. Tra gli spettatori c'è chi si è alzato presto e ha viaggiato, oltre a chi vive a Taranto, ha sempre seguito le vicende del caso Scazzi e oggi vuole esserci: 70 persone sono state ammesse ad assistere all'udienza del processo nella corte di assise di Taranto, previo apposito pass. Occupano la sinistra dell'aula, dall'altro lato dei giornalisti. «Sono situazioni che fanno male al cuore, mi vengono le lacrime agli occhi», dice un'anziana signora, che spera nella «punizione dei colpevoli». «Abbiamo seguito tutto fin dall'inizio - spiegano altre due signore -: il colpevole è nella famiglia: Sarah è entrata in quella casa e non è mai più uscita». Una donna si passa una mano sugli occhi: «Io ho una figlia, sono passata prima al cimitero, da Sarah». Più caustici gli uomini: «Vediamo se Michele si ammazza davvero», commenta un signore ricordando le ultime dichiarazioni del contadino di Avetrana, che ha promesso si sarebbe buttato in fondo a un pozzo se non avessero creduto all'innocenza di Sabrina e Cosima. Un altro fa notare: «Michele è una vittima: si vede come stava prima a casa con la moglie e come si è fatto bello ora che è solo». C'è anche una studentessa di legge di Taranto che spiega: «Sono qui solo per motivi di studio, non per curiosità». Complessivamente sono nove le persone a giudizio, tra cui l' ex legale di Sabrina, l'avvocato Vito Russo, accusato di aver tentato di indurre con minacce un testimone a riferire false dichiarazioni durante le indagini. L'udienza appena cominciata, alla quale sono accreditati oltre 50 giornalisti e per i quali è stata allestita una apposita aula con due monitor TV, sarà prettamente tecnica, per le procedure preliminari come l'ammissione dei mezzi di prova, delle testimoniane, delle costituzioni di parti civili e per la calendarizzazione del dibattimento.

8.50 - Sono arrivati i genitori di Sarah, con il fratello Claudio. L'aula è già piena di giornalisti. Decine i curiosi che chiedono di assistere al processo, anche comprando un biglietto.

9.20 - E' arrivato anche Michele Misseri insieme con i suoi avvocati. Ha un giubotto di jeans, nemmeno uno sguardo con la famiglia scazzi. Ha chiesto una sedia che ha messo al lato dell'aula, vicino la cella.

9.25 - Michele Misseri ha chiesto di non essere ripreso o fotografato. Davanti a lui c'è un carabiniere che gli fa da schermo dagli obiettivi dei fotografi e degli operatori.

9.30 - Grande ressa di giornalisti e cameramen al palazzo di Giustizia di Taranto per la prima udienza del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. L’udienza non è ancora iniziata, ma la famiglia della 15/enne di Avetrana strangolata il 26 agosto 2010 è già in aula. Giacomo Scazzi, Concetta Serrano e il loro figlio Claudio sono giunti poco prima delle 9 accompagnati dai loro legali. Al momento poche le persone presenti nel pubblico.

9.37 - Nell’aula della Corte di Assise di Taranto, dove sta per iniziare la prima udienza del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, è arrivato anche Michele Misseri, accompagnato dal suo legale, Armando Amendolito. L'agricoltore di Avetrana è passato dinanzi ai familiari di Sarah e ora è seduto a distanza su una sedia vicino ad una delle due 'gabbie', nella quale presumibilmente prenderanno posto tra poco anche la moglie, Cosima Serrano, e la figlia Sabrina, entrambe detenute e accusate dell’omicidio.

9.45 - L'udienza non è ancora cominciata sebbene in aula siano presenti quasi tutti gli imputati. All'appello mancano le uniche due detenute per l'omicidio di Sarah, Sabrina e Cosima, accusate di omicidio, sequestro, soppressione di cadavere. Madre e figlia dovranno prendere posto nella gabbia degli imputati. Lì accanto siede Michele Misseri, imputato solo per soppressione di cadavere e furto di telefonino.

9.50 - Sono settanta le persone ammesse a vedere il processo. Gente che arriva anche da fuori provincia e che ha voluto essere in prima fila per seguire "il giallo dell'anno" dicono. Signore anziane e ragazze che attendono l'arrivo di Sabrina Misseri e sua madre Cosima ("sono state loro", il pubblico appare colpevolista) ma sperano anche in una ripresa, anche piccola, della televisione.

9.55 - Suona la campanella. Sono entrate in aula i giudici e le imputate. Mamma e figlia sono nella stessa cella. Sabrina piange a dirotto ed è trasformata: i capelli più lunghi, assai dimagrita.

10.05 - Sabrina chiede di non essere fotografata. E dice no alle riprese televisive durante il processo. "L'attenzione mediatica può inficiare il processo e non c'è alcuna rilevanza sociale", dice uno dei suoi avvocati, Nicola Marseglia.

10.10 - E' iniziata nel Palazzo di giustizia di Taranto la prima udienza del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. In una gabbia alla sinistra della Corte di Assise ci sono le uniche detenute, Cosima Serrano e sua figlia Sabrina, accusate del delitto. In tutto gli imputati sono nove. Sabrina, ad inizio di udienza, è scoppiata più' volte in lacrime. Nel pubblico presente anche il sindaco di Avetrana, Mario De Marco: il Comune chiederà di costituirsi parte civile nei confronti della famiglia Misseri.

10.16 - Anche Cosima non vuole le riprese. Michele invece si è rimesso al guidizio della corte "per una questione di coerenza", ha spiegato l'avvocato dell'uomo che in questi mesi non si è certo sottratto alle telecamere. La moglie, alle parole del suo avvocato, lo ha gelato con lo sguardo. Ora la corte si è riunita per decidere se autorizzare o meno le riprese tv.

10.25 - La Corte d’Assise di Taranto (presidente Cesarina Trunfio, a latere Fulvia Misserini, più sei giudici popolari, cinque dei quali sono donne) si è ritirata in Camera di Consiglio per decidere le modalità delle riprese televisive in aula e della diffusione delle immagini del processo, dopo aver sentito le parti. In particolare le due imputate attualmente detenute e accusate del delitto, Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri, hanno chiesto, attraverso i loro legali, di non essere riprese durante il processo.

10.28 - Ressa di giornalisti e operatori tv nella sala stampa allestita davanti alla Corte d’Assise del tribunale di Taranto, dove si sta celebrando il processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Solo due televisori stanno irradiando le riprese televisive garantite dalla trasmissione «Un giorno in pretura». Sono decine invece i cronisti, i fotografi e i cameramen presenti, tutti muniti di apposito pass per l’ingresso al Palazzo di giustizia. La necessità di riprendere in tempo reale immagini da trasmettere per le dirette televisive e i tg sta creando inevitabilmente problemi logistici.

10.30 - Capelli lunghi, cappotto nero, i suoi occhiali da vista neri, Sabrina si passa spesso un fazzolettino sugli occhi. Si è sistemata in un angolo della cella. La madre, ferma e imperturbabile è davanti, mani conserte, gli occhi fissi all'aula. Intanto la presidente della corte, Cesarina Trunfio, ha momentaneamente sospeso l'udienza e si è ritirata per decidere se consentire o meno le riprese tv in aula del dibattimento. I difensori degli imputati si sono rimessi alla decisione della corte, tutti tranne i legali di Sabrina, interpretando la volontà della loro assistita, si sono opposti. I rappresentanti legali della famiglia di Sarah hanno chiesto che le riprese vengano sospese quando in aula saranno mostrate le foto della vittima.

10.50 - Sabrina e Cosima hanno chiesto di uscire dall'aula. Michele invece è seduto sempre nell'angolo. Sono entrati i cinque giudici popolari: due donne e tre uomini, tutti di mezz'età.

11.00 - Continua a esserci gente fuori dal tribunale che chiede di entrare per assistere al processo. Non c'è però la folla che ci si aspettava. "Noi veniamo da Nardò, provincia di Lecce - racconta una signora tra il pubblico - siamo qui per vedere in faccia Sabrina e Cosima". «Siamo stati bombardati dai media e non eravamo ovviamente abituati a tutto questo. Avetrana ha subito un danno di immagine enorme». Lo ha detto ai giornalisti il vicesindaco di Avetrana Alessandro Scarciglia a margine dell’udienza per l’uccisione di Sarah Scazzi. «Il problema – ha aggiunto – non è il risarcimento dei danni, che comunque chiederemo. Avetrana non meritava tutto questo. Qualche attore principale di questa vicenda pensa di essere in uno show e anche alcuni mass media hanno esagerato».

11.15 - "Siamo stati bombardati dai media e non eravamo ovviamente abituati a tutto questo. Avetrana ha subito un danno di immagine enorme". Lo ha detto ai giornalisti il vicesindaco di Avetrana Alessandro Scarciglia a margine dell'udienza per l'uccisione di Sarah Scazzi. "Il problema - ha aggiunto - non è il risarcimento dei danni, che comunque chiederemo. Avetrana non meritava tutto questo. Qualche attore principale di questa vicenda pensa di essere in uno show e anche alcuni mass media hanno esagerato".

11.34 - Il Comune di Avetrana chiede alle Misseri il risarcimento per danni di immagine ma anche materiali che la comunità ha avuto dall'omicidio di Sarah Scazzi. Agli atti c'è la fattura di duecento euro che il Comune ha speso per la corona di fiori inviata al funerale: l'hanno acquistata da Giovanni Buccolieri, il fioraio sotto processo con l'accusa di aver visto tutto il giorno dell'assassinio di Sarah e di aver taciuto.

12.10 - Il processo Scazzi sarà ripreso dalle televisioni: nonostante il no di Sabrina e di Cosima, la corte ha deciso che vista l'"eccessivo interesse della società alla rilevanza del processo" è giusto che i cittadini possano seguire tutto il dibattimento.

12.11 - Ammesse solo le telecamere di 'Un giorno in pretura' che poi passeranno le immagini a tutte le televisioni che ne faranno richiesta.

12.14 - Sono circa sessanta le persone che non hanno trovato posto nell’area riservata al pubblico e sono assiepate dietro le transenne all’esterno della Corte d’Assise del Tribunale di Taranto, dove si sta svolgendo il processo Scazzi. Molti sono anziani, ma c'è anche una laureanda in giurisprudenza che ha scelto come tesi sperimentale proprio il processo mediatico e le garanzie per gli imputati. Il pubblico si divide in maniera equa tra coloro che credono alla colpevolezza di Michele Misseri e chi pensa che le assassine siano Cosima Serrano e sua figlia Sabrina. «Vogliamo la verità. Vogliamo che sia fatta giustizia e che i colpevoli siano condannati» hanno dichiarato alcune delle persone intervistate dalle emittenti televisive. «Sono venuto quì – ha detto un anziano – per vedere da vicino gli imputati. C'è una bambina che è stata ammazzata in maniera brutale. Bisogna vedere questa gente come è fatta. Secondo me sono stati tutti e tre».

12.15 - Non sarà possibile fare le foto. Non potranno esserci più di tre telecamere, e non potremmo mandare le immagini di Cosima e Sabrina, così come di tutti gli altri imputati che ne faranno richiesta.

12.20 - La Corte di Assise di Taranto ha stabilito con ordinanza, dopo un'ora e mezza di camera di consiglio, che le immagini del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi potranno essere mandate in onda solo dopo la conclusione del processo stesso. Con la stessa ordinanza, accertato l'interesse "particolarmente rilevante" della vicenda da parte dell'opinione pubblica, la Corte ha autorizzato la ripresa integrale del dibattimento da parte della trasmissione di RaiTre 'un giorno in pretura'. Non potranno essere ripresi dalle telecamere gli imputati Cosima Serrano, Sabrina Misseri, Carmine Misseri, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano, nonché testimoni e consulenti che ne facciano esplicita richiesta, come avevano fatto gli imputati. Vietata anche la presenza in aula dei fotografi.

12.25 - La difesa di Sabrina, Cosima e Michele Misseri per il no alla costituzione di parte civile del Comune di Avetrana: "Spese sostenute autonomamente".

12.35 - a Corte di Assise di Taranto ha stabilito con ordinanza, dopo un’ora e mezza di camera di consiglio, che le immagini del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi potranno essere mandate in onda solo dopo la conclusione del processo stesso. Con la stessa ordinanza, accertato l’interesse «particolarmente rilevante» della vicenda da parte dell’opinione pubblica, la Corte ha autorizzato la ripresa integrale del dibattimento da parte della trasmissione di RaiTre 'un giorno in pretura'. Non potranno essere ripresi dalle telecamere gli imputati Cosima Serrano, Sabrina Misseri, Carmine Misseri, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano, nonchè testimoni e consulenti che ne facciano esplicita richiesta, come avevano fatto gli imputati. Vietata anche la presenza in aula dei fotografi.

12.45 - La Corte si è ritirata per decidere sulle eccezioni presentate dalle parti. Cosima e suo marito rimangono seduti mentre Michele è uscito dall'aula.

12.53 - Concetta, la mamma di Sarah, parla di cosa si aspetta dal processo: "Spero che Sabrina confessi e racconti tutta la verità - dice - ma davvero la verità. Se pungolata bene penso lo possa fare, è più fragile psicologicamente. Cosima invece no".

13.08 - La Corte di Assise di Taranto è tornata in camera di consiglio per decidere su alcune richieste ed eccezioni delle parti. In particolare è stata avanzata richiesta di costituzione di parte civile dal Comune di Avetrana nei confronti degli imputati Misseri: la procura della Repubblica ha espresso in merito parere favorevole, il collegio difensivo si è detto contrario. L'avv. Giovanni Scarciglia ha chiesto il giudizio abbreviato, subordinato all’ascolto di tre testimoni, per due imputati, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano, entrambi accusati di favoreggiamento personale. La richiesta era stata avanzata e respinta già in sede di udienza preliminare dal gup Pompeo Carriere. Inoltre, la Corte dovrà decidere su alcune eccezioni sollevate dal collegio difensivo relative all’inserimento di documenti nel fascicolo dibattimentale.

13.50 - Un gruppo di persone protesta con cori da stadio all'esterno del tribunale di Taranto in segno di contestazione nei confronti dei numerosi giornalisti, fotografi e cameramen presenti per il processo Scazzi. I manifestanti esibiscono uno striscione con la frase 'Sulla morte di Sarah avete speculato ma del nostro inquinamento non avete mai parlato'. Una protesta che sta facendo da sfondo alle dirette di telegiornali e trasmissioni televisive nazionali e locali. Un gruppo di persone sta protestando con cori da stadio all’esterno del tribunale di Taranto in segno di contestazione nei confronti dei numerosi giornalisti, fotografi e cameramen presenti per il processo Scazzi. I manifestanti esibiscono uno striscione con la frase 'Sulla morte di Sarah avete speculato ma del nostro inquinamento non avete mai parlato'. Una protesta che sta facendo da sfondo alle dirette di telegiornali e trasmissioni televisive nazionali e locali.

15.00 - "In aula Sabrina risponderà alle domande. Quando il presidente autorizzerà le parti a formulare le richieste di prova, chiederemo, tra le altre cose, anche l'esame di Sabrina Misseri". Lo ha detto l'avvocato Nicola Marseglia, difensore della giovane di Avretrana, parlando con i giornalisti nella pausa della prima udienza. Alla domanda sul perché Sabrina non abbia risposto anche durante l'udienza preliminare per cercare di convincere il gup a proscioglierla, l'avvocato Marseglia ha detto che "quella è stata una scelta processuale della difesa perché ritenevamo che non fosse opportuno in quella fase processuale rendere l'esame". L'avvocato Marseglia difende Sabrina Misseri insieme all'avvocato Franco Coppi oggi assente.

15.22 - «Perchè?». è l’interrogativo che continua a porsi Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, a 16 mesi di distanza dall’uccisione della figlia 15/enne. Lo fa anche in aula, in una pausa del processo, parlando con i giornalisti e chiedendosi ancora il motivo per il quale la ragazzina è stata uccisa in modo così brutale. «Eravamo due famiglie che si frequentavano – ricorda Concetta – non capisco perchè sia accaduto questo. La gelosia? Mah, non so se sia stata solo quella». In aula Concetta non ha cercato lo sguardo della sorella Cosima e della nipote Sabrina, comparse dietro le sbarre e accusate dell’omicidio. «Per me sono due persone che hanno sbagliato e devono pagare». La mamma di Sarah è in ansia anche perchè non riesce a comprendere tutte le lungaggini preliminari del processo. «Non starò a tutte le udienze, ma alle più importanti ci sarò» preannuncia. Poi pensa alla composizione della Corte d’Assise e lo sguardo si fa più sereno. «Il presidente è donna, sette giudici su otto sono donne. Le donne sono più agguerrite, questo mi dà fiducia per una sentenza che faccia giustizia».

15.30 - "Perché?". E' l'interrogativo che continua a ripetere Concetta Serrano, madre di Sarah, a 16 mesi di distanza dall'uccisione della figlia. Lo fa anche in aula, durante la pausa del processo, parlando con i giornalisti e chiedendosi ancora il motivo per il quale la ragazzina è stata uccisa in modo così brutale. "Eravamo due famiglie che si frequentavano - ricorda Concetta - non capisco perché sia accaduto questo. La gelosia? Mah, non so se sia stata solo quella". In aula Concetta non ha cercato lo sguardo della sorella Cosima e della nipote Sabrina, comparse dietro le sbarre. "Per me sono due persone che hanno sbagliato e devono pagare". La mamma di Sarah è in ansia anche perché non riesce a comprendere tutte le lungaggini preliminari del processo. "Non starò a tutte le udienze, ma alle più importanti ci sarò", preannuncia. Poi pensa alla composizione della Corte d'Assise e lo sguardo si fa più sereno. "Il presidente è donna, sette giudici su otto sono donne. Le donne sono più agguerrite, questo mi dà fiducia per una sentenza che faccia giustizia".

15.46 - "La sovraesposizione mediatica, che aveva connotato i giorni e le settimane immediatamente successive alla scomparsa di Sarah, è stata controproducente e alla fine ha solo nuociuto a Sabrina. Credo che un registro diverso possa giovarle". Lo ha detto l'avvocato Nicola Marseglia, legale di Sabrina Misseri, che ha spiegato di non credere a una sovraesposizione mediatica voluta da Sabrina, prima del ritrovamento del corpo della vittima. "Mi ha riferito di aver esercitato una sorta di supplenza - ha detto - che le avrebbero chiesto la zia Concetta e i familiari di Sarah che nell'immediatezza della scomparsa non volevano avere rapporti intensi con i media. Alla fine questa disponibilità le si è ritorta contro in senso negativo. Non è stata un'appropriazione indebita di spazi di questo genere, per vanità personale".

16.05 - Sabrina non voleva entrare in aula all'apertura dell'udienza. Agli agenti della polizia penitenziaria che la accompagnavano, di fronte alla porticina delle gabbie degli imputati, ha detto: "Mi sento male, non ce la faccio, non voglio entrare, voglio andare via". Gli agenti le hanno spiegato che doveva entrare in aula, per essere presente all'appello, poi sarebbe potuta uscire. Le hanno dato da bere un po' d'acqua. Poi, alla prima pausa, ha detto agli agenti che sarebbe rimasta. E così ha assistito all'udienza, rimanendo nel suo angolo.

17.22 - Sabrina e Cosima rientrano in aula per la ripresa del processo. Si attendono i giudici.

17.29 - Le due donne hanno gli occhi fissi sul pubblico. Cercano lo sguardo della famiglia Scazzi, ma l'unico che si volta verso la cella è Giacomo, il papà di Sarah. Sabrina è contenta della decisione dei giudici di vietare le telecamere in aula: "Non volevo finire in tv. Sono qui dentro per colpa loro".

17.32 - Sabrina e Cosima hanno chiesto agli agenti di polizia penitenziaria dove fosse Michele Misseri. Non riescono a vederlo perché protetto da una serie di poliziotti.

17.33 - Rientra la Corte.

17.35 - Il Comune di Avetrana ammesso come parte civile.

E’ iniziato il processo in Corte di Assise a Taranto per l'omicidio di Sarah Scazzi, aperto con grande battage mediatico. Ma le telecamere sembrano dare poco peso a cosa c’è fuori dal Tribunale: va in scena la protesta degli ambientalisti tarantini, che approfittano della presenza dei media nazionali per denunciare il vero problema di Taranto, e su cui c’è poco interesse. “Sulla morte di Sarah - si legge uno striscione – avete speculato, ma del nostro inquinamento non avete mai parlato”. Daniela Spera, da anni impegnata caparbiamente nel settore ambientale della propria città, raccoglie le loro proteste: «I giovani si riferivano soprattutto all'inquinamento provocato dalle industrie pesanti. A Taranto la presenza di insediamenti industriali quali il siderurgico, la raffineria, un cementificio, inceneritori, discariche miete vittime silenziose delle quali nessuno parla. Le vittime dell'inquinamento a Taranto sono ormai entrate a far parte della cultura tarantina, abituata a piangere senza reagire. Proprio ieri, ad esempio, e nella mia attività professionale mi trovo spesso di fronte a casi simili, una ragazzina mi ha chiesto un rimedio per la pelle martoriata della propria madre di 45 anni a causa delle conseguenze del ciclo di chemioterapia al quale è sottoposta. Oggi i ragazzi parlano di 'chemioterapia', 'leucemie', 'linfomi' come se fossero le cose più naturali di questo mondo. Forse a Taranto lo è. Ma fino a quando sarà tutto consumato nelle case abbandonate da coloro ai quali i cittadini hanno dato fiducia, e mi riferisco agli Amministratori di Taranto e al governatore della Regione Puglia, Niki Vendola, ormai impegnato ad utilizzare la questione tarantina come trampolino di lancio per la propria carriera politica, omettendo i reali problemi connessi all'inquinamento di Taranto, l'unica cosa che resta da fare è sollevare l'intera città, con ogni mezzo.

Al tribunale di Taranto questi giovani hanno lanciato l'ennesimo grido..» È noto a tutti che si è aperto il processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Ma quanti hanno mostrato attenzione ai manifestanti che erano fuori il tribunale? Bastava fare un po' più attenzione per notare uno striscione che recitava: “Sulla morte di Sarah avete speculato, ma del nostro inquinamento non avete mai parlato”. Un gruppo di ragazzi infatti, ha organizzato nel giorno del tanto atteso evento mediatico, una protesta per rendere noto a tutti il grave problema dell'inquinamento che colpisce Taranto.

Il gruppo di AMMAZZA CHE PIAZZA rivolge queste parole alla comunità cittadina: «Vorremmo rivolgerci alla città di Taranto, la nostra città, che amiamo e desideriamo difendere, per spiegare ai tarantini perchè i giovani del gruppo "Ammazza che piazza" martedì 10 gennaio 2012 hanno deciso di manifestare pacificamente davanti al Tribunale. Martedì si è aperto il processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Tutte le tv nazionali sono sbarcate in città per seguire questo processo. Noi abbiamo deciso di esporre uno striscione “Sulla morte di Sarah avete speculato, ma del nostro inquinamento non avete mai parlato” per sensibilizzare le tv nazionali ad occuparsi della nostra città non solo in merito al tremendo caso di cronaca nera di Sarah Scazzi. Purtroppo da anni lottiamo contro l'inquinamento selvaggio che uccide Taranto e i tarantini e quasi mai (tranne rari casi vedi Le Iene, Malpelo, Corriere della Sera) siamo riusciti ad avere l'attenzione dei media nazionali. Perchè ai casi di cronaca nera si dedicano le aperture di Tg e quotidiani e ai morti per inquinamento non si lascia nemmeno lo spazio di un trafiletto in ultima pagina? Siamo giovani e giovanissimi, studenti, lavoratori e disoccupati, da mesi puliamo le piazze di Taranto per sensibilizzare la cittadinanza ad amare la propria città, amarla come i nostri politici non l'hanno mai amata. Ecco chi siamo noi di AMMAZZA CHE PIAZZA, le nuove generazioni di tarantini che non vedono futuro per loro e per le loro famiglie. Che hanno deciso di difendere la propria città e il nostro futuro. Il diritto ad un futuro. Siamo pacifici. E pacificamente abbiamo intenzione di manifestare e portare avanti la nostra iniziativa politica.

Senza colori nè partiti alle spalle. Ci autofinanziamo e sosteniamo da soli in tutte le nostre iniziative. Martedì dopo la nostra iniziativa - ripetiamo pacifica - davanti al Tribunale uno del gruppo AMMAZZA CHE PIAZZA è stato denunciato per manifestazione non autorizzata. Non capiamo bene quale sia la nostra colpa. Sappiamo però che abbiamo intenzione di continuare a pulire Taranto, a curarla, difenderla. A partire da quei quartieri di periferia lontani dalle luci del centro che nessuno cura e difende”.»

«Ora denunciateci tutti». Scatena la reazione di diverse decine di cittadini nonchè di un folto gruppo di movimenti ed associazioni il fatto che sia stato denunciato uno dei giovani che insieme a tanti altri, davanti al Tribunale dove era in corso la prima udienza del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, ha issato uno striscione che metteva in evidenza come sul processo per il delitto di Avetrana si fosse accesa in modo potente l’attenzione dei media, mentre sull’inquinamento che da anni colpisce la città non si registra analoga attenzione.

«Quando un gruppo di giovani decidono di valorizzare la propria città e, senza far uso di bandiere o colori politici, si adoperano per migliorarla, ripulendo ed abbellendo le pubbliche piazze, vengono lodati dall'opinione pubblica ed apprezzati dalle autorità. Ma se un giorno - si legge nel documento di protesta - decidono di manifestare pacificamente usando uno striscione per portare alla luce una questione macroscopicamente ingiusta e dolorosa ecco che vengono denunciati. La motivazione? I coraggiosi ragazzi hanno inscenato una pacifica dimostrazione, durata pochi minuti, dinanzi al Tribunale dove da tempo si celebra il processo per la morte della povera Sarah Scazzi, divenuto fenomeno mediatico che suscita tanto scalpore per la curiosità morbosa del pubblico e la folta audience. Intervenuti a frotte, i media si sono trovati di fronte un gruppo di giovani e uno striscione con queste parole: “Su Sarah avete speculato ma del nostro inquinamento non avete mai parlato”».

«Poche riprese rapide - si legge nel documento - ed il silenzio è calato nuovamente ma la protesta non è passata inosservata. No, perché uno di questi giovani è stato denunciato, quasi fosse un attentatore alla quiete pubblica». Ma, si chiedono i firmatati dell’esposto, «è giusto che portatori di verità vengano denunciati come comuni malfattori? O sono solo detentori di una realtà che viene tenuta forzosamente nascosta sotto il tappeto? I risultati dell'inquinamento a Taranto devono rimanere un segreto di cui sono a conoscenza ben pochi: i cittadini di Taranto, i miticoltori, gli allevatori, i malati ed i tanti morti di tumore». «Esprimiamo piena solidarietà ai giovani - prosegue il documento - che, con vero spirito di sacrificio, si fanno portatori di una verità dolorosa, del senso di disagio e di lutto che la cittadinanza sopporta da decenni, nel silenzio delle autorità, della Regione e della Nazione, avvezze ad usare ben altro trattamento di acquiescenza verso i responsabili dell' inquinamento». Tra i gruppi che aderiscono ci sono: 1000 per Taranto, Altamarea Taranto, Ascolto Aiuto, circolo Arci Pepper, Creativa Mente, Federazione provinciale Verdi, gruppo Mcs Puglia, Joe Black Production, Taranto lider, Taranto Pulita, Vivi Taranto e Wwf Taranto.

Da una grana all’altra. Da “Il Nuovo Quotidiano di Puglia” si viene a sapere che proprio nei giorni in cui è iniziato il processo per la morte di Sarah Scazzi, Michele Misseri, Cosima Serrano e le due figlie Sabrina e Valentina, sono coinvolti in una indagine della Guardia di Finanza di Francavilla Fontana che ha denunciato un imprenditore agricolo ultrasettantenne. Anche i quattro componenti della famiglia di Avetrana sono, infatti, tra i 67 lavoratori irregolari assunti dall’uomo. Braccianti agricoli che in realtà non avrebbero mai messo piede nei campi dichiarati dal 70enne e per questo sono stati segnalati all’Inps, affinché si accerti la loro responsabilità nella truffa orchestrata dall’imprenditore accusato di aver sottratto 400mila euro al fisco e ben tre milioni e mezzo all’Inps.

L’indagine avviata delle Fiamme gialle di Francavilla, dirette dal comandante Antonio Triggiani, non si ferma: bisognerà capire se i braccianti non hanno mai lavorato per l’imprenditore o se l’abbiano fatto, ma in terreni diversi da quelli presi in affitto e regolarmente dichiarati. Nel primo caso, la famiglia Misseri e gli altri braccianti, potrebbero persino essere accusati di aver partecipato in modo attivo alla truffa.

Ma cosa accadeva nei campi di Erchie? Nulla di quanto era ufficialmente messo nero su bianco. L’imprenditore, da un lato gestiva una attività agricola su alcuni campi, senza però dichiarare nulla al fisco; dall’altro c’erano terreni dichiarati su cui nessun bracciante aveva mai messo piede. Questo sarebbe accaduto nel caso di Michele Misseri, Cosima Serrano e delle due figlie Sabrina e Valentina. Sulla carta l’imprenditore aveva preso in fitto degli ettari da coltivare, ma quando i finanzieri hanno chiesto spiegazioni ai proprietari, loro sono rimasti di stucco, affermando che su quegli appezzamenti, nelle campagne di Erchie, non c’era nessuna attività agricola tantomeno svolta sotto la gestione di terzi. L’assunzione di 67 braccianti è risultata dunque fittizia. Dato che, secondo la legge, se un bracciante lavora almeno 150 giorni all’anno, alla fine di questo periodo può richiedere l’indennità di disoccupazione, l’assunzione permetteva ai 67 operai di poter intascare il denaro. Per avere questo vantaggio i braccianti pagavano di tasca propria i contributi previdenziali, versando il denaro al titolare dell’azienda che avrebbe dovuto poi passarli all’Inps.

Così non è stato e l’imprenditore ha accumulato con l’ente previdenziale un debito di circa tre milioni e mezzo di euro. Per questo risponde di occultamento di scritture contabili, falsità materiale e truffa i danni dello Stato. L’operazione è partita nel febbraio del 2010, ma i fatti contestati risalgono a un periodo di tempo che va dal 2007 al 2009, prima che la famiglia Misseri fosse travolta dalla vicenda che ha sconvolto l’Italia intera, l’omicidio della piccola Sarah. Quando gli ispettori hanno iniziato a indagare e sono comparsi quei nomi oggi così familiari, tra i 67 braccianti assunti irregolarmente dall’imprenditore, si trattava solo di quattro persone di Avetrana, un paesino in provincia di Taranto, distante appena dodici chilometri da Erchie. Nulla più. Ma già quando i finanzieri hanno fatto la prima visita all’imprenditore, esattamente nel 2011, a quei nomi erano associati volti, voci e molto di più. In quell’occasione le Fiamme gialle hanno chiesto la documentazione contabile e si sono resi subito conto della mancata dichiarazione di buona parte dell’attività. La sorpresa più grande, però, è stata quella legata all’enorme debito contratto nei confronti dell’Istituto di previdenza. Da quanto è emerso nel corso degli accertamenti dei militari durati circa un anno, l’uomo non ha dichiarato redditi superiori ai 300mila euro, evadendo anche l’Iva per un importo di circa 70mila euro. Anomalia dopo anomalia, i finanzieri sono riusciti a ricostruire l’intera truffa. La posizione dei Misseri, anche loro “ingaggiati” in modo fittizio, è tutta da chiarire.

Intanto ci mancava anche questa. Della serie prima si adotta la tesi di accusa e poi si trovano le prove, finanche dopo la cessazione delle indagini preliminari.

Una foto di Sarah Scazzi in pigiama che era stata cancellata dal telefonino di Ivano Russo: è il contenuto di una prima integrazione probatoria che la Procura della Repubblica di Taranto ha depositato in segreteria. La foto è stata scattata nel maggio 2010, cioè tre mesi prima del delitto. Sembrerebbe che a farla sia stata la stessa Sarah, ritraendo sè stessa nello specchio: poi avrebbe inviato la foto sempre via cellulare all'amico Ivano. Invece pare che è nella stanza-laboratorio di casa Misseri ad Avetrana che la sera del 7 maggio 2010 Sarah Scazzi si fece fotografare in pigiama da Ivano Russo. A svelarlo è l’orsacchiotto di peluche appeso ad un pomello dell’armadio bianco che appare alle spalle della quindicenne uccisa proprio in quella casa il 26 agosto dello stesso anno.

Il particolare è emerso confrontando una delle foto inserite nel fascicolo processuale che ritrae la piccola stanza da letto dove Sabrina esercitava la sua attività di estetista. Il reperto fotografico fa parte della documentazione relativa ad uno dei sopralluoghi dei Ris in via Grazia Deledda. E’ lì che si nota il pupazzo appeso allo stesso punto dell’armadio ritratto sullo sfondo della foto ritrovata sul telefonino di Ivano. E’ da presumere quindi che la sera di inizio maggio in cui fu fatta la foto Sarah restò a dormire a casa della cugina e che Ivano passò qualche tempo con loro. Il perito che l’ha estratta dalla memoria ha accertato che lo scatto è stato fatto dalla stessa fotocamera del cellulare del ventisettenne e non è stato scaricato da altri terminali.

L'immagine secondo la procura potrebbe costituire un ulteriore elemento capace di dimostrare il livello di confidenza e complicità che si era instaurato tra la quindicenne di Avetrana e l'amico Ivano Russo, rapporto del quale Sabrina sarebbe stata particolarmente gelosa al punto da spingerla ad uccidere la cuginetta.

Questa foto proviene da una ulteriore perizia affidata dalla Procura per rintracciare materiale cancellato dalle memorie di telefonini. Già nel corso dell’inchiesta i carabinieri del Racis avevano rintracciato, con una perizia similare, 4.500 sms che Sabrina e Ivano si erano scambiati nei primi sei mesi del 2010. La foto (e forse altro materiale) sarebbe stato recuperato questa volta utilizzando un nuovo sofisticato software di produzione israeliana.

E proprio Ivano Russo è chiamato a testimoniare il 17 gennaio 2012, alla seconda udienza del processo.

17 gennaio 2012. Seconda udienza del processo. Parla Stefania De Luca e Angela Cimino.

Le due imputate principali, Sabrina con sua madre Cosima Serrano, hanno potuto questa volta abbandonare la cella di isolamento occupando le sedie in seconda fila dietro ai rispettivi avvocati. Alle loro spalle, ad un sospiro di distanza, c’era papà Misseri che per tutto il tempo è rimasto seduto penetrando con lo sguardo le due donne che lo ignoravano. Assente tutti i componenti della famiglia Scazzi. Presente anche un folto pubblico, oltre a decine di giornalisti e cameramen. Le due imputate, Sabrina e Cosima Serrano, hanno seguito il dibattimento accanto ai loro difensori e non rinchiuse in gabbia come era avvenuto nel corso della prima udienza una settimana prima. Lo ha disposto il presidente della Corte, Rosa Trunfio, accogliendo la richiesta avanzata dagli avvocati delle due donne. Ivano è accompagnato dalla sua fidanzata, Virginia Coppola, ed è stato subito 'bombardato' da fotografi e cameramen. La Corte di assise ha accolto la richiesta dei difensori delle due donne di acquisire al fascicolo dibattimentale alcune lettere scritte da Michele Misseri a moglie e figlia e nelle quali l'agricoltore si assumerebbe tutta la responsabilità per l'omicidio. Respinta invece la richiesta della Procura di sospendere i termini di custodia cautelare nei confronti delle imputate (che scadranno il 21 maggio 2013), come quella della difesa di Cosimo Cosma, nipote di Misseri, di riesumare il cadavere, perché, scrive il giudice, "il tempo trascorso dalla data dell'autopsia potrebbe aver accentuato i normali processi degenerativi dei tessuti organici".

Tra i testimoni citati: Ivano Russo, Stefania De Luca e Angela Cimino, la prima a parlare è stata De Luca. La donna ha confermato punto per punto l’episodio del litigio tra le due cugine di cui fu testimone la sera del 25 agosto 2010. «Ero seduta ai tavoli fuori la birreria 102 – ha detto – quando arrivò Sabrina che appena mi vide disse che con Ivano era tutto finito perché lui ormai parlava solo con Sarah. Nel dire questo – ha raccontato la testimone -, Sabrina che conoscevo bene perché era la mia estetista, si rivolse con un gesto di scherno in direzione di Sarah che l’apostrofò con parole dure: quella si vende per due coccole, lo sa anche sua madre. Dopo queste parole a Sarah gli scappò una lacrima». Alcuni giorni dopo De Luca incontrò nuovamente Sabrina con la quale commentò la scomparsa della quindicenne e l’episodio della lite in birreria. «In quell’occasione mi confermò che avevano litigato allora io le consigliai di dirlo ai carabinieri cosa che lei si rifiutò ritenendo il particolare non importante. Piuttosto – ha detto ancora la testimone – mi parlò dei suoi sospetti che aveva nei confronti degli amici di San Pancrazio del padre di Sarah e della badante rumena di casa Scazzi». Interrogata a lungo, la teste ha descritto il rapporto che legava Ivano con Sabrina. «Il suo interesse per quel ragazzo cresceva di giorno in giorno perché ne parlava sempre anche durante le sedute estetiche a cui mi sottoponevo. In un’occasione – ha ricordato Stefania De Luca – Sabrina che era molto presa da quel ragazzo, mi confidò il timore di non piacere più a lui per via del suo sovrappeso». Alla domanda diretta di uno degli avvocati di Sabrina poi, la donna ha poi detto di non aver mai sentito parlare l’estetista di gelosia nei confronti di Sarah né di nessun’altra donna.

Si chiama Stefania De Luca la prima testimone. Ed è la donna del movente: ha raccontato di quel litigio la sera prima dell’assassinio tra Sarah e sua cugina Sabrina. E dell’ossessione che la ragazza avrebbe avuto per Ivano Russo. "Sabrina mi disse che era profondamente interessata a questo ragazzo. Si vedevano con una certa frequenza e sperava che si potesse creare qualcosa. Me ne parlava spesso. I due si sentivano molto spesso, via telefono o via messaggio, lo so perché frequentavo almeno due volte a settimana il centro di Sabrina. Io pensavo che ci potesse essere anche da parte del ragazzo qualcosa. Uscivano quasi tutte le sere insieme: quando non si vedevano, andava a controllare dove fosse. Faceva appostamenti". Eccola, l’ossessione. Ed eccolo il movente secondo la Procura: "Il giorno prima dell’omicidio, tra le 11 e mezzanotte arrivarono in birreria Sabrina, Sarah e Mariangela Spagnoletti. Sabrina mi disse: "Sai, questa volta è proprio finita". Io provai a tranquillizzarla. C’era Sarah. Aveva una faccia particolare, gli occhi lucidi. Le chiesi cosa avesse, lei si strinse nelle spalle. Entrarono. Sabrina mi disse: "Sai io e Ivano non ci stiamo parlando più. Adesso ci parla solo Sarah. Lo sai com’è la Sarah, per due coccole si vende".

Io le dissi di stare attenta a dire quelle frasi, poteva essere fraintesa. "No, no si vende, si vende, la dice anche sua madre". Sarah ha chinato la testa ed è diventata tutta rossa. Le scese una lacrima sul viso, però non pianse. Rimase però tutto il tempo in silenzio, a testa china”. Mentre la De Luca parla, Sabrina scuote la testa. Si agita, parla con il suo legale che spesso si oppone alle domande del pm. "Qualche giorno dopo la scomparsa di Sarah – riprende la De Luca – ho incontrato Sabrina. Le ho detto, ma non è che è andata da Claudio? Quel giorno, prima della scomparsa, mi ha detto che era giù perché il fratello era andato via. Sabrina mi ha risposto, che dici? Non era giù per quello ma perché avevamo litigato in auto".

E' stato dato l'incarico al perito per la trascrizione integrale di tutte le intercettazioni telefoniche e ambientali. Sabrina ha sempre detto agli inquirenti che con Ivano non si sarebbe andati mai oltre l'amicizia. Ma il contenuto quanto meno delle migliaia di sms che i due giovani si sono scambiati nei primi sei mesi del 2010, agli atti del processo, sembrano indicare, soprattutto da parte di Sabrina, molto più che un'amicizia. Sabrina e Sarah litigarono il giorno prima del delitto. Sarah la sera del 25 agosto andò con sua cugina Sabrina e altri amici in una birreria. «Ero seduta ad un tavolo vicino la porta di ingresso del locale. Dopo poco ricordo - ha detto la De Luca - che a bordo dell’auto di Mariangela Spagnoletti sono arrivate la stessa Mariangela, Sabrina Misseri e Sarah Scazzi. Sono entrate nel locale, ci siamo salutate e subito Sabrina ha detto: “Questa volta è davvero finita”, riferendosi al rapporto che aveva con Ivano Russo. In particolare già da tempo Sabrina mi aveva parlato più volte del suo interesse nei confronti di Ivano, della sua infatuazione per lo stesso. La stessa mi diceva in diverse occasioni che i comportamenti di Ivano la lasciavano ben sperare. Evidentemente durante la giornata del 25 agosto era accaduto qualcosa per cui aveva deciso di troncare questa situazione con Ivano. Dopo questo primo approccio, Sabrina e Mariangela sono entrate - ha proseguito la testimone, con una deposizione nitida, precisa, ben argomentata, lunga quasi due ore - nel locale per prendere una bevanda mentre Sarah è rimasta vicina a me. Ho notato quindi che Sarah era molto turbata ed aveva gli occhi lucidi, tanto che le ho chiesto che cosa era accaduto. Sarah non rispose, stringendo le spalle e chinando la testa, all’osservazione se il suo umore fosse legato alla partenza del fratello Claudio, rispose affermativamente, aggiungendo che il fratello non sarebbe tornato presto ad Avetrana».

De Luca ha confermato che Sabrina le disse di aver litigato con Ivano, aggiungendo ironicamente che ora lui parlava solo con Sarah. “Quella si vende, si vende per due coccole, lo dice pure sua madre”, avrebbe ripetuto per due volte Sabrina riferendosi a Sarah. “In quel momento Sarah è letteralmente sbiancata ed ha chinato la testa quasi piangendo, anzi ho notato che ha iniziato a piangere - ha raccontato la testimone - dopo l’incontro del 25 agosto, ho rivisto, sempre nella stessa birreria, Sabrina. Ho iniziato il discorso della scomparsa di Sarah ed ho chiesto se c’erano novità. Ricordo di aver detto a Sabrina: “Vuoi vedere che ha preso il treno e se n’è andata da Claudio perché la sera del 25 era molto giù per la partenza del fratello?”. Sabrina mi rispose, dicendo: “No, che stai dicendo, mica stava così per quello, era perché in macchina aveva litigato”». La De Luca chiese quindi a Sabrina se l’episodio della sera precedente alla scomparsa era stato riferito agli inquirenti e quando si sentì dire da Sabrina che non era stato detto ai carabinieri perché ritenuto poco importante, decise di farlo lei. Fu d’altronde proprio la sua testimonianza che dopo giorni e giorni di ricerche infruttuose di piste create ad arte (la banda di rumeni, quelli di San Pancrazio, eccetera eccetera) dai diretti protagonisti, a mettere gli inquirenti sulla strada giusta, a stringere la tenaglia sulla famiglia Misseri. Difatti zio Michele la notte tra il 7 e l’8 ottobre crollò in un drammatico interrogatorio, indicando il posto dove Sarah era stata sepolta.

In aula, anche, la testimonianza - piena di molti insomma e alcuni non ricordo tanto da portare le parti ad acquisire i verbali dei suoi precedenti interrogatori - di Angela Cimino, una studentessa universitaria di Avetrana che frequentava il gruppo di Sarah, Sabrina e Ivano, che invece ha detto di non aver mai visto litigare Sabrina con Sarah, e che anzi Sabrina era molto protettiva nei confronti della cugina, atteggiamento che peraltro aveva anche Ivano. Poco per anticipare giudizi sugli imputati, abbastanza per far entrare il processo nel vivo. La ragazza, interrogata dai due pubblici ministeri, Pietro Argentino e Mariano Buccoliero, ha spiegato il suo ruolo nella vicenda. «Sono amica sia di Sabrina che di Ivano con il quale mi incontravo anche separatamente e da soli». L’accusa ha puntato molto su questo rapporto a due sperando di cogliere reazioni di gelosia da parte di Sabrina. Cimino è stata molto distaccata ed elusiva e solo in un’occasione ha prospettato tale stato d’animo dell’amica. «Una notte d’estate – ha ricordato –, siamo stati quasi tutta la notte in spiaggia io, Ivano ed altri amici tranne Sabrina e quando tornai a casa intorno alle 4,30 vidi che lei mi aveva mandato una decina di messaggi sul telefonino in cui mi chiedeva conto di ogni spostamento. Io reputai il comportamento non normale e glielo dissi ad Ivano il quale mi promise che ne avrebbe parlato con Sabrina».

ORE 11:00 - IVANO ARRIVATO IN TRIBUNALE CON LA FIDANZATA

E' arrivato in Tribunale insieme alla sua fidanzata, Virginia Coppola, ed è stato subito bombardato da fotografi e cameramen: Ivano Russo, l’amico comune di Sarah Scazzi e Sabrina Misseri del quale le due donne si sarebbero invaghite, è entrato nell’aula della Corte di assise come un piccolo divo. Ora il giovane è in una sala adiacente all’aula Alessandrini, in attesa di essere ascoltato come testimone. La fidanzata è seduta tra il pubblico.

ORE 12:21 - PM: SOSPENDETE TERMINI DI CUSTODIA PER COSIMA E SABRINA

Nel processo per il delitto Scazzi, ripreso poco fa dinanzi alla Corte di assise di Taranto, il procuratore aggiunto, Pietro Argentino, ha chiesto la sospensione dei termini di custodia cautelare nei confronti delle uniche detenute, Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri, accusate dell’omicidio. Parere contrario da parte del collegio difensivo. La corte è tornata a riunirsi in camera di consiglio per decidere sulla richiesta della Procura.

ORE 12:30 - LA CORTE: NON SI RIESUMA IL CORPO DI SARAH

Con un’ordinanza, letta al rientro in aula prima di tornare in camera di consiglio, la Corte di assise ha deciso di acquisire al fascicolo dibattimentale, come richiesto dalla Procura, una documentazione di attività integrativa depositata dalla procura stessa, tra cui una foto di Sarah in pigiama scattata dal telefonino di Ivano Russo il 7 maggio 2010. Rigettate dalla Corte alcune richieste del collegio difensivo sull'acquisizione di video e di dichiarazioni di Michele Misseri. No anche alla richiesta di trascrizione integrale di tutte le intercettazioni avanzate dalla difesa di Sabrina; sì invece alla trascrizione di intercettazioni indicate dalle parti. Per questo compito la Corte ha indicato come perito Giovanni Leo. Rigettata la richiesta di riesumazione del cadavere di Sarah e di nuova autopsia avanzata nella scorsa udienza dall’avv.Raffaele Missere, difensore di Cosimo Cosma, accusato di concorso in soppressione di cadavere. Per la Corte il tempo intercorso dal momento della prima autopsia (ottobre 2010) ha certamente fatto decomporre ancor di più i resti della quindicenne. La Corte di assise ha accolto la richiesta dei difensori di Cosima Serrano e Sabrina Misseri di acquisire al fascicolo dibattimentale alcune lettere scritte da Michele Misseri a moglie e figlia e nelle quali l’agricoltore si assumerebbe tutta la responsabilità per l’omicidio. La decisione è contenuta nell’ordinanza che la Corte ha emesso questa mattina inerente alle richieste di ammissione delle prove.

ORE 15:30 - NIENTE SOSPENSIONE PER TERMINI CUSTODIA CAUTELARE

La Corte di assise di Taranto la respinto la richiesta della Procura di sospendere i termini di custodia cautelare nei confronti di Cosima Serrano e Sabrina Misseri, accusate dell’omicidio di Sarah Scazzi. I termini scadono il 21 maggio 2013.

ORE 17:40 - L'AMICA: MAI VISTA SABRINA LITIGARE CON LA CUGINA

Mai visto litigare Sabrina con Sarah, lei era anche molto protettiva perchè Sarah era più' piccola. Probabilmente anche Ivano aveva un atteggiamento simile». Lo ha detto un’amica di Sabrina Misseri, Angela Cimino, testimoniando al processo per l’uccisione di Sarah Scazzi. Cimino, studentessa universitaria a Chieti, ha fatto riferimento ai pochi giorni – una quindicina – trascorsi ad Avetrana nell’estate del 2010. La testimone ha confermato l’episodio, riferito agli inquirenti il 30 novembre 2010, di una sera di fine agosto in cui Ivano la stava accompagnando a casa insieme con Sarah. A Cimino arrivò un sms di Sabrina nel quale era scritto: «Fammi sapere chi accompagna prima a casa». Per la procura la circostanza confermerebbe la gelosia provata da Sabrina per tutto ciò che riguardava Ivano.

ORE 18:00 - SLITTA L'AUDIZIONE DI IVANO RUSSO

A causa del protrarsi dell’audizione di altri due testimoni, è slittata a martedì 31 gennaio – data della prossima udienza – l'audizione di Ivano Russo nel processo in Corte d’Assise per l’omicidio di Sarah Scazzi. L’udienza si è conclusa poco fa. Per il 31 gennaio sono stati citati a deporre come testimoni anche i genitori di Sarah, Concetta Serrano e Giacomo Scazzi, e Pamela Nigro, Anna Lucia Dell’Atti e Salvatore Erroi.

31 gennaio. La terza udienza. Parla Ivano Russo, Giacomo Scazzi, Pamela Nigro, Anna Lucia Dell’Atti e Salvatore Erroi.

Qualche giorno prima su "Il Corriere del Mezzogiorno" il ben informato Nazareno Dinoi, quello che ha pubblicato le criticate foto riferite al ritrovamento del cadavere di Sarah, pubblica "I ricordi di Sabrina nel suo diario". Su un foglio la descrizione delle ultime ore trascorse con la cugina 15enne prima della sua scomparsa. Così il 21 settembre 2010 Sabrina Misseri descriveva sinteticamente su un foglio le ultime ore trascorse con la cugina Sarah Scazzi prima della sua scomparsa. Il racconto glielo commissionarono i consulenti legali della famiglia Scazzi, gli avvocati Nicodemo Gentile e Valter Biscotti. I due penalisti avevano appena ricevuto l’incarico dalla mamma della ragazza scomparsa, Concetta Serrano Spagnolo, e volevano capire qualcosa su quanto era accaduto. Così Sabrina prende la penna e scrive su una paginetta di computisteria a quadretti. Lo stile è quello del diario: poche frasi con orari precisi degli spostamenti suoi e della cugina.

E’ tutto scritto in corsivo tranne una frase in stampatello, tra parentesi e in bella evidenza: «LA BADANTE DICE CHE SARAH ESCE VERSO LE 14,25 – 14,30». Nessuno all’epoca metteva in dubbio l’orario in cui la quindicenne sarebbe uscita da casa. Eppure Sabrina volle specificare proprio quel particolare che in seguito (ma questo si coprirà abbondantemente dopo), sarà il punto cardine dell’accusa nei suoi confronti.

Ecco la trascrizione del diario di Sabrina delle sue ultime ore con Sarah.

“Mercoledì 25 agosto «Circa alle 20,30 – 21,00, Sarah viene a casa mia. Dopo un po' viene anche la mia amica Mariangela e decidiamo di fare un giro in macchina sulla litoranea di Torre Colimena e Specchiarica senza fermarci. Ritornati ad Avetrana verso le 22,20 andiamo al Pub di via Roma e ci restiamo per circa 20-30 min. Dopo Mariangela ci lascia a casa ma subito dopo io e Sarah andiamo alla piazzetta Unicef. Non essendoci nessuno (visto che il bar era anche chiuso), dopo circa 10 min ho riaccompagnato Sarah a casa sua».

Giovedì 26 agosto «Circa verso le 9,00, Sarah viene a casa mia senza avermi avvisata visto che non aveva credito sul cellulare. Alle 9,30 circa Sarah si offre di andare a Euro Casa per comprarmi una crema. Prima delle 10,00 Sarah torna a casa mia e ci resta sino alle 12 – 12,30 accordandoci che le avrei inviato un Sms per avvisare a che ora saremmo andati al mare visto che l’orario era incerto. Verso le 14,10 Mariangela mi invia un Sms per dirmi che sarebbe venuta verso le 14,30 per andare al mare. Immediatamente avviso Sarah. Non avendo risposta, dopo qualche minuto le ho inviato un altro Sms per sapere se aveva letto l’Sms precedenteDopo qualche minuto ho ricevuto uno squillo per conferma».

«LA BADANTE DICE CHE SARAH ESCE VERSO LE 14,25 – 14,30»

«Verso le 14,35 arriva a casa mia Mariangela ma Sarah non era ancora arrivata. Questo mi ha fatto preoccupare perché di solito Sarah arriva in anticipo. Ho chiesto a Mariangela se durante il tragitto ha notato Sarah, visto che alcune volte l’ha incontrata, facendo lo stesso percorso. Avendo una risposta negativa ho cominciato a chiamarla (nel frattempo salivo in macchina) ma dopo qualche squillo è scattata la segreteria telefonica. Ho riprovato a chiamare subito dopo ma il cell. risultava spento. Siamo andate da mia zia per sapere se Sarah era pronta ma mio zio Giacomo ci ha detto che Sarah era già uscita per venire a casa mia. Così siamo ritornate di nuovo a casa mia per vedere se Sarah era arrivata, ma abbiamo visto che non era così. Siamo andate nuovamente da mia zia per dare l’allarme».

A Lecce il 28 gennaio il procuratore generale presso la Corte d'appello di Lecce, Giuseppe Vignola intervenendo in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario ha fatto riferimento al caso Sarah Scazzi parlando di "bulimia di gossip televisivo" che va ben oltre il diritto all'informazione. « E' anche ammissibile soddisfare la curiosità dei giornalisti e dei giallisti da diporto - ha detto Vignola - ma esistono regole da rispettare di genere etico, proprie dell'apparato giudiziario. E soprattutto esistono delle vittime da rispettare, oltre ai colpevoli che fino a conclusione dei dibattimenti rimangono comunque presunti tali. La Giustizia è una cosa troppo seria per essere affidata a corti improvvisate formate negli studi televisivi. Così si finisce solo per fare violenza mediatica che fa solo risaltare la brutalità del mondo il cui viviamo. La violenza dei media consiste, non tanto nel rispecchiare la brutalità del mondo, quanto nell'abituarci a convivere con essa».

Alle 9 e 43 in aula per la terza udienza del processo per la morte della 15enne di Avetrana è arrivato Ivano inseguito dalle telecamere. Nella saletta dei testimoni ci sono anche i genitori di Sarah che ricostruiranno le ultime ore di vita della figlia e i tre testimoni minori. Il programma televisivo Porta a Porta ha chiesto l'autorizzazione per poter riprendere le varie fasi del processo: la difesa di Sabrina si è opposta. La Corte ha autorizzato solo i disegni, ma solo dei personaggi che daranno l'autorizzazione e comunque non di Sabrina e la madre.

Si tolga quella mano davanti alla bocca quando parla!». Ivano Russo non è abituato ad essere trattato così. Da una donna, poi. Ma questa volta il cosiddetto Alain Delon di Avetrana non ha scelta. Quella signora in toga nera, che la legge italiana pone nelle sue mani la vita o la morte di inermi cittadini e che lo sovrasta e lo sgrida come un bimbo delle elementari è Cesarina Trunfio, presiede la Corte d’Assise di Taranto. Ivano obbedisce.

Abbassa la mano e alza la voce. Per sei ore risponde alle domande di pubblici ministeri e avvocati. È nel mirino di tutti. Qualsiasi cosa dica può avere un effetto devastante. Accusa e difesa se lo contendono e prima che parli rimangono tutti col fiato sospeso. Lui sembra saperlo. A turno accontenta una o delude l’altra.  Il processo, dalla prima udienza, ruota intorno a lui. Se Sabrina Misseri ha ucciso la cuginetta Sarah, dicono i magistrati, lo ha fatto per gelosia. E l’oggetto dei desideri era lui, il «Dio Ivano». «Niente di che», commentano alcune ragazze accorse in aula per osservarlo da vicino. Il giudizio è peggiore quando si guardano le foto di Ivano a torso nudo e la pancetta. Eppure, di questo “nientediche”, l’inchiesta giudiziaria e la barbarie mediatica han fatto il centro di una vasta galassia femminile: un harem per Ivano. Un sistema di giovani donne avetranesi che nell’estate 2010 ruotavano tutte attorno a lui. I ragazzi e le ragazze  entrate nell’inchiesta?“Nientediche”. Nessuno dice che ad Avetrana c’è ben altro. Sia come ragazzi, sia come ragazze. A livello di immagine ed a livello di levatura sociale e culturale superiore. Ma questo meglio no farlo sapere in giro. Sia mai che si possa far apparire Avetrana come un paese normale conosciuto anche per altri personaggi:  Antonio Giangrande, noto scrittore; Mirko Giangrande, l’avvocato più giovane d’Italia con due lauree; Leonardo Laserra Ingrosso, Tenente colonnello direttore della banda musicale della Guardia di Finanza; lo stesso Vito Mancini, concorrente del contemporaneo poco edificante, ma sempre seguitissimo “Grande Fratello 12” su Canale 5. Nella galassia femminile artefatta, sull’orbita più stretta c’era Sabrina. Poi tutte le altre. Mariangela Spagnoletta l’amica. Angela Cimmino, fidanzata dell’amico. Distante, ma sempre più presente, la piccola Sarah, quindicenne ancora acerba, ma sensibile all’affetto e alle attenzioni che quel ragazzo molto più grande le dimostrava. Ma Ivano, come i veri playboy, è riservato. Non ama la pubblicità. Non espone i propri sentimenti e nemmeno quelli altrui. A sentire lui, sembra che tutto sia avvenuto a sua insaputa. In aula, sotto lo sguardo severo della presidente Trunfio, ridimensiona ogni cosa.

Cuori infranti? «Non me ne ero accorto». I téte-a-téte notturni con la Cimmino? «Tutelavo la fidanzata di un amico». Le attenzioni di Sarah? «Per me era una sorellina minore». Le scenate di gelosia? «Mai successo». Franco Coppi, difensore di Sabrina, gongola. Il controesame di Ivano è stato martellante e in certi passaggi ha aperto le prime crepe nel movente della gelosia. Ma quanto valgono certe dichiarazioni? All’apice della riservatezza, al confine con la reticenza, Ivano è il testimone che non si è nemmeno accorto di aver avuto una congiunzione carnale con Sabrina. È Mariano Buccoliero, il Pm, che deve guidarlo a recuperare la memoria. Gli fornisce alcuni elementi: l’auto, un luogo appartato, lui e lei nudi.

E via ricostruendo. Finché Ivano non ritrova il filo del discorso. E spiega che quel rapporto era stato interrotto e per lui non poteva considerarsi avvenuto. Mormorio in aula. «Ma questo ci fa o ci è?», commenta un poliziotto. Per chi valuta con benevolenza è pudore. «La sua vita è finita sotto i riflettori», dicono gli amici, «la sua privacy è stata fatta a pezzi».

Secondo altri, non è così. Il suo comportamento in aula è in linea con quello tenuto durante le indagini: «Si ricorda dei fatti quando glieli metti sotto il naso», commentano fonti vicine alla Procura, come può darsi che effettivamente abbia la memoria corta. «E più lo interroghi e più il mistero si infittisce». Per ora il grande conquistatore di Avetrana esce di scena. Presto però potrebbe rientrare. I periti informatici continuano a scavare nel suo telefonino.

Seguono le tracce elettroniche di fotografie e messaggi che sono stati cancellati e forse potrebbero essere ricostruiti, per essere mostrati a Ivano e aiutarlo a ricordare. Come i due sms che Sabrina gli aveva inviato il 26 agosto 2010, giorno della scomparsa di Sarah. «Li ho cancellati per liberare la memoria del cellulare», ha detto in aula. Proprio quei due. Parola di Ivano.

Era molto attesa la deposizione di Ivano Russo, teste sia della pubblica accusa che della difesa, ma in realtà non ha aggiunto molto a quanto già si sapeva tramite i verbali degli interrogatori a cui il giovane conteso dalle due cugine era stato sottoposto durante le indagini preliminari. Anzi, a ripercorrere le oltre sei ore di esame e controesame, si ha netta l’impressione che Ivano non abbia offerto elementi tali da supportare il movente dell’omicidio, giacché ha sì ammesso degli interessi che Sabrina nutriva nei suoi confronti, tanto da arrivare ad allontanarla, ma ha anche aggiunto che Sarah era per lui una sorella minore e che nessuno, né tantomeno la 15enne, le hanno mai detto che nutriva qualche sentimento per lui, per la legittima soddisfazione del prof. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri, che sul punto gli ha chiesto lumi. Secondo la Procura, Sabrina Misseri, in concorso con sua madre Cosima, ha ucciso Sarah - anche - per gelosia verso Ivano, gelosia che però Ivano non ha confermato, sostenendo di non aver mai visto le due cugine litigare per colpa sua e che i richiami fatti da Sabrina a Sarah quando quest’ultima si lasciava andare verso di lui a slanci di affetto in pubblico, erano fatti solo per evitare che la gente di Avetrana sparlasse. Nell’esame fatto dal sostituto procuratore Mariano Buccoliero e dall’aggiunto Pietro Argentino, Ivano ha ricostruito il suo rapporto con le cugine, non mostrando mai incertezze o esitazioni. Il 29enne non ha barcollato nemmeno quando il pm Buccoliero gli ha mostrato 13 foto scaricate dal cellulare di Sabrina, foto scattate nella stanza di casa Misseri che Sabrina usava come centro estetico. Ivano è ritratto mezzo nudo, in pose oggettivamente ambigue mentre si fa sottoporre a trattamenti estetici. Ma lui candidamente ha ammesso che quasi tutte quelle foto le aveva scattate addirittura la stessa Sarah. Ambiguità che emerge anche da un sms recuperato dal consulente della Procura («che è bona però le piace il sesso femminile te la volevo far... Russo Ivano») che però Ivano non ha saputo ricordare a chi lo aveva inviato, né cosa significasse. Non ha dubbi, invece, Ivano nel ribadire le accuse all’avvocato Vito Russo, ex legale di Sabrina Misseri. Alla corte dice aver subito per ben tre volte pressioni dall’avvocato tarantino - sotto processo per intralcio alla giustizia e favoreggiamento personale - per rendere dichiarazioni favorevoli a Sabrina e in un caso addirittura per creare gruppi Facebook favorevoli alla giovane di casa Misseri. Dinanzi alla corte hanno deposto anche i tre commercianti (Pamela Nigro, Anna Lucia Dell’Atti e Salvatore Erroi) che la mattina del 26 agosto, giorno dell’omicidio, confermando quanto già dichiarato alla polizia giudiziaria anche se sia Erroi che la Nigro, sollecitate dall’avv. Nicola Marseglia, l’altro legale di Sabrina Misseri, hanno spiegato di aver visto Sarah normale, per niente agitata.

Una deposizione, quella di Ivano Russo sentito come testimone, che ha scandagliato i rapporti tra i giovani del paese e che si è soffermata sui particolari della relazione, anche intima, tra Ivano e Sabrina, accusata dell'omicidio della 15enne insieme alla madre Cosima Serrano. Sabrina Misseri non gli ha mai detto di essere gelosa di Sarah Scazzi. Lo ha detto Ivano Russo rispondendo alle domande dell'avvocato Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri, nell'udienza a Taranto in Corte d'Assise per l'omicidio di Sarah Scazzi. «Dopo il ritrovamento del cellulare di Sarah da parte di Michele Misseri, Sabrina piangeva spesso - ha detto Ivano in aula - temeva che il padre durante l'interrogatorio potesse accusarsi di qualcosa che non aveva fatto pur di far finire l'interrogatorio a cui era sottoposto. Sentiva di essere sotto pressione. Sì, tra me e Sabrina c'è stato anche un rapporto sessuale, poi io ho deciso di allontanarmi perché mi sono reso conto che lei voleva qualcosa di più di una semplice amicizia - ha detto Ivano Russo nella deposizione resa a Taranto in Corte d'Assise. Sarah - ha detto Russo - mi considerava quasi come una figura paterna, il padre e il fratello erano lontani, il fratello Claudio le mancava molto. Non si confidava, ma veniva e voleva essere abbracciata. Una delle ultime volte mi abbracciò e mi disse: ti voglio bene. Io ricambiai e le dissi che le volevo bene. Successe in presenza di tutti. Sarah nel pub spesso si sedeva accanto a me e mi poggiava la testa sul braccio. Ho conosciuto Sabrina e Sarah nel dicembre 2009. Con Sabrina inizialmente ho instaurato un rapporto di amicizia, Sarah era più piccola e con lei ci voleva particolare attenzione perché la nostra comitiva era di adulti… Con Sabrina si instaurò mano a mano un rapporto confidenziale. Ad un certo punto però vidi da parte sua atteggiamenti ambigui, complimenti che andavano oltre. Le ho chiesto se per lei era ancora amicizia o qualcos’altro, e lei mi disse che era amicizia. Ma pochi giorni prima che Sarah morisse – ha affermato Ivano - ho deciso di troncare il rapporto perché non mi convinceva e mi sono allontanato anche per non farla soffrire -pur ammettendo che due mesi prima c’era stato un quasi rapporto sessuale- Una sera ci siamo appartati, lei si è spogliata, c’è stato contatto fisico ma non rapporto sessuale». Una settimana prima della scomparsa di Sarah ho troncato i rapporti con Sabrina perché mi sono reso conto che voleva qualcosa di più». In una data che l'accusa colloca intorno al 22 giugno 2010, «siamo passati dallo sfotterci all'atto pratico. Ci siamo appartati» ha detto Russo, riferendosi appunto al rapporto sessuale avuto con Sabrina. Il chiarimento tra Sabrina e Ivano ci fu tra il 20 e il 21 agosto. C'era anche Sarah a quell'incontro. «Non c'erano più le basi - ha ricostruito Ivano - per continuare il rapporto di amicizia con Sabrina. Preferii allontanarmi per non farla soffrire».

Ma il teste nega che Sabrina abbia mai manifestato la sua gelosia per colpa della cuginetta Sarah, nè ha mai pensato che la quindicenne si fosse invaghita di lui: «Nessuno mi ha mai riferito che Sarah si era invaghita di me. Sabrina con me non si è mai lamentata della presenza di Sarah e non ha mai litigato con me per causa di Sarah».

Poi quella sera, il 21 giugno 2010, e quel rapporto intimo in auto. «Siamo passati dallo sfotterci a parole all'atto pratico. Una sera ci siamo appartati, lei si è spogliata, c'è stato contatto fisico ma non rapporto sessuale; non un rapporto completo. Io mi bloccai perché volevo che restasse solo amicizia, e lei si rivestì». Quanto al diario di Sarah che Sabrina non consegnò ai carabinieri dopo la scomparsa della ragazzina: «Il giorno del delitto o il giorno dopo - ha detto Ivano - Sabrina mi mandò un sms dicendo che aveva trovato un diario di Sarah in cui diceva che aveva un debole per me. Mi disse che non lo consegnava di comune accordo con la madre di Sarah perché temeva che mi indagassero. Io non risposi e poi ho cancellato questo messaggio perché mi spaventai. Forse sarebbe stato meglio consegnarlo, forse ho sbagliato e avrei dovuto dirlo. Dopo la scomparsa di Sarah, Sabrina utilizzava il cellulare della madre Cosima per chiamarmi perché aveva timore di essere intercettata. Quando il 26 agosto Sabrina mi ha mandato un messaggio dicendomi che Sarah era scomparsa - ha raccontato ancora - ho pensato che era una scusa per riavvicinarsi a me e ho lasciato stare. Poi nel pomeriggio dopo le 17 ho incontrato ad una stazione di servizio Mariangela Spagnoletti e Alessio Pisello e mi confermarono che Sarah era scomparsa. Quella sera mi vidi alla birreria '102' di Avetrana con Sabrina. Lei mi disse che nel pomeriggio doveva andare al mare con Sarah e Mariangela, che Sarah la mattina era contenta e che era sicura che l'avessero presa».

Secondo la procura, proprio la gelosia per le attenzioni che il giovane cuoco regalava alla piccola Sarah avrebbe scatenato l’ira omicida di Sabrina Misseri, spingendola ad assassinare la cuginetta. La ragazza è accusata di omicidio e sequestro di persona in concorso con la madre. Le due donne hanno seguito il dibattimento al fianco dei loro legali. I pm non hanno dubbi: fu la cugina più grande ad assassinare Sarah, nella villetta di via Deledda con la complicità di mamma Mimina. La strangolò per gelosia. Ma anche perché la ragazzina aveva fatto trapelare in paese l'umiliante rifiuto opposto da Ivano alle sue esplicite avances.

Il ragazzo interrogato ha parlato a lungo anche delle centinaia di sms che i due si sono scambiati e la Corte ha acquisito alcuni tabulati cancellati e recuperati da un consulente della Procura dal suo cellulare insieme a un sms 'spinto' inviato a Sabrina in cui il giovane faceva riferimento a pratiche sessuali femminili. «Non lo ricordo, e neanche a chi mi riferivo». Sono state anche acquisite anche le 14 foto mostrate dal pm Mariano Buccoliero di Sarah, Sabrina e Ivano ritrovati dai tecnici: quello di Sarah in pigiama (presumibilmente nella stanza che Sabrina usava come laboratorio di estetica), altri 13 di Ivano che nella stessa stanza si sottoponeva ad alcuni trattamenti. Dieci delle 13 foto, secondo quanto dichiarato da Ivano, sono state scattate da Sarah.

L'ex legale di Sabrina Misseri, Vito Russo, ha fatto pressioni su Ivano perché dichiarasse che Mariangela Spagnoletti, un'amica di Sabrina, era invaghita di lui. Lo ha detto lo stesso Ivano Russo nella sua deposizione, confermando così l'accusa di soppressione di atti veri perché non favorevoli alla cliente Sabrina Misseri. Lo stesso avvocato Russo e la moglie, Emilia Velletri, anche lei difensore di Sabrina Misseri all'epoca, incontrarono più volte Ivano Russo nell'ambito di indagini difensive. Gli incontri avvennero anche in una casa di San Pietro in Bevagna, località costiera poco distante da Avetrana.

Dopo di lui è stato ascoltato il padre di Sarah, Giacomo Scazzi, che ha ricostruito per filo e segno quanto accaduto subito dopo la scomparsa di sua figlia. «La prima volta Sabrina era insieme ad un’amica e chiese a me dove fosse Sarah, perchè non era arrivata a casa sua per andare al mare. Sabrina era agitata – ha ricordato Giacomo Scazzi – e aveva la voce che tremava e noi ci preoccupammo subito».

LA CRONACA DELLA TERZA UDIENZA

ORE 10. 15: INIZIA LA DEPOSIZIONE DI IVANO RUSSO - «Con Sarah avevo un buon rapporto. La mia impressione è che sentisse la lontananza di padre e fratello, che erano lontano per lavoro, e mi vedesse forse come figura paterna. Spesso voleva essere abbracciata, e la abbracciavo. Una delle ultime volte che mi abbracciò mi disse "Ti voglio bene e" io le dissi "Anch'io ti voglio bene". Ho conosciuto Sabrina e Sarah - ha proseguito Ivano - nel dicembre 2009. Con Sabrina inizialmente ho instaurato un rapporto di amicizia, Sarah era più piccola e con lei ci voleva particolare attenzione perché la nostra comitiva era di adulti.

ORE 11.10: IL RAPPORTO TRA SABRINA E IVANO - «Con Sabrina si instaurò mano a mano un rapporto confidenziale. Ad un certo punto però vidi da parte sua atteggiamenti ambigui, complimenti che andavano oltre. Le ho chiesto se per lei era ancora amicizia o qualcos'altro, e lei mi disse che era amicizia. Ma pochi giorni prima che Sarah morisse ho deciso di troncare il rapporto perché non mi convinceva, e mi sono allontanato anche per non farla soffrire». Tra Ivano Russo e Sabrina Misseri ci fu il 21 giugno 2010 un rapporto sessuale ma non completo. L'episodio è emerso durante la deposizione, di Ivano. A citare l'episodio è stato il pm Mariano Buccoliero, esaminando il teste e leggendo il contenuto di un sms di Sabrina a Ivano del 22 giugno 2010. «Siamo passati dallo sfotterci a parole - ha detto Ivano - all'atto pratico. Una sera ci siamo appartati, lei si è spogliata, c'è stato contatto fisico ma non rapporto sessuale». Il pm gli ha chiesto allora se ci fosse stata penetrazione e Ivano ha risposto: «Sì ma non rapporto completo. Io mi bloccai perché volevo che restasse solo amicizia, e lei si rivestì». Di questo episodio venne a conoscenza anche Claudio Scazzi, e questa circostanza «mi ha dato fastidio - ha detto Ivano - perché questa cosa doveva rimanere tra me e Sabrina».

ORE 11.30: IL DIARIO DI SARAH - Sabrina Misseri non consegnò agli investigatori un diario di Sarah perché temeva che Ivano Russo potesse essere indagato. Lo ha dichiarato lo stesso Ivano durante la lunga deposizione. «Il giorno del delitto o il giorno dopo - ha detto Ivano - Sabrina mi mandò un sms dicendo che aveva trovato un diario di Sarah in cui diceva che aveva un debole per me. Mi disse che non lo consegnava di comune accordo con la madre di Sarah perché temeva che mi indagassero. Io non risposi e poi ho cancellato questo messaggio perché mi spaventai. Forse sarebbe stato meglio consegnarlo, forse ho sbagliato e avrei dovuto dirlo».

ORE 13: IL GIORNO DELLA SCOMPARSA -«Quando il 26 agosto Sabrina mi ha mandato un messaggio dicendomi che Sarah era scomparsa, ho pensato fosse una scusa per riavvicinarsi a me e ho lasciato stare. Poi nel pomeriggio - ha raccontato Ivano - dopo le 17 ho incontrato ad una stazione di servizio Mariangela Spagnoletti e Alessio Pisello e mi confermarono che Sarah era scomparsa. Quella sera mi vidi alla birreria 102 di Avetrana con Sabrina. Lei mi disse che nel pomeriggio doveva andare al mare con Sarah e Mariangela, che Sarah la mattina era contenta e che era sicura che l'avessero presa».

ORE 15.02: SABRINA TEMEVA DI ESSERE INTERCETTATA - «Dopo la scomparsa di Sarah, Sabrina «utilizzava il cellulare della madre Cosima per chiamarmi perché aveva timore di essere intercettata». Lo ha detto Ivano Russo durante la deposizione oggi in Corte d'assise al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Ivano ha inoltre dichiarato che la sera in cui arrivò la notizia del ritrovamento del corpo di Sarah (6 ottobre 2010), si mise in giro in auto con Sabrina per rintracciale il luogo e che poi si diressero verso contrada Mosca su indicazione di Sabrina, dopo che quest'ultima aveva chiamato al telefono la madre. Nel tragitto, ha raccontato Ivano, Sabrina - riferendosi alla prima confessione del padre Michele Misseri - «disse che non ci credeva e che il padre l'aveva sparata grossa per farsi credere». Ivano ha riconosciuto la foto di Sarah in pigiama in casa di Sabrina e dichiara che quella foto la ragazza l'aveva scattata con il suo cellulare di fronte allo specchio e che lui quella sera (maggio 2010) si trovava in casa con le due cugine.

ORE 15. 15:LE IMMAGINI DI IVANO A TORSO NUDO - Il pm mostra in aula delle foto inedite (13) scaricate di recente dal cellulare di Sabrina che mostrano Ivano a torso nudo nello studio di estetista della ragazza mentre è sottoposto a trattamenti di elettrostimolazione. Ivano conferma e ammette che qualcuna di quelle foto le aveva scattate Sarah. Una foto risale al maggio 2010 e ritrae Sarah in pigiama, presumibilmente nella stanza che Sabrina usava come studio per i trattamenti estetici. Le altre 13 ritraggono Ivano che nella stessa stanza si sottopone a trattamenti estetici da parte di Sabrina. Dieci delle 13 foto, secondo quanto dichiarato da Ivano, sono state scattate da Sarah. Ivano Russo non sapeva dell’esistenza di una foto di Sarah in pigiama scattata con il cellulare del giovane, che risultava cancellata ed è stata recuperata da un consulente della Procura. Lo ha detto lo stesso Ivano durante la testimonianza dinanzi alla Corte di assise al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. «Sarah ha in mano il mio cellulare – ha aggiunto Ivano al quale è stata mostrata la foto – mi sembra nello studio di Sabrina. Qualche volta davo il mio cellulare a Sarah. Mi pare sia un autoscatto». Il pm Buccoliero ha contestato a Ivano che, secondo il consulente, la foto è stata scattata con il cellulare del giovane, e quindi Sarah avrebbe in mano un altro telefonino. «Non ricordo se c'ero anch’io – ha aggiunto – probabilmente era uno dei giorni in cui Sarah andava a dormire a casa di Sabrina, visto l’abbigliamento». Rispondendo ad una domanda del pm Buccoliero, Ivano ha riferito che Sabrina gli diceva di essere stressata dal lavoro, non dalla presenza di Sarah, come invece risulta dal contenuto di un messaggio inviato da Sabrina allo stesso Ivano il 26 aprile 2010.

ORE 15. 20: IL MISTERO DI UN SMS HOT - Il pm mostra un sms recuperato dal cell di Ivano Russo che lo aveva cancellato con il testo: «che è bona però le piace il sesso femminile te la volevo far... Russo Ivano». Ivano dichiara di non ricordare a chi ha inviato quel messaggio.

ORE 15.30: LE PRESSIONI DELL'AVVOCATO - In tre occasioni Ivano Russo avrebbe subito pressioni dall'ex legale di Sabrina Misseri Vito Russo (omonimo del teste) per rendere dichiarazioni favorevoli alla ragazza, imputata dell'omicidio di Sarah Scazzi. Lo ha detto lo stesso Ivano durante la deposizioni dinanzi ai giudici della Corte d'assise. Il legale è imputato di intralcio alla giustizia e favoreggiamento personale. In un primo incontro con Vito Russo, ha raccontato Ivano, «lui mi disse che era pronto per me l'arresto e spingeva perché dicessi che Mariangela Spagnoletti si era innamorata di me. Gli dissi che non potevo riferire queste cose perché Mariangela non mi aveva mai fatto intendere questo». In un secondo incontro «quando ho cominciato a rispondere - ha detto Ivano - lui ha cancellato l'audio, ha strappato il cartaceo e mi hanno detto (all'incontro era presente, ha detto il teste, anche l'avv. Emilia Velletri e un intermediario, Alessandro Palmieri) che non andava bene per la loro assistita». Il terzo incontro avvenne dopo l'arresto di Sabrina. «L'avv. Russo mi disse - ha dichiarato Ivano - che probabilmente Michele Misseri stava facendo anche il mio nome e mi dette il numero di un avvocato suo amico, nel caso ne avessi avuto bisogno. Gli chiesi per quale motivo Misseri avrebbe dovuto fare il mio nome, tutto questo non mi convinse e decisi di andare via». I social network, come i mass media, fanno ormai parte integrante del processo Scazzi dove anche nell’udienza il nome di Facebook è stato scandito più volte nell’aula Alessandrini del tribunale di Taranto. A tirarlo fuori è stato Ivano, Russo rivelando un particolare che ha fatto torcere il naso all’avvocato Gianluca Pierotti, difensore di Vito Russo, l’ex legale di Sabrina Misseri finito tra gli imputati del processo con l’accusa d’intralcio alla giustizia e favoreggiamento personale. «L’avvocato Russo – ha detto Ivano proprio in chiusura del suo lunghissimo interrogatorio – disse a me e ad Alessio Pisello che era necessario spostare l’asse mediatico perché era troppo giustizialista nei confronti della sua assistita. Ci disse allora di creare su Facebook gruppi che andassero a suo favore». Un particolare che non fa che aggravare la già delicata posizione del penalista, già sospettato di aver esercitato pressioni sui testimoni per indurli a nascondere fatti sconvenienti o per rendere dichiarazioni favorevoli all’allora sua assistita imputata dell’omicidio della cugina quindicenne. «L’avvocato Vito Russo – ha raccontato Ivano – mi disse che era pronto per me l’arresto e spingeva perché dicessi che Mariangela Spagnoletti (amica di Sabrina), si era innamorata di me. Gli dissi che non potevo riferire queste cose perché Mariangela non mi aveva mai fatto intendere questo», ha aggiunto il ventisettenne interrogato. In un secondo incontro «quando ho cominciato a rispondere – ha detto ancora il testimone – lui ha cancellato l’audio, ha strappato il cartaceo e mi hanno detto (all’incontro era presente, ha detto il teste, anche l’avvocatessa Emilia Velletri, moglie di Russo e un intermediario, Alessandro Palmieri) che non andava bene per la loro assistita». Il terzo incontro, infine, avvenne dopo l’arresto di Sabrina. «L’avvocato Vito Russo – ha dichiarato ancora Ivano – mi disse che probabilmente Michele Misseri stava facendo anche il mio nome, coinvolgendomi, per cui mi diede il numero di un avvocato suo amico che avrei dovuto chiamarlo nel caso ne avessi avuto bisogno. Gli chiesi per quale motivo Misseri avrebbe dovuto fare il mio nome ma non ebbi risposta, tutto questo non mi convinse e decisi di andare via».

Tornando all’influenza dei gruppi che operano in internet, anche l’avvocato romano Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri insieme al suo collega tarantino Nicola Marseglia, ha puntato il dito contro i social network. Rivolto a Ivano, il penalista ha chiesto se fosse a conoscenza che la sua attuale fidanzata, Virginia Coppola, fosse tra le più attive partecipanti del gruppo di Facebook su Sarah Scazzi particolarmente colpevolista nei confronti dell’imputata. Visibilmente infastidito e imbarazzato per la domanda, Ivano ha preso le distanze dalla sua compagna dicendo di non conoscere le sue abitudini in questo campo. In effetti in udienza la compagna di Ivano era in compagnia di Giuseppe Centonze, uno dei fondatori e maggiori sostenitori del gruppo Facebook «Verità e giustizia per Sarah Scazzi».

ORE 16: TERMINA L'INTERROGATORIO DEL PM A IVANO - Finisce l'interrogatorio del pubblico ministero ad Ivano Russo che verso al fine è apparso in difficoltà tanto che la presidente della Corte e il pm avevano proposto una interruzione che Ivano ha rifiutato.

ORE 16.05: IL CONTRO INTERROGATORIO DEGLI AVVOCATI DELLA DIFESA E DELLE PARTI CIVILI - All'avvocato della famiglia Scazzi, Nicodemo Gentile, Ivano Russo ha parlato del comportamento assunto da Sabrina nei confronti del padre. «La sera in cui Michele Misseri doveva essere interrogato - ha detto Ivano - Sabrina gli confidò di essere preoccupata «perché mio padre è uno debole e pur di finirla subito potrebbe addossarsi tutte le colpe». Questo fatti, ha detto Ivano, con senno del poi mi apparì molto strano.

ORE 16.20: L'INTERROGATORIO PASSA A FRANCO COPPI DIFENSORE DI SABRINA: Ivano: «Non mi ero mai accorto che Sarah fosse innamorata di me né nessuno me lo aveva riferito. Tranne l'episodio della lite del 21 agosto quando mi lamentai con Sabrina del fatto che aveva raccontato in giro del nostro rapporto sessuale interrotto, non ho mai litigato con Sabrina per motivi sentimentali. A proposito della fragilità del padre: Sabrina non mi ha mai detto di essere preoccupata per lei, per eventuali colpe sue, ma solo per il padre. Non ho mai notato gelosia di Sabrina nei confronti di Sarah».

ORE 18: FINITA LA DEPOSIZIONE DI IVANO: Si è conclusa dopo oltre sei ore l'escussione del testimone Ivano Russo al processo per il delitto Scazzi, in corso dinanzi alla Corte di assise di Taranto.

ORE 18,05: SONO SENTITI I 3 TESTIMONI MINORI. Dinanzi alla corte hanno deposto anche i tre commercianti (Pamela Nigro, Anna Lucia Dell’Atti e Salvatore Erroi) che la mattina del 26 agosto, giorno dell’omicidio, confermando quanto già dichiarato alla polizia giudiziaria anche se sia Erroi che la Nigro, sollecitate dall’avv. Nicola Marseglia, l’altro legale di Sabrina Misseri, hanno spiegato di aver visto Sarah normale, per niente agitata.

ORE 19:34: DEPOSIZIONE DEL PAPA’ DI SARAH. Il 26 agosto 2010, dopo la scomparsa e l’uccisione di Sarah Scazzi, Sabrina Misseri si recò due volte a casa della quindicenne di Avetrana: lo ha riferito il papà della ragazzina, Giacomo Scazzi, durante la deposizione dinanzi alla Corte di assise di Taranto, dove si sta celebrando il processo. «La prima volta – ha ricordato Giacomo Scazzi – Sabrina era insieme ad un’amica e chiese a me dove fosse Sarah, perchè non era arrivata a casa sua per andare al mare. Sabrina era agitata e aveva la voce che tremava, e noi ci preoccupammo subito». Giacomo Scazzi ha ripercorso, rispondendo a numerose domande, le ultime ore di vita della figlia, sino all’ultima volta che la vide uscire con il telo da mare per recarsi a casa di Sabrina.

Si è conclusa la terza udienza del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, dinanzi alla Corte di assise di Taranto. Il padre di Sarah risponde a decine di domande fino alle ore 19 inoltrate. Non c’è tempo per ascoltare Concetta Serrano, la mamma di Sarah, che verrà ascoltata il prossimo 7 febbraio insieme a suo figlio Claudio Scazzi, il fratello di Sarah che abita lontano, oltre che l’ex badante di casa Scazzi, la romena Maria Ecaterina Pantir e di altri tre testimoni minori, citati sempre dalla pubblica accusa.

7 febbraio. Quarta udienza. Parla Claudio Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo e Maria Ecaterina Pantir. Intanto c’è la notizia che anche il professore Franco Coppi, penalista del foro di Roma, noto per essere l'avvocato di Giulio Andreotti ed ora difensore di Sabrina Misseri, ha «sdoganato» l’arringa televisiva. Lo ha fatto il giorno dopo l’audizione di Ivano Russo intervenendo in diretta telefonica alla trasmissione di Rai Uno condotta da Mara Venier, «Italia in diretta». «Ci fa piacere che ci ha chiamati perché questo dimostra che anche lei ci segue» ha detto con soddisfazione la conduttrice alla fine dell’intervento del principe del foro durato due minuti. «Ivano Russo, affermando di non essersi mai accorto che Sabrina fosse gelosa di lui e della cugina - ha detto Coppi - ha di fatto smontato la tesi della procura secondo cui la mia assistita avrebbe ucciso Sarah perché era gelosa del giovane». All’eccezione di Mara Venier che chiedeva giustificazione alla lite tra le cugine la sera precedente l’assassinio, l’avvocato Coppi ha detto che «la presunta lite non è mai stata negata da Sabrina, cosa che avrebbe fatto se avesse qualcosa da nascondere». Sempre secondo Coppi, infine, quella discussione sarà stata irrilevante «tanto è vero - ha aggiunto - che la mattina dopo Sarah si è recata a casa della cugina per aiutarla e per comprarle delle creme: se ci fosse stato astio tra loro, la ragazzina non si sarebbe certo presentata spontaneamente e serenamente».

Altra novità è che Daniele Galoppa ha presentato il conto al suo ex assistito Michele Misseri. L’avvocato ha chiesto il sequestro dei beni del suo ex assistito fino ad un valore di 200.000 euro. Ha presentato la richiesta al tribunale civile di Taranto tramite i suoi legali, gli avvocati Francesco Morgese e Angelo Roma, entrambi del foro di Brindisi. A quanto pare, Galoppa ha deciso di avviare l’azione giudiziaria nei confronti del contadino di Avetrana per un duplice scopo. Il legale di Grottaglie avrebbe presentato la parcella ma non avrebbe ricevuto il corrispettivo (sembra che la somma superi i 60.000 euro). Inoltre, poichè lui, con l’ex consulente, la criminologa Roberta Bruzzone, ha denunciato Michele per diffamazione e calunnia, hanno chiesto che i suoi beni vengano “congelati” in vista di un eventuale risarcimento. Per questo la richiesta di sequestro riguarderebbe beni fino ad un valore di 200.000 euro.

Ma le sorprese nel delitto di Sarah Scazzi non finiscono mai, infatti l’ultima novità è che mentre gli inquirenti stavano ricercando spasmodicamente la ragazza scomparsa, la famiglia Misseri al completo, e cioè il padre Michele, la moglie Cosima e le loro figlie Sabrina e Valentina, hanno fatto visita alla famiglia di Ivano Russo. La famiglia Misseri era interessata a cosa Ivano Russo raccontava ai carabinieri quando non si conosceva ancora la sorte di Sarah Scazzi. A provarlo è un episodio rimasto oscuro nel giallo di Avetrana: una visita della famiglia Misseri al completo a casa di Ivano avvenuta verso la metà di settembre 2010. La circostanza è riportata nel verbale di sommarie informazioni di Claudio Russo, fratello maggiore di Ivano, interrogato il 14 gennaio 2011. Ivano Russo, il cui ruolo non è ancora ben definito, era il fidanzato non ufficiale di Sabrina Misseri. A rivelare la visita al completo della famiglia è Claudio Russo, fratello di Ivano, che lo ha raccontato ai carabinieri e messo a verbale. Il ragazzo ha dichiarato di non conoscere i motivi della visita e che durante il colloquio fra i Misseri ed il fratello lui si era allontanato, era stata la madre poi a spiegargli che i visitatori avevano portato una cesta di funghi ed avevano chiesto notizie sull’interrogatorio reso precedentemente da Ivano. Alla domanda se nessuno dei Misseri fosse mai andato a casa sua, il fratello di Ivano raccontò l’episodio. «Ricordo che prima del ritrovamento del cellulare di Sarah, si presentarono a casa mia Michele Misseri, sua moglie Cosima e le loro figlie, Sabrina e Valentina. Durante la loro permanenza - continua il racconto - parlarono con mia madre della vicenda di Sarah». Alla conversazione non era presente Claudio che solo dopo seppe il tenore della stessa. «Quando se ne andarono - si legge nell'interrogatorio -, chiesi a mia madre a cosa fosse dovuta la visita e lei disse che avevano portato una cesta di funghi e che nel parlare della scomparsa di Sarah avevano chiesto cosa avesse dichiarato Ivano ai carabinieri».

Al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi per il maltempo è iniziata in ritardo l’udienza in Corte d’Assise a Taranto. Sono infatti rimasti bloccati dalla neve alcuni giudici popolari: i carabinieri li hanno raggiunti nei luoghi di residenza per accompagnarli al tribunale ionico. A deporre per primo è stato il fratello di Sarah, Claudio Scazzi. In aula sono presenti Sabrina Misseri, la madre Cosima Serrano e Michele Misseri. «Ma che cazzo hai fatto?» e nell’aula è sceso il gelo. Claudio Scazzi, fratello di Sarah, ha colto l’attimo. Lo ha fatto al volo. Mentre veniva ascoltato dalla pubblica accusa come testimone nel processo sull’omicidio della sorellina Sarah, ha approfittato di un istante di pausa dei pm e, tra una domanda e l’altra, si è tolto un macigno dal cuore. Si è voltato verso la cugina Sabrina Misseri, che era seduta a pochi passi da lui tra i suoi avvocati, e l’ha guardata fissa negli occhi. Senza rancore, senza un filo di rabbia, ma con la voglia folle di capire. Cosa è davvero accaduto in via Grazia Deledda in quel maledetto pomeriggio di agosto? Claudio Scazzi, il fratellone protettivo e amorevole dello scricciolo Sarah, quello che prima di partire le regala il cellulare nuovo e le scarpe alla moda che la ragazzina bramava da mesi, si è fatto mille volte questa domanda. Ma dal giorno dell’arresto di sua cugina Sabrina, ovvero dal 15 ottobre del 2010, non ha mai avuto modo di rivolgere l’interrogativo all’unico valido interlocutore. Claudio e Sabrina si sono rivisti per la prima volta dopo più di un anno e mezzo.  Non si erano più incontrati dopo che Sabrina è finita in carcere per il delitto di Sarah. Mille volte Claudio avrebbe voluto parlarle a quattrocchi, come facevano spesso nelle calde e stellate sere dell’agosto avetranese. «Che cazzo hai fatto?», ha detto il ragazzo quasi sottovoce alla cugina. Lei, seduta di fronte al banco dei testimoni, si è immediatamente irrigidita. Ha scosso forte la testa facendo segno di no. E subito è arrivata la replica del cugino: «Ma va va...». Una doccia gelata per la 23enne accusata con la madre, Cosima Serrano, dell’omicidio della cugina appena quindicenne oltre che di sequestro di persona, soppressione di cadavere e furto del cellulare della vittima. È stata questione di istanti. Un singolare fuori programma che la Corte non ha fatto nemmeno in tempo a cogliere. In caso contrario, la presidente Rina Trunfio avrebbe sicuramente richiamato il testimone e l’imputata. Lo scambio di battute (e la muta reazione di Sabrina) è stato immortalato dalle telecamere della trasmissione «Un giorno in pretura», l’unica autorizzata a registrare le udienze del processo. Claudio Scazzi, al contrario di altri testimoni, poco prima di cominciare a deporre, aveva dato il suo consenso alle riprese televisive. Il ragazzo ha parlato di un rapporto bello, confidenziale con la sorellina. E’ il giorno della deposizione del fratello della vittima, Claudio. Che esordisce con parole che pesano come macigni: “Tra Sabrina e Ivano c’era un rapporto anomalo”. Così Claudio Scazzi (che tempo fa “Oggi” aveva intercettato nell’agenzia di Lele Mora) ha definito la relazione tra la cugina e il giovane del quale si era perdutamente innamorata. Un rapporto talmente tormentato che potrebbe essere la chiave del giallo di Avetrana, secondo l’accusa. Il fratello di Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa nell’agosto del 2010 ha deposto al processo di Taranto: «Sarah non era più una bambina e quando io mi trovavo ad Avetrana lei usciva con me. La mamma non le permetteva di uscire con le altre ragazze della sua età perché lo riteneva pericoloso. Noi uscivamo spesso con nostra cugina Sabrina e una compagnia di altri ragazzi tra cui Ivano Russo, Alessio Pisello, Mariangela Spagnoletti, Angela Cimino, un giovane che si chiama Mimmo, e andavamo spesso in pub insieme. Mia sorella mi disse - ha detto ancora Claudio Scazzi rispondendo alle domande - di aver saputo che Sabrina e Ivano si erano appartati in auto, che Ivano aveva fatto spogliare Sabrina e poi le aveva chiesto di rivestirsi. Per me fu la conferma di quello che avevo sempre pensato. Ivano - ha aggiunto Claudio - sapeva che Sabrina gli andava dietro e lui faceva il finto tonto. Temevo che avesse lo stesso comportamento con Sarah. Un giorno di agosto, tra il 10 e il 20, mentre ci trovavamo a Torre Colimena con Sarah, Angela Cimino, Giovanni Copertino e altri amici, fermai Ivano e gli dissi che i suoi atteggiamenti con Sabrina non mi piacevano. Sarah lo abbracciò e lui disse: ferma, che Claudio è geloso. Ivano - ha risposto ancora Claudio a una domanda - mi raccontò di alcuni screzi con Sabrina. In effetti, una sera, notai che non la salutò, mentre di solito si avvicinava a lei per prima con bacetti e abbracci». Il pm Buccoliero ha chiesto a Claudio Scazzi di riferire dei rapporti tra Sarah e Ivano. Il testimone ha detto di aver capito che la sorella provava qualcosa per Ivano. Ci fu anche un fitto scambio di messaggi tra i due. Claudio ha parlato a lungo del rapporto tra Sabrina e Ivano: «Pensavo a un rapporto clandestino tra loro, ma mi dicevano che erano solo amici. A me invece sembravano fidanzati. Ivano la provocava e coccolava». Claudio Scazzi aggiunge che aveva chiesto a Sabrina di chiarire il suo rapporto con Ivano e lei aveva risposto: «Meglio le coccole che niente».  «Vedevo che mia sorella aveva atteggiamenti molto affettuosi con Ivano e lui non faceva nulla per allontanarla continua Ivano - Questa cosa non mi andava bene perché pensavo che Ivano potesse fare con mia sorella la stessa cosa che faceva con Sabrina. Una sera chiesi a Sarah se Ivano le piacesse, ma lei rispose di no. Anche se subito dopo fece una risata e cambiò discorso». Quanto al rapporto con zio Michele, Claudio afferma di non aver notato nulla di particolare. «Il mio rapporto con Sarah era confidenziale e mai mi parlò di aver avuto problemi con zio Michele o di aver subito molestie. Lo zio aveva sempre imbarazzo a parlare delle donne». Anche se si era dovuto trasferire a Milano per motivi di lavoro, Claudio ha spiegato che con la sorella si sentiva per telefono quasi ogni giorno.

Dopo Claudio, è il turno di Concetta Serrano, mamma di Sarah: «Sarah mi parlava dell’amicizia di Sabrina con Ivano, che Sabrina voleva più di un’amicizia, ma Ivano non la voleva come compagna. E Sarah criticava l’atteggiamento di Sabrina, diceva che Sabrina non nascondeva il suo interesse per Ivano». «Sarah», ha aggiunto mamma Concetta, «mi parlava di Ivano come di un semplice amico. Ascoltai invece una telefonata durante la quale Sarah diceva a Sabrina di lasciar perdere Ivano visto che la respingeva. Disse: “Non ti vuole? Io gli avrei tirato un calcio”. La mamma di Sarah ha anche detto che Sarah e Sabrina d’estate uscivano quasi tutti i giorni insieme: «A casa, Sarah era come figlia unica, soffriva un po’ di solitudine. Frequentava l’abitazione dei Misseri e i rapporti sembravano buonissimi. Negli ultimi tempi però si lamentava di Sabrina e io le dissi di lasciarla perdere».

Oltre sei ore. Tanto è durata la deposizione in Corte d'Assise di Concetta Serrano Spagnolo, la mamma di Sarah Scazzi, uccisa ad Avetrana il 26 agosto del 2010. La donna ha risposto alle domande, ricordando, tra le altre cose la volta in cui Sarah le disse di aver ricevuto cinque euro da zio Michele, aggiungendo che quest'ultimo le aveva detto di non riferire niente a Cosima Serrano. Concetta ha risposto agli avvocati difensori, delle parti civili e del presidente del collegio giudicante, Rina Trunfio, dopo essere stata interrogata dai pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino. La madre di Sarah ha poi ha detto che dopo la scomparsa della figlia aveva sospettato anche della badante romena. «Facemmo la lavatrice - ha osservato Concetta Serrano - e in un indumento della badante trovai una banconota di 50 euro e un biglietto con un numero telefonico che portai a carabinieri. Iniziai a pensare male anche di lei, parlava sempre al cellulare e io sospettavo di tutti».

La donna ha rivelato particolari della figlia e dei suoi rapporti con la cugina Sabrina e con l'amico Ivano Russo. «Presi un paio di diari di Sarah e li detti a Sabrina, che me li aveva chiesti, per cercare di capire se c'era qualcosa di utile per comprendere i motivi della sparizione - Lo ha riferito Concetta Serrano nel corso della sua testimonianza in Corte d'Assise, a proposito degli accadimenti del 26 agosto 2010, giorno della scomparsa e della morte di Sarah. - C'era un diario con un lucchetto - ha aggiunto Concetta - e Sabrina mi convinse ad aprirlo. C'era una frase particolare: sono innamorata di un ragazzo di 27 anni, sono confusa”- ha detto in aula mamma Concetta - quando Sarah scomparve, con Sabrina concordammo di non dare quel diario ai carabinieri. Ma quando qualche giorno dopo lo diedi comunque ai carabinieri, Sabrina si preoccupò perché avrebbe potuto mettere nei guai Ivano».

Concetta Serrano ha poi affermato che tra Sabrina e Sarah "il nome di Ivano era un continuo".

«Sabrina disse a Sarah che Ivano le diceva che da lei voleva solo amicizia. Una volta sentii la telefonata tra Sarah e Sabrina - ricorda Concetta davanti alla Corte -. Sarah disse: "ma perche ti fai trattare in questo modo? Una che si toglie la maglietta e quello dice: rimettitela. Ma che persona sei? Come te lo deve far capire che non ti vuole come compagna". Dopo la scomparsa di Sarah vidi Cosima e Sabrina in caserma, quando mi chiesero una foto di mia figlia, e poi ci incontrammo la sera a casa mia. Io presi un paio di diari di Sarah e li detti a Sabrina, che me li aveva chiesti, per cercare di capire se c'era qualcosa di utile per comprendere i motivi della sparizione. C'era un diario con un lucchetto - ha aggiunto Concetta - e Sabrina mi convinse ad aprirlo. C'era una frase particolare: 'Sono innamorata di un ragazzo di 27 anni, sono confusa'. Io rimasi basita e dissi a Sabrina: 'Lei criticava te e vedi cosa scrive lei'. Sabrina poi mi disse di non consegnarlo subito ai carabinieri perché avrebbe creato dei grattacapi ad Ivano. Dopo alcuni giorni vennero i carabinieri a chiedere tutti i diari. Diedi anche quello con il lucchetto. Quando lo seppe Sabrina - ha sottolineato la mamma di Sarah - mi disse: 'Mannaggia, ora Ivano avrà dei problemi'''. Mia sorella Emma mi parlò di una corda che aveva visto in bocca a un cane e le era sembrato strano, era come se il cane le volesse indicare qualcosa e mi disse di parlarne con i giornalisti. Dopo l’arresto di Sabrina, Emma non si è più fatta vedere». Lo ha raccontato nel corso dell’udienza in Corte d’Assise Concetta Serrano, la mamma di Sarah Scazzi. La donna ha detto anche che alcuni giorni dopo l’arresto di Michele Misseri, Cosima Serrano andò da lei e si mostrò preoccupata. «Io», ha poi precisato Concetta, «le dissi: “Se è stato Michele, che c’entrate voi?”». Il pm Buccoliero ha chiesto alla testimone se Sarah le avesse mai parlato di rimproveri da parte di zia Cosima, ma Concetta Serrano non ha ricordato questa circostanza.

Rivive Sarah nelle parole di mamma Concetta. Come in un racconto breve, sintetico e fulminante, dal disfacimento della morte riemerge a ogni angolo la vita. Per Concetta, Sarah si è solo allontanata un po’. «Mi ha detto: mamma, ho fretta, esco, Sabrina mi aspetta e andremo al mare».

Lo dice come se queste parole Sarah le avesse pronunciate da qualche minuto. Le «anime morte», nell’aula di giustizia affollata come mai dall’inizio del processo, sono la sorella Cosima, Michele e la nipote Sabrina. Qualche lacrima viene giù dagli occhi del contadino di Avetrana. Sabrina a volte scuote la testa; un leggero sorriso, beffardo e sarcastico, è stampato sul suo viso affilato. Cosima, invece, sembra il simbolo della catastrofe. Malinconica, terrea, attenta ma anche assente, solo qualche smorfia passeggera. Un’energia sotterranea fa muovere il processo oltre i confini tecnici. Era dall’inizio che si aspettava Concetta. Il pubblico è venuto per lei. Si sono rivisti molti giornalisti. Sono due le forze, esplicite e profonde, che si confrontano e segnano il corso dell’evento. La prima è quella racchiusa nel dolore di Concetta. Il dolore non è mai banale quando la morte arpiona un figlio. Arriva improvviso e squarcia l’esistenza mortificandola. Ma il dolore, malgrado la sua forza corruttiva, sprona alla risposta eroica, a rigenerare la vita e ad esaltarla. Sarah rivive perché solo la mamma, e nessun altro, può farla rivivere. Solo nelle mamme dolore e vita coincidono. «Da qualche anno era cambiata, era diventata sicura, parlava di più, era più autoritaria». Così Concetta vede la figlia e affiora un velo di nostalgia. E’ il percorso delle adolescenti. Magistrati e avvocati le chiedono i dettagli, i particolari, i ricordi, le date, le frasi stampate sui verbali. Cose importanti, forse decisive per l’economia del processo. Concetta risponde diligente, gentile, con la serietà di chi è entrata in un’aula di giustizia come in un luogo sacrale. In quattro ore solo una reazione al pm: «Ma come faccio a ricordare i particolari della forchetta o della padella dopo 17 mesi che Sarah è morta?»

Sono altri i sentimenti e le idee che occupano la mente di Concetta. Sarah che attraversava le turbolenze dell’adolescenza era pronta per riprendere un rapporto più maturo con la mamma. Concetta parla della figlia in modo realistico, indica anche i difetti di Sarah. Lei, testimone di Geova e molto religiosa, è convinta che un ordine spirituale muova il mondo. Non c’è familismo che possa contrastarlo. Non c’è chiusura regressiva in grado di bloccare il dinamismo della vita. Per questo aspetta che Sabrina confessi e dica la verità, spera in questo perché desidera che l’ordine della vita venga ricostituito. «Dopo andrò a trovarla» ha rivelato. A Sabrina era affidata Sarah. Deve essere lei a dire cosa è successo nella villetta dei Misseri. «Cosima ha invidia di tutti coloro che lei pensa stiano meglio di lei, quindi è invidiosa anche di me». Poche parole, pronunciate quasi con pudore fraterno. I rapporti fra Concetta e Cosima non erano idilliaci. Dalle parole della mamma di Sarah, durante la deposizione dinanzi alla Corte d’assise di Taranto, è emerso un astio latente legato a questioni di eredità. Concetta non è stata certo tenera con la sorella: «E’ una persona invidiosa di carattere. Non lo era solo nei miei confronti». Così ha definito Cosima rispondendo ad una domanda dei pm Mariano Buccoliero e Pietro Argentino sui rapporti fra le due famiglie. L’asserita invidia era legata a questioni patrimoniali. Da quanto riferito dalla madre della vittima, Cosima riteneva che lei Concetta, avendo ricevuto una cospicua eredità dal padre adottivo (deceduto poco dopo la scomparsa di Sarah) avrebbe dovuto rinunciare a quella del padre naturale e per questo ha mai condiviso che lei partecipasse alla divisione pur essendo un suo diritto riconosciuto dalla legge.

Un passaggio della testimonianza cruciale per l’accusa in quanto rafforza il movente del mix di rancore, invidia e gelosia delle due imputate nei confronti di Sarah. Durante il controesame della difesa, Concetta è entrata in contraddizione sugli orari. Ma come lei stessa ha ammesso, non è una persona precisa e per l’ora in cui Sarah è uscita di casa ha sempre fatto riferimento all’ex badante Maria Ecaterina Pantir. La donna ha ribadito in aula che Sarah quel tragico 26 agosto è uscita di casa intorno alle 13.45 massimo 13.50. Stesse dichiarazioni ha reso sin dall’inizio delle indagini sulla scomparsa della ragazzina.

Storie, secondo Maria Corbi de "La Stampa", di ordinaria vita familiare , del rapporto tra due cugine-amiche, complici e a volte rivali, a volte appiccicose, a volte insofferenti dei comportamenti una dell’altra. Concetta Serrano, la mamma della piccola Sarah racconta non solo il giorno della scomparsa, ma anche le dinamiche tra Sarah e Sabrina e i rapporti con sua sorella Cosima. Ricostruisce tutta la giornata con gli orari, ma nessuna certezza su questi. Per incastrare gli orari della Procura bisogna comunque pensare che Sarah quando è uscita di casa abbia detto una bugia alla madre. Concetta ha confermato che la figlia prima di uscire per andare al mare le ha detto che era arrivato l’sms della cugina e che quindi doveva andare. Orario dell’sms che è stato letto nei tabulati telefonici e che pertanto sigilla l’uscita di casa della ragazza alle 14,30, orario che non va bene con la ricostruzione dei pm e che rivelerebbe l’estraneità di Sabrina all’azione omicidiaria. Concetta ha parlato dei contrasti tra Sarah e Sabrina. La prima contestava alla seconda la sua passione non corrisposta per Ivano. Sabrina rimproverava la cuginetta per i suoi atteggiamenti che potevano essere travisati dal paese. Concetta una volta disse alla sorella che Sarah si era comportata male e meritava uno schiaffone. Bastano queste dinamiche di ordinaria vita familiare a motivare un omicidio così crudele? Secondo la Cassazione no, visto che diverse volte ha ripetuto quel che pensa del movente e dei gravi indizi di colpevolezza posti a carico di Sabrina: non ci sono. Ci sono certamente atteggiamenti scomposti di Sabrina che devono essere indagati, come l’aver nascosto il diario di Sarah per non mettere nei guai Ivano. Il nervosismo appena scomparsa Sarah. Ma non bastano. E intanto monta la rabbia di alcuni avvocati per come i media stanno trattando la vicenda. Franco De Iaco legge un’agenzia stampa e sbotta. Nel testo è riportata una dichiarazione in aula di Concetta: «Mia sorella Cosima è una persona invidiosa di natura e quindi lo era anche di me. Ci furono dei malumori anche per il fatto che io partecipavo sia all'eredità dei genitori adottivi sia di quelli naturali». Franco de Iaco spiega che quanto contenuto non risponde assolutamente alle obiettive dichiarazioni rese durante il dibattimento. Anzi Concetta Spagnolo ha chiarito che tra lei e Cosima non c’erano stati contrasti e che anche in occasione della malattia del padre adottivo Cosima si era offerta ed adoperata a darle una mano per affrontare gli impegni di assistenza. Ha inoltre chiarito che ella da quando aveva 17 anni a quando si è sposata ha vissuti presso la casa del padre vero convivendo in assoluta armonia con i propri fratelli e sorelle. Ha inoltre specificato che in relazione alle vicende attinenti la successione non vi sono stati fra loro fratelli contrasti. «Purtroppo devo rilevare come al solito c’è chi non solo interpreta, ma travisa il reale contenuto rese dai testi e questo non è un bene, né per la giustizia, né per il giornalismo in generale». Una vicenda che ha scatenato l’inciviltà dei processi di piazza, con il partito dei colpevolisti e degli innocentisti che si battono sui social forum. Una attenzione morbosa e distorta che aveva portato la difesa di Sabrina a chiedere l’allontanamento del processo da Taranto. Proposta appoggiata dal procuratore generale della Cassazione, ma che non ha poi avuto l’avallo necessario della suprema Corte. Anche Claudio, il fratello di Sarah è stato ascoltato, e ha di nuovo spiegato quel che è ormai chiaro a tutti: a Sabrina piaceva Ivano e per questo si faceva anche calpestare da lui. Ma basta questo per definire il movente? La Cassazione ha ricordato con grande chiarezza e forza che comunque un movente on può essere non solo una prova ma nemmeno un indizio. E nonostante questo sembra che in questa passione di Sabrina per Ivano si concentri il nucleo di questo processo. Quando poi la deposizione di Ivano ha fatto capire che se di qualcuna doveva essere gelosa Sabrina non era certo la piccola Sarah, ma Angela Cimino la ragazza di Avetrana con cui Ivano usciva dopo il lavoro, andava in spiaggia e passava gran parte della notte. Perché quindi prendersela con Sarah? Ma la macchina colpevolista non vuole fermarsi neanche a pensare. E fa una certa impressione vedere libero Michele Misseri in aula, commosso quando parlava la cognata Concetta, «archiviato» da questo processo. E ancora una volta ripeteva: «Sono stato solo io. Perché non mi credete?».

«Sarah uscì di casa prima della 14 e Sabrina venne a casa di Concetta alle 14.30 dicendo che Sarah non si trovava. Disse: io sto chiamando Sarah al cellulare ma non risponde e non so dove sia andata». Lo ha raccontato Maria Ecaterina Pantir, badante di casa Scazzi nel 2010 (assisteva il padre adottivo di Concetta Serrano, madre di Sarah) nel processo in corso a Taranto per il delitto di Avetrana. Alla badante sono stati infatti chiesti particolari sugli orari del pomeriggio del 26 agosto 2010, quando cioè la quindicenne di Avetrana lasciò la sua abitazione per dirigersi a quella dei Misseri, poco distante, dove l'attendeva Sabrina per andare al mare. La donna ha ricostruito il giorno della scomparsa della ragazzina e ricordato, in particolare, il momento in cui Sarah si cambiò per andare al mare con la cugina Sabrina. «Indossava prima un completino nero – ha ricordato – che le regalai io. Poi si mise maglietta e pantaloncino rosa». A diverse domande dei pubblici ministeri l’ex badante ha risposto con un ”non ricordo”. Maria Ecaterina Pantir si è costituita parte civile nei confronti di Sabrina Misseri, che risponde anche di calunnia in quanto l’avrebbe accusata della scomparsa di Sarah, pur sapendola innocente. La romena si occupava dello zio di Concetta Serrano, mamma di Sarah, ed era ogni giorno a contatto con Sarah. L’8 settembre 2010, Sabrina Misseri fu convocata dai carabinieri, ai quali riferì di nutrire forti sospetti sulla badante a causa di un ”radicale cambiamento comportamentale”. ”A rafforzare – disse Sabrina Misseri agli investigatori – questa mia ricostruzione mentale, è proprio una esternazione rivolta all’indirizzo della mamma di Sarah, ed in mia presenza, con la quale la badante romena si preoccupava della possibilità, in virtù delle indagini, di essere anche lei sotto intercettazione telefonica. Non solo – proseguì Sabrina – ma lei era una delle poche persone, escluse io, Sarah e Mariangela, compresi i genitori di Sarah, a sapere che avevamo intenzione di recarci al mare il giorno della scomparsa, e soprattutto era certa del momento dell’uscita di Sarah dalla propria abitazione”.

Diario della giornata:

10.00. Per difficoltà causate dal maltempo, non è ancora cominciata l'udienza in Corte d'Assise. In aula sono presenti i tre principali imputati, dei nove complessivamente rinviati a giudizio, Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, entrambe detenute, accusate di concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere, e Michele Misseri, accusato di concorso in soppressione di cadavere e di altri reati minori.

10.55. Claudio Scazzi, fratello della vittima: «Sarah non mi ha mai detto nulla riguardo a zio Michele, mai parlato di molestie. Anzi, lui era una persona molto timida e riservata.»

11.09. Continua Claudio Scazzi: «c'era un rapporto ambiguo tra Ivano e Sabrina, sembravano una coppia clandestina. Lui stuzzicava lei, la provocava. Io chiesi a Sabrina se le andasse bene questa situazione, lei mi rispose: «Meglio di niente» (ma Sabrina scuote la testa e dice di no al suo avvocato). «Poi Sarah - aggiunge Claudio - mi raccontò di quello che era successo in macchina tra Ivano e Sabrina, credo che lei lo sapesse perché gliel'aveva detto la stessa Sabrina».

11.20. «Dopo la morte di Sarah - spiega Claudio - Ivano mi parlò di screzi tra Sarah e Sabrina, dovuti a lui stesso. Io non approfondì perché in quel periodo si parlava delle molestie di zio Michele e io ero interessato solo a quell'aspetto».

11.46. «Seppi di una conversazione tra Mariangela Spagnoletti e Sabrina - continua Claudio -, in cui le due dicevano che se sarah fosse uscita con loro avrebbe attirato le attenzioni di ivano, a discapito di loro due».

12.03. Iniziato il controesame di Claudio Scazzi da parte dell'avvocato di Sabrina, Nicola Marseglia. Claudio dice: «Ho chiesto esplicitamente a Sarah se le piacesse Ivano, lei rispose con una risatina e disse di no, ma capii che voleva dire sì». Ma l'avvocato gli contesta il fatto di aver detto, durante le indagini, che sapeva che Ivano non piacesse a Sarah.

12.30. Finita dopo due ore la testimonianza di Claudio Scazzi. Dopo la pausa di 5 minuti, toccherà alla mamma di Sarah, Concetta Serrano.

13.00. Tocca alla testimonianza di Concetta Serrano, che afferma: «Assistetti a una telefonata tra Sarah e Sabrina. Sarah disse a Sabrina: "Perché ti fai trattare cosi da quello? Io al posto tuo gli avrei già dato un calcio nel sedere". Rimasi scioccata perché sentivo dire queste cose a Sarah. Visto che era più piccola mi sarei aspettata il contrario. Sentivo sempre Sarah che criticava Sabrina».

13.56. Prosegue Concetta Serrano: «Quando Sabrina venne a dirmi per la seconda volta che Sarah non era arrivata a casa, io le dissi: allora dì a tua madre di rimanere in casa, e se Sarah arriva di trattenerla. Lei mi rispose che la madre non era a casa. Allora le chiesi di dirlo al padre, e lei rimase interdetta, senza dirmi se Michele fosse in casa o meno».

14.10. «Esaminammo con Sabrina i diari di Sarah. Sabrina - spiega Concetta Serrano - mi chiese di non consegnare i diari ai carabinieri perché altrimenti avrebbero creato problemi a Ivano. Io inizialmente acconsentii, ma poi dopo consegnai i diari. Quando Sabrina lo seppe, disse: "Mannaggia, adesso Ivano passa i guai"».

14.15. «La sera della diretta con "Chi l'ha visto?" Sabrina aveva un'aria festosa. Scherzava e rideva con Alessio Pisello. Ivano invece era più nervoso. C'era un'aria surreale, gli operatori di Rai3 possono confermarlo: mancavano solo i palloncini».

15.37. Udienza ripresa. Concetta: «Non ricordo a che ora Sarah uscì da casa. Presi per buono quello che mi disse dopo Sabrina, cioè che Sarah le aveva fatto uno squillo alle 14.30».

16.25. Finito l'esame di Concetta Serrano da parte dei pm; tocca alle domande della difesa.

17.20. Finisce l'esame testimoniale di Concetta Serrano. La donna ha risposto alle domande degli avvocati difensori, delle parti civili e del presidente del collegio giudicante, Rina Trunfio, dopo essere stata interrogata dai pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino. La madre di Sarah ha ricordato la volta in cui Sarah le disse di aver ricevuto 5 euro da zio Michele, aggiungendo che quest'ultimo le aveva detto di non riferire niente a Cosima Serrano. Poi ha detto che dopo la scomparsa della figlia aveva sospettato anche della badante romena. «Facemmo la lavatrice - ha osservato Concetta Serrano - e in un indumento della badante trovai una banconota di 50 euro e un biglietto con un numero telefonico che portai a carabinieri. Iniziai a pensare male anche di lei, parlava sempre al cellulare e io sospettavo di tutti». Ora è prevista la deposizione proprio dell'ex badante romena di casa Scazzi, Maria Ecaterina Pantir.

19.00. Si è conclusa con l'audizione dell'ex badante romena di casa Scazzi, Maria Ecaterina Pantir, l'udienza per l'omicidio della 15enne Sarah Scazzi. Il processo è stato aggiornato al 14 febbraio. La donna ha ricostruito il giorno della scomparsa della ragazzina e ricordato, in particolare, il momento in cui Sarah si cambiò per andare al mare con la cugina Sabrina. «Indossava prima un completino nero - ha ricordato - che le regalai io. Poi si mise maglietta e pantaloncino rosa». A diverse domande dei pubblici ministeri l'ex badante ha risposto con un «non ricordo». Maria Ecaterina Pantir si è costituita parte civile nei confronti di Sabrina Misseri, che risponde anche di calunnia in quanto l'avrebbe accusata della scomparsa di Sarah, pur sapendola innocente.

Slitta a martedì prossimo l'audizione di altri tre testimoni che quel pomeriggio del 26 agosto 2010 avrebbero visto Sarah Scazzi camminare in direzione di casa Misseri: Salvatore Minò, Fedele Giangrande e Giuseppina Nardelli.

14 febbraio. Quinta udienza. Parla Giuseppina Nardelli, Fedele Giangrande, Antonio Petarra, Pamela Trono, Vincenzo Maresca, Giuseppina Di Bari, Salvatora Minò.

Udienza che serve a dimostrare l’ora dell'arrivo di Sarah alla villetta dei Misseri e quindi del delitto: le 14,00 per la Procura, le 14.30 per la difesa di Sabrina.

La cronaca della giornata con i resoconti filtrati dai reportage dei maggiori quotidiani. Nel raccontare asetticamente una storia bisogna non dare la propria versione dei fatti, se pur presente. Tanto più bisogna prendere con le pinze tutto quanto riportato dagli altri. Da “Il Corriere della Sera” a “La Repubblica” fino alla locale “La Gazzetta Del Mezzogiorno”. I cronisti spacciano per verità assolute le loro personali opinioni, spesso pregiudizievoli ed approssimative. Da evidenziare il fatto che il processo mediatico irrompe in quello giudiziario. E in aula finiscono le interviste televisive. L’udienza del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa il 26 agosto del 2010 ad Avetrana, è stata sospesa dalla presidente della corte d’assise, Rina Trunfio, alle 13.30. Pochi minuti di break, una pausa per consentire ai tecnici di montare in aula l’attrezzatura necessaria per visionare una intervista rilasciata da Giuseppina Nardelli, testimone di accusa e difesa, nei giorni successivi all’omicidio. La teste, poco prima, aveva riferito alla corte che il 26 agosto 2010, giorno dell’uccisione di Sarah, mentre si recava al mare con il fidanzato (Fedele Giangrande che sarà ascoltato subito dopo) vide Sarah per strada. Era a piedi in viale Kennedy, nelle vicinanze di casa Misseri. La testimone aveva indicato un orario compreso tra le 14 e le 14.30. La difesa di Sabrina Misseri, la ragazza imputata con la madre Cosima Serrano per omicidio, sequestro di persona e soppressione di cadavere, aveva però sollevato obiezioni, parlando di incongruenze rispetto a quanto la stessa Nardelli aveva dichiarato in una intervista televisiva registrata qualche settimana dopo la scomparsa di Sarah. Così, detto fatto, la corte ha ammesso in aula le registrazioni di quella intervista. Del resto il delitto Scazzi è stato fin dall’inizio un caso mediatico prima che giudiziario. La triste fine della bambina di Avetrana si è dipanata sotto i riflettori diventando un «crime reality», il primo nella storia della cronaca nera italiana. «Ho visto l’orologio ma non ricordavo di preciso l’ora. Ho indicato le 14.30 perchè i giornalisti ci chiedevano un orario preciso. E lo sapete come sono i giornalisti, no?», ha commentato in aula la Nardelli, dopo essersi rivista in un servizio mandato in onda da «Chi l’ha visto?». Proprio sulle video-interviste, si è accesa la battaglia in aula tra accusa e difesa. La Corte, dopo il pezzo di «Chi l’ha visto?», ha acquisito agli atti un filmato recuperato dai difensori di Sabrina Misseri su «You Tube», nel quale la Nardelli ribadiva di aver visto Sarah a quell’ora, ovvero verso le 14.30, perchè ricordava anche di aver controllato il proprio orologio. Alla visione del filmato, Michele Misseri si è più volte asciugato le lacrime agli occhi con un fazzoletto. La Procura ha risposto con le stesse armi ai colpi di Franco Coppi e Nicola Marseglia. Il pm Mariano Buccoliero, subito dopo, ha infatti chiesto e ottenuto di visionare in aula un’altra intervista della Nardelli e del fidanzato, Fedele Giangrande, realizzata dalla trasmissione «Pomeriggio sul 2» e andata in onda il 10 settembre 2010. In video i due dicono di ricordare che fossero le 14.25 circa non per aver guardato l’orologio dell’auto, ma per averlo «ricostruito» attraverso le notizie sentite nei tg. E’ agli atti del processo anche l’intervista rilasciata a «La vita in diretta» a ottobre 2010, da Giangrande, in cui questi dice di non essere sicuro dell’orario dell’avvistamento, ma che sarebbe avvenuto tra le 14,15 e le 14,30, di certo non prima delle 14.15. Il piccolo schermo, insomma, torna protagonista della cronaca. È stata soprattutto la tv, dando voce e volto ai protagonisti del caso Avetrana, ad alimentare dibattiti tra colpevolisti e innocentisti nei salotti dell’«infotainment» dove l’informazione si fa spettacolo e viceversa. E questa volta anche a fornire materiale utile per i fascicoli del dibattimento.

L'indicazione dei presunti colpevoli dell’omicidio di Sarah Scazzi (26 agosto 2010) passa dalla certezza degli orari in cui la ragazzina si mosse da casa per raggiungere quella della cugina Sabrina Misseri. E su quegli orari, com'era prevedibile, è stata battaglia tra accusa e difesa nella quinta udienza del processo dinanzi alla Corte di Assise di Taranto. Sette i testimoni che sono sfilati in aula: c'è chi non ha balbettato e chi è stato più evasivo. Antonio Petarra, che il giorno 'maledetto’ stava sottoponendo a manutenzione esterna su un ponteggio un’abitazione in via Verdi ad Avetrana, è stato quasi categorico. Ha detto di aver visto tre volte in tutto transitare in strada Sarah, e l’ultima «tra le 13.45 e le 13.50» quando indossava «maglietta rosa o fuxia, pantaloncini neri e scarpe infradito» avviandosi a piedi verso viale Kennedy, e dunque verso casa Misseri. Per l’accusa, orari fondamentali per fissare a poco dopo le 14 il momento del delitto. Di fronte alle contestazioni della difesa di Sabrina, Petarra ad un certo punto ha ribattuto: «L'orario era quello, non ci piove. L’ho vista passare». Circostanze confermate poi in aula dalla moglie, Pamela Trono, che quel giorno si recò al lavoro alle 14 e prima di uscire avvisò il marito, dall’amico Vincenzo Maresca, che con Petarra lavorò alla pitturazione esterna della casa, e dalla consorte di quest’ultimo, Giuseppina Di Bari, con la quale Pamela Trono si recò al lavoro in una ditta di ceramiche di Avetrana per le pulizie. La difesa di Sabrina ha chiesto e ottenuto dalla Corte di acquisire due foto che, a suo dire, potrebbero minare la credibilità di Petarra. Tratte da un video, lo ritraggono mentre assiste – per i legali di Sabrina «festante» – all’arresto di Cosima Serrano, il 26 maggio 2011. Più contestate le deposizioni dei due fidanzatini, Fedele Giangrande e Giuseppina Nardelli. Dichiararono agli inquirenti di aver visto quel giorno Sarah in viale Kennedy, mentre si recavano al mare, intorno alle 14.30. In aula sono stati meno precisi, indicando quale orario l’arco di tempo tra le 14 e le 14.30. Non ha giovato a chiarire i dubbi neppure la proiezione di alcune videointerviste rilasciate dai due giovani a 'Chi l’ha visto?' e 'La vita in diretta’. Tanto che ad un certo punto la Nardelli ha spiegato: «Quando ho visto Sarah ho guardato l’orologio ma non ricordo di preciso che ora fosse. Ho indicato le 14.30 perchè i giornalisti mi chiedevano un orario preciso». Anche tra i due giovani e la zia di Giangrande, Salvatora Minò, il confronto chiesto dalla Procura e svoltosi in due brevi tornate ha lasciato interrogativi. La Minò ha riferito che il nipote le disse di aver visto Sarah intorno alle 14; Giangrande ha detto di non ricordare la circostanza.

Tra i 7 testimoni citati dal pm Mariano Buccoliero, di assoluto rilievo appare il contributo atteso da Antonio Petarra, il 38enne di Avetrana che il 9 dicembre del 2010, nel corso di un interrogatorio, rivelò di aver visto Sarah alle 13.45 del giorno della sua scomparsa, mentre andava verso casa degli zii. Petarra abita in via Verdi, vicino a casa Scazzi, ed era impegnato in lavori di pitturazione. «Sono certo dell’orario delle 13.45 - ha detto a verbale Petarra - perché ho controllato l’orologio perché lo ricollego alla circostanza che mia moglie doveva andare al lavoro, prendendo la moglie del mio compare Enzo Maresca, per poi giungere sul posto di lavoro alle ore 14. Questa operazione di guardare l’orologio l’ho fatta anche perché mia moglie mi aveva chiamato dal balcone per dirmi che era tardi e che doveva andare al lavoro. A questo punto ho smesso di lavorare e sono rientrato in casa per accudire mio figlio». Dichiarazioni, quelle di Petarra, poi riscontrate dalla moglie, anch’ella citata come testimone assieme a due fidanzatini che incrociarono Sarah qualche minuto dopo. Furono in tre a vedere Sarah Scazzi il 26 agosto del 2010 mentre andava incontro alla morte: Antonio Petarra, un vicino di casa impegnato nella tinteggiatura dei muri esterni della sua abitazione, e due ragazzi, Fedele Giangrande e Giuseppina Nardelli, che invece la incrociarono in viale Kennedy, a metà strada tra casa Scazzi e quella della famiglia degli zii. Ma sull’orario in cui la 15enne fu vista nemmeno la quinta udienza del processo ha permesso di fare chiarezza, a causa dei molti non ricordo e dei verbali contraddittori di cui sono disseminate le indagini preliminari. Il punto è tutt’altro che trascurabile perché sull’orario dell’arrivo di Sarah Scazzi in via Deledda, a casa Misseri, si fonda da un lato la tesi dell’accusa - che ritiene la 15enne arrivata alle 14 e uccisa quindi da Sabrina Misseri e dalla madre Cosima Serrano entro le 14.20 - e quella della difesa - che invece sostiene che Sarah è giunta alle 14.25, infilandosi direttamente nel garage dove Michele Misseri (reo confesso ritenuto non credibile dagli inquirenti) l’avrebbe strangolata.

«Conoscevo Sarah - ha detto Antonio Petarra - perché abitavamo vicino e la vedevo sempre passare. A volte da piccola suonava al nostro citofono per scherzare. Il 26 agosto del 2010 stavo imbiancando casa con il mio compare Vincenzo Maresca. Ho visto Sarah la prima volta alle 9 mentre andava in direzione delle scuole medie (verso casa Misseri dunque). La seconda dopo una ventina di minuti mentre tornava verso casa sua. L'ultima volta alle 13.45, ed era diretta a passo svelto di nuovo verso le scuole (e quindi verso casa Misseri, luogo del delitto). Indossava le infradito, pantaloncini neri, canotta fucsia e aveva uno zainetto. Sono preciso su questo orario perché mia moglie alle 14 doveva trovarsi nella rivendita di ceramiche dove fa le pulizie, come ogni giorno e lei uscii poco dopo». Nel corso di un primo interrogatorio, svoltosi il 21 settembre del 2010, Petarra disse in realtà di aver visto Sarah alle 12.45. «Ma in quel caso sono stato impreciso, c’è l’orario di uscita di mia moglie ad aiutarmi nel dire che ho visto Sarah sicuramente alle 13.45» ha puntualizzato in aula. Le dichiarazioni di Petarra sono state confermate e riscontrate in aula da sua moglie Pamela Trono, da Vincenzo Maresca e dalla moglie di quest’ultimo Giuseppina Di Bari e a quel punto i difensori di Sabrina Misseri hanno cercato di demolire l’attendibilità del testimone chiave, depositando due fotografie nelle quali si vede Petarra, esultante, dinanzi alla caserma dei carabinieri di Avetrana il 26 maggio del 2011, durante le fasi dell’arresto di Cosima Serrano. «Una scena invereconda » secondo il prof. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri, anche se per il pm Mariano Buccoliero «si tratta di un episodio che non dimostra niente perché Petarra è stato interrogato mesi e mesi prima dell’arresto di Cosima», mentre per lo stesso testimone si è trattato di un fatto assolutamente casuale perché si trovava a casa di un conoscente e fu attratto dalla folla che nel frattempo si era radunata.

La moglie del testimone Antonio Petarra, Pamela Trono, anche lei teste, ha confermato che il 26 agosto 2010, giorno dell'uccisione della ragazzina, andò via da casa tra le 13 e 50 e le 13 e 55 per recarsi al lavoro, avvisando il marito di controllare in casa che il loro figlio stesse dormendo. Quest'ultimo, poco prima, mentre pitturava la facciata esterna dell'abitazione, aveva visto passare in strada Sarah che si dirigeva verso casa Misseri. In precedenza Petarra aveva dichiarato di ricordare l'orario del passaggio in strada di Sarah proprio perché la moglie doveva essere già sul posto al lavoro alle 14. Poi è stata la volta di Fedele e Giuseppina, i due ragazzi all’epoca dei fatti fidanzati. I due testi non sono riusciti - malgrado perfino la visione in aula di interviste televisive realizzate subito dopo la scomparsa di Sarah - non solo a fissare con precisione l’ora in cui hanno visto la 15enne in viale Kennedy - entrambi hanno detto tra le 14 e le 14.30 - ma perfino a confermare di averne parlato con Salvatora Minò, zia di Fedele Giangrande, che invece in aula ha ribadito quanto aveva già detto a verbale l’8 giugno del 2011 e cioè di aver saputo dal nipote che Sarah era stata vista in strada intorno alle 14. E' stata una testimonianza non molto precisa quella di Fedele Giangrande e Giuseppina Nardelli, i due fidanzatini di Avetrana, che per primi dichiararono di aver visto Sarah Scazzi in viale Kennedy il pomeriggio del 26 agosto del 2010, giorno dell'omicidio della 15enne, mentre a piedi e con lo zaino in spalla si recava a casa della cugina Sabrina Misseri per andare al mare. Sono stati ascoltati per circa 1 ora e mezzo dalle varie parti in causa al processo per il delitto della giovane che si tiene davanti alla Corte di Assise del tribunale jonico. L'orario preciso non lo ricordano: entrambi lo hanno fissato tra le 14 e le 14,30 poiché più o meno a quell'ora uscivano anche loro ogni giorno in auto per recarsi sulle spiagge dello Jonio. Nel corso di alcune interviste televisive i due giovani parlarono delle 14,30, in qualche altro caso delle 14,25, senza basarsi su dati di fatto, come aver dato un'occhiata all'orologio. Gli inquirenti, da cui erano stati sentiti nelle primissime fasi delle indagini, quelle relative alla sola scomparsa di Sarah, indicavano come orario proprio quello delle 14,30 perché all'inizio così risultava sulla base di varie testimonianze, sms, squilli. In quella fase stabilire l'orario esatto non era fondamentale proprio perché si indagava al massimo per un eventuale rapimento e non per omicidio. E poi i giornalisti, così hanno detto i due testi, li avrebbero pressati durante le interviste in modo da collocare l'orario proprio attorno alle 14,30.

Probabilmente Petarra è uno degli ultimi ad aver visto Sarah viva. E il suo raccontò è determinante per anticipare di mezz'ora l'arrivo della ragazzina nella villetta di via Deledda, dove sarebbe stata aggredita e assassinata da mamma e figlia alla sbarra. Determinante soprattutto perché sbugiarda clamorosamente il racconto di quel giorno fatto da Sabrina, soprattutto riguardo a telefonate e sms partiti dopo le 14.20 dai cellulari delle due cugine. I ricordi di Petarra, infatti, consentono di collocare l'omicidio prima di quell'ora e quindi sono una sponda fondamentale per il teorema dei pm. Alle 14.20 - sostengono i magistrati - Sarah era già morta. E quella serie di sms e squilli non furono altro che una macabra messinscena di Sabrina per costruirsi un alibi. Oltre a Petarra in aula anche sua moglie, una collega della donna, ed un amico di famiglia. Tre testimoni che già nella fase delle indagini hanno riscontrato i ricordi di Petarra. Fornendo puntelli irrinunciabili alla ricostruzione dell'omicidio fatta dalla procura.

Hanno confermato sostanzialmente quanto dichiarato durante le indagini, i tre testimoni ascoltati nel processo davanti alla Corte di Assise del Tribunale di Taranto per l'omicidio di Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto del 2010. Si tratta di Pamela Di Trono, la moglie di Antonio Petarra, ascoltato per primo, poi di un amico di famiglia, Vincenzo Maresca e della moglie di quest'ultimo, Giuseppina Di Bari, amica e collega di lavoro della Di Trono. Hanno parlato dei loro impegni e dei loro spostamenti di quel giorno e quanto raccontato da Petarra, considerato un teste-chiave relativamente all'orario in cui Sarah sarebbe arrivata in via Deledda nella casa degli zii dove poi venne assassinata. Di Trono ha detto che il 26 agosto del 2010 uscì di casa prima delle 14 poiché doveva trovarsi entro quell'ora nel negozio dove lavora come impiegata, insieme alla Di Bari. Ha riferito di aver lasciato il marito vicino all'abitazione dove stava finendo di pulire e di sistemare la parte esterna dell'edificio appena imbiancata insieme a Maresca.

Il professor Franco Coppi, 74 anni, ordinario di procedura penale da quest’anno in pensione, l’avvocato che difende Sabrina Misseri dopo aver difeso Andreotti, Cossiga e Antonio Fazio, per sette volte è intervenuto per contestare e provocare contraddizioni nei testimoni. E non sono mancate le scintille con i pm Buccoliero e Argentino. Dice al cronista della “Gazzetta” in una pausa del processo: «È che mi sono via via convinto che Sabrina è solo malcapitata in questo processo; questa ragazza è innocente e non è vero che è fredda e cinica, come l’avete dipinta voi giornalisti. Anzi, è molto fragile». Sembra, in qualche momento, che questo sia il «processo della vita» per il professore dell’università La Sapienza. Coppi, come un umile artigiano, sta componendo il suo mosaico. E però prima di mettere a posto i suoi tasselli deve cercare di smontare il piano dell’accusa, demolendola punto per punto, indizio per indizio. Ogni testimone è sottoposto a vaglio critico. L’ incertezza è utilizzata per aprire varchi ai dubbi e alle contraddizioni. La confusione di orari diventa motivo per tentare di dimostrare l’inattendibilità delle persone che i pm hanno chiamato a testimoniare. Nell’aula di corte d’Assise non c’è neanche un attimo per annoiarsi. E’ la quinta udienza e ci sono nel pubblico persone presenti già il primo giorno. Due signore non perdono una battuta. Sono convinte della colpevolezza di Sabrina. «Però a volte mi dispiace» dice la più giovane. Ogni teste ha la sua importanza. L’accusa li ha indicati con un ordine. La gran parte sono giovani, coetanei di Sabrina che il 10 febbraio ha compiuto 24 anni. «Non ne conosco neanche uno» rivelerà a Coppi. I pubblici ministeri, prima Buccoliero, poi Argentino, si alternano e costruiscono con pazienza il loro disegno: dimostrare che ogni parola e ogni testimonianza hanno il loro giusto posto nella ricostruzione del percorso di 500 metri che Sarah ha compiuto a passo svelto dalla sua casa in vico secondo Verdi alla villetta dei Misseri in via Deledda. Coppi tenta di demolire la costruzione. Nello scontro finiscono anche alcune videointerviste, in particolare quelle dei due fidanzatini Giuseppina Nardelli e Fedele Giangrande, imprecisi nell’indicare l’orario del passaggio di Sarah per via Kennedy. Questa sovrapposizione, tra la realtà del processo in aula e le ricostruzioni in tv, crea un effetto stranissimo, un’asimmetria di tempi e di parola che però può contare su una forza suggestiva e potente. Il rischio, nella sovrapposizione, è che ciò che deve avvenire, cioè la formazione del giudizio nel processo, sia percepito come una replica di quanto è già accaduto tramite i media. Coppi ne parla come un evento già verificatosi. Eppure, la sensazione è che «nessuna società» più o meno influenzata da giornali e televisioni sia pronta e smaniosa di punire Sabrina. Anzi, ad ascoltare una ragazza che segue il processo, sembra emergere il dubbio: «Ma veramente è stata lei ad ammazzare Sarah? E’ lei il mostro?» Nessuna crudeltà umana è in attesa di scatenarsi. Sabrina sta seguendo con attenzione ogni passaggio delle udienze. Si sente difesa nel migliore dei modi possibili. Marseglia, uno dei penalisti più conosciuti del Tarantino, e Coppi che non ha bisogno di citazioni, ce la stanno mettendo tutta, e questo è una garanzia di equilibrio del processo. Avverte Coppi: «L’orgoglio dell’avvocato è giustificabile, quello del pm no». Il ruolo più prezioso nel processo è quello della difesa che per natura deve battersi per un diritto umano.

Martedì prossimo la consueta sfilata di testimoni ne comprenderà uno fondamentale per le tesi dell’accusa. Si tratta di Mariangela Spagnoletti, l’ex amica di Sabrina Misseri con la quale quest’ultima, il giorno del delitto, sarebbe dovuta andare al mare insieme a Sarah. Le dichiarazioni di Mariangela e Sabrina, su quanto avvenne all’esterno di casa Misseri quel pomeriggio, sono in netto contrasto. Oltre a Mariangela, saranno sentiti la sorella minorenne, Alessandra Spagnoletti, le due sorelle con le quali Sarah e Sabrina dovevano andare a mare quel maledetto 26 agosto, un altro amico di comitiva, Alessio Pisello, Giuseppe Olivieri, titolare della ditta in cui lavoravano Trono e Di Bari, e i papà di Mariangela, Vito Antonio Spagnoletti, e di Fedele Giangrande, Cosimo.

21 febbraio. Sesta udienza. Parla Mariangela Spagnoletti, Alessandra Spagnoletti, Alessio Pisello, Giuseppe Olivieri, Vito Antonio Spagnoletti, Cosimo Giangrande, Vito Donato Lastella.

Il dr Antonio Giangrande, avetranese doc, scrittore, autore del libro sul delitto di Sarah Scazzi, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, senza intenti diffamatori si chiede e chiede agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d'Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l'accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale.

Ma questo non basta. Sotto i riflettori delle tv presso la Corte d’Assise di Taranto arriva Mariangela Spagnoletti accompagnata dall’immancabile legale, (difensore di che? Se il teste non ha bisogno di difesa e/o rappresentanza legale!! Mah!!), spesso citato a sproposito ed inopportunamente dai giornalisti come avvocato di Mariangela ed altri testimoni del processo sul delitto di Sarah Scazzi. Enzo Tarantino, assistente legale di Mariangela Spagnoletti è componente della Giunta dell’Amministrazione comunale di Avetrana: Assessore al Bilancio, Finanze, Tributi, Marketing territoriale, personale. Non è diffamatorio puntualizzare che ci possa essere un lieve difetto di incompatibilità (stranamente non rilevato da chicchessia) tra chi assiste una testimone dell’accusa (la cui attività forense non è necessaria) e chi rappresenta gli interessi di chi si è costituito parte civile nel medesimo processo come il Comune di Avetrana. Quel Comune di Avetrana che tanto ha lasciato a desiderare proprio in riferimento al Marketing territoriale, tanto che il paese è conosciuto come covo di omertosi retrogradi. A tal proposito c’è da sottolineare che siamo già ad un numero elevato di testimoni e decine ancora verranno a testimoniare. Tutto questo alla faccia di chi, in malafede, ignoranza e pregiudizio, ha voluto far credere che Avetrana fosse un paese covo di omertosi.

Da “Il Corriere della Sera” e da “La Gazzetta del Mezzogiorno” ed da altri quotidiani la sintesi della giornata. Due piccole donne, una volta amiche e complici di serate in birreria, si guardano nei loro grandi occhi e attraversano, una di fronte all’altra, il conflitto più drammatico: Sabrina si agita, scuote la testa, dice “no”, che le cose non stanno come le racconta l’ex amica tanto da provocare un richiamo ufficiale da parte del presidente della corte, Rina Trunfio, che l’ha pubblicamente redarguita, richiamando a maggiore compostezza in aula anche la madre Cosima. Lei, Mariangela Spagnoletti, la teste più importante della procura, non si scompone, vede le contorsioni e la mimica facciale di Sabrina, ma va diritta per la sua strada. Ventidue anni, operaia, un bel viso con un trucco leggero, difende in modo fermo le sue posizioni, anche di fronte all’avvocato della difesa, Roberto Borgogno, l’inviato di Coppi che l’incalza con la speranza di indurla al passo falso delle contraddizioni. Mariangela corregge qualche dettaglio, ma è sicura e ferma: risponde e racconta per quattro ore, mette in ordine fatti, date, parole, sms, e soprattutto sostiene cose diverse da quelle di Sabrina.

«Stavo sulla veranda e aspettavo Mariangela per andare al mare» ha detto Sabrina ai procuratori. «Non è vero - rivela lei -, stava per strada ed era preoccupata e agitata». Uno scontro, due ricostruzioni inconciliabili su quanto è accaduto prima e dopo il 26 agosto 2010. Non c’è astio nelle parole di Mariangela. Anzi, a volte sembra rifugiarsi in ricordi e immagini edificanti («Sabrina e Sarah erano come due sorelle»), ricostruisce con delicatezza, forse anche con qualche omissione, episodi che riguardano Sarah (le coccole di Ivano e gli abbracci, e il silenzio di fronte alle critiche della cugina: «Sarah si vende per le coccole»). Poi fissa le scene, con i ruoli di protagonisti e oggetti al loro posto: Michele accovacciato, la Marbella con il bagagliaio rivolto all’ingresso del garage, il parcheggio dell’Opel Astra, e la posizione di Sabrina che in altre occasioni l’aveva attesa all’interno dell’abitazione («era sempre in ritardo») e che invece, in questa circostanza, era per strada con il cellulare nella mano destra e borsa e asciugamano nella sinistra. Solo i colori Mariangela non ricorda, per il resto è come la memoria di un computer.

Con Sabrina aveva rotto qualche giorno dopo la scomparsa di Sarah. Due mondi si erano polarizzati con contorni e contenuti contrastanti. Sabrina che tentava di svalutare e di inabissare l’accaduto, che cercava di gestirlo e di controllarlo relegandolo in un angolo, introducendo elementi distorsivi presi dalla cattiva pubblicistica - gli zingari che sequestrano le ragazzine e lo zio Giacomo con il suo passato equivoco e con la pista di San Pancrazio -, e soprattutto tentando l’azzardo più ambizioso: la manipolazione dei media.

«Parla con i giornalisti» chiese a Mariangela. «No, quello che devo dire lo dirò ai carabinieri». C’è un civismo in questa affermazione. Il pm Mariano Buccoliero ricorda che Mariangela all’inizio è stata reticente e che poi, di fronte anche ad altre testimonianze, ha cominciato a collaborare con gli investigatori. Così i fatti hanno potuto ottenere, almeno in parte, una rivalutazione. La giovane operaia trova l’ambiente giusto che l’aiuta: una famiglia dignitosa e collaborativa, uno zio carabiniere, un giovane amico campano, Massimiliano Fantastico, anche lui carabiniere. E poi un avvocato cugino, Enzo Tarantino, che la consiglia e l’assiste. Peccato che lei sia teste è non ha bisogno di avvocati, né confidenti. Oltretutto Tarantino ha interesse in causa in quanto, lui assessore dell’amministrazione comunale avetranese, si è costituto parte civile contro la famiglia Misseri. E’ stata Sabrina a strangolare Sarah? Dalle cose dette da Mariangela non emerge questo. Ma s’intuisce che la ragazza pensa a un ruolo avuto da Sabrina. Non tutto è venuto fuori, ha confidato a un amico. Sabrina dice “no” a tutto e si è chiusa in una sorta di nichilismo. Solo lei potrebbe chiarire l’accaduto, lei in un confronto con il padre Michele. Un confronto tragico e risolutore.

«Sabrina Misseri mi disse come era vestita Sarah il giorno della scomparsa». Arriva a sette ore dall'inizio della sesta udienza per l'omicidio della 15enne di Avetrana la dichiarazione che mette in difficoltà la difesa di Sabrina Misseri e rende traballante l'alibi della 23enne accusata in concorso con la madre di aver ucciso Sarah, strangolandola, il 26 agosto del 2010. A smentire Sabrina, che ha sempre dichiarato di non aver mai incontrato Sarah il pomeriggio della sua scomparsa, e dunque di non poter sapere cosa indossava, è stato Alessio Pisello, il ragazzo di Avetrana che faceva parte della comitiva di Sabrina e Sarah.

Pisello, interrogato dai pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino e contro esaminato dai difensori dei nove imputati, è stato uno dei sette testimoni comparsi ieri dinanzi alla corte d'assise nelle dieci lunghe ore di udienza. Pisello dunque sostiene che Sabrina già pochi minuti dopo l’allarme per la scomparsa di Sarah, quel pomeriggio del 26 agosto, le indicò l’abbigliamento da mare che indossava la cuginetta. Al telefono disse di averlo saputo da Concetta, la mamma di Sarah, ma la donna in aula e durante l’intera istruttoria ha invece smentito.

Ad aprire il dibattimento era stata Alessandra Spagnoletti, 13 anni a marzo, sorella di Mariangela, la migliore amica di Sabrina Misseri. Alessandra il pomeriggio del 26 agosto 2010 doveva andare al mare con la sorella, Sabrina e Sarah. «Siamo arrivati davanti a casa Misseri - ha ricordato la ragazzina - e Sabrina era già fuori, sulla strada. Sarah ancora non era arrivata. Sabrina ci chiese se l'avevamo vista. Poi l'ha chiamata al cellulare ma disse che dopo un paio di squilli, cadeva la linea.

Sabrina era molto preoccupata, aveva gli occhi lucidi e diceva l'hanno presa, l'hanno presa. Noi le dicevamo stai tranquilla che ora la cerchiamo. Sabrina era sempre preoccupata. Siamo andati da Concetta, poi siamo tornati a casa di Sabrina dove abbiamo trovato Michele Misseri in strada, vicino alla sua auto». Dichiarazioni confermate da Mariangela Spagnoletti che si è confermata anche ieri in aula una delle principali testimoni a favore dell’accusa, e che ha poi raccontato alla corte come ha conosciuto Sabrina e quali erano i rapporti con Ivano e Sarah. «Frequentavo Sabrina dal dicembre 2009, quando diventai sua cliente. Da lei ho conosciuto anche Sarah. A giugno 2010 poi ho iniziato a frequentare gli altri componenti della comitiva come Ivano Russo e Ivano Pisello. Ci vedevamo ogni giorno. Io sapevo che a Sabrina piaceva Ivano. Le mi parlava sempre di Ivano e mi disse che gli interessava come ragazzo. Me lo ha detto appena sono diventata sua cliente. Voleva avere una storia con lui. Sabrina gliel'ha anche detto a Ivano e glielo faceva capire in mille maniere. Sabrina mi diceva di continue liti con Ivano perchè era ambiguo, la trattava male. Una volta gli fece una scenata di gelosia perché stava parlando con una ragazza. Anche con me si è arrabbiata una volta sulla spiaggia perché Ivano si sedette accanto a me, aggiungendo che se lei non ci fosse stata chissà cosa io avrei fatto con Ivano».

Mariangela poi ha spiegato cosa accade la sera del 25 agosto, con la famosa frase «si vende, si vende per due coccole» detta da Sabrina nei confronti di Sarah, aggiungendo che secondo lei «Ivano coccolava Sarah ma come segno di protezione, non penso che aveva interessi verso quella che in fondo era una bambina. Sabrina, però, con qualche frase mi fece capire di essere gelosa di Sarah».

Daltro canto, un colpo alla ricostruzione dell'accusa è venuta, però, dalla deposizione dell'imprenditore di Avetrana Giuseppe Olivieri, presso il quale due donne, la moglie del super testimone Antonio Petarra (che vide Sarah alle 13.50 andare verso casa Misseri) e un'altra signora, facevano le pulizie. Le due donne la precedente udienza hanno detto ai giudici che andavano a fare le pulizie ogni giorno dalle 14 alle 17: Olivieri ha invece ridimensionato il loro impegno lavorativo ad appena un'ora alla settimana, senza peraltro un orario prestabilito di inizio.

Prima Mariangela Spagnoletti poi l’amico Alessio Pisello, entrambi hanno appesantito la posizione di Sabrina Misseri, la loro ex amica accusata di avere ucciso la cugina Sarah Scazzi con l’aiuto di sua madre Cosima Serrano. La teste, interrogata per quasi quattro ore, ha raccontato i primi attimi della presunta scomparsa della quindicenne facendo emergere le contraddizioni che hanno poi portato gli inquirenti a dubitare dell’estetista ventitreenne. «Era già in strada ed era agitata quando arrivai con la mia macchina perchè avevamo appuntamento per andare al mare con Sarah», ha confermato Mariangela smentendo il racconto di Sabrina, che ha sempre detto di trovarsi invece sulla veranda. Ancora più imbarazzante, invece, se tale ricostruzione troverà conferme, la deposizione fatta dall’amico Pisello, il quale ha raccontato un episodio che ha lasciato tutti a bocca aperta: «Quando Sabrina mi ha telefonato la prima volta per dirmi che era scomparsa Sarah, mi ha anche detto com’era vestita». Alla domanda del pm se fosse a conoscenza di come avesse fatto Sabrina a sapere quali indumenti indossasse la cugina, visto che non l’aveva mai vista arrivare a casa, Pisello ha detto di aver saputo, sempre perché da lei riferito, che questa informazione l’aveva ricevuta dalla zia Concetta Serrano, mamma di Sarah. Secondo quanto ha anche recentemente dichiarato la madre della ragazza uccisa, però, quel pomeriggio non aveva visto uscire la figlia e aveva saputo soltanto in seguito com’era vestita. L’altra persona che poteva conoscere questi particolari è l’ex badante rumena Ecaterina Pantir, che, già interrogata dalla stessa Corte d’assise, non ha detto di aver raccontato tali particolari in quel contesto.

Toccherà ora a Sabrina, quando verrà il suo turno, spiegare da chi ha ricevuto quelle informazioni riferite ad Alessio Pisello in una delle sue primissime telefonate fatte all’amico tra le 15 e le 15.20. Commentando l’atteggiamento dell’amica, Pisello ha poi detto: «Se mi ha ingannato Sabrina è stata davvero brava». Tornando alla deposizione di Mariangela Spagnoletti, la ragazza ha sostanzialmente confermato punto per punto quanto ha già riferito agli inquirenti nei suoi due precedenti interrogatori. «Sabrina era molto interessata a Ivano del quale era anche gelosa». Un attaccamento quasi morboso quello descritto dalla ragazza, che con Sabrina si appostava nelle vicinanze della casa del bell’Ivano «per controllarlo quando usciva e quando rientrava».

Sono stati ascoltati anche la sorella minore di Mariangela, che era con lei il pomeriggio in cui andò in via Deledda per prendere Sabrina e Sarah, e il padre che partecipò alle ricerche.

La sera del 25 agosto 2010, vigilia dell’uccisione di Sarah Scazzi, Sabrina Misseri e Ivano Russo litigarono perché, secondo Sabrina, lui mostrava troppe attenzioni verso la quindicenne. Lo ha riferito la teste Mariangela Spagnoletti durante la deposizione in aula al processo per l’uccisione di Sarah Scazzi. «Andammo al pub 102 – ha detto Mariangela – e Sabrina disse riferendosi a Sarah “si vende, si vende”. C'era anche Sarah, non rispose, non so se si mise a piangere o meno, non la vidi in volto. Poi in auto Sabrina mi disse che Ivano considerava più Sarah di lei». Mariangela ha aggiunto che, per quanto da lei percepito, Ivano «coccolava Sarah come un fratello maggiore e questo dava fastidio a Sabrina». Il resoconto della giornata.

ORE 10:55 – tocca ad Alessandra Spagnoletti. Il giorno dell’uccisione di Sarah Scazzi, quando l’amica Mariangela Spagnoletti e la sorella tredicenne, Alessandra, si recarono a casa di Sabrina Misseri per andare al mare con lei e con Sarah, trovarono Sabrina già in strada «molto preoccupata». Lo ha dichiarato la minorenne, Alessandra Spagnoletti, durante la testimonianza in corso nella sesta udienza del processo per l’uccisione di Sarah. «Siamo arrivati a casa di Sabrina – ha detto, indicando anche com'era vestita Sabrina e che cosa aveva con sè – e lei era già in strada. Ha chiesto a Mariangela se avesse visto Sarah. Poi ha fatto due telefonate, salendo anche in auto, al cellulare di Sarah. «La prima volta ha detto che non rispondeva, la seconda che era spento, e Sabrina ha detto “L'hanno presa, l’hanno presa”. Sabrina era molto preoccupata e aveva gli occhi lucidi». Le dichiarazioni contrastano con quelle rese durante le indagini da Sabrina, che ha sempre dichiarato di aver atteso in veranda l’arrivo di Mariangela e sua sorella e che sarebbe stata Mariangela, preoccupata perchè non si trovava Sarah, a dire che forse l’avevano presa.

ORE 11:46 – tocca a Vito Donato Lastella. Il 26 agosto 2010, giorno dell’uccisione di Sarah Scazzi, un geometra di Avetrana, Vito Donato Lastella, mentre rincasava in auto dirigendosi verso il litorale vide in strada sulla destra una sagoma esile e veloce e contemporaneamente uscire da una stradina a destra un’auto chiara, con due persone a bordo, che fece una strana manovra, tanto che egli dovette allargare la traiettoria di marcia per evitare problemi. Lo ha detto lo stesso Lastella, deponendo in aula al processo per l’omicidio. Il geometra ha detto che, quanto all’orario, sicuramente era dopo le 14.05, momento in cui aveva spento il pc in studio uscendo dopo qualche minuto. Per l’accusa, quella sagoma potrebbe essere Sarah che cercava di allontanarsi da casa Misseri e l’auto potrebbe essere quella di Cosima Serrano con a bordo Sabrina Misseri che stavano cercando di raggiungerla.

ORE 11:48 – depone Giuseppe Olivieri. Nell’azienda di arredo bagno e ceramiche di Giuseppe Olivieri, ad Avetrana, nell’estate del 2010 venivano fatte pulizie nel pomeriggio da Pamela Trono e Giuseppina Di Bari solo per un’ora alla settimana. Lo ha raccontato Olivieri testimoniando al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Trono è la moglie di Antonio Petarra, l’uomo che il 26 agosto 2010, giorno del delitto, disse di aver visto intorno alle 13.45-13.50 passare sotto casa Sarah diretta dai Misseri. Trono e Di Bari, nella precedente udienza, dichiararono di compiere giornalmente pulizie nella ditta Olivieri dalle 14 alle 17, e Petarra spiegò di ricordare quell'orario perchè la moglie alle 14 doveva essere al lavoro con l’amica. Olivieri ha riferito in aula di non sapere quando le due donne eseguissero le pulizie negli uffici della ditta, circostanza che gli è stata contestata dai pm rispetto al verbale di sommarie informazioni testimoniali in cui aveva detto che le pulizie venivano compiute ad uffici chiusi, dalle 14 alle 17.

ORE 12.30 – depone Vito Antonio Spagnoletti. Prima di Mariangela è stato sentito il padre della giovane, Vito Antonio Spagnoletti. «Quel pomeriggio, dopo aver saputo che Sarah non si trovava, andammo a casa Misseri – ha dichiarato l'uomo – e trovammo fuori Michele. Mi disse che sperava si trattasse di una scappatella e che non appena si fosse sbrigato sarebbe andato nelle campagne, nella zona della Riforma dove hanno terreni alcuni parenti, per vedere se si trovava da quelle parti».

ORE 13:02 – parla Mariangela Spagnoletti. «A Sabrina piaceva Ivano. Me lo diceva lei che parlava sempre di Ivano, gli interessava come ragazzo, voleva avere con lui una storia. Sabrina glielo ha detto e glielo ha fatto anche capire. Per lei era una cosa forte». Lo ha detto in aula Mariangela Spagnoletti, l’amica di Sabrina Misseri con la quale Sabrina sarebbe dovuta andare al mare il 26 agosto 2010, giorno del delitto, insieme con la sorella minorenne di Mariangela e con Sarah.  Mariangela ha riferito di qualche litigio di Sabrina sia con Sarah sia con Ivano e una volta anche con lei stessa per le attenzioni che Ivano mostrava talvolta verso Sarah.

ORE 16:08 – finita la deposizione di Mariangela. Si è conclusa dopo circa tre ore la prima parte della deposizione di Mariangela Spagnoletti al processo in Corte di Assise per l’omicidio di Sarah Scazzi. La testimone ha risposto alle domande rivoltele dai pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino, ripercorrendo le fasi del pomeriggio del 26 agosto 2010, giorno in cui Sarah venne uccisa, e confermando quanto già dichiarato durante l'istruttoria. In particolare Mariangela ha confermato di aver lasciato Sabrina Misseri nel pomeriggio di quel giorno per continuare le ricerche di Sarah con altri amici, e di averla reincontrata la sera, intorno alle 19.45. La teste ha inoltre riferito che qualche giorno dopo la scomparsa di Sarah i rapporti con Sabrina Misseri si sono interrotti. «Mi disse di parlare con i giornalisti – ha dichiarato parlando dei motivi della rottura - e io mi rifiutai. Da quel momento non ci siamo sentite più». Mariangela ha poi risposto alle domande dei legali di parte civile, quindi è iniziato il controesame del collegio difensivo. Mariangela ha riferito che in strada vicino a casa Misseri c'erano sia la Seat Marbella di Michele Misseri sia la Opel Astra della mamma di Sabrina, Cosima Serrano. La Marbella, ha spiegato, era in direzione mare con la ruota anteriore destra sul marciapiede; il portoncino del garage era aperto.

ORE 20:21 – Parla Alessio Pisello. Con la deposizione di Alessio Pisello, un amico di Ivano Russo e componente della comitiva di Sabrina Misseri e Sarah Scazzi, si è conclusa la sesta udienza del processo per l’omicidio della quindicenne di Avetrana (Taranto). Il giovane ha riferito di essere stato lui a presentare a Sabrina l’amico Ivano, che conosceva sin dall’adolescenza. Fu proprio Sabrina con una telefonata, nel pomeriggio del 26 agosto 2010, ad informarlo che Sarah era scomparsa e a chiedergli di aiutarla nelle ricerche, cosa che fece quello stesso giorno. Alessio Pisello ha aggiunto che Sabrina gli disse nella telefonata che Sarah «era in tenuta mare», senza aggiungere altro. In un verbale di istruttoria, Pisello aveva detto che Sabrina gli aveva parlato di Sarah che indossava «un tenuta da mare, una maglietta e un pantaloncino», circostanze che Sabrina comunque avrebbe appreso dalla mamma di Sarah, Concetta Serrano. «Mai visto atti di gelosia dell’una verso l’altra, erano come sorelle», ha detto il teste. Pisello ha inoltre parlato di un incontro avuto con gli ex legali di Sabrina Misseri, gli avvocati Vito Russo ed Emilia Velletri, attraverso un suo amico e in un’abitazione di quest’ultimo, per riferire di circostanze che potevano essere utili ad indagini difensive. Infine il teste ha ricordato i momenti in cui apprese, la sera del 6 ottobre 2010, del ritrovamento del corpo di Sarah. «Quando lo dissero in tv, non ci credevamo. Poi uscii in auto con Ivano e Sabrina per trovare il posto, girammo inutilmente alcune zone. Ad un certo punto - ha raccontato – Sabrina chiamò la madre e chiese dove era possibile cercare ancora, e la madre disse di provare in contrada Mosca», dove poi effettivamente furono ritrovati i resti di Sarah. Pisello ha aggiunto su questa circostanza un particolare. Due giorni prima che Michele Misseri facesse la prima confessione, andò da lui e gli disse di aver cercato Sarah anche in contrada Mosca, che sapeva essere conosciuta dall’uomo. «Mi rispose – ha detto Pisello – che l’aveva già cercata lui in quella zona e che lì di certo non c'era».

L'udienza è stata aggiornata a martedì 28 febbraio. Tra i testi chiamati a deporre ci sono Donato e Francesca Massari, padre e figlia. Il primo vide Cosima in macchina nel pomeriggio del 26 agosto dalle parti di via Deledda, mentre la figlia Francesca era amica e compagna di scuola di Sarah.

28 febbraio. Settima udienza. Parla Donato e Francesca Massari, Giuseppe Serrano, Isabella Pernorio, Daniele Lanzo, Anna Parisi, Salvatore Sacco ed Anna Dimitri.

Otto testimoni per la settima udienza del processo a carico di Michele Misseri ed altre 8 persone, a giudizio, a vario titolo, per la scomparsa e l’omicidio di Sarah Scazzi. I pubblici ministeri Pietro Argentino e Mariano Buccoliero hanno citato Donato Massari, un vicino dei Misseri che vide il pomeriggio del 26 agosto del 2010 Cosima Serrano sfrecciare in auto non lontano dalla sua abitazione, la figlia Francesco Massari, amica del cuore di Sarah Scazzi, Giuseppe Serrano, fratello di Cosima e anche di Concetta, mamma della vittima. Sul banco dei testimoni si accomoderanno anche Isabella Pernorio, Daniele Lanzo, Anna Parisi, Salvatore Sacco ed Anna Dimitri. L’obiettivo della pubblica accusa è quello di continuare a demolire l’alibi delle principali imputate, Sabrina Misseri e Cosima Serrano, che hanno sempre sostenuto di non aver mai visto Sarah il pomeriggio del 26 agosto. Importante, sotto quest’ottica, si annuncia la testimonianza di Donato Massari che invece ha sostenuto di aver visto Cosima alla guida della sua Opel Astra station wagon.

Intanto le notizie di contorno all’evento giudiziario dicono che la corte ha bacchettato Sabrina e Cosima durante il processo per la morte di Sarah Scazzi. La presidente del Tribunale ha infatti chiesto che le due imputate non sottolineino con gesti di approvazione o disapprovazione le testimonianze delle persone chiamate a deporre in aula. Risatine e gesti che hanno fatto perdere la pazienza al giudice che ha chiesto con forza che gli avvocati della difesa “impongano” il silenzio e la moderazione alle due donne accusate di omicidio.

Inoltre si parla anche del cane di Sarah. «Abbiamo già altri quattro cani e le nostre finanze non ci permettono di far fronte ad un quinto", spiega la signora Anna Pisanò, che è anche una dei testimoni chiave del processo in corso - Prima tutti facevano a gara per adottarla, comprese le associazioni animaliste, ora "Saetta" non interessa più a nessuno». Si chiama "Saetta", ed era la cagna di Sarah Scazzi, affidato negli ultimi due anni ad una famiglia di Avetrana, i Pisanò, che ora non hanno più intenzione di occuparsene ed hanno annunciato l'intenzione di darla a qualcun altro. Per due anni è stata la famiglia Pisanò a prendersi cura di lei. Ora Saetta cerca una nuova casa. «Abbiamo già fatto abbastanza per assisterla. Che siano altri adesso a mantenerla». E' stata Anna Pisanò a fare l'annuncio, una ex amica della famiglia Misseri, che si lamenta dell'indifferenza della gente nei confronti dell'animale. A parlare è Anna Pisanò, l’ex amica della famiglia Misseri che si lamenta dell’indifferenza che la gente ora mostra nei confronti della cagna di Sarah Scazzi. Saetta è la randagia adottata dalla quindicenne uccisa il 26 agosto del 2010. L’aveva raccolta dalla strada quando era ancora una cucciola e da quel giorno non si era mai separata dall’animale che curava e sfamava. Anche il pomeriggio della tragedia la meticcia si trovava davanti il garage di via Deledda da dove per più di un mese dopo non si è più mossa. Sarah aveva trovato l'animale per strada ed aveva deciso di adottarla, ma poi è successo quello che tutti sappiamo: è stata uccisa il 26 agosto 2010. L'aveva raccolta dalla strada ancora cucciola, e da quel giorno se ne era presa cura senza separarsene mai. Anche lo stesso pomeriggio in cui è avvenuto l'omicidio, "Saetta" è stata vista davanti al garage di via Deledda, dove si trova casa Misseri, e da dove per oltre un mese non ha voluto saperne di spostarsi. Telecamere, giornalisti, curiosi, avevano poi spinto la cagna a cercare rifugio in casa della famiglia Pisanò, che ora non se la sentono più di prendersene cura. La presenza dei curiosi e delle telecamere che piantonavano quei luoghi avevano poi costretto Saetta a rifugiarsi a casa dei Pisanò che ora non se la sentono più di badare a lei. «Abbiamo già altri quattro randagi e le nostre finanze non ci permettono ulteriori sforzi», spiega la signora Anna che dopo il recente matrimonio della figlia ha perso un altro sostegno in casa. «Prima tutti facevano a gara per adottarla, anche le associazioni animaliste, adesso di Saetta nessuno più vuol sentirne parlare», commenta Anna infastidita anche da certi comportamenti di alcuni vicini. «Hanno detto che Saetta è aggressiva quando non è vero e che vogliono fare la denuncia ai carabinieri: che la facessero così vengono e la portano via», si sfoga l’ex amica intima di Sabrina Misseri divenuta ora testimone chiave della sua accusa. «Noi vogliamo bene a Saetta e non vogliamo sbarazzarcene ma per i nostri cani spendiamo già 150 euro al mese di alimenti e medicine e purtroppo dobbiamo rinunciare a qualcosa».

Ed ancora “No al sequestro conservativo di tutti i beni di proprietà di Cosima Serrano, rinviata a giudizio per concorso in omicidio, del marito Michele Misseri e del cognato Carmine Misseri, alla sbarra invece per concorso in occultamento di cadavere”. La corte d’assise di Taranto (presidente Rina Trunfio, giudice relatore Fulvia Misserini) ha respinto la richiesta degli avvocati Nicodemo Gentile, Valter Biscotti e Antonio Cozza, costituitisi parte civile nel procedimento per conto dei genitori di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo e Giacomo Scazzi, e del fratello Claudio Scazzi. Già in sede di udienza preliminare, dinanzi al giudice Pompeo Carriere, la famiglia Scazzi presentò il conto, chiedendo tramite i legali complessivamente un risarcimento danni di 33 milioni di euro con una provvisionale immediatamente esecutiva di 300mila euro. La maggior parte delle richieste (27 milioni) era a carico dei tre imputati principali: Sabrina Misseri e Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della vittima (oltre che ovviamente parenti delle parti civili), imputate di concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere, e Michele Misseri, accusato di concorso in soppressione di cadavere e danneggiamento (l’incendio degli indumenti e dello zainetto di Sarah). Sei milioni di euro, invece, sono stati chiesti come risarcimento danni agli altri due imputati di concorso in soppressione di cadavere e cioè il fratello di Michele, Carmine Misseri e il nipote Cosimo Cosma, detto Mimino. Questo fatto demarca in modo significativo il limito tra la sete di giustizia con l'interesse economico e/o vendicativo. Alla corte d’assise, era stato chiesto il sequestro conservativo dei beni perché «nel caso di specie - si legge nell’atto - vi sono fondate ragioni che lascino desumere la mancanza o la dispersione delle garanzie del credito, che deriva sia dall’entità del credito stesso, e sia dalla situazione di depauperamento del patrimonio dei debitori che potrebbero concretamente - visto anche il contenuto tenuto sino ad ora nel procedimento, disporre pregiudizievolmente dello stesso, al fine di sottrarsi alle plurime obbligazioni economiche che il coinvolgimento nella vicenda giudiziaria inevitabilmente ha fatto e farà sorgere rispetto a tutte le parti interessate». Secondo i giudici, invece, mancano i presupposti per l’adozione di un provvedimento di sequestro conservativo in quanto «il patrimonio immobiliare degli imputati, la cui consistenza è evincibile dai documenti allegati alla istanza della parte civile, non presenti quel canone di inadeguatezza o insufficienza rispetto alle pretese risarcitorie». I giudici sottolineano inoltre che non sono stati indicati elementi certi ed univoci di un potenziale depauperamento del patrimonio degli imputati che, lo si ribadisce, è comunque costituito da beni immobili, se si eccettua un generico riferimento ad un pericolo di dispersione». La richiesta di sequestro è stata peraltro rigettata allo stato degli atti e dunque non è escluso che possa essere ripresentata in futuro, qualora i difensori di parte civile dovessero ravvissarvi le condizioni per farlo.

Per tornare al processo si evidenzia che sono presenti otto testimoni per cementare le accuse contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Ci si avvale delle impressioni pubblicate sugli organi di stampa, debitamente filtrate da opinabili opinioni. Riprende in Corte di Assise il processo per l’omicidio della piccola Sarah Scazzi. Tra i testi chiamati dai pubblici ministeri a deporre in aula, spicca Donato Massari, l’uomo che il giorno della scomparsa di Sarah notò l’auto di Cosima Serrano sfrecciare ad alta velocità nelle strade di Avetrana e dice in aula: "Mia figlia mi disse che un giorno Sarah, all'uscita da scuola, le chiese di accompagnarla perché aveva paura di tornare a casa da sola con Sabrina".  Per la pubblica accusa la sua testimonianza è importante poiché fornisce un riscontro ai movimenti di zia Mimina nel pomeriggio in cui la quindicenne scomparve nel nulla. Ma le sue parole serviranno anche per dimostrare come Cosima e sua figlia Sabrina vararono da subito una strategia per depistare le indagini e condizionare i testimoni. Pochi giorni dopo quel fatidico 26 agosto, infatti, le due imputate andarono proprio a casa di Massari per convincerlo a modificare quanto l’uomo aveva già riferito agli inquirenti. E fu proprio in quell’occasione che l’uomo vide la macchina della Serrano e la riconobbe come quella che aveva notato procedere ad alta velocità ad Avetrana proprio nei momenti precedenti alla scomparsa di Sarah. Oltre alla sua deposizione i magistrati acquisiranno quella di sua moglie Claudia Pernorio e di sua figlia Francesca. Il quadro delle testimonianze sarà completato da quelle del poliziotto Daniele Lanzo, di Giuseppe Serrano, fratello di Cosima Serrano, e di Anna Parisi, Anna Dimitri e Salvatore Sacco, vicini di casa Misseri.

Nel primo pomeriggio del 26 agosto 2010, tornando dal lavoro, tra le 14 e le 14.20, mentre era alla guida dell'auto e stava arrivando vicino al campo sportivo di Avetrana, Massari vide uscire a gran velocità da una strada sulla sua sinistra la Opel Astra di Cosima Serrano, diretta verso il paese, seguita da un furgone blu. Il conducente dell'auto, secondo il teste, fece una manovra strana, tanto che lo stesso teste imprecò, mentre la Opel Astra si allontanava. Massari ha riferito anche che il 4 settembre 2010 Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri andarono a casa sua e lui riconobbe nella loro Opel Astra la stessa auto vista il 26 agosto precedente, tanto che la moglie decise di fotografare la vettura. Le due donne chiesero di parlare con la figlia di Massari per sapere se fosse a conoscenza di qualcosa su Sarah, che era scomparsa. Dopo due-tre giorni dalla prima visita, Cosima - ha aggiunto il teste - tornò a casa di Massari dicendo che era stata dai carabinieri per denunciare che un suo nipote aveva visto una persona con furgone bianco prendere Sarah, e chiedendo allo stesso Massari di dire agli investigatori che il furgone visto il 26 agosto era bianco e non blu. Dopo alcuni giorni Massari ricevette un'altra visita da Sabrina Misseri, sempre in relazione alla scomparsa di Sarah.

«Sarah veniva spesso a casa mia a trovare mia figlia Francesca. Quest'ultima mi ha detto che una volta avevano perso il pullman per andare a scuola e Sarah le disse che non si fidava tanto della cugina Sabrina. Inoltre mi ha detto che Sarah non voleva andare da sola in auto con la cugina. Mia figlia mi disse che un giorno Sarah, all'uscita da scuola, le chiese di accompagnarla perchè aveva paura di tornare a casa da sola con Sabrina». Lo ha riferito il papà della compagna di scuola di Sarah Scazzi, Donato Massari, testimoniando in aula al processo per l'omicidio della quindicenne di Avetrana.

«Ho detto solo nel giugno 2011 che quella vista il 26 agosto 2010 era l'auto di Cosima perché avevo paura per tutto quello che era successo». Lo ha detto il testimone Donato Massari, deponendo in aula al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Nel settembre del 2010, quando era stato sentito per la prima volta, Massari aveva indicato l'auto - una Opel Astra - ma non specificando che si trattava di quella di Cosima Serrano, che è imputata del delitto insieme alla figlia Sabrina Misseri.

«Cosima Serrano venne a casa mia e mi disse che, se mi avessero chiamato i carabinieri - ha riferito Donato Massari che il pomeriggio del 26 agosto del 2010 passava in auto nei pressi del Palazzetto dello Sport e del campo sportivo di Avetrana -, avrei dovuto dire che il furgone che avevo visto, affiancato a una Opel Astra Station Wagon grigio metallizzata, non era di colore blu ma bianco,  anche perché ''la stessa Cosima riferì che un suo nipote aveva visto Sarah entrare in un furgone bianco». Le due principali imputate sono la stessa Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri. La prima volta le due donne si presentarono a casa di Massari il 4 settembre, circa una settimana dopo la scomparsa di Sarah, e chiesero di parlare con Francesca, la figlia di Massari molto amica della ragazzina scomparsa ma non ottennero di incontrarla. La moglie di Massari fotografò dall'alto l'automobile di Cosima Serrano che è appunto una Opel Astra station wagon grigio metallizzata proprio perché, come ha spiegato il testimone, aveva parlato alla consorte in precedenza della scena che avrebbe visto il 26 agosto. L'uomo non ha saputo indicare con certezza l'orario dell'avvistamento: sia nei verbali che in Aula ha riferito di aver assistito alla scena dei due mezzi affiancati, l'Opel Astra e il furgone blu, prima alle 14.35 e in un secondo momento tra le 14 e le 14.20. L'uomo ha detto che dopo aver visto le due vetture una vicina all'altra, ''l'Opel ha fatto una manovra azzardata e ha quasi rischiato di tamponare un'altra macchina''. Massari non ha visto chi era a bordo della Opel, né la targa di quest'ultimo veicolo, mentre è stato più preciso sul colore del furgone, sicuramente blu, e sul conducente dello stesso furgone, un giovane di circa 25 anni con baffi folti e una capigliatura che sembrava una parrucca. Il testimone ha riferito che dopo la prima visita del 4 settembre in occasione della quale le due imputate chiesero di parlare con la figlia Francesca per sapere se sapeva qualcosa di Sarah, passati alcuni giorni, si presentò da sola Cosima chiedendogli appunto di riferire ai carabinieri di aver visto un furgone bianco e non blu. Infine, dopo qualche giorno si presentò solo Sabrina che ''mi chiese dettagli sulle fattezze del conducente del furgone''. Massari non è stato molto preciso neanche sui giorni in cui le donne si presentarono a casa sua.

Francesca Massari è uno scricciolo di ragazza di poco più di 16 anni: «con Sarah ci conoscevamo da quando avevo otto anni», risponde al presidente di Corte d’Assise, Rina Trunfio. Sarah avrebbe avuto la stessa età di Francesca. Carine tutte e due, insieme frequentavano l’istituto alberghiero: parlavano di ragazzi e di amicizie, di profili su Facebook e di innamoramenti. «Mia figlia non è più la stessa - rivela la mamma Claudia Pernorio, anche lei teste al processo -. La tragedia di Sarah l’ha segnata profondamente, ha sconvolto la sua vita e cambiato anche la nostra. Non riusciva più a fare niente. Non studiava, aveva difficoltà a concentrarsi, è stata bocciata e voleva ritirarsi. Lentamente, siamo riusciti a spronarla e l’abbiamo convinta a continuare a studiare. Adesso frequenta anche una scuola di ballo». La testimonianza della ragazzina, forse l’unica amica di Sarah, scuote l’udienza. Viso delicato, aggraziata, occhiali ben intonati alla faccia pulita, attira l’attenzione su di sé. Sia i pm sia gli avvocati la trattano con delicatezza, le danno del «tu». Lei risponde e qualche volta dice «non ricordo».

Il processo per due ore riacquista il suo significato e la sua intensità. La mamma di Sarah, Concetta, è attentissima. Le parole, pronunciate da un’adolescente che parla della sua amica del cuore, ridiventano autentiche e svelano travagli e speranze che i genitori sono gli ultimi a conoscere. Sabrina, sua madre Cosima e il padre Michele Misseri, l’uno a pochi metri dall’altro, sembrano uscire dalla fissità dei loro ruoli; guardano la ragazzina, sorpresi dalla forza dei suoi ricordi. Sarah così fa irruzione, e fa passare in secondo piano ogni altra valutazione, anche quelle giuridiche. È diventato molto strano questo processo. I protagonisti, via via, hanno costruito piccoli mondi chiusi, fortilizi con muri esclusivi e sempre più stretti, ciascuno con i suoi avvocati. È come se avessero preso le distanze da se stessi e dalla storia comune, da quello che sono - forse erano - nella vita reale: una famiglia con tensioni ma unita, poi dilaniata da una tragedia che l’ha chiamata in causa come nucleo di persone corresponsabili, e che ora li allontana e li fa diventare sconosciuti l’un all’altro.

Hanno dimenticato la verità i Misseri: dalla verità dei fatti avvenuti nel primo pomeriggio del 26 agosto 2010 nella loro villetta verde si sono allontanati prima con paura, poi in modo sempre più deciso. Altre urgenze li hanno trascinati in un mondo irreale e sconvolto. «In questo allontanamento - sostiene un giovane avvocato attento ai profili psicologici - hanno costruito con l’immaginazione un altro mondo, e l’immaginazione è diventata realtà». Misseri, il contadino preciso come le forbici della potatura, la prima udienza ha pianto. Anche Sabrina ha fatto vedere le lacrime, nella gabbia sotto i riflettori tv; Cosima è stata sempre ferma, in mezzo all’aula di Corte d’Assise, bloccata nei suoi pensieri e nella sua inespressività. Sembrano statue di sale. Ma l’amica di Sarah li fa sobbalzare. Assistere alla testimonianza di una ragazzina fa rivivere Sarah il cui nome, pronunciato in modo innocente, rivela una presenza vera e richiama alla responsabilità. Fino a quel momento, con gli altri testimoni che si alternavano nell’aula, aveva vinto il torpore delle cose ripetute e trascritte nei verbali. Anche Donato Massari, un teste importante nell’economia dell’ufficio dei pm, il padre di Francesca, aveva ripetuto le sue rivelazioni. Anzi, l’operaio a volte si tradiva nei ricordi, tanto che Misseri, rivolto agli avvocati, ha sussurrato nervoso: «Questo è scemo. Dice che non mi conosce. E poi non ricorda neanche quando ha preso la patente. Ma come, si è dimenticato che l’abbiamo presa insieme, quasi dieci anni fa e che sta per scadere?». Il contadino, quando Massari parla del furgoncino blu, dell’Opel Astra grigia e del guidatore con parrucca e baffi, sbotta: «Ma se lo sanno tutti che vede come una talpa». Ma è Francesca la protagonista. Quando magistrati ed avvocati finiscono di farle domande, lei accompagnata da una zia corre veloce all’uscita. «Possiamo andare - dicono i genitori -. Speriamo che sia finita».

Resoconto della giornata.

ORE 11:23 – Parla Donato Massari. «Mia figlia mi disse che un giorno Sarah, all’uscita da scuola, le chiese di accompagnarla perchè aveva paura di tornare a casa da sola con Sabrina. Ho detto solo nel giugno 2011 che quella vista il 26 agosto 2010 era l’auto di Cosima perchè avevo paura per tutto quello che era successo».

ORE 14:41 – Parla Claudia Pernorio. «Quando Cosima e Sabrina vennero a casa chiedendo di far scendere mia figlia, fotografai l’auto con cui erano arrivate per sicurezza, anche se non le conoscevo. Poi la sera mio marito mi disse che quell'auto era la stessa che lui aveva visto nel pomeriggio del 26 agosto 2010». Secondo la tesi dell’accusa, in quei frangenti Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri stavano andando a bloccare in strada Sarah che era andata via dalla loro abitazione. Prima della deposizione di Pernorio, si era conclusa quella di Donato Massari, che nel corso del controesame da parte del collegio difensivo degli imputati ha mostrato alcune lacune in relazione all’orario del presunto avvistamento dell’auto di Cosima Serrano. «Cosima Serrano venne a trovare due volte mio marito, Donato Massari, il 4 e 5 settembre del 2010 per dirgli che avrebbe dovuto dire di aver visto un furgone di colore bianco anziché blu nel pomeriggio del 26 agosto. Cosima Serrano, ha sottolineato la moglie di Massari, venne da mio marito perché fornisse questa versione ai carabinieri qualora l'avessero interrogato, anche perché un nipote della Serrano aveva già riferito di aver visto un furgone di analogo colore bianco e quindi, in quel caso, le versioni sarebbero state concordanti». La moglie di Massari ha poi confermato le date del 4 e 5 settembre 2010 fornendo anche due scatti fatti col cellulare, con la data sovrimpressa, che ritraggono l'Opel Astra grigia di Cosima Serrano. Proprio quest'auto fu vista dallo stesso Donato Massari nel pomeriggio del 26 agosto 2010, quando cioè fu uccisa Sarah, compiere "una manovra spericolata" nelle strade di Avetrana. Nel corso dell'udienza è poi accaduto che la moglie di Massari abbia risposto anzitempo a una domanda formulata da Franco De Iaco, avvocato di Cosima Serrano, cioè prima che quest'ultimo completasse il suo quesito. "Prendo atto di quello che è successo", ha commentato De Iaco, mostrando una reazione di disappunto e di dubbio per quanto accaduto.

ORE 16:01 – Parla Francesca Massari. Sale al banco dei testimoni anche Francesca Massari, amica e compagna di Sarah, la quale descrive il rapporto tra le due cugine:«Sabrina e Sarah erano come sorelle ma qualche volta litigavano via sms: Sarah non mi ha mai detto perché……. Sarah e Sabrina stavano sempre insieme perché la madre di Sarah la faceva uscire solo con lei che era più grande……. Sarah non si fidava tanto della cugina Sabrina…… Non voleva andare da sola in auto con lei». Dichiarazioni, quest’ultime, utili all’accusa che ritiene la gelosia di entrambe le cugine, nei confronto del ragazzo conteso, Ivano Russo, il movente che ha poi scatenato l’omicidio. «Quando vennero a casa Cosima e Sabrina, quest’ultima mi chiese di salire a bordo della loro auto, ma dissi di no. Sabrina mi chiese se Sarah, che era scomparsa, mi avesse detto qualcosa di particolare». Il giorno del delitto la ragazzina inviò prima un messaggio e poi fece uno squillo sul cellulare di Sarah, ma senza ottenere risposta. Sui rapporti tra Sarah e la cugina Sabrina Misseri, la ragazzina ha riferito che “Sarah mi diceva che erano come due sorelle, ma qualche volta litigavano”. La testimone ha confermato l’episodio, detto in precedenza in aula dal padre, anche lui testimone, relativo ad un giorno in cui Sarah manifestò timore nei confronti di Sabrina. «Non mi ricordo quando accadde – ha detto la ragazzina – forse era ad inizio di anno scolastico. Sarah, all’uscita da scuola, mi disse che aveva paura ad andare da sola con Sabrina». La ragazzina ha inoltre parlato del profilo Facebook di Sarah che lei gestiva insieme all’amica quindicenne. «Chattando su Internet attraverso il profilo Facebook, Sarah Scazzi aveva allacciato alcune amicizie, incontrandosi anche con una persona sposata, di nome Antonio, con il quale poi le comunicazioni si interruppero per la differenza di età». La ragazzina ha inoltre precisato che quando Cosima Serrano e Sabrina Misseri si presentarono a casa sua, qualche giorno dopo che Sarah era scomparsa, Sabrina chiese anche se Sarah le avesse parlato di qualche ragazzo al quale era interessata. Il nome del Gruppo verità e giustizia per Sarah Scazzi, nato su Facebook all’indomani della scomparsa della quindicenne di Avetrana per contribuire alle ricerche della ragazzina prima e successivamente alla verità sulla sua morte, è finito nuovamente nei faldoni del processo per il delitto. L’avvocato Nicola Marseglia lo ha citato chiedendo ad Francesca Massari, la compagna di scuola e amica del cuore di Sarah, se fosse iscritta. La ragazzina ha risposto spiegando di non aver chiesto di aderire, ma di essere stata iscritta automaticamente. Uno degli amministratori del Gruppo, Giuseppe Centonze, impiegato di origini baresi residente a Bologna, tra lo stupito e l’indignato, si chiede il perché di questo accanimento. La triste storia di Sarah, lo ha coinvolto in una lunga avventura virtuale che è diventata poi una battaglia di giustizia. «Della vicenda di Sarah - dice Centonze -, i social network si sono interessati sin dal giorno della scomparsa. Non siamo gli unici. Siamo nati con lo scopo di manifestare solidarietà alla famiglia Scazzi e come luogo virtuale d’incontro e di confronto sul caso». Il Gruppo, che oggi conta 173 membri da ogni parte d’Italia, ha seguito attentamente l’inchiesta nella fase delle indagini preliminari e lo fa tuttora con il processo in corte d’assise a Taranto. «Partendo dagli atti dell’inchiesta che sono stati resi pubblici, dagli articoli giornalistici e dai servizi delle tv - spiega Centonze -, ci siamo confrontati per cercare di capire chi, come, quando e perché ha ucciso Sarah e l’ha gettata in un pozzo. Senza una posizione precostituita nei confronti di qualsiasi persona coinvolta nella vicenda, nella speranza che si arrivi alla ricostruzione della verità storica non solo di quella processuale». Sarah, sulle pagine del Gruppo, è stata sempre al centro della vicenda. La vittima, prima di tutto. «Ad agosto 2011 - racconta Centonze -, una nostra delegazione è stata ricevuta dalla famiglia Scazzi ad Avetrana. Abbiamo conosciuto una famiglia che con grande dignità affronta il proprio dolore, una mamma che aspetta di capire perché le hanno strappato la figlia 15enne». Ma poi la situazione è cambiata. «Da quel momento - spiega Centonze -, il nostro Gruppo è finito sotto i riflettori della difesa di Sabrina Misseri. Siamo stati citati nell’istanza di rimessione del processo, poi bocciata dalla Corte di Cassazione, nel corso dell’interrogatorio di Ivano Russo e in quello di Mariangela Spagnoletti. E oggi anche in quello dell’amica di Sarah. Eppure esistono anche pagine o gruppi nati a sostegno di alcuni indagati, poi imputati. Non capiamo che tipo di utilità possa rivestire nel dibattimento, un gruppo Facebook - conclude Centonze -, ma se si ritiene che ciò possa aiutare a ricostruire la vicenda e a determinare le responsabilità, allora che la difesa di Sabrina Misseri ponga pure all’attenzione della Corte d’Assise di Taranto le pagine e i Gruppi come il nostro».

ORE 17:01 – Parla Anna Parisi. Ma nel processo si è insinuata un'altra zona d'ombra. Secondo quanto riferito in aula da una vicina di casa dei Misseri, Anna Parisi, il 5 ottobre 2010, vigilia della prima confessione di Michele che determinò il suo arresto, la figlia della stessa Parisi si recò a casa Misseri per disdire un appuntamento della madre con Sabrina per trattamenti estetici. La ragazza, giunta sotto casa, sentì le grida di un uomo provenire dall'abitazione, citofonò tre volte ma senza ottenere risposta. Per l'accusa, quelle grida potrebbero essere frutto di una lite in casa Misseri legata alla scomparsa di Sarah. «Ho incontrato Michele Misseri il giorno dopo che era stata fatta la denuncia per la sparizione di Sarah. Gli ho chiesto se aveva notizie e mi disse di non sapere nulla, poco dopo disse che probabilmente era stata rapita da qualche zingaro rumeno, forse per cause legate al traffico di droga o per prostituzione minorile» - Queste le parole di Anna Parisi, vicina di casa Misseri e legata da vincoli di parentela alla famiglia Serrano. Anna Parisi abita in via Deledda, a circa una cinquantina di metri da casa Misseri dove i pm asseriscono che sia stato commesso l'omicidio, a differenza di quanto afferma Michele Misseri, che continua ad autoaccusarsi di avere ucciso Sarah nel garage-magazzino. La testimonianza continua: Anna Parisi ha riferito che il 27 agosto, il giorno dopo il delitto, Michele Misseri le avrebbe detto che, insieme alla moglie Cosima, sarebbe andato a ritirare dei volantini da affiggere in paese per la ricerca della nipote. Avrebbe incontrato anche Valentina, la sorella di Sabrina, che sarebbe sbottata in un'esclamazione di nervoso dicendo che ora tutti si interessavano di Sarah, mentre prima nessuno la considerava : «Ora tutti vi state interessando di Sarah, quando nessuno prima se ne interessava. Tra 3 o 4 giorni, quando sarà tornata, saprete chi siamo e chi non siamo». Altro elemento della dichiarazione: Giusy Serrano, la figlia di Anna Parisi che sarà ascoltata come teste nel corso della prossima udienza, il 5 ottobre 2010, ovvero il giorno precedente al ritrovamento del corpo di Sarah e dell'arresto di Michele Misseri, andò a casa di Sabrina verso le 9 del mattino per un trattamento estetico. Nessuno la fece entrare e anzi, udì chiaramente le urla di una voce maschile e, spaventata, tornò velocemente a casa. Sabrina successivamente disse che si trovava in bagno e non aveva sentito suonare alla porta, ma non fece menzione delle urla. Anna Parisi, oltre a essere parente della famiglia Serrano, frequentava il gruppo dei Testimoni di Geova, insieme a Concetta Serrano Scazzi, la madre di Sarah. Quindi molto vicina alla sorella di fede. Ha detto che ogni tanto vedeva quest'ultima quando la ragazza andava a casa degli zii o la sentiva quando accudiva i cani o i gatti della zona o nel giardino della casa della famiglia Misseri. Con Cosima e Sabrina si vedevano qualche volta per i trattamenti estetici e si salutavano per strada.

ORE 18:05 – Parlano Salvatore Sacco ed Anna Dimitri. Vicini di casa dei Misseri. Ininfluente la loro testimonianza. Uno dei testimoni, Anna Dimitri, vicina di casa dei Misseri, residente in via Deledda, ha accusato un lieve malore ma si è subito ripresa ed è stata sottoposta ad interrogatorio.

ORE 19:06 – Parla Giuseppe Serrano. Una testimonianza scandita da tanti non ricordo quella di Giuseppe Serrano, fratello di Concetta e Cosima, ma vicino a quest’ultima stando al tenore delle sue dichiarazioni. «Il 26 agosto 2010 Michele Misseri arrivò nel terreno dietro la sua casa per raccogliere fagiolini non prima delle 15.30 e mi disse che Sarah non si trovava». «Quando raccoglievo i fagiolini vedevo spesso Cosima affacciarsi dal balcone della sua abitazione ma quel giorno non la vidi. - E’ quanto ha dichiarato il 6 ottobre 2010 il testimone che in aula ha fornito un’altra versione. - Non ricordo se la vidi il pomeriggio del 26 agosto». Anche sul ritrovamento del cellulare di Sarah, Giuseppe Serrano ha spiegato di non ricordare da chi lo avesse saputo: “Forse dalle tv”. Poi gli è tornata la memoria e ha confermato le dichiarazioni rese durante le indagini. «Me lo ha detto Michele ma non mi ricordo il giorno. Mi è sembrato strano che lo avesse trovato Michele». E’ stata la sua considerazione ma non ha saputo spiegare il perchè lo trovasse strano. I rapporti con Concetta? «Sono ottimi ma in questo periodo ci siamo allontanati. Noi vogliamo la verità, gli Scazzi vogliono vendetta. In loro vedo rabbia. Il teste ha inoltre detto di aver appreso dai "media", all’epoca, del ritrovamento del telefonino di Sarah (29 settembre 2010), e non da Michele Misseri, come riferito in precedenza agli inquirenti. Serrano, che risiede in Germania, ha aggiunto di essere tornato ad Avetrana (Taranto) nell’ottobre del 2011, in attesa del processo, ed ha fornito alcune risposte rileggendo appunti riportati su un foglietto ricavati - ha detto – da altri appunti segnati su calendari del 2010.

ORE 20:25 – Parla Daniele Lanzo. Nell’udienza è stato ascoltato anche un ispettore della Polizia, Daniele Lanzo il quale ha ripercorso un episodio indecifrabile avvenuto nella fase iniziale delle indagini. «Sabrina mi disse che suo padre aveva rinvenuto una sim card. Non si sapeva di chi fosse ma, considerando il caso del periodo, la invitai a segnalare l’accaduto ai carabinieri». Qualche giorno dopo la scomparsa di Sarah, Sabrina Misseri riferì ad un ispettore di polizia i sospetti sul padre della cugina, Giacomo Scazzi, per alcune sue presunte amicizie poco 'raccomandabilì a San Pancrazio Salentino (Brindisi). Lo ha detto, confermando quanto già indicato durante l’inchiesta in una relazione di servizio, lo stesso poliziotto, Daniele Lanzo, all’epoca in servizio al commissariato di Manduria (Taranto), che svolse alcune indagini.  Proprio all’ispettore Lanzo, Michele Misseri riferì, successivamente, di aver trovato dinanzi ad una scuola guida una scheda telefonica, facendo intendere che poteva trattarsi di quella di Sarah. «Dieci giorni dopo la morte di Sarah, ricevetti - ha detto Lanzo -, una telefonata da Sabrina Misseri che mi chiese di raggiungerla a casa perché disse che aveva notizie utili per il rintraccio della cugina. Io mi recai in via Deledda e venni accolto dalla mamma della ragazza, Cosima Serrano e dal padre Michele Misseri. Sabrina mi disse che sospettava dello zio Giacomo perché questi, tempo prima, aveva avuto a che fare con la legge e conosceva gente di dubbia reputazione. Quando finimmo il colloquio - ha aggiunto Lanzo -, mi fermò Michele Misseri e mi disse di aver trovato una scheda telefonica a ridosso del marciapiedi vicino ad una scuola guida. Ma mi disse di averla persa perché era custodita nel fazzoletto che aveva in tasca. Gli dissi di fare mente locale e di cercare. Lui mi assicurò che lo avrebbe fatto e che avrebbe visto nel garage. Lo disse a Sabrina e lei lo assecondò. Poi gli raccomandai di riferire l'episodio ai carabinieri». Con la deposizione di Lanzo si è conclusa la settima udienza del processo. La prossima è fissata per martedì 6 marzo; prevista l’audizione di nove testimoni. Per quella occasione sono stati convocati dall'accusa nove testimoni: Battista Serrano, Giuseppa Serrano, Ada Maria Serrano, Livia Olivieri, Oronzo Dimitri, Bruno Scarciglia, Cosimo De Vanna, Marianna Cucci e Carmelo Sacco.

Il contro canto: analisi delle deposizioni fin qua rese.

Arrivati nel ventre del processo e riportate le cronache delle udienze così riferite da “Il Corriere della Sera” o da “La Gazzetta del Mezzogiorno” ed altri organi di stampa, il tutto filtrato dalla mia cognizione diretta, prodotta anche in video, al fine di non oltraggiare la verità, dobbiamo soffermarci su alcuni aspetti importanti, ma tralasciati da tutte le redazioni tv e cartacee, e lo facciamo con il commento di Maria Corbi de “La Stampa” estrapolato dai suoi articoli in riferimento all’udienza del 21 febbraio e l’udienza del 28 Febbraio. La Corbi la si considera come una mosca bianca nell’universo giornalistico: non perché sia amica o meno di Sabrina, ma perché affronta asetticamente e civilmente i fatti su cui la sua cognizione poggia.

Tra i testi chiamati a deporre ci sono Donato e Francesca Massari, padre e figlia. Il primo vide, più o meno all'ora del delitto «un furgone blu guidato da una persona con la parrucca e una Opel Astra station wagon come quella della mamma di Sabrina». Francesca era una delle migliori amiche di Sarah. La scorsa udienza, dove sono state ascoltate le sorelle Spagnoletti, Alessio Pisello, e altri due testi. E’ importante leggere integralmente le deposizioni e quello che avviene in aula perché solo così ci si può formare un’idea autonoma. Io continuo a credere che la prudenza nell’accusare le persone non è mai troppa e che la base del nostro diritto impone sempre il principio del dubbio pro reo: ogni fatto o circostanza che può avere due spiegazioni deve sempre letta attraverso la lente più favorevole all’indagato o imputato. Purtroppo in questa vicenda come in altre, e ricordo lo scempio del caso di Gravina, c’è chi si affanna a dettare sentenze di colpevolezza con leggerezza. E non parlo certo dei magistrati che fanno il loro lavoro (anche se penso che un pubblico ministero debba portare avanti quando esistono anche le circostanze a favore dell’indagato visto che suo compito non è accusare ma cercare la verità), ma di una banda di incivili che bazzicano il web e non solo purtroppo. Ognuno fa i conti con la propria coscienza e con la propria professionalità. Io ritengo che un giornalista degno di questo nome debba farsi portavoce della prudenza e del dubbio. E la prudenza e il dubbio richiedono il rispetto per gli indagati fino a sentenza definitiva. E una grande attenzione per le ragioni della difesa. La prima ad essere ascoltata è stata la sorellina di Mariangela Spagnoletti. Alessandra. La ragazzina dice ai pm che Sabrina era preoccupata quando aspettava Sarah e che era in strada non in veranda come sostiene Sabrina. Ma dice anche che quando non ha visto Sarah anche lei si è preoccupata. Alessandra sostiene di non aver mai parlato in casa e con la sorella della vicenda di Sarah, ma qualche ora dopo è proprio la sorella a smentirla dicendo come è logico che sia che a casa se ne parlava eccome. Questo passaggio è importante per capire quanto spontanea o quanto filtrata (e sedimentata da discorsi, passaggi tv, voci di paese) sia la testimonianza di questa ragazzina. Alessandra poi si ricorda benissimo come erano vestite Sabrina e Cosima. E anche Michele (specifica che aveva le maniche della camicia al gomito, arrotolate). Ma non ricorda invece come fosse vestita sua sorella. Tutti elementi che la giuria togata e popolare dovrà valutare. E durante questa audizione c’è stato il primo attrito tra accusa e difesa. Il pm può chiedere alla teste se secondo lei Sabrina era preoccupata, ma l’avvocato della difesa, Roberto Borgogno (studio Coppi) non può chiedere alla teste se anche lei ha pensato subito che l’avevano rapita. Perché la preoccupazione secondo la presidente è una manifestazione fisica (?) mentre la domanda della difesa riguarda uno stato psicologico. Mah….

Giuseppe Olivieri, il datore di lavoro della moglie del supertestimone Petarra , Pamela Trono e della sua amica ha spiegato che le due donne lavoravano una sola ora a settimana e d’estate lavoravano nei giorni che decidevano loro visto che il pomeriggio gli uffici erano chiusi. Questo significa che la certezza con cui Petarra ha definito il suo avvistamento di Sarah non esiste più. Petarra ha sostenuto che erano circa le 13,45 e si è detto sicuro dell’orario poiché la moglie prendeva servizio in ufficio alle 14, ed era appena uscita per andare al lavoro dopo avergli raccomandato di badare in casa al loro figlio piccolo. Per la Procura questa è una testimonianza importante perché dimostrando che Sarah è arrivata a casa Misseri poco prima delle 14,00 si può pensare a una colpevolezza di Sabrina. (e bisognerebbe comunque dimostrarla, come ha ricordato anche la Cassazione). Ma anche se fosse così rimane quell’sms delle 14,25,08, archiviato nella memoria del telefonino di Sarah, in cui Sabrina le dice di prepararsi per andare al mare. Sms che Sarah comunica alla madre avvertendo che sta per uscire. Circostanza confermata anche dalla badante rumena. La Procura sostiene che Sarah abbia mentito alla mamma per uscire senza lavare i piatti. Secondo l’accusa ovviamente questo scambio di sms non sarebbe che una costruzione di alibi. E si deve pensare a una Sabrina feroce che mentre ammazza la cugina nello stesso tempo si crea l’alibi maneggiando i due telefonini. E anche in questo caso come avrebbe fatto Sabrina a sapere che Sarah aveva detto una bugia alla mamma sull’sms? Ma sugli orari è venuto in aiuto alla difesa anche Vito Donato La Stella, un geometra con studio ad Avetrana. che ha detto di avere visto mentre tornava a casa dal lavoro una sagoma, probabilmente dunque Sarah, e la avrebbe vista sicuramente in un lasso di tempo che non è compatibile con l’ipotesi accusatoria. Perché La Stella dice (pagina 57 del verbale) che alle 14,05 ha spento il computer e se lo ricorda perché come sempre ha guardato l’ora e poi è andato in giro per l’ufficio a chiudere tutte le porte, attività che ha contabilizzato in circa otto minuti. Per andare a casa sua a Torre Colimena deve passare da viale Kennedy e si ferma a vedere i necrologi appesi al muro. E quando è ripartito ha visto una sagoma. Probabilmente Sarah che era uscita da casa. E facendo la somma dei minuti forniti da la Stella ecco che si torna all’sms ricevuta da Sarah da parte della cugina e all’uscita di Sarah da casa dopo le 14,25. D’altronde non si può dimenticare che la mamma della ragazzina, Concetta, nella denuncia di scomparsa dice che la ragazzina è uscita di casa alle 14,30. E veniamo a Mariangela Spagnoletti. Mariangela dice chiaramente che a Sabrina piaceva Ivano. E su questo mi sembra che possano non esserci più dubbi. Ma basta ad uccidere una persona che tra l’altro è per te come una sorella? Mariangela dice che Ivano coccolava più Sarah di lei e lo faceva come un fratello maggiore. Ma dice anche che Sabrina era stata gelosa di una ragazza che parlava con Ivano e anche di lei una volta che erano andati tutti insieme al mare. Mentre non ha mai saputo che Sabrina fosse gelosa di Ivano e soprattutto che non avevano mai saputo che a Sarah piacesse Ivano. Nella testimonianza di Mariangela, poi, il famoso litigio che sarebbe avvenuto al pub la sera prima della scomparsa di Sarah in realtà non sarebbe tale. Perché per litigare occorrono due voci e in quel caso fu solo Sabrina a rimproverare, o forse a sfottere Sarah dicendole che si vende per sue coccole e che anche sua madre lo diceva. Un po’ poco per essere alla base di un efferato omicidio. E soprattutto dopo un litigio come acceso come la Procura lo descrive la logica vorrebbe che le due ragazze fossero rimaste lontane per qualche tempo. Invece la sera stessa organizzano la gita al mare e il giorno dopo di buon ora Sarah è già a casa di Sabrina con cui conta di passare tutta la giornata. E il feroce litigio allora? Mariangela Spagnoletti ammette che Sarah e Sabrina erano come due sorelle e che Sabrina si comportava da sorella maggiore. Avete mai visto due sorelle non litigare? O non rimproverarsi? Forse Sabrina ha peccato di insensibilità apostrofando la piccola Sarah con quelle parole, ma basta questo a renderla un’assassina? Mariangela ha detto chiaramente che in macchina questo era già superato e si parlava di andare al mare il giorno dopo. Molte le contestazioni fatte dalla difesa a Mariangela. Per esempio sullo stato d’animo di Sabrina appena Mariangela arrivò a casa sua. In un primo verbale Mariangela dice che non era agitata e che poi si sono agitate insieme, dopo la telefonata. Sentita successivamente questa percezione della preoccupazione di Sabrina cambia. Mariangela dice anche che Sarah era sempre puntuale. Circostanza che sarà poi avallata nella testimonianza di Alessio Pisello che definisce Sarah. E alla luce di questa puntualità della ragazzina è chiaro che la preoccupazione per un ritardo si affacci prima in chi la aspetta. Mariangela ammette di far parte di un gruppo colpevolista su Facebook anche se dice di non aver mai commentato. Dall’audizione di Alessio Pisello, uno dei migliori amici di Sabrina, emerge che Sabrina gli avesse detto solo vagamente come era vestita Sarah nella prima telefonata dopo la scomparsa, e solo successivamente precisò gli abiti dicendo che lo aveva saputo da Concetta. E se si torna al verbale della madre di Sarah, Concetta, dove si legge che è la badante romena ad aver notato anche i minimi particolari dell’abbigliamento della ragazzina e ad averli riferiti come è normale che sia quando si cerca una persona. E infatti nella denuncia di scomparsa è scritto come è vestita Sarah. E quando Pisello riferisce che fu Cosima a indirizzarli a contrada Mosca la notte del ritrovamento del corpo è chiaro che lo fece perché aveva la casa piena di giornalisti che le avevano dato l’informazione. E infatti a indicare la strada per la Mosca a Ivano che guidava non fu Sabrina ma Alessio.

La difesa accusa: troppa disinformazione.

Certo è strano come le cose possano essere raccontate in una maniera diversa da quella reale. Nell’udienza per il processo Misseri sono stati ascoltati tra gli altri l’amica di Sarah Francesca Massari e suo padre Donato. Le agenzie di stampa nazionali subito titolano “Sarah aveva paura di Sabrina”, le agenzie più caute dicono che “Sarah aveva paura di restare sola con Sabrina”. Peccato che si scordino di raccontare, come anche molti giornali locali, la circostanza completa entro cui collocare questa frase. Francesca Massari ha chiarito bene in aula che questa cosa successe all’inizio dell’anno scolastico, quindi siamo a settembre 2009, un anno prima della morte di Sarah. Sarah aveva perso l’autobus per andare a scuola e chiese aiuto a Francesca perché altrimenti se avesse chiamato Sabrina si sarebbe arrabbiata. Come sappiamo da altre testimonianze, compresa quella di Francesca Massari, Sabrina si comportava con Sarah come una sorella maggiore quasi una mamma e rimproverava spesso la ragazzina per i ritardi a scuola, perché non era in ordine, perché non aveva fatto i compiti. Detto questo, comunque, Sabrina quel giorno portò Sarah a scuola facendosi prestare una macchina. Capite bene che messa in questi termini e in questo spazio temporale, molti mesi prima della morte della piccole, la frase , assume tutto un altro significato. Ma molti giornalisti hanno pensato bene di non chiarirlo o forse di non informarsi bene. In udienza su questa circostanza c’è stata anche una lunga pausa perché i pm volevano contestare il fatto che questa frase fosse stata pronunciata un anno prima e non in prossimità del delitto. Hanno detto che il padre della ragazzina aveva detto un'altra cosa e non che era stato un anno prima. Invece la presidente ha disposto di riascoltare il nastro con la registrazione a verbale e si è sentito chiaramente che il padre non aveva mai collocato temporalmente la frase. Altro passaggio importante dell’udienza: gli orari. Massari ha detto che lui vide la macchina che poteva essere di Cosima alle 14,35/14,40 ( seguita da un furgone blu alla cui guida c’era un uomo con parrucca e baffi). Orario che fissa partendo dall’ora in cui uscì dal lavoro (circa le 14,15). Anche la moglie di Massari conferma di aver saputo dal marito che l’avvistamento era avvenuto a quell’ora. E la figlia sostiene che quando ha mandato un sms a Sarah alle 14,20 il padre non era ancora tornato a casa. In ogni caso Massari ha detto di non aver riconosciuto Cosima alla guida. Comunque a quell’ora secondo la ricostruzione dei pm Sarah era già morta. E che ci faceva Cosima, che oltretutto secondo Massari faceva manovre spericolate, con la macchina, diretta verso il paese? E soprattutto Mariangela arrivò a casa Misseri alle 14,35. Ancora una volta la deposizione di un teste scompone il puzzle degli orari della procura. Ma anche qui le agenzie di stampa raccontano un’altra storia. Tanto che in Tribunale l’avvocato Marseglia (difesa di Sabrina Misseri) e De Jaco (difesa di Cosima Serrano) hanno avuto una discussione con i giornalisti presenti rinfacciandogli cronache poco obiettive. Disinformazione: commenta amaro Nicola Marseglia. Massari ha riferito anche che il 4 settembre 2010 Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri andarono a casa sua e lui riconobbe nella loro Opel Astra la stessa auto vista il 26 agosto precedente, tanto che la moglie decise di fotografare la vettura. Le due donne chiesero di parlare con la figlia di Massari per sapere se fosse a conoscenza di qualcosa su Sarah, che era scomparsa. Dopo due-tre giorni dalla prima visita, Cosima tornò a casa di Massari dicendo che un suo nipote aveva visto una persona con furgone bianco quel 26 agosto, e chiedendo allo stesso Massari di dire agli investigatori che il furgone visto il 26 agosto era bianco e non blu (anche qui secondo quanto riferiscono le agenzie, quando avremo la trascrizione dell’udienza capiremo esattamente cosa è stato detto). Dopo alcuni giorni Massari ricevette un'altra visita da Sabrina Misseri, sempre in relazione alla scomparsa di Sarah. Quando si ascolteranno le imputate (di solito questo avviene a cavallo tra i testi di accusa e difesa) risponderanno a queste contestazioni. Ma Cosima ha già spiegato, quando era in grado di farlo, che lei e la figlia andavano a fare domande per aiutare nelle ricerche. E che quando Massari gli disse che il furgone che aveva visto era blu e non bianco lei ne prese atto senza indurlo a dire il contrario. E poi mi si deve spiegare che importanza ha questo fantomatico furgone visto che non si è mai trovato, e soprattutto nessuno ha mai spiegato (nemmeno l’accusa) a cosa sarebbe servito. Francesca Massari ha ammesso che Sarah aveva agganciato con il computer due ragazzi, uno dei quali si chiamerebbe Antonio e c’era rimasta male quando questa gli aveva detto: sei troppo piccola. Poi aveva preso interesse a maggio per un altro ragazzo. Come è normale per una adolescente. Sarah non gli ha mai parlato invece di Ivano. Quindi ad oggi nessuno dei testi ascoltati ha riferito di essere a conoscenza né della simpatia di Sarah per Ivano, né della gelosia di Sabrina per Sarah a causa di Ivano.

6 marzo. Ottava udienza. Parla Battista Serrano, Giuseppa Serrano, Ada Maria Serrano, Livia Olivieri, Oronzo Dimitri, Bruno Scarciglia, Cosimo De Vanna, Marianna Cucci e Carmelo Sacco.

Le deposizioni dei nove testimoni sono utili per ricostruire i rapporti fra Sarah e Sabrina, fra le due cugine e la loro comitiva e soprattutto fra le rispettive famiglie, gli Scazzi e i Misseri. Nell’udienza odierna (l’ottava) sono stati interrogati da accusa e difesa i parenti delle sorelle Serrano, Cosima e Concetta. Sono Battista Serrano, Giuseppa Serrano, Ada Maria Serrano, alcuni abitanti di via Deledda, Livia Olivieri, Oronzo Dimitri, Bruno Scarciglia, Marianna Cucci, Carmelo Sacco e il gestore del pub “Hendrix“, di Erchie, un locale frequentato dalle due cugine, Cosimo De Vanna. Si è conclusa in poco più di due ore, davanti alla Corte di Assise del Tribunale di Taranto, presieduta da Rina Triunfo, l'ottava udienza del processo per l'omicidio della 15enne Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto del 2010 ad Avetrana. Sono sfilati 9 testimoni minori, ma non sono emersi fatti particolarmente rilevanti. I legali di Sabrina Misseri e di Cosima Serrano hanno rinunciato al ricorso in Cassazione presentato contro l'ordinanza del Tribunale della Libertà di Taranto che, il 22 novembre 2011, aveva confermato l'ordinanza di custodia cautelare convalidata dal gip a maggio 2011. «In Cassazione avevamo più da perdere che da guadagnare e per questo abbiamo rinunciato a discutere i nostri ricorsi dal momento che il dibattimento si sta svolgendo a Taranto e la maggior parte dei testimoni dell’accusa riascoltati hanno dato un esito favorevole alle due imputate» - ha spiegato l'avvocato Luigi Riella, difensore di Cosima - In Cassazione avremmo, invece, dovuto contestare una ordinanza di custodia basata sui risultati delle indagini che adesso sono superati perchè il processo sta portando alla luce una diversa ricostruzione dei fatti. Non era opportuno correre il rischio di una decisione negativa fondata su elementi superati - ha concluso Rella.

Resoconto della giornata.

Ore 10,30. Parla Battista Serrano. Ha deposto Battista Serrano, parente e vicino di casa, che ha riferito di aver visto confabulare di notte Sabrina Misseri e Ivano Russo qualche giorno prima dell'arresto della giovane, il 15 ottobre 2010, nel frattempo chiamata in correità dal padre. L’episodio sarebbe avvenuto intorno alle 3,30 del mattino, uscendo per andare al lavoro presso il suo bar in centro, ad Avetrana. Un orario abbastanza insolito per intrattenere una conversazione all’aperto e in pieno autunno. Inoltre, né Sabrina né Ivano hanno mai riferito di quell’incontro. In quella circostanza il testimone avrebbe visto per qualche attimo anche Cosima Serrano, la mamma di Sabrina, vestita con abiti per uscire. Quando lo stesso teste transitò con la propria auto dinanzi a casa Misseri, Cosima – ha riferito il testimone – non c'era più. Battista Serrano ha aggiunto che quella è stata l'unica volta che ha visto Sabrina e Ivano insieme a quell'ora sotto casa Misseri. La circostanza non è mai stata riferita né da Sabrina né da Ivano nei verbali d'inchiesta.

Ore 10.45. Parla Giuseppa Serrano. Giusy Serrano, cliente, cugina e vicina di casa di Cosima Serrano, ha confermato il racconto fatto nell'udienza precedente dalla madre, Anna Parisi, riguardo un episodio accaduto il giorno prima della confessione di Michele Misseri del 6 ottobre del 2010 quando l'uomo, marito di Cosima e padre di Sabrina, al termine del lungo interrogatorio, si autoaccusò del delitto della nipote Sarah. La testimone ha riferito – così come aveva già detto in aula in un'altra udienza la madre, Anna Parisi – che il 5 ottobre 2010 udì le grida di un uomo provenire da casa Misseri, senza però capire le parole. L'episodio, in riferimento a chi stesse gridando e ai motivi della lite, non è stato mai chiarito nell'inchiesta. La teste la mattina del 5 ottobre si recò a casa d Sabrina per un trattamento estetico (al posto della madre che aveva preso in un primo tempo l'appuntamento) e bussò al citofono del portone di casa Misseri diverse volte ma non rispose nessuno. Dall'interno sentì le urla di una voce maschile. Alla fine rinunciò e tornò nell'abitazione della madre nella stessa via Deledda. Poco più tardi a casa sua si presentò Sabrina dicendo che poco prima non aveva potuto risponderle e aprirle perché era in bagno.

Ore 11.45. Parla Ada Maria Serrano. Poco prima delle 14 del 26 agosto 2010, giorno in cui Sarah Scazzi venne uccisa, una cugina di terzo grado di Sabrina Misseri, Ada Maria Serrano, telefonò a Sabrina per fissare un appuntamento per trattamenti estetici che quest'ultima doveva fare, ma nessuno rispose. Lo ha riferito la stessa Ada Maria Serrano testimoniando al processo per l'omicidio di Sarah. La circostanza, per l'accusa, sarebbe importante perché Sarah sarebbe stata uccisa in un arco di tempo tra pochi minuti prima e pochi minuti dopo le 14. Sabrina e la cugina, secondo quanto riferito dalla teste, si videro il giorno dopo e Sabrina le avrebbe manifestato la convinzione che Sarah fosse stata rapita.

Ore 11.55. Parla Bruno Scarciglia. «Michele Misseri mi riferiva di Sarah che era molto timida e non scendeva mai in garage e che quando era pronto da mangiare lei lo chiamava dall’abitazione». E' quanto ha riferito Bruno Scarciglia al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Il teste ha confermato quanto già riferito agli investigatori in istruttoria. La circostanza contrasta con la tesi del collegio difensivo di Cosima e Sabrina, e con la prima e l’ultima confessione di Michele Misseri, secondo la quale quest’ultimo avrebbe strangolato Sarah in garage. Scarciglia ha aggiunto che Michele Misseri gli diceva che, a suo parere, Sarah non sarebbe stata capace di allontanarsi da casa da sola. Il teste ha anche detto di non aver mai sentito vociferare di molestie sessuali compiute da Michele Misseri nei confronti di qualche ragazza o donna.

Ore 12.30. Parlano Livia Olivieri, Oronzo Dimitri, Cosimo De Vanna, Marianna Cucci e Carmelo Sacco. Dichiarazioni irrilevanti. Due acquisendo direttamente i verbali in atti.

La presidente della Corte d'assise, Rina Trunfio, ha aggiornato i lavori del processo al prossimo 13 marzo. Per quella data sono stati convocati altri nove testimoni. Si tratta di Antonio Rizzato, Giacomo Conforti, Pasquale Di Mauro, Giovanna Donvito, Vito Lippolis, Gianvito Rossano, Biagio Caraglia, l'appuntato scelto dei Carabinieri Giuseppe Di Noi ed Emma Serrano, sorella di Cosima e Concetta Serrano. Quest'ultima è la madre della vittima.

13 marzo. Nona udienza. Parla Giacomo Conforti, Pasquale Di Mauro, Giovanna Donvito, Vito Lippolis, Gianvito Rossano, Biagio Caraglia, Giuseppe Di Noi, Carmelo Salvatore Parisi ed Emma Serrano.

L’obiettivo dell’accusa è quello di chiarire se Cosima Serrano la mattina è andata a lavorare nei campi oppure è rimasta a casa, ma tace la circostanza, come sostiene l’accusa, per nascondere la tensione fra la figlia Sabrina e la nipote Sarah. Per fare luce su questo punto sarà interrogato il datore di lavoro dell’imputata, Pasquale Di Mauro. Cosima ha sempre sostenuto di essere andata al lavoro quella mattina. Una circostanza confermata dal datore di lavoro, ma questo non ha dissolto i sospetti degli inquirenti secondo i quali potrebbe trattarsi di un tentativo di costituirsi un alibi per la mattina. Fra i testimoni della nona udienza del processo sul delitto di Avetrana, c’è la sorella dell’imputata, Emma Serrano. E’ stato citato anche Antonio Rizzato, proprietario del terreno in cui si trova il pozzo, in contrada Mosca. Riferirà sui lavori commissionati in passato a Michele Misseri per ricoprire il pozzo. Mentre Carmelo Salvatore Parisi sarà ascoltato sui lavori agricoli eseguiti con Michele nel corso del mese di settembre e in particolare il giorno del ritrovamento del cellulare di Sarah, il 29 settembre. Citati dai pm Mariano Buccoliero e Pietro Argentino anche Bruno Caraglia, proprietario del Consorzio agrario, una cliente di Sabrina, Giovanna Donvito, i tre operai impegnati in un cantiere nei pressi di via Deledda, Giacomo Conforti, Vito Lippolis, Gianvito Rossano e l’appuntato scelto dei carabinieri Giuseppe Di Noi in servizio alla stazione di Avetrana.

Intanto è scattato l’arresto bis nei confronti di Cosima e Sabrina Misseri. I carabinieri del Nucleo investigativo del comando provinciale hanno notificato in carcere alle due donne l’ordinanza emessa il 22 novembre 2011 dal tribunale del riesame di Taranto. L’esecuzione del provvedimento era prevista dopo la rinuncia della difesa al ricorso in Cassazione, una scelta, quella dei legali, dettata da una strategia tesa ad evitare che un eventuale pronunciamento sfavorevole alle due imputate pregiudicasse irrimediabilmente la loro posizione. Il riesame ha accolto per la seconda volta il ricorso dei pm Mariano Buccoliero e Pietro Argentino i quali a maggio 2011 avevano chiesto l’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di madre e figlia per i reati di concorso in sequestro di persona, omicidio e soppressione del corpo di Sarah Scazzi. Il gip Martino Rosati dai capi d’imputazione aveva escluso il sequestro di persona. All’epoca, però, erano ancora in corso le indagini sulla scena inquietante riferita dal fioraio Giovanni Buccolieri il quale ha raccontato agli investigatori di aver visto, nel pomeriggio del 26 agosto 2010, Cosima che costringeva Sarah a salire a bordo della sua auto. La testimonianza, ritrattata e liquidata come un sogno dal fioraio, è stata ritenuta attendibile dal riesame e, in precedenza anche dalla Cassazione, perchè supportata dal contenuto di alcune intercettazioni.

«Sarah non sarebbe mai scesa nel garage, neanche accompagnata»: era uno dei commenti che Emma Serrano fece con la sorella Cosima dopo che la quindicenne di Avetrana, uccisa il 26 agosto 2010, era scomparsa. Lo ha riferito la stessa Emma Serrano. Emma ha aggiunto che si reca quasi ogni settimana in carcere a trovare la sorella, mentre i rapporti con l'altra sorella nonché madre di Sarah, Concetta Serrano, si sono interrotti per volontà di quest'ultima dopo il coinvolgimento della famiglia Misseri nel delitto. La teste ha riferito anche di una circostanza particolare. Un giorno, dopo la scomparsa della quindicenne, vide un cane randagio, che solitamente Sarah accudiva, che aveva in bocca un pezzo di corda e stazionava nei pressi del garage di casa Misseri. Quel pezzo di corda venne conservato da Emma, dopo che aveva parlato della circostanza anche con Concetta, ma dopo qualche giorno venne gettato per poi essere recuperato dai carabinieri. Il giorno della scomparsa e uccisione di Sarah, Emma Serrano vide due volte la nipote: la prima volta la ragazzina si recò a casa sua per portarle del denaro, la seconda volta fu vista di sfuggita per strada mentre rincasava. Ad informare Emma della scomparsa di Sarah furono, nel pomeriggio del 26 agosto, Sabrina, l'amica Mariangela e la sorella di quest'ultima, minorenne, che la stavano cercando. Molti anni fa Michele Misseri avrebbe molestato una parente: ha continuato Emma Serrano in aula. Quello del presunto movente sessuale è una delle tesi avanzate dalla difesa delle due imputate, mentre Michele Misseri anche di recente si è accusato del delitto. Emma Serrano ha riferito di avere appreso delle presunte molestie dalla stessa vittima, senza indicare chi sia, aggiungendo che l'episodio si sarebbe verificato molti anni fa quando ancora non erano nate le figlie di Michele Misseri, quindi oltre 25 anni fa. «L'ho saputo a gennaio 2011 - ha detto Emma - siccome l'ho vista molto a disagio, non le ho chiesto quando fosse successo. Mi ha detto che lei e Michele erano nello stesso luogo e lui l'aveva molestata. Da quel momento ho visto Michele in maniera diversa». Emma ha riferito questa circostanza durante l'esame del legale della famiglia Scazzi, Nicodemo Gentile. Alla richiesta del legale di ulteriori dettagli sulle presunte molestie Emma ha risposto: «Preferisco che lo dica la diretta persona». Poi a metà mattinata in aula è arrivata la verità. Michele Misseri avrebbe molestato la sorella della moglie Cosima Serrano, Dora, quando questa aveva circa 15 anni: lo ha riferito in aula dopo essere stata ammonita dal presidente della Corte di Assise, Rina Trunfio, durante l'esame da parte del pm Mariano Buccoliero, che insisteva per avere chiarimenti sull'episodio citato in precedenza dalla stessa testimone. Emma Serrano, incalzata dal presidente della Corte, ha aggiunto di aver appreso la circostanza dalla stessa sorella Dora che lo aveva detto in precedenza al marito, e di sapere che la sorella sarebbe poi andata dai carabinieri a denunciare il fatto. La teste non ha indicato comunque la circostanza precisa in cui avrebbe saputo delle presunte molestie subite dalla sorella, dicendo solo di averlo appreso «qualche anno fa».

Durante l'udienza sono stati ascoltati anche altri testimoni: in particolare, Pasquale Di Mauro, ha confermato che la mattina del 26 agosto 2010, giorno dell'uccisione di Sarah, accompagnò con il suo furgone al lavoro in campagna alcuni braccianti, tra i quali Cosima Serrano, riaccompagnandola a casa intorno alle 13.15-13.20. Il teste ha detto di ricordare la circostanza per aver segnato le presenze su un foglietto che comunque non ha mai consegnato ai carabinieri, neppure quando venne sentito dai militari in caserma. Un altro testimone, Giacomo Conforti, operaio che era al lavoro quel giorno in una scuola media a poche decine di metri da casa Misseri, ha riferito che nel pomeriggio due donne e un uomo si avvicinarono e gli chiesero se avesse visto passare una ragazzina bionda, rispondendo di no. Il teste non ha saputo riconoscere in aula se una delle due donne fosse Sabrina Misseri. Un conoscente di Michele Misseri, Biagio Caraglia, ha invece dichiarato di non aver mai sentito che Michele Misseri avrebbe molestato donne o ragazzine.

Rendiconto della giornata.

ORE 11:00 – Parla Emma Serrano. Emma Serrano, sentita come testimone, ha riferito di avere appreso delle presunte molestie dalla stessa vittima, senza indicare chi sia, aggiungendo che l'episodio si sarebbe verificato molti anni fa quando ancora non erano nate le figlie di Michele Misseri, quindi oltre 25 anni fa. «L'ho saputo a gennaio 2011 – ha detto Emma – siccome l’ho vista molto a disagio, non le ho chiesto quando fosse successo. Mi ha detto che lei e Michele erano nello stesso luogo e lui l'aveva molestata. Da quel momento ho visto Michele in maniera diversa». Emma ha riferito questa circostanza durante l’esame del legale della famiglia Scazzi, Nicodemo Gentile. Alla richiesta del legale di ulteriori dettagli sulle presunte molestie Emma ha risposto: «Preferisco che lo dica la diretta persona». Michele Misseri avrebbe molestato la sorella della moglie Cosima Serrano, Dora, quando questa aveva circa 15 anni. La teste ha riferito il nome dopo essere stata ammonita dal presidente della Corte di Assise, Rina Trunfio, durante l’esame da parte del pm Mariano Buccoliero, che insisteva per avere chiarimenti sull'episodio citato in precedenza dalla stessa testimone. Emma Serrano, incalzata dal presidente della Corte, ha aggiunto di aver appreso la circostanza dalla stessa sorella Dora che lo aveva detto in precedenza al marito, e di sapere che la sorella sarebbe poi andata dai carabinieri a denunciare il fatto. Poi ha parlato del rapporto tra la sorella Concetta Serrano Spagnolo, madre della vittima, e l'altra sorella Cosima. A quest'ultima Emma è rimasta più vicina sin dopo il primo arresto di Sabrina, ma anche dopo i nuovi arresti di madre e figlia. La teste ha affermato che le relazioni in famiglia prima di questi fatti erano buone e che la questione dell'eredità dei loro genitori non aveva creato tensioni, tanto che, quando i carabinieri chiedevano di sentire da sola Concetta in caserma, tutte e tre avrebbero chiesto di essere presenti perchè per loro era la stessa cosa. La donna ha negato che nel periodo della scomparsa ci fossero sospetti sulla badante rumena di casa Scazzi, Ecaterina Pantir, parte lesa nel processo per le calunnie che Sabrina le avrebbe rivolto, anche se il procuratore aggiunto Pietro Argentino le ha ricordato un verbale di testimonianza a sommarie informazioni durante il periodo della scomparsa di Sarah, risalente al 26 agosto del 2010, in cui la stessa Emma avanzava dei dubbi sulla collaboratrice domestica. Infine ha detto di essere stata convinta che Sarah non sarebbe mai scesa in garage. E di averlo detto a Cosima durante il periodo delle ricerche. Molti i 'non ricordo' sulla visita che, insieme a Cosima, fece a gennaio 2011, cioè durante le indagini, al cognato di quest'ultima, Carmine Misseri, imputato per concorso in soppressione di cadavere, durante il quale la stessa Cosima tirò fuori un telefonino di Sabrina cercando di farlo accendere all'uomo ma quest'ultimo, insospettito per una possibile trappola, si sarebbe rifiutato proprio per non compromettersi come non avrebbe accettato la proposta di estrarre un altro telefonino incastrato nell'auto di famiglia.

ORE 12.35 – Parlano Pasquale di Mauro, Giacomo Conforti, Biagio Caraglia, Giovanna Donvito, Vito Lippolis, Gianvito Rossano, Carmelo Salvatore Parisi. Con l’audizione di altri testimoni, si è conclusa la nona udienza del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. In particolare un testimone, Pasquale Di Mauro, ha confermato che la mattina del 26 agosto 2010, giorno dell’uccisione di Sarah, accompagnò con il suo furgone al lavoro in campagna alcuni braccianti, tra i quali Cosima Serrano, riaccompagnandola a casa intorno alle 13.15-13.20. Il teste ha detto di ricordare la circostanza per aver segnato le presenze su un foglietto che comunque non ha mai consegnato ai carabinieri, neppure quando venne sentito dai militari in caserma. Un altro testimone, Giacomo Conforti, operaio che era al lavoro quel giorno in una scuola media a poche decine di metri da casa Misseri, ha riferito che nel pomeriggio due donne e un uomo si avvicinarono e gli chiesero se avesse visto passare una ragazzina bionda, rispondendo di no. Il teste non ha saputo riconoscere in aula se una delle due donne fosse Sabrina Misseri. Un conoscente di Michele Misseri, Biagio Caraglia, ha invece dichiarato di non aver mai sentito che Michele Misseri avrebbe molestato donne o ragazzine. E va in archivio a Taranto la nona udienza del processo per il delitto di Sarah. La prossima udienza si terrà il 27 marzo. Quella programmata per il 20 marzo salterà per l'astensione nazionale degli avvocati, nulla valendo che ci siano persone in carcere e che i termini prescrizionali sono sospesi, come nulla vale la fatuità della protesta nei confronti di riforme legislative di nessuna valenza fattuale. In quella udienza saranno sentiti, tra gli altri, due ufficiali dei carabinieri del Ros e due esponenti della squadra di polizia giudiziaria.

27 marzo. Decima udienza. Parla Antonio Rizzato, Antonio Calò, Giovanni Bardaro, Paolo Vincenzoni, Giuseppe Pirò.

L’udienza programmata per il 20 marzo è saltata per l'astensione nazionale degli avvocati, nulla valendo che ci siano persone in carcere e che i termini prescrizionali sono sospesi, come nulla vale la fatuità della protesta nei confronti di riforme legislative di nessuna valenza fattuale. In questa udienza saranno sentiti, tra gli altri, due ufficiali dei carabinieri del Ros e due esponenti della squadra di polizia giudiziaria.

Intanto per la serie “Chi si mette contro la Procura di Taranto è perduto” si viene a sapere che il giudice per le indagini preliminari Martino Rosati, accogliendo la richiesta del procuratore aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero, ha disposto il giudizio immediato nei confronti della psicologa Dora Chiloiro, 56 anni, dirigente dell’Asl di Taranto per la struttura complessa di psicologia clinica e psicoterapia dell’età adulta e evolutiva. La donna è difesa dagli avvocati Carlo e Claudio Petrone. Nella casa circondariale di Taranto Dora Chiloiro svolge ormai da oltre un decennio la funzione di esperto psicologo in forza di una convenzione stipulata tra la Asl e la Direzione dell’amministrazione penitenziaria. La professionista dovrà comparire in tribunale il 2 luglio 2012 in quanto non avrebbe detto la verità durante l’udienza svoltasi il 7 novembre 2011 dinanzi al giudice per l’udienza preliminare Pompeo Carriere, chiamato a vagliare la richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura nei confronti dei presunti autori dell’omicidio della 15enne di Avetrana. Era stato il procuratore aggiunto Pietro Argentino, in sede di replica, a chiedere al gup Pompeo Carriere la trasmissione degli atti riguardanti la deposizione della psicologa del carcere Dora Chiloiro per verificare la possibilità di contestarle la falsa testimonianza. La dottoressa Chiloiro, in particolare, nel corso della sua deposizione, sollecitata dalla difesa di Sabrina Misseri, aveva detto, come risulta dal verbale, di aver avuto diversi colloqui con Michele Misseri («all’inizio della detenzione con più frequenza, poi successivamente sono divenuti più radi»), aggiungendo di averlo rivisto dopo l’incidente probatorio del 19 novembre 2010, di aver saputo che verso Natale stava scrivendo lettere alle figlie e stava preparando il memoriale che poi ha consegnato al dottor Carriere nel corso dell’udienza preliminare. Testualmente la dottoressa Chiloiro ha detto: «Nelle lettere scriveva alle figlie e chiedeva perdono. Poi le lettere non venivano lette da noi. Il memoriale era invece la sua versione dei fatti, la sua confessione». La Procura, però, sostiene che, registri dei colloqui del carcere alla mano, in realtà risultano tre soli incontri tra Michele Misseri e la psicologa Chiloiro (il 10, il 13 ed il 17 ottobre 2010) e che gli stessi sono avvenuti quando il contadino di Avetrana non solo non era stato ancora sottoposto a incidente probatorio, ma non aveva nemmeno iniziato a scrivere le lettere alle figlie e il memoriale. Prova evidente, insomma, della falsa testimonianza, tanto da chiedere e ottenere l’emissione di un decreto di giudizio immediato nei confronti della professionista.

I carabinieri che si sono occupati del caso Scazzi a partire dal 29 settembre, giorno della simulazione del ritrovamento del telefonino di Sarah, sono i primi testimoni interrogati nella decima udienza del processo sull’omicidio di Sarah in corso dinanzi alla Corte d’Assise di Taranto.

Il luogotenente Giovanni Bardaro era fra i militari dell’Arma presenti sul pozzo in contrada Mosca nella notte fra il 6 e il 7 ottobre 2010. Quella sera, dopo la confessione, ha ricordato l’investigatore, Misseri “ci indicò la strada per raggiungere il pozzo all’interno del quale aveva nascosto il cadavere”.

Il contadino di Avetrana, poi, ha simulato le fasi della soppressione del corpo la mattina del 6 novembre. “Michele Misseri ci mostrò come aveva gettato nel pozzo di contrada Mosca il corpo della nipote dopo averlo imbracato con una corda”.

In relazione alle condizioni psico-fisiche di Michele, la mattina del 6 novembre, l’investigatore è fra coloro che non ha notato nulla di strano (il contadino a distanza di tempo ha sostenuto che era stordito dai tranquillanti presi in carcere la sera prima, circostanza che non risulta dai diari della casa circondariale). “Misseri ci ha portato sui luoghi della soppressione del corpo senza difficoltà. Era lucido e ci indicò l’albero di ulivo in cui aveva nascosto le chiavi della vittima”, è stata la constatazione del carabiniere.

In questa udienza, in particolare, sotto la lente finiscono i tabulati delle telefonate e degli sms degli imputati e della vittima. Ma ci sono anche testimonianze di rilievo, come quella del luogotenente Antonio Calò che descrive Michele Misseri come "lucido e collaborativo" quando portò gli inquirenti nel luogo dove aveva bruciato i vestiti e gettato la batteria. Nel frattempo, il legali di Sabrina Misseri, imputata nel delitto insieme a Cosima Serrano, hanno chiesto di acquisire tutta la documentazione clinica riguardante Michele Misseri per il periodo in cui questo è stato detenuto nel carcere di Taranto, dal 7 ottobre 2010 al 30 maggio 2011.

Dalla cartella clinica risulta che in più di un’occasione Michele Misseri si rifiutò di sottoporsi a trattamento farmacologico in carcere, contrariamente a quanto riferito dallo stesso Misseri in alcune interviste televisive nelle quali avrebbe sostenuto di aver accusato del delitto altre persone perché sotto effetto di farmaci. In aula sono presenti sia Sabrina che Cosima.

 “Uccidere per professione è un mestiere senza tempo”. È una citazione di uno scrittore di romanzi rimasta nelle bozze del cellulare di Sarah e mai inviata. Il messaggio è stato ritrovato nel corso degli accertamenti dai carabinieri del Ros, il raggruppamento operativo speciale dell’Arma che si occupa di indagini tecniche. La circostanza, che era già venuta fuori nel corso delle indagini, è stata ribadita in aula dal luogotenente Antonio Calò nel corso della sua deposizione. Il luogotenente Calò, che ha partecipato alle indagini dal 4 ottobre 2010, ha anche ricostruito una mappa dello scambio di telefonate e di sms tra Sabrina Misseri e la vittima Sarah Scazzi. Il testimone ha anche specificato quali celle telefoniche agganciarono i due cellulari. Dalla ricostruzione dei fatti è emerso che, in pochi minuti, a partire dalle 14 e 42, Sabrina provò a chiamare la cugina almeno cinque volte. Dal telefono della vittima, pur essendo libero, non ci fu risposta e si attaccò sempre la segreteria. Il cellulare di Sarah Scazzi alle 14.42 del 26 agosto 2010, giorno del suo omicidio, si trovava nel garage della famiglia Misseri, luogo nel quale 43 minuti dopo (alle 15.25) ricevette una telefonata l’apparecchio di sua zia Cosima Serrano. A ribadirlo alla corte d’assise, confermando quanto scritto in una perizia agli atti dell’inchiesta ormai da un anno, ieri sono stati il tenente colonnello Paolo Vincenzoni e il maresciallo Giuseppe Pirò, entrambi carabinieri del Ros ai quali la Procura commissionò il lavoro di mappatura dei cellulari dei protagonisti del giallo di Avetrana.

Le testimonianze degli agenti di polizia giudiziaria hanno monopolizzato la decima udienza del processo per il delitto della 15enne di Avetrana. Se i luogotenenti Giovanni Bardaro e Antonio Calò, in forza al nucleo della Procura, hanno ripercorso i mesi delle indagini, ricostruendo i percorsi fatti dai protagonisti della vicenda, i loro tabulati telefonici, le loro testimonianze, sono stati gli specialisti del Ros ad offrire al procuratore aggiunto Pietro Argentino e al sostituto Mariano Buccoliero elementi utili da utilizzare nei confronti di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano, imputate per sequestro di persona e omicidio. Una premessa tecnica è d’obbligo. Tutte le persone coinvolte nella vicenda usano cellulari Vodafone e malgrado l’aiuto fornito agli inquirenti dai tecnici del gestore, i cellulari non sono dotati di dispositivo satellitare gps e dunque è difficile accertare con estrema precisione la posizione dei cellulari. Nel caso di Avetrana c’è però una particolarità tecnica che ha aiutato gli investigatori. L’abitazione della famiglia Misseri è coperta infatti da un ripetitore Umts, quello di terza generazione (sul display dei cellulari compare infatti il simbolo 3G). Non così il garage, dove il segnale Umts non arriva e quindi i cellulari non solo scalano sulla frequenza Gsm, come avviene in questi casi, ma agganciano una cella che gli specialisti del Ros non hanno poi mai rilevato nella veranda, nel cortile e nell’abitazione degli zii di Sarah. Probabilmente una diabolica coincidenza di segnali e di campi che però ha permesso ai carabinieri del Ros di specificare in quale porzione della villetta di via Deledda si trovavano i cellulari dei protagonisti quel pomeriggio. Proprio usando questi parametri, secondo i militari del Ros, il telefono di Cosima Misseri alle 15.25 si trovava in garage, un luogo dove lei ha sempre negato di essere stata quel giorno e soprattutto in quelle ore. Invece, per 40 secondi, il suo cellulare ha agganciato un’altra cella, quella del garage, che, come detto, non è stata mai captata nella veranda, nel cortile e nell’abitazione. La mappatura telefonica compiuta dai carabinieri del Ros permette, allo stato degli atti, alla pubblica accusa di spostare ed individuare il luogo del delitto nella casa dei Misseri, dove si sarebbero trovati Sabrina, Cosima e Michele, con il corpo di Sarah successivamente trasportato nel garage. Sempre secondo la testimonianza dei militari del Ros, il 27 agosto 2010, dalle 10.26 alle 10.40, i telefonini di Cosima Serrano e di sua figlia Sabrina Misseri si trovavano in un’area rurale compresa tra Avetrana e San Pancrazio Salentino, una zona compatibile sia con la contrada Mosca, dove poi fu trovato il cadavere di Sarah, sia con la zona dove c'è l’albero di fico sotto il quale vennero rinvenuti i resti dei vestiti bruciati della vittima. Sulla perizia del Ros hanno dato battaglia gli avvocati difensori, contestando non solo la perentorietà delle conclusioni a cui i carabinieri sono giunti, ma anche il fatto che non sia più possibile ripetere l’accertamento, questa volta alla presenza dei consulenti di parte, in quanto dal settembre del 2011 la rete telefonica di Avetrana è cambiata. I Ros, peraltro, per completare il loro lavoro hanno anche consegnato alla vigilia dell’udienza una ulteriore relazione alla Procura per dimostrare che nei minuti delle chiamate finite sotto i riflettori della magistratura, ad Avetrana non c’era traffico telefonico tale da giustificare un cambio di rete. Concluso, intanto, il lavoro del perito incaricato dal pm Buccoliero di verificare il contenuto dei cellulari dei protagonisti della vicenda, lavoro conclusosi, però, senza novità rilevanti.

''Mai avuto lamentele sul comportamento di Michele Misseri in campagna, neppure con le altre donne che lavoravano nei terreni'': lo ha detto un testimone, Antonio Rizzato, al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi in corso dinanzi alla Corte di Assise di Taranto. Rizzato è il proprietario del terreno in contrada Mosca, ad Avetrana, nel quale si trova il pozzo-cisterna in cui venne nascosto il corpo della quindicenne uccisa. L'agricoltore ha riferito di conoscere Michele Misseri da quando questi era bambino e che lo stesso Misseri, così come la moglie Cosima Serrano, hanno lavorato per diversi anni nel fondo in contrada Mosca, che comprende un tendone di uva. ''Conosco Michele Misseri da 40 anni e ha lavorato per me in campagna negli ultimi otto-nove anni, dal 2001 al 2010. E' stato il migliore operaio che ho avuto. Una persona perfetta. Per me lavoravano anche delle braccianti. Nessuna di loro si è mai lamentata del comportamento di Michele. Gli volevano tutti bene''. Così Antonio Rizzato, di Erchie, nel brindisino, proprietario del terreno in contrada 'Mosca' sulla strada tra Avetrana e San Pancrazio Salentino, dove venne trovato all'interno di un pozzo il corpo della 15enne Sarah Scazzi, uccisa il 26 agosto del 2010. L'uomo è stato sentito come testimone al processo in corso davanti alla Corte di Assise di Taranto. Rizzato ha raccontato che qualche tempo prima della scomparsa della 15enne, Michele si occupò di coprire con un grosso masso il foro del pozzo del terreno. Anche Cosima Serrano, la moglie di Misseri, e le figlie, Valentina e Sabrina avevano lavorato per l'uomo in campagna.

Diario della giornata.

ORE 12:30 – Parla Giovanni Bardaro. Un ex componente della squadra di pg, Giovanni Bardaro, ha riferito nella sua deposizione anche sulla sequenza temporale con la quale la sera del 6 ottobre 2010 Michele Misseri, confessando il delitto, condusse gli investigatori al pozzo in cui era stato gettato il cadavere di Sarah.

ORE 13:47 – Parla il luogotenente della squadra di polizia giudiziaria Antonio Calò. Il teste ha riferito circostanze tecniche sulle utenze telefoniche di Sarah e di alcuni imputati, queste ultime messe sotto controllo nel corso dell’inchiesta. In particolare, i riferimenti sono alle telefonate e agli sms del 26 agosto 2010, giorno dell’uccisione di Sarah.

ORE 14:00 – La difesa di Sabrina chiede l’acquisizione delle cartelle cliniche di Michele Misseri. Al processo in corso dinanzi alla Corte di Assise di Taranto per l’omicidio di Sarah Scazzi, i difensori di Sabrina Misseri, imputata del delitto insieme alla madre Cosima Serrano, hanno chiesto l’acquisizione di tutta la documentazione clinica riguardante Michele Misseri quando questi è stato detenuto nel carcere di Taranto, dal 7 ottobre 2010 al 30 maggio 2011. La Corte si è riservata di decidere. Nel fascicolo dibattimentale c'è già la cartella clinica di Michele Misseri, almeno fino all’incidente probatorio svoltosi in carcere il 19 novembre 2010. La richiesta della difesa di Sabrina è stata avanzata durante la testimonianza di un componente della squadra di polizia giudiziaria della Procura di Taranto, Antonio Calò. Questi ha riferito, tra l’altro, che Michele Misseri, nel periodo ottobre-novembre 2010, è sempre stato «lucido e collaborativo» e che dalla cartella clinica risulta che in più di un’occasione Michele Misseri si rifiutò di sottoporsi a trattamento farmacologico in carcere, contrariamente a quanto riferito dallo stesso Misseri in alcune interviste televisive nelle quali avrebbe sostenuto di aver accusato del delitto altre persone perchè sotto effetto di farmaci.

ORE 16:11 – Parla Antonio Rizzato. «Mai avuto lamentele sul comportamento di Michele Misseri in campagna, neppure con le altre donne che lavoravano nei terreni». Rizzato è il proprietario del terreno in contrada Mosca, ad Avetrana, nel quale si trova il pozzo-cisterna in cui venne nascosto il corpo della quindicenne uccisa. L’agricoltore ha riferito di conoscere Michele Misseri da quando questi era bambino e che lo stesso Misseri, così come la moglie Cosima Serrano, hanno lavorato per diversi anni nel fondo in contrada Mosca, che comprende un tendone di uva.

ORE 16:51 – parla Paolo Vincenzoni e Giuseppe Pirò. Alle 14.42 del 26 agosto 2010 (giorno dell’uccisione di Sarah Scazzi), quando risulta dai tabulati telefonici che Sabrina Misseri tentò senza risultato di comunicare con il cellulare della cugina, il telefonino della quindicenne si trovava nel garage di casa Misseri, agganciando una cella Gsm. Lo ha riferito il comandante dei carabinieri del Ros di Lecce, tenente colonnello Paolo Vincenzoni, testimoniando al processo per l’omicidio di Sarah. I carabinieri del Ros hanno eseguito una serie di accertamenti sulle celle telefoniche agganciate dai telefonini della vittima e di alcuni imputati del processo. Vincenzoni ha aggiunto che solo in un punto del garage il cellulare di Sarah aggancia una cella telefonica Gsm, mentre nel resto del complesso abitativo della famiglia Misseri aggancia celle telefoniche Umts. I Ros hanno inoltre accertato che il 26 agosto 2010 non ci furono anomalie di rete, secondo quanto riferito dalla Vodafone, gestore della scheda telefonica del cellulare di Sarah. Anche il cellulare di Cosima Serrano, madre di Sabrina, aggancia quel giorno alle 15.25 una cella telefonica compatibile solo con il garage dell’abitazione. Secondo l’accusa, Sabrina Misseri avrebbe tentato di depistare gli investigatori facendo la telefonata alle 14.42, sapendo invece che Sarah era già morta e sostenendo invece, al cospetto dell’amica Mariangela Spagnoletti con la quale si trovava in quei frangenti, che la cugina era scomparsa.

3 aprile. Undicesima udienza. Parla Claudio Russo.

Degli otto testimoni citati dall’accusa, si è presentato solo Claudio Russo, fratello di Ivano. Nell'udienza è saltata la deposizione di altri sei testimoni per un difetto di notifica, mentre non si è presentata Anna Di Noi, per la quale è stato disposto l'accompagnamento per la prossima udienza. Le parti si sono accordate per l'acquisizione del verbale di sommarie informazioni di Antonio Calò e Ottavio Misseri (fratello di Michele). «Dopo la scomparsa di Sarah, i Misseri vennero a casa nostra a portare un cesto di funghi e chiesero a mia madre cosa avesse detto Ivano ai carabinieri». Lo ha riferito Claudio Russo, fratello di Ivano, nel corso del processo in Corte d'Assise per l'uccisione di Sarah Scazzi. Il teste ha aggiunto di aver sentito la voce di Misseri e altre voci femminili, ma non ha confermato la presenza di Cosima Serrano e delle figlie Sabrina e Valentina. Il pubblico ministero Mariano Buccoliero ha chiesto a Claudio Russo di ricordare cosa avesse fatto il 26 agosto del 2010, giorno della scomparsa e dell’omicidio di Sarah. Il teste ha detto di essere andato al mare con la fidanzata e di essere tornato a casa intorno a mezzogiorno. Suo fratello Ivano, ha aggiunto, aveva finito di mangiare e riposava sul divano. Claudio Russo ha fatto presente che parlando col fratello, dopo la notizia della scomparsa di Sarah, non si era mai parlato dell’ipotesi del rapimento. «Ivano ebbe una telefonata e sembrava sconvolto. Mi disse che l’avv. Vito Russo, difensore di Sabrina Misseri, l’aveva contattato tramite un conoscente che vende le motociclette, amico di Alessio Pisello, e gli aveva fatto intendere che il suo arresto era imminente. Ivano aveva paura delle microspie. L'avv. Russo – ha aggiunto il teste – chiese a mio fratello se l’amica Mariangela Spagnoletti avesse una relazione con lui, almeno un approccio, e se era gelosa. Cercava evidentemente di screditare Mariangela e di far emergere che avesse dei rancori nei confronti di Sabrina. Io dissi ad Ivano – ha aggiunto - di non rispondere più all’avv. Russo e poi contattammo l’avv. Tarantini per riferirgli quanto accaduto».

In tutto sono dieci i testi citati per la prossima udienza fissata per il 17 aprile: oltre ad Anna di Noi, Maurizio Misseri (figlio di Carmine), Anna Rita Panzuto, Vito Palmisano, Rita Di Noi, Salvatora Serrano (sorella di Cosima e Concetta), Pancrazio Spinelli, Antonella Spinelli, Alessandro Palmieri e Biagio Pisanò.

17 aprile. Dodicesima udienza. Parla Salvatora (Dora) Serrano.

In tutto sono dieci i testi citati per questa udienza: oltre ad Anna di Noi, Maurizio Misseri (figlio di Carmine), Anna Rita Panzuto, Vito Palmisano, Rita Di Noi, Salvatora Serrano (sorella di Cosima e Concetta), Pancrazio Spinelli, Antonella Spinelli, Alessandro Palmieri e Biagio Pisanò. Nella precedente udienza degli otto testimoni citati dall’accusa, si è presentato solo Claudio Russo, fratello di Ivano.

Ma a Taranto succede anche altro. Torna in aula venerdì 27 aprile 2012, a oltre cinque mesi di distanza dall’ultima udienza nel corso della quale si presentò solo uno dei sei testimoni citato dal pubblico ministero, il processo per la morte di Carmela Cirella, la minorenne residente al quartiere Paolo VI suicidatasi il 15 aprile del 2007 dopo aver subito una violenza sessuale e non essere stata creduta da un magistrato di Taranto. In quel caso si trattò del sostituto procuratore Vincenzo Petrocelli, lo stesso del caso Domenico Morrone e Ezzedine Sebai. Nomi conosciuti di chi si occupa di errori giudiziari. Nel processo pubblico e con i nomi dati dalla stampa (La Gazzetta del Mezzogiorno in particolare) alla sbarra ci sono Filippo Landro, di 27 anni, Salvatore Costanzo, di 26 anni, entrambi di Acireale (difesi dall’avv. Calliope Murianni), e Massimo Carnevale, di 46 anni, di Taranto (assistito dall’avv. Maurizio Besio). Rispondono di due episodi distinti, risalenti al periodo compreso fra il 9 e l’11 novembre del 2006. I due siciliani avrebbero attirato la ragazzina con una scusa all’interno del loro camper e poi l’avrebbero costretta a subire atti sessuali. Il terzo imputato, che ha sempre negato le accuse, avrebbe violentato Carmela approfittando della sua fragilità psicologica. La ragazzina era stata affidata temporaneamente a un istituto per minori disagiati. Pare che la minore, dopo essere sparita per qualche giorno, fosse tornata a casa con i segni evidenti di violenza. Altri due imputati accusati di aver stuprato Carmela hanno ottenuto dal gup del Tribunale per i minorenni la cosiddetta «messa alla prova». E’ come se il reato non fosse mai stato commesso. A cinque anni dal suicidio di Carmela Cirella, il processo stenta insomma a decollare, tanto suscitare la protesta del padre di Carmela, Alfonso Frassanito, che in una lettera aperta chiede giustizia. «Ricorre il quinto vergognoso anniversario senza giustizia per Carmela, figlia, suo malgrado, di questo paese ipocrita e incivile, che con il suo silenzio - scrive Frassanito - e la sua indifferenza si rende complice di queste atrocità. Ogni martedì, in quello stesso tribunale di Taranto - ricorda Frassanito - che per il processo contro gli stupratori di Carmela di udienze riesce a farne solo una ogni sei mesi si svolgono le udienze per il delitto, altrettanto vergognoso della piccola Sarah Scazzi. Sembra di essere a Hollywood, telecamere dappertutto, imputati divenuti vip e calca di curiosi - dice Frassanito - disposti a perdere giornate di lavoro pur di apparire davanti alle telecamere. Ma dove sono quando la giustizia la si chiede per Carmela e per altre vittime come lei? E' evidente che 5 anni, in queste condizioni, sono un lasso di tempo talmente lungo da consentirmi di sentirmi in diritto di lasciar perdere la diplomazia inutile e dichiarare la mia assoluta mancanza di fiducia nella giustizia italiana, e allo stesso tempo di manifestarla con tutti i mezzi che posso avere a disposizione».

Al di là di questa circostanza c’è un colpo di scena nel processo sulla morte di Sarah Scazzi. La perizia svolta dai Ros sulle celle agganciate dai cellulari della vittima e dei Misseri potrebbero uscire dal processo. L’avvocato Francesco De Jaco, difensore (insieme all’avvocato Luigi Rella) di Cosima Serrano, accusata insieme alla figlia Sabrina, di sequestro e omicidio della nipote, avvenuto il 26 agosto 2010, racconta a “Il Paese Nuovo” alcune novità sulla vicenda giudiziaria più seguita dagli italiani. Secondo il legale, dal dibattimento, in corso dinanzi alla Corte d'Assise di Taranto, stanno venendo alla luce tutte le falle dell'impianto accusatorio.

Avvocato, la perizia sulle celle telefoniche a sostegno dell’accusa potrebbe uscire dal processo. Perchè? «Sta a noi deciderlo, visto che era stata inserita nell'elenco degli accertamenti ripetibili, quindi verificabili. Questo, tuttavia, non è possibile farlo perchè la compagnia telefonica Vodafone lo scorso luglio ha modificato la mappatura delle celle, e la Procura non ha neppure avvisato la difesa. E quindi potremmo chiedere che l’accertamento non venga introdotto come prova a carico.»

Lo farete? «Lo stiamo valutando. In realtà a noi quell'esame potrebbe anche andar bene, poichè non stati trovati ulteriori elementi che lo supportino. La perizia disposta dalla Procura, e illustrata alla Corte dal tenente colonnello Paolo Vincenzoni, comandante dei carabinieri del Ros, ha dimostrato che il telefono di Cosima Serrano si è agganciato al garage solo un'ora dopo l'omicidio. Dove è quindi l'ipotesi di reato? Non è possibile che si sia andata a cercare il marito?»

L'accusa e gran parte dell'opinione pubblica non hanno dubbi: le assassine sono zia e cugina, mentre zio Michele si è occupato di occultare il cadavere in un pozzo. Come pensa di riuscire a difendere chi sembra già essere stato condannato? «Innanzitutto, c'è una pessima abitudine in Italia di fare i processi mediatici, dove la gente non ha cognizione reale del rapporto processuale e quindi sposa la tesi dell’accusa. E la responsabilità è in gran parte di un certo modo, sbagliato, di fare giornalismo. Questo caso farà scuola perchè il processo sta dimostrando l'opposto della tesi accusatoria. Tutte le testimonianze stanno sgretolando l'ipotesi della gelosia e della tempistica della ricostruzione fatta dagli inquirenti per arrivare ad accusare le due donne.»

Quanto al movente della gelosia di Sabrina per Ivano Russo? «L’accusa doveva in qualche modo trovare una logica per giustificare la responsabilità di Sabrina. Logica che è stata screditata: il ragazzo, ascoltato come teste, ha riferito (e lo stesso hanno fatto altri testimoni) che Sabrina Misseri non aveva mai palesato atteggiamenti di gelosia nei suoi riguardi, specie nei confronti di Sarah verso la quale aveva invece un atteggiamento protettivo e materno. Lo stesso vale per Cosima, la zia dalla quale desiderava essere adottata. Oltretutto quella che doveva essere la grande accusatrice, Mariangela Spagnoletti, in due minuti su sei ore di interrogatorio, ha detto di aver avuto solo la sensazione che Sabrina fosse gelosa. Ma non può essere una sensazione a far aprire le porte del carcere a una ragazza di vent'anni e condannarla all’ergastolo.»

Non ci sono quindi indizi di colpevolezza? «No, ma pubblica accusa e media non tornano sui loro passi perchè sarebbero screditati. Lo stesso procuratore generale della Cassazione, per la prima volta in Italia, ha sostenuto la tesi di dover spostare il processo. Quando una procura generale smentisce la propria procura vuol dire che evidentemente qualcosa non ha funzionato. Preciso anche che per ben quattro volte la Corte di Cassazione si è pronunciata sostenendo non ci fossero gravi indizi di colpevolezza tali da giustificare la misura restrittiva sia per Sabrina che per Cosima.»

Michele Misseri permette agli inquirenti di ritrovare il cadavere della piccola. Prima si autoaccusa, poi tira in ballo la figlia, e infine tenta di scagionarla. Perchè l’avrebbe accusata ingiustamente? «Mente dopo il suo arresto e durante l’incidente probatorio. Su suggerimento involontario di qualcuno, ritenendo fosse più utile, parla di un incidente che aveva riguardato la figlia. Lo fa senza essere al corrente che quella bugia avrebbe potuto costarle il carcere a vita. Ma una volta in cella, torna definitivamente sulle sue posizioni. Alla psicologa e allo psichiatra, dichiara di essere lui il colpevole. Quindi, ci troviamo di fronte a due innocenti dentro e a un responsabile fuori. È lui che fa ritrovare il cadavere, è lui che consegna il cellulare e le chiavi. E questa è la prova.»

Da aguzzino finisce con l'indossare i panni della "vittima". Vittima di una famiglia che lo maltratta e gli dà da mangiare gli avanzi? «Misseri è stato descritto come persona mite, ma in realtà è molto forte anche fisicamente (è in grado di sollevare fino a cento chili). C'è un'altra circostanza che non può essere tralasciata. Nel maggio del 2010 aveva urtato la testa in campagna. In seguito all'incidente era diventato molto irascibile: minaccia la moglie prima con un'accetta, poi con una pietra. Per questo la coniuge si rifiutava di dormire con lui. Quanto agli avanzi non vanno intesi come scarti: Cosima preparava cibo in quantità maggiori così da non dover cucinare per un paio di giorni, dovendosi recare in campagna. I cosiddetti avanzi erano destinati a tutto il nucleo familiare, non solo al marito.»

Che cosa ha fatto Cosima il giorno del delitto? «Si reca in campagna alle 4 del mattino e ritorna a casa alle 13.40, esausta dalla fatica e dal caldo (c'erano 37 gradi quel giorno). Stando alla ricostruzione dell'accusa, lei avrebbe trovato la forza di inseguire Sarah (che era giunta alle 13.55), mettendosi al volante dell'auto; Sabrina invece si sarebbe seduta dietro. E già questo è anomalo. Poi l'avrebbero raggiunta, ma a scendere dal mezzo per rincorrerla sarebbe stata l'anziana, anziché la figlia. Poi la 15enne anziché scappare avrebbe ubbidito alla zia salendo in auto. È evidentemente una menzogna, raccontata da uno dei testimoni all'amante solo per "vantarsi", ma smontata dallo stesso agli inquirenti ai quali ha spiegato che si trattava di un sogno.» In sede di udienza la Corte d'Assise ha acquisito il verbale con le dichiarazioni di Anna Di Noi ed ha provveduto ad ascoltare gli altri 9 testimoni citati dal pubblico ministero Mariano Buccoliero.

Rendiconto della giornata.

Ore 10:00 – Audizione di Rita Di Noi, del marito Vito Palmisano e dell'avv. Anna Rita Panzuto in riferimento a un incontro avvenuto in casa del legale il giorno della scomparsa di Sarah. Palmisano ha riferito di aver visto una station wagon vecchio tipo color vinaccia che procedeva ad alta velocità in direzione mare e passò due volte nel giro di cinque minuti. «Il conducente - ha detto il testimone, che ha poi riconosciuto in foto una Fiat Marengo - mi ha guardato: aveva un viso abbastanza rotondo con un ciuffo di capelli e indossava un girocollo blu». L'auto indicata è simile a quella di Cosimo Cosma (nipote di Michele Misseri), accusato anche lui di soppressione di cadavere.

Ore 11:49 – Parla Maurizio Misseri. «Il giorno dopo l’arresto di Sabrina Misseri vennero a casa mia la sorella Valentina e gli avvocati Russo e Mongelli. Valentina disse che era necessario cambiare avvocato al padre Michele perchè era stato nominato d’ufficio e non andava bene. Indicò l’avv. Mongelli, che scrisse il testo del telegramma da mandare in carcere». Lo ha detto, testimoniando in Corte d’Assise, a Taranto, Maurizio Misseri, figlio di Carmine, imputato di soppressione di cadavere nel processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Il teste ha aggiunto di aver mandato personalmente il telegramma da casa dello zio Ottavio. Maurizio Misseri ha poi detto di aver appreso della scomparsa di Sarah il 26 agosto 2010 dopo essere rientrato a casa dal lavoro e di aver telefonato intorno alle 21.40 a suo zio Michele, col cellulare del padre Carmine, per sapere cosa fosse successo.

Ore 13:07 – Parla Pancrazio Spinelli. «Mia moglie mi disse che quando aveva 12-13 anni Michele Misseri le fece delle avances dicendole “Che dobbiamo fare, facciamo qualcosa”. Lei si impaurì e se ne andò. Non successe nient'altro». Lo ha detto Pancrazio Spinelli, marito di Dora, una sorella di Concetta e Cosima Serrano, nel corso del processo per l’uccisione della piccola Sarah Scazzi. La circostanza è stata chiesta a Spinelli in relazione a dichiarazioni fatte in aula il 12 marzo scorso da un’altra sorella di Concetta e Cosima, Emma Serrano, secondo la quale Dora subì, circa 25 anni fa, quando era una ragazzina, molestie sessuali da parte di Michele Misseri. Emma Serrano aggiunse nella stessa udienza che Dora ne aveva parlato col marito, Pancrazio Spinelli, che per questo è stato sentito oggi. L’uomo ha confermato la circostanza spiegando di aver anche saputo che l’episodio delle avances sarebbe avvenuto nella casa materna della donna. «Mia moglie – ha detto ancora Spinelli – non mi disse che Michele Misseri la toccò e non mi ha raccontato di altri episodi. Ironizzai su altri risvolti, ma lei minimizzò. Non ne feci un problema». Il teste ha aggiunto di aver parlato nuovamente di questo episodio dopo l’arresto di Michele. «Quando sapemmo che Michele aveva avuto attenzioni sessuali nei confronti della vittima, andammo a casa di Cosima e Dora disse le stesse cose che aveva già rivelato a me». La versione della morte della piccola Sarah Scazzi per un incidente occorso mentre nel garage lo zio le faceva molestie sessuali compare in più versioni delle tante sull'omicidio fornite da Michele Misseri nel corso delle indagini.

Ore 13:36  – Parla Dora Serrano. Dora è sorella di Cosima e vive a San Pancrazio Salentino, comune del Brindisino poco distante da Avetrana, e nella cui casa Sarah in quell'agosto 2010 trascorse alcuni giorni prima di far ritorno ad Avetrana. Piange in aula, Cosima Serrano, mamma di Sabrina. La 'donna sfinge' per la prima volta mostra un'emozione. La zia di Sarah, detenuta insieme alla figlia con l'accusa di aver ucciso il 26 agosto del 2010 ad Avetrana la nipote quindicenne, si scioglie in lacrime quando al banco dei testimoni arriva la sorella Dora. Il volto è segnato dal pianto durante la deposizione della più piccola delle sorelle Serrano. Dora conferma, nel processo, le 'avances', oltre trent'anni prima da parte del cognato Michele Misseri quando lei era un'adolescente. Dora racconta di quando, quindicenne (viveva ancora nella casa paterna) venne avvicinata da Michele, che da poco aveva sposato la sorella Cosima. In quell'occasione - ha raccontato oggi a Taranto nella dodicesima udienza del processo in corte d'Assise - Michele le sfioro appena il braccio con la mano e sommessamente, mentre erano soli, le chiese in dialetto " amma' fa' na' cosa?". A quel punto, ripercorre Dora davanti alle sorelle Concetta (madre di Sarah) e Cosima, scappai via dalla stanza. Dora Serrano, la zia di Sarah Scazzi, sentita nell'aula 'Emilio Alessandrini' del Tribunale di Taranto nel processo in Corte di Assise per l'omicidio della 15enne di Avetrana, ha praticamente confermato le presunte avances di molti anni fa da parte del cognato Michele Misseri che erano state rivelate dalla sorella Emma in una precedente udienza. L'episodio si sarebbe verificato quando la donna aveva 15 anni. Si tratta della testimonianza più attesa della dodicesima udienza del processo che vede alla sbarra Sabrina Misseri e Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della vittima, le due principali imputate, accusate di concorso in omicidio, sequestro di persona e soppressione di cadavere. Entrambe sono detenute. Le presunte molestie da parte del cognato Michele sarebbero avvenute su un terrazzo quando Michele era agli inizi del suo matrimonio con Cosima. Dora Serrano solo durante le indagini per il delitto di Sarah ha rivelato questa circostanza ai carabinieri. La sua deposizione ha presentato qualche contraddizione. Prima di lei anche il marito Pancrazio Spinelli ha confermato il racconto della moglie. La coppia vive nella vicina cittadina di San Pancrazio salentino. La testimonianza può essere importante poiché Michele, che si autoaccusa del delitto, aveva detto che qualche settimana prima avrebbe molestato la vittima. «Una sera, quando io ero ragazzina, le mie sorelle mi chiesero di andare sul terrazzo e di mettere al riparo i vasi con le piantine. Arrivò Michele Misseri per aiutarmi e mettemmo a posto i vasi. Finita questa cosa si avvicinò e mi disse alcune parole, tipo: 'Dobbiamo fare una cosa?'. Poi mi sfiorò il braccio destro e io scappai via. Tornai giù dalle scale e andai in camera mia senza riferire nulla a nessuno». Lo ha detto ai giudici oggi Dora Serrano, 44 anni, sorella di Cosima e Concetta, nel corso del processo per l'uccisione di Sarah Scazzi. «Raccontai l’episodio a mio marito e dopo l’arresto di Michele anche a sua moglie Cosima. In seguito – ha aggiunto – mi contattarono gli avvocati Russo e Velletri (primi avvocati di Sabrina Misseri) perchè avevano bisogno di una testimonianza in favore di Cosima, ma questo fatto che mi è capitato è vero. Avevo 15 anni quando avvenne l’episodio ed ero a casa dei miei genitori, in via Martiri d’Ungheria. C'erano papà, mamma, Emma e mi pare Concetta, ma non ricordo bene». Dora Serrano riferì l’episodio a Cosima Serrano nell’ottobre 2010, quando venne arrestato Michele Misseri. Il 18 gennaio 2011 si recò dai carabinieri di Avetrana per raccontare lo stesso episodio. «Michele – ha osservato la teste – abitava al piano superiore a quello dove abitavano i miei genitori. Per andare sul terrazzo c'erano le scale esterne e non c'era bisogno di passare dalla nostra abitazione. Mio marito, che diceva che era tutto normale, forse ha dimenticato che gli dissi di essere stata anche sfiorata da Michele». Il pm, Mariano Buccoliero, ha contestato il fatto che se l'episodio si verificò nel 1982 Concetta abitava altrove perchè era stata data in adozione. Nel corso della deposizione di Dora Serrano, sua sorella Cosima, presente in aula insieme alla figlia Sabrina Misseri, ha pianto. Pancrazio Spinelli, marito di Dora Serrano, durante il confronto con la moglie, ha detto di non ricordare se la donna gli avesse raccontato di essere stata sfiorata sul braccio da Michele Misseri in occasione dell’episodio delle presunte avances. Ha confermato invece che era in casa quando entrambi ricevettero la visita degli avvocati Russo e Velletri. Nel corso della testimonianza in Corte d’Assise, in seguito a contestazioni del pubblico ministero, Dora Serrano ha detto che l’episodio delle presunte 'avances' da parte di Michele Misseri sarebbero avvenute dopo che lei aveva ultimato le scuole medie e in quella occasione forse aveva anche meno di 15 anni. «Dopo quell'episodio – ha poi osservato – i comportamenti con Michele Misseri erano normali, come se nulla fosse accaduto. Raccontai anche ad Emma quanto mi era capitato. Andai a casa sua, ma mio marito non ne era a conoscenza». La teste ha aggiunto di essere andata a trovare Cosima in carcere con la sorella Emma. «Non abbiamo parlato – ha riferito – delle responsabilità, di chi potesse aver ucciso Sarah». Uno dei legali della famiglia Scazzi, che è parte civile, Luigi Palmieri, ha formulato una contestazione ricordando come Emma Serrano avesse dichiarato invece di averne parlato con Dora e che concordarono sulla circostanza che Sabrina «non avrebbe potuto fare male a nessuno». La donna ha quindi dichiarato di essere d’accordo con la sorella Emma. La Corte d’Assise, su richiesta del pm Buccoliero, ha disposto un confronto tra Dora Serrano e il marito Pancrazio Spinelli in relazione alle confidenze sulle presunte 'avancè di Michele Misseri.

Ore 18:45  – Parla Alessandro Palmieri. «L'avv. Vito Russo intimorì Ivano Russo perchè quest’ultimo si era rifiutato di sottoscrivere un verbale. L’approccio fu tranquillo, ma poi i toni si fecero accesi». Lo ha riferito Alessandro Palmieri, colui che agì da intermediario e offrì il suo telefono Blackberry per registrare le dichiarazioni di Ivano Russo, raccolte dall’avv. Vito Russo, ex legale di Sabrina Misseri, nell’ambito di indagini difensive. Palmieri, interrogato dal pm Mariano Buccoliero e controesaminato dall’avv. Gianluca Pierotti, difensore di Vito Russo, ha peraltro aggiunto di non aver visto strappare alcun verbale e che le registrazioni le curava in prima persona. In una delle precedenti udienze, invece, Ivano Russo disse che in un incontro, al quale erano presenti anche l’avvocato Emilia Velletri (moglie di Vito Russo e anche lei ex legale di Sabrina Misseri) e lo stesso Alessandro Palmieri, l’avvocato Vito Russo cancellò l’audio e strappò il cartaceo sostenendo che non andava bene per la loro assistita.

E' stato ascoltato anche un teste minore, Biagio Fusarò, in relazione a un incontro avuto con Sarah Scazzi la mattina del 26 agosto 2010, giorno della scomparsa e dell’uccisione della quindicenne.

Nell’udienza di martedì prossimo, 24 aprile, saranno ascoltati altri testimoni, tra i quali Antonella Spinelli, figlia di Dora Serrano, sorella di Cosima, la donna accusata dell’omicidio insieme alla figlia Sabrina Misseri.

24 aprile. Tredicesima udienza. Parla. Antonella Spinelli, Elena Baldari, Maria Ferrara, Salvatore Misseri, Michele Genovino, Clorinda Ferrara, Antonietta Genovino e Claudio Benni.

Sono otto i testimoni che saranno interrogati nella tredicesima udienza del processo sull’omicidio di Sarah Scazzi che inizierà fra poco dinanzi alla Corte d’assise di Taranto. Ma i riflettori saranno puntati soprattutto su tre di essi. La cugina di San Pancrazio Salentino, Antonella Spinelli, coetanea di Sarah, riferirà sugli ultimi giorni di quest’ultima. La vittima si è fermata a casa sua dal 23 al 25 agosto, quindi fino alla vigilia dell’assassinio. La ragazzina conosceva le amicizie di Sarah e i profili aperti su Facebook. E’ stata lei a fondare sul social network, nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa, quindi a fine agosto 2010, il gruppo per cercare Sarah. In quel periodo, la speranza di ritrovarla viva alimentava ancora le ricerche di forze dell’ordine e volontari. Nessuno poteva immaginare quale orrenda fine avesse fatto la povera Sarah, uccisa e gettata in fondo ad un pozzo. E’ atteso anche l’esame della mamma di Ivano Russo, il ragazzo conteso da Sarah e Sabrina. Elena Baldari è stata ascoltata più volte nel corso delle indagini sul pomeriggio del figlio Ivano, il ragazzo conteso da Sarah e Sabrina. Nelle precedenti udienze sono stati ascoltati lo stesso Ivano e il fratello Claudio. Oggi toccherà alla mamma.

I pm Mariano Buccoliero e Pietro Argentino hanno citato anche Maria Ferrara, Salvatore Misseri, Michele Genovino, Clorinda Ferrara, Antonietta Genovino e Claudio Benni. Quest’ultimo è il marito dell’avvocato Anna Rita Panzuto, originaria di Avetrana e residente a Bologna, dove svolge la professione di avvocato civilista, ascoltata nella precedente udienza. Intanto, l’intervista di Sabrina fatta tramite uno dei suoi avvocati, Nicola Marseglia, al settimanale “Di Più” rischia di aprire un altro caso. A quanto pare, la Procura sarebbe intenzionata a produrre in aula le dichiarazioni della ragazza chiedendo alla Corte l’acquisizione. E’ già accaduto per altre interviste ai protagonisti del delitto di Avetrana. Non era ancora accaduto, invece, per un articolo pubblicato da un giornale di gossip. Una vergogna nazionale. A Taranto: subisci e taci. E dire che Sabrina in carcere è stata in buona compagnia. Durante la permanenza in carcere di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano, con loro e per altri fatti sono stati reclusi il Sostituto della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio; il giudice civile presso il Tribunale di Taranto, Pietro Vella; l’ex sindaco di Taranto e Parlamentare nazionale, Giancarlo Cito. Ecc. Ecc. 

Comunque, può Sabrina Misseri, in custodia cautelare in carcere dal 15 ottobre del 2010 per l’omicidio della cugina Sarah Scazzi, rilasciare interviste? A rispondere a questa domanda sarà probabilmente la Procura, destinataria della segnalazione che la direttrice del carcere di Taranto Stefania Baldassarri ha inviato anche all’Ordine dei giornalisti e all’Ordine degli avvocati dopo la pubblicazione di una lunga intervista al settimanale «Di Più» e di altre due interviste al quotidiano «La Stampa» e al sito «Tgcom24». Le interviste sono state realizzate grazie alla fattiva collaborazione dell’avvocato Nicola Marseglia, uno dei legali di Sabrina, che si è preso la briga di sottoporre alla giovane di Avetrana le domande e di raccogliere le sue risposte. Secondo la Gazzetta del Mezzogiorno al centro dell’esposto firmato dal direttore Baldassarri non c’è il contenuto delle interviste, che in fondo nulla di clamoroso aggiungono alla vicenda ormai nota praticamente a tutti gli italiani, ma le interviste in quanto tali perché Sabrina Misseri si trova in custodia cautelare in carcere anche per impedirle di comunicare con l’esterno. Insomma quelle interviste possono rappresentare una palese e clamorosa violazione di tale precetto. Un po’ come avvenne nel novembre del 2010 con Michele Misseri, padre di Sabrina, che fu intervistato dalla giornalista di «Libero» Cristiana Lodi, presentatasi in carcere con la parlamentare Melania Rizzoli della quale disse di essere la collaboratrice, vicenda per la quale la Procura ha presentato richiesta di rinvio a giudizio nei suoi confronti per falso.

Intanto Sabrina Misseri ha rilasciato una lunga intervista al settimanale «Di Più». Ha accettato di parlare per la prima volta con un giornalista attraverso i suoi avvocati che hanno raccolto e sintetizzato le risposte durante i colloqui in carcere e le udienze in Corte d’assise. Nell’intervista a firma di Oliviero Marchesi la giovane imputata affronta, tra le altre cose, il rapporto conflittuale con Ivano dicendosi attratta da lui ma «senza nessuna ossessione». Sabrina parla poi delle abitudini con la cugina Sarah: «Eravamo come sorelle – dice – e spesso ci facevamo anche la doccia insieme». Sulla zia Concetta, mamma di Sarah, Sabrina esprime il desiderio di incontrarla dicendosi pronta a «rispondere a tutte le sue domande». Secondo l’estetista, in carcere dall’ottobre del 2010, la zia Concetta non sarebbe convinta della colpevolezza sua e di sua sorella Cosima. Parole forti anche nei confronti del padre che durante le numerose udienze, confessa di non essere mai riuscita a guardarlo negli occhi tranne la prima volta quando fu colta da malore. Parlando del futuro Sabrina non dimostra risentimento nei confronti di quella parte degli avetranesi che l’hanno già condannata prima ancora del processo. «Se sarò assolta tornerò al mio paese, non sono io che devo nascondermi». L’imputata infine non spreca critiche alla macchina dell’informazione che avrebbe violato la sua privacy nonostante il divieto di riprenderla durante le udienze. L’intervista si chiude con pensieri di Sarah. «Penso spesso a lei», dice della cugina della quale ricorda piccoli episodi della sua breve vita.

"Quando qualcuno si allontana nell'ombra, ci si chiede sempre se è un caso giallo o un allontanamento volontario?" Apre così la puntata di Quarto Grado del 20 aprile 2012, il conduttore Salvo Sottile. Quarto grado affronta il caso di Sarah Scazzi: Sabrina Misseri ha inviato una lettera al TgCom24: "Spero di reggere fino in fondo, la mia vita è cambiata peggio di una malattia, Ivano mi piaceva, ero attratta da lui, avrei voluto una storia... In giro sentivo e sento solo falsità, sulla mia invidia nei loro confronti e sui presunti litigi. Sarah era una sorella per me, eravamo molto attaccate, stavamo sempre insieme, uscivamo insieme, facevamo persino la doccia insieme. Le volevo solo bene... Con mio padre notavo uno sguardo fugace, io ero sola, con mia madre, da dietro le grate e volevo farmi forte. Zia Concetta non è convinta fino in fondo sulle certezze su di me e mia madre. Ho ancora i ricordi intatti di Sarah, mi vengono in mente tanti piccoli episodi delle nostre vite." La replica di Concetta Serrano: “Nulla mi lascia immaginare che Sabrina e Cosima siano innocenti. Se loro continuano a dire di non aver ucciso Sara, dicessero il nome di chi l’ha uccisa, escludendo però Michele, perché lui non c’entra nulla con l’omicidio di Sarah”. Queste le parole indignate di Concetta Serrano, mamma di Sarah riferite a Filomena Rorro, inviata di Quarto Grado, dopo aver letto sul Corriere del Mezzogiorno l’anticipazione della lettera di Sabrina Misseri indirizzata a Tgcom24.

“Spero di reggere fino in fondo, ho letto tutti gli atti processuali, ho letto qualche libro. La mia vita è cambiata completamente. Ti colpisce qualcosa della quale non ti sai dare una ragione, è peggio di una malattia che ti viene improvvisamente ma che almeno puoi riuscire a spiegarti perch‚”. Lo afferma Sabrina Misseri rispondendo, tramite uno dei suoi difensori, Nicola Marseglia, a domande poste da Ilaria Cavo su Tgcom 24. Su Ivano Russo – per l’accusa il movente dell’omicidio sarebbe la gelosia – Sabrina dice di non avere “nessuna ossessione. Ivano mi piaceva, ero attratta da lui, avrei voluto avere una storia con lui, niente di più e niente di meno. Eravamo e siamo rimasti amici”. “Ho sentito e continuo a sentire al dibattimento – aggiunge – tante assurdità su questo rapporto, sulla mia gelosia morbosa per Ivano, per Sarah, su presunti violenti litigi, ogni piccola cosa è stata gonfiata oltre ogni ragionevole contatto con la realtà". Sul rapporto con Sarah, Sabrina rileva: "Era per me una sorellina minore. Stava sempre con me, quando lavoravo, la sera quando uscivamo con gli amici, era attaccata a me, faceva anche la doccia insieme a me. Io le ho solo voluto bene. Su questo non dovrebbero esserci dubbi, era noto a tutti, e lo ha confermato anche zia Concetta". Se verrà assolta, Sabrina annuncia che “tornerò ad Avetrana non dovrei essere io a nascondermi”. Dal carcere, dov'è rinchiusa con l'accusa di aver ucciso la cuginetta Sarah Scazzi, Sabrina Misseri parla con Tgcom24 attraverso uno dei suoi legali, Nicola Marseglia, e racconta di sé, della vita in cella, di Sarah, del padre Michele e delle accuse che le vengono mosse. Un’intervista con portavoce, insomma.

La vita in carcere

«Spero di reggere fino in fondo - dice Sabrina -. Mi sforzo di partecipare alle attività programmate dall'istituto. Ho letto gli atti processuali che mi sono stati notificati. Ho letto qualche libro (la biblioteca dell'istituto è comunque ubicata nella sezione maschile)».

Il cambiamento

«La mia vita - prosegue - è cambiata completamente. Ti colpisce qualcosa della quale non ti sai dare una ragione, è peggio di una malattia che ti viene improvvisamente, ma che almeno puoi riuscire a spiegarti perché».

Ivano, il presunto movente

Sabrina sottolinea di non avere «Nessuna ossessione. Ivano mi piaceva, ero attratta da lui, avrei voluto avere una storia con lui, niente di più e niente di meno. Eravamo e siamo rimasti amici anche quando mi sono resa conto che non c'era la possibilità di trasformare l'amicizia in un sentimento più impegnativo. Fino a quando sono stata ad Avetrana abbiamo continuato a frequentarci, senza equivoci, come amici. Non ho mai nascosto nulla a nessuno; i nostri amici, soprattutto quelli con i quali mi conosco da anni (Alessio, Angela, Liala) sapevano benissimo quale era la reale natura dei nostri rapporti, seppure senza che io lo avessi desiderato erano venuti a conoscenza anche dei dettagli più intimi e riservati, non c'erano segreti. Ho sentito e continuo a sentire al dibattimento tante assurdità su questo rapporto, sulla mia gelosia morbosa per Ivano, per Sarah, su presunti violenti litigi, ogni piccola cosa è stata gonfiata oltre ogni ragionevole contatto con la realtà».

La serata a luci rosse con Ivano

Per l'accusa la conferma del fatto che la figura di Ivano sia il movente è nel fatto che in paese iniziava a girare la voce della serata hot in auto dei due giovani. Ma Sabrina smentisce seccamente. «L'episodio al quale si fa riferimento - spiega - non è avvenuto a giugno ma ad agosto 2010. Sarah non c'entra niente in ordine alla sua diffusione e glielo dissi chiaramente ad Ivano con il quale mi ero lamentata della mancanza di riservatezza. La responsabilità maggiore è di mio cugino Claudio, per quella sua incorreggibile abitudine di intromettersi nei fatti degli altri, di assumere un ruolo che non gli compete e che anche in questo caso non gli era stato richiesto».

Una sorella minore

«Sarah era per me una sorellina minore - prosegue la ragazza -. Stava sempre con me, quando lavoravo, la sera quando uscivamo con gli amici, era attaccata a me, faceva anche la doccia insieme a me. Io le ho solo voluto bene. Su questo non dovrebbero esserci dubbi, era noto a tutti, e lo ha confermato anche zia Concetta. Mi capita spesso di pensare a Sarah - rivela -. Tutti i ricordi che ho di lei sono intatti. Mi vengono in mente tanti piccoli episodi della nostra vita».

Il padre, Michele, e la confessione che la accusa

Quando ha saputo della confessione del padre, «rifiutavo di credere che potesse essere stato lui, mi sembrava incredibile, ho persino esternato questa mia disperata convinzione, ma anche questo è stato rigirato contro di me in maniera assurda, come del resto è avvenuto per altre circostanze. All'inizio aveva convinto tutti, inquirenti compresi, poi è cambiato qualcosa. Sarebbe importante approfondire, anzi chiarire definitivamente questo aspetto e mi auguro che ciò avvenga nel corso del processo. Con mio padre durante la prima udienza vi è stato solo uno sguardo fugace. Non ho pensato a nulla, ero disorientata, chiusa nella gabbia con mia madre, volevo sparire, mi sono fatta forza e sono andata avanti fino alla fine».

Zia Concetta, la mamma di Sarah

«Io penso che zia Concetta non è convinta fino in fondo, che non ha certezze circa la mia responsabilità e quella di mia madre. Ho già detto che sono pronta ad incontrarla quando lo vorrà, anche subito. Io la aspetto. Le risponderei a qualunque domanda».

Le accuse della gente

«Io non giudico nessuno - sottolinea Sabrina - anche se nei miei confronti è avvenuto esattamente il contrario. Comunque ho letto e ascoltato tante falsità, all'inizio mi sembrava di impazzire ora mi sono quasi abituata. Mi fa paura il pregiudizio. Mi fa paura che possa influenzare la decisione. Ci sono tanti casi di persone ingiustamente condannate e riabilitate dopo anni di ingiusta sofferenza. Spero che non accada a me. Ma in futuro, se sarò assolta tornerò ad Avetrana. Non dovrei essere io a nascondermi».

Il processo mediatico

«Quello che hanno fatto le televisioni ed i giornali in questa vicenda - conclude la giovane - va oltre ogni immaginazione. Anche oggi, i resoconti delle udienze sono sfacciatamente fuorvianti, riportano pressoché il contrario di ciò che è avvenuto o è stato detto in aula, da restare allibiti. Nonostante il divieto di riprendermi le mie immagini nell'aula della Corte di Assise sono state trasmesse via internet ed in televisione per soddisfare morbose curiosità».

Pensieri

«Mi capita spesso di pensare a Sarah. Tutti i ricordi che ho di lei sono intatti. Mi vengono in mente tanti piccoli episodi della nostra vita».

Tornando al processo sono otto i testimoni citati per l'udienza odierna dalla pubblica accusa.

Rendiconto della giornata.

ORE 11:00 - Parla Antonella Spinelli. Chiamata a testimoniare la cugina 15enne di Sarah, secondo la quale la ragazzina uccisa non disse mai di avere un interesse sentimentale per Ivano Russo, l'amico del quale, secondo l'accusa, Sarah e la cugina Sabrina Misseri si sarebbero invaghite. Sarah Scazzi soggiornò per un breve periodo, sino a due giorni prima di essere uccisa (26 agosto 2010), dalla cugina a San Pancrazio Salentino (Brindisi). «Mi raccontò di essere stata fidanzata per un giorno con un ragazzo di 16 anni, un certo Davide, che la baciò per gioco - ha riferito la ragazzina - ma la sera stessa si lasciarono. - La teste ha poi aggiunto - che Sabrina ogni tanto sgridava Sarah perchè lei diceva qualche parolaccia, ma era normale. Non credo che Sabrina e zia Cosima abbiano ucciso Sarah, ma zio Michele». Antonella Spinelli, testimoniando in aula al processo per l'omicidio della cugina 15enne Sarah Scazzi, ha detto anche di aver attivato un nuovo profilo su Facebook e di aver conosciuto le amiche di Sarah. In particolare ha parlato di Francesca Massari che gestiva un altro profilo Facebook di Sarah. «Io penso che se è uscita un'immagine distorta di Sarah non è colpa sua, ma delle amiche. Sabrina mi parlava di Ivano. Verso luglio ho cominciato a sentire parlare di lui, ma Sarah non mi ha mai detto niente di particolare sul rapporto tra Ivano e Sabrina. Non mi ha mai detto della storia del rapporto in macchina tra i due. Io questa storia l'ho sentita solo in televisione». La Spinelli ha anche risposto alle domande su una foto particolare postata su Facebook il 26 agosto del 2010 alle 21, che ritraeva un burattino legato con alcune corde. «Non c'entra nulla con la vicenda. Si riferiva a problemi che avevo con le mie amiche. Quel pomeriggio Sabrina chiamò per avvisarci che Sarah non si trovava. Io ho sempre detto che credo che Sabrina e zia Cosima non siano colpevoli. Io penso che sia stato mio zio Michele. Sabrina ci teneva tanto a Sarah. Io sono convinta di questa cosa, ma cerco di evitare l'argomento perchè non mi fa stare bene». La quindicenne ha poi parlato dei profili Facebook che aveva la cugina. «Lei non conosceva le password e i profili venivano gestiti dalle sue amiche. Spesso mi diceva al telefono di entrare nel suo profilo, ma mi dava password errate. La mattina del 25 agosto decidemmo di creare un altro profilo e la password la dovevo avere io perché di me si fidava». Quanto al rapporto tra Sarah e Ivano, la quindicenne ha sottolineato che la cugina le diceva «che per lei era un amico, che era simpatico, ma nulla di particolare. Non mi ha mai detto che gli piaceva. Decidemmo di fare un quaderno dove ognuno di noi scriveva qualcosa. Lei scrisse la mattina del 26 agosto. Scoprii che faceva riferimento ad Ivano e per me fu una sorpresa».

ORE 12:45 – Parla Elena Baldari. «Quando tornò a casa dopo essere rientrato dal lavoro, parlai con Ivano della scomparsa di Sarah e lui era sconvolto. Dopo aver mangiato uscì anche lui per andare a cercarla». Lo ha detto Elena Baldari, mamma di Ivano Russo, testimoniando al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. «Non mi parlò mai di Sarah – ha aggiunto la donna – prima della sua scomparsa, nè di Sabrina, conoscevo solo Alessio Pisello. Il 26 agosto 2010 mio figlio Claudio andò al mare e Ivano rimase a casa. Nel primo pomeriggio si mise a letto e alle 17.10 lo accompagnai dal suo datore di lavoro a San Pietro in Bevagna». Elena Baldari ha riferito che lungo la strada incontrarono Alessio e una ragazza. Ivano scese e parlò con loro qualche minuto. «Risalito in macchina – ha proseguito – mi disse che era scomparsa Sarah, la cugina di Sabrina». La teste non ha ricordato se Ivano avesse il cellulare in camera mentre riposava. Ai carabinieri, quando venne ascoltata nel corso delle indagini, riferì di aver udito un messaggio vocale sul telefonino del figlio nel primo pomeriggio del 26 agosto, ma poi precisò che si era sbagliata e aveva fatto confusione con le date. «Quando entrai in macchina per accompagnarlo al lavoro, Ivano lesse un messaggio di Sabrina e disse “mo si è persa pure la cugina” urtando il telefono sul cruscotto». Il pubblico ministero Mariano Buccoliero ha contestato alla donna sia l’orario in cui sarebbe stato letto il messaggio sia il contenuto. La donna, ascoltata dai carabinieri il 31 agosto 2010, attribuì a Ivano la frase “Ma cosa ne so io della cugina, io non sono uscito da casa”. La Baldari ha poi raccontato del giorno in cui ricevette la visita di Michele Misseri e di Sabrina che portarono una cesta di funghi e chiesero informazioni sul contenuto delle dichiarazioni rese dalla stessa donna e dal figlio Ivano. Ci fu anche un’altra visita dopo il ritrovamento del cellulare di Sarah. «Vennero Sabrina e Valentina Misseri – ha ricordato la madre di Ivano – io chiesi di questo ritrovamento e mi dissero che era stato scoperto dal padre Michele, che era andato in un fondo con un amico. Valentina aggiunse che era tornato per caso in quel fondo perchè si era dimenticato di un cacciavite speciale».

ORE 13:45 – Il refuso. Successivamente è stato ascoltato un altro testimone, Claudio Benni, mentre è saltata la deposizione di Salvatore Misseri (fratello di Michele), che ha inviato una certificazione medica. Maria Ferrara, moglie di Cosimo Cosma, imputato di concorso in soppressione di cadavere, si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Infine sono stati acquisiti i verbali di sommarie informazioni rese da Michele Genovino, Clorinda Ferrara e Antonietta Genovino, tutti in qualità di persone informate sui fatti. Questi che dovevano venire da Napoli non si sono presentati, adducendo con un fax l’impossibilità per motivi di salute, senza però produrre certificato medico. Sono stati multati di 500 euro a testa. La Corte d'Assise ha aggiornato il processo all'8 maggio prossimo, quando saranno ascoltati altri testimoni, tra i quali Anna Pisanò, una dei testi-chiave per l'accusa, il maresciallo Fabrizio Viva, comandante della stazione carabinieri di Avetrana, e il maresciallo Baiotta. Il pm ha chiesto inoltre alla Corte di acquisire agli atti l'intervista rilasciata nei giorni scorsi al settimanale “Di più” da Sabrina Misseri tramite uno dei suoi legali, l'avv. Nicola Marseglia. Lo stesso difensore ha chiesto alla Corte invece di produrre una mail del 17 aprile 2012, inviata al giornalista Oliviero Marchesi del settimanale “'Di più”, nella quale il legale avrebbe precisato che l’intervista era frutto della sintesi del difensore dopo una conversazione con la sua assistita. La Corte si è riservata la decisione.

8 maggio. Quattordicesima udienza. Parla Anna Pisanò, Antonella Tondo, Fabrizio Viva, Biagio Blaiotta e Giovanni Risi.

La testimonianza di Antonella Tondo suocera di Giuseppe Nigro titolare della Masseria “La Grottella”, albergo-sala ricevimenti in cui quel giorno si tenne un matrimonio, non è stata rilevante.

Anna Pisanò, una dei testi-chiave per l'accusa, il maresciallo Fabrizio Viva, comandante della stazione carabinieri di Avetrana, il brigadiere Blaiotta ed il responsabile della protezione civile di Avetrana, Giovanni Risi.

Al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana (Taranto) uccisa il 26 agosto 2010, la Corte di Assise di Taranto si è riservata di decidere su due richieste avanzate rispettivamente dalla Procura e dalla difesa di Sabrina Misseri, quest’ultima – cugina di Sarah - accusata del delitto insieme alla madre, Cosima Serrano. La Procura ha chiesto l’acquisizione di un video contenente un’intervista rilasciata da Concetta Serrano il 27 maggio 2011 alla trasmissione “Quarto grado”, e un altro video realizzato con un cellulare che ritrae Sarah a San Pancrazio Salentino qualche giorno prima del suo ritorno ad Avetrana, nell’agosto 2010. La difesa di Sabrina Misseri ha invece chiesto alla Corte di acquisire la comunicazione che i carabinieri della Stazione di Avetrana inviarono il 26 agosto 2010 alla Procura presso il Tribunale per i minorenni di Taranto e alla Procura della Repubblica di Taranto, relativa alla scomparsa di Sarah.

Al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi è stato il giorno della testimonianza di Anna Pisanò, uno dei testimone chiave dell’accusa. La donna ha messo in fila una serie di rivelazioni che potrebbero essere decisive per la condanna di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano. La Pisanò era a casa Misseri la mattina della scomparsa di Sarah. Anna Pisanò parla per quasi cinque ore, ricordando tutto il ricordabile malgrado i 20 mesi trascorsi dai fatti. Non sbaglia una data e anzi aggiunge, precisa, mette a fuoco, offrendo alla corte d’assise, ed ai giudici popolari in particolare, elementi conoscitivi ulteriori, forse non penalmente rilevanti, ma sicuramente in grado di tratteggiare con efficacia il contesto in cui maturò l’omicidio di Sarah Scazzi. Si dichiara amica di Sabrina Misseri, «Io voglio bene a Sabrina, ho ancora il suo numero nella rubrica del cellulare», ma Anna Pisanò, la super testimone nel processo per l’omicidio della 15enne di Avetrana, non le fa certo un favore, affondando i colpi sotto i quali l’alibi della giovane estetista vacilla, forse irrimediabilmente. Anna Pisanò non è un testimone qualsiasi perché è presente, suo malgrado, in molte fasi dell’inchiesta. Era a casa di Sabrina il giorno dell’omicidio, quando vide Sarah particolarmente triste e affranta come mai le era capitato di incontrarla; raccolse la confidenza di Sabrina la sera in cui il padre Michele confessò il delitto e fece ritrovare il cadavere («Lo hanno incastrato, lo hanno incastrato; anche io dopo sette ore sotto torchio avrei detto di averla uccisa e dove l'ho messa, dopo sette ore ti viene quella cosa di dire la verità e farla finita, ma io non l'ho fatto, non sono stupida»); è la madre di Vanessa Cerra, l’ex commessa del fioraio Giovanni Buccolieri che il pomeriggio del 26 agosto 2010 vide Sarah correre in via Deledda, in lacrime, inseguita e poi raggiunta dalla zia Cosima Serrano, madre di Sabrina, che la prese per i capelli e la costrinse a forza a salire sulla sua vettura.

Ad onor del vero Anna Pisanò fa riferimento alla scuola Media, come luogo in cui vi fu la violenza, e non ad una traversa di via Verdi, come, invece indicato nel sogno del Buccolieri. Il racconto della Pisanò scorre fluido e si capisce perché l’altro difensore di Sabrina Misseri, il professor Franco Coppi, (fresco di vittoria per l'assoluzione di Raniero Busco accusato del delitto di Simonetta Cesaroni) bloccato a Roma a causa di un processo finito tardi il giorno precedente, aveva chiesto, senza successo, alla corte d’assise il rinvio dell’esame della testimone. La donna era una cliente fissa di Sabrina Misseri e quando non era lei a sottoporsi a trattamenti estetici, accompagnava una delle sue tre figlie. Dunque aveva dimestichezza con la famiglia Misseri e con Sabrina in particolare, tanto da sapere praticamente tutto di lei, a partire dall’invaghimento per Ivano Russo, il giovane conteso da Sabrina e Sarah. Addirittura in alcune occasioni Anna Pisanò avrebbe controllato Ivano, sia direttamente andando nel negozio dove lavorava che tramite il suo profilo Facebook, per conto di Sabrina.

«Non ho mai visto Sabrina soffrire per la scomparsa di Sarah - ha ricordato la testimone - e anzi il giorno del funerale della bambina, dopo averla invitata inutilmente a venire con me al rito, andai a casa e la trovai a mangiare nutella e a pensare a Ivano, col quale si era riavvicinata. Mai un pensiero per Sarah, che sin dal primo giorno considerava morta».

Il collegio difensivo ha cercato di minare la credibilità della Pisanò soprattutto sui tempi del suo racconto, sul fatto che si decise solo ad aprile del 2011 a raccontare l’episodio del sequestro di Sarah di cui era venuta a conoscenza un mese dopo la scomparsa di Sarah. «Ma mia figlia solo prima di partire per la Germania, il 17 marzo del 2011, mi disse che era stato il fioraio Buccolieri a raccontarle la storia del sequestro. Vanessa mi disse pure di non raccontare nulla, perché mi avrebbero preso per pazza o lui avrebbe detto che era un sogno. Ma a me non importava, l'unica cosa che contava era scoprire la verità».

Ore 11:00 – parla il maresciallo comandante della stazione dei carabinieri di Avetrana, Fabrizio Viva, il brigadiere Biagio Blaiotta ed il responsabile della protezione civile di Avetrana, Giovanni Risi. Il 26 agosto 2010 Concetta Serrano si presentò alle 15-15.15 alla caserma dei carabinieri di Avetrana (Taranto) per denunciare la scomparsa della figlia Sarah Scazzi. La donna poi rientrò a casa per prendere alcune foto della ragazzina e la denuncia venne formalizzata intorno alle 17-17.20. Lo ha riferito il comandante della Stazione dei carabinieri di Avetrana, maresciallo Fabrizio Viva, durante la deposizione al processo per l’omicidio della quindicenne. Più tardi, sempre in caserma, intorno alle 18.30, il maresciallo chiese a Sabrina Misseri se la cugina Sarah avesse un diario. “Sabrina – ha detto Viva – mi disse che non lo sapeva e che avrebbe visto. Il 31 agosto vennero acquisiti cinque agende e un quaderno di Sarah”. Alla deposizione di Viva è seguita quella di un altro carabiniere in servizio alla Stazione carabinieri di Avetrana. «Quando trovò un telefonino in campagna, che poi scoprimmo era quello di Sarah, Michele Misseri si mostrò preoccupato per le impronte lasciate sul cellulare e diceva "non è che ora mi accusano di qualcosa?"»: lo ha riferito il brigadiere dei carabinieri Biagio Blaiotta, in servizio alla Stazione di Avetrana (Taranto), che ha testimoniato al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, in corso a Taranto. Michele Misseri, ha aggiunto il carabiniere, disse più volte anche di "sentire" che quel telefonino era di Sarah. La circostanza è stata confermata successivamente anche dal responsabile della Protezione civile di Avetrana, Giovanni Risi, presente quando Michele Misseri consegnò il telefonino agli investigatori.

Ore 14:30 – parla Anna Pisanò. Anna Pisanò era diventata amica di Sabrina perché una delle figlie, Vanessa Cerra, dopo che si era sposata, era andata a vivere in via Deledda vicino a casa della famiglia Misseri. Inoltre, oltre che cliente insieme alle sue quattro figlie di Sabrina dello studio privato di estetista, conosceva anche Sarah da quando era piccola, poiché una delle sue figlie era coetanea della 15enne assassinata. E si era molto affezionata alla vittima. Il 26 agosto 2010, giorno in cui venne uccisa, Sarah Scazzi arrivò a casa della cugina Sabrina Misseri, che l’aveva chiamata al telefono, poco dopo le 9 e «aveva la faccia triste, il viso all’ingiù e non salutò, contrariamente a quello che faceva di solito, sedendosi su un divanetto a maneggiare il cellulare». Lo ha dichiarato una testimone, Anna Pisanò, al processo per l’omicidio della quindicenne di Avetrana. La Pisanò è uno dei principali testi dell’accusa. La teste quella mattina era a casa di Sabrina per un trattamento estetico. «Chiesi a Sarah se stesse male, ma lei non mi rispose – ha aggiunto – e Sabrina mi disse "Lasciala stare". Sabrina guardava praticamente sempre Sarah quella mattina, a me sembrava che volesse farle capire di non parlare. Andai via dopo 15-20 minuti». Poi ha confermato una deposizione fatta durante le indagini in cui sottolineava che Sabrina non le sembrò affatto preoccupata. «Anzi ci prendeva in giro con atteggiamento spavaldo. Anzi l'unica cosa che disse con tono serio, ribadendolo anche al vice sindaco, fu che gli autori del rapimento di Sarah erano sicuramente quelli di San Pancrazio. Sabrina disse che lo zio (Giacomo Scazzi padre di Sarah ) era immischiato nell'usura, forse doveva dare soldi a qualcuno. E quindi qualcuno poteva essersi vendicato.» La Pisanò continua: «La sera del 6 ottobre 2010 capii dalla tv che Michele Misseri aveva confessato il delitto. Ero in casa di mia figlia, che abitava di fronte ai Misseri. Vidi Sabrina uscire, mi avvicinai e lei mi disse “L'hanno incastrato, l'hanno incastrato”. Poi aggiunse “anche io dopo sette ore sotto torchio avrei detto di averla uccisa e dove l’ho messa, dopo sette ore ti viene quella cosa di dire la verità e farla finita, ma non l’ho fatto” e si mise a piangere».

Durante la deposizione della Pisanò Sabrina Misseri è più volte scoppiata in lacrime. «Dopo la scomparsa di Sarah - ha continuato la teste - chiamavo ogni giorno Sabrina per sapere se c'erano notizie e lei mi diceva che si sentiva che la cugina era morta. Anche Michele diceva che Sabrina gli riferiva che Sarah era stata rapita da zingari, rumeni o per gli organi». Anna Pisanò ha aggiunto che Sabrina «voleva cambiare sempre discorso. Io le chiedevo: ma se non ne parli tu che sei la cugina? Allora molte volte si prendeva a parlare di Ivano (Russo il ragazzo del quale l'imputata era innamorata). Io invece le dicevo che mi sentivo e mi immaginavo che Sarah tornava. Lei mi rideva in faccia. Mentre io ero ansiosa per Sarah - ha sottolineato ancora - non ho mai visto un vero dolore in lei. Le ho chiesto dopo la scomparsa se pensava di continuare a lavorare e lei mi ha risposto che era normale riprendere a lavorare.

E infatti riprese a prendere appuntamenti per il suo lavoro di estetista». Continuando la sua testimonianza Anna Pisanò ha dichiarato che la sera del 28 agosto 2010, due giorni dopo la scomparsa di Sarah, Vanessa Cerra, sua figlia, ex amica di Sabrina Misseri, appartandosi con il fidanzato vicino al palazzetto dello sport di Avetrana sentì qualcosa simile a lamenti umani provenire dalla campagna e telefonò a Sabrina. Quest’ultima rispose che si trovava in birreria «per dimenticare». Sabrina quella sera, ha aggiunto la Pisanò, arrivò più tardi accompagnata da un’amica, Mariangela Spagnoletti, e dopo che la Cerra aveva chiamato i carabinieri. Sul posto era giunto poco prima anche un altro amico della comitiva dei giovani, Alessio Pisello, che addirittura si armò di bastone in caso di evenienza. Poco dopo arrivò anche Ivano Russo, - ha proseguito Pisanò - Sabrina ci chiese anche: secondo voi Sarah potrebbe essere viva? Noi abbiamo risposto che ci speravamo con tutto il cuore ma se si era trattato di qualcos'altro, eravamo pronti a tutto.

Sabrina disse che sentiva che era morta» «Sabrina commentò il fatto dicendo "avete visto troppi film", e poi disse che Sarah secondo lei era stata rapita da parenti del padre di Sarah che stanno a San Pancrazio Salentino». «Non ho mai visto Sabrina veramente addolorata per la scomparsa di Sarah, mai vista vera sofferenza. Anche qualche giorno dopo la scomparsa mi disse che, secondo lei, Sarah era morta. Il giorno del funerale fu lei a dirmi che si era riavvicinata sentimentalmente ad Ivano Russo. Rimasi così, le feci gli auguri». «Partecipavo ad una raccolta di firme ad Avetrana per far intensificare le ricerche di Sarah. Ma spesso, bussando a casa delle persone, queste mi rispondevano "chiedilo a Sabrina Misseri, che lei lo sa". Lo dissi a Sabrina e lei mi rispose: “secondo te io la uccidevo, la affogavo, la violentavo?” e la madre Cosima allora disse: “se Sabrina l’ha uccisa, 30 anni si deve fare, ma il corpo di Sarah viva o morta deve uscire”». «Io dissi a Sabrina – ha aggiunto Pisanò – di non credere alle parole della gente».

«Alla fine di settembre 2010 mia figlia Vanessa mi riferì che una persona le aveva detto di aver visto il 26 agosto Sarah correre in strada, verso la scuola Briganti, seguita dall’auto di Cosima, che scese, l'afferrò per i capelli e la buttò in macchina». «Vanessa – ha aggiunto – non mi volle dire chi fosse quella persona, perchè le aveva detto che l’avrebbero scambiato per uno che si inventa le cose o aveva sognato. Io poi capii che quella persona era il fioraio da cui mia figlia lavorava, Giovanni Buccolieri, e quando lo dissi a Vanessa lei me lo confermò». «Vanessa allora – ha continuato Anna Pisanò – mi riferì anche che il fioraio le aveva motivato così il suo comportamento: “Se fosse stata mia figlia avrei fatto diversamente, ma siccome non è mia figlia non voglio entrare in questa storia”». La circostanza venne poi riferita da Vanessa ai carabinieri, mentre il fioraio, dopo averla confermata agli inquirenti, due giorni dopo ritrattò dicendo che aveva sognato tutto. Per questo motivo la posizione di Buccolieri è stata stralciata e l’uomo è indagato in procedimento connesso per false informazioni al pm. Durante la deposizione di Anna Pisanò anche Cosima Serrano in qualche circostanza, così come la figlia Sabrina, non ha trattenuto le lacrime.«Io andai il giorno del funerale a casa di Sabrina, la invitai a venire allo stadio (dove si tennero le esequie ) ma lei mi disse di no. Ci andai anche dopo la cerimonia. La signora Cosima piangeva. Le diedi le condoglianze, Sabrina era sulla poltrona. Io le ho detto che il funerale era stato terribile ma lei mi ha risposto dandomi la notizia che si era riavvicinata con Ivano. Adesso stiamo parlando del funerale della bambina, ho risposto io - ha riferito la teste - Ivano lasciamolo stare. Io le ho augurato che con Ivano potesse andare bene. Non la vidi piangere. Io le ho chiesto perché nelle interviste non aveva parlato della tristezza di Sarah quella mattina del 26 agosto a casa sua. Lei invece aveva detto che era allegra e avevano sentito musica. Perché hai detto questo?, le ho chiesto. E perché non hai detto che era così triste, che quasi piangeva? Lei mi ha risposto: “quello che ho detto ho detto: basta”.

Io ho avanzato l'ipotesi che potessi parlare io ai carabinieri di quel particolare. Tu non devi parlare con i carabinieri, mi ha intimato. Se ti chiedono qualcosa, tu non sai niente. Infatti io non andai dai carabinieri proprio perché avevo dato la parola a Sabrina, se non il 27 ottobre quando mi convocarono. Per Sabrina avrei dovuto dire che era allegra e non triste. Non si voleva contraddire con le interviste che aveva dato. Quella mattina Sarah era arrabbiata», ha aggiunto rispondendo a una domanda dell'avvocato Nicola Marseglia, il difensore di Sabrina Misseri. Anna Pisanò ha raccontato anche della tendenza di Valentina e Sabrina ad allontanare il padre dalle altre persone quando si parlava della faccenda.

Con l’audizione della testimone Anna Pisanò, durata oltre quattro ore, si è conclusa l'udienza del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. In chiusura di udienza la difesa di Sabrina Misseri ha chiesto alla Corte di Assise l’acquisizione di un telefonino di Anna Pisanò nella quale sono contenuti messaggi da lei scambiati con Valentina Misseri, primogenita della famiglia, dopo l’arresto di Sabrina (15 ottobre 2010), e di quello della stessa Valentina. Accusa e difesa hanno chiesto anche la trascrizione del contenuto dei messaggi. Per il collegio difensivo Anna Pisanò non sarebbe teste attendibile. Ad esempio, perché registrare - pur se lo strumento glielo fornirono i carabinieri - i colloqui con un'amica che è citata come teste nel processo? La stessa amica oggi si è avvalsa della facoltà di non rispondere. “L'ho fatto per tutelarmi - ha replicato la Pisanò - perché non volevo che in paese si dicesse in giro che sono bugiarda”. Gli ultimi contatti della Pisanò con la famiglia Misseri sono dell'autunno 2010: sms con Valentina, di cui oggi è stata chiesta acquisizione alla Corte. Sempre la difesa di Sabrina ha chiesto anche l’acquisizione di tutti i tabulati telefonici del cellulare della Pisanò dal 20 ottobre 2010 al 31 maggio 2011.

La Corte di Assise si è riservata di decidere sulle richieste. La teste Pisanò ha consegnato alla Corte il cellulare in questione, che – aveva già detto durante la deposizione – aveva portato con sè in borsetta.

Intanto, in quei giorni, ed esattamente il 2 maggio, emerge la posizione di un addetto ai lavori. Su l’amministrazione della Giustizia e la responsabilità civile dei magistrati. La verità di Matteo Di Giorgio. Il magistrato di Taranto arrestato dalla Procura di Potenza. Quello che la stampa non osa riportare. Così come fanno tutti i giornalisti locali e nazionali con il dr Antonio Giangrande, soverchiato da magistrati indegni della toga che indossano e coperti mediaticamente da giornalisti omertosi. La verità del magistrato Matteo Di Giorgio dopo l'arresto pubblicate in video ed in testi alla pagina territoriale di Taranto su www.telewebitalia.eu. Cose che Giangrande è da anni che le grida al mondo, accusando infami ritorsioni. Giudici contro. Della serie: anche i sostituti procuratori della Repubblica di Taranto provano l’onta dell’ingiustizia e subiscono la gogna mediatica. La voce agli imputati, presunti innocenti, in un sistema dove voce non hanno. La sua Verità di giudice arrestato e buttato nella bolgia infernale come i comuni mortali a provare la legge del contrappasso. Bene Matteo Di Giorgio ha dichiarato: «Il procedimento che mi riguarda prende le mosse proprio da una denuncia di Italo Pontassuglia, 22 settembre 2007. In questa denuncia, signori, si dice di tutto sul mio conto. Non si parla delle sciocchezze che sono emerse nell’ordinanza, perché poi vedremo sono comunque delle sciocchezze, anche se fossero vere e non lo sono. Ora, io non ho molto tempo per spiegarvi l’enormità, però devo far notare che quello che dice Pontassuglia è smentito da tutti gli atti del processo. Amministratore di fatto significa prendere le decisioni in luogo dell’amministratore formale, di colui il quale il Sindaco, o la Giunta, o il Consiglio Comunale, si sostituisse di fatto agli stessi. Ebbene. Signori sapete quante intercettazioni telefoniche ed ambientali hanno visto oggetto la persona del sottoscritto? Quasi cinquantamila. E io dico, meno male che ci sono le intercettazioni. Dico meno male che ci sono le intercettazioni, perché dalle intercettazioni non è emerso nulla. Perché la procura di Potenza, consentitemi da questa vicenda è strabica. Perché da un lato ha messo sotto processo Rocco Loreto per la minaccia rivolta a mio figlio, dall’altra ha arrestato me perché ho detto “ha minacciato mio figlio”. Io sono stato arrestato perché mi si dice “non è vero, tu hai diffamato Loreto, dicendo che ha minacciato tuo figlio”. Questo è l’oggetto dell’arresto mio, signori.

Questo è. Ed è la prova che ho detto che c’è una certa contiguità tra gli investigatori ed i miei denuncianti. Volete un’altra prova? La disponibilità dell’ordinanza in originale. Questa è una copia dell’originale. E’ una copia che qualcuno ha avuto al più tardi il 18 novembre 2010, cioè una settimana dal mio arresto, quando l’ordinanza era coperta dal segreto istruttorio. E sapete da dove proviene questa ordinanza? Signori, sta scritto qua. E’ il signor Pontassuglia Italo: il mio denunciante. Questo è un avviso di accertamento tecnico irripetibile notificato il 15 novembre 2010 a Pontassuglia. Questo significa che Pontassuglia ha creato questo file, ha avuto l’ordinanza al più tardi il 18 di novembre 2010. Questo significa che una settimana dopo il mio arresto il mio accusatore aveva l’ordinanza. Chi gliel’ha data? Io certo no. Signori, questo è agli atti del processo, poi tutto il resto è inutilmente, perché a Potenza le porte sono chiuse. Questa è la prova che Pontassuglia ha una corsia preferenziale con Potenza, perché non può che averla ricevuta da Potenza. Non sono sospetti, questa è una prova. Io ho denunciato Potenza. Ci sarà un motivo se io ho denunciato gli Uffici giudiziari di Potenza. Perché a Potenza non sono tutelato. Io ho detto alla dottoressa Triassi, ho detto, quando mi ha fatto una valutazione giuridica, ho detto lei mi fa paura, ho detto. Come cittadino io ho paura di lei. Sapete perché? Perché quando la Cassazione ha annullato il capo d’imputazione della vicenda Coccioli, ha detto la Cassazione “me la date sta prova che Di Giorgio sta d’accordo con l’amministrazione comunale?”. E s’è rifatta l’udienza. Viene la dottoressa Triassi e dice “ecco la prova dell’accordo”. La prova dell’accordo è questo. In una telefonata tra il dottor Di Giorgio e l’assessore allo Sport, si tratta di Alfredo Cellammare, che nei 6 mesi successivi al fatto, in cui io ed Alfredo Cellammare parliamo di tutt’altra cosa. Non parliamo del contributo, parliamo di tutt’altro. E dice la dottoressa Triassi “ecco, questa è la prova che Di Giorgio e Cellammarre si conoscono. Io gli ho detto “guardi che avrebbe potuto chiedermelo, glielo avrei detto io, perché ci conosciamo da quando avevamo i calzoncini corti. Ma se la prova del concorso in un reato, scusatemi devo fare un discorso tecnico, risiede nel mero rapporto di conoscenza, allora io sono complice di tutti i reati commessi dai castellanetani, perché li conosco un po’ tutti. Quindi io verrò chiamato a rispondere in qualsiasi reato possa commettere un castellanetano. Questa è un abnormità; un’aberrazione giuridica. E io alla dottoressa Triassi dissi “lei mi fa paura. Io ho paura di una che ragiona così. Come uomo”. Se parliamo dell’amministrazione della Giustizia dobbiamo uscirne, se ciascuno di noi recupera il proprio ruolo. Che cosa voglio dire: la nostra magistratura vive di correnti, di amicizie. Io non sono iscritto a nessuna corrente ed ho sbagliato, perché se fossi stato iscritto, non mi sarebbe successo niente. Ve lo dico!! No, forse bisognerebbe anche avere il coraggio in Italia, io lo dico contro tutta la categoria, di introdurre il principio della responsabilità civile del magistrato, perché io devo avere paura di sbagliare. Ci devo pensare cento volte prima di far qualcosa. Perché signori il magistrato ha il compito più alto: decide della libertà delle persone; ha in mano la vita delle persone. Tutti possono sbagliare, ma purchè ci sia la buona fede e purchè ci sia il rispetto di alcune regole. Spesso ciò non avviene. L’altro giorno a chi a detto, e rispondo a quest’avvocato, che il rinvio a giudizio, parlo dell’avvocato Giuseppe Clemente, faccio nome e cognome, Clemente, il quale impazza su Facebook contro di me dicendo delle cose invereconde, delle quali io mi vergognerei. Quest’avvocato ha detto che un rinvio a giudizio è praticamente una affermazione di responsabilità penale. Ecco vorrei ricordare all’avvocato Clemente che in Italia ancora esiste l’articolo ventisette della Costituzione e quindi la presunzione di innocenza, tecnicamente di non colpevolezza, e che questa presunzione vale fino al terzo grado di giustizia. Io ancora non sono stato giudicato e gli ricordo Raniero Busco. Ce l’ho qua. L’altro giorno. E’ stato condannato in primo grado a ventotto anni di reclusione. E’ stato assolto dalla Corte d’Appello. Buon per lui che non sia stato sottoposto alla misura cautelare. Però io vi voglio leggere soltanto un passo di un’intervista di Raniero Busco, che la dice tutta. “Cosa ha imparato da questo processo? Che in queste aule non si trova niente di umano. Ognuno è proiettato a salvaguardare la propria idea, la propria posizione. Nessuno è disposto a fare un passo indietro in nome della verità. Questa sentenza però mi restituisce un po’ di fiducia nella Giustizia”. Ed è quello che dico io: perché a fronte di tutto ciò che è emerso dal processo potentino, dei tentativi di inquinamento, dei tentativi di agganciare i testimoni, non è successo niente. Perché ciascuno si innamora della propria posizione e la difende fino alla fine anche contro l’evidenza dei fatti. E questo un magistrato non lo deve fare mai. Il magistrato deve avere l’onestà di dire “ho sbagliato, faccio un passo indietro” e non deviare da alcune regole che sono indefettibili e che a Potenza sono state violate. Io lo dico qua perché l’ho già detto, l’ho già scritto e non posso tediarvi, perché è tardissimo, se no lo farei volentieri. E vi dimostrerei tutte le violazioni che sono avvenute nel mio caso. Tutte.»

15 maggio. Quindicesima udienza. Parla Maria Rosaria Carrozzo, Maria De Santis, Giancarlo Greco e Vito Ferrara.

Gli interrogatori riguarderanno il “sogno” del fioraio Giovanni Buccolieri, testimone nel processo e indagato per false dichiarazioni agli investigatori (la sua posizione e quella di un altro indagato, che risponde dello stesso reato, sono state stralciate in attesa dell’esito del processo di primo grado). Il commerciante, come è noto, ha raccontato agli investigatori di aver assistito ad una scena inquietante, il pomeriggio del 26 agosto 2010. Sarah sarebbe stata presa per i capelli e costretta dalla zia Cosima a salire in auto, a bordo della quale c’era anche Sabrina. Una testimonianza che il fioraio ha tentato di ritrattare e di liquidare come un sogno ma inutilmente. Infatti, sia l’accusa sia la Cassazione hanno ritenuto attendibile il racconto di fondamentale importanza per l’arresto di Cosima a maggio 2011.

Resoconto della giornata.

Ore 11:30 - Parla Maria Rosaria Carrozzo. Dinanzi alla Corte d'assise di Taranto ha deposto Maria Rosaria Carrozzo, titolare di una parafarmacia-erboristeria, che ha dichiarato di aver discusso della scomparsa della ragazzina con Maria De Santis, moglie di Salvatore Misseri (fratello di Michele, imputato di soppressione di cadavere) e di essere rimasta impressionata da una frase. «Mi disse - ha rivelato la teste - di aver sentito che quella povera ragazza l'avevano fatta pure vomitare, ma non chiesi a che cosa si riferisse e non detti alcun peso a quelle parole». Carrozzo ha aggiunto che si parlò anche del fioraio Giovanni Buccolieri come possibile testimone, ma era solo una sua supposizione non supportata da alcun riscontro.

Ore 12:00 - Parla Giancarlo Greco. «Giovanni Buccolieri disse anche a me di aver sognato Cosima Serrano che strattonava con forza Sarah Scazzi per farla entrare nella sua auto. Si parlò tanto di questa storia che a un certo momento appariva confuso e anche lui sembrava non riuscisse a distinguere se si trattava di sogno o realtà». Lo ha detto Giancarlo Greco, un orafo di Avetrana, riferendosi alle confidenze che gli fece l'amico fioraio Giovanni Buccolieri. I due andarono in viaggio in Argentina nell'aprile del 2011 e al loro ritorno Buccolieri fu convocato in caserma per essere interrogato dai carabinieri. Inizialmente Greco aveva detto che di non aver discusso con l'amico della scomparsa di Sarah ma poi, sollecitato dai pubblici ministeri, ha sostenuto che Buccolieri gli disse un giorno di essere preoccupato perché gli inquirenti non credevano alla versione del sogno.

Ore 12:30 - Parla Maria De Santis, cognata di Michele Misseri, la quale ha dichiarato che ricevette la visita di Cosima Serrano, accusata insieme alla figlia Sabrina Misseri dell'omicidio di Sarah Scazzi, e la donna le disse che in paese circolava la voce di un suo imminente arresto. Maria De Santis, messa a confronto con la farmacista Maria Rosaria Carrozzo, ha poi aggiunto di aver sentito, mentre faceva la spesa, due donne che parlavano tra di loro e dicevano che «Sarah l'avevano fatta pure vomitare».

Ore 13:30 – Parla Vito Ferrara. Con la deposizione di Vito Ferrara, dipendente di una macelleria di Avetrana, quella di Salvatore Erroi già sentito in una precedente udienza, dove si recarono Sarah Scazzi e il padre Giacomo intorno alle 12.40 del 26 agosto 2010, è terminata la quindicesima udienza del processo per l'omicidio della quindicenne. Il teste ha riferito che Giacomo Scazzi fece la spesa e la ragazzina rimase sull'uscio. Nulla più. Solo il fatto che aveva i capelli legati.

L'udienza è stata aggiornata al 22 maggio prossimo. Saranno ascoltati sette testimoni: Vanessa Cerra (figlia della supertestimone Anna Pisanò), Giovanni Pucci, Gaetano Colucci, Rocco Zecca, Giuseppina Scredo, Donata Prudenzano e Marco Buccolieri.

Oriana Fallaci in un famoso articolo dal titolo “Due colpevoli di troppo”, pubblicato nel lontano 1965 sul settimanale “L’Europeo” definì il caso Bebawi “uno strano processo” in cui “mentono tutti”. Mentivano a tal punto, scriveva, che se avesse chiesto a qualcuno l’ora e quello l’avesse indicata, lei anche in quel caso sarebbe stata portata a pensare che mentiva. In quella vicenda i due coniugi egiziani, Youssef e Claire Bebawi, si accusarono reciprocamente dell’assassinio di Faruk Chourbagi (amante di lei), recitando per tutto il processo e riuscendo così a confondere le acque. Alla fine, infatti, furono assolti in primo grado, in appello furono condannati a 22 anni ma ormai erano all’estero. Chissà Oriana Fallaci come avrebbe definito il caso Scazzi. Anche in questo processo sembra che i principali imputati recitino una parte. Cosima e Sabrina quella delle innocenti. Michele quella del colpevole, ma in due interrogatori in fase di indagine ha sostenuto di essere innocente. Imputati a parte, ci sono anche testimoni che recitano un ruolo.

Dopo i tanti “non ricordo” e “non so” di diversi testimoni, nell’udienza fiume tenuta l’otto maggio, a pochi metri dalle due imputate, la supertestimone Anna Pisanò racconta parecchie circostanze, dal broncio di Sarah con Sabrina la mattina del 26 agosto 2010, allo sfogo-confessione di Sabrina, al racconto del fioraio “sognatore” Giovanni Buccolieri, alle dichiarazioni della suocera di Giuseppe Nigro titolare della Masseria “La Grottella”, albergo-sala ricevimenti in cui quel giorno si tenne un matrimonio, Antonella Tondo, chiamata con Anna Pisanò a testimoniare in aula ed anche della confidenza di questa nella saletta dei testimoni. A proposito dell’arresto di Cosima, uno dei legali dell’imputata, l’avvocato Franco De Jaco, fa notare ad Anna Pisanò che lei la sera del 26 maggio 2011 era vicino alla caserma dei carabinieri. «Ero di passaggio con la macchina, ho visto la folla e mi sono fermata pensando a un incidente. Ho appreso che si trattava dell’arresto di Cosima. Ma non ero compiaciuta». Ribatte la donna a muso duro come quando De Jaco sottolinea la sua appartenenza ai Testimoni di Geova, che l’accomuna a Concetta Serrano Spagnolo Scazzi.

Forse la morbosità delle circostanze porta ad esaltare la figura di Anna Pisanò. Forse anche al di là dei meriti supposti. Per questo non si spengono le luci della ribalta gossippara e giustizialista per Anna Pisanò, una dei testi-chiave per l'accusa. Basta premere sul tasto dell’omertà ed il pubblico aizzato da ospiti improvvisati in beceri talk show va su tutte le giuggiole. Il luogo comune del paese retrogrado ed omertoso è lontano dal tramontare. Spalleggiati oltretutto, non da testate giornalistiche nazionali, ma, addirittura, da estemporanei giornalisti di alcuni quotidiani e tv locali, che oltretutto nessuno legge e che non meritano di essere nominati. Personaggi che spalleggiano le accuse della Procura di Taranto ed hanno assunto la posizione colpevolista nei confronti di Sabrina e Cosima. Ma il giornalista non dovrebbe conoscere e riportare i fatti e lasciare il commento a chi legge? «Molti sanno ma non parlano e anche per questo la povera Sarah non troverà mai pace». A ventiquattrore dalla faticosa deposizione davanti ai giudici, Anna Pisanò, la super testimone nel processo che vede alla sbarra Sabrina Misseri e Cosima Serrano, sua madre, rispettivamente cugina e zia della quindicenne uccisa il 26 agosto del 2010, si lascia intervistare da Nazareno Dinoi per “Il Corriere della Sera” per raccontare il drammatico faccia a faccia con la sua ex amica Sabrina.

Cos’ha provato ieri vedendola in aula?

«Non ci crederete, ma non ho provato odio, piuttosto pena per lei e per sua madre Cosima così invecchiata e spenta. Mentre rispondevo alle domande, sentivo i commenti di Sabrina che mi offendevano; rivolgendosi ai suoi avvocati mi dava della bugiarda oppure suggeriva la domanda che avrebbe voluto che mi facessero. Da questo punto di vista non è cambiata, sempre sulle sue, pronta ad attaccare. In quelle cinque ore è stato inevitabile che i nostri sguardi s’incrociassero ma sono stata sempre io la prima ad abbassare gli occhi mentre lei mi fissava con spavalderia e con aria di sfida. Un paio di volte mi ha persino sorriso, un sorriso beffardo, provocatorio. Non aveva l’aria di una che è sotto processo per un delitto così terribile; io al suo posto mi dispererei mentre lei sembrava a volte divertirsi».

La sua testimonianza è ritenuta fondamentale per l’accusa di Sabrina. Non le fa impressione visto che eravate amiche?

«Io non dico che è stata lei ad uccidere Sarah, racconto solo episodi che lo fanno pensare. Sta poi ai giudici valutare e decidere. Io dico solo la verità e non mi sento l’accusatrice di Sabrina ma un testimone che ha il dovere di raccontare. Io l’ho fatto, lo sto facendo con grandi sacrifici anche morali, ma c’è tanta gente ad Avetrana che potrebbe parlare e non lo fa, persone che hanno visto e restano in silenzio. Quel pomeriggio le strade di Sarah sono state frequentatissime. All’ora del suo passaggio verso via Deledda, ci sono state 250 persone che si sono recate al pranzo matrimoniale al ristorante La Grottella che dista poche centinaia di metri. Non ci credo che nessuno ha visto, non ci ho mai creduto».

Ora che ha visto la Corte e l’ambiente che deve giudicare Sabrina e gli altri imputati, che idea s’è fatta del processo e della giustizia?

«Ho paura che non si arriverà mai alla verità che solo con una confessione di Sabrina, se davvero è stata lei, potrebbe rendere certa».

Dello stesso tenore è stato l’intervento a “Quarto Grado” del venerdì successivo, 11 maggio.

Questo è quanto detto dalla Pisanò. Naturalmente, chiunque con un po’ di buon senso, prima di esprimere un’opinione dovrebbe adeguarsi al dogma: conoscere e non giudicare, per non essere poi giudicati. Però nessun giornale, né cartaceo, né telematico, come correttamente avrebbe dovuto fare, ha riportato le dichiarazioni dell’avv. Franco De Jaco invitato anch’esso il giorno dopo la deposizione della Pisanò da Bruno Vespa a “Porta a Porta” della RAI. Con il parterre abitudinario composto dal giudice Simonetta Matone, la criminologa Roberta Bruzzone, l’onorevole Melania Rizzoli, colei la quale fece entrare la giornalista nel carcere di Taranto, poi denunciata, e che ha scritto un libro sulle sue visite ai detenuti, e la scrittrice Marida Lombardo Pijola. A queste si è aggiunto l’avvocato e docente di criminologia alla “Sapienza di Roma” Natale Fusaro e il direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno” Carlo Bollino. De Jaco solo contro tutti i salottieri di rito, eccetto Fusaro attento alle problematiche della difesa, compresa la Roberta Bruzzone, già consulente di Michele Misseri ed la onnipresente giudice minorile Simonetta Matone . Il programma ha rendicontato sulle dichiarazioni rese dalla super testimone ed i commenti degli ospiti quasi tutti schierati contro Sabrina. Intervenendo in esterna da Taranto, intervistato con particolare accanimento dalla giornalista in loco Rosanna Santoro, l’avv. Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano. Quella Cosima Serrano che per la quale al momento non è emerso alcun elemento a suo carico, ma intanto è in prigione. De Jaco ha rimarcato il fatto che in studio vi sono persone che non hanno seguito “passo passo”, “carta carta” e “testimonianza testimonianza” tutta la vicenda e che quindi parlano senza cognizione di causa. Poi ha detto: «Intanto voglio precisare il comportamento di questa signora. La signora Pisanò, la quale in sostanza di fatti diretti non ne conosce. Se non quello che lei racconta e che è contrapposto alla versione di Sabrina Misseri, quindi c’è la parola sua contro quella di Sabrina Misseri, in relazione a ciò che abbiamo ascoltato. Ma è smentita decine di volte da tante altre testimonianze. Vi faccio semplicemente pochi esempi. Un primo esempio. La tristezza di Sarah, la presunta tristezza di Sarah. Bene, la mamma Concetta, nel momento in cui ha fatto ed ha reso la sua testimonianza, ha sottolineato come la ragazzina fosse uscita tranquillamente verso le otto e mezzo molto serenamente, senza nessun tipo di particolare tensione per recarsi a casa di Sabrina. La cliente che ha, come dire, seguito dopo Anna Pisanò, il trattamento presso Sabrina, afferma di aver visto Sarah molto serena e tranquilla, così come i due fornitori dove ella si è recata per acquistare prima la crema e poi col padre. E così come la zia Emma che nella stessa giornata l’aveva incontrata la mattina, quando era andata a prendere 5 euro, adesso non ricordo bene. Era tranquilla perché  a casa di Sabrina, lei, nella visita successiva della cliente successiva, lei si dimostra assolutamente serena, così come è stato dimostrato dalla testimonianza, adesso non ricordo il nome di chi ha partecipato, ha fatto il trattamento. Questo è un dato, poi viene dato per scontato, ed ho sentito qui alcune volte ripreso quest’argomento, che lei avesse litigato il giorno prima. Bene. Di questo litigio, come dire, ne traduce l’aria, la signora De Luca. Ma Mariangela, che era in macchina con Sabrina, nella sua testimonianza dice che davanti a lei non c’è stato nessun litigio all’interno dell’autovettura». Bruno Vespa chiede se ciò sia contenuto nel diario. «Le sto dicendo, guardi, quello che appare. Siccome tutto si svolge nel processo e qualsiasi elemento emerga, deve emergere nel processo, io le dico ciò che emerge nel processo. E nel processo è emersa una testimonianza chiara di Mariangela Spagnoletti, la quale dice che nella propria autovettura non c’è stato alcun litigio. E questo è un elemento. Poi gli altri elementi in relazione a ciò che ha detto la signora». Gli chiedono se nel Pub c’è stato il litigio. «Nel Pub non c’è stato nessun litigio. Stefania De Luca dice di aver visto Sarah abbacchiata, le chiede il motivo e Sarah non le risponde. Lei ritiene che sia abbacchiata perché era partito il fratello. Le fa la domanda. Dice: “perché. Pensi che ..per tuo fratello sei abbacchiata?”. Lei dice:”Sì”. “Ma non ti preoccupare”, le dice la De Luca, “guarda che poi tornerà”. Questo è il dialogo con la De Luca, tra la De Luca e Sarah». Le viene fatto rilevare la frase “per due coccole si vende, lo dice anche sua madre detta da Sabrina a Sarah che china il capo, quasi in lacrime”. «Certo. Certo, ma questo non significa assolutamente che ci sia stato un contrasto. Tra due ragazzine probabilmente. Siccome Sabrina aveva un atteggiamento materno e protettivo nei confronti di Sarah, probabilmente..e l’abbiamo legato anche questo dire “si vende per due coccole” agli atteggiamenti che aveva Sarah nei confronti degli amici, sia di Ivano che degli amici, degli altri amici.. estremamente affettuosa, tanto da abbracciarsi o altro. Tant’è da essere stata ripresa da Sabrina proprio in questa circostanza.» Sull’obbiezione del perché Sabrina non avesse voluto far consegnare il diario De Jaco afferma: «Allora, mi scusi. Io rimango sempre come difensore di Cosima Serrano, però, siccome alcuni elementi coincidono, allora è evidente che devo spendermi anche in questa direzione. Rispondo alla Dottoressa Marida che in pratica non sono io a smentire ed a negare la circostanza che Sarah fosse, come dire, amareggiata. L’hanno testimoniato cinque persone. Solo la Pisanò dichiara questo e vi dico anche il motivo. Vi dico anche il motivo. Dagli atti è emerso che in pratica Sarah non avesse tanta, come dire, partecipazione nei confronti della signora Pisanò, perché l’aveva accusata di aver sparlato dei suoi genitori. Quindi, sostanzialmente, c’è anche una motivazione per cui Sarah in qualche modo non rivolgesse la parola alla Pisanò, checché dica la Pisanò. Quindi tutti questi elementi, se evidentemente non vengono presi in considerazione nel momento in cui si analizza la vicenda, beh, chiaramente possiamo prendere solamente quelli che danno in qualche modo ragione all’accusa e nessuno alla difesa. Però, badate bene…ha detto bene il professor Fusaro (in studio). Sa, il processo non si fa su questi aspetti. Si fa su riscontri obbiettivi, su dati di fatto. Su quello che dice la Pisanò non ci sono elementi per cui si possa arrivare mai ad una condanna per omicidio». Per quanto riguarda la mancata consegna del diario  «Sabrina specifica per quale motivo all’inizio non aveva dato, non aveva inteso aiutare sotto questo aspetto a consegnare i diari. Perché siccome lei teneva molto ad Ivano Russo e siccome lì vi erano delle affermazioni che in qualche modo coinvolgevano Ivano Russo, ovviamente a difesa di Ivano Russo, siccome lo riteneva assolutamente estraneo, non voleva che fosse dato il diario. Chiaramente la lettura dell’accusa è diversa, perché lì si vuole in qualche modo concretizzare la ragione per cui Sabrina avesse a che dire con Sarah.» Alla richiesta di un commento sulle parole di Cosima Serrano “se è stata Sabrina deve fare 30 anni”. «Questa signora (Anna Pisanò) che si è data tantissimo da fare per spingere i testimoni a parlare, ha registrato con registratori alcuni incontri che lei ha avuto, che si è esposta in prima persona quando nessuno, sostanzialmente, poi dall’aprile dell’anno 2011 e non prima. Tenete presente che la signora Pisanò nella sua testimonianza afferma di aver saputo dalla figlia, a settembre 2010, che in pratica il Buccolieri aveva sognato. Lei ne parla il 5 aprile e a domanda specifica “signora ma quando l’ha saputo?”. “Ma io non l’ho detto prima perché non sapevo il nome”. “E quando l’ha saputo, signora?, “Mah, qualche giorno prima, cinque o sei giorni prima”. Ora il 5 aprile è la seconda volta che lei viene attenzionata in aprile ed il giorno prima, il 4, lei non fa parola di questa circostanza. Ancora, afferma di aver voluto creare la possibilità di trovare la verità su questa circostanza, fa quel dialogo con Sabrina Misseri, a conoscenza dell’altra vicenda legata al Buccolieri, non va dai carabinieri a raccontare il fatto o comunque anche il sospetto. Mentre invece, successivamente, fa tutto quel percorso che noi conosciamo. In relazione alla domanda che lei mi ha fatto, e mi scusi se ho trasgredito da quella, le dico semplicemente che, ovviamente, Cosima ha sempre sostenuto, sia nei confronti del marito, sia nei confronti della figlia, che pur ritiene assolutamente innocente, che se avessero in qualche modo qualche responsabilità nella vicenda, non dimenticate che la prima ordinanza di custodia cautelare era in concorso con il padre, quindi assolutamente, come dire, logico poi legare questa affermazione anche alla possibilità che si fosse realizzato un fatto del genere, lei ha sempre sostenuto, primo, che non avrebbe mai riavuto a casa il marito e, secondo, che sarebbe stata lei stessa a portare la figlia dai carabinieri se avesse mai sospettato di questo triste comportamento. Cosima sin dall’inizio aveva sostenuto che, essendo lei donna di altri tempi, essendo ancora la moglie, aveva il dovere di assistere il marito nella condizione in cui egli si trovava in carcere. Però lo faceva esclusivamente come dovere. Ha sempre sostenuto che non sarebbe mai più ritornata sotto lo stesso tetto e che quindi, in pratica, per quanto aveva fatto alla figlia, non l’avrebbe mai perdonato. Lei assolutamente lo ritiene responsabile dell’omicidio e ovviamente la cosa, che sottolinea sempre e costantemente, è che per quanto riguarda lei alla fine potrebbe succedere qualsiasi cosa, ma il fatto che la figlia, che sia così giovane, avesse la vita distrutta da questa situazione, la distrugge ancor di più. Direttamente da quello che dice la Cerra, nel suo interrogatorio, glielo riporto perché mi aspettavo che si precisasse tale circostanza. Risponde al Pubblico Ministero: “Il mio datore di lavoro mi ha raccontato di un sogno, non riesco a ricordare il giorno preciso. Buccolieri mi disse di aver sognato che Sarah camminava a passo svelto e che aveva il volto rattristato. Cosima, soprannominata Mimina, la madre di Sabrina, era passata davanti, in auto, ed aveva intimato Sarah a salire in auto. L’uomo disse che era un sogno, ma quando ci si sveglia talvolta uno pensa pure che sia la verità”. Questa è la dichiarazione di Cerra che contrasta con quanto afferma la stessa Pisanò, che racconta che la Cosima Serrano l’aveva presa per i capelli, è l’unica che afferma tale circostanza. Ancora, aggiungo, cosa dice Cerra della madre. Ad un certo punto. Vanessa Cerra ad un certo punto viene. La telefonata viene intercettata ed è agli atti. Sostanzialmente chiama Giovanni Buccolieri, il fioraio, e, anzi viene chiamata da Giovanni Buccolieri, il quale le dice: “Guarda che tua madre su Facebook mi ha detto ‘guarda, devi andare da Carabinieri, devi raccontare di questa cosa’”. E lui “ma come si permette di dire queste cose, per me è un sogno. E poi la figlia risponde, la Cerra risponde “domani mi faccio viva, allontano anche mia mamma, perché non voglio sentire neanche più mia mamma, perché mi sono scocciata e perfino ai carabinieri ho detto non mi chiamate più e lasciatemi in pace perché io non so niente. Se volete qualcosa lo dite a Giovanni perché Giovanni ha detto a me che è un sogno”. E poi aggiunge “a mia mamma tanto ultimamente non la capisco”. Questo è il ragionamento che fa Cerra nella telefonata intercettata che è agli atti. Quindi la signora Pisanò, su questa base, e voi la notate anche la contraddizione da come racconta il fatto, vedete bene che inizia e prima ancora che la figlia le dicesse che cosa era avvenuto “chi ti ha raccontato di questo?”. Se mandate di nuovo in onda il pezzetto, vi accorgete del contrasto che esiste nella sua dichiarazione. La Cassazione, innanzitutto, e lo ribadisco perché viene ribadito da alcuni interventi, non ha affermato assolutamente l’assoluta fondatezza del contenuto delle dichiarazioni di Anna Pisanò. E non le ha affermate in relazione a quanto detto dal Buccolieri. Ha affermato nella sua completezza che la dichiarazione della Pisanò in relazione, per esempio, ad alcuni fatti che sono stati dalla stessa raccontati, poteva essere credibile. Poi ha aggiunto. Mi scusi rispetto a questa circostanza vi sottolineo che per quattro volte la Cassazione ha dichiarato, sentenziando, che non vi erano gravi indizi che potessero portare all’affermazione di colpevolezza di Sabrina Misseri e di Cosima Serrano. Quindi è questo il dato obbiettivo, al di là della valutazione delle singole posizioni. Ciò che viene raccontato dal Buccolieri, abbiamo già sottolineato ed è stato sottolineato anche da una serie di altri elementi che sono emersi durante il processo, è frutto di una piccola esaltazione che in qualche modo il Buccolieri ha messo in atto verso la Cerra, dove voleva in qualche modo accreditarsi su una posizione. Poi ha affermato che era un sogno e la Cerra, così come altre testimonianze, hanno sempre sostenuto che il Buccolieri aveva richiamato quell’episodio come, esattamente, sogno. Se quel sogno fosse stato reale e concreto, lo stesso Buccolieri sarebbe andato dai carabinieri, oppure la Cerra od anche la Mamma della Cerra si sarebbero dovute produrre in tale direzione. Cosa che non è avvenuta e pertanto anche la stessa Pisanò probabilmente sin dall’inizio non ha creduto a questa circostanza. E poi faccio una piccola chiosa a tutto quello che ho detto. Pensate, questo processo è iniziato con questa dichiarazione del Pubblico Ministero: “Signori della Corte, voi dovete alla fine di questo processo dire chi è colpevole dell’omicidio di Sarah Scazzi, se è Michele Misseri o Sabrina o Cosima Misseri”Nel momento in cui si pone un quesito di questo genere alla Corte, in relazione a due accusate di sequestro di persona e di omicidio, vuol dire che nemmeno loro credono a quanto hanno fino ad oggi sostenuto. Quello lo dice la Pisanò. Io mi devo attenere a quello che dice la Cerra durante l’interrogatorio che è durato cinque ore innanzi al Pubblico Ministero, che l’ha interrogata e di cui abbiamo le trascrizioni e in queste dichiarazioni, che poi probabilmente confermerà all’ascolto durante l’udienza, lei afferma esattamente che il Buccolieri le ha sempre raccontato di un sogno. Mi viene, mi sovviene un detto. Dice: “Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”. E’ quello che io verifico in queste circostanze ed in questo processo, dove presunti amici ricordano tutto di tutti e poi sostanzialmente però riscontri obbiettivi non ne danno. La stessa Pisanò continua a raccontare cose che possono essere contraddette dall’interessata, senza avere nessuna possibilità di essere creduta in assoluto, perché un riscontro a tutto ciò che viene detto dalla stessa non c’è. Siccome qua stiamo parlando di ergastolo, stiamo parlando di accusa di omicidio e sequestro di persona, io credo che l’onorevole Rizzoli abbia posto bene in essere un concetto. Queste sono persone innocenti che sono a giudizio, ma per le quali, fino alla sentenza finale di Cassazione, quindi la sentenza definitiva, non possono essere ritenute colpevoli, malgrado tutti i media, tutti coloro che in qualche modo si sono avvicendati a discutere di questo argomento, abbiano assunto una posizione da subito colpevolista, perché probabilmente o sono antipatiche le persone o perché, ovviamente, ci si è costruiti un’idea su ciò che si è visto e non su ciò che si è sentito in aula. Io mi auguro che questo non sia, come dire, io senso comune della giustizia, ma sia un momento, un episodio che possa passare alla storia come poi i tanti che si sono già rappresentati quando abbiamo sbattuto il mostro in prima pagina e poi invece la storia giudiziaria ci ha raccontato cose diverse». In seguito si è mandato in onda le dichiarazioni del comandante della stazione dei carabinieri di Avetrana maresciallo Fabrizio Viva rese in processo per contestare il fatto che la Mamma di Sarah non sapesse cosa la figlia indossasse, mentre Sabrina ha descritto quelli indumenti ad Alessio Pisello che lo ha riferito agli investigatori ed in dibattimento. «Il 26 agosto, io appresi dal militare di servizio alla caserma, appuntato Spagnolo, che intorno alle 15:00 – 15:15, si era presentata la signora Serrano Concetta Spagnolo ed aveva presentato denunzia di scomparsa. Il militare aveva rimandato la signora a casa per riprendere le foto, anche perché non era in condizioni di riferire come era vestita Sarah. Quindi ne fece ritorno, la signora, intorno alle 17:00. - Intorno alle ore 17:00 poi presentò una denuncia formale? - Sì alle 17:20, ero anche io presente, perché il militare mi chiamò e la signora fece…formalizzò la denuncia per iscritto, e quindi indicò anche gli indumenti che indossava Sarah. La stessa mi riferì che ciò gli era stato riferito dalla badante della signora, Pantil Maria.» Insomma: si indica il colpevole e tutto quello che questo dirà sarà poi usato contro di esso.  A questo punto è scontato dire che è facile affermare “mai dire omertà”, specie se poi i giornalisti (e Carlo Bollino, direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno” era in studio)  soni i primi e soli che si esimono dal riportare tutte le posizioni in causa.

E poi fidarsi di chi? Se i giornalisti sono superficiali e poco professionali, che dire degli avvocati? Qui bisogna aggiungere un altro aspetto inquietante: chi difende i difensori?

Il giudice per l'udienza preliminare del tribunale di Lecce Carlo Cazzella il 12 maggio 2012 ha condannato, per tentata violazione del segreto d'ufficio, a 6 mesi di reclusione l'avvocato penalista Nicola Marseglia e il luogotenente dei carabinieri in servizio alla Dia di Lecce Antonio Giaimis, e a 4 mesi di reclusione il noto pregiudicato Giuseppe Florio. I tre imputati erano coinvolti in uno stralcio dell'inchiesta antimafia denominata Scarface che il 12 ottobre del 2010 portò all'arresto di 47 persone. A tal proposito i giornali e le tv locali hanno sempre taciuto od omesso il nome dell’avvocato coinvolto nei riferimenti alla cronaca giudiziaria attinente l’inchiesta. La notizia, ormai inevitabilmente divulgata, non è riportata da tutta la stampa, tanto meno dai giornali e tv locali, nonostante il nome dell’avvocato legato alla difesa di Sabrina Misseri e quindi al delitto di Sarah Scazzi. Da Mimmo Mazza de “La Gazzetta del Mezzogiorno” si viene a sapere che il giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Lecce Carlo Cazzella ha condannato, per tentata violazione del segreto d’ufficio, a 6 mesi di reclusione l’avvocato penalista di Manduria Nicola Marseglia, difensore tra gli altri di Sabrina Misseri in qualità di sostituto dell’avvocato Franco Coppi di Roma, e il luogotenente dei carabinieri in servizio alla Dia di Lecce Antonio Giaimis, e a 4 mesi di reclusione il noto pregiudicato Giuseppe Florio. I tre imputati erano coinvolti in uno stralcio dell’inchiesta antimafia denominata Scarface che il 12 ottobre del 2010 portò all’arresto di 47 persone. Il 21 ottobre del 2010 il giudice delle indagini preliminari Ercole Aprile, accogliendo la richiesta formulata dal sostituto procuratore Lino Giorgio Bruno, fece notificare dagli agenti della Squadra Mobile di Taranto una ordinanza di sospensione di due mesi dal servizio a Giaimis e un provvedimento di divieto temporaneo a svolgere la professione a Marseglia, indagati in concorso con Florio e un ristoratore tarantino - che ha scelto invece il rito ordinario - per tentato favoreggiamento e tentata divulgazione di atti coperti da segreto istruttorio. Il provvedimento interdittivo fu, peraltro, revocato dal tribunale del riesame. Proprio il ruolo avuto da Florio nell’organizzazione ha fatto scattare nei confronti dei due imputati eccellenti anche l’aggravante di aver favorito una associazione mafiosa. In sede di discussione, il pubblico ministero Elsa Valeria Mignone aveva chiesto di condannare Marseglia e Giaimis e 6 mesi di reclusione per l’accusa di tentato favoreggiamento e l’assoluzione di Marseglia, Giaimis e Florio per l’altro capo di imputazione, ovvero la tentata rivelazione di segreto d’ufficio. Secondo il sostituto procuratore Lino Giorgio Bruno, Florio, tramite alcune conoscenze, avrebbe cercato di carpire notizie sulle indagini sul suo conto. Per l’accusa, «Giaimis, su istigazione e determinazione di Marseglia e Florio, con violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, profittando dei rapporti che, per ragione di servizio, intratteneva con il dirigente della Squadra Mobile di Taranto Fabio Abis, avrebbe compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco ad ottenere informazioni riservate sull’attività di indagine in corso di svolgimento nei confronti di Giuseppe Florio che dovevano rimanere segrete, così da rivelarle per il tramite di Marseglia, a Florio. Senza riuscire nell’intento per cause indipendenti dalla sua volontà». Il gup Cazzella, pur condannando Marseglia, Giaimis e Florio (difeso dagli avvocati Emidio Attavilla e Luigi Esposito) per la tentata rivelazione di segreto d’ufficio, ha ritenuto insussistente l’aggravante di aver agito per agevolare l’associazione mafiosa. Ossia: l’ufficio del PM chiede una cosa il Gup ne concede un’altra. Questo per quanto riguarda gli avvocati. E con i magistrati come siamo messi? Sempre a Lecce l’11 maggio 2012 sui giornali e le tv si parla del fatto che il CSM deciderà sul possibile trasferimento ad altro ufficio del presidente del tribunale di Lecce Alfredo Lamorgese. L'incompatibilità è stata confermata dal consiglio giudiziario e dall'ordine degli avvocati presieduto da Luigi Rella, avvocato con Franco De Jaco di Cosima Serrano. Incompatibilità per parentela con il figlio avvocato che opera in quel distretto e che ha centinaia di cause. A Taranto, in tema di incompatibilità, si è parlato di Aldo Petrucci, già Procuratore capo della Repubblica presso il Tribunale di Taranto. Anomalia scoperta durante l’inchiesta “Toghe Sporche” in cui lo stesso era indagato con il capo dei GIP del medesimo Tribunale, Giuseppe Tommasino. I pm Cristina Correale e Ferdinando Esposito nel febbraio 2009 hanno messo sotto inchiesta l’ex procuratore capo di Taranto Aldo Petrucci e l’ex coordinatore dell'ufficio gip-gup Giuseppe Tommasino. Tutto ha preso il via da una segnalazione alla procura di Potenza, competente ad indagare sui magistrati ionici. L’attività delegata ai carabinieri ha rivelato più di una sorpresa, saltate fuori da diverse testimonianze e acquisizioni documentali. Così si sono fatti largo i sospetti su quel binomio in grado di gestire il destino dei fascicoli, spedendo in archivio quelli "sgraditi". Tra i presunti beneficiari l’ex primo cittadino di Martina, Leonardo Conserva. Il procuratore Petrucci, a parere dei pm potentini, si sarebbe assegnato un procedimento sul conto del sindaco. Le indagini sarebbero state condotte in maniera poco approfondita spianando la strada all’archiviazione, firmata puntualmente dal gip Tommasino. Ma tra sindaco e procuratore sarebbe nata una vera amicizia, tradotta dai pm nell´accusa di corruzione, in virtù delle consulenze comunali, per un valore di 283.000 euro, dirottate da Conserva verso lo studio legale in cui lavora la figlia del magistrato. Ad onor del vero c’è da dire che tale procedimento penale ha sortito l’assoluzione per entrambi i magistrati: Aldo Petrucci e Giuseppe Tommasino. A Brindisi il plenum del Csm ha deliberato il trasferimento d'ufficio del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brindisi Giuseppe Giannuzzi, in seguito alla situazione di incompatibilità parentale con il figlio, l'avvocato Riccardo Giannuzzi, iscritto all'albo degli avvocati Lecce. Lo fa presente una nota di Palazzo dei Marescialli del 25 giugno 2008. Tutto nasce da un procedimento penale nel quale il figlio del magistrato assunse la difesa di alcuni indagati, sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Bufera al palazzo di giustizia di Brindisi ma nessun commento ufficiale. Tutto quanto ciò succede nel distretto della Corte di Appello di Lecce a cui fanno capo i Tribunali di Taranto, Brindisi e Lecce fa riflettere sul modo in cui si amministra la giustizia. Della serie: non è mai troppo tardi per sollevare le anomalie, nonostante i protagonisti stentino a chiedere il trasferimento. Detto ciò ci mancherebbe anche che la stampa nazionale, oltre che omertosa, definisse Avetrana e tutto il Salento un covo di mafiosi.

Ma in questa storia non c’è limite a niente.

La notizia sconcertante la riporta “Il Quotidiano di Puglia” del 12 maggio. Giochi erotici che sarebbero finiti in tragedia, atti particolarmente cruenti tanto da portare alla morte Sarah. E' l'ultima, sconcertante ipotesi sulla morte della 15enne di Avetrana, contenuta in un rapporto di un'agenzia investigativa cui Claudio Scazzi, il fratello della vittima, si era rivolto per fare luce sulla vicenda. Secondo la "Aldo Tarricone Investigazioni", è l'ambiente avetranese ad essere "saturo" di pratiche sessuali «fuori norma», come può essere, ad esempio, lo scambio di coppia. Nello specifico, però, spiegano gli 007 privati assoldati da Claudio, Sarah potrebbe essere rimasta vittima di un "gioco" chiamato "breath play", ovvero il soffocamento allo scopo di procurare piacere erotico, sostanzialmente lo stesso che ha portato alla morte della ragazza di Guagnano, l'anno scorso. Ecco, allora, che lo scenario muta: Sarah e Sabrina potrebbero essersi trovate nel garage e dato il via al "gioco" - non è chiaro se Sarah fosse consenziente o meno. Poi tutto sarebbe sfuggito di mano, tanto da portare alla morte della ragazzina. Se la ricostruzione sia vera o meno, è difficile da capire, anche perché il documento prodotto dalla "Aldo Tarricone Investigazioni" non è agli atti del processo.

Intanto, Michele Misseri, lo zio di Sarah Scazzi e uno dei protagonisti del tristemente noto delitto di Avetrana, continua a catalizzare l'attenzione mediatica. Da quando fu scarcerato all'inizio di giugno del 2011, Michele Misseri è tornato nella sua abitazione. Spesso, però, i fotografi cercano di carpire particolari sulla sua vita. E sorpreso dallo scattare delle macchine fotografiche, lo zio ha perso la testa e come testimoniano le immagini pubblicate dai giornali, armato di chiave inglese, è schizzato fuori dal suo box per cercare di aggredire i fotografi.

22 maggio. Sedicesima udienza. Parla Giuseppina Scredo, Rocco Zecca, Marco Buccolieri, Gaetano Colucci, Donata Prudenzano.

Udienza che ruota, ancora, intorno al sogno del fioraio. È slittata la deposizione di Vanessa Cerra, l'ex commessa del fioraio Giovanni Buccolieri che raccontò, per poi definirlo solo un sogno, di aver assistito al presunto sequestro della ragazzina. E con lei è saltata anche la deposizione del marito.

Resoconto della giornata.

Ore 09:30 -  parla Rocco Zecca. L'udienza si è aperta con la deposizione di Rocco Zecca, ex grossista di fiori di Leverano (Lecce) dal quale Giovanni Buccolieri si serviva. L'uomo non ha riferito nulla di significativo salvo che Buccolieri gli chiese se fosse stato interrogato dai carabinieri in merito alla scomparsa di Sarah.

Ore 10:15 – parla Giuseppina Scredo. «Dopo l'arresto di Michele Misseri mio marito mi disse che era sconvolto per un sogno che aveva fatto. Raccontò che aveva sognato Sarah che camminava per strada e Cosima la rincorreva con la macchina dicendole: sali in macchina, sali in macchina». Lo ha riferito deponendo in Corte d'assise Giuseppina Scredo, moglie di Giovanni Buccolieri, il fioraio che in un primo momento dichiarò agli investigatori di aver visto il 26 agosto 2010 Cosima Serrano costringere la ragazzina a salire a bordo della sua auto, salvo poi sostenere che si fosse trattato di un sogno. «Mio marito - ha aggiunto la donna - mi chiese: ti ricordi se quel giorno avevo fatto una consegna? Era turbato perchè diversi clienti avevano detto di aver sognato Sarah e lui si era fatto suggestionare». La teste ha precisato che la prima volta che Buccolieri le parlò del sogno c'era solo lei, mentre in una seconda circostanza c'era anche la commessa Vanessa Cerra. Quest'ultima consigliò al fioraio di andare dai carabinieri, ma lui rispose: «Perché devo andare dai carabinieri se non sono sicuro di una cosa?». Poi disse a Vanessa: «Non andare a dirlo in giro perché era solo un sogno». «Quando parlava di questo fatto - ha sottolineato ancora la donna - gli veniva la pelle d'oca». «Mio marito era turbato proprio per la presenza nel sogno di Cosima, che conosceva, e sapeva che stavano emergendo elementi a carico della donna». Il pm ha fatto presente alla teste che gli elementi investigativi a carico di Cosima Serrano emersero in un secondo momento, nel febbraio 2011. La donna ha precisato che all'epoca dei fatti, in televisione, non si parlava d'altro: «Se non si fosse trattato di un sogno Giovanni me lo avrebbe detto lo stesso giorno. Gli dissi: fai chiarezza nella tua mente, ma lui mi ripeteva che era solo un sogno. Lui comunque non sognava quasi mai». La teste ha poi avuto un'incertezza dicendo di non aver «mai capito il luogo in cui si sarebbe svolta la scena del sogno. Forse - ha osservato - via Umberto, ma non ricordo il luogo dove lui ha visto».

Ore 11:45 – parla Marco Buccolieri. Marco Buccolieri, fratellastro del fioraio Giovanni Buccolieri, ha riferito di aver appreso dalla televisione dell' episodio del sogno in relazione al caso della scomparsa di Sarah Scazzi e ha aggiunto di essersi recato il giorno dopo nel negozio di Giovanni insieme con la sua fidanzata Gabriella Fusarò. Quest'ultima, secondo quanto riferito dal teste, chiese a Giovanni del sogno. «Disse che la signora Cosima e sua figlia stavano trascinando in macchina Sarah e che il fatto era accaduto in via Deledda». Il pm ha contestato al testimone che in fase di interrogatorio non aveva fatto alcun riferimento a Sabrina Misseri.

Ore 12:30 - Si è avvalsa della facoltà di non rispondere Donata Prudenzano, sorella di Cosima Prudenzano, suocera di Giovanni Buccolieri.

Ore 12:45 – parla Gaetano Colucci. Gaetano Colucci, il marito della titolare di una pasticceria che, il 26 agosto 2010, consegnò una torta matrimoniale in un ristorante di Avetrana, ossia "La Grottella" di Giuseppe Nigro indagato con lo stesso Giovanni Buccolieri, e raggiunse il ristorante a bordo di un furgone bianco percorrendo via Ariosto, via Buonarroti, la strada del mare, via Martiri d'Ungheria e via Leoncavallo, strade lungo le quali potrebbe aver visto Sarah.

Nell'udienza, fissata per il 5 giugno prossimo, saranno ascoltati Cosimo Maggi, Giovanni Prignani, Rosa Martino (consulente del pm), Dora Chiloiro, Roberta Bruzzone, Clemente Di Crescenzo, Anna Lucia Morleo, Giovanni Lamarca (della Polizia penitenziaria) e tre carabinieri del Ris: il maresciallo capo Davide Numelli, il maresciallo capo Giuseppe Finizia e il maggiore Andrea Berti. La criminologa, consulente del primo difensore di Michele Misseri, l’avvocato Daniele Galoppa (da ottobre 2010 a gennaio 2011), è uno dei testi della pubblica accusa. Una buona parte della prossima udienza sarà dedicata a circostanze che riguardano il contadino di Avetrana considerando la presenza della Bruzzone ma anche di altri testimoni, Cosimo Maggi, Giovani Primiani e il commissario Giovanni Lamarca, rispettivamente infermiere, psichiatra del carcere di Taranto e comandante degli agenti della Polizia Penitenziaria. E’ stato convocato anche il compagno di cella di Michele, Clemente Di Crescenzo. I pm Mariano Buccoliero e Pietro Argentino hanno citato, fra gli altri, anche l’esperta di grafologia Rosa Martino (perito per la firma apposta su un assegno bancario di Cosima), i carabinieri del Ris di Roma, i marescialli Davide Numelli e Giuseppe Finizia e il maggiore Andrea Berti. I militari del Reparto investigazioni scientifiche hanno effettuato le consulenze sui cellulari di Sarah, Sabrina e Michele e i sopralluoghi nell’abitazione e nel garage. Altre udienze sono programmate per il 19 giugno, il 3, il 10 e il 17 luglio.

Intanto il plastico di villa Misseri di via Grazia Deledda ad Avetrana compare nel calendario della Polizia. La casa del delitto di Sarah è stata scelta per illustrare il mese di maggio 2013. La casa dove il 26 agosto fu uccisa la quindicenne Sarah Scazzi, il famoso garage e il cancello marrone divenuto ormai simbolo dell’orrore, rappresenta il mese di maggio. La polizia pensa di rilanciare la sua immagine puntando sui plastici di Bruno Vespa. In particolare quello di Avetrana, dove il 26 agosto 2010 venne uccisa la quindicenne Sarah Scazzi. Nel calendario ufficiale dove i dodici mesi sono illustrati con gli "amici" della Polizia, maggio è rappresentato da Bruno Vespa. La foto in particolare è quella che ritrae il plastico della villa con una rappresentante della polizia durante una puntata della trasmissione televisiva di Rai Uno, «Porta a Porta». Nei dodici mesi del calendario ufficiale della polizia compaiono gli amici del corpo con le stellette. E la foto scelta è quella del conduttore con addosso la tuta della scientifica che supportato da veri poliziotti "indaga" all'interno della villetta di Avetrana riprodotta in scala: uno degli innumerevoli plastici con cui a Porta a Porta vengono commentate le notizie di cronaca nera. In effetti è l’unico modo per vedere l’immobile nel suo prospetto originale dal momento che nella realtà l’intero edificio è stato occultato da una e impenetrabile rete di colore verde che permette al padrone di casa, Michele Misseri, la riservatezza persa da quando è stato scarcerato e trasferito nella sua residenza dove è costretto a vivere sotto i riflettori dei media. Sulla proprietà della casa, c’è da dire, hanno già puntato gli occhi alcuni suoi ex avvocati e consulenti che vantano crediti per parcelle e risarcimenti vari per diverse centinaia di migliaia di euro. C'è da chiedersi cosa ci sia di così esaltante nei plastici di Vespa. Chissà forse la Polizia avrebbe potuto affidare a qualcun'altro o a qualcos'altro la sua promozione...La casa del delitto di Vespa rappresenta il mese di maggio. Maria Grazia Cucinotta fermata ad un posto di blocco illustra novembre, a Lino Banfi nella parte del commissario incazzéto luglio, passando per la “banda” Bonolis-Laurenti in fuga col malloppo dicembre e i tiratori scelti Yuri Chechi e Luca Zingaretti ottobre.

Il 21 maggio 2012 arriva il cordoglio della Città di Avetrana per la morte di Melissa Bassi, morta per il tragico attentato a Brindisi, presso la scuola di moda che frequentava. Tra i tanti messaggi di cordoglio giunti per la morte di Melissa Bassi, crediamo meriti sottolineatura quello che giunge dal Comune di Avetrana (Taranto), paese anch'esso assurto agli onori delle cronache nazionali per l'omicidio di un'altra ragazza nel fiore degli anni, Sarah Scazzi. Ne riportiamo integralmente il testo:

Il Presidente del Consiglio, il Sindaco, i Consiglieri Comunali di AVETRANA (Ta) ESPRIMOMO il proprio Cordoglio per la vittima della violenza – la Studente MELISSA -; siamo vicini ai loro famigliari e ai giovani rimasti feriti. La matrice delle esplosioni non è ancora confermata, tuttavia in questo momento particolare per le comunità colpite e non solo, le vogliamo ricordare con un messaggio di speranza che Giovanni Falcone, ucciso venti anni fa, ebbe a dire: “ Certo che voglio l’esercito in Sicilia ( Puglia… ) ma un esercito di insegnanti, perché la mafia teme la cultura … “. La fiducia e la speranza di tutti noi rimane quella di una scuola che continui ad essere fucina di cultura e di legalità, rispetto per gli altri e per quelle regole che “sono il potere dei senza potere“ come ci sussurra Gian Carlo Caselli. Alla ragazza rimasta uccisa e ai parenti, unitamente a tutti i feriti, vanno il nostro ricordo e la nostra presenza di impegno. Altrettanto, per il mondo della scuola, delle forze dell’ordine, delle istituzioni ai vari livelli, la nostra solidale attenzione, certi, che tutti INSIEME, ognuno per la propria parte, diveniamo testimoni e promotori della Cultura della Solidarietà, della Democrazia, della Legalità, della Giustizia e della Pace.

Ma anche in questa occasione la stampa ha dato risalto ai suoi limiti. Il quotidiano Il Mattino ha realizzato una breve intervista video a C.S., l'uomo sospettato di essere l'autore dell'attentato di Brindisi. Il suo nome era finito sulle pagine di tutti i media nazionali, scatenando le furiose reazioni di centinaia di cittadini che, al suo arrivo in questura, hanno letteralmente tentato il linciaggio. Intanto la sua pagina Facebook era già stata presa d'assedio. «Ora - ha spiegato l'uomo - vorrei essere lasciato in pace dopo questa terribile avventura. Ho pagato con il sospetto l'avere la mano destra paralizzata che fa il paio con l'immagine del video dell'attentatore che ha la mano destra nella tasca destra. Ho pagato con il sospetto la mia capacità di lavorare con computer, radiotelevisioni e tutto quanto c'è di informatica. Ieri mattina sono venuti a casa mia poliziotti e carabinieri, mi hanno spinto su un divano. Con me c'era la mia bambina di 3 anni che poi è venuta con me e per tutta la notte è stata con me in questura». Piccola curiosità: al secondo 54 del video si sente una voce maschile, che sembrerebbe quella di Sandro Ruotolo, domandare a C.S. se sia stato trattato bene durante l'interrogatorio. Proprio il giornalista di “Servizio Pubblico”, il programma di Michele Santoro, noto per la sua piega giustizialista e pro magistrati, era stato uno dei primi a diffondere, via Twitter, nome e cognome del sospettato, oltre a una fotografia della sua casa. La diffusione del nome del sospettato aveva dato il via al linciaggio mediatico e solo le forze dell'ordine sono riuscite a evitare che si trasformasse anche in violenza fisica.

Come si apprende dalla pagina Facebook di Sandro Ruotolo, per lui "l'ideale di un giornalista è raccontare i fatti come li vede, senza riguardo per le conseguenze o le polemiche che ne possono derivare". La domanda è "i fatti visti con i propri occhi, spesso velati di ideologia e pregiudizi, e comunque anche se la conseguenza è il linciaggio di un innocente?

La sociologia storica, è lo studiare lo stesso comportamento umano attuato nel tempo in riferimento a precise circostanze. In questo campo è un emerito rappresentante e studioso il presente rendicontatore della vicenda del delitto di Sarah Scazzi, ossia lo scrittore Antonio Giangrande. Ecco perché il racconto ha un taglio sociologico. Il delitto di Sarah Scazzi ed il suo processo non può essere alieno dalla realtà che lo circonda, per poter capire meglio le sue sfumature.

"La sociologia non si scrive con le maiuscole", Alain Touraine; "Sociologo è colui che va alla partita di calcio per guardare gli spettatori", Gesualdo Bufalino. Ecco perché riportiamo il parere del sociologo Emanuele Toscano riportato da “L’Espresso”.

SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA

La follia e il dolore che hanno caratterizzato i fatti di Brindisi, l’assurdità del gesto e la vulnerabilità delle vittime scelte hanno dato corpo a una mostruosità che ieri si è consumata sui media e sui social media italiani. Parlo della gogna mediatica cui è stato sottoposto il perito elettrotecnico brindisino interrogato in quanto sospettato (che è molto, molto diverso da “accusato“, che a sua volta è molto, molto diverso da “colpevole“) di essere l’uomo che si vede nei video registrati dalle telecamere di sicurezza poste dal lato opposto della strada di fronte la scuola, mentre sembra premere il grilletto che aziona l’esplosione. Mentre tutta l’Italia era – giustamente – stretta a sé per affrontare il dolore tremendo e incomprensibile generato dalla morte di Melissa, o impegnata nel seguire gli sviluppi del terremoto in Emilia, o a commentare i risultati dei ballottaggi alle amministrative, su Twitter e su Facebook è stato diffuso il nome del sospettato. Responsabili della fuga di notizie (e della scelta di pubblicarle) non sono stati solamente utenti qualsiasi dei social media, ma professionisti affermati del giornalismo nostrano: Sandro Ruotolo pubblica nome, cognome e addirittura una foto - ma poi la cancella – della via dove abita il sospettato. Subito, con forconi e torce virtuali, ci si è messi alla caccia del sospetto, che velocemente, con il passaparola e un paio di retweet, si è trasformato nel “mostro”. Per capire di cosa sto parlando, vi riporto alcuni dei post che sono stati scritti sulla pagina FB in cui il perito elettrotecnico pubblicizza la sua attività di riparazione di computer e apparecchi televisivi: “Spero ti fanno a pezzi e il telecomando te lo mettono nel culo..”; Brutto figlio di puttana bastardo carogna infame pezzo di merda…quella grandissima puttana di tua madre che ti ha concepito poteva andare a fare la puttana da qualche altra parte…te la sei presa con un anima innocente…devi morire” ecc. Post come sassi, lanciati per lapidare chi è stato giudicato colpevole ancora prima di essere non dico processato, ma anche solo accusato del reato. Un processo sommario consumato tra una pratica e l’altra dall’ufficio, seduti alla propria scrivania o in fila al supermercato, tornando a casa dal lavoro, durante i compiti del pomeriggio. Oltre alle giuste e condivisibili considerazioni proposte da pochi avveduti che considerano il giornalismo ancora una professione con una sua dignità e una sua etica, e non l’esercizio di un sensazionalismo gossipparo e morboso, è necessario riflettere su alcuni aspetti che la questione solleva. In Italia si è innocenti fino a prova contraria.

Non colpevoli. Innocenti. E’ una conquista della democrazia, e deve essere difesa così come si difende il diritto alla libertà di informazione (qui si potrebbe aprire una lunga parentesi sul rapporto tra libertà e responsabilità, ma lo rimando ad un altro momento). Anche se, poniamo il caso, i sospetti si rivelassero fondati, e il sospettato quindi si trasformasse in accusato, sarebbe comunque tutelato dalla presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva. Troppo spesso, però, si è affermata l’equazione per cui se si crede nella giustizia, regolamentata e esercitata da quei meccanismi di giudizio e valutazione che la storia dell’uomo ha elaborato e istituito nel corso dei secoli, si è in qualche modo indulgenti nei confronti dei sospettati o, peggio ancora, dei colpevoli. Volere un processo giusto, per qualunque crimine commesso, anche il più efferato, non significa voler perdonare.

Assolutamente no. Il giustizialismo forcaiolo trova terreno fertile in un paese in cui la giustizia – come istituzione – è stata sistematicamente attaccata da una precisa parte politica ad uso e consumo del suo leader. Ma non solo. Secondo l’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa, la giustizia italiana è in crisi anche e soprattutto perché vanta il non invidiabile record, in Europa, del maggior numero di sentenze inapplicate (2.522 su un totale di 10.689) a causa della sua lentezza nelle procedure. Crisi che è perfettamente percepita dagli italiani, che dichiarano di avere fiducia nel sistema giudiziario, secondo il Rapporto annuale sugli atteggiamenti degli italiani nei confronti delle istituzioni e della politica 2011 redatto da Demos, solo nel 41,6% dei casi (perdendo 8 punti percentuali rispetto all’anno precedente). In pratica 4 italiani su 10 non credono nella magistratura. E aggiungo io: visto che siamo al 4° posto in Europa per tasso di litigiosità con 4.768 contenziosi ogni 100.000 abitanti e che quindi i tribunali li frequentiamo parecchio, questo dato è probabilmente influenzato dalle esperienze dirette o indirette di inefficienza del sistema giudiziario e dal diffuso senso di impunità che la politica e il malaffare hanno contribuito ad alimentare. Ricostruire il paese è compito di tutti. Nessuno si senta escluso. Giornalisti, legislatori, politici, magistrati, singoli cittadini e cittadine. Ridare fiducia alle istituzioni, e riformarle per renderle degne di questa fiducia, è un’operazione irrinunciabile che è possibile solo con uno grande sforzo collettivo. Gianni Pacinotti ha raccolto in un video commenti del gruppo di Facebook “Lasciate lo zio di Sarah alla folla”, associando il commento all’immagine del profilo FB di chi lo aveva lasciato. Lo sforzo collettivo che bisogna fare, a mio avviso, deve essere tale da colmare la distanza che si percepisce tra le immagini del video e i commenti efferati lasciati dagli utenti. Per evitare lapidazioni sommarie e mostri in prima pagina.

A questo punto parliamo di Avetrana e Taranto, Mesagne e Brindisi ed i luoghi comuni.

La tragedia di Melissa Bassi dimostra ancora una volta la bassezza della nostra Italietta. Non quella Italia fatta di lavoratori che pagano le tasse e che si tolgono la vita quando non possono più sbarcare il lunario o dare un avvenire ai loro figli, ma quell’Italietta fatta da gente parassita che vive alle spalle della povera gente, finanziata dalle loro tasse. Gentaglia che rappresenta l'Italia in modo vergognoso. A tal proposito disgustato è il resoconto di Umberto Martelli su “Articolo Tre”. Ennesima caduta di stile, per una certa informazione italiana, che ha voluto cavalcare l'onda dell'attentato alla scuola Morvillo-Falcone di Brindisi, pubblicando le immagini della cameretta e della prima comunione di Melissa Bassi, l'unica giovane vittima che ha perso la vita in quell'infame mattinata del 19 maggio 2012. Ormai l'Italia è abituata ad un'informazione di "qualità" "sensibile" alle disgrazie e al dolore delle famiglie. L'ironia è da sottolineare. L'Italia è anche abituata a vedere vere e proprie orde di affamati e bavosi giornalisti pronti a scorgere una lacrima sul viso di un genitore, infilandosi nelle vite private delle famiglie cercando di scattare fotografie struggenti, appostandosi notte e giorno di fronte alle abitazioni di parenti e amici con la speranza di cogliere la disperazione per poi rivenderla al suo affamato quanto cinico pubblico, come se fosse una merce priva di significato, rendendo vano il lavoro di quelle centinaia di giornalisti che del loro mestiere ne hanno fatto una missione e non un infame gioco, alla ricerca della verità e molto spesso della giustizia. Turismo dell'orrore così è stato soprannominato dagli stessi mezzi d'informazione che molto spesso sono gli stessi fautori, gli stessi promotori di questo turismo basso e becero. Di esempi ne possiamo trovare a decine ma senza dover andare a rivangare troppo nel passato possiamo citare ad esempio l'assassinio di Sarah Scazzi dove proprio alcuni tg nazionali e alcuni giornali hanno marciato sull'uccisione di una ragazzina portando davanti al portone della casa di Avetrana centinaia di "stupidi", e scusate il termine, italiani. Oppure il caso Cogne, piccolo paese valdostano che ha visto negli anni successivi al processo Franzoni l'aumentare di vere e proprie processioni da tutta Italia per vedere la villetta dove si consumò il delitto del piccolo Samuele ed infine le fotografie dei "turisti" all'Isola del Giglio di fronte al relitto della Costa Concordia dove perirono 30 persone per la smania di un comandante un po' troppo su di giri. Nessuno vuole imputare ai mezzi d'informazione tutte le colpe per il cinismo e l'ignoranza di molte persone, ma c'è da dire che in qualche caso la colpa è evidente. Per fortuna l'Italia reale è un'altra rispetto a quella virtuale plasmata dall'informazione mainstream, l'Italia reale è quell'Italia che oggi su Twitter e su Facebook ha voluto gridare la propria indignazione a tale informazione postando decine di commenti sui profili web di molte tv e giornali ei media al grido di "vergogna", poi prontamente eliminati dai raffazzonati social media editor della redazione che forse non hanno capito che al web il bavaglio è difficile se non impossibile metterlo.

Ed i magistrati in Puglia? Ne parla Marco Ventura su Panorama. Ed allora Parliamone. Scoppiano tre bombole di gas collegate tra loro dentro un cassonetto dell’immondizia all’ingresso di una scuola di Brindisi e muore Melissa Bassi, 16 anni. Veronica, accanto a lei, lotta tra la vita e la morte, e ci sono altri quattro feriti. Figli nostri, nel mirino. Un orrore inaudito. L’Italia sotto shock. Ci si aspetta da chi indaga serietà, concordia e efficienza. Nulla di più, nulla di meno. Che i magistrati facciano il loro lavoro, che si mettano in silenzio a cercare il colpevole, o i colpevoli. Che s’impegnino con discrezione senza tregua. Assistiamo invece ad uno spettacolo indecente. I titolari dell’inchiesta sembrano impegnati più a litigare tra loro, a lanciare messaggi confusi, a tenere conferenze stampa e a dare interviste televisive (ma dove lo trovano il tempo?). L’impressione è quella del solito protagonismo, delle solite vanterie sulla rapidità degli accertamenti investigativi. Del solito caos, delle solite polemiche, perfino delle solite accuse ai giornalisti (che si limitano a divulgare le notizie fatte trapelare dai palazzi di giustizia). Davvero non sentivamo il bisogno di questa babele di voci in libertà, di alti funzionari dello Stato che aprono bocca e danno fiato uno contro l’altro tra gelosie malcelate, e che neppure di fronte a morti e feriti rinunciano a manifestare il loro incontenibile super Ego. Che si avventurano in ipotesi da loro stessi definite “premature” (ma che combaciano con l’interesse di ciascuno ad appropriarsi dell’inchiesta). L’ennesimo scontro di potere. Parliamone. Parliamo del procuratore capo di Brindisi, Marco Dinapoli, che all’indomani della strage convoca i giornalisti e rivela l’esistenza di immagini buone per l’inchiesta, registrate da una telecamera, “che ci siamo andati a prendere”. E lo dice, scrive l’agenzia di stampa nazionale ANSA, “sottolineando che gli investigatori hanno lavorato a testa bassa per raccogliere tutti gli elementi che vanno raccolti subito, altrimenti sarebbero andati perduti”. Che sarebbe il minimo, per degli investigatori. E aggiunge che in quel video c’è l’identikit dell’attentatore, anche se ancora non ha un nome: un uomo di 50-55 anni, bianco, probabilmente italiano. Esclusa di fatto la pista della mafia o della Sacra Corona Unita, così come quella del terrorismo eversivo, il procuratore capo di Brindisi già delinea il profilo psicologico dell’uomo: “Una persona arrabbiata e in guerra con il mondo, che si sente vittima o nemico di tutti e che utilizza una simile occasione per far esplodere tutta la sua rabbia”. I cronisti capiscono che la cattura è questione di ore. Che in realtà il nome esiste già, il giallo è risolto. Invece, colpo di scena, arriva un magistrato importante almeno quanto il suo collega, il procuratore capo della procura distrettuale antimafia di Lecce Cataldo Motta, che visibilmente contrariato dichiara alle Tv l’esatto opposto: “Non siamo in condizioni di dire che è il gesto di un folle. Non c’è da capire soltanto il movente, ma ancora tutto”. E quasi nega che esista un video. Intanto, però, le immagini del presunto attentatore vengono divulgate. Finiscono su Internet, la stampa le pubblica. Averle diffuse fa parte della strategia investigativa? Non per Motta, anzi: “Pubblicare quel video può aver danneggiato le indagini”. Attenzione: se anche litigano tra loro, i magistrati son sempre pronti a puntare l’indice sui giornalisti. “Pubblicare il video”, dice Motta. Non “divulgare”. La colpa è di quelli che divulgano le notizie (facendo il loro mestiere), non di quelli che le spifferano (contravvenendo al proprio dovere). Tanto, alla fine sono sempre i cronisti a “enfatizzare le diversità di vedute”. Motta incorre pure lui nell’errore del collega, avanzando teorie, “è difficile che abbia agito da solo”. Ma, precisa, “è prematuro dirlo”. Allora perché dirlo? Perché straparlare? Parliamone, invece, noi che non solo possiamo, ma dobbiamo. I genitori di Melissa e degli altri ragazzi meritano indagini più serie, più discrete, un messaggio più coerente e istituzionale da parte di chi dovrebbe cercare la verità e non il palcoscenico. Chi dovrebbe lavorare sulla scena del crimine, non su quella dei media.

Guai a mettersi contro i magistrati, ma non scherzano nemmeno i giornalisti, famosi per la loro permalosità. Ma è ancor di più pericoloso mettersi contro la chiesa, specie quella militante di sinistra sorretta e promossa dalla CGIL.

Già. Ma cosa centra Melissa Bassi con Don Ciotti e “Libera” con la sua schiera di sostenitori interessati, fruitori esclusivi dei beni confiscati alla mafia? Quel Don Ciotti e la sua creatura “Libera” osannata dalla stampa e dalla Tv ed a cui sono state dedicate sui servizi tv e sugli articoli di stampa più riferimenti e citazioni che alle Autorità presenti ed alla stessa Melissa.

Da una parte Marino Petrelli su “Panorama” spiega cosa è la Sacra Corona Unita e le sue possibili attinenze all’attentato. Melissa Bassi era nata a Mesagne 16 anni prima. Come Veronica Capodieci, e la sorella Vanessa, ricoverate a Lecce e Brindisi in condizioni gravi la prima, più stabili la seconda. Come le altre studentesse ferite nell’attentato all’istituto professionale “Morvillo Falcone”. Mesagne, città natale anche della Sacra Corona Unita. Da qui, l’allarme degli investigatori che inizialmente avevano pensato ad un collegamento tra l’attentato e la cosca malavitosa e avevano aperto un filone di indagini su quel pullman che portava le ragazze a scuola. Poi, la virata verso altre ipotesi e l’identikit che emergerebbe da un video tenuto ancora segretissimo dalla procura di Brindisi. Oggi il paesone di 27mila abitanti a dieci chilometri da Brindisi cerca di scacciare l’impronta mafiosa che subito i media hanno appiccicato sulle spalle scosse della cittadina, anche a seguito dell’episodio accaduto il 4 maggio con l’attentato alla macchina di Fabio Marini, presidente dell’antiracket locale. Cerca di “rompere questo silenzio senza indugi”, come ha dichiarato Don Ciotti nell’omelia della messa domenicale. È proprio lì che, nel 1981, è nata la Sacra Corona Unita (Scu), che nelle intenzioni di Giuseppe “Pino” Rogoli sarebbe dovuta diventare la quarta “stella” accanto alla mafia siciliana, la camorra napoletana e l’ndragheta calabrese. Sacra, perchè al momento dell’affiliazione il nuovo membro viene “battezzato” o “consacrato”. Corona, poichè nelle processioni si usa il rosario (appunto, una coroncina). Unita, per ricordare la forza di una catena fatta di tanti anelli. Come nel caso della liturgia mafiosa anche i pugliesi hanno la formula del giuramento che varia a seconda del clan. La Scu, al momento della sua massima espansione, era divisa in 47 clan, autonomi nella propria zona ma tenuti a rispettare interessi comuni a tutti i circa 1.600 affiliati. Il primo grado è la “picciotteria”, il successivo il “camorrista”. Seguono sgarristi, santisti, evangelisti, trequartisti, medaglioni e medaglioni con catena della società maggiore. Otto medaglioni con catena compongono la “Societa’ segretissima” che comanda un corpo speciale chiamato la “squadra della morte”. Recenti dati forniti dall’Eurispes dicono che la Scu guadagni 878 milioni di euro l’anno dal traffico di stupefacenti, 775 milioni dalla prostituzione, 516 milioni dal traffico di armi e 351 milioni dall’estorsione e dall’usura. Un giro d’affari di circa 2 miliardi e mezzo di euro. Secondo la Direzione investigativa antimafia, oggi la criminalità organizzata pugliese “si presenta disomogenea, anche in ragione della persistente pluralità di consorterie attive, molto diversificate nell’intrinseca caratura criminale e non correlate da architetture organizzative unificanti”. Con l’operazione “Last Minute” del 28 dicembre 2010, con la quale furono arrestati 18 tra capi e promotori della Scu, si riteneva di aver inflitto un colpo mortale alla criminalità organizzata locale. Lo scorso 9 maggio 2012, gli investigatori hanno portato a segno un altro colpo importante, arrestando, a Mesagne, 16 persone accusate di associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, porto illegale di armi da fuoco, danneggiamento aggravato e incendio aggravato. E il 12 maggio 2012 è finita alla stazione Termini di Roma la latitanza di Roberto Nisi, ritenuto uno dei leader di un sodalizio criminale dedito al traffico di droga e alle estorsioni. Colpi duri inferti alla Scu, il cui terrorismo mafioso è stato scacciato in Puglia nell’ultimo decennio. In realtà, a San Pietro Vernotico, nel brindisino, c’era un gruppo chiamato dai media locali “i nipotini di Riina” perché usavano una violenza sempre esagerata, ispirata appunto al boss di Corleone. Gli esponenti di questo gruppo, arrestati in buona parte due anni fa, hanno assunto le pose della strategia corleonese diventando nel tempo sempre più pericolosi. Il pm Cataldo Motta ha dichiarato che “la loro pericolosità è legata principalmente alla capacità d’immagine ma anche a quella aggregazione di tutti quei piccoli malavitosi rimasti in circolazione. Oggi la Sacra Corona Unita non è in difficoltà, ha subito un cambiamento di pelle”. Intanto, un vile attentato ha portato via una ragazza del paese. Chi ha visto parlerà, dicono a Mesagne. Perché sarà meglio per gli assassini fare i conti con la giustizia dello Stato piuttosto che con quella della Sacra Corona Unita. I bambini non si toccano, neppure nel codice d’onore del peggior delinquente. Ma, codici a parte, Melissa non c’è più. E aveva soltanto sedici anni.

Quindi alla domanda: ma cosa centra Melissa Bassi con Don Ciotti e “Libera”, la risposta la danno i cittadini di Mesagne attraverso il racconto di Mimmo Mazza sul “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La capitale dell'antimafia sociale (come la definisce il presidente della Carovana antimafia Alessandro Cobianchi) non ci sta. Listata a lutto in attesa dei funerali di Melissa Bassi, in programma oggi pomeriggio alle 16.30 nella chiesa madre alla presenza tra gli altri del presidente del Consiglio Mario Monti e del ministro dell'interno Anna Maria Cancellieri, Mesagne si ribella a chi utilizza l'attentato che è costato la vita alla 15enne studentessa dell'istituto professionale Falcone - Morvillo di Brindisi e ha provocato il ferimento di altre cinque giovani mesagnesi, per rispolverare antichi cliché, utilizzati venti anni fa per descrivere quella che era la capitale della Sacra Corona Unita. «Era» dice e sottolinea il sindaco Franco Scoditti. «Era anni e anni fa. Ora la storia è diversa, ora c'è una Mesagne che reagisce, che lotta e che lavora. Io e i miei cittadini proviamo dolore, sgomento e rabbia. Ma abbiamo anche voglia di cambiare, di dare una risposta ferma e immediata a quello che considero un atto barbarico. Ecco perché se da un lato ho proclamato il lutto cittadino in concomitanza con i funerali di Melissa, invitando i commercianti a rispettare questo momento di dolore collettivo, ho anche disposto che le scuole restino aperte. È giusto che il lutto sia vissuto dagli studenti nell'istituzione che è stata attaccata, che si parli di quello che è accaduto nelle scuole. Ci andremo noi amministratori, ci saranno i rappresentanti delle associazioni e tutti colori i quali sono portatori del messaggio di legalità perché la scuola è il primo presidio di legalità e democrazia». È stata una giornata di passione per Mesagne, e non solo per la calata di giornalisti provenienti da ogni dove (c'era perfino l'inviata del New York Times). Una giornata trascorsa in piazza. La mattina nella villa comunale per la tappa della Carovana della legalità con i discorsi, tra gli altri, del governatore Nichi Vendola e del presidente della Provincia Massimo Ferrarese. La sera in piazza IV Novembre, davanti alla chiesa matrice, nel cuore dell'incantevole centro storico, per la veglia di preghiera per Melissa voluta dal vicario don Pietro De Punzio. «Noi non ci fermeremo» dice Alessandro Cobianchi, coordinatore della Carovana, brindisino di nascita, e lo dice guardando negli occhi i ragazzi che gli sono davanti e che stringono tra le mani uno striscione con il nome di Melissa. «Ma per tutti la vera priorità è abbattere il muro della indifferenza e usiamo la solidarietà come antidoto alla violenza - dice dal palco Nichi Vendola - perché domani deve essere il giorno in cui bisogna pesare con attenzione le parole. Bisogna trovare le parole adeguate perché una generazione elabori questo lutto e riesca a pensare al futuro». Sono in tanti alle 21 del 20 maggio 2012, quasi in cinquecento, sfidando l'umidità e ignorando la finale di Coppa Italia, ad affollare piazza IV novembre. Accanto all'ingresso della chiesa viene esposta una gigantografia di Melissa. Ci sono famiglie intere, ci sono i giovani, gli amici di Melissa ma anche i ragazzi che pur non conoscendo la vittima dell'attentato, hanno voluto con la loro presenza testimoniare solidarietà e voglia di riscatto. «Avete fatto dono a Melissa - dice don Pietro, rompendo il silenzio - della vostra presenza. Facciamo fatica a credere e a sperare. Stiamo vivendo momenti terribili, perché la violenza sembra aver tarpato le ali alla speranza. la nostra città è stata colpita nel cuore nella parte più bella, nella voglia di vivere». Si parte con le parole di Giovanni Falcone: «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno». Perché perfino la più banale delle rassicurazioni impartite dai genitori - «mi raccomando, dritti a scuola» - ormai non assicura più la salvezza. E si chiude, una serata che Mesagne non dimenticherà perché proprio non si può farlo, con un canto quasi liberatorio, «Resta qui con noi», pensando a Melissa e rivolto al Signore e a chi si chiede dove fosse, sabato mattina, il Signore, mentre una mano criminale azionava l'innesco della bomba che ha ucciso Melissa e ferito le sue amiche. Era lì, tra di loro, ustionato da tanta ferocia.

Ed ancora alla domanda: ma cosa centra Melissa Bassi con Don Ciotti e “Libera”, la risposta la danno i cittadini di Mesagne attraverso il racconto di Tonio Tondo sempre sulla Gazzetta del Mezzogiorno che dà voce ai Mesagnesi. «È guerra tra Stato e mafia e le vittime siamo noi». La gente del centro storico non si schiera, anzi non ha timore di scrivere su due improvvisati striscioni quello che pensa. «Qui siamo tutti d’accordo - sostiene Immacolata Doria, 42 anni, madre di una bambina di 11 anni -, la frase l’ho scritta io con il consenso degli altri». «Dia retta a me - aggiunge poi sicura -, la Sacra Corona Unita non c’entra proprio con questa storia di Brindisi, mai gli uomini della Scu hanno colpito le donne o peggio i bambini. I bambini sono sacri». Siamo in via degli Azzolino, la «strada longa» la chiamano i residenti, arredata con gerani e piante sempreverdi. I due striscioni sono collocati in piazzetta dei Giovanomo e all’ingresso della «strada longa». Piazza Orsini Del Balzo è a due passi, con il castello, palazzo Cavaliere e la chiesa di Sant’Anna, simboli del Barocco. In via degli Azzolino abita anche Franco Saponaro, detto Franco il coltivatore diretto, che ha condiviso l’iniziativa. Melissa era conosciuta. La ragazzina frequentava il laboratorio culturale del Comune, dove si ascolta musica e si può cantare, di fronte alla casa di Immacolata. C’è anche una radio libera. La famiglia Bassi vive in via Torre Santa Susanna, non lontano. Di Melissa si ricorda il sorriso. Gli striscioni si sono materializzati subito e con il consenso di tutti. Le parole farebbero pensare a una equidistanza tra Stato e mafia. Sembrano riecheggiare uno slogan politico degli anni Settanta e Ottanta («Nè con lo Stato né con le Brigate Rosse»), degli ambienti massimalisti della sinistra contigui con il terrorismo brigatista. La realtà di Mesagne ha una sua crudezza che va conosciuta e approfondita senza pregiudizi. Una realtà da scandagliare evitando gli schemi ideologici prefabbricati. Immacolata non si schiera con la criminalità e contro lo Stato, non esclude che l’attentato alla scuola Morvillo abbia una matrice malavitosa, ma se fosse così - aggiunge - «significherebbe che la follia assassina e la vigliaccheria hanno ormai vinto su tutto». Da quando la procura di Brindisi ha lanciato l’ipotesi di un «solitario» autore dell’attentato, a Mesagne il partito favorevole a questa tesi è uscito allo scoperto ed è cresciuto in poche ore, proprio tra la gente del centro storico. Ma la città si specchia e cerca di conoscersi attraverso la scuola Morvillo Falcone: la parte socialmente più debole ha sempre guardato a questa scuola come l’immagine della propria inadeguatezza sociale, ma anche come riferimento di un riscatto. Fisicamente la scuola è a Brindisi, ma la sua testa e il suo cuore pulsante sono qui, nel retroterra della provincia. Metà delle 630 alunne è di Mesagne, l’altra di Latiano, Oria e San Vito. Giancarlo Canuto, vice sindaco e professore di religione, ha insegnato all’istituto professionale fino a due anni fa. Conosce la sua storia e si commuove quando il discorso si sposta sulle ragazze. «Tra quei banchi si può conoscere e studiare la società di Mesagne, anzi le due società, quella dei figli delle famiglie più modeste, e però radicate sui principi di onestà e sacrificio, e l’altra, quella grigia, di famiglie anch’esse modeste ma disgregate e a rischio». Massimo Basso, papà di Melissa, lavora con una impresa edile di Taranto. Lavora sodo in questi tempi di paura. «E’ una famiglia che ha fatto enormi sacrifici per Melissa» - dice un operaio che ha lavorato con Massimo. Il papà di Veronica Capodieci, la ragazzina che lotta contro la morte, è un piccolo imprenditore nel campo del movimento terra. «E’ lontanissimo dagli ambienti malavitosi», osserva un giovane di Libera. Tra le ragazze ferite, qualcuna proviene da famiglie con precedenti penali. Le due dimensioni hanno quindi riferimenti anagrafici e culturali precisi: una parte non s’indigna, anzi parteggia, con le famiglie della zona grigia, a volte a rischio criminalità; l’altra, attenta ai temi della legalità. Canuto ricorda gli anni del maxiprocesso a Brindisi con le ragazze divise in due gruppi. Quando arrivavano i cellulari con i detenuti nell’aula del vicino tribunale c’era chi parteggiava per i detenuti, e chi difendeva poliziotti e magistrati. «Mai ci sono state contrapposizioni violente. La violenza stava fuori dalla scuola».

Quindi parlare di mafia significa dare spazio a quella componente politica-sociale che si definisce “antimafia” e serve a fargli propaganda e a far sentire la solita tiritera: «Tutti dobbiamo rompere l'omertà, i silenzi, le complicità. Dobbiamo avere il coraggio delle nostre azioni. Il cuore ci deve dare la forza». Lo ha detto don Luigi Ciotti nell'omelia che ha tenuto durante la celebrazione della messa che si è svolta nella cattedrale di Mesagne il 20 maggio 2012 per ricordare la 16enne Melissa Bassi morta il 19 maggio nell'attentato di Brindisi e tutte le ragazze rimaste ferite. Dopo la celebrazione della messa c'è stata una manifestazione organizzata dalla Carovana nazionale contro le mafie. In apertura un lungo applauso è stato dedicato al papà e alla mamma di Melissa. All'iniziativa hanno partecipano il presidente nazionale della Carovana, Alessandro Cobianchi, don Luigi Ciotti, il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, i sindaci di Mesagne e di Brindisi, Franco Scoditti e Mimmo Consales, e il presidente della Provincia di Brindisi, Massimo Ferrarese.

Già, la Carovana nazionale contro le mafie, i "buoni" (politici e sostenitori di sinistra, sindacalisti e uomini di chiesa, magistrati, giornalisti) contro i cattivi (tutta la gente comune, specie se di orientamento liberale e moderato). Carovana organizzata da quando nel 1992, a distanza di 57 giorni l’uno dall’altro, morivano uccisi dalla mafia i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E nel 2012 i 2.600 ragazzi che si imbarcheranno da Civitavecchia sulle due navi della legalità ribattezzate, per questo anniversario, “Giovanni” e “Paolo”, non erano nemmeno nati. Ma il 23 maggio, insieme ai loro coetanei palermitani, alle istituzioni, le forze di polizia, i magistrati, la società civile, saranno a Palermo per ricordare quel giorno e ribadire, con forza, il loro “No alla mafia”.

Già, basta essere però di una parte politica. Perchè la lotta alla mafia è una lotta di parte e di facciata. Ad accompagnare i ragazzi in partenza da Civitavecchia, tra i quali anche due compagne di classe e altre otto delle stessa scuola di Melissa Bassi, la 16enne uccisa sabato mattina 19 maggio 2012 nell’attentato di Brindisi davanti all’istituto intitolato proprio a Francesca Morvillo, sarà colui che fu il braccio destro di Giovanni Falcone, il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso. Quel Piero Grasso tanto vituperato dai suoi colleghi magistrati. Così come lo fu Giovanni Falcone in vita. Già povero Grasso, ma a difenderlo ci pensa Stefano Zurlo su su “Il Giornale”. Così va il mondo, ci eravamo persi qualcosa e ora è Marco Travaglio a spiegarci la vera storia dell’antimafia militante, dopo averci già proposto negli ultimi quindici anni la vera storia di Cosa nostra. Semplificando, tutti e due i fiumi portano a Silvio Berlusconi. Dunque sul Fatto quotidiano il Travaglio furioso ha messo a posto lo spudorato Grasso che a Radio 24, nel corso del programma La Zanzara, aveva riconosciuto a Berlusconi quel che è di Berlusconi e del suo governo: i meriti, alcuni meriti, nello lotta a cosa nostra. Eresia. Scandalo. Pianto greco. E allora il Travaglio sempre più furioso, invece di interrogarsi sul perché di quelle parole, le ha ricoperte di fango. Fango retrospettivo, fango capace di rovinare una carriera intera, fango che si attacca addosso. Sia chiaro: ci sono magistrati che non godono di una claque perenne, semplicemente perché fanno il loro lavoro, con discrezione. Alla Grasso, per intenderci: non c’è bisogno di strappare loro l’aureola perché nessuno l’ha mai appoggiata sulle loro teste. Altri giudici invece, al solo pronunciare il nome, vengono venerati come i santi. Due pesi e due misure. Pazienza. E allora Travaglio ha fatto di più: ha dipinto Grasso come un verme che striscia alla corte di Silvio e quando più gli serve, nel 2005, nei mesi in cui si deve nominare il nuovo procuratore nazionale, al posto di Piero Luigi Vigna, prossimo alla pensione, e due sono i contendenti: Grasso e Caselli. Due facce complementari della magistratura: Grasso è l’icona della normalità, Caselli è l’icona della magistratura militante. Ci eravamo persi però che Grasso fosse un verme. La sua colpa? Aver sfruttato le trame di Palazzo che, secondo il solito Travaglio, hanno accompagnato la sua elezione. Ecco, per il Fatto ci furono manovre e contromanovre per tenere alla larga da quella stanza Caselli e la compagine berlusconiana fra decreti e contorcimenti, le studiò tutte per affossare Caselli e mandare avanti il rivale. Non che non ci furono pressioni e schieramenti e divisioni, nella politica e nella magistratura, per quella poltrona come per tante altre. Stupisce però che si possa colpire così una persona perbene, fino a prova contraria, e si legga quella sofferta incoronazione come la didascalia di quella frase alla radio. Se non sbagliamo, e non sbagliamo, l’obliquo Grasso è lo stesso magistrato catapultato come giudice a latere al leggendario maxiprocesso, quello imbastito a Palermo contro la bellezza di 475 mafiosi e chiuso, dopo una camera di consiglio lunga come un conclave, con decine di ergastoli. Grasso, sì sempre lui, è lo stesso magistrato cui Giovanni Falcone, sì proprio Falcone, dice: «Vieni, ti presento il maxiprocesso», come il procuratore racconta nel suo freschissimo e a tratti commovente Liberi tutti (Sperling & Kupfer). Grasso, sì ancora lui, è lo stesso magistrato che rischia di saltare in aria quando i picciotti di Cosa nostra lo avvistano insieme a Giovanni Falcone, ancora lui, e a tre giornalisti - Attilio Bolzoni, Felice Cavallaro e Francesco La Licata - in un ristorante di Catania. Peccato che Travaglio ignori questi fastidiosi dettagli e tanti altri. Anzi, no. Uno va divulgato, come ha fatto lo stesso procuratore con Tiziana Panella per Coffee break su La7. L’11 aprile 2006 quando viene catturato un certo Bernardo Provenzano, Grasso, pm fino al midollo, non si perde in proclami e conferenze stampa ma prova, da siciliano a siciliano, a prospettargli una collaborazione con lo Stato. Tanto che l’altro, disorientato, vacilla un istante prima di rispondere: «Sì, ma ciascun nel suo ruolo». Oggi Grasso guarda a quel passato che a Palermo è scritto nelle lapidi e replica: «Se penso alle delegittimazioni che in vita hanno subito Falcone e Borsellino mi sento fortunato». Chapeau.

Già perché la mafia è “cosa nostra” ed i suoi beni sono “roba nostra” dice Don Ciotti.

«Fino al 1993 fuori dalla Sicilia non c'era la percezione che la mafia fosse un'emergenza sociale», ricorda Marcello Cozzi, memoria storica del movimento Libera fondato da don Luigi Ciotti. «Ricordo la stanzetta messa a disposizione dalle Acli per le prime riunioni, gli incontri con Giancarlo Caselli. Poi i banchetti nel marzo del 1995 per raccogliere le firme in favore della confisca dei beni ai mafiosi. Mai avremmo pensato di arrivare a un milione di sottoscrizioni e una legge già nel marzo del 1996». Da tutta Italia centinaia di ragazzi arrivano per lavorare sui terreni confiscati ai boss; nonostante intimidazioni e difficoltà nasce il consorzio “Libera Terra”, che coordina le attività delle coop di Libera. Ma già dodici anni dopo le stragi la rabbia sembra sbollire, fino a quando, la mattina del 29 giugno 2004, le strade del centro di Palermo sono tappezzate da adesivi listati a lutto con una frase lapidaria: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Nessuna rivendicazione, fino a quando diversi giorni dopo, un gruppo di "uomini e donne abbastanza normali, cioé ribelli, differenti, scomodi, sognatori" rompe l'anonimato. Sono gli 'attacchini' del comitato Addiopizzo, 'i nipoti di Libero', li battezza Pina Maisano Grassi, arrivano qualche anno dopo il primo comitato antiracket fondato da Tano Grasso, nel Messinese, a Capo D'Orlando.

Ma una domanda sorge spontanea: ma chi paga tutto l'ambaradan della Carovana cosiddetta antimafia?

5 giugno. Diciassettesima udienza. Parla Giovanni Lamarca, Giuseppe Finizia, Andrea Berti, Cosimo Maggi, Giovanni Prignani, Clemente Di Crescenzo, Roberta Bruzzone, Rosa Martino, Anna Lucia Morleo.

La criminologa, consulente del primo difensore di Michele Misseri, l’avvocato Daniele Galoppa (da ottobre 2010 a gennaio 2011), è uno dei testi della pubblica accusa. Una buona parte dell’udienza sarà dedicata a circostanze che riguardano il contadino di Avetrana considerando la presenza della Bruzzone ma anche di altri testimoni, Cosimo Maggi, Giovani Primiani e il commissario Giovanni Lamarca, rispettivamente infermiere, psichiatra del carcere di Taranto e comandante degli agenti della Polizia Penitenziaria. E’ stato convocato anche il compagno di cella di Michele, Clemente Di Crescenzo. I pm Mariano Buccoliero e Pietro Argentino hanno citato, fra gli altri, anche l’esperta di grafologia Rosa Martino (consulente del pm, perito per la firma apposta su un assegno bancario di Cosima), i carabinieri del Ris di Roma, il maresciallo Davide Numelli ed il maresciallo capo Giuseppe Finizia ed il maggiore Andrea Berti. I militari del Reparto investigazioni scientifiche hanno effettuato le consulenze sui cellulari di Sarah, Sabrina e Michele e i sopralluoghi nell’abitazione e nel garage. Altre udienze sono programmate per il 19 giugno, il 3, il 10 e il 17 luglio.

Si sente Roberta Bruzzone indicata dall’accusa come teste a carico degli imputati. Già quella criminologa ospite fissa e privilegiata dei salotti televisivi. Colei che ha scritto “Chi è l'assassino. Diario di una criminologa”. Come lavora, e ragiona, una criminologa? Quali tracce osserva sulla scena del delitto? Come conduce un interrogatorio? Da quali elementi risale al movente di un omicidio? Come ricostruisce il profilo dell'assassino? Come riconosce i tentativi di depistaggio? Roberta Bruzzone, criminologa, psicologa forense ed esperta di analisi e ricostruzione della scena del crimine, è stata consulente tecnico in alcuni degli episodi di cronaca nera più rilevanti degli ultimi anni, dalla strage di Erba all'omicidio di Sarah Scazzi. In questo libro ripercorre in prima persona tutte le tappe dei suoi casi più significativi: gli interrogatori, lo studio degli incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per entrare nella testa dell'assassino e risalire, passo dopo passo, al colpevole. I racconti della Bruzzone portano il lettore nel cuore delle dinamiche investigative più sofisticate, e negli anfratti più oscuri dell'animo umano. Roberta Bruzzone è psicologa forense e criminologa, perfezionata in psicologia e psicopatologia forense e in scienze forensi. Esperta in psicologia investigativa, criminalistica, Bloodstain Pattern Analysis e Criminal Profiling. Svolge attività di consulente tecnico nell’ambito di procedimenti penali, civili e minorili, con ricostruzioni 3D della scena del crimine e criminodinamica, analisi di casi di omicidio “a pista fredda”, tecniche di accertamento di sospetto abuso sui minori, valutazione dell’attendibilità testimoniale e tecniche di interrogatorio. È presidente dell’Accademia Internazionale delle Scienze Forensi e docente accreditato presso gli istituti di formazione della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri. Insomma: è tutto lei. Iniziamo a sfogliare il suo libro e subito ci imbattiamo nel caso cronologicamente più recente, quello dell’omicidio di Sarah Scazzi. Ricordiamo che Lei è stata consulente di Michele Misseri da novembre 2010 a febbraio 2011 e ha rimesso il Suo mandato quando Misseri ha revocato l’incarico all’avvocato Daniele Galoppa. Da allora Misseri si dichiara unico colpevole per la morte della nipote e accusa Lei e l’avvocato Galoppa di averlo indotto a coinvolgere sua figlia Sabrina nel delitto. Da qualche mese è iniziato il processo, che vede Sabrina e sua madre Cosima accusate di concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere. Per Michele Misseri, invece, l’accusa è “solo” di concorso in soppressione di cadavere. In occasione della rassegna culturale "miggianosilibra" del Comune di Miggiano, il 25 febbraio 2012 Roberta Bruzzone ha presentato il suo libro e ha parlato sugli ultimi sviluppi del delitto di Avetrana. Così come ha fatto in giro per l’Italia. All'evento hanno partecipato anche l'avv. Luigi Rella, presidente Ordine degli Avvocati di Lecce e difensore di Cosima Serrano (quella Cosima, madre di Sabrina, che a dire di Michele, è stata coinvolta dalle dichiarazioni proprio di Michele, indotte dalla Bruzzone e da Galoppa); l'avv. Daniele Galoppa, già difensore di Michele Misseri. Ha moderato Carlo Bollino, direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno. Erano presenti noti esponenti delle Istituzioni locali e l’evento è stato accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Lecce quale “Evento formativo”. Formativo di che? Se erano presenti tutti coloro che sono protagonisti della vicenda ed allo stesso tempo sono ospiti pagati dei talk show.

Non si può fare altro che rilevare un fatto: quella vicenda, da reale qual è, è stata trasformata in un feuilleton in cui tutti hanno parola – presunti assassini ed altrettanto presunti esperti in primis – tranne lei, la vittima. Sarah Scazzi è diventata un feticcio, pretesto dimenticato per dare il via a un «giallo» che prosegue a suon di confessioni, ritrattazioni, profferte, forse anche di intimidazioni. Invece qui il cadavere non è partorito della mente di uno scrittore o presunto tale. Quel cadavere apparteneva a una ragazzina che, in un giorno d’estate, esce di casa per andare al mare e invece va a morire assassinata poche centinaia di metri più in là.

Intanto Michele Misseri perde un fratello. Infatti il 2 giugno 2012 è morto Salvatore Misseri, marito di Maria De Santis, cognata di Michele Misseri, la quale ha dichiarato il 15 maggio che ricevette la visita di Cosima Serrano, accusata insieme alla figlia Sabrina Misseri dell'omicidio di Sarah Scazzi, e la donna le disse che in paese circolava la voce di un suo imminente arresto. Maria De Santis, messa a confronto con la farmacista Maria Rosaria Carrozzo, ha poi aggiunto di aver sentito, mentre faceva la spesa, due donne che parlavano tra di loro e dicevano che «Sarah l'avevano fatta pure vomitare».

Ed ancora si ha conoscenza che c’è un’intercettazione ambientale tra Michele Misseri e sua moglie Cosima Serrano che secondo la pubblica accusa del processo Scazzi quantunque tardivamente ritiene merita di essere risentita e interpretata. Questo è emerso nella sedicesima udienza in Corte d’assise che vede alla sbarra Sabrina Misseri e la madre Cosima, accusate di avere ucciso la quindicenne Sarah Scazzi, loro parente. Si tratta del colloquio catturato da una cimice montata sulla Opel Astra con cui il 6 ottobre del 2010 i coniugi Misseri si recarono a Taranto per essere interrogati. Fu l’ultimo interrogatorio per il contadino che confessò l’omicidio, poi ritrattato con la chiamata in reità della figlia. Durante quel viaggio, secondo quanto si è appreso in sede dibattimentale, Cosima Serrano avrebbe suggerito al marito le cose da dire agli inquirenti. Un aspetto che in un primo momento sarebbe sfuggito ai pubblici ministeri Pietro Argentino e Mariano Buccoliero, che hanno chiesto la trascrizione integrale della conversazione e la relativa acquisizione agli atti della Corte. E poi il reality show continua…"Cara Sabrina [...] non sono stato un buon padre per quello che ti ho fatto" - scrive il contadino di Avetrana in data 23 Aprile 2012 - "ed è giusto che tu mi punisca. Solo un bastardo di padre può farti quello che ti ho fatto io". E il senso di colpa si unisce alla disperazione: "Io maledico il giorno che mia madre mi ha messo al mondo [...] Quando vengo a Taranto e vedo te e la mamma sento come un piombo allo stomaco". Alla moglie, invece, parla di Sarah: "Io l'angelo biondo non l'ho sfiorato con un dito ed è sbagliato dire che ho abusato di lei [...] solo Dio sa cosa è veramente successo quel 26 agosto". E, nella lettera che riporta la data del 29 Aprile scorso, il contadino usa parole più dure: "Una sera vorrei addormentarmi senza risvegliarmi più, perchè sono stanco di vivere [...] qualche volta mi viene voglia di fare una strage". E sulle missive intime dei protagonisti la solita stampa pubblica ciò che non sarebbe mai potuto essere pubblicato. Senza lavoro e stressato dai turisti e dai curiosi che visitano la sua casa ad Avetrana, Michele Misseri sbotta: "Qualche volta mi viene di fare una strage". E' un passaggio della lettera che lo zio di Sarah Scazzi scrive alla figlia Sabrina e alla moglie Cosima Serrano in carcere con l'accusa di aver ucciso la ragazzina di 15 anni il 26 agosto 2010. Nella missiva, presentata da Tgcom24 e datata domenica 29 aprile 2012, Misseri ripete di "portare tre pesi troppo pesanti per lui". Poi lo sfogo: "Ci mancavano i turisti a rompermi i coglioni,  qualche volta mi viene di fare una strage". Altre parole questa volta scritte dalla stessa Sabrina e risalenti al 27 settembre del 2010, trenta giorni dopo la scomparsa delle cugina Sarah e prima del ritrovamento del suo cadavere nel pozzo di Contrada Mosca, con il padre Michele autoaccusatosi e poi scagionato dagli inquirenti. La ragazza scrive alcuni sms all'amico Leonardo De Falco, tra le 13.32 e le 14.05. Frasi brevi, spezzate, buttate giù di getto. Quasi un flusso di coscienza i cui contorni non sono chiarissimi. Sabrina confessa di stare male, di essere depressa per quanto accaduto alla cugina. "Io non voglio più andare avanti vorrei tanto andare a letto a dormire e non svegliarmi più, odio la sofferenza sono realista per me non ha più senso, ogni cosa che faccio mi ricorda Sarah". E ancora: "Ho la rabbia, incominciando i gattini, poi il cane dopo 8 anni Sarah e per finire ora è morta la gatta preferita mia e di Sarah". Il contesto è quello di un periodo nero, sfortunato, culminato con la probabile disgrazia accaduta alla giovanissima cugina. Quindi l'ultimo sms, il più criptico: "Io non credo di riuscire a vivere bene con questo senso di colpa. Quel maledetto giorno, nessuno mi farà cambiare idea su sta cosa…". Il 27 settembre del 2010, quando Sarah Scazzi era scomparsa da un mese, sua cugina Sabrina Misseri scambiò 17 sms con il suo amico Leonardo De Falco. Lo scrive Nazareno Dinoi sul “Corriere della Sera”, spiegando che lo scambio di messaggi durò 33 minuti, dalle 13.32 alle 14.05. Dinoi ne riporta una parte. Il più significativo è probabilmente il seguente: «Io non voglio più andare avanti vorrei tanto andare a letto a dormire e non svegliarmi più, odio la sofferenza sono realista per me non ha più senso, ogni cosa che faccio mi ricorda Sarah». All’epoca il corpo senza vita di Sarah non era stato ancora ritrovato. Ecco altri sms riportati da Dinoi. Sabrina: «Ho la rabbia, incominciando i gattini, poi il cane dopo 8 anni Sarah e per finire ora è morta la gatta preferita mia e di Sarah». Ancora Sabrina: «Non credo proprio – scrive – è dal 98 che è iniziato con la morte di mio zio e pian piano ogni anno sempre di più, quest’anno proprio… 1 mese prima dalla scomparsa di Sarah ha fatto l’incidente la madre quasi miracolata. Più si va avanti più divento debole vorrei essere forte ma non ce la faccio». Dinoi spiega che l’amico cercava di consolare Sabrina, ma lei continuava: «Ho rabbia, odio, tu non puoi immaginare quello che mi sta frulla per la testa». Quindi Leonardo: «Così ti fai male da sola, non penso che Sarah ti voleva vedere così». Sabrina poi si sarebbe lasciata andare: «io non credo di riuscire a vivere bene con questo senso di colpa. Quel maledetto giorno, nessuno mi farà cambiare idea su sta cosa…». A questo punto, scrive Dinoi, Leonardo avrebbe chiesto: «Ma che colpa hai? Perché dici ste cose?». E a queste domande, conclude il giornalista, Sabrina non avrebbe mai risposto. L'amico le chiede di cosa stia parlando, ma Sabrina non risponde. il solito Nazareno Dinoi pubblica su “La voce di Manduria” il sunto della corrispondenza tra Michele e sua moglie Cosima. Corrispondenza che avrebbe dovuto rimanere segreta. «Ci mancavano anche i turisti a rompermi i coglioni, qualche volta mi viene di fare una strage … certo spero che tutto questo non avvenga …però che Dio ci aiuti». Michele Misseri continua a scrivere e lancia preoccupanti segnali di nervosismo nei confronti di chi lo circonda. Denuncia il suo stato d’animo in una lettera inviata alla moglie Cosima Serrano, in carcere con la figlia Sabrina accusate entrambe di avere ucciso la loro parente Sarah Scazzi. Nella missiva che porta la data del 29 aprile 2012, il contadino di Avetrana si lamenta della solitudine e si dice stanco della vita. «Mi manchi tanto sia tu che Sabrina — fa sapere Misseri nel suo italiano molto incerto — e vorrei che una sera io mi addormentassi e che non mi svegliavo più perché sono stanco di vivere». Nel resto della lettera lo zio di Sarah Scazzi si trasforma nel coniuge premuroso di sempre che informa la consorte dei lavori in campagna («il prossimo anno ci sarà molta uva, poi ti farò sapere … i fagiolini che avevo piantato sono nati tutti spero che non secchino senz’acqua»); delle difficoltà economiche dovute alla mancanza di lavoro («non ci sono soldi e nemmeno un po’ di lavoro per colpa degli avetranesi che sono andati da quella persona per non farmi lavorare»); e dei piccoli episodi domestici («le robe me le lavo a mano perché la lavatrice si è rotta ed ho riempito le fioriere di terra ma quest’anno anche i fiori sono tristi»). In un’altra lettera scritta sempre ad aprile scorso, Michele Misseri smentisce le sue presunte avance sessuali sulla cognata Salvatora Serrano quando questa aveva quattordici anni. «Io non ricordo di aver fatto questo e poi — scrive — tua sorella nel 1992 è venuta in Germania … e io non l’ho sfiorata nemmeno con un dito, con certe persone è meglio stare alla larga». Il 23 aprile Misseri scrive alla figlia Sabrina. «Lo so che non sono più un buon padre per quello che ti ho fatto … solo un bastardo di un padre può fare questo però non è stata colpa solo mia perché già dall’inizio non mi hanno voluto credere». Il contadino se la prende ancora una volta con il suo ex avvocato («mi ha raccontato tante balle e io come un fesso ci ho creduto») e chiude la lettera descrivendo il dolore che prova nel vedere lei e la moglie dietro le sbarre. «Quando vengo a Taranto e ti guardo sia a te che a tua madre (durante le udienze del processo), mi viene un blocco allo stomaco. Certo non è colpa vostra è solo colpa mia e per questa colpa non avrò pace per tutta la mia vita e non ci posso fare niente».

Non solo giornalisti fruitori di veline giudiziarie o forensi. Da Brindisi ad Avetrana, anche giornalisti predatori di Facebook. Cronisti voyeristi che saccheggiano impunemente foto e commenti delle vittime sui social network. Occorrono sanzioni precise per chi viola la privacy. Hai voglia a sgolarsi dice Pino Bruno su Globalist.it. Cogne, Avetrana, Brembate di Sopra e altre location di delitti atroci - e Brindisi purtroppo non sarà l'ultima - sono ormai entrate in circolo. Viaggiano nel sangue e nelle viscere dei voyer travestiti da cronisti. Ci mancavano i predatori dei profili Facebook, che saccheggiano impunemente foto, commenti, filmati depositati lì dalle vittime per tutt'altri scopi. Hai voglia a sgolarti, caro Enzo Iacopino, che puntualmente e giustamente da presidente richiami all'Ordine (dei giornalisti) i profanatori. Ha voglia a sgolarsi, gentile Garante della Privacy, che raccomanda "particolare responsabilità e sensibilità nell'utilizzare foto messe in rete dagli stessi ragazzi per condividere momenti della loro vita". "Troppe foto di minori - scrive Iacopino - sono state pubblicate. Troppe trasmissioni messe in onda per chiedere ai parenti delle vittime che cosa provassero mentre i loro figli erano in rianimazione o in terapia intensiva. Sono certo - aggiunge il presidente nazionale dell'Ordine dei giornalisti - che non ci sarà bisogno di aspettare che la competente autorità ci richiami al senso del dovere (come in circa 400 casi ha dovuto fare per la vicenda di Avetrana) e che, in spirito di collaborazione, ci saranno interventi rigorosi e pubblici da parte di tutti gli Ordini regionali". E già, perché non basta indignarsi, non è sufficiente invocare il rispetto delle carte deontologiche che pure i giornalisti hanno e dovrebbero conoscere e rispettare. Servono procedimenti disciplinari e sanzioni adeguate, ove fossero accertate le violazioni. Da Cogne ad Avetrana a Brindisi assistiamo a una pericolosa escalation. Dai cronisti citofonatori, dai giornalisti del "cosa prova?" e del "come ci si sente?" siamo passati agli assaltatori col microfono, ai molestatori di minorenni, agli sciacalli da barella ospedaliera, ai saccheggiatori di profili Facebook. Un punto fermo dobbiamo metterlo, dai grandi giornali e televisioni ai piccoli siti internet. Sarà la stampa, bellezza, ma non si vedono in giro Humphrey Bogart, mentre i Dracula abbondano.

Quindi: chi sono gli sciacalli?

Melissa è stata uccisa il 19 maggio davanti la scuola Morvillo Falcone di Brindisi. L'eco della bomba che il 19 maggio ha ucciso Melissa Bassi nell'attentato di Brindisi risuona ancora. Sui media sono state pubblicate fotografie, video, pezzi di vita di una ragazza scomparsa troppo presto, ancora minorenne. Fino al filmato della sua prima comunione, mandato in onda qualche settimana fa su TgCom24. Liturgia identica a quella dedicata a Sarah Scazzi. Per l'osservatorio sul giornalismo di ValigiaBlu questo esula dal diritto di cronaca. Resta un atto senza rispetto di un dolore privato, familiare, e supera i confini del giornalismo. L'associazione si è quindi appellata al Garante per la privacy e all'Ordine dei Giornalisti lombardo. Che invece ha risposto e deliberato: trasmettere il video è un atto lecito "per ricordarla". Nel servizio del TgCom24, intitolato "Le immagini più belle", si vede la vittima quando era ancora piccola, presumibilmente alla prima comunione, insieme a lei ci sono anche altri minori. Il video è anticipato da una pubblicità. "E' diritto di cronaca?", si chiedono in una lettera pubblicata sul sito di ValigiaBlu, Bruno Saetta e Arianna Ciccone. "Sentiamo il bisogno di attivarci perché le istituzioni prendano in un modo o nell'altro una posizione su come debbano essere trattate in rete le fattezze dei minori coinvolti quale vittima in eventi tragici". E il Consiglio dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia, riunito nella seduta del 24 maggio 2012, "dopo attenta valutazione di ogni elemento raccolto", ha riscritto. E deliberato l'archiviazione del procedimento in oggetto. "Questo Consiglio, visionato il video, ha verificato preliminarmente che chi lo ha messo in onda ha avuto cura, quanto meno, di schermare il viso degli altri bambini ripresi. Quanto alla violazione delle norme a tutela dei minori, questo Consiglio rileva, innanzitutto, che molte immagini di Melissa Bassi adolescente sono state pubblicate su tutti i mezzi di informazione dopo la sua tragica morte", si legge nella lettera di risposta. Così "il Consiglio ritiene che le immagini di Melissa Bassi bambina, pur non essendo strettamente attinenti al drammatico fatto di cronaca nel quale ella è rimasta coinvolta, siano uno strumento per ricordarla e per celebrarne la memoria. Ritiene, pertanto, di non dover irrogare sanzioni a chi tali immagini ha reso pubbliche pur stigmatizzando come inopportuno e di cattivo gusto il fatto che il video di Melissa Bassi bambina sia preceduto da un video pubblicitario. Questo Consiglio reputa che non si debbano formulare rilievi disciplinari a carico del giornalista Mario Giordano", conclude la lettera. A differenza di quello della Lombardia, il Consiglio regionale dell'Ordine dei giornalisti di Puglia, nel frattempo, alla luce degli stessi fatti relativi alla tragedia della scuola Morvillo Falcone di Brindisi, ha avviato l'esame di eventuali violazioni deontologiche da parte dei suoi iscritti e ha già aperto tre procedimenti disciplinari che saranno affrontati secondo le modalità e i tempi previsti dalle norme. "Eventuali violazioni compiute da giornalisti non iscritti in Puglia saranno, come stabilito dalla legge, segnalate agli Ordini regionali competenti. L'analisi dei servizi giornalistici trasmessi (web, radio, televisione e carta stampata) proseguirà nelle prossime settimane", si legge sul sito dell'Ordine che invita a inviare eventuali segnalazioni alla sua mail ufficiale. "Sostenere che le immagini siano un modo per ricordare Melissa e celebrare la memoria è un'ipocrisia imbarazzante", conclude Arianna Ciccone sul sito dell'associazione ValigiaBlu discostandosi dalla risposta dell'Ordine lombardo, "il giornalismo non ha di certo questo ruolo e per ricordare e celebrare la memoria basta una foto". “Voi delle tv speculate, ora state zitti e ascoltate”. E’ uno degli appelli scritti su un cartellone esposto sul palco di piazza della Vittoria a Brindisi il 26 maggio 2012 dove si è tenuta la manifestazione promossa dagli studenti ad una settimana dall’attentato alla scuola Morvillo-Falcone in cui è morta una studentessa. Altre cinque sono rimaste ferite. Negli interventi che si sono susseguiti sul palco, alcuni giovani hanno anche criticato i mass-media e in particolare le televisioni che “in questi giorni hanno speculato sul dolore”. “La notizia oggi non è il dolore, non è la morte di una persona - ha detto una ragazza dal palco - ma è che noi ci siamo svegliati, non ci importa se è stata la mafia, il terrorismo o un pazzo, a noi non interessa, noi non vogliamo più stare in silenzio e non vogliamo avere paura. La soluzione non è restare a casa ma ritornare a scuola, riprendere i nostri libri e cambiare questa cultura della violenza che ha ucciso Melissa”. Gli studenti hanno poi invitato le televisioni a smetterla di intervistare i mafiosi perchè “noi non vogliamo – hanno detto – l’aiuto della Sacra corona unita perchè respingiamo la loro cultura di violenza e di illegalità”.

Tanto tuonò che alla fine piovve, così il detto popolare spiega bene l’influenza negativa che i media infliggono ai cittadini. Il turismo dell’orrore che non si ferma dinnanzi a niente, nemmeno al terremoto che dal 20 maggio 2012 ha afflitto l’Emilia. I turisti del disastro in Emilia: scattano foto ai terremotati. Fotografi e videomaker improvvisati sul luogo del disastro. Insorgono le vittime del sisma: rispettate il nostro dolore. Sfilano uno dopo l’altro, muniti di telecamera e macchina fotografica. A Mirandola, a Cavezzo, a Novi di Modena; da una parte ci sono loro, i curiosi, e dall’altra chi ha perso tutto. Mentre i terremotati, casco in testa e busta in mano, aspettano di poter entrare nelle loro case per cercare di recuperare qualcosa, i curiosi cercano l’inquadratura migliore. Arrivano in auto o in moto nei luoghi violentati dal sisma; parcheggiano, fotografano, commentano e poi tornano a casa, come se fosse una gita fuori porta, in una domenica qualsiasi. Mi chiedo che emozione si possa provare a speculare sul dolore degli altri, in cambio di una foto da esibire a parenti e amici che dimostri la propria (inutile) presenza sul luogo del disastro. Gli sciacalli della sofferenza altrui ci sono sempre stati. I turisti del disastro sono in agguato anche in Emilia Romagna: videomaker in cerca di emozioni, fotografi improvvisati, semplici personaggi di passaggio con iPhone, pronti a sparare decine di clic sui terremotati disperati, sulle loro case distrutte. E tutto ciò senza essere mossi dal minimo desiderio di cronaca. “Turista fotografico, le foto valle a fare a casa tua”: è il cartello comparso a Finale Emilia accanto a un giardino pubblico dove diversi sfollati hanno collocato la loro tenda da campeggio. A questo si aggiunge il problema degli sciacalli da sisma, sempre attivi, pronti a truffare soprattutto gli anziani: con la scusa dei controlli post-terremoto entrano in casa e arraffano quel che possono. Forze dell'ordine già in allerta per individuare e arrestare gli odiosi protagonisti di queste truffe. Accadde a Perugia, dopo l'omicidio di Meredith. Ad Avetrana con zio Misseri e la casa dei tragici misteri. E poi all'isola del Giglio, il disastro della Costa Concordia. C’erano a Cogne, per fotografare la villetta in cui fu ucciso il piccolo Samuele Lorenzi, ad Avetrana, teatro dell’omicidio della quattordicenne Sarah Scazzi e si sono visti anche sull’isola del Giglio, pronti a farsi immortalare con la nave inabissata sullo sfondo. Non importa se sotto quella nave c’erano ancora dei corpi da recuperare, l’importante era esserci e soprattutto farlo sapere agli altri. È pur vero che duemila anni fa Lucrezio nel De rerum natura scriveva di quanto fosse piacevole osservare dalla riva una nave che colasse a picco “e non perché rechi piacere che qualcuno si trovi a soffrire,/ma perché è dolce scorgere i mali di cui siamo liberi”. Ma allora il termine spettatore aveva ben altre connotazioni e quello del poeta latino era solo un esorcismo velato dalla poesia. Oggi la moltiplicazione degli schermi ha decretato il trionfo dell’apparire, dove la realtà prende corpo nella misura in cui è proiettata su uno schermo, anche quello limitato di una fotocamera digitale o di un telefonino. Perciò anche la tragedia diventa spettacolo fino a travolgere le percezioni, a rubare le emozioni, a snaturare il senso intrinseco degli eventi, spingendo alcuni a prendervi parte con solidale indifferenza. Di fronte a queste ripetute dimostrazioni d’imbecillità io, da essere umano, mi vergogno. E parafrasando Battiato, posso solo aggiungere che in quest’epoca di pazzi ci mancavano gli idioti del turismo dell’orrore.

Resoconto della giornata.

Sono 11 i testimoni citati dalla pubblica accusa.

Ore 10.30 – parla Giovanni Lamarca. «Il 7 ottobre Michele Misseri fu alloggiato in un cella d’isolamento e guardato a vista. Poi il 18 dicembre lo spostammo al primo piano, nella cella numero 10, dove fu recluso fino al 26 gennaio 2011. - Lo ha riferito Giovanni Lamarca, comandante della Polizia penitenziaria del carcere di Taranto nel corso del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. - Un giorno prima, il 25 gennaio, un agente della sezione mentre faceva una normale ispezione – ha ricordato Lamarca - verificò che un detenuto, nella cella dove c'era anche Clemente Di Crescenzo, che faceva le pulizie nel corridoio, stava tagliando pagine di giornali e componendo delle lettere. Scoprimmo che stava scrivendo una missiva anonima con lettere ritagliate da giornali. Quel componimento fu sequestrato. Il giorno dopo – ha aggiunto il comandante delle guardie penitenziarie – decidemmo di fare una perquisizione accurata della cella e in tale occasione fu ritrovato aperto un quaderno di computisteria scritto non da quel detenuto, ma da Di Crescenzo, dove risultava più volte scritto il nome di Michele Misseri. Ci rendemmo contro che De Crescenzo aveva un diario delle conversazioni che aveva avuto in un mese e mezzo con Michele Misseri. Una specie di memoriale».

Ore 11.00 – parla Andrea Berti. Diciotto cinture, ritenute più interessanti tra quelle sequestrate dalla polizia giudiziaria nell’abitazione della famiglia Misseri, sono state analizzate dai carabinieri del Ris alla ricerca del Dna da comparare con quello degli indagati per l’omicidio di Sarah Scazzi. In alcuni casi sono state trovate tracce compatibili con il profilo genetico di Michele Misseri. Lo ha detto il maggiore Andrea Berti, ufficiale del Ris, nel corso della diciassettesima udienza del processo per l’omicidio della 15enne di Avetrana, uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto del 2010. Il maggiore Berti ha fatto presente che le cinture sono state divise in porzioni e analizzate separatamente con tampone. Sono stati compiuti accertamenti anche sul telefonino di Sarah Scazzi, che aveva la sim card inserita, una scheda di memoria Sd con batteria e un ciondolo composto da un lucchetto e una piccola lattina. Il maggiore ha aggiunto che il Reparto investigazioni scientifiche ha effettuati i rilievi sui pavimenti e sui muri della veranda, dell’ingresso, del corridoio e della cucina della villetta dei Misseri, in via Deledda, ma non in camera da letto. Sabrina Misseri, accusata insieme alla madre Cosima Serrano di aver ucciso Sarah Scazzi, ha pianto durante la deposizione dell’ufficiale del Ris.

Ore 11.30 – parla Giuseppe Finizia. Il cellulare di Sarah Scazzi presentava bruciature e aveva il display rotto, ma la scheda sim, estratta dal telefono e analizzata separatamente, era in uno stato di conservazione discreto e si potevano estrarre i dati. Lo ha riferito il maresciallo capo Giuseppe Finizia, del Ris di Roma, testimoniando al processo in Corte d’Assise per l’omicidio della quindicenne di Avetrana. «Il telefonino fu rimesso in funzione con una batteria nuova – ha sottolineato il maresciallo – e alla prima accensione sullo schermo apparve una foto di Sarah seduta in auto. Fu possibile estrarre liste di chiamate, messaggi in entrata e in uscita, una bozza di un messaggio non inviato. Anche dalla scheda di memoria furono estratti dati. Iniziammo – ha aggiunto il maresciallo del Ris – una collaborazione tecnica con l’azienda produttrice Vodafone. I messaggi erano contenuti nella memoria del telefonino e furono tutti recuperati».

Ore 12.00 – parla Cosimo Maggi. «La sera del 14 ottobre 2010 Michele Misseri rifiutò i farmaci perché diceva che il direttore doveva fare un sopralluogo e lui voleva rimanere vigile - Lo ha dichiarato l’infermiere del carcere di Taranto, Cosimo Maggi, testimoniando al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi in corso a Taranto. - Dovevo fargli firmare – ha aggiunto – una liberatoria, ma aspettai perché poteva cambiare idea. La mattina dopo non c’era più, era stato portato via. Anche la terapia della mattina non gli fu somministrata. Dopo questi episodi a Michele Misseri non fu più somministrata una delle due compresse prescritte. Se non ricordo male – ha fatto presente l’infermiere – fu sequestrato il diario clinico del detenuto. La terapia della mattina prevedeva un antidepressivo, quella della sera un ansiolitico.»

Ore 12.30 – parla Giovanni Primiani. Dopo Maggi ha testimoniato lo psichiatra del carcere Giovanni Primiani, il quale prescrisse una compressa di antidepressivo e un tranquillante. «Nel secondo colloquio, dopo pochi giorni, mi disse - ha detto Primiani - che aveva interrotto la terapia. Dal 5 novembre la interrompemmo perché non era nemmeno più consigliata e Michele Misseri aveva ripreso molte delle sue capacità». Lo psichiatra del carcere di Taranto, Giovanni Primiani, rispondendo ad una domanda di uno dei legali di Sabrina Misseri che gli chiedeva se Michele Misseri avesse mai detto di essere stato molestato, ha risposto che “qualcosa c’é stato. Mi fece delle confidenze, ma su questo episodio non posso rispondere. E’ una cosa molto personale”. Lo psichiatra non ha voluto aggiungere altro e si é avvalso del segreto professionale, rifiutandosi di rispondere ad alcune domande del pubblico ministero e dei legali degli imputati. Primiani ha fatto presente che Michele Misseri nei vari colloqui disse sempre di essere stato lui il responsabile, gli manifestò il proposito di volersi suicidare e non spiegò il motivo per il quale aveva accusato la figlia Sabrina. «Nel primo colloquio del 7 ottobre – ha detto il teste – Misseri mi raccontò qualcosa che era successo nel garage. Non rivelò perché la ragazza fosse presente. Mi disse che lui era lì perché non funzionava il trattore. Ad un certo punto comparve la nipote Sarah. Tra i due non si capisce bene cosa fosse successo. Successivamente - ha proseguito Primiani - reagendo a qualcosa che aveva detto lui, Sarah gli avrebbe dato un calcio e si sarebbe girata per andare via. In quel momento l’avrebbe aggredita. Poi le avrebbe legato al collo una corda appoggiata su un trattore o una motozappa. In seguito Misseri raccontò di aver portato il cadavere di Sarah in auto sotto un albero di fico che per lui rappresentava una ‘via crucis’. In passato – ha detto Primiani – il padre lo avrebbe bastonato proprio in quel luogo. Non ricordo se riferì di averla seppellita nelle vicinanze». Duro scontro verbale in aula, nel corso del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, tra il pubblico ministero Mariano Buccoliero e l’avvocato Roberto Borgogno, sostituto processuale dell’avv. Franco Coppi, uno dei due legali di Sabrina Misseri. Durante la deposizione dello psichiatra del carcere di Taranto Giovanni Primiani, Borgogno ha contestato alcune domande formulate dal magistrato, il quale a sua volta aveva messo in dubbio alcune dichiarazioni rilasciate in precedenza dall’infermiere del carcere Cosimo Maggi. «Lei – ha detto Borgogno, riferendosi al pm – sta intimidendo il teste. La smetta». Il rappresentante della pubblica accusa ha risposto in maniera stizzita. «Io parlo solo con il presidente della Corte d’Assise. Lei stia zitto». Il legale ha risposto a muso duro e ha minacciato di abbandonare l'aula. “Se continua così, me ne vado”. E il pm ha replicato: “Farebbe bene ad andarsene”. La situazione è stata ricomposta dal presidente della Corte d’Assise, Rina Trunfio. Nella sua deposizione, Primiani ha riferito, tra l’altro, che il dosaggio dei farmaci che furono somministrati a Michele Misseri poteva rallentare la sua funzione intellettiva, ma non la sua capacità di giudizio e di relazione. Nei colloqui in carcere Michele Misseri mi disse sempre di essere stato lui il responsabile non spiegando il motivo per cui avesse accusato la figlia. Su questo rimandò tutto al memoriale. Così lo psichiatra Giovanni Primiani, del Dipartimento di salute mentale della Asl di Taranto, consulente per il carcere della città jonica, durante la lunga deposizione al processo in Corte di Assise. Specie nella prima parte della sua permanenza in carcere Misseri "pensava spesso al suicidio", ha riferito Primiani. Verso aprile-maggio del 2011 Primiani consigliò “la sospensione della terapia perché la situazione era migliorata. Si muoveva bene, aveva ripreso le sue capacità”. Incalzato dalle domande prima dei pm ma soprattutto dei legali della parte civile sul motivo per il quale, durante i numerosi colloqui, non avesse ritenuto di approfondire nell'ambito della comprensione della situazione psichiatrica le ragioni per cui avesse accusato la figlia, ha detto che gli psichiatri solitamente non fanno domande "di tipo giuridico, per questo non ho ritenuto di doverle chiedere, né lui ne ha parlato". Inoltre ha riferito alla Corte che Michele Misseri "aveva paura che la moglie non lo perdonasse". E che negli ultimi tempi "non aveva un buon rapporto con la moglie tanto che dormiva su una sdraio". Infine ha spiegato anche che Michele gli ha riferito che "tra Sarah e Sabrina non c'era nessun problema" e che, "attraverso il ritrovamento del cellulare voleva essere scoperto".

Ore 14.30 – Parla Clemente De Crescenzo. Misseri ha poi ritrattato tutto, come è noto. Lo ha fatto anche in carcere. "Mi disse che lo avevano imbrogliato, lo avevano confuso e convinto ad accusare ingiustamente la figlia nel periodo in cui assumeva gli psicofarmaci". Così il detenuto Clemente Di Crescenzo riferendosi alle confidenze che gli avrebbe fatto in carcere lo zio di Sarah e che lui annotava su un diario. "Nei giorni delle festività natalizie del 2010 - ha precisato Di Crescenzo - mi chiamò mentre facevo le pulizie, era molto triste e mi disse che stava scrivendo alla figlia Sabrina perché l'aveva incolpata. Diceva che Galoppa e Bruzzone lo avevano convinto ad accusarla perché in questo modo sarebbe andato ai domiciliari in un convento a curare un orto e sarebbe uscito dopo due anni. Mi chiedeva anche in che modo poteva revocare l'avvocato Galoppa perché diceva che era stato il legale a creare il processo". Di Crescenzo ha appuntato le conversazioni che aveva con Misseri su un quaderno che fu sequestrato dagli agenti, una sorta di diario di cui ha raccontato in aula Giovanni Lamarca, comandante della Polizia penitenziaria del carcere di Taranto: "Abbiamo ritrovato aperto un quaderno di computisteria scritto da Di Crescenzo, dove risultava più volte scritto il nome di Michele Misseri. Ci rendemmo contro che De Crescenzo aveva un diario delle conversazioni che aveva avuto in un mese e mezzo con Michele Misseri. Una specie di memoriale". "Nei giorni delle festività natalizie mi chiamò Michele Misseri: era triste, stava scrivendo una lettera a Sabrina per dirle che gli dispiaceva, che era innocente e che l'aveva accusata perché era sotto l'influenza di farmaci prescrittigli dagli psichiatri. Mi disse che la dottoressa Bruzzone e, mi sembra, l'avvocato Galoppa lo avevano convinto, consigliandogli di 'accollare' tutto a Sabrina, perché lei era giovane". Lo ha detto Clemente Di Crescenzo, della provincia di Caserta, attualmente detenuto nel carcere di Taranto, a proposito del periodo in cui nel penitenziario si trovava anche Michele Misseri, il contadino di Avetrana. L'uomo ha deposto al processo in Corte di Assise per l'omicidio della 15enne Sarah Scazzi di Avetrana. "A te ti mandiamo nel convento con l'orticello' - avrebbero detto la consulente della difesa e il suo ex avvocato a Misseri - tua figlia esce tra due anni. Poi aggiunse che i farmaci lo avevano un poco rimbambito. Mi disse anche che voleva revocare l'avvocato, non aveva buona stima del suo avvocato, gliel'ha fatto lui il processo, l'avvocato gli consigliava come fare. Poi disse che Galoppa aveva riportato in tv cose che non aveva detto perchè Galoppa non credeva alla tesi di Michele". ''Mi disse che lo avevano imbrogliato, lo avevano confuso e convinto ad accusare ingiustamente la figlia nel periodo in cui assumeva gli psicofarmaci''. Lo ha dichiarato il detenuto Clemente Di Crescenzo riferendosi alle confidenze che gli avrebbe fatto in carcere Michele Misseri e che lui annotava su un diario. Il riferimento è al primo difensore di Michele Misseri, avv. Daniele Galoppa, e alla criminologa ingaggiata da Galoppa come consulente, Roberta Bruzzone.

Ore 15.15 – Parla Roberta Bruzzone. "Io non ho ucciso Sarah, ero sulla sdraio: è stata Sabrina. A quel punto chiamammo i magistrati". Così la consulente criminologa Roberta Bruzzone deponendo come testimone al processo davanti alla Corte di Assise del Tribunale di Taranto a proposito dell'incontro con Michele Misseri in carcere del 5 novembre 2010 quando lo ascoltò in qualità di consulente dell'ex avvocato Daniele Galoppa insieme a quest'ultimo. «Questa frase nacque quasi all'improvviso - ha proseguito - si stava parlando di Sarah genericamente. Gli chiedemmo se potevamo chiamare i magistrati. E lui disse di sì». Poi la dottoressa Bruzzone ha ricordato che "quella settimana successiva al 5 novembre Misseri in carcere non volle incontrare nessuno dei familiari". Fu la prima e unica volta. Sull'incidente probatorio "era perfettamente certo del suo significato e cioè ad esempio che sarebbero state presenti le controparti e la difesa della figlia. Ricordo che aveva paura fisicamente della figlia perché si raccomandò di avere una posizione protetta nella stanza". La criminologa ha negato di aver mai avanzato a Misseri scenari come quello di una sua scarcerazione in caso di 'scarico' della colpa sulla figlia e di una pena lieve per la figlia. "Gli ho solo chiesto di dire la verità non un percorso a rate con informazioni discordanti", ha detto. "Nessun sotterfugio. Non ho mai suggerito di fare riferimento a un gioco tra Sarah e Sabrina", poi finito male", ha concluso. Michele Misseri disse "effettivamente che subiva pressioni continue e questo lo aveva infastidito e preoccupato non poco. Così aveva ritenuto di vivere la settimana dell'incidente probatorio senza pressioni della famiglia, in particolare da parte della figlia Valentina e della moglie con le quali c'erano stati due incontri". Per questo Misseri presentò una "domandina alla direzione del carcere" per non incontrare i familiari. "Me lo disse in tutte le circostanze in cui ebbi modo di parlare con lui", ha aggiunto Bruzzone. Gli avvocati di Sabrina, quest'ultima presente in aula insieme alla madre Cosima Serrano (entrambe sono detenute con le accuse di concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere), hanno fatto emergere la presunta contraddizione tra il ruolo di criminologa e quella di testimone e per il fatto di aver presentato una denuncia per calunnia e diffamazione nei confronti di Michele. "Ma io ho lasciato l'incarico il 4 febbraio del 2011", ha risposto, precisando di aver presentato la denuncia dopo la deposizione di Michele all'udienza preliminare nello scorso autunno 2011. In aula all'udienza erano presenti lo stesso Michele Misseri, imputato per concorso in soppressione di cadavere, e la madre di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo.

Ore 16.30 – parla Rosa Martino e Anna Licia Morleo. Con la deposizione della grafologa Rosa Martino, consulente del pubblico ministero, e di Anna Lucia Morleo, madre di un’amica di Sabrina Misseri, si è chiusa la diciassettesima udienza del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. A deporre per ultima, dopo una seduta estenuante, è stata Anna Lucia Morleo, testimone citata dalla difesa di Sabrina Misseri, la cugina della vittima, quest'ultima detenuta insieme alla madre Cosima Serrano con le accuse di concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere. Anna Lucia Morleo ha riferito di aver visto Sarah alle 11.30 del 26 agosto e che la 15enne indossava jeans e maglietta rosa. Altri testimoni avevano detto invece che Sarah quando uscì da casa la mattina aveva un completino (maglietta e pantaloncini) di colore nero. A parte una notevole discordanza rispetto a tutti gli altri testi sentiti finora sull'abbigliamento che Sarah indossava la mattina dell'omicidio, si è trattato di una deposizione favorevole alle imputate poiché la signora Morleo, vicina di casa della famiglia Misseri, ha sottolineato gli ottimi rapporti tra le due cugine. Le sue figlie sono amiche di Sabrina ma frequentavano anche Sarah, specie la più piccola. "Non ho saputo di nessun litigio di Sabrina e Sarah", ha detto tranne dopo "in tv". "Non ho saputo di alcuno screzio per via di Ivano Russo", ha aggiunto. Su questa deposizione, soprattutto sull'insistenza di alcune domande alla teste del pubblico ministero sulla possibilità che possa essersi confusa tra l'abbigliamento indossato dalla 15enne la mattina e quello del pomeriggio, si è accesa la protesta dell'avvocato della difesa, Roberto Borgogno. Peraltro quel pomeriggio la donna ha detto di essere passata con suo marito in auto per andare al mare, alle 13,50, intorno all'orario in cui Sarah, sarebbe arrivata a casa Misseri, trovando la morte.

Le prossime udienze sono state fissate dalla Corte al 19 giugno e al 3 luglio, in particolare quest'ultima sarà particolarmente importante poiché sono previste le testimonianze della sorella di Sabrina, Valentina Misseri, di Vanessa Cerra, la commessa del fioraio del famoso 'sogno', il marito di questa Giovanni Pucci e del medico legale che effettuò l'autopsia sul cadavere della vittima il professor Luigi Strada.

19 giugno. Diciottesima udienza. Parla Adolfo Semeraro e Cosimo Monopoli.

Le foto shock del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi sono state mostrate su schermo nell'aula di Corte d'Assise di Taranto nel corso della diciottesima udienza del processo per l'omicidio della quindicenne di Avetrana.

Ore 10:00 – Parla Il luogotenente Adolfo Semeraro, del Nucleo investigativo del comando provinciale di Taranto, che ha commentato le fasi del recupero del corpo, in un pozzo di contrada 'Mosca', e gli accertamenti compiuti la notte del 7 ottobre 2010. Dopo la prima proiezione delle foto, Concetta Serrano, la mamma di Sarah, è uscita dall'aula. Il luogotenente Semeraro ha sottolineato di essere arrivato in contrada Mosca intorno a mezzanotte e venti del 7 ottobre 2010 e di aver proceduto all'attività tecnica con foto e video. «Michele Misseri - ha riferito il teste - indicò il punto preciso dove si trovava il pozzo. Il punto di riferimento era un pezzo di legno fra un terreno e una piantagione. Alcuni militari procedettero alla rimozione del terriccio e degli arbusti e scavarono a mani nude. Diverse pietre coprivano il pozzo. A un certo punto si iniziò a scorgere il cadavere della ragazzina e calammo una telecamera per fare delle misurazioni. Le operazioni durarono tutta la notte». Nel pozzo si trovavano anche un laccio e una collana di cuoio con un ciondolo di scoiattolo. Il teste ha descritto inoltre le fasi del recupero dei vestiti bruciati di Sarah e della batteria del cellulare della 15enne e l'attività tecnica compiuta sui compressori del garage di casa Misseri.

ORE 13:17 – Chiesta l’acquisizione delle ultime lettere di Michele Misseri. Il pubblico ministero Mariano Buccoliero ha chiesto alla Corte d’Assise di Taranto l'acquisizione di cinque lettere di Michele Misseri pubblicate nell’aprile 2012 sul sito del Tgcom, una intervista rilasciata da Sabrina Misseri l’8 ottobre del 2010 alla trasmissione “Chi l'ha visto?” e un’altra intervista rilasciata da Michele Misseri l'8 maggio 2012 a “Porta a Porta”.

ORE 13:30 – Parla il brigadiere Cosimo Monopoli, all’epoca dei fatti in servizio al comando provinciale di Taranto, che ha parlato degli accertamenti compiuti il 21 ottobre 2010 sulla porta che dall’appartamento di casa Misseri conduce al garage.

Il pm Buccoliero ha rinunciato all’audizione del brigadiere Cosimo Micera e dei marescialli Antonio Lovreglio, Paolo Tempesta e Francesco Damiano.

Nell’udienza del 3 luglio sono previste le deposizioni di Vanessa Cerra, Giovanni Tucci, del medico legale Luigi Strada, dell’ing. Cirino, di Lucia Pichierri e Valentina Misseri.

Per concludere bisogna soffermarsi su un aspetto di un’altra vicenda che dolente o volente è legata al caso di Sarah Scazzi.

Il 7 giugno 2012 alle ore 10.30 si è tenuta la Conferenza Provinciale Permanente presso la Prefettura di Taranto. E’ stato invitato il Presidente della Provincia di Taranto ed i sindaci delle maggiori città della provincia, tra cui Taranto. Sono state invitate le massime autorità cittadine, (polizia, carabinieri e Guardia di Finanza). Sono stati invitati i rappresentanti delle associazioni di categoria economica e sociale e di difesa del consumatore. E’ stato invitato il dr Antonio Giangrande, quale presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, iscritta presso la Prefettura di Taranto all’elenco antiracket ed antiusura. Il Prefetto ha aperto ed inoltrato i lavori con una sua relazione sui problemi della Comunità: crisi economica, instabilità e disagio sociale, rischio di usura.

L’Associazione Contro Tutte le Mafie è l’unica associazione nazionale antiracket ed antiusura, al contrario di “Libera” che è un coordinamento di Associazioni locali che spesso fanno capo alla CGIL. L’associazione Contro Tutte le Mafie è obbligata all’iscrizione territoriale in virtù dell’art. 1, comma 3, Decreto Ministro dell’Interno 24.10.2007, n. 220, ma di fatto, telematicamente, opera in tutto il territorio nazionale, assistendo tutti coloro che non vogliono o non possono rivolgersi ad un Front Office territoriale.

Il dr. Antonio Giangrande riguardo agli aspetti trattati dal Prefetto di Taranto ha comunicato ai presenti che, come presidente nazionale, quindi data la sua esperienza extraterritoriale, ha adottato alcune misure divulgabili ed adottabili da ogni ente governativo provinciale, per poterne usufruire ed apprezzare gli aspetti più utili.

L’Associazione Contro Tutte le Mafie:

con Tele Web Italia, la sua web tv nazionale, ospita tutte le web tv locali e dà visibilità gratuita al territorio ed alle aziende che ivi producono per superare la crisi di mercato o il pericolo di usura;

considerando che le vittime del racket e dell’usura non hanno bisogno di visibilità e non vogliono apparire per paura delle ritorsioni, ha predisposto sui suoi siti web associativi uno sportello telematico (VADEMECUM) affinchè le vittime, senza ausilio di intermediari, possano accedere agli strumenti di denuncia e di autotutela più adeguati, previa informazione senza filtri sui benefici di legge, questo perché gli sportelli antiracket aperti a Lecce, Taranto e Brindisi, od in altri posti, pur in apparenza utili, possono sembrare solo strumenti di propaganda politica e di speculazione economica per attingere ai progetti PON o POR;

ha invitato ad una collaborazione reale la Camera di Commercio e le associazioni di categoria attraverso l’accesso ai Cofidi o gli Interfidi per superare l’ostacolo della mancata fruizione di finanziamenti dalle banche, per evitare il fallimento delle aziende o l’accesso al mondo usuraio dei cittadini.

In virtù di tali atti e proposte inviate al Ministro dell’Interno, ai Sottosegretari ed a tutte le Prefetture d’Italia, quindi, si sperava in una collaborazione senza oneri per lo Stato e che non sia solo di stampo burocratico, con la creazione di un Pool informale tra il delegato dell’ufficio competente presso la Prefettura territoriale, con il responsabile della locale Camera di Commercio, Industria, Agricoltura ed Artigianato, in rappresentanza delle categorie sociali ed economiche, con il magistrato delegato ai reati specifici, con la presente associazione che telematicamente aiuta i bisognosi sul territorio a trovare una sponda istituzionale per risolvere i loro problemi. Insomma, noi abbiamo bisogno di avere un solo nome presso cui convogliare le innumerevoli richieste di aiuto, per ovviare altresì ai disservizi esistenti nel sistema. Quel nome istituzionale, territorialmente, deve garantire: procedibilità della denuncia fondata presentata; immediato accesso ai finanziamenti dei Cofidi e Statali od ai risarcimenti di legge; tempestiva interruzione dei procedimenti giudiziari esecutivi a carico dell’usurato denunciante.

Si proponeva quindi: visibilità mediatica agli strumenti di tutela e collaborazione tra gli attori sociali ed istituzionali. In questo modo si batte Racket ed Usura.

Silenzio assordante. Intanto il Prefetto di Taranto ha replicato che l’intervento non era in tema. Meno male che Giangrande, esperto anche di economia, non ha fatto cenno all’usura bancaria ed all’usura di Stato con i tassi ed emolumenti riconosciuti ad Equitalia; non ha fatto cenno alle cartelle pazze, non ha fatto cenno alle esecuzioni giudiziarie con mancato diritto di reciprocità: cioè le esecuzioni di Equitalia sono reali, quelle contro Equitalia sono bloccate. Certo non per colpa di Equitalia, ma dei parlamentari che approvano norme che dovrebbero rappresentare i cittadini e non i poteri forti.

Dalle prime battute, però, è stato chiaro che la conferenza a Taranto era solo incentrata, secondo l’intento di stabilire la pace sociale e garantire allo Stato ed agli statali i sovvenzionamenti, sul gettare acqua sul fuoco riguardo i rapporti burrascosi tra il sistema sociale ed economico con Equitalia, che, purtroppo sfocia in vessazioni e disservizi da una parte e suicidi dall’altra. L’esordio del Prefetto è stato: niente polemiche, se no tolgo la parola; per cui il susseguirsi degli interventi è stato sulla falsariga intimata. Gioco facile per i rappresentanti di Equitalia replicare alle inconsistenti contestazioni dicendo che si impegneranno ad aprire centri di ascolto ed ad ampliare e dilazionare le riscossioni. Troppo poco per le aspettative di alcune associazioni presenti, che magari avrebbero voluto parlare delle sofferenze dei loro iscritti. Bene per i soliti personaggi genuflessi che fanno del lisciare il pelo al potere la loro missione quotidiana, anziché tutelare i loro associati. Molto bene per Equitalia che si è sentita a casa sua, ospite tutelato, al di là dei suoi meriti. La conferenza è stata chiusa dal Prefetto, istituzione a difesa di altra istituzione Equitalia con capitale Inps ed Agenzia delle Entrate, con un invito a vittime e carnefici di morandiana memoria: stiamo uniti e niente polemica. Subisci e taci, direbbe qualcuno.

L’esasperazione contro lo “Stato canaglia”, che spreme i suoi cittadini per mantenersi e dare in cambio solo ingiustizia e disservizi, di chi emulando gli imprenditori che assaltano le sedi di Equitalia con il sostegno morale dei vessati contribuenti e con il risalto dei media, o il convincimento remoto di molti che pensano sia un bene mettere una bomba al Tribunale per farla pagare a giudici ed avvocati corrotti non può giustificare la morte di una ragazza innocente nel fiore dei suoi anni. Senza dimenticare cazzate dette intorno ad una vicenda dove avvoltoi di tutte le risme hanno strumentalizzato e speculato.

Il 9 giugno 2012 è scoppiato a piangere per Melissa, ma ha confermato tutto. E’ andato così, secondo il racconto del suo avvocato, l’interrogatorio durante l’udienza di convalida del fermo di Giovanni Vantaggiato, l’imprenditore 68enne di Copertino (in provincia di Lecce), accusato di aver compiuto l’attentato alla scuola di Brindisi nel quale è morta la studentessa di 16 anni Melissa Bassi e sono rimaste ferite in modo grave altre cinque ragazze. «Ha reso ulteriori particolari – ha spiegato l’avvocato Franco Orlando – ma sostanzialmente non è mutato assolutamente nulla. Rimane la sua confessione». Vantaggiato dinanzi al gip ha pianto ha però riferito Orlando: «L’interrogatorio è stato in alcuni momenti drammatico, il pensiero per la ragazza morta, per le ragazze rimaste ferite e in particolare un pensiero per la sua famiglia alla quale ovviamente rimane molto vicino». La prima frase sarebbe stata: “Chiedo perdono”. Il gip del tribunale di Lecce, Ines Casciaro, ha convalidato il fermo di Vantaggiato, ed ha emesso una ordinanza di custodia in carcere nei suoi confronti. Confermata l’ipotesi di reato di strage in concorso con finalità di terrorismo. Soprattutto Vantaggiato ha chiarito il movente: «Ho fatto un gesto dimostrativo perchè ho subito due truffe e perchè il fatturato negli ultimi anni è diminuito”. L’uomo ha specificato di non riuscire a sopportare l’idea di non dover essere risarcito da un suo cliente, Cosimo Parato, e da un fornitore di Avetrana, dai quali non ha ricevuto circa 400mila euro. I suoi affari, inoltre, avrebbero subito un forte ridimensionamento (da quattro a un milione di litri) da quando era cessato l’appalto con la Provincia per alcune scuole superiori di Brindisi, tra le quali proprio il professionale Morvillo. L’appalto era comunque cessato – a quanto si sa – nel 2003. A causa dei problemi economici, ha aggiunto Vantaggiato, ha dovuto ridurre da sei a una unità il personale della propria azienda e ha perso all’incirca il 70 per cento del fatturato. Inoltre sono emersi nuovi dettagli sulle modalità di realizzazione dell’innesco. Vantaggiato ha rivelato anche di aver fatto delle prove in campagna prima di trasportare, da solo, le bombole davanti all’ingresso della scuola nella notte tra il 18 e il 19 maggio 2012. L’uomo ha quindi negato di aver agito con la complicità di altre persone e ha dimostrato una notevole competenza in materia elettronica. Vantaggiato avrebbe trovato su un’enciclopedia – alla voce esplosivi – le istruzioni per miscelare la polvere pirica che ha poi versato nelle bombole che ha fatto esplodere davanti alla scuola.

La truffa da 342mila euro. Due sarebbero stati gli eventi diventati un incubo per Vantaggiato: prima di tutto la scoperta di assegni a vuoto per 342mila euro dopo aver rifornito di gasolio un imprenditore agricolo di Torre Santa Susanna, piccolo comune in provincia di Brindisi. Nel 2007 aveva venduto 700mila litri e passa di gasolio più un migliaio di benzina a Cosimo Parato mai immaginando di essere costretto a sporgere denuncia . “Tre anni di processo per niente”, avrebbero detto al gip perché se da un lato l’imputato (solo lui a fronte di quattro persone rinviate al giudizio del Tribunale) era stato riconosciuto colpevole, dall’altro non c’era stata alcuna provvisionale rispetto alla richiesta di risarcimento dei danni quantificata in 400mila euro, facendo soprattutto riferimento ad “ansie e preoccupazioni”. E’ quello che si legge nella richiesta di costituzione di parte civile, ammessa dal gip Valerio Fracassi. La sentenza è arrivata il 19 aprile 2012, quindi un mese prima dell’attentato. Vantaggiato avrebbe detto di aver pensato al processo civile ma quando ha avviato le pratiche avrebbe scoperto che in realtà c’era poco quanto niente da aggredire. “Dove e come potevo recuperare tutti quei soldi?”. Dopo il buco ci sarebbe stato un altro colpo: il mancato pagamento di un cliente di Avetrana, in provincia di Taranto. Nel frattempo anche gli appalti con le Pubbliche Amministrazioni sarebbero venuti meno, complice l’avvento del metano. E’ successo così con la Provincia di Brindisi che aveva assegnato alla sua ditta l’appalto per la fornitura di gasolio nelle scuole superiori, tra le quali figura anche il Morvillo-Falcone: in tre anni, dal 2001 al 2003, aveva incassato – a fronte di fatture emesse – la somma di tre miliardi e mezzo di lire.

L’attentato a Parato. Ce l’aveva con qualcuno in particolare? “No, con chi fa le leggi visto quello che mi è successo”, avrebbe risposto. Gli è stato chiesto se fosse stato lui a organizzare e ad eseguire l’attentato ai danni di Cosimo Parato, praticamente vivo per miracolo dopo l’esplosione che avvenne la domenica mattina del 24 febbraio 2008 davanti all’ingresso della palazzina in cui risiede, a Torre. “No, non sono stato io, non c’entro niente”. Vantaggiato ha insisto: “E’ la legge il problema”. Poi ha voluto precisare: “Io non appartengo a organizzazioni criminali o terroristiche e la politica non c’entra niente”. Ma allora per quale motivo da Copertino è arrivato a Brindisi e si fermato proprio davanti all’ingresso di una scuola? La risposta è stata impressionante: “A Lecce non ci potevo andare, sono di quelle parti, Bari è troppo lontana, Brindisi è vicina: ci sono arrivato facilmente e poi me ne sono andato”. Perché il Morvillo? Perché sarebbe stato il primo luogo che ha visto e ha ritenuto idoneo per posizionare il cassonetto con le tre bombole di gas, una volta arrivato nel capoluogo, appena superato l’incrocio del ponte del rione Sant’Angelo dove è stato “visto” dalle telecamere dei semafori. E’ stato immortalato la mattina del 19 maggio, in un orario “compatibile” con l’attentato: arrivo alle 7, strage alle 7,42, strada del ritorno imboccata due minuti dopo. E quella del 5 maggio, un sabato, alla stessa ora: in questo caso a incastrarlo c’è stata anche una telefonata che ha permesso di stabilire la presenza nella zona della scuola essendo stata agganciata la cella telefonica che serve il Morvillo.

L’orrore non ha bisogno di grandi strategie. «Bari era troppo lontana, a Lecce rischiavo di essere riconosciuto. Ho scelto Brindisi perché sta a metà strada. E poi è un centro abbastanza grande. E io volevo fare un gesto dimostrativo, qualcosa di eclatante». È andata così, banalmente. Seguendo un filo logico di bassa praticità, con gli occhi sempre chiusi sulle conseguenze. «Non ho nulla contro l’Istituto Morvillo Falcone. Ho scelto quella zona dopo un sopralluogo. Ci arrivi in due minuti e in due minuti te ne vai, con rapido accesso alla superstrada. La via è abbastanza buia, quindi si prestava a mettere le bombole e collegare l’innesco». Povera Melissa Bassi, al momento sbagliato nel punto sbagliato, al centro del delirio vendicativo di un uomo meticoloso. Così meticoloso che dal carcere ha dato disposizione alla moglie di far sparire alcuni documenti. I poliziotti, che ovviamente hanno intercettato la lettera, sono andati a sequestrarli. Un tipo indecifrabile, Giovanni Vantaggiato. Alle 9 di mattina del 9 giugno 2012 si è presentato davanti al gip Ines Casciaro per l’udienza di convalida, ed è scoppiato a piangere: «Mi metto in ginocchio - ha detto all’inizio - chiedo perdono ai genitori della bambina. Gli scriverò. Chiedo perdono anche alla mia famiglia. Della mia vita non mi importa più nulla». Gli hanno detto di calmarsi, lo hanno fatto sedere. Poi, nell’aula all’interno del carcere di Lecce, hanno iniziato a tempestarlo delle stesse domande che tutta Italia si sta facendo da tre settimane. Perché? «Perché mi hanno rubato due volte i mezzi. Perché ho dovuto sottostare a un’estorsione. Perché me li hanno incendiati, con un danno da 50 mila euro. Per quel bidone da 345 mila euro che mi ha rifilato Cosimo Parato di Torre Santa Susanna e un’altra truffa da 120 mila euro da un fornitore di Avetrana. Ero esasperato». «Lei ce l’ha con i giudici?», gli ha domandato il gip. «No, sono le leggi che sono sbagliate. Se ci fossero leggi migliori, non mi sarei ridotto così. Ho fatto tre anni di processo e ho ottenuto nulla. Le leggi non tutelano i commercianti». Tre ore di verbale. Con un altro momento di pianto a singhiozzi, che costringe a un’interruzione. «Ci stavo pensando da Natale. Ho comprato i telecomandi, un manuale di chimica, 30 chili di polvere pirica. Ho fatto tutto io, tutto da solo». Non è stato un giorno di ordinaria follia. Ma un pensiero cullato a lungo, preparato con perseveranza. «Fra febbraio e marzo, per tre volte ho sperimentato la funzionalità dell’ordigno che stavo costruendo. Sono andato in una strada di campagna, dalle parti di Copertino. Tutto il circuito deve girare a 12 volt, volevo essere sicuro che la batteria non si bruciasse». Ma perché ha scelto proprio il 19 maggio per piazzare la bomba? «Perché prima la pioggia avrebbe potuto rovinare tutto». Ed ecco gli attimi terribili che precedono la strage: «L’innesco non partiva. Continuavo a schiacciare. È passato più di un minuto. Poi ho visto la fiammata, ho girato le spalle e me ne sono andato. Io non volevo uccidere, lo giuro. Non doveva andare così». Hanno chiesto a Vantaggiato del libro sequestrato a casa sua, «Manuale del Guerriero della Luce»: «Paolo Coelho? Chi è? Un mio cliente? Non lo conosco. No, non è mio quel libro. Io leggo riviste nautiche e cruciverba». Gli hanno chiesto della bomba gemella, esplosa nel 2008 a Torre Santa Susanna, che ha ferito il «nemico» Cosimo Parato: «Non sono stato io». Gli hanno domandato cosa abbia pensato rivedendosi nel video ripreso dalle telecamere di un chiosco, la mattina della strage: «Ho sperato che non succedesse nulla, perché l’immagine non era buona». Quanto al peso della morte, al dolore provocato, ha detto: «Ho cercato di non pensarci». Il gip: «Come ha passato la giornata, dopo aver messo la bomba davanti alla scuola?». Giovanni Vantaggiato: «Sono andato a lucidare la mia barca».

Non ce l’ha con i giudici, «ma con chi scrive le leggi. Se fossero migliori, non sarei così esasperato». Era «frustrato» per aver subito due truffe ed estorsioni senza risarcimento. E perché colpire la scuola, in quel punto? «Volevo un gesto eclatante e lì “ci entravo comodo” (ci arrivavo bene) da Lecce. Conoscevo l’istituto poiché ci portavamo il gasolio, ma mo’ non più». E ha cominciato a preparare l’ordigno «da Natale», facendo «tre prove». Anche se quella mattina l’innesco si è inceppato, «ho dovuto schiacciare tre volte». Complici? «No, lo giuro sui miei nipoti».  In tre ore d’interrogatorio per la convalida del fermo l’Unabomber del Salento, Giovanni Vantaggiato, circoscrive il movente alla rabbia per il crollo degli affari e a vari contenziosi andati male; e fa capire che la “Morvillo Falcone” è stata scelta perché comoda sul piano logistico e vicino al tribunale che frequentava con insofferenza. Prova anche a piangere: «Mi butto in ginocchio, chiedo perdono ai parenti della bambina (Melissa), voglio scrivere loro una lettera». Ma allora, ce lo vuole dire perché la bomba? Sono le 8.40 quando il gip, e con lei i pm Guglielmo Cataldi e Milto De Nozza, chiede al killer di spiegare. È il secondo interrogatorio ufficiale. E fa caldo, dentro il carcere di Borgo San Nicola. Vantaggiato si asciuga la fronte con una manica, quindi parte a razzo: «Sono esasperato dai problemi nella mia attività. Mi hanno rubato due volte i mezzi con il cavallo di ritorno (si paga per riaverli, di fatto un’estorsione)… una volta me li hanno incendiati, ho avuto un danno in casa da 50 mila euro, una truffa ad Avetrana da 70 mila, gasolio non pagato. Poi sono stato raggirato da Cosimo Parato». È, quest’ultimo, l’agricoltore di Torre Santa Susanna che gli ha fatto un “bidone” da 342 mila euro, saldando, nel 2007, 700 mila litri di combustibile con assegni scoperti. «Pensare che gli fece da garante un maresciallo dei carabinieri, Fiorita, nemmeno di loro ci si può fidare». Parla del processo contro Parato dopo la sua denuncia: «Quello è stato condannato, ma adesso che dovevamo avere la causa civile per i danni si è venduto tutto. Ho avuto tre anni di processo e nulla, non è tutelato chi fa il commercio… gli affari sono scesi del 70% con la metanizzazione delle scuole, per le quali avevo l’appalto di fornitura del gasolio da riscaldamento. Prima vendevo 4 milioni di litri l’anno, ora solo uno; avevo sei dipendenti, ne è rimasto uno. E quando devi utilizzare i risparmi per pagare i debiti, vuol dire che le cose vanno male». Il pm De Nozza lo interrompe: «Gliel’hai messa tu nel 2008 la bomba a Parato (che ferì gravemente l’agricoltore)?». «Assolutamente no». Poi torna sul possibile bersaglio. «Ma allora ce l’hai con i giudici, con il tribunale?». «No, con chi scrive le leggi. Fossero migliori, non sarei ridotto così». «Ho iniziato a mettere le cose da parte a Natale, non ho usato solo polvere pirica (come aveva detto la notte in cui fu fermato), ma un composto con solventi chimici, la miscela l’ho creata io». Però. «Dovevo provare la funzionalità. Il circuito è fatto apposta e deve girare a dodici volt, volevo essere sicuro che la batteria non si bruciasse. Ho fatto tre prove, in campagna. Mettevo un pochino di polvere, provavo e se c’era la fiammata voleva dire che funzionava. Ci ho lasciato tre batterie così. Ho sottovalutato la potenza, non volevo uccidere». «Sei bravo a fare ‘ste cose», le parole dei pm: «Non è che sono bravo, ho trovato su un enciclopedia, su un manuale, le istruzioni per miscelare la polvere». E quel libro di Paulo Coelho, il Manuale del guerriero della luce sul suo comodino con appuntata la frase “agire subito”? «Chi è Coelho, un cliente? Io leggo solo riviste di nautica e mi piacciono i cruciverba». Il gip chiede: possibile fosse solo?. «Lo giuro sulla cosa più cara che ho, i miei nipotini». Come già era accaduto, usa una volta la prima persona plurale: «Abb…, no, volevo dire ho caricato…so di aver fatto del male, anche alla mia famiglia. Ma loro non c’entrano nulla». L’epilogo è ricostruito meccanicamente: «Volevo fare un gesto eclatante; Bari mi sembrava troppo lontana, a Lecce avevo paura di essere riconosciuto; a Brindisi, e soprattutto lì, ci arrivi comodo. Dall’autostrada sono due minuti e te ne vai in fretta». I pm: «Ma allora ce l’hai con la scuola? «No, anche se la rifornivo fino a qualche anno fa: ci andava un autista. L’ho scelta perché era un posto abbastanza buio per mettere la bomba». Perché quel giorno? «Prima c’era stato brutto tempo, temevo che la pioggia potesse spegnere l’innesco». Lo stesso innesco che non funzionava a dovere e l’ha obbligato a premere il pulsante «tre volte». «Non mi sono accorto delle telecamere, quando hanno trasmesso il video in tv speravo non succedesse nulla perché l’immagine non era buona». I magistrati lo guardano storto. «Vantaggiato, l’ha vista l’esplosione?». «Ho visto la fiammata e sono andato via. Poi, per non pensarci, mi sono messo a lucidare la barca a secco».

Sugli sviluppi merita interesse quanto scritto da Fabio Mollica su “Brindisi Report”. Prima le illazioni sulle bombole di gas, poi le ipotesi più disparate sulle piste da seguire, infine i filmati del presunto attentatore (poi rivelatosi un poliziotto) sul luogo dell’attentato, ripreso mentre raccoglie detriti. La voglia di scoop, la necessità di trovare gli autori della strage e la possibilità di rendere pubbliche le proprie opinioni attraverso il web e i social network hanno cambiato il modo di raccontare un evento tragico, e forse perfino il modo di indagare. Ed è proprio sul web che si possono trovare le analisi più “originali” (per qualcuno le più strampalate) e le tesi più azzardate. Eccone alcune.

Enzo Di Frenna, sul suo blog ospitato da “Il Fatto Quotidiano”, non ha dubbi: dietro la bomba del 19 maggio ci sarebbe la solita oscura trama ordita da massoneria, politica corrotta, servizi segreti deviati e finanza speculativa. Il perché sarebbe semplice: «Oggi il cambiamento in Italia si sta manifestando attraverso i giovani a la Rete. La politica dal basso – che scuote i palazzi del potere – usa Internet. Se tale cambiamento si dovesse propagare sul piano nazionale, l’intreccio politica-mafia sarebbe in pericolo. Quindi i mandanti sono da cercare in pezzi deviati dei poteri dello Stato, che da anni hanno stretto un patto con le grandi organizzazioni criminali. Chi ha piazzato le bombe davanti a una scuola lo ha fatto tenendo all’oscuro la Sacra Corona Unita. È gente spietata che si è infiltrata nel territorio pugliese». Tutto chiaro, enigma risolto (eccezion fatta per i nomi degli stragisti): «Ho l’impressione che i mandanti siano i membri di quella Cupola Nera- composta da massoneria, politica corrotta, pezzi deviati dei servizi segreti e finanza speculativa – che da decenni tiene in scacco l’Italia. Il cambiamento sta scuotendo le fondamenta del loro potere. Si sentono minacciati. E quindi loro minacciano. Nel modo più feroce possibile».

Più o meno sulla stessa linea è (sul suo blog) Marco Cedolin, che non propone una tesi sugli autori dell’attentato, ma è certo su chi se ne avvantaggia, e cioé «lo stato e il governo, che erano in disgrazia», con il ministro Cancellieri che ora «avrà carta bianca per reprimere tutto ciò che possa infastidire l’esecuzione degli ordini della Bce, ad iniziare dalla No Tav, da lei stessa definita la maggiore preoccupazione del governo, unitamente alle contestazioni contro Equitalia ed a tutti i focolai di conflitto sociale che potranno crearsi quando la macelleria fra qualche mese entrerà in funzione a pieno regime».

Altro blog, altra tesi, quella di Gianni Fraschetti, su informare.over-blog.it, che sulla base delle immagini viste in tv esclude categoricamente che possano essere state utilizzate bombole di gas: «Allora, vorrebbero dirci che lì vi è stato il Bleve (l’esplosione) di tre bombole e che lo stato dei luoghi successivo a tale evento è quello che abbiamo visto? Ma non raccontassero cazzate per piacere. “Lì non è esplosa nessuna bombola, però sarebbe interessante sapere perché la menzogna comincia proprio da lì”.

Quanto al movente, Frascetti ne propone uno, che porta molto lontano: all’America che non vuole il gasdotto russo South Stream: «Ecco dunque spiegati il perché di Brindisi, dove dovrebbe sbucare il South Stream, e questa strana bomba sulla quale sono state avanzate le più disparate congetture e che altro non era che un avvertimento in codice, pieno di simbolismi abbastanza difficili da decifrare per tutti, meno che da coloro che dovevano comprenderli. Insieme all’esplosivo infatti era stata collocata vicino alla scuola (le future vittime innocenti?) una bombola di gas vuota (il gasdotto?), con un po’ di morchie dentro che sono fisiologiche ed hanno provocato le ustioni ed un po’ di nerofumo sul muretto, il cui significato era chiaro. Provateci a fare il South Stream… ci dovete solo provare».

Di Frenna, Cedolin, Frascetti. Nomi poco noti, direte voi. E invece tra quanti si sono lasciati prendere la mano (e la penna) ci sono anche esperti del settore. Come il barese Aldo Giannuli, ricercatore di Storia contemporanea all’Università degli studi di Milano, già consulente delle procure di Bari, Milano (strage di piazza Fontana), Pavia, Brescia (strage di piazza della Loggia), Roma e Palermo. Nonché, dal 1994 al 2001, collaboratore della Commissione Stragi. Ecco la sua idea sui fatti di Brindisi: «Potrebbe esserci una pista diversa, di natura affaristica. Destabilizzare l’Italia potrebbe convenire per manovre speculative sui titoli italiani o sull’Euro, ma potrebbe esserci anche una ragione più specifica. Ad esempio, ragionando sull’attentato ad Adinolfi (il dirigente dell’Ansaldo) ipotizzavo che questo potrebbe anche essere messo in relazione con una pressione dei confronti del governo italiano per vendere subito ed a buon mercato il gruppo Finmeccanica, di cui, insieme all’Eni ed alle Ffss, si era ipotizzata la cessione per far fronte al debito pubblico. Della cosa poi non si è più parlato ed il progetto langue. Ora questi attentati indeboliscono la posizione dell’Italia che sembra avviata su un declino di tipo greco o sudamericano». Manca però qualsiasi elemento o riscontro. E infatti Giannuli avverte: «Non abbiamo alcun elemento concreto per sostenere che la pista affaristica collega i vari attentati, ma non c’è dubbio che, oggettivamente, essi vadano in questo senso, favorendo una svendita degli asset nazionali. Perché non proviamo a ragionarci su? È solo un’ipotesi, d’accordo, ma almeno un po’ più razionale di quella dell’improbabile pista mafiosa».

Antonio De Martini, sul blog “Ilcorrieredellacollera”, si spinge ancora più avanti, ipotizzando il complotto internazionale: «…Resta il movente dell’impedire a Monti di tornare vittorioso dagli USA coi capitali e qui ci restano due strade: il mandante è chi vuole sostituirlo oppure chi vuole che continuiamo a indebitarci pagando lauti interessi.
Se il mandante fosse chi vuole sostituire Monti, farebbe parte della sua maggioranza, ma escluderei Berlusconi perché per far cadere il Premier, gli basterebbe farlo impallinare in Parlamento dopo aver portato a casa gli aiuti. Sarebbe più nel suo stile.
Resta solo la seconda ipotesi, cioè che il mandante sia seduto al tavolo del G8 assieme a Monti e che in questo momento gli sta dicendo che è difficile inviare capitali in Italia perché sono stati “deployed” 20.000 uomini ed è corso del sangue sia a Genova che al Sud e i media hanno propagato le news». De Martini ha un dubbio, ma anche la risposta: «L’obiezione principale a questa personalissima ipotesi, sarebbe considerare irrealistica una alleanza armonica tra alta finanza e malavita. Il malloppo degli interessi pagati dall’Italia è di oltre 130 miliardi annui».

Insomma, secondo questi signori l’assassino di Melissa Bassi potrebbe essere seduto al tavolo del G8, o comunque avere accesso alle stanze dei bottoni, o magari a Wall Street.

Perfino il senatore leccese Giovanni Pellegrino non esclude piste degne di un film. Al Quotidiano Nazionale ha infatti dichiarato: «Mi viene da pensare a intelligence nemiche, che mascherano una sottile strategia offensiva con il carattere artigianale e dilettantesco dell’ordigno, per aumentare il terrore». L’ex presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi ricollega quello del Morvillo-Falcone a due attentati analoghi andati a vuoto: «Uno a Castelvolturno, e l’altro nel Torinese. Se fossero collegati, ci indicano una strategia precisa. Una bomba piazzata per uccidere dei ragazzi, degli studenti, come a Tolosa, come in Norvegia, è un segnale fortissimo e terrorizzante, di qualcuno che vuole comunicarci questo: siete finiti, non avete futuro».

Riguardo alle cazzate dette sul delitto di Melissa Bassi cito il pensiero di Filippo Facci di “Libero Quotidiano”. Vent’anni dopo si passa da Capaci a Brindisi, da Totò Riina a un probabile e terribile caso umano, dalla mafia militare – che è stata sconfitta – all’antimafia che ogni volta cerca di riesumarla. Non è il senno di poi, questo: comunque sia andata, bastavano trenta secondi per concludere che a Brindisi nessuna mafia o terrorismo avrebbe usato una bomba così sfigata, fatta con bombole del gas di uso comune e con un detonatore da vendita per corrispondenza, azionato da un professionista così abile da farsi riprendere da una telecamera; concludere che non c’era una sola ragione logica o territoriale perché la criminalità organizzata o chiunque altro dovesse passare dal tritolo serie T4 del 1993 (piazzato in punti culturalmente simbolici a Milano e Roma e Firenze) a un ordigno rudimentale piazzato proprio a Brindisi e proprio davanti a un istituto turistico; concludere, tra l’altro, che nessun precedente riporta a killeraggi del genere contro la popolazione e addirittura contro ragazzine di 16 anni. Tutto questo qualche addetto ai lavori l’ha anche detto subito, con tutte le accortezze del caso: ma non è bastato a fermare le solite germinazioni dietrologiche su un terreno che qualcuno, in Italia, si preoccupa sempre di irrigare a dovere. Scriviamo questo senza neppure sapere con precisione, a Brindisi, chi sia stato il colpevole: su chi non è stato, tuttavia, sono abbastanza certo, e lo dico, mi espongo. Ecco perché mi paiono così penose le parate di chi, anche tra gli inquirenti, «non esclude» questo e quest’altro. Il procuratore capo di Brindisi è arrivato a considerare seriamente, senza elementi, che l’attentato sia ricaduto su quella scuola perché intitolata neppure a Falcone, ma a sua moglie Francesca Morvillo. Di elementi in realtà ce n’era uno solo – il video del presunto attentatore – e sono riusciti a farlo uscire sui giornali praticamente in tempo reale, probabilmente danneggiando le indagini, sicuramente indisponendo la Dda di Lecce e non solo quella: ma non scriveremo di «guerra tra procure», sennò i procuratori si dispiacciono. A Brindisi ipotizzano l’attentato mafioso, a Lecce lo escludono: ci faranno sapere.

Di Beppe Grillo non c’è da dire una parola: lui la bomba la «sentiva nell’aria» (poteva avvertire) ma ti spiegano che sparare cazzate fa parte della sua dimensione neopolitica. Peraltro sabato 9 giugno, alla manifestazione al Pantheon, si sentivano nell’aria anche i colpevoli, i soliti servizi-mafia-Stato che vorrebbero fermare il «nuovo»: a Palermo sarebbe Leoluca Orlando, uno che era già sindaco del 1985 e che mascariò Falcone come già raccontato. Nicola Zingaretti, il presidente della Provincia, ovviamente ha chiesto di colpire «i mandanti». Persino Gianni Alemanno ha parlato di attacco mafioso «che ha scelto il ventennale della morte di Falcone per lanciare un segnale». E poi la Cgil, Libera, l’Arci: chi fosse il colpevole pareva quasi secondario, il cui prodest eleggiava su tutto. Di Pietro si è scagliato contro «qualcuno che vuole il caos e che in questa situazione politica ed economica vede la possibilità di scatenarlo di nuovo». Maurizio Landini (Fiom) ha detto che «poteri occulti hanno tentato una strage per mettere paura proprio mentre sono in atto cambiamenti nel Paese». Poi il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia – poteva mancare? – ha parlato di analogie con le stragi di mafia del ’92-’93, chissà, magari c’è sotto una trattativa. Del resto Giancarlo Caselli, nume tutelare di Ingroia, aveva già parlato di «rischio di poteri occulti o deviati».

Sono ancora lì che straparlano di mafia, questi. In Italia si ammette che è stato storicamente sconfitto il terrorismo, ma quello che non vi diranno mai – mai – è che anche la battaglia contro la mafia è stata sostanzialmente vinta. La struttura gerarchico-militare è stata decapitata, i capi-latitanti sono in galera, i sottoposti pure, non si contano killer ed estorsori e picciotti e prestanome e palazzinari pure incarcerati, i sequestri di armi e droga e ingenti patrimoni ormai non si contano, le bombe e le stragi e gli omicidi seriali non ci sono più, la presa sul territorio è scomparsa o allentatissima, i traffici internazionali sono interrotti o in mano alla ‘ndrangheta. Ovviamente persistono i piccoli clan nonché una criminalità organizzata più generica, dedita al riciclaggio, alla finanza, agli appalti «legali» soprattutto nella sanità: ma non è più un’emergenza territoriale e un terrore quotidiano. Va combattuta – come si fa in tutto il mondo – ma avrete notato come mafiologi e ciarpame antimafia, oggi, si concentrino soltanto sul passato, sulla paleontologia giudiziaria, sulla rielaborazione infinita e cervellotica di fatti ventennali, sull’eterno ritorno. Giovanni Falcone disse che la mafia è una cosa umana e che perciò avrebbe avuto una fine come tutte le cose umane. Ma parlava della mafia, non dell’antimafia: non delle cialtronate dietrologiche, delle fiaccolate e dei cortei luttuosi, dei video e degli appelli, dei clan dei familiari e degli avvoltoi, della retorica e dei picciotti della memoria.

È il terzo giorno di fila che cito Luca Telese: domani vado a farmi vedere. Però, ecco: Telese nei giorni scorsi ha lasciato Il Fatto Quotidiano perché oltretutto c’erano personaggi come Beppe Grillo e Antonio Ingroia e Giancarlo Caselli che erano diventati degli intoccabili, ha detto. L’avrà fatto anche per altre ragioni, ma ha detto così. Ciò premesso, sappiamo che subito dopo la bomba di Brindisi furono dette le peggio cazzate, e infatti su Libero ci siamo divertiti a metterle alla berlina come avevamo già fatto subito dopo l’attentato. Non siamo stati i soli: per esempio, anche Il Fatto Quotidiano si è divertito a mettere alla berlina le cazzate eccetera. E - domanda - indovinate chi si sono dimenticati di citare? Proprio Grillo e Ingroia e Caselli, cioè quelli che avevano paventato gli scenari più foschi e inquietanti. E indovinate chi invece hanno citato? Proprio quelli che stanno sulle palle a Grillo e Ingroia e Caselli, oltreché a loro. Cioè: Grillo aveva detto, con evocazioni genere strage di Stato, che lui la bomba la «sentiva nell’aria» e l’aveva citata altre volte durante la campagna per le amministrative, roba tipo «bomba o non bomba arriveremo a Roma»; Ingroia aveva parlato di analogie con le stragi del ’92-’93 e aveva spiegato che «la mafia non riesce a fare a meno di rapporti con la politica e per mettersi sul mercato dimostra di essere ancora forte». Caselli, nume tutelare di Ingroia, aveva parlato di «rischio di poteri occulti o deviati» e via così, non la facciamo lunga. Ecco: sul Fatto, non una parola su di loro. E non una parola, a guardar bene, neppure su Antonio Di Pietro («qualcuno vuole il caos e in questa situazione politica vede la possibilità di scatenarlo di nuovo») e su Maurizio Landini della Fiom («poteri occulti hanno tentato una strage mentre sono in atto cambiamenti nel Paese») e altri ancora. E noi li comprendiamo, quelli del Fatto Quotidiano: siamo uomini di mondo e di strapaese. Al giornale di Padellaro lavora il figlio di Giancarlo Caselli (Stefano) e l’addetto stampa e compagno di vacanze di Ingroia (Travaglio) e l’ex addetto stampa di Di Pietro (sempre Travaglio) e il biografo personale di Beppe Grillo (Andrea Scazzi) e già che ci siamo: ci lavora pure il figlio del magistrato ed ex sindaco di Genova Adriano Sansa (Ferruccio) e ci scrive l’ex magistrato Bruni Tinti: i quali, tutti insieme, magari costituiscono la divisione contro i conflitti d’interesse. Però, ecco: piuttosto che coprirsi di ridicolo allora rinuncino all’articolo, non citino - come hanno fatto - solo il capo della Polizia, Antonio Manganelli, e poi naturalmente il procuratore antimafia Piero Grasso (che a Ingroia e Caselli fa venire l’orticaria) e poi Massimo D’Alema e Alfredo Mantovano e ancora un paio di ministri: tutta gente che peraltro non aveva detto granché, a ben vedere. Ripetiamo, siamo uomini di mondo e non c’è certo da prendersela con l’autrice dell’articolo omissivo, Silvia D’Onghia: nessuno, qui, sosterrà che sia andata incontro a censura. Infatti si chiama autocensura. Ci dev’essere un bel clima, da quelle parti.

A questo punto come non dare ragione, solo per una volta, però, a Carlo Bollino, il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, con il suo editoriale dell’11 giugno 2012. Una volta perché il direttore spesso smentisce se stesso e le sue condivisibili opinioni. Anche con Sarah aprì con un bel editoriale di critica, per poi finire egli stesso nel calderone della demagogia e della disinformazione. Sarà la medesima risonanza mediatica che le due tragedie suscitano, o saranno forse alcune singolari coincidenze (davvero tali e almeno su questo non ci sono dubbi) che le accomunano, ma l’inchiesta sul mostro di Brindisi evoca ogni giorno che passa nuove, sinistre, assonanze con quella sull’uccisione di Sarah Scazzi. E non soltanto perché Sarah e Melissa avevano la stessa età, ed entrambe sono morte a loro insaputa mentre celebravano un innocuo rito della propria adolescenza (l’una stava per andare al mare, l‘altra a scuola). E neppure perché i protagonisti si assomigliano, anche fisicamente; persone qualunque della provincia contadina (Copertino dista da Avetrana meno di 30 chilometri), con una vita e un volto apparentemente inconciliabili con l’orrore che vien loro attribuito. No, la vera similitudine dai toni sinistri è che le due indagini continuano a disvelare punti interrogativi identici, e gli identici buchi neri. Con il rischio per entrambe che al di là delle energie spese dagli investigatori l’esito processuale, si trasformi poi nella disfatta della giustizia.

IL MOVENTE. Il primo buco-nero che ritorna nelle due inchieste è la difficoltà ad identificarne il movente. Se ancora oggi, a distanza di quasi due anni, non si ha nessuna certezza sul perché Sarah Scazzi sia stata strangolata, con l’attentato di Brindisi la prospettiva investigativa rischia di essere identica. Vendetta personale? E contro chi? Gesto di follia? Ma è davvero folle Giovanni Vantaggiato? La mancanza di un movente certo rischia di rendere fragile l’intera impalcatura accusatoria, come l’andamento del processo su Avetrana sta puntualmente dimostrando.

I COMPLICI. Il secondo buco-nero riguarda l’esistenza o meno di complici. Proprio come fece Michele Misseri quando (forse tradendosi) disse «abbiamo parcheggiato l’auto» riferendosi alla Marbella con dentro il cadavere della piccola Sarah, così Giovanni Vantaggiato (subito correggendosi) ha detto agli inquirenti «abbiamo messo la bomba». Perché «abbiamo» se hanno agito da soli? Nello sforzo di ricostruire la “squadra” che ha assassinato Sarah e ne ha poi nascosto il cadavere, in due anni sono corsi fiumi di inchiostro e cascate di parole, con la procura di Taranto impegnata nel lancio di una rete via via sempre più ampia che ha finito col coinvolgere un gran numero di indiziati nessuno dei quali, però, è stato mai inchiodato alla certezza di una prova. E così ancora oggi nessuno sa dire non soltanto se Sarah sia stata uccisa davvero dalla sola Sabrina, ma neppure chi partecipò con zio Michele all’orrido espediente di buttarne il cadavere in fondo al pozzo. Anche nell’inchiesta di Brindisi si parla di «complici», un’ipotesi riportata persino nel decreto di fermo per Giovanni Vantaggiato emesso tre giorni fa dalla procura di Lecce, esattamente come accadde al momento dell’arresto di zio Michele due anni fa. Annotazioni, questa come quella, destinate a rimanere indelebili. Con un dettaglio che aggiunge al caso di Brindisi ulteriore mistero: il riferimento, esplicito ed inquietante, ad un possibile mandante.

LE MOGLI. Poi le mogli. Per oltre un anno quella di Michele Misseri è rimasta ufficialmente fuori dall’inchiesta, anche se sin dal primo giorno fu indicata come la «complice sottointesa». Un ruolo che rischia di assomigliare a quello di un altro convitato di pietra dell’inchiesta di Brindisi: la moglie di Giovanni Vantaggiato. Pare che l’uomo sia crollato addossandosi ogni colpa al solo sentire evocare dal magistrato che lo interrogava la prospettiva di coinvolgere nelle indagini la sua donna, la cui autovettura Fiat Punto di colore bianco era stata effettivamente filmata sul luogo del delitto. Un tabù identico a quello tradito sin dall’inizio da Michele Misseri, che nell’atavica logica contadina del preservare “i beni” ha sempre escluso qualunque responsabilità della moglie, alla quale aveva demandato la gestione e la titolarità del patrimonio di famiglia. Destino che accomuna (almeno in questo) Cosima alla moglie di Vantaggiato, pure lei titolare legale dell’impresa del marito. Nessuna allusione a responsabilità penali, ma sono in tanti a chiedersi come sia stato possibile che almeno la moglie non abbia riconosciuto il marito in quel video dell’attentatore trasmesso in televisione cento volte. E perché abbia taciuto. E come abbia potuto il marito chiamarla al telefono, nelle concitate fasi del fermo, chiedendo proprio a lei di far sparire l’auto usata per l’attentato, evidentemente inconsapevole di essere intercettato.

LE PROVE. Infine le prove. L’entusiasmo tradito dagli investigatori nelle ore successive alla confessione di Giovanni Vantaggiato, evoca lo stesso ottimismo dimostrato a Taranto all’indomani della confessione di Michele Misseri. Poi sappiamo come andò a finire: Misseri ritrattò tutto, e gli investigatori hanno iniziato un’estenuante rincorsa sui dettagli (fatica in parte non ancora conclusa) nel complicato tentativo di trasformare la pur cospicua quantità di indizi a disposizione, nella dimensione inconfutabile di una prova. Ecco, per restare all’analogia tra le due inchieste: cosa accadrebbe se domani anche Giovanni Vantaggiato dovesse ritrattare? Sono già emerse nelle indagini sulla strage di Brindisi prove scientifiche che inchiodano l’assassino al di là delle sue stesse ammissioni, e che invece sono sempre mancate nell’inchiesta sull’omicidio di Avetrana? Per quanto se ne sa, non ancora. Non è prova ad esempio la presenza della macchina di Vantaggiato sul luogo della strage, perché non c’è prova che ne fosse lui alla guida. Per la stessa ragione non è prova la presenza del suo telefonino nella memoria delle celle compatibili con il luogo della strage, perché non c’è prova che si trovasse davvero lì per azionare il detonatore (e poi quanto era davvero vicino alla scuola visto che le celle telefoniche coprono un raggio di oltre due chilometri?). Né può essere considerata prova quel video (almeno non una prova schiacciante) che ha immortalato l’attentatore nel gesto di azionare l’ordigno, ma che lo raffigura in modo così poco nitido al punto da non renderlo riconoscibile con certezza neppure mettendoci affianco la foto dell’arrestato. Né aiuta il fatto che manchi ancora l’arma del delitto: il telecomando con cui è stato attivato l’ordigno sembra dissoltosi nel nulla proprio come la cintura che strangolò Sarah. Questo non per dire che Giovanni Vantaggiato sia innocente. Ma solo per ricordare agli inquirenti, e a tutti noi, che la «pistola fumante» mai trovata ad Avetrana probabilmente manca pure nell’inchiesta di Brindisi, e che è assolutamente necessario che le indagini vadano avanti con la stessa determinazione dimostrata finora, e che non si trascuri nessun elemento, né si risparmi su alcuno degli strumenti investigativi a disposizione pur di ottenere la prova regina. Sollecitazione tanto più opportuna nella prospettiva (purtroppo già all’orizzonte) di una battaglia procedurale tra procure per decidere quale ha la competenza ad indagare. Ormai ossessionati dalla «sindrome di zio Michele» non vorremmo fra qualche anno ritrovare in libertà Giovanni Vantaggiato intento a urlare, anche lui inascoltato, la sua colpevolezza di fronte ad un altro “mostro” che in cella si dispera invece nel proclamare la propria innocenza. Con tutti noi, esattamente come oggi, intenti ancora a macerare ipotesi per scoprire le autentiche, ignote e a quel punto definitivamente incomprensibili, ragioni della strage.

Passare da via Vespucci per una sbirciatina alla casa di Giovanni Vantaggiato sta diventando quasi un’ossessione per decine di automobilisti che fino a ieri non sapevano nemmeno che quella strada e quella casa esistessero. Non un pellegrinaggio dell’orrore, beninteso, e nessun paragone con il circo indemoniato di Avetrana. «Ma solo curiosità - dicono due ragazze a bordo di una utilitaria di ritorno dal mare - giusto per conoscere qualcosa in più di quello che ha gettato tanto fango sulla nostra Copertino». Intanto continuano ad essere presidiati l’abitazione e il deposito di carburanti lungo la provinciale per Leverano, rispettivamente da carabinieri e polizia. Tra l’altro, in quest’ultima struttura sottoposta a sequestro penale, le cisterne sono piene di gasolio essendo state rifornite appena due giorni prima del fermo di Vantaggiato. Nessun rapporto con l’esterno, invece, hanno deciso di avere gli inquilini dell’abitazione piantonata dai carabinieri al solo scopo di tutelarli. La moglie e le figlie dell’uomo, infatti, sono asserragliate in casa sin dalla mattina del 6 giugno scorso. Solo nella tarda mattinata di sabato, al termine di alcune perquisizioni condotte dalla polizia scientifica nell’abitazione in seguito all’intercettazione di un «pizzino» di Vantaggiato diretto alla moglie e nel quale si dava indicazione di far sparire certi documenti compromettenti, la moglie ha fatto capolino all’esterno, ma solo per chiudere il cancello della villa alle spalle degli investigatori e avendo cura di nascondere il volto ai cronisti. Poi nulla più. Nel perimetro esterno della casa incombe solo il silenzio: tra la vegetazione poco curata e pochi oggetti dall’apparente abbandono. Tra un gommone coperto da un telo e qualche giocattolo, spicca una bandierina tricolore, segno evidente dei valori patriottici appena celebrati dai nipotini di Vantaggiato in occasione del 2 giugno. Nessun parente, a quanto pare, avrebbe fatto visita alla famiglia. Nessuno in questi giorni è stato visto entrare con dei viveri. Chissà, forse di notte, è molto probabile. A girare la domanda ai vicini di casa ci si sente rispondere in maniera evasiva. Tutti si trincerano dietro il fatto che i Vantaggiato sono gente schiva e riservata. Insomma, nessuno sembra essere disposto a parlarne. Alla notizia del ritrovamento dell’arsenale nella campagne in località «Ensite», c’è chi rimane incredulo. «Non è possibile – dicono in tanti – che questo individuo che andava in giro con rotoloni da cento euro e che prima della metanizzazione consegnava gasolio da riscaldamento in quasi tutte le case del paese, fosse a contatto con l’inferno. Il fango che ci ha gettato addosso è talmente tanto che ci vorranno anni per rimuoverlo». Ad altri, invece, quell’ordigno nella campagne di Copertino ha riportato alla mente una vecchia storia secondo la quale, durante le feste di Natale l’uomo, invitato più volte da un commerciante ad acquistare i tradizionali petardi di capodanno, una volta rispose: «Tu li vendi, ma io li faccio». Sintomatica risposta della confidenza che Vantaggiato aveva con la polvere pirica. È possibile, infatti, che per mettere a segno le sue volontà stragiste possa essersela procurata mediante l’acquisto di centinaia (se non migliaia) di botti e mortaretti che molto facilmente si vendono tra Natale e Capodanno sulle bancarelle di ogni paese. Un’esistenza inquietante, insomma, quella di Vantaggiato che nessuno copertinese si sarebbe mai immaginato.

"La città di Copertino, sgomenta di fronte alle notizie del fermo del presunto autore della efferata strage del 19 maggio scorso, rinnova l'abbraccio e la solidarietà alla famiglia di Melissa Bassi e alle altre studentesse di Mesagne colpite ignobilmente dal vile attentato". Con questa nota il sindaco del paese pugliese, Giuseppe Rosafio, esprime ancora una volta il dolore che ha sconvolto la vita della sua comunità. "Non solo la comunità brindisina - aggiunge - ma tutti i cittadini italiani che hanno a cuore il futuro delle giovani generazioni e la speranza di veder crescere i nostri giovani in un clima di fiducia e di rispetto reciproco condannano con forza ogni gesto di violenza. Non posso che esprimere, a nome dell'intera cittadinanza, la più ferma e risoluta condanna e dissociazione da un gesto sconsiderato che ha portato dolore e lutto in tante case dei nostri conterranei". "I cittadini di Copertino - ribadisce Rosafio - sono ben lontani dalla logica assurda che ha portato il presunto autore dell'attentato a compiere un gesto esecrabile, che non può avere alcuna giustificazione. E' questa la condanna, che continueremo ad esprimere a maggior ragione, che Copertino assurge suo malgrado agli onori della cronaca". "Una condanna - sottolinea - che già avevamo programmato di esprimere anche il prossimo 17 giugno in occasione della visita del cardinale Giovambattista Re, vescovo di Lauria, presso il Santuario di San Giuseppe da Copertino, con una celebrazione di una messa nel ricordo di Melissa e del grande dolore della sua famiglia".

Il dolore, a Mesagne, si è trasformato in rabbia. Una rabbia infinita contro 'quel bastardo'. Una rabbia che ha dilagato anche in rete: già dal primo pomeriggio sono stati aperti gruppi su facebook, che invocano per Vantaggiato la pena di morte o almeno, l'ergastolo. Immediata anche la 'reazione' di twitter, con un hashtag per il reo confesso, anche se la rabbia è ancora cauta per il timore degli internauti di possibili smentite. Oltretutto, sono molti i posti in cui Vantaggiato viene paragonato a Michele Misseri, tragica figura della terribile vicenda dell'omicidio di Sarah Scazzi, ad Avetrana (Taranto). A volte, però, il semplice gusto di farsi notare non conosce limiti e rischia di cadere davvero in basso, forse troppo. A pochi giorni dalla terribile confessione di Giovanni Vantaggiato, 68enne di Copertino, il quale avrebbe dichiarato di essere l’artefice dell’attentato a Brindisi, ecco qui che su Facebook spunta un gruppo in suo onore.  “Giovanni Vantaggiato eroe contemporaneo”. Un’offesa, una vergogna, uno schiaffo a Melissa Bassi. Questo gruppo e specialmente i post all’interno non fanno altro che elogiare un uomo che ha solo seminato panico e terrore. Peggio, c’è persino qualcuno che lo reputa eroe nel gruppo Facebook e posta immagini che oltraggiano la memoria di Melissa Bassi. Ci sono atroci foto, ovviamente false, in cui si tende a far riferimento ai corpi carbonizzati di Melissa e Veronica Capodieci. O peggio vi è persino un link in cui si accenna a un atto sessuale tra Vantaggiato e il povero angelo volato via. Per non parlare dello squallido post: “Giovanni Vantaggiato era solo innamorato di Melissa, ma dopo la prima volta lei era a far la p….,altrove e Giovanni è rimasto a bocca asciutta, lui giustamente ha fatto benissimo a farla saltare in aria, in questo modo ora stanno di nuovo insieme.. Ecco uno scatto dei primi paparazzi dopo l’esplosione alla scuola, lui vivo lei morta, in teneri gesti d’amore…”. Ma si può essere crudeli fino a questo punto? A quale fine? E’ davvero una vergogna. A tal proposito TrNews.it con un suo servizio al TG invita tutti a segnalare il gruppo, tramite le forme previste da Facebook: “aprite la pagina (all’indirizzo http://www.facebook.com/groups/414731801904580/), cliccate sulla rotellina in alto a destra del vostro schermo, poi cliccate ‘segnala’ e motivate con l’uso di espressioni che incitano alla violenza e all’odio.” Intanto, gli anziani che si riparano dal caldo sole di giugno sulle panchine della villa comunale non provano pietà per quell'uomo di 68 anni, reo confesso. 'Che c'entra Melissa?' ripete uno, 'che c'entra una ragazzina di 16 anni?'. E in un attimo si passa alla voglia di vendetta. 'E' meglio per lui che l'abbia fermato la polizia perché gli sarebbe andata peggio se l'avessimo avuto noi fra le nostre mani': questa frase è più volte usata dalle persone di una città che non vuole dimenticare. Proprio per questo l'edicolante di via Generale Falcone - che oggi ha raddoppiato le vendite - sulla porta d'ingresso ha ancora esposto il volantino con la scritta 'Mesagne piange Melissa'. E davanti al Comune c'è sempre il manifesto di lutto cittadino. Dentro la sede municipale il telefono del sindaco, Franco Scoditti, squilla continuamente: 'La nostra città è vittima, non carnefice come qualcuno aveva voluto far passare subito dopo l'attentato riconducendolo a collegamenti con la criminalità organizzata di Mesagne. E' vero - ammette - che qui ci sono dei problemi, ma al tempo stesso ci sono gli anticorpi. L'arresto di Vantaggiato dà sollievo alla nostra comunità - ribadisce Scoditti - ma è solo un conforto parziale perché nulla potrà cancellare il dolore della famiglia di Melissa e delle altre ragazze ferite nell'attentato'. Il sindaco chiude la porta del suo ufficio, torna a rispondere al telefono, ma nella piazza di Mesagne la gente continua ancora a chiedersi se il 'mostro' è veramente Vantaggiato, solo lui, o se dietro di lui ci sia qualche mostro ancora più terribile. Verrebbe da dire: la Stampa.

E proprio per questo su www.telewebitalia.eu , il portale delle tv web locali, sulla web tv di Avetrana, oltre a riportare le risorse culturali e storiche e tutto quanto riguarda il caso di Sarah Scazzi, rendicontato da Antonio Giangrande, un avetranese, si sono inseriti i personaggi che hanno dato lustro alla cittadina. Partendo dall’assunto: Avetrana, non solo Scazzi e Misseri; si sono inseriti i nomi  noti in Italia e nel mondo. Si fa cenno al dr Antonio Giangrande, scrittore, i cui saggi ed inchieste sono lette in tutto il mondo, oltre che essere presidente dell’ “Associazione Contro Tutte le Mafie” e di “Tele Web Italia”. C’è l’avv. Mirko Giangrande, l’avvocato più giovane d’Italia, a venticinque anni e due lauree. C’è il dr Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica. C’è il prof. Antonio Iazzi dell’Università del Salento. C’è Leonardo Laserra Ingrosso, Tenente Colonnello, Maestro della banda musicale della Giardi di Finanza. C’è Leonardo Giangrande vice presidente della Camera di Commercio di Taranto e presidente della Confcommercio di Taranto. Infine c’è Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. Per qualcuno non è un vanto, ma tant’è. Comunque molti di loro, nonostante l’immeritata notorietà concessa sul portale visto in tutto il mondo, nessuna riconoscenza è stata dimostrata. Come, d'altronde la Stampa, nessun interesse ha concesso a tale evidenze. Per i media Avetrana è e sarà sempre impersonata da Michele Misseri, come Copertino sarà identificata da Giovanni Vantaggiato.

Ma a Brindisi ad essere vittima non è solo Melissa Bassi. «Ora voglio stare lontano da tutto». Angelo Rampino, il preside dell’istituto Morvillo-Falcone, è scosso. Al telefono con l’ANSA sottolinea la propria estraneità a ogni forma di coinvolgimento nell’attentato di Brindisi. Non si ritiene il bersaglio del killer e specifica di sentirsi «distrutto» e «annientato» dopo che i riflettori sono stati puntati su di lui quale possibile bersaglio dell’esplosione. Dopo l’arrivo in Questura di Giovanni Vantaggiato, infatti, e la diffusione della sua identità, si erano diffuse voci su presunte vecchie ruggini tra l’imprenditore reo confesso dell’attentato e il dirigente scolastico che nella sua carriera ha anche prestato servizio, come docente, a Galatina, paese vicino a Copertino dove vive il proprietario del deposito di carburante agricolo fermato. Allontana ogni sospetto, Rampino, e spiega di non essere in buone condizioni di salute. È intenzionato a restare in disparte, ancora per un pò. Nella speranza di ristabilirsi per poi ritornare al proprio lavoro. Il rientro a Brindisi, dietro la scrivania della presidenza della scuola di via Galanti, è previsto per lunedì 11 giugno. Ma non è ancora deciso nulla. Rampino è in ferie e precisa di averle richieste e di non aver subito alcun tipo di provvedimento da parte della Direzione scolastica provinciale. Si erano diffuse voci su “vacanze forzate” che però il preside smentisce. Al timone della scuola ci sono due vicepresidi che non hanno voluto rilasciare alcuna dichiarazione. L'attività didattica prosegue senza battute d’arresto, è ripresa nei giorni immediatamente successivi al drammatico 19 maggio, il giorno in cui è morta Melissa Bassi e sono rimaste ferite altre cinque studentesse, tutte ragazze mesagnesi che stavano varcando il cancello della scuola. Rampino è a casa sua e parla con un fil di voce. Chiede di essere lasciato in pace, annuncia di volersi allontanare dal caos mediatico che è destinato forse a durare ancora e che lo ha riguardato in prima persona quando è stata valutata l'ipotesi che fosse lui l’obiettivo degli ordigni rudimentali di qualcuno che avrebbe agito per mettere in atto una vendetta privata. Questa ipotesi, comunque, non è stata ancora del tutto esclusa anche se è tenuta in minore considerazione dagli investigatori che proseguono con l’attività tecnica per l'accertamento del movente. Il preside, che era stato accusato da qualcuno di essere stato oltremodo disponibile con la stampa, dopo la tragedia, ribadisce con forza di essere estraneo alla vicenda: non ne è la vittima prescelta, non ha nulla a che vedere con il titolare dell’impianto di distribuzione di carburante di Copertino, dice. Resta a casa, al momento, tempestato di telefonate cui risponde con garbo. «Adesso, però – conclude – voglio stare da solo».

Anche la giornata del preside Angelo Rampino è stata segnata da un ritorno. Era dal 29 maggio che non rimetteva piede nella sua scuola. «Ma rimango in ferie, sono solo passato velocemente per avere notizie». Sono le vacanze più amare, le sue, quelle di una persona non grata. Gli inquirenti, forse anche il ministero dell'Istruzione, avevano caldeggiato da parte sua una classica pausa di riflessione. Parlava troppo, e intanto emergevano vecchie storie non proprio commendevoli sul suo conto. «Mi avete massacrato, tutti, e non avete intenzione di smettere». Infatti la stampa ha dato la notizia, comunque non attinente ai fatti di Melissa, che Rampino nel 2003 ha patteggiato una condanna per abusi sessuali ai danni di una trentenne sua vicina di casa. Molto fiele nella sua voce. Da qualche accenno emerge anche la consapevolezza che quello alla scuola non è un arrivederci, ma un addio. «Eppure io sono certo di non avere nulla a che fare con questo benzinaio. Continuo a pensare alla mia vita, e non ci trovo niente. Non ho nemici, non ho mai ricevuto minacce». Eppure nei suoi confronti l'aria è cambiata fin da subito. Da coraggioso docente di una scuola colpita in modo terribile e persona certo non sospettata, ma che in qualche modo doveva c'entrare con quel che era accaduto. «Non so come sia potuto succedere. Ma anche se ci fosse qualcuno che mi vuole male, perché colpirmi a scuola? Sono un uomo noioso e abitudinario, con una certa tendenza alla puntualità. Sono certo di non essere il bersaglio di una ritorsione. Ma allora, perché? Perché un benzinaio dovrebbe fare un gesto del genere?». È la cosa più importante, l'unica che ancora manca, a quanto pare.

Intanto l’11 giugno 2012: Il preside? “Non si è visto: doveva rientrare oggi dalle ferie”. Angelo Rampino, dirigente del professionale “Morvillo-Falcone”, non era nella sua stanza, quella con porta blindata, perché è stato sospeso in via cautelare. Il provvedimento. La decisione è stata assunta dall’Ufficio scolastico regionale sulla base di motivazioni che rimandano all’opportunità di non abbinare per un certo periodo di tempo il nome di Rampino all’istituto davanti al quale è stata consumata la strage che ha strappato alla vita una studentessa, Melissa Bassi, e ha ferito gravemente altre ragazze iscritte all’istituto. Non fosse altro che il preside aveva parlato un po’ troppo con i giornalisti che da ogni parte d’Italia si erano catapultati in via Galanti per cercare di avere qualche notizie. Il dirigente qualcosa, in effetti, aveva detto nelle ore successive all’attentato, come per esempio, che esistevano altre immagini oltre a quelle registrate dalle telecamere del chiosco di fronte alla scuola. E questo avrebbe violato il segreto necessario a garantire il buon esito delle indagini che, inizialmente, sembravano ruotare attorno allo stesso Rampino poiché si ipotizzava che fosse il bersaglio di qualcuno che potesse avercela con lui per qualche questione rimasta in sospeso. Scolastica o personale, si disse. Nel vortice delle indagini si scoprì che il suo ufficio non era quello di una volta: c’era stata la richiesta di montare una porta blindata nel mese di marzo. E ci si chiese per quale motivo e soprattutto se questa circostanza potesse avere o meno concreta attinenza con il movente dell’attentato.

Sospeso per aver parlato troppo. Inaudito. E cosa dire delle veline giudiziarie che sventolano fuori dalle aule dei PM. Per i responsabili in toga od in divisa, però, non vale la sospensione o addirittura l’incriminazione per violazione del segreto istruttorio. No. Per loro no, senno che paese di merda saremmo, se non fosse che in Italia non vale la forza della legge, bensì la legge del più forte.

3 luglio. Diciannovesima udienza. Parla Valentina Misseri, Luigi Strada, Vanessa Cerra, Giovanni Cucci, Sergio Civino.

Un'altra udienza per il delitto di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana, il cui corpo è stato trovato in un pozzo in contrada Mosca. In aula vengono proiettate le fotografie dell'autopsia. In un’aula avvolta dal caldo asfissiante di “Caronte”, l’anticiclone africano che ha fatto boccheggiare tutta l’Italia, la madre della vittima, Concetta Serrano, resta a guardarle, mentre viene confermata la modalità del decesso. Ci sono stati anche momenti di tensione al Palazzo di Giustizia di Taranto durante l'udienza del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Gli avvocati difensori non si sono dati nemmeno la mano tra di loro prima dell'inizio dei lavori. Presente l'avvocato di Sabrina, Franco Coppi, che prima dell'udienza ha rifiutato di dare la mano al pubblico ministero Pietro Argentino che lo voleva salutare. Atteggiamento, questo, che solo i grandi avvocati possono permetterselo. Avvocati che a Taranto mancano, permettendo ai magistrati locali di far divenire il foro di Tanto: il Foro dell’ingiustizia. Dato di fatto che va al di là del processo Sarah Scazzi.

Ore 09.30: salta la testimonianza di Venessa Cerra e Giovanni Cucci.

Sorpresa alla ripresa, dopo una breve pausa, del processo davanti alla Corte di Assise di Taranto del processo per l'omicidio della 15enne Sarah Scazzi, uccisa ad Avetrana il 26 agosto del 2010. Dopo la deposizione durata 15 minuti di un ingegnere consulente della Procura, Sergio Civino, che si è occupato di recuperare messaggi e foto contenuti in alcuni cellulari tra i quali quelli di Sabrina Misseri e Ivano Russo, è saltata infatti la deposizione di due testimoni. In particolare, la commessa del fioraio, Vanessa Cerra, e il marito, Giovanni Cucci, pur presenti, non sono stati ascoltati e, per un accordo tra tutte le parti, sono state date per acquisite alcune sommarie informazioni testimoniali rese in precedenza (il 23 ottobre e il 27 ottobre del 2010) e per rogatoria (il 27 giugno del 2011 per quanto riguarda la prima e il 27 ottobre del 2010 per il secondo). I due testimoni, la prima particolarmente importante perché avrebbe saputo dal fioraio Giovanni Buccolieri della scena a cui quest'ultimo avrebbe assistito il pomeriggio che poi il suo titolare ha ritrattato parlando di un sogno, risiedono attualmente in Germania. Intanto ecco in esclusiva uno stralcio di un'intercettazione telefonica che riguarda Vanessa Cerra e  Giovanni Buccolieri, il fioraio che prima ha raccontato di aver assistito al sequestro della ragazzina e poi ha invece ritrattato, sostenendo di aver sognato tutto. La trascrizione integrale su TGcom24

V. pronto?

G. Vanessa?

V. Ciao

G. Giovanni sono

V. Ciao

G. Ascolta, senti…mi è arrivato ora un messaggio sopra facebook di tua madre che mi ha sconcertato

V. Com’è?

G. Che mi dice, che mi dice “se non vuoi combinare altri guai dì la verità. Perché lo sappiamo, perché non è un sogno. Fallo per Sarah. Affinchè possa riposare e sapere la verità….fallo Giovanni”

V. Eh meh? Io che c’entro mò??

G. Eh! Io ti voglio dire come si come si permette a dire queste cose…queste cose qua.

V. Questo te lo devi vedere con mia madre, con mia mamma. Perché io con mia mamma non ci parlo.

G. Va bene….ma non sono cose che si dicono, Vanessa.

V. Non sono neanche cose che si dicono quelle che hai detto tu, che hai messo mia mamma in mezzo e che fanno il mio nome…che mi vogliono venire a prendere qua.

G. Che..che ho detto io

V. Che hanno detto che sono la tua amante… tutte queste cose che devo sapere io da lontano quando io il tuo nome, non l’ho mai fatto il tuo nome!!

G. Va bene ma tu…

V. Non ti ho mai messo nella merda io e sono stata sempre un’amica per te

G. Senti… io ancora ti ritengo un’amica Vanessa

V. Eh!

G. E se hanno scritto quelle cose non sono stato io

V. E lo so… a me dicono sempre che sei tu… così… allora io ho detto…

G. Lo sai…

V. Domani mi faccio viva… allontano anche mia mamma perché non voglio sentire neanche più mia mamma perché mi sono scocciata e perfino ai Carabinieri ho detto “non mi chiamate più e lasciatemi in pace perché io non so niente… se volete qualcosa lo dite a Giovanni perché Giovanni ha detto a me che è un sogno”, poi il resto non lo so quello che ha Giovanni nella testa

G. E basta… allora… se stanno dicendo tutto questo i giornali lo sai perché sono tutte menzogne loro… lo sai… io non mi permetterei…

V. Lo spero io che tu non senti niente di me perché io… sono stata leale e non ho fatto…

G. Vanessa anche io sono stato leale con te e ancora ti stimo per questo per quello che sei stata per me… voglio dire… però io… noi due…. E… quando abbiamo parlato, abbiamo parlato di sogno e basta… non abbiamo parlato di niente altro… lo sai

V. Eh!

G. Tu solamente la sai la storia

V. Eh! Ed è quello che ho detto… io non capisco perché vogliono venire qua

G. E vogliono venire per interrogarti… per far vedere, per sentirti anche a te quello che io ho raccontato a te quel giorno… e basta

V. Ma io l’ho raccontato a loro… è inutile che vengono qua e mi rompono di nuovo… mi stanno stressando la vita… avanti e indietro… mi fanno il biglietto… devo venire… devo stare qua… poi vengono qua…mi devo prendere il tempo libero dal lavoro… io sono venuta qua per stare tranquilla e in pace e mi stanno rovinando, lo stesso mi stanno rovinando

G. Eh! Tu non sai quanto mi stanno rovinando pure a me Vanessa

V. Eh!

G. Eh! Mò pure questo messaggio… io stavo bello tranquillo… pure questo messaggio mò

V. E io non lo so…(…)… posso andare una volta ogni mille anni, io che ho una mamma, ieri ho chiamato a mia sorella e con lei non ci ho parlato, perché lei sta sempre indaffarata

G. Va bene, ma io

V. Io con lei non parlo e quando parlo con lei dice sempre le solite cose… quindi…

G. Ma non sono cose che si dicono… io mò questo lo faccio vedere all’avvocato mio e poi lui mi consiglierà Vanessa… perché come si permette a dire

V. Fai quello… fai quello che ritieni giusto non… non devi sentire che è mia mamma… fai quello che ti senti

G. No, infatti io prima ho chiesto a te il…il…

V. No!! Io non, non so niente, io mò sto arrivando dal lavoro

G. Sempre per rispetto tuo Vanessa

V. Se è se è mio rispetto, se tu pensi che è giusto così…tu sai quello che hai raccontato quello che hai detto… pensi che mia mamma non ti è piaciuto quello che ti ha scritto… fai quello che pensi sia giusto

G. Okay

V. Ehhh non… non ti posso dire io… non… non… a mia mamma tanto ultimamente non la capisco quindi… non… non ti devi preoccupare se mia mamma, non è mia mamma

G. Allora Vanessa… le cose stanno così allora a me… mi hanno… il primo giorno mi hanno fatto

V. Io sono… io sono un’altra persona e non ho niente a che vedere io

G. Lo so

V. Eh!

G. A me il primo giorno mi hanno fatto l’interrogatorio… mi hanno fatto e mi hanno messo in dubbio… no?... mi hanno tartassato tanto per dire quello che loro volevano… cioè praticamente loro mi hanno fatto raccontare il sogno come se fosse una realtà…no?..mi hanno suggestionato di tutte queste cose qua… io nella notte ho pensato… ma che ho detto??... ma che mi hanno fatto dire questi??

V. E perché… perché tu ti sei fato fare così???

G. E’ stato il mio sbaglio… è stato il mio sbaglio… io…io lo dico sempre, lo dico… è stato il primo giorno che mi sono fatto suggestionare per far raccontare questo sogno come…se fosse una realtà… difatti io lo dico sempre… questo qua…

V. Eh!

G. E poi il secondo giorno l’ho ritrattato, come si sente…però è tutt’altro, quello che senti… l’amante non amante… sono tutte cose che fanno… hanno fatto i giornali

V. …(…)… se esce veramente questa cosa…(…)… non so nemmeno cosa mi avrebbe fatto a me… che ha pensato a questa cosa… lo sai tu???

G. Pensa che…che…

V. Io ti ho dato la fiducia… ti ho mandato là a lavorare e tu… ha detto e voi mi fate così ha detto???

G. Uh! Penso che c’era pure tuo marito in casa quel giorno no???

V. Eh! No che hanno detto che tu mi avevi accompagnato a casa

G. Eh!

V. Perché tu mi hai accompagnato a casa no, io stavo con te che avrei visto tutto… io stavo con Giovanni a casa

G. Va bene, sono tutte cose che poi svaniscono Vanessa perché ci vogliono le prove le… le cose che… infatti non stanno cogliendo niente… non sanno proprio…(…)…

V. Io lo spero… io so solo che se devo venire in Italia, io non ci posso venire io

G. Perché??

V. Perché io arrivo, mi prendono e mi interrogano

G. E ma tu devi dire le cose giuste Vanessa

V. Ma io le ho detto le cose giuste… loro non mi possono tartassare per farmi dire le cose che non devo dire

G. E ma quelli non ci stanno credendo… non ci stanno credendo…non…

V. eeehh!!

G. Non li tenere conto…

V. Quello è un problema loro

G. Stanno andando… stanno andando e si è un problema loro e stanno…(…)… anche a noi di…(…)… purtroppo

V. Eehhh

G. Va bene dai

V. Per il resto come state??

G. E stiamo bene Vanessa stiamo bene… purtroppo oggi è morta pure una mia zia

V. Condoglianze

G. Grazie Vanessa… e speriamo che finisca subito questa storia Vanessa

V. Eh! Speriamo

G. Va bene dai

V. Allora salutami i bimbi e la Giusy va bene??

G. Okay Vanessa

V. Ciao ciao

G. Grazie ciao Vanessa

V. Ciao

Verbale chiuso alle ora 16:30 del 15.06.2011

Ecco la trascrizione fedele dell’interrogatorio del fioraio sentito dai pubblici ministeri, Pietro Argentino e Mariano Buccoliero il 9 aprile del 2011. "Con riferimento al giorno 26 agosto 2010, che era giovedì, ricordo che intorno alle 13,00 ho proceduto alla chiusura del negozio. Sono quindi salito sopra la mia abitazione attraverso la scala interna che collega il negozio all'abitazione stessa. Come consuetudine sono andato prima in bagno, dove mi sono lavato le mani e dove verosimilmente ho effettuato miei bisogni fisiologici … ho dato da mangiare ai pesciolini che si trovano nell'acquario, prendendo il mangime per i pesci che custodisco in un cassetto del salone-cucina (ambiente unico). Mi sono quindi messo a tavola, che era già apparecchiata, ed ho atteso qualche minuto fino a che mia moglie ha servito la prima pietanza. Non ricordo con precisione cosa abbia mangiato come primo piatto, verosimilmente, come sempre avviene, pasta asciutta. Ricordo che a tavola vi era anche del vino che ho bevuto nella misura di un bicchiere. Ho poi mangiato anche un secondo piatto, certamente a base di carne. Non ricordo se ho concluso il pasto con della frutta. A domanda risponde: con chi ha pranzato? Ricordo che il pranzo si è svolto insieme alla mia famiglia, quindi con mia moglie e con i miei due figli minori. A domanda risponde: cosa ha fatto mentre pranzava? Durante il pasto ho visto il telegiornale. Ricordo che quando sono salito sopra ed uscito dal bagno ho acceso la TV, sintonizzandola su Canale 5 il telegiornale era già iniziato. Questo prima di iniziare a pranzare. A domanda risponde: cosa ha fatto dopo aver finito di pranzare? Dopo aver finito il pranzo ho salutato mia moglie ed i bambini e sono andato via. Sono quindi sceso dalla scala che direttamente mi porta all'esterno dell'abitazione; potevano essere circa le 13,20. Ricordo che verosimilmente quel pomeriggio dovevo effettuare una consegna ad un cliente, quindi mentre scendevo da casa, ho preso dei fiori o delle piante che dovevo consegnare e che avevo momentaneamente posato sulle scale. Ovviamente la consegna la dovevo fare prima di recarmi a Leverano. Sono entrato quindi nel mio furgone ed ho percorso diverse vie di Avetrana sino a raggiungere il luogo dove effettuare la consegna commissionatami. Ricordo di avere percorso via Verdi secondo il suo senso di marcia naturale, certamente perché la consegna che dovevo effettuare riguardava un cliente residente in quella zona. Ricordo di avere quindi svoltato in via Umberto I. Nella circostanza, al momento della svolta, ovviamente ho dovuto rallentare all'incrocio con via Umberto I, quasi a passo d'uomo. In quel momento in via Umberto I a circa 3-4 metri dall'incrocio ho visto l'autovettura Opel Astra Sw, di colore azzurro-grigio, vicino alla quale si trovava Cosima Serrano, che si rivolgeva alla nipote Sarah Scazzi, dicendole con tono minaccioso: "moh ha 'nchianà intra la macchina (ora sali in macchina), facendo al suo indirizzo un gesto altrettanto perentorio con il braccio e con l'indice della mano rivolto all'indirizzo di Sarah. Ricordo che Sarah, che conoscevo di vista, era molto turbata e con la testa chinata. Ricordo anche, non solo che Cosima era all'esterno dell'auto che intimava a Sarah quello che ho già detto, ma anche che lo sportello posteriore destro dell'auto di Cosima Serrano era aperto. A domanda risponde: I finestrini del suo furgone come li aveva? Erano aperti o chiusi? Il finestrino lato guida era sicuramente aperto. Non ricordo se l'altro fosse anche aperto. Voglio precisare che il mio mezzo non è fornito di aria condizionata. A domanda risponde: Di che colore è il suo furgone? Il mio furgone è di colore bianco. A domanda risponde: Quale era la posizione di Sarah sulla strada? Sarah si trovava sul marciapiede destro di via Umberto I, dal lato dell'abitazione della sig.ra Emma Serrano (sorella di Cosima) con direzione via Martiri d'Ungheria, con le spalle quasi appoggiate al muro delle abitazioni. A domanda risponde: Quale era la posizione della signora Cosima Serrano? Cosima Serrano, come ho già detto, si trovava vicino alla sua macchina, non sul marciapiede ma sulla strada. A domanda risponde: Lei già conosceva l'autovettura di Cosima Serrano? La macchina era quella di Cosima Serrano perché la conoscevo. Voglio precisare che ho notato che nella parte posteriore dell'auto vi era verosimilmente il coprivano bagagli leggermente sollevato. Preciso, altresì, di avere notato all'interno dell'auto di Cosima, nella parte posteriore una sagoma che si abbassava. Mentre superavo la macchina di Cosima ho notato che Cosima era ancora all'esterno dell'autovettura e Sarah che invece stava entrando dentro attraverso lo sportello posteriore destro. Ho quindi proseguito per la mia strada recandomi a Leverano. A domanda risponde Può chiarire meglio le caratteristiche della sagoma di cui ha parlato sopra? Posso dire che la sagoma che ho notato apparteneva ad una persona di sesso femminile e di robusta costituzione. A domanda risponde: Perché lei dice di sesso femminile? Dico di sesso femminile perché ho notato i capelli che erano più lunghi di quelli che porta un uomo e soprattutto erano legati e raccolti all'indietro e di colore scuro. A domanda risponde: Ricorda l'abbigliamento di Cosima Serrano? Ricordo che Cosima era vestita di scuro. Ricordo che quando le sono passato accanto con il furgoncino ho incrociato il suo sguardo ed ho notato che la stessa ha avuto un sussulto di sorpresa, spalancando repentinamente gli occhi. A domanda risponde: Ricorda l'abbigliamento di Sarah Scazzi? Ricordo solo che Sarah aveva gambe e braccia scoperte, con i capelli sciolti. A domanda risponde: Dopo aver assistito a tale episodio che cosa ha fatto? Ho proseguito……… ..Qui il racconto continua con la descrizione del viaggio al mercato dei fiori di Leverano dove si era recato per acquisti all’ingrosso. Il giorno dopo il fioraio si presentò spontaneamente in procura accompagnato dal suo avvocato dicendo che tutto ciò che aveva detto e sottoscritto relativamente al rapimento era stato in realtà un sogno. In tribunale sarà la sua ex commessa a dirimere o adombrare ancora più dubbi su quei ricordi.

Ore 11.00: Parla Luigi Strada, il medico legale nominato dalla Procura di Taranto. Strada ha spiegato che il pasto ingerito da Sarah, il cordon bleu, è un cibo precotto e omogeneizzato che si dissolve dopo circa un'ora nel processo di digestione. Secondo Strada Sarah potrebbe aver digerito in fretta il cordon bleu che mangiò prima di recarsi a casa Misseri, il giorno in cui fu uccisa, e per questo motivo nel suo stomaco non c'era traccia di cibo. Secondo i consulenti di Sabrina, invece, per digerire il cordon bleu occorrerebbero dalle due alle quattro ore e la ragazzina, quindi, potrebbe essere stata uccisa almeno due ore dopo rispetto a quanto stabilito dai magistrati, cioè intorno alle 14 del 26 agosto 2010. «L'acido cloridico - ha detto in aula il medico legale - può aver disgregato il cibo assunto da Sarah il giorno dell'omicidio. Il cordon bleu ha un peso di circa 120 grammi, ma può essere stato tranquillamente assorbito». Nello stomaco della ragazzina, in fase di autopsia, furono trovati solo 20 centilitri di liquido grigiastro torbido. Non c'era traccia, invece, del cordon bleu mangiato frettolosamente dalla vittima poco prima di uscire, come riferito dalla madre. Il medico legale ha quindi riferito dei test fatti su Michele Misseri. Strada ha sottolineato rispondendo ad una domanda di Coppi di aver commesso un errore nel giudizio maturato dopo la prima visita medica a Michele Misseri, quando disse che le due ferite in via di cicatrizzazione rilevate sul braccio destro del contadino «per morfologia richiamavano le impronte di unghie». «Non poteva essere così - ha risposto in aula - perché le ferite erano profonde oltre un centimetro e ci sarebbe voluta un'unghia lunga e affilata, praticamente un artiglio». Misseri precisò in occasione della seconda visita medica che quelle ferite «se le era procurate mentre lavorava in un vigneto andando ad urtare contro delle punte di sarmenti tagliate a becco di flauto. Le lesioni riscontrate - ha confermato il medico legale - sono compatibili con questa versione». «La ragazzina fu strangolata con una cintura larga circa due centimetri e mezzo con impunture laterali che ha lasciato un solco sul collo. La morte sopraggiunse in due, tre minuti per asfissia»: Lo ha detto il medico legale Luigi Strada al processo a Taranto. Si tratta di una simulazione audiovisiva dell'omicidio che, nei risultati, scagionerebbe lo zio di Sarah. Michele, in tre episodi, davanti agli inquirenti, ha mimato la possibile scena del delitto e in particolare l'azione dello strangolamento. Secondo quanto ipotizzato dopo i test, è inverosimile che sia stato lui l'autore del delitto: l'azione simulata – è stato spiegato – è incompatibile con l'omicidio anche se la difesa di Sabrina Misseri ha contestato che Strada abbia fatto usare a Michele un foulard, e non una cintura, per poter mimare la scena dello strangolamento. Il professor Strada ha iniziato spiegando perché è giunto alla conclusione che l'arma del delitto sia stata una cintura e non una corda. In aula è stato proiettato un video che il professionista ha illustrato, nel momento in cui in carcere Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, subito dopo il suo arresto il 7 ottobre del 2010 simulò, con il medico legale nel ruolo di vittima, il modo in cui aveva avvolto la corda intorno al collo della vittima per strangolarla nella simulazione venne usato un foulard. Per due volte Michele Misseri, posto alle spalle del professore, avvolge il foulard iniziando dalla parte posteriore del collo e solo la terza volta inizia dalla parte anteriore. "Nel reperto non risulta un doppio giro", ha affermato il professore. Inoltre compiendo l'operazione in quel modo e cioè iniziando da dietro, "ci sarebbe stato bisogno di più tempo", ha concluso. In sostanza, Michele Misseri avrebbe sbagliato le prime due simulazioni facendo sorgere qualche dubbio che sia stato lui effettivamente a strangolare la ragazza. Inoltre stando ai segni presenti sul collo della 15enne, il medico legale ha anche escluso che l'arma del delitto possa essere stata una corda, ritenendo invece più compatibile le dimensioni di una cintura. Impossibile, secondo il medico rilevare lo stupro di cui si era accusato in un primo momento lo zio Michele Misseri, per la permanenza in acqua per oltre 40 giorni del corpo. In corte d'assise a Taranto Strada ha detto che è impossibile stabilire con veridicità se c'è stata violenza, in quanto la lunga permanenza, oltre 50 giorni, del corpo di Sarah nelle acque della cisterna hanno profondamente alterato sia gli organi che le loro caratteristiche.

Ore 13.30: Parla Valentina Misseri. Nessuna lite tra Sabrina e Sarah la sera prima dell'omicidio. "Stanno parlando di litigio, è stata una 'ripresa', così mi ha detto Sabrina". Così Valentina Misseri, la sorella di Sabrina Misseri, rispondendo alle domande del pubblico ministero Mariano Buccoliero durante il processo in Corte di Assise a Taranto per l'omicidio della 15enne di Avetrana, rispetto a quanto avvenuto in auto e in un pub tra le due cugine il 25 agosto. «Mia sorella Sabrina rimproverava la piccina perché bestemmiava sempre, si vestiva e si truccava come una donna di strada e poi perché si strusciava con tutti i ragazzi, non solo con Ivano». Non è stata per niente tenera Valentina Misseri con i ricordi della cugina Sarah Scazzi deponendo davanti alla Corte d’assise del tribunale di Taranto dove si svolge il processo sull’uccisione della quindicenne di Avetrana avvenuta il 26 agosto del 2010. La primogenita della famiglia Misseri, che il giorno dell’omicidio si trovava a Roma dove vive con il marito, non ha risparmiato parole dure neanche nei confronti del padre, Michele Misseri, che a tre metri da lei piangeva a dirotto: «Mio padre è stato sempre un gran bugiardo – ha detto – ma gli credo quando dice che è stato lui ad uccidere Sarah. Non glielo perdonerò mai, anche se rimarrà pur sempre mio padre». Mostrando la sicurezza di chi ha studiato per bene la parte del difensore delle imputate, sua sorella Sabrina con la madre Cosima Serrano, la terza donna di via Deledda ha parlato per tutto il pomeriggio non perdendo occasione di mettere in cattiva luce il «padre assassino» e non risparmiando qualche giudizio sgradevole nei confronti della cugina morta. Un comportamento che ha suscitato reazioni di rabbia nella madre della vittima, Concetta Serrano Spagnolo che all’uscita dell’aula non si è saputa trattenere: «sono schifata – ha detto – dalle parole di una donna così spudoratamente bugiarda». Secondo Valentina «Sabrina non era innamorata di Ivano ma solo attratta come lo erano in tante ad Avetrana, anche a me piaceva», ha ammesso la giovane che ha cercato così di far cadere il movente della gelosia su cui punta invece l’accusa che imputa alla sorella il delitto di omicidio volontario e sequestro di persona con il concorso della madre Cosima e soppressione di cadavere con l’aiuto del padre e di altri due parenti di quest’ultimo, Carmine Misseri e Cosimo Cosma. A proposito della presunta furiosa lite la sera prima della scomparsa tra le due cugine, Valentina ha spiegato così la sua teoria: «Mia sorella quella sera voleva riprendere Sarah per i suoi comportamenti sbagliati che agli occhi della gente la facevano sembrare una poco di buono». Sulla paternità dell’omicidio, nessun dubbio: «E’ stato mio padre – ha detto – anche se c’è stato un momento in cui ha accusato mia sorella ma solo perchè ingannato dall’avvocato Galoppa, che gli aveva fatto credere che Sabrina avrebbe scontato un paio d’anni e lui sarebbe andato in un convento a lavorare la terra». «"Si vende per due coccole", disse Sabrina riferendosi a Sarah che accusò il colpo e pianse come riferito da altri testi. Peraltro anche zia Concetta (madre di Sarah) - ha aggiunto - diceva queste cose alla figlia. Sabrina ha rimproverato qualche volta Sarah perché cominciava a bestemmiare oppure ad essere troppo affettuosa con altre persone in pubblico. In paese la gente parla. Però Sarah non era una persona scapestrata. Non la rimproverava per gelosia». Poi Valentina ha precisato di aver fatto molte domande alla sorella e alla madre nel periodo delle ricerche della cugina scomparsa. «Con loro mi sono atteggiata a pubblico ministero - ha sottolineato. Per quanto riguarda Ivano Russo, il giovane di cui sarebbe stata infatuata Sabrina, ha spiegato che quest'ultima - sperava che lui cambiasse e che diventasse una storia seria». Chi invece insiste sulle colpe del contadino è Valentina, l’unica della famiglia Misseri attualmente non imputata nel caso. E meno male che era a Roma e non ad Avetrana, altrimenti, forse, starebbe in carcere con sua madre e con sua sorella. Contrariamente all’accusa, che continua a dichiarare come movente per l’omicidio l’ossessiva gelosia che Sabrina nutriva per la cugina, Valentina Misseri afferma: «Non c’era alcun motivo di gelosia tra Sabrina e Sarah. Sabrina riprendeva Sarah per i suoi atteggiamenti troppo affettuosi con tutti i ragazzi, non solo con Ivano. Ma non ci si poteva arrabbiare con Sarah, era dolcissima, un gioiellino». Poi, riferendosi al padre, dice: «È stato un padre esemplare per 28 anni. Non mi accontentavo delle notizie sentite in tv, volevo sapere la verità…. Prima di far ritrovare il cellulare, papà mi chiese: “ma secondo te li trovano questi che hanno preso Sarah?” Io gli ho risposto di stare tranquillo, che prima o poi li avrebbero trovati. Poi papà disse che quel pomeriggio andava “su e giù” in garage. Dopo abbiamo capito che forse si riferiva al fatto che entrava e usciva dalla cantina per vedere se c’era qualcuno, visto che doveva nascondere il cadavere». La sera dell'interrogatorio e del fermo, il 15 ottobre nella caserma di Manduria, quando il padre Michele la chiamò la prima volta in correità, Sabrina Misseri mandò un messaggio sms alla sorella Valentina, sottolineato da uno smile triste, in cui diceva sostanzialmente: ''papà dice che ho aiutato a uccidere Sarah''. E io ho risposto che ''papà è impazzito, o è drogato o è una strategia. Questo è il succo di quello che le ho scritto''. ''Quando vengo a casa voglio vedere Ivano'', scrisse ancora Sabrina. ''Non c'era più l'interesse per lui ma l'affiatamento''. In un altro passaggio del lungo interrogatorio che a un certo punto è stato interrotto per circa mezz'ora dalla presidente Rina Triunfo poiché un condizionatore in aula ha cominciato a gocciolare vicino a dei fili elettrici, ha sottolineato che «con papà non parlavamo molto nel periodo delle ricerche. Solo una volta è scoppiato a piangere, eravamo a pranzo con Claudio, zia Concetta. Papà è scoppiato a piangere. Mi chiese: li trovano questi? Io dissi: li troveranno, li troveranno. - Quindi ha ribadito che - zia Concetta aveva dei dubbi sul marito, ne parlavamo con lei. Sì, in famiglia parlavamo delle piste sulla scomparsa di Sarah. In particolare ne prendevamo due in considerazione: quella straniera e quella di San Pancrazio Salentino. Mia zia Concetta (madre di Sarah) aveva sospetti su suo marito Giacomo. Lui in carcere c'era stato. Qualcuno per ripicca o vendetta poteva aver rapito la figlia a San Pancrazio»'. Così Valentina Misseri, sorella di Sabrina, durante la deposizione davanti alla Corte di Assise di Taranto, presieduta da Rina Triunfo, al processo per l'omicidio della 15enne di Avetrana Sarah Scazzi. Quest'ultima, poco prima della scomparsa, aveva trascorso tre giorni da alcuni zii proprio a San Pancrazio, cittadina del brindisino del quale il padre di Sarah era originario e dove Giacomo era conosciuto ''in certi ambienti'', ha tenuto a sottolineare la testimone. «Abbiamo trovato un clima ostile a San Pancrazio - ha aggiunto - Quando siano andati per la petizione molti non hanno voluto firmare. Anzi c'è stato chi ha rimproverato a mio zio Giacomo gli sforzi che le forze dell'ordine stavano producendo per cercare la figlia». «Sabrina - ha raccontato Valentina - si arrabbiava se Sarah aveva atteggiamenti troppo affettuosi nei confronti di Ivano Russo in pubblico, ma solo perché voleva proteggerla e non perché era gelosa. La gente è maligna e certi atteggiamenti potevano essere equivocati». Valentina ha detto inoltre che anche lei, quando seppe della scomparsa di Sarah, pensò che potesse essere stata rapita: «Dissi subito: l'hanno presa. Era una bravissima ragazza, non aveva mai avuto colpi di testa e non poteva essersi allontanata da sola». La teste ha parlato poi del ritrovamento del cellulare di Sarah e ha aggiunto che era stato proprio il padre a parlarne a Sabrina. All’epoca si facevano tante ipotesi sulla scomparsa di Sarah: «se io – ha sottolineato Valentina Misseri – avessi avuto subito dei sospetti su papà, con tante domande l’avrei fatto crollare» La teste ha ricordato, inoltre, di aver riconosciuto in Stefania De Luca, la donna che raccontò in una intervista televisiva di un litigio avvenuto tra Sarah e Sabrina. Valentina ha anche riferito di un incontro che il 22 novembre 2010, lei e la madre Cosima Serrano ebbero in carcere con Michele Misseri che all’epoca era arrestato dopo essersi autoaccusato dell’omicidio. «Ci disse che Sabrina avrebbe preso due anni perchè‚ lui – ha riferito la teste – aveva detto che era stato un incidente e aggiunse che l’avv. Galoppa gli aveva fatto vedere delle carte e che rischiavano anche Mimino Cosma e zio Carmelo» La primogenita di casa Misseri ha pianto ricordando la sera dell’arresto del padre e del ritrovamento del corpo di Sarah. «Noi – ha detto rispondendo alle domande del pm Mariano Buccoliero – piangevamo ogni giorno pensando a Sarah. Ecco perchè‚ me la prendo quando accusano la mamma e Sabrina». L'avvocato Franco Coppi, uno dei legali di Sabrina Misseri, ha chiesto alla teste se l’avv. Daniele Galoppa, ex difensore di Michele, avesse mai spinto il padre ad accusare Sabrina. «Certo - ha risposto Valentina – Disse che tanto Sabrina se la sarebbe cavata con due anni di carcere, poi ha ritrattato perchè‚ ha capito che non sarebbe stato così. Io invece sono convinta che sia stato mio padre a uccidere Sarah. Sono assolutamente convinta che ad uccidere Sarah sia stato mio padre, ma non posso dire se lo abbia fatto effettivamente per colpa del trattore che non partiva o per altro motivo». Poi ha parlato anche delle fasi dell’occultamento del cadavere e ha aggiunto che il padre le aveva sempre detto di aver utilizzato una corda e non una cintura per strangolare la nipote. «Me ne vado schifata per le tante falsità dette da una donna bugiarda e bugiarda», Concetta Serrano Spagnolo, mamma di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana trovata uccisa il 6 ottobre del 2010 dopo 42 giorni di scomparsa, ha lasciato il tribunale di Taranto con il fuoco nel cuore. Per due motivi. Aveva visto per la prima volta in aula come era ridotto il corpo della figlia Sarah Scazzi gettata nel pozzo in contrada Mosca; e poi perché aveva ascoltato le parole non certo cordiali della nipote Valentina Misseri che ha testimoniato di fronte alla Corte d’assise nella diciannovesima udienza del processo che vede alla sbarra Cosima Serrano e Sabrina Misseri, mamma e figlia rispettivamente zia e cugina della giovane vittima. Quella di Valentina, primogenita di casa Misseri che vive a Roma con il marito, è stata una difesa a tutto campo della sorella e della madre alla sbarra. «Ad uccidere Sarah è stato mio padre perché me lo ha detto lui quando sono andata a trovarlo in carcere», ha detto ai pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che la interrogavano. «Papà è stato sempre un gran bugiardo, ma lo credo quando dice che è stato lui a commettere l’omicidio anche perché mia sorella Sabrina non dice mai le bugie», ha continuato Valentina mentre il padre, seduto a qualche metro di distanza, piangeva a dirotto. Michele Misseri, come si sa, continua a sostenere la sua colpevolezza, non creduto dai magistrati, nel tentativo di ritornare in carcere e liberare la moglie e la figlia che sono invece dietro le sbarre. La sorella dell’imputata ha poi descritto Sarah Scazzi con parole che non hanno fatto piacere alla memoria della cugina morta: «mia sorella Sabrina – ha detto - rimproverava la piccina perché bestemmiava sempre, si vestiva e si truccava come una donna di strada e poi perché si strusciava con tutti i ragazzi, non solo con Ivano». Sono state queste parole che hanno fatto arrabbiare mamma Concetta che per la prima volta oggi è riuscita a vedere le immagini del corpo martoriato della figlia. A mostrarle in aula è stato il medico legale perito della procura, Luigi Strada che ha confermato l’arma con cui è stata uccisa Sarah. «Dopo un primo periodo di indecisioni per quello che ci raccontava Michele Misseri – ha detto l’esperto – ci siamo definitivamente convinti che l’arma del delitto sia stata una cinta e non una corda come sostiene invece il signor Misseri». Nella prossima udienza del 10 luglio saranno ascoltati i carabinieri che si occuparono delle intercettazioni telefoniche e ambientali. Il 17 luglio, invece, è prevista l’ultima udienza prima della pausa estiva con le deposizioni dei coimputati Angelo Milizia, Giovanni Buccolieri, Michele Galasso, Giuseppe Nigro, Antonio Colazzo, Anna Scredo e Cosima Prudenzano.

"Sarah non era un angelo ma una ragazzina". Intanto Claudio Scazzi racconta il suo dolore in un libro. Alcuni stralci sono pubblicati su “Affari Italiani” e “Quotidianamente”. Claudio Scazzi è nato nel 1985, dal 2010 promuove iniziative per ricordare l’impegno della sorella Sarah. Ha fondato l’associazione di volontariato “Sarah per sempre” per la difesa dei diritti degli animali, con la quale contribuisce a raccogliere fondi per la costruzione di un canile ad Avetrana (Ta). Claudio Scazzi, fratello di Sarah, racconta la sua storia, la storia della sua stessa reazione a una tragedia che ha investito la sorella ma anche l’intera sua famiglia, lui stesso, lui che non è più e mai potrà essere quello di prima. In un libro che è il resoconto appassionato e lucido di un ragazzo come gli altri, preso nel laccio di un avvenimento più grande di lui. Un libro che mostra cosa significhi essere consapevoli del proprio dolore e tuttavia continuare ad andare avanti, con il coraggio della giovinezza. Non diventa quindi indispensabile per Claudio trovare un colpevole, a due anni di distanza dal delitto di Avetrana, perchè, semplicemente, "non cambierà nulla". L'unica critica di Claudio Scazzi va verso le tv, colpevoli di aver trasformato Avetrana in un circo mediatico dell'orrore, con turisti e curiosi da ogni dove. E proprio contro questi curiosi Claudio si sfoga: "Si vede lontano un miglio che non gliene frega niente di quello che è successo. Sono lì solo per le telecamere." Nel libro non ci sarà alcuna accusa diretta ai Misseri, ma solo sfoghi personali: «Sono stanco di questo tutti contro tutti. Fa perdere di vista il punto. E il punto è che Sarah non c'è più. Nulla può restituire Sarah alla vita. Oggi il futuro non mi fa più paura. Semplicemente non esiste più. Perché io? Già: perché? Me lo sono chiesto spesso, leggendo e rileggendo queste lettere. E me lo chiedo ancora. La verità è che una risposta non ce l’ho. A volte mi sembra giusto parlarne, a volte no. Tutto qui. Non ho ancora capito se sia una cosa buona, un errore o una follia. Non lo sopporto. Mi disturba. Mi fa incazzare. E mi offende. Mi offende l’idea che la nostra vita diventi la trama di una fiction Tv (scommetto che in tanti ci hanno già pensato e che, prima o poi, qualcuno la produrrà) o il tema di un gioco in scatola, magari con tanto di tabellone con la piantina di Avetrana... la nostra casa, quella di Sabrina e quella di Ivano... i dadi e le pedine; Michele: l’orco vestito da contadino; Cosima: la strega; mia mamma: una mistica in preda al suo delirio religioso; io: nascosto nel cappello e perso nei miei pensieri e Sarah raffigurata come un fiore o un angelo. Sono tante le persone che la chiamano ‘il piccolo angelo’. Ma Sarah era una ragazzina, non un angelo e, per come la vedo io, una ragazzina è molto di più di un angelo! Un papà di Ferrara ha scritto: “Il posto di Sarah non era tra le stelle o in un altro mondo, ma qui sulla terra.” Sono d’accordo con lui, il posto di Sarah era qui sulla terra. E a me non manca un angelo, manca mia sorella. C’è un sacco di gente che non si rende conto che quello che è successo a Sarah (e a noi) è una tragedia, non una puntata di Don Matteo e non è nemmeno “Cluedo” o un qualunque altro gioco in scatola. Capisco il dolore (cazzo se lo capisco!), la commozione, l’indignazione. So che sono sentimenti nobili e leggere certe lettere aiuta, ma purtroppo dolore, commozione e indignazione non fanno di noi dei bravi poliziotti. Non danno il diritto di svolgere indagini, nemmeno con il pensiero. E, soprattutto, non aiutano a scoprire la verità. Al contrario: sono dannosi. È la ragione, non l’emozione che deve guidare certe ricerche. E sono i fatti che costituiscono indizi o prove, e non le impressioni, soprattutto quando le ricaviamo dal gossip di Tv e giornali. Quello che voglio dire è che tutti, noi per primi, desideriamo che venga fatta giustizia. Solo che questo desiderio non basta a trasformarci in giudici. Soprattutto quando è un desiderio così forte che diventa fame di giustizia. Perché la fame annebbia la vista e porta a fare cose sbagliate. Non so i miei, ma io mi sento vicino a chi mi dimostra affetto, solidarietà, comprensione e non a chi vuole a tutti i costi spiegarmi come sono andate le cose e di chi è la stramaledetta mano che ha strappato il fiore. Non cerco soluzioni, perché non ce ne sono. Punto. E anche quando la vicenda giudiziaria si sarà conclusa, il problema non sarà risolto, perché Sarah, purtroppo, non tornerà. Ecco perché non amo le lettere di chi si sente poliziotto o giudice. Poliziotti e giudici non mancano, quello che manca è qualcuno che capisce chi sei e come stai e si siede accanto a te in silenzio, per starti vicino e cercare di farti sentire un po’ meno il peso di tutto questo vuoto. Alcune lettere sono così, si siedono vicino a te, ti tengono la mano e se ne stanno lì in silenzio. Altre, invece, quando le apri ti sembra di accendere la televisione o entrare in un bar il lunedì mattina. E ti trovi in mezzo a gente che litiga sul derby e recrimina su rigori, arbitri, goal mancati e tutte le solite menate. Per loro, come per quelli della Tv, il punto non è Sarah e quello che è successo, il punto è far vedere che loro la sanno lunga, che loro non li freghi, che, se dipendesse da loro, il caso sarebbe risolto da un pezzo. Sì, perché Sarah non è la figlia di Concetta e Giacomo o la sorella di Claudio o una qualunque ragazzina di quindici anni che aveva diritto alla sua vita di ragazzina di quindici anni, ma un’occasione per mettersi al centro e diventare protagonisti, farsi belli davanti agli altri e agli amici e dimostrare che sono più furbi e più intelligenti degli altri e che loro non si sbagliano... fino al prossimo derby, al prossimo delitto, alla prossima Sarah. Di chi non c’è più (e magari è stato buttato fuori dalla vita a calci) e di chi resta solo, non frega niente a nessuno. La vittima (che parola orrenda!) è solo un pretesto, un’occasione, un’opportunità. E così Sarah diventa vittima due volte. Uccisa la prima volta dall’odio, la seconda dal cinismo. Tanto cosa rischiano? Cos’hanno da perdere, loro? Noi, invece, tutto quello che avevamo da perdere l’abbiamo già perso. L’abbiamo perso davvero.»

«In questo libro non dico nulla su Sabrina, Cosima, Michele, Ivano e gli altri. Non solo perché c’è ancora un processo in corso, ma perché le parole sporcano. Sporcano tutto, come quei fiumi di fango che vengono giù all’improvviso e travolgono tutto. Bella o brutta, questa è la mia vita e la vita della mia famiglia e non voglio vederla sommersa dal fango». Niente scoop dunque. Nessuna rivelazione, né accuse da parte di Claudio Scazzi, fratello di Sarah, la ragazza di soli 15 anni uccisa nel 2010. Perché «questo non è un libro confessione. Anche perché non ho niente da confessare. E non è nemmeno uno sfogo. Anche se di cose per le quali sfogarsi, invece, me ne vengono in mente tante». All’improvviso si ferma il fratello di Sarah, 26 anni, elettricista. Interrompe il flusso di parole, come se volesse sottolineare che questo è per lui un concetto chiave. Poi, lentamente riprende il filo del discorso e racconta la genesi di questo libro dal titolo Per Sarah, appena pubblicato da Bompiani e il cui ricavato andrà in solidarietà all’associazione «Sarah per sempre », per la costruzione di un canile ad Avetrana. Nelle 120 pagine del volume, Claudio ripercorre il dolore per l’omicidio della sorella, per provare a ricomporre il puzzle del suo cuore squarciato dalla tragedia, un dramma scandito «dai giorni strazianti della sparizione a quelli tremendi del ritrovamento del corpo, fino a quelli sconcertanti degli arresti». Mentre a Taranto continua il processo per l’omicidio di Sarah, con la zia Cosima e la cugina Sabrina sul banco degli imputati, Claudio si rigira fra le mani una copia di questo libro sottolineando di non voler «puntare il dito, non spetta a me», ma dove ammette invece che è stanco «di questo tutti contro tutti » che «fa perdere di vista il punto. E il punto è che Sarah non c’è più». Sono infatti passati quasi due anni dal delitto di Avetrana, ma la ferita del fratello maggiore, come dei genitori, non accenna a rimarginarsi. Quello scritto da Claudio è un libro che si legge in un fiato, è il frutto di «pensieri da cui nascono pensieri», ma è anche «un ringraziamento ai tanti che hanno scritto lettere a me, alla mia famiglia e soprattutto a mia mamma». E nel libro Claudio ritrae proprio la madre Concetta quando «sedeva in cucina, apriva le buste, tirava fuori le lettere, le leggeva, le rimetteva dentro le buste, richiudeva e le metteva via, secondo un ordine che conosceva solo lei. Poteva andare avanti così ore. Ogni lettera le regalava un respiro». Ma questo libro, continua il fratello di Sarah, «è stato anche un tentativo di dire la mia opinione su tante cose. Per esempio sul fatto che Tv e giornali hanno detto e scritto tutto e il contrario di tutto. Hanno trasformato il mio paese in un set cinematografico, hanno scavato nelle nostre vite quasi fossimo in una fiction e non nella vita vera, a tratti non hanno rispettato la nostra disperazione e il nostro dolore». Claudio spiega quando e dove ha scritto il libro. «L’ho buttato giù giorno dopo giorno, in un anno e mezzo. Diciotto mesi di calvario interiore, un periodo in cui ho rivisto fotogramma per fotogramma quello che è accaduto a Sarah, a me, ai miei genitori. L’ho concepito e scritto fra Avetrana, dove c’è il mio cuore, e San Vittore Olona, vicino a Milano, dove vivo e lavoro». «Sta alla giustizia, non a me, stabilire chi è stato e perché. E mi auguro che lo faccia. Ma anche quando sapremo la verità, quel fiore non tornerà a fiorire e nessuno di noi sentirà mai più il suo profumo, perché quando si strappa un fiore è per sempre». E continua: «Comunque vada a finire il processo, non ci sarà nessun vincitore: perderemo tutti, perché tutti abbiamo perso Sarah». Claudio è convinto che «in questa storia non c’è niente da capire, è tutto chiaro. E chi deve chiedere perdono, chieda perdono, sperando che, nel frattempo, chi deve perdonare abbia imparato a perdonare». Ma Claudio ha perdonato? «Perdono è una parola grande. Per dirla ci vuole un grande cuore e non so se oggi, il mio cuore è abbastanza grande». Ma più che sapere chi è, o chi sono colpevoli, il fratello di Sarah vorrebbe conoscere il motivo dietro il delitto: «Perché è stato fatto del male a Sarah?». Nel libro, come nella vita di Claudio, il filo della memoria si allunga in continuazione. «Sarah è sempre qui. Lo so. Lo sento. Me la ritrovo accanto all’improvviso, quando sembra un momento normale. Uno di quei momenti nei quali la vita somiglia a com’era prima». L’oggi invece è diverso: «Da quando Sarah non c’è più abbiamo cominciato a vivere un’altra vita: la vita di qualcun altro e nessuno, purtroppo, riuscirà mai a restituirci la nostra, persa per sempre insieme con Sarah ». I ricordi cedono il passo ai desideri: «Non so quanto darei per avere ancora un quarto d’ora da passare con Sarah. Chissà, magari ce ne andremmo al mare per stare in silenzio, a non fare niente e a fissare le onde, scegliendo quella sulla quale saltare su e andare via insieme». Su come immagina il suo do mani, confida: «Ora il futuro non mi fa più paura. Semplicemente non mi interessa più. Sarà come sarà. Ma chi ha portato via il futuro a Sarah, lo ha portato via anche a me e alla mia famiglia».

10 luglio. Ventesima udienza.

E' durata appena 10 minuti l'udienza davanti alla Corte di Assise del Tribunale di Taranto per l'omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa il 26 agosto del 2010 ad Avetrana. Erano previste le audizioni di 11 testimoni, per lo più carabinieri impegnati nell’indagine, ma alcuni di loro non si sono presentati, mentre all'ascolto di altri ha rinunciato il pubblico ministero chiedendo l'acquisizione dei verbali delle sommarie informazioni testimoniali rese durante le indagini. La Corte d'Assise di Taranto ha acquisito, con il consenso delle parti, i prospetti delle intercettazioni telefoniche e ambientali ed i verbali con le dichiarazioni rese in fase di indagine dagli 11 testimoni che avrebbero dovuto deporre. Il 17 luglio, invece, è prevista l’ultima udienza prima della pausa estiva con le deposizioni dei coimputati Angelo Milizia, Giovanni Buccolieri, Michele Galasso, Giuseppe Nigro, Antonio Colazzo, Anna Scredo e Cosima Prudenzano. Verosimilmente sarà anche l’ultima udienza riservata ai testimoni dell’accusa. Probabilmente saranno chiamate a testimoniare anche le imputate.

17 luglio. Ventunesima udienza. Chiamati Sabrina Misseri, Cosima Serrano, Angelo Milizia, Giovanni Buccolieri, Michele Galasso, Giuseppe Nigro, Antonio Colazzo, Anna Scredo e Cosima Prudenzano, Anna Lucia Pichierri.

Madre e figlia citate come testimoni dall’accusa, in un insolito ruolo che sicuramente decideranno di rifiutare. Ma quale imputato sceglierebbe di fare da bersaglio sotto il fuoco incrociato di pubblici ministeri e avvocati? Una scelta che rifiuterebbe anche un autolesionista. L’unico pronto a parlare, per sostenere la sua colpevolezza, è Michele Misseri, teste della difesa ma non dei pm. Certo, nel processo sul delitto di Avetrana non si sa mai quello che può accadere, ma fino a questo momento l’aula non ha riservato nessuna novità, nessun colpo di scena. Da una parte c’è l’accusa, spinta dal furore mediatico, che sostiene la colpevolezza di Cosima e Sabrina. Dall’altra parte la difesa che si batte per dimostrare un’unica tesi: Michele Misseri ha ucciso Sarah. L’ha strangolata da solo e da solo ha nascosto il corpo in un pozzo interrato per lasciare che l’acqua lo distruggesse. D'altronde si parte da un punto fermo: è lui che ha fatto ritrovare la piccola Sarah. Difficilmente, quindi, le due principali imputate apriranno bocca e daranno uno scossone all’udienza. Clamorose sorprese non dovrebbero riservarne gli altri testimoni che sono o imputati in procedimento connesso come il fioraio “sognatore” Giovanni Buccolieri, i suoi amici Giuseppe Nigro, Michele Galasso e i parenti, la suocera Cosima Prudenzano, i cognati Antonio Colazzo e Anna Scredo (l’unica parente prosciolta dal gup). Se tutti faranno scena muta quella odierna (la 21ª) sarà un’udienza lampo come la precedente. Le sorprese sono rinviate alla ripresa del processo prevista il 18 settembre con l’esame degli imputati. Ed infatti…..Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri, accusate dell’omicidio di Sarah Scazzi, si sono avvalse della facoltà di non rispondere quando sono state chiamate dall’accusa, in qualità di testimoni, a deporre al processo per l'omicidio della loro quindicenne parente. In calendario, da settembre, è previsto il loro “esame” come imputate. Anche Carmine Misseri e Mimino Cosma (fratello e nipote di Michele Misseri, che rispondono di concorso in occultamento del cadavere), si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. L'avv. Nicola Marseglia, uno dei difensori di Sabrina Misseri, aveva presentato una eccezione sostenendo che in base a una sentenza della Corte di cassazione gli imputati di reato connesso non possono essere citati anche come testimoni nell’ambito dello stesso procedimento. Il procuratore aggiunto, Pietro Argentino, ha chiesto alla Corte d’assise di trasmettere copia del verbale dell’interrogatorio al suo ufficio per valutare la possibilità di contestare ad Anna Lucia Pichierri (moglie di Carmelo Misseri) il reato di falsa testimonianza in quanto la donna in aula dell’odierna udienza non ha confermato la circostanza riferita in fase di indagine secondo la quale gli avvocati Russo e Mongelli le dissero che era necessario cambiare legale a Michele Misseri «per aiutare Sabrina ristretta in carcere». Sono saltate le deposizioni di Antonio Colazzo e Anna Scredo, cognati del fioraio Buccolieri, e di Michele Galasso. Ha testimoniato invece Giuseppe Nigro, imputato di reato connesso, direttore della masseria “La Grottella” di Avetrana, in relazione alla consegna della torta nuziale durante un ricevimento il 26 agosto 2010, mentre si è avvalso della facoltà di non rispondere il bancario di Avetrana, Angelo Milizia, altro imputato in un procedimento connesso. Il processo riprenderà il 18 settembre dopo la pausa estiva con la deposizione di Michele Galasso (amico del fioraio Bucolieri), Antonio Colazzo e Anna Scredo (cognati di Buccolieri), Valeria Scazzari (consulente di parte dell’avv. Missere, difensore di Cosma Cosimo) e l’esame degli imputati Antonio Colazzo, Giuseppe Nigro e Cosima Prudenzano. In mattinata, pure Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che in un primo momento aveva dichiarato agli inquirenti di aver visto il 26 agosto 2010 una donna, probabilmente Cosima Serrano, costringere con la forza Sarah Scazzi a salire a bordo della sua auto per poi ritrattare quel racconto, sostenendo che si era trattato di un sogno, si è avvalso della facoltà di non rispondere. L'uomo, però, ne aveva fatto parola anche con un amico, con sua moglie Giuseppina Scredo e la sua ex commessa Vanessa Cerra. Oggi ha deposto Cosima Prudenzano, suocera di Buccolieri, che ha riferito di aver appreso del sogno dallo stesso Buccolieri quando il genero ne stava parlando con la commessa. Nelle precedenti udienze, invece, Scredo e Cerra avevano detto che Cosima Prudenzano non era presente. Numerose le contestazioni formulate dal pm alla teste, che ha pianto durante la deposizione. La testimone, per altro imputata nello stesso procedimento per falsa testimonianza, ha collocato temporalmente il racconto del genero al "27 o 28 ottobre 2010. Mi ricordo del giorno -ha aggiunto- perché ero tornata ad Avetrana da Parma per la ricorrenza dei defunti". La donna ha riferito che, al racconto, era presente, oltre a lei e al genero, anche la commessa, Vanessa Cerra, mentre sia quest'ultima che la figlia della signora Prudenzano, Giuseppina Scredo, moglie del fioraio, hanno affermato invece che la testimone non c'era. Questa e altre contraddizioni, oltre al contenuto di alcune intercettazioni ambientali e telefoniche, sono state oggetto di contestazione alla signora Prudenzano da parte del pubblico ministero Mariano Buccoliero.

“Taranto: non solo Scazzi, Serrano e Misseri. Quel Tribunale è il Foro dell’ingiustizia.”. Libertà di stampa violata ed adozione di atti intimidatori e persecutori per chi ha il coraggio di raccontare la verità. Antonio Giangrande, il noto scrittore di Avetrana, accusato di violazione della Privacy, il 12 luglio 2012 è stato assolto con la formula più ampia: per non aver commesso il fatto. Una sentenza che crea un precedente nel campo della libera informazione. E’ stato assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. E’ stato disposto, altresì, il dissequestro del sito web d’informazione inopinabilmente oscurato per anni dalla magistratura brindisina e tarantina. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. E la notizia dell’assoluzione si deve dare senza remore, così come si fa se, invece, fosse stata una condanna. «Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata – dice il dr Antonio Giangrande, autore di 40 libri pubblicati su “Amazon.it” e su “Lulu.com” - Il fatto risale al 2006 quando improvvisamente la Procura di Brindisi chiude completamente il portale web d’informazione dell’ “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Sodalizio nazionale antimafia non allineato a sinistra. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. A tutti coloro, che in apparenza gridano alla libertà di stampa, direi di essere meno ipocriti, codardi, collusi  e partigiani, perché i giornalisti e gli operatori dell’informazione locale, anziché esprimere solidarietà ad un collega, hanno pensato bene di trattarmi come appestato e recidere quelle collaborazioni che avevo con loro. A tutti quelli che spesso rappresentano un potere criminogeno e ciò nonostante proclamano “fuori i condannati dal Parlamento” direi: se i condannati sono coloro i quali sono perseguitati per le opinioni espresse, allora direi fuori le caste e le lobbies e le mafie e le massonerie dal Parlamento, che a quanto a pericolosità sociale non sono seconde a nessuno».

Riguardo al legame che c’è tra l’informazione e la giustizia, esemplare è il caso di Amedeo Cervetti. Questi è in carcere per omicidio. La Procura che lo fa condannare chiede la revisione: i giudici la negano. Si può restare in carcere quando perfino l’accusa ritiene che la condanna sia ingiusta? In Italia si può. Da anni Amedeo Cervetti è recluso a Lecce, condannato fin anche dalla Cassazione a quattordici anni e dieci mesi per omicidio volontario premeditato, porto abusivo e ricettazione di armi. Lui ha sempre negato di aver ucciso il pastore Lucio Mancarella. C’è una prova: il fucile calibro dodici trovato sul luogo del delitto era stato ceduto al Cervetti da un suo conoscente qualche giorno prima dell’omicidio avvenuto il 29 dicembre del 1996. Il Cervetti si è sempre proclamato innocente. Il colpo di scena. La svolta arriva nel 2005 quando si scopre che, durante un interrogatorio di quattro anni prima, il pentito Vito Di Emidio ha fatto i nomi di due persone che secondo le sue informazioni hanno ucciso Lucio Mancarella. Dalle dichiarazioni risulta evidente che Amedeo non c’entra niente. Precisa, fornendo molti dettagli, che non sarebbero stati tre gli assassini - come stabilito dalla sentenza di condanna - ma solo due e, tra questi, Amedeo Cervetti non c’è. Il primo paradosso è che queste rivelazioni erano state fatte nel 2001, quando il processo contro Cervetti era ancora in Corte d’Appello a Lecce, ma nessuno ha pensato di portarle davanti ai giudici. Perché queste dichiarazioni non sono state usate? La Procura era in possesso di una confessione che avrebbe potuto, una volta verificata, scagionare il Cervetti. E l'avvocato difensore ha adempito pienamente al suo mandato? Dopo cinque anni, il 25 gennaio 2006, è lo stesso Procuratore Generale di Lecce che chiede la revisione del processo per il Cervetti. La Corte d’Appello di Potenza la nega. Del fatto nessun accenno giornalistico: né organo di stampa, nè redazione televisiva, nazionale, ma ancor più locale: quelli che si fregiano di indipendenza, libertà, competenza. Troppo impegnati ad intrattenersi alle conferenze stampa degli amici Magistrati e Forze dell’Ordine. Se badate bene i fatti di cronaca giudiziaria riportano sempre la postilla: “conosciuti alle Forze dell’Ordine”, “con precedenti penali”, "incensurato", ecc.. Come se fossero più importante i precedenti penali del soggetto e non il fatto in sè. Locuzioni apposte solo da chi conosce le risultanze del casellario giudiziario non accessibili a tutti. Questo evidenzia il fatto che vi è integrale lettura delle veline da parte di giornalisti, senza alcuna esigenza deontologica di verificare la fondatezza o di dare voce alla difesa. Il secondo paradosso è che mi è stata chiesta nel 2012, non la rettifica, ma addirittura la cancellazione degli articoli di denuncia del fatto, pubblicati nel 2008 e contenuti sui miei ed altrui siti web, tra cui “Report On Line”,“Il Pittaccino”, “Salento Pocket”. Notizia cancellata su tutte le pagine web di mia pertinenza e su tutti i miei libri, per adeguarmi alla richiesta, ma inserita qui in questo contesto, in relazione al processo sull’omicidio di Sarah Scazzi, estrapolandola con citazione delle fonti su nominate. Questo al fine di denunciare le storture di un sistema giudiziario e forense, dove addirittura le vittime sono sottoposte a regime di intimidazione e di coartazione per far tacere le ignominie innominabili commesse da giudici ed avvocati a danno delle stesse vittime. D'altronde non vi è diffamazione a danno della vittima, né violazione della privacy, come conferma la sentenza che mi riguarda precedentemente riportata. E dire che non è la prima volta che la stessa vittima arriva a censurarmi, se non addirittura a denunciarmi per diffamazione a mezzo stampa. Denunciato per aver dato voce e difeso una vittima della malagiustizia. Questo fatto di essere denunciato per diffamazione a mezzo stampa è avvenuto con Giuseppe Dimitri di Avetrana.

Per quanto riguarda l’amministrazione della Giustizia da queste parti, bisogna puntualizzare alcune cose, come per esempio anche l’incredibile e strana vicenda di due Magistrati pugliesi: Matteo Di Giorgio e Giuseppe De Benedictis. La vicenda è sta oggetto di un articolo di Michele Imperio. Mesi fa vi fu la notizia dell’arresto quasi contemporaneo di due magistrati pugliesi Giuseppe De Benedictis e Matteo Di Giorgio, entrambi classificabili come Magistrati dell’area di centro destra, tendenza beninteso manifestata al di fuori dell'esercizio delle funzioni nell'ambito delle quali i due magistrati erano assolutamente irreprensibili. Giuseppe De Benedictis aveva addirittura concesso l’arresto dell’on.le Raffaele Fitto (PDL). E dato il clamore di certa stampa si era lanciato l’allarme che poteva trattarsi di un odioso piano dei giudici di Magistratura Democratica, i quali stavano cominciando ad avviare una sorta di pulizia etnica, oltre che di uomini politici anche di Magistrati di altra estrazione politica, utilizzando anche contro costoro (i colleghi Magistrati) lo strumento della incriminazione penale e della carcerazione preventiva. In questa perversa ottica si collocavano – secondo noi - le due quasi contemporanee carcerazioni dei magistrati pugliesi Matteo Di Giorgio e Giuseppe De Benedictis arrestati a distanza di soli quattordici giorni l’uno dall’altro, un evento che non si era mai verificato in tutta la storia della Puglia. Anzi in passato il Magistrato veniva rispettato in quanto tale. I panni sporchi, se c'erano, si lavavano - come si dice - in famiglia, onde non generare disdoro per le Istituzioni. Ora invece anche i Magistrati, classificabili come vicini ad ambienti politici di centro-destra, possono essere destinatari di questa iniziativa plateale e clamorosa che è l'incriminazione penale e la custodia cautelare che - lo ricordo - non è "pane e fichi" ma è una misura particolarmente umiliante e estremamente invasiva che bisogna adottare - stando alla legge - solo in presenza di situazioni di particolare gravità. Il dott. Matteo Di Giorgio già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, insignito per meriti acquisiti sul campo dell’incarico di delegato della Procura distrettuale antimafia di Lecce presso il Tribunale di Taranto, è stato all'improvviso arrestato l’11 novembre 2010 con una serie di accuse per fatti vetusti, risalenti alcuni addirittura al 2001, alcuni dei quali già prima facie di scarsissima o nulla rilevanza penale (per esempio far mantenere aperto un bar dalla Amministrazione Comunale di Castellaneta anche se non era in regola con le licenze). Lo stesso mandato di cattura parlava di concussione, ma escludeva in modo assoluto che il Dott. Matteo Di Giorgio avesse mai preteso denaro per se o per altri soggetti per queste operazioni ipotizzandosi a suo carico soltanto la volontà di perseguire "mire e utilità politiche". Infatti con riferimento alle elezioni amministrative del 2008 (e questa è la sua vera colpa) egli aveva tentato, senza riuscirci, di candidarsi presidente della Provincia di Taranto senza coordinarsi con la Massoneria e con le alte sfere della magistratura associata che, evidentemente, nei Tribunali di Potenza e Taranto godono di spazi particolari. Vedi per esempio caso Cannizzaro-Genovesi-Restivo-Claps:  Ora anche i profani sanno che affinché si configuri invece il reato di concussione occorre che l’attività estorsiva del pubblico ufficiale sia finalizzata a conseguire denaro o altra utilità (ovviamente simile al denaro). Ed è molto discutibile allo stato attuale della giurisprudenza che tra queste "altre utilità" rientrino le “utilità politiche” perché allora bisognerebbe incriminare del reato di concussione almeno il 90% della classe politica di destra di centro e di sinistra. L’ordinanza di custodia cautelare a carico del dott. Matteo Di Giorgio già per questi motivi appariva quindi anche al profano un’ordinanza di custodia cautelare alquanto esagerato, dato che il Magistrato può disporre - per legge - la cattura di un individuo solo se è certo che il fatto determinerà una condanna a una pena detentiva che superi il limite della sospensione condizionale della pena (anni due di reclusione). Peraltro il Procuratore Capo della Repubblica di Potenza Giovanni Colangelo, insediatosi però a Potenza quando già l'indagine era stata avviata, quel mandato di cattura non lo ha voluto firmare. Evidentemente non era d'accordo. Peraltro "voci" riferiscono che a Potenza non ci vuole stare più. Vorrebbe trasferirsi a Napoli. Torno ora a parlare di questa vicenda perché proprio la Corte di Cassazione ha annullato ben due dei quattro capi di accusa mossi al dott. Matteo Di Giorgio e precisamente:

1. aver indotto la prima vittima tal Giuseppe Di Fonzo a non denunciare il suo presunto strozzino, parente del Magistrato, promettendogli il suo interessamento per l'iter di accesso al fondo antiusura;

2. aver indotto la seconda vittima tal Giovanni Coccioli a ritrattare le accuse a lui stesso mosse dal Coccioli nell'ambito di un'annosa diatriba con un senatore del posto Rocco Loreto, facendogli ottenere in cambio la gestione di un bar abusivo allo stadio di Castellaneta. Il primo capo di accusa è stato annullato senza rinvio (cioè cancellato completamente) l'altro è stato annullato con rinvio al Tribunale del riesame di Potenza per nuovo esame. Ora è raro che la Cassazione annulli i capi di accusa di un’ordinanza di custodia cautelare senza rinvio. Se lo fa è perchè evidentemente si tratta proprio di una castroneria, nella specie confermata (ahimè) dal Tribunale del riesame di Potenza.

Annullati questi due capi di accusa rimangono a carico del Magistrato Matteo Di Giorgio altre due imputazione:

1. aver esercitato presunte pressioni sul proprietario di un villaggio turistico "Città del Catalano" per far revocare il servizio di vigilanza a tal Vito Pentassuglia (esponente, secondo l'accusa, dello schieramento politico avversario al suo quello di Sinistra) e poi aver fatto altre pressioni sempre sul titolare di quel villaggio turistico per farsi concedere due mesi di vacanza "quasi" gratuiti in due appartamenti del residence medesimo;

2. aver costretto alle dimissioni un consigliere comunale di Sinistra tal Domenico Trovisi dietro la minaccia di far arrestare due suoi familiari.

Ora la Cassazione - come tutti sanno - non entra nel merito delle vicende processuali perchè si limita a valutare solo i profili di legittimità (ossia il rispetto della legge sostanziale e processuale da parte del Magistrato che ha emesso il provvedimento). Però appare strano che un Magistrato si esponga fino a quel punto solo per farsi "quasi" pagare (e perchè non per intero?) una vacanza in un villaggio turistico della sua stessa città. Questo può capitare a un impiegato di quart'ordine che non ha il denaro sufficiente per pagarsi la vacanza ma non a un Magistrato il quale è lautamente retribuito. Inoltre "voci" apparse anche sulla stampa (settimanale locale "Wemag") riferiscono che gli episodi relativi alle dimissioni del consigliere comunale di Sinistra Domenico Trovisi non si sono svolte affatto come è stato raccontato nel mandato di cattura, ma si sono verificati con queste modalità: in quel periodo il Magistrato concittadino Matteo Di Giorgio si trovava ad esaminare per ragioni del suo ufficio alcune intercettazioni telefoniche dalle quali emergeva che due giovani familiari di Domenico Trovisi, persona molto in vista in città in quanto titolare di oleifici, discoteche ed altre importanti attività economiche, fossero responsabili di un grave reato. Per pietà e per senso di concittadinanza il giovane familiare non è stato arrestato dal Magistrato Matteo Di Giorgio e il Trovisi ha pensato bene - per decenza - di dimettersi spontaneamente da consigliere comunale. Però...... "voci"..... Mi chiedo: ma si può trattare un Magistrato come una pezza da piede per fatti di questo genere? Peraltro - come ho detto - tutti i capi di imputazione annullati o non annullati dalla Cassazione si riferiscono a vicende vecchie, datate nel tempo (intorno al 2001 circa) che ormai affondavano nelle polveri degli archivi della Procura della Repubblica di Potenza tanto era stato il tempo trascorso dalla loro archiviazione disposte queste archiviazioni da un valoroso Magistrato che allora era in forza alla Procura della Repubblica di Potenza, che si chiamava John Woodcock. Solo il trasferimento di questo Magistrato dalla Procura di Potenza a quella di Napoli ha consentito che quelle denunce fossero riprese e valorizzate. Per verificare queste denunce poi è stata messa in moto la macchina giudiziaria come per le grandi occasioni, riguardanti fatti gravissimi di criminalità organizzata, sono stati addirittura impiegati anche ex Carabinieri allontanati dall’Arma per ragioni disciplinari o penali e per ben due anni (pensate!) tutte le stanze del Tribunale di Taranto sono state disseminate di cimici per le intercettazioni ambientali!!!!!!!!!!! Al punto che personalmente una volta mi è capitato di essere invitato da un Magistrato a interloquire con lui nel bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, proprio per la presenza – risaputa - di queste invasive cimici. Inoltre è successo pure che molti Magistrati del Tribunale di Taranto e - praticamente quelli più valorosi - infastiditi da tante pressioni, hanno chiesto e ottenuto il trasferimento presso altre sedi. E’ il caso per esempio della dott.sa P.N., del dott. G.D., del dott. G.C. e di altri. Anzi addirittura il dott. G.C., benchè giovanissimo, ricopriva nel Tribunale di Taranto, sua provincia di residenza, il prestigioso ruolo di presidente del collegio penale. Ebbene egli ha preferito chiedere il trasferimento presso un altro Tribunale e autoretrocedersi a giudice monocratico di piccoli paesi pur di sfuggire al clima giacobino e velenoso che, per via di queste intrusioni, si è creato nell'ambiente giudiziario tarantino. Mi chiedo: ma data l’inezia delle accuse e la mole delle forze messe in campo non sarà per caso che l'inchiesta contro il Magistrato Matteo Di Giorgio sia stata solo un pretesto e che invece da Potenza e forse da più in là qualcuno voleva inquisire tutti i Magistrati del Tribunale di Taranto per tentare una sorte di pulizia etnica a sfondo politico? Capisco che questa è un'ipotesi suggestiva ma l'arresto altrettanto plateale e contemporaneo del dott. Giuseppe De Benedictis di Bari a soli quattordici giorni di distanza e anche questo carico di simbologia, è opera - formalmente - di un'altra Procura esterna, la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere. In quel periodo si vociferava di intrusioni del dott. Matteo Di Giorgio nella vicenda dei parchi eolici, un'inchiesta che partiva da Roma e precisamente dal P.M. dott. Giancarlo Capaldo, fratello di quel Pellegrino Capaldo, grande amico di Nicola Mancino, per la sinistra il noto e diabolico stratega del 1992. Questa inchiesta sui parchi eolici doveva fare strage di uomini politici e di Magistrati dell'area meridionale e poi invece si è rivelata un flop, un'autentica bolla di sapone. Ma ci ha fatto capire che la testa del drago di questa e di altre inchieste non sta a Taranto. E - forse - nemmeno a Potenza. Sta a Roma. Qual è il senso di questa pillola di attualità parallela al processo di Sarah Scazzi ed inserita in un contesto apparentemente alieno? Il senso da cogliere è che mai nulla è come appare. Il rovescio della medaglia è sempre bene esaminarlo. Mai soffermarsi alle apparenze, specie se mostrate da giornalisti e magistrati interessati.

SOSPENSIONE UDIENZE. PAUSA ESTIVA: 31 LUGLIO - 15 SETTEMBRE

Nelle more della pausa estiva del processo si coglie l’occasione per parlare della cornice in cui il giudizio stesso si svolge. Territorio, personaggi, eventi sono esemplificativi per rendere l’idea di un fatto che coinvolge emotivamente tutta una nazione. La giustizia a Taranto non può esser estrapolata da una realtà emblematica, che comunque il profano deve conoscere. Non si possono sputare opinioni, se non si conosce il contesto in cui i fatti si formano e, spesso, si raccontano, simulandoli e dissimulandoli. Si tenga sempre presente: mai nulla è, come appare!!!

Spending review, accorpamento delle province di Taranto e Brindisi. Avetrana vuole Lecce. La gente di Avetrana si mobilita per cambiare provincia, stante e sotteso l’inerzia delle istituzioni avetranesi che sono restie a cogliere l’occasione che offre l’art. 17, 3°comma, della legge 135/2012 detta Spending review in tema di riordino delle province. E dire che proprio il Comune di Avetrana ha aderito al progetto della “Regione Salento”. Da sempre Avetrana si sente salentina, perché lo è per la storia, le tradizioni, gli usi, i costumi, il dialetto. Inoltre per ragioni di opportunità l’occasione va colta, affinchè ci si smarchi dalla supremazia delle strutture politiche, economiche e sociali di Taranto ed ancor più dall’egemonia politica di Manduria per dirimere una volta per tutte la questione sulla competenza territoriale delle zone marine viciniori ad Avetrana e la spinosa vicenda del depuratore consortile che proprio Manduria ha voluto sulla spiaggia prospiciente Avetrana.

Per questo motivo, su iniziativa dell’avv. Mirko Giangrande, presidente dell’associazione “Pro Specchiarica” e vice presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”  e di “Tele Web Italia”,  gran parte della società civile di Avetrana, con le sue associazioni più rappresentative, il 16 settembre 2012 si riunisce per approntare una lettera indirizzata al presidente del Consiglio comunale di Avetrana, affinchè lo stesso convochi un Consiglio Comunale monotematico necessario ed urgente, ai sensi dello Statuto comunale, ed ivi avviare una discussione sull’opportunità del passaggio dalla provincia di Taranto a quella di Lecce ed approntare una presa d’atto sul da farsi e se del caso, con le risultanze argomentali positive, inviare l’ipotesi d’intenti alla regione Puglia entro il 2 ottobre, ossia nei ristretti termini stabiliti dalla legge ed obbligati dall’inerzia istituzionale e politica comunale. Il Consiglio Comunale si deve assumere la responsabilità di una decisione storica, qualunque essa sia. Le ipotesi e le proposte di riordino delle province di Taranto e Brindisi devono tener conto  dell’iniziativa comunale avetranese volta a modificare le circoscrizioni provinciali esistenti e comunque l’iter procedurale della stessa proposta del comune di Avetrana non potrà concludersi se non sentiti tutti i cittadini avetranesi invitati ad esprimersi tramite un referendum da indire successivamente. Molti Avetranesi pensano che è meglio contare uno tra i cento comuni leccesi e sentirsi in casa propria, che contare niente sui pochi comuni tarantini e sentirsi abbandonati da una città, Taranto, che da sempre con la sua politica, la sua burocrazia ed i suoi media si è dimostrata egocentrica e disinteressata alla sua provincia.

Sprechi, tagli sui servizi, disservizi e solita partigianeria. Regione Puglia, Lazio, Sicilia e tutte le altre. Per favore non chiamatele Mafia. «Un certo tipo di giornalismo, che va per la maggiore, produce un certo tipo di politica imperante. Questi promuovono un certo tipo di antimafia monopolista: di parte e di facciata. - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , scrittore dissidente che proprio sul tema della mafia e della mala politica e della mala amministrazione ha scritto dei libri, tra i tanti libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. - I soliti giornalisti promuovono ed i soliti politici finanziano iniziative della solita antimafia monopolista. Iniziative volte a dare un’immagine della mafia come la manovalanza del crimine organizzato. Per loro la mafia deve essere il cafone analfabeta con la lupara in mano che chiede soldi a strozzo o denaro in cambio di sicurezza. Come dire: affidati allo Stato che con i soldi estorti con le tasse esso sì ti presta i soldi e ti assicura benessere, istruzione, cultura, salute, giustizia e sicurezza (sic).  Invece per me la mafia siamo tutti noi: omertosi, emulatori, collusi e codardi. Questo tipo di giornalismo e questo tipo di antimafia, che addita gli avversari politici o la manovalanza criminale come mafiosi, è foraggiato da questo tipo di politica, spesso regionale. Ed è foraggiato con i nostri soldi estorti con le tasse. Invece di denunciare lo sperpero di denaro pubblico per amicarsi un certo sistema d’informazione ed un discutibile sistema antimafia, ai consiglieri ed agli assessori regionali si dà la colpa di dilapidare i nostri soldi. Ed i cittadini lì ad imprecare. Però si fa finta di non sapere che quei soldi, di cui a volte facciamo finta di chieder conto, non sono altro che quelli usati (per voto di scambio) per attirare favori e benevolenza da parte di quell’elettorato, che oggi è indignato. Quei soldi servono per comprare il consenso per la rielezione di quei politici che oggi si manda all’inferno. Fa niente se per mantenere lor signori si chiudono ospedali e tribunali. Ma tanto per il sistema tutto ciò non è racket, anche perché è omertosamente taciuto. Sulle emittenti tv vi sono sempre servizi di parte, se non servizi che raccontano altre realtà (su Studio Aperto alle 12.47 circa di tutti i giorni vi è un servizio sulla famiglia reale inglese). Certo che a fare vera informazione si rischia l’oscuramento del portale web o la galera (ma solo per il direttore de “Il Giornale”, Alessandro Sallusti, vi è stato il polverone). Anche di questo una certa politica si deve fare carico. Sul nostro canale Youtube MALAGIUSTIZIA abbiamo dovuto montare e produrre un video sugli scandali alle Regioni. Un video tratto da servizi caricati sul web dal TG3, dal 884c25tv e dal TRnews di Tele Rama. Un video che è bene far vedere a tutti perché si dimostra che tutte le regioni sono uguali. Spezzoni video di tv anche locali. Vi è anche una parte riferita alla Regione Puglia di Nicola Vendola (dispensatore di sogni e di speranze), affinchè ci si renda conto con che tipo di informazione e di antimafia e di politica il cittadino si deve confrontare e che con questo sistema informativo è dura debellare.»

PUGLIA. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE. Regione-cuccagna: la Puglia è la capitale degli sprechi di Stato. Caso Frisullo, scandalo Mele e spese di Introna: breve viaggio in Puglia, l'impero degli sprechi raccontato da Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Per tutti gli italiani andare in pensione è diventato un calvario. Qui no: puoi ancora ritirarti a 55 anni avendo versato contributi solo per cinque anni. E l’assegno mensile anche così supera i tremila euro al mese, perché invece di essere tagliato come è avvenuto nel resto di Italia, viene periodicamente rivalutato. Dopo nemmeno un anno di lavoro puoi chiedere l’anticipo del Tfr, e fino a quando non hai raggiunto l’80% del dovuto puoi chiederlo anche l’anno dopo, e l’anno dopo ancora. Qui il numero uno può andare in giro su un’auto di lusso straniera tremila di cilindrata, e al suo vice è concessa una duemila di cilindrata con tutti i comfort, anche se c’è una legge che dice che sopra i 1.600 cc non si può salire. Benvenuti in Puglia, nel regno di Nichi Vendola, nel cuore di quel consiglio regionale che oggi è il paese della cuccagna della Casta. Qui tutto è ancora possibile, e se non ci fossero delibere, timbri amministrativi, stanziamenti effettivi, ci sarebbe da non credere ai propri occhi. Accadono cose nel cuore della politica pugliese che nemmeno la più fervida fantasia avrebbe immaginato esistere in Sicilia, la tradizionale patria di tutti i mali della spesa pubblica, del privilegio dei satrapi. In Puglia qualsiasi cosa è concessa. Tutto - anche quello che non pensavi possibile - diventa realtà. Grazie allo status di consigliere regionale possono rifarsi una vita politici che ne hanno combinata più di una e sono stati triturati dalle cronache.

Prendiamo Sandro Frisullo, il luogotenente di Massimo D’Alema in zona, finito in carcere per l’inchiesta su soldi e donne elargiti da Giampaolo Tarantini. Per lui la carriera politica si è dovuta chiudere, ma la Regione gli ha consentito di ripartire grazie a bei mattoncini per rifarsi una seconda vita. Prima gli ha consegnato un assegno di fine mandato da 388.992,96 euro. Il 13 luglio 2010 ha chiesto e ottenuto di andare in pensione anticipata a 55 anni e gli è stato concesso. Da allora percepisce ogni mese dalla Regione un assegno da 10.071,80 euro lordi. Non sarebbe mai accaduto in un altro posto. Ma almeno Frisullo era stato consigliere regionale ininterrottamente dal 1995 al 2010: 15 anni. L’8 marzo di quest’anno la domanda di pensione anticipata appena compiuto il cinquantacinquesimo anno di età è giunta da un altro ex consigliere regionale: Cosimo Mele. Era deputato dell’Udc quando finì nei guai per una notte in albergo in via Veneto con due donne - una delle quali finì all’ospedale per overdose di cocaina. Mele fu mandato a processo, e il leader del suo partito gli impose le dimissioni da deputato. Fu però consigliere regionale per tutti i 5 anni della precedente legislatura (2000-2005). Solo quelli aveva alle spalle, così il suo assegno previdenziale è per forza ridotto: 3.403,82 euro lordi al mese che gli vengono corrisposti dal consiglio regionale dal primo aprile scorso. Non lo farà diventare ricco, certo. Bisogna però provare a raccontare agli italiani comuni che con il governo di Mario Monti e la stretta pensionistica di Elsa Fornero in vigore, c’è un Mele in Puglia che può andare in pensione a 55 anni, avendone lavorati solo cinque, con 3.403,82 euro lordi di pensione. I due nomi citati sono i più noti alle cronache nere nazionali, ma in Puglia sono a decine gli ex consiglieri che negli ultimi due anni sono andati in pensione prima dei 60 anni con emolumenti mensili di tutto rispetto (il più basso è quello di Mele). Non è una eccezione: è la regola.

Per altro mentre le leggi nazionali in piena crisi economica dicevano tutt’altro e perfino i deputati e senatori tiravano la cinghia si tagliavano gli stipendi e i rimborsi spese, nel regno di Vendola è accaduto l’esatto opposto. I vitalizi sono stati ritenuti esenti dai tagli, e il loro importo è stato periodicamente rivalutato. Che le leggi in Puglia vadano in controtendenza, è evidente perfino dal ruolino delle cause davanti alla Corte Costituzionale. Due vedono contrapposti Vendola e il presidente del Consiglio, Mario Monti. La prima nasce dal fatto che quando la legge nazionale ha deciso di ridurre i consiglieri regionali, in Puglia si è fatto un taglietto, scendendo a 60, dieci in più del tetto imposto agli altri. E il governo ha fatto loro causa. La seconda diatriba nasce da una legge di Giulio Tremonti che riduceva la spesa per consulenze e collaboratori. Anche la Puglia si è adeguata, ma non per tutti.

Vendola ha escluso dalla scure proprio i suoi collaboratori, e così è stato citato prima da Berlusconi e poi da Monti di fronte alla Corte costituzionale. Per capire come l’andazzo da queste parti sia di tutto altro tenore, tanto da trasformarsi nel paradiso della Casta, basta dare un’occhiata agli stanziamenti amministrativi che riguardano il presidente del consiglio regionale, Onofrio Introna, compagno di partito di Vendola in Sel. Quando si è insediato gli hanno messo a disposizione una Bmw. Lui ha voluto cambiare, preferendo una Audi A6 tremila di cilindrata. Siccome la Consip non ce l’aveva, ha costretto gli uffici della Regione a una trattativa privata con un noleggiatore del posto. Intanto che c’era, ha fatto prendere altre due Audi A6, però duemila di cilindrata, destinate al vicepresidente del consiglio regionale (Nicola Marmo, Pdl) e a un consigliere segretario. Non bastava l’auto di lusso. Quando Introna è nel suo bell’ufficio in Regione, che fa? Sicuramente scrive ad amici ed elettori. Perché ha chiesto e ottenuto una delibera amministrativa per la fornitura di carta intestata, buste e suppellettili a suo uso, indicandone anche i produttori prescelti: «500 buste shoppers della ditta Paperstore di Gravina di Puglia; n. 3mila fogli di carta intestata /Il Presidente/ e n. 3mila cartoncini formato americano intestati /Il Presidente/ della ditta Ragusa Tipografia di Bari; n. 70 cornici con riproduzione stemma Consiglio - lastra in argento - in vari formati, dalla ditta Braganti Antonio di Milano; n. 60 prodotti in terracotta artigianali /La nostra Terra/ dalla ditta Gallo Maria di Rutigliano (Ba)». Non si può dire che Introna non avesse idee sicure. Ma quando ha finito di scrivere? Nessun problema. Ha chiesto e ottenuto un abbonamento Sky che avesse dentro tutto, ma proprio tutto: partite di calcio, cinema, Hd, possibilità di registrare, perfino il pacchetto per le famiglie. Il primo anno valeva 65 euro al mese. Il secondo è lievitato a 1.800 euro anno, chissà perché. Visto che l’andazzo era quello, anche il vicepresidente Marmo non ha voluto esser da meno. Quando ha preso possesso del suo ufficio, ha deciso che i mobili erano «deteriorati e fatiscenti». E come il dirigente amministrativo ha voluto scrivere nella delibera di spesa, per coprirsi le spalle «considerato che lo stesso Vicepresidente ha fortemente insistito per la sostituzione degli arredi con quelli realizzati dalla ditta Fantoni», sono stati stanziati per la bisogna 9.513,60 euro. Con un clima così, ognuno ha abbandonato qualsiasi ritegno. In pieno scandalo Luigi Lusi il 10 maggio scorso la Regione Puglia ha pagato alla società di riscossione crediti Credit Tech una fattura Telecom da 403,3 euro protestata al vecchio gruppo consiliare della Margherita. L’aveva girata alla amministrazione l’ex presidente del gruppo, Francesco Ognissanti, dopo avere controllato sul vecchio conto corrente locale del partito: «Ha ragione Telecom», ha spiegato Ognissanti agli uffici amministrativi della Regione, «ho controllato sul nostro conto del Banco di Napoli e noi quella bolletta non l’abbiamo mai pagata.

Potete tranquillamente pagarla voi». E la Regione Puglia di Vendola, che quando si tratta della Casta ha un cuore grande come un melone, ha pagato il debito della Margherita senza battere ciglio.

PUGLIA. Regione-avvelenata: la Puglia è la capitale dell'inquinamento.

Una regione avvelenata, secondo l’inchiesta di Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Non c'è solo l'Ilva: i siti considerati pericolosi sono quasi 500. E tre sono nella lista nera d'Europa. Un disastro che uccide l'economia, ma soprattutto le persone. Se Taranto è il centro dell'inferno e l'Ilva la bocca di Satana, anche il resto della Puglia non se la passa bene. Inquinamento alle stelle, emissioni di CO2 da record, tracce di diossina nel latte materno, incidenza di tumori troppo alta vicino ai poli industriali: la regione dei trulli è il tacco nero d'Italia, il luogo dove sorgono le fabbriche più inquinanti del Belpaese. L'Agenzia europea dell'Ambiente lo scorso anno ha stilato una classifica delle industrie più "sporche" del Vecchio Continente. Nelle prime cento posizioni ci sono cinque fabbriche italiane. Tre sono in Puglia e due in Sardegna. Se l'Ilva di Taranto è cinquantaduesima, la centrale termoelettrica dell'Enel di Brindisi è piazzata addirittura al diciottesimo posto, mentre l'altra centrale di Taranto (sempre dell'Enel) è all'ottantesimo posto. Non è tutto: secondo gli studi dell'Arpa tra Foggia e Santa Maria di Leuca si contano centinaia di altri siti potenzialmente pericolosi. In tutto sono 498, di cui 70 di origine industriale, 145 discariche, 11 luoghi a rischio contaminazioni da amianto. «Non stupisce», chiosa Annibale Biggeri, epidemiologo, professore ordinario a Firenze e perito del gip di Taranto che ha ordinato il sequestro dell'Ilva, «che in alcune zone della Puglia i dati epidemiologici siano così allarmanti». Taranto è il caso più devastante. Lo studio "Sentieri" ha definito la zona vicino l'Ilva«area insalubre», e la procura ha deciso - dopo anni di inedia da parte di istituzioni locali e nazionali - di intervenire bloccando la produzione. Il Gruppo Riva, oggi nel mirino dei magistrati, ha comprato il sito alla fine degli anni '90 e ha inquinato allegramente per quindici anni l'aria e il mare della città, ma sono almeno tre decadi che gli esperti degli istituti di ricerca andavano spiegando dei pericoli mortali dell'acciaieria più grande d'Italia. «A Taranto in 13 anni di osservazioni, che vanno dal 1998 al 2010», ricorda Biggieri, «sono attribuibili alle emissioni industriali (misurate come polveri sottili) ben 386 decessi. Circa 30 l'anno. Un eccidio». A settanta chilometri dall'Ilva, a Brindisi, c'è un altro dei siti d'interesse nazionale (Sin) che fa tremare gli esperti. Comprende la zona industriale della città, il porto e una fascia costiera che si estende per oltre 30 chilometri quadri. Qui sorge la Syndial, la Polimeri europa, l'Enipower, la Powerco, senza dimenticare le due enormi centrali dell'Enel, campioni nazionali nell'emissione di CO2.

Gli studi in mano agli scienziati sono scioccanti. La mortalità per l'area di Brindisi è stata analizzata nel periodo 1990-1994, quando vennero segnalati eccessi di mortalità per tutte le cause e per tutti i tipi di tumore. Un report più recente, pubblicato nel 2004, riguardò l'area residenziale vicino al petrolchimico: i risultati evidenziarono un incremento «moderato» nel rischio di mortalità per tumore del polmone, della vescica e del sistema linfoematopoietico per chi risiedeva in un raggio di due chilometri dalle industrie inquinanti.

L'Arpa recentemente ha effettuato nuovi rilievi del suolo e delle falde acquifere, trovando di tutto: l'arsenico supera i limiti del 63 per cento, lo stagno del 42, il mercurio del 14, ci sono troppi idrocarburi, composti cancerogeni di vario tipo, clorobenzeni. Nello studio "Sentieri" gli esperti ricordano pure la presenza massiccia di amianto, che potrebbe aver causato«l'eccesso di mortalità per tumore alla pleura», e le troppe malformazioni congenite presenti a Brindisi. Il ministero dell'Ambiente, nella conferenza di servizi del marzo 2011, ha chiesto al Comune di presentare un progetto di bonifica della zona, e di fare rapidamente gli interventi di messa in sicurezza d'emergenza delle acque di falda. Chissà a che punto stanno i lavori. Di sicuro la commissione bicamerale d'inchiesta, che ha pubblicato lo scorso giugno una relazione sulla situazione pugliese in tema di illeciti e criminalità ambientale, sul tema delle bonifiche ha bacchettato l'amministrazione guidata da Nichi Vendola, rea di essere troppo lenta negli interventi di pulizia. «Il piano di stralcio delle bonifiche (pubblicato nel bollettino ufficiale del 9 agosto 2011, ndr) non riporta né una definizione degli interventi prioritari né un quadro chiaro dei meccanismi di finanziamento degli stessi». L'unica eccezione positiva, nota il Parlamento, è il sito inquinato di Manfredonia. Qui, grazie alla «spinta propulsiva» di una procedura d'infrazione della Comunità europea (che avrebbe portato a pagare multe da centinaia di migliaia di euro al giorno) la Regione ha investito una quarantina di milioni ed ha bonificato tre discariche pubbliche che aspettavano di essere pulite da 13 anni.

La situazione in città è migliorata, ma c'è ancora molto da fare.

Innanzitutto nell'area della Syndial (Ex Enichem), che nel 1976 finì sulle prime pagine dei giornali per un'esplosione che provocò una nube tossica di arsenico. Dieci tonnellate di veleni caddero sotto forma di polveri, come ricorda la commissione bicamerale, «nei pressi dello stabilimento e fino all'estrema periferia» di Manfredonia, ricoprendo i tetti delle case, le strade, i campi e i giardini. Uno studio ha segnalato per la città - per quanto riguarda la mortalità- trend temporali in crescita per tutti i tumori. «Su quell'evento bisognerebbe indagare meglio: è un incidente tipo Seveso, non si sa cosa sia davvero successo alla salute delle persone, i possibili danni di chi fu esposto dovrebbero essere studiati con maggiore cura», ragiona Biggeri. Il quarto sito di interesse nazionale è quello di Bari, area Fibronit. Qui l'assassino è l'amianto, che ha ucciso negli anni (per asbestosi, tumori e malattie dell'apparato respiratorio) centinaia di persone, gli operai che andavano al lavoro, le mogli che venivano in contatto con le polveri nascoste nelle tute da lavoro, i figli che le respiravano. Nella zona, sostengono gli scienziati, c'è ancora un eccesso di malattie. La fabbrica ha chiuso da lustri, ma incredibilmente ci sono ancora migliaia di metri quadri da bonificare, con residui di eternit che rischiano di far ammalare, oggi, gli abitanti dei quartieri vicini: solo a Japigia vivono oltre 50 mila persone. Lo studio "Sentieri" dà alcuni suggerimenti: «Considerata la particolare complessità della città di Bari (ambiente urbano, area portuale, altri insediamenti produttivi) si ritiene opportuna una caratterizzazione ambientale più ampia, e un approfondimento del quadro di salute della popolazione». I biomonitoraggi, però, costano caro, e i loro risultati non sempre piacciono ai politici. Le bonifiche sono operazioni complesse e richiedono enormi sforzi economici: è impossibile fare una stima precisa, ma di sicuro mettere in sicurezza i quattro Sin pugliesi non costerebbe meno di una decina di miliardi di euro. Soldi che nessuno (né il pubblico né tantomeno i privati) ha mai voluto investire. La commissione bicamerale alza il dito anche contro la gestione commissariale in tema di rifiuti e bonifiche. «In Puglia come in altre regioni ha prodotto scarsi risultati, dal momento che il primo censimento dei siti contaminati è stato pubblicato nel 1994 dall'Enea, e quindi da allora si aveva contezza dello stato di degrado ambientale del territorio». Un disastro che ammazza anche l'economia: se i mancati investimenti dovuti all'inquinamento pesano sul Pil regionale per centinaia di milioni di euro l'anno (nel 2006 uno studio della Ue quantificò un costo annuale per le mancate bonifiche in un range che andava, per quanto riguarda l'Italia, tra i 2,4 e i 17,3 miliardi di euro), i veleni hanno penalizzato anche l'agricoltura, «martoriata», scrive la Commissione, «dalle emissioni industriali degli insediamenti di Brindisi e Taranto e dallo sversamento illegale di rifiuti». La commissione non risparmia nessuno, e se la prende anche con il ministero dell'Ambiente, che non avrebbe mai emanato il regolamento relativo agli interventi di bonifica. In assenza di norme precise, ogni situazione viene gestita «caso per caso, rendendo di fatto inefficaci le richieste di intervento». Senza un quadro normativo di riferimento, in pratica, tutto è demandato ai Tar. Che, in caso di ricorso, possono bloccare il lavoro di bonifica. Come è capitato alla Fibronit di Bari: il Comune voleva trasformare l'area in un parco cittadino dedicato alle vittime dell'amianto, il Tar ha bocciato il progetto, i lavori sono stati bloccati e i veleni sono rimasti a terra.

TARANTO, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

L’acciaieria di Taranto e il groviglio tra diritto alla salute e diritto al lavoro si sta dimostrando l’ennesimo capitolo della sfida lanciata dalla magistratura alla politica nell’ultimo ventennio, apertosi con la stagione di Mani pulite e segnato dalla «berlusconeide» giudiziaria.

In ossequio a un rispetto formalistico della legge, le toghe di Taranto stanno chiudendo uno stabilimento che dà lavoro – diretto e nell’indotto – a 20mila persone: significa togliere l’ossigeno ad una città ed alla sua provincia e danneggiare l’intero Paese. La tutela della salute e dell’ambiente è un bene, (certo non lo spirito di protagonismo di certi ambientalisti), ma occorre perseguirlo nel modo più adeguato, cioè tenendo conto di tutti i fattori in gioco: spegnere un altoforno è un danno irreparabile, mentre – se esiste la volontà di farlo – si possono trovare soluzioni ragionevoli e graduali per mettere in sicurezza gli impianti senza comprometterne il futuro.

Come per esempio costringere la proprietà a risarcire i danni causati, anche per patema d’animo, tanto da costringerli a sanificare le fonti d’inquinamento. La magistratura non vuole sentire ragione. Così è scesa in campo la politica: i leader della maggioranza sono compatti, specie del PD (non dimentichiamo che il presidente Ilva, l’ex prefetto Bruno Ferrante, fu candidato del centrosinistra a sindaco di Milano), il governo ha annunciato ricorsi alla Consulta, i ministeri valuteranno la legittimità dei provvedimenti. C’è anche l’appoggio dei sindacati. Per vent’anni una gran parte della politica si è trincerata dietro la magistratura per nascondere la propria incapacità e, soprattutto, per eliminare il grande nemico Silvio Berlusconi. Il quale è stato lasciato solo nel denunciare lo strapotere delle toghe, e questa sua battaglia è stata raccontata come difesa del proprio interesse. Forse a ragione, ma lo strapotere e il delirio di onnipotenza delle toghe rimane. Onnipotenza mal riposta tenuto conto del concorso truccato di abilitazione. Ora lo scenario politico è mutato, ma la magistratura non ha allentato la morsa: indagini su nuovi ministri e sottosegretari, intercettazioni sul capo dello stato, infine la sfida dell’Ilva. Improvvisamente Bersani, la Camusso, Vendola, Napolitano, Casini, i tecnici al governo, i poteri forti che li spalleggiano, scoprono che è stato un errore consegnare ai giudici le chiavi del Paese. E reagiscono: giustamente, ma un po’ ipocritamente. Spero che questo risveglio non sia tardivo. La politica assomiglia molto all’altoforno di Taranto: una volta spento, è impresa titanica (e costosissima) riaccenderlo. Difficilissimo sarà riprendere lo spazio colpevolmente ceduto alle procure in nome di interessi di bottega antiberlusconiani: sì, interessi, e qui nessuno ne evoca i «conflitti».

"L’Ilva sta chiudendo, il Taranto è fallito e neanche la birra Raffo si sente molto bene”. Parafrasa Woody Allen lo scrittore Giuliano Pavone, tarantino trapiantato a Milano che ha raccontato con ironia le varie anime della sua città d’origine nel romanzo “L’eroe dei due mari” (Marsilio). I ministri che si sono trovati a Taranto hanno trovato infatti una città in crisi d’identità. Il famigerato caso Ilva viene percepito come culmine di un progressivo smottamento delle certezze dei tarantini: la produzione di cozze è fortemente limitata dall’inquinamento marittimo; la squadra di calcio è fallita; la birra locale resiste sugli scaffali da quasi cent’anni ma, nonostante il recente inserimento nel logo dell’eroe eponimo Taras, l’acquisizione del marchio da parte della Peroni e la chiusura dello stabilimento cittadino sembrano ancora una ferita aperta. Dai giornali traspare l’immagine di una città tramortita e spaccata, in cui c’è chi protesta contro il sequestro dell’Ilva e chi protesta a favore. “Questa però è in buona parte una forzatura mediatica”, precisa Pavone. “Al contrario, credo che un aspetto positivo di questa vicenda sia proprio il necessario abbandono di certi opposti estremismi e il riavvicinamento dei due schieramenti: gli ambientalisti sono solidali con gli operai e questi ultimi non dimenticano mai di spendere una parola per l’ambiente. Questa ragionevolezza è per certi versi sorprendente, considerando l’estrema delicatezza della situazione, e credo che vada sottolineata in positivo”, dichiara ad Antonio Gurrado sul "Foglio". “D’altra parte è inevitabile: credo che in ogni famiglia ci sia un lavoratore dell’Ilva e contemporaneamente ogni famiglia sconta in qualche modo i danni che la grande industria porta con sé”. Meno ottimista, o più ottimista a seconda della prospettiva, è l’autore Maurizio Cotrona, ministeriale tarantino a Roma e collaboratore del webmagazine Bombacarta fondato da padre Antonio Spadaro. Nel suo romanzo “Malafede” (Lantana) Taranto è un lontano ricordo del protagonista, una specie di male necessario da frequentare il meno possibile. “L’Ilva è stata un alibi extralarge per i tarantini”, dice Cotrona al Foglio. “Negli ultimi trent’anni questo gigante siderurgico ha ridotto all’osso la possibilità di usare un margine di crescita con concretezza, fantasia ed entusiasmo”. Quindi, se l’Ilva sparisse con un colpo di bacchetta magico-giudiziaria, sarebbe meglio? “Personalmente respiro meglio solo all’idea. Superata la monocoltura dell’acciaio, Taranto potrà finalmente resistere alla tentazione dello scetticismo e cercare di darsi una dimensione sostenibile con un mix economico fatto di turismo, mitilicoltura, terziario avanzato e di molte altre cose che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare”. Non è del tutto d'accordo Cosimo Argentina. Tarantino anche lui, professore in Brianza da vent’anni, nei suoi romanzi ha descritto una Taranto infernale e celiniana, un buco nero che divora anche chi è riuscito a trasferirsi altrove. In tempi non sospetti, Argentina ha dedicato all’Ilva il suo ultimo romanzo “Vicolo dell’acciaio” (Fandango). “Io stesso sono un prodotto del siderurgico perché mio padre lavorava all’Italsider”, rivela al Foglio. “Se l’Ilva non ci fosse più verrebbe fuori una nuova generazione non solo impoverita ma anche costretta a reinventarsi, con vantaggi e svantaggi: basta pensare alla parte di tessuto sociale estraneo alla fabbrica ma che da decenni si appoggia sulle commesse industriali. Il fatto è che, quando ci lavorava mio padre, decine di migliaia di famiglie campavano con l’Italsider mentre oggi sono molte meno; e soprattutto, indipendentemente dalla magistratura, prima o poi si arriverà a una chiusura dettata dalla concorrenza globale. L’acciaio dell’Ilva presto sarà improduttivo a fronte dei competitori extraeuropei, e il benessere creato dall’industrializzazione verrebbe meno comunque”. La questione centrale sembra essere proprio l'identità cittadina. Oggi Taranto ha più di 200.000 abitanti, spiega Cotrona, “ma dopo un decennio di smottamenti riscoprirà la voglia di essere una bella piccola città, da 70-80.000 abitanti, com’era prima dell’arrivo del Leviatano”. Argentina concorda: “Senza Ilva i tarantini dovrebbero riambientarsi in una città diversa, più piccola, riscoprendone la vocazione iniziale ossia la pesca, la Marina Militare”. Il discorso però, secondo Argentina, deve necessariamente trascendere l’Ilva: “Oltre al siderurgico e alla marina, a Taranto ci sono l’Eni e la Cementir, ma c’è anche un alto tasso di disoccupazione. Evidentemente qualcosa non quadra nel sistema: la grande industria non ha consentito lo sviluppo del microtessuto sociale, come invece è stato possibile nel Salento che qualche decennio fa era molto più arretrato di noi. Oggi invece il Salento brulica di turisti italiani e stranieri mentre gli stabilimenti della costa tarantina sono semivuoti. L’eventuale turista si domanda: perché dovrei andare in vacanza nella Manchester d’Italia?”. Rincara Pavone: “Anche se l’Ilva non chiudesse, Taranto dovrebbe comunque pensare a un’alternativa: è da decenni che il siderurgico non riesce a sopperire alla crisi occupazionale, e dai cittadini l’Ilva viene percepita più come ‘posto’ che come effettivo elemento di identificazione”. Fatte le debite proporzioni, non è peregrino azzardare un parallelo fra il caso Ilva e la vicenda pirandelliana della squadra del Taranto, attorno alla quale – negli anni gloriosi e tragici di Erasmo Iacovone, il cannoniere morto in un incidente stradale nel 1978 – si era orgogliosamente cementata l’identità cittadina. Nell'estate 2012 il Taranto è passato dalla mancata vittoria del campionato di Prima Divisione (l’ex C1) ai festeggiamenti per un ripescaggio in serie B rivelatosi poi uno scherzo di dubbio gusto, e infine al fallimento della società che a settembre ripartirà dai Dilettanti: un’altalena fra illusione e delusione che ricorda l’atteggiamento ambivalente dei tarantini nei confronti del siderurgico, foriero di lavoro e degrado, benessere e malattia al tempo stesso. “Però mi piacerebbe pensare che il parallelismo vada fatto con le modalità che hanno portato alla rinascita del club piuttosto che al fallimento”, argomenta Pavone. “I tifosi hanno dato vita a un’associazione di promozione sociale, la Fondazione Taras 706 a.C., che ha creato la nuova società sportiva lavorando con istituzioni e imprenditoria perché si arrivasse entro il tempo limite all’iscrizione in serie D, evitando la scomparsa del club. Il nuovo Taranto è la prima squadra di calcio in Italia fondata dai suoi tifosi.

Nella realtà tarantina, storicamente caratterizzata da inerzia e individualismo, quest’esperienza di democrazia partecipata fa ben sperare”. Sarà possibile esportare sull'Ilva il modello calcistico, con una sinergia fra popolazione, istituzioni e impresa? Argentina è scettico: “Non so, ho fatto un recente giro delle associazioni culturali e civiche, giornali locali eccetera, e ognuna sembrava convinta di essere l’unica ad agire bene in città. E poi la nuova squadra del Taranto è improvvisata, ha prospettive abbastanza nere: non si vincono le partite solo col blasone e col nome di una squadra che è stata dodici anni di fila in B. Questo è indubbiamente un tratto comune fra calcio e industria”, dice al Foglio. “E poi l’Ilva, la squadra e la città hanno un nesso originario, una specie di maledizione: è come se il tarantino dovesse sempre pagare un conto più salato degli altri per quello che ottiene. Il presidente del Taranto che ha investito di più è lo stesso che l’ha portato al fallimento. Per cinquant’anni l’industrializzazione ha arrecato una specie di benessere però inscindibile dall’inquinamento. Entusiasmo e declino simultanei sembrano scritti nel destino della città e sono legati a un immobilismo, questo sì molto tarantino, che trascina con sé l’assenza di coesione”. La storia recente ha dunque fatto di Taranto una città contraddittoria, dai facili entusiasmi e dagli altrettanto facili scoramenti. Nel suo romanzo Pavone narra la parabola di Luis Cristaldi, il campione più forte della Serie A che fa voto di giocare una stagione in riva allo Ionio. La città intera gli si affida ciecamente, tanto che qualcuno scrive su un muro: “Cristaldi fa’ tu”; ma quando le cose volgono al peggio, una mano anonima trasforma la scritta in “Cristaldi fangù”. Chissà se può valere anche come metafora per l’Ilva. Pavone, se non altro, intravede una nota di speranza, ritenendo che l’affaire giudiziario possa paradossalmente ricompattare la città: “La spaccatura maggiore in realtà è fra chi tifa per la chiusura e chi invece crede che lavoro e ambiente possano essere conciliabili. Ormai però quasi tutti i tarantini sono consapevoli che stavolta o si vince o si perde tutti insieme”. Vedremo.

Appunto. E di cosa dovrebbero tener conto i tarantini se per decenni nessuno ha osato fermare lo scempio ambientale chiudendo occhi, turandosi il naso e tappandosi le orecchie? Oggi non esiste neppure una giunta comunale in carica degna di tale nome (stendiamo un velo pietoso) e il Consiglio è un’arma spuntata. Il 12 luglio del 1982 un giovane pretore, il dott.Franco Sebastio, condannò il vertice dell’Italsider per getto di polveri; anche l’allora sindaco Cannata ritirò la costituzione di parte civile del Comune (toh!); successivamente ci furono altre cinque sentenze penali tutte con condanne definitive: questi sono i fatti.

Sono passati 30 anni: cos’è cambiato? Niente. Si veda la questione risarcimento Ilva in virtù della condanna in Cassazione dei vertici del siderurgico, di condanna per reati ambientali del 2005. Lo è soprattutto per ciò che concerne la volontà del Comune di Taranto.

Solo a fine agosto 2012 il dirigente dell’ufficio avvocatura e affari legali del Comune di Taranto, Alessandro De Roma, ha firmato una determina che da una scossa alla vicenda dopo mesi di tentennamenti e di ambigui silenzi da parte dell’organo politico che amministra Palazzo di Città (in primis del sindaco Stefàno). Un passaggio tecnico, nulla più, ma dalla valenza non trascurabile.

Con la determina 377 il Comune ha affidato all’avvocato Angela Maria Buccoliero l’incarico di vagliare come l’ente civico possa inserirsi nell’azione popolare promossa da Nicola Russo. Il responsabile di Taranto Futura, lo scorso 17 febbraio, avviò l’azione legale, dinanzi al tribunale di Taranto, chiedendo al giudice di condannare Emilio Riva e Luigi Capogrosso, rispettivamente amministratore delegato e legale rappresentante dello stabilimento Ilva spa negli anni presi in considerazione dalla condanna del 2005, al risarcimento dei danni subìti dai comuni di Taranto, di Statte e dalla Provincia di Taranto nella misura equitativa di 4 miliardi di euro (ad ente). Nessuna super perizia di parte sul banco del giudice quindi: Russo lasciò al magistrato il compito di indicare la cifra esatta del risarcimento affidandosi eventualmente a esperti indicati dalla stessa Procura. Il compito dell’avvocato Buccoliero adesso è quello di valutare se tale procedimento possa essere inglobato con quello già avviato dall’ente con i provvedimenti dirigenziali 358 e 418 del 2010 attraverso i quali il Comune pose le basi per una ‘autonoma’ richiesta di risarcimento in sede civile. Il percorso che intraprese il Comune fu dettato da un ordine del giorno che, su proposta e pressione del consigliere Mario Laruccia, fu approvato all’unanimità dallo scorso Consiglio Comunale. L’amministrazione, poi, dette mandato ad un esperto per la quantificazione del danno e della relativa richiesta economica. Da allora le dichiarazioni pubbliche del Sindaco sono diventate evasive. E’ giunto ad affermare addirittura che la richiesta risarcitoria è stata superata dalla nuova inchiesta della magistratura per disastro ambientale.

“Chiederemo un risarcimento alla fine di quel procedimento”, ha affermato Stefàno in occasione della conferenza stampa sulla sanità promossa dal Pd. Lo stesso giorno in cui De Roma ha firmato la determina. Più passa il tempo, dunque, e più Ippazio Stefàno appare confuso quando affronta questa tematica. Ciò che è evidente però è il tempo perso. Dopo aver dichiarato di voler procedere in via civile a fine ottobre del 2010, ed aver affidato l’incarico per la perizia, è passato un anno e mezzo di assoluto silenzio amministrativo. Fino allo scorso 17 maggio ed alla firma del dirigente. Viene da pensare che l’Ente si sia mosso ora con urgenza perché la prima udienza dell’azione popolare è prevista per il mese di settembre 2012. Attendere quel giorno senza che il Comune avesse quantomeno espresso una posizione avrebbe rappresentato un silenzio difficile da spiegare a chi guarda a Palazzo di Città per ottenere giustizia. Probabilmente il Comune, inserendosi nel procedimento in sostituzione di Nicola Russo, così come prevede la legge, ingloberà la perizia tecnica che da tempo a Palazzo di Città dicono essere pronta ma che non è stata ancora depositata (o perlomeno non ne è stata data notizia). I quattro miliardi richiesti in forma equitativa, dunque, potrebbero lasciare spazio ad una richiesta più circostanziata. Nel concreto non dovrebbe cambiare molto in quanto l’ultima parola comunque spetterà al giudice e, dunque, ad esperti nominati dalla Procura.

Non si hanno notizie invece riguardo a cosa voglia fare Angelo Miccoli, il sindaco di Statte. Per quanto riguarda Gianni Florido, invece, bisogna ricordare che a fine 2010, quando fu bloccata la prescrizione, affermò che non avrebbe proceduto con la quantificazione del danno e la causa civile. “Non voglio privare chi verrà dopo di me di uno strumento utile nel rapporto con l’Ilva. Nello stesso tempo procedere ora credo che sarebbe un errore”, affermò il Presidente della Provincia. Non solo. Dalla marcia contro l’inquinamento alla marcia in ordine sparso. Il fronte ambientalista si spacca nel periodo più caldo della vertenza-Ilva. C’è chi chiede prescrizioni più rigide per l’Aia e chi ritiene che l’Autorizzazione integrata ambientale non possa essere concessa a un’azienda sotto sequestro. C’è chi mantiene la linea intransigente e chi utilizza le criticità ambientali di Taranto per fare politica. Chi vuole difendere i bambini dai veleni della fabbrica e chi rivendica la primogenitura delle battaglie in difesa della salute dei cittadini. Chi fonda gruppi su Facebook per sostenere il gip che ha sequestrato gli impianti e chi sogna l’ecocompatibilità. I malumori covavano sotto la cenere da tempo. Poi è uscito allo scoperto Fabio Matacchiera, leader del Fondo Antidiossina onlus e già presidente dell’associazione ambientalista “Caretta Caretta”, che ha sostenuto durante la campagna elettorale per le amministrative il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, ma ora torna «lupo solitario». Il presidente del Fondo Antidiossina Taranto Onlus, Fabio Matacchiera: «Lascio Bonelli con stima ed amicizia, ma prendo le dovute distanze da Altamarea. Mi duole riscontrare che anche lo stesso movimento di Altamarea, non aderisce più alla linea di chiusura dell’area a caldo e al fermo della produzione, deciso anche dalla Procura che, invece, io ho sempre fortemente sostenuto con chiarezza e determinazione, senza cambiamenti di posizione, riguardo questo fondamentale aspetto. Ragionamento analogo vale per Legambiente che non ha mai sostenuto chiaramente la chiusura della cokeria di Taranto (e tanto meno dell’area a caldo), mentre a Genova Legambiente si è schierata per la chiusura. Infine – ha concluso Matacchiera – sottolineo la mia stretta vicinanza all’amico e collega Alessandro Marescotti di Peacelink con il quale ho sempre condiviso e continuerò a condividere intenti e battaglie».

Ambientalisti come quelli di Manduria.

Ma gli ambientalisti Manduriani non sono mafiosi? Ecco il testo completo dell’intervista rilasciata da Niki Vendola al giornalista Francesco Greco del Giornale di Puglia.

D. A Manduria e Sava la accusano di permettere di scaricare a mare le acque non potabilizzate, la fogna nera…

R. “Ci dovrebbero ringraziare perchè potremmo vietare la balneazione su quel litorale. A Manduria c’è la peggiore classe politica che si conosca, non solo, ma c’è anche una sintesi fra ambientalisti e criminalità organizzata. Le altre Regioni hanno i fiumi dove scaricano quelle acque, noi non ne abbiamo: dove dovremmo farle convergere?”.

Poi la rettifica che il direttore responsabile del giornale telematico si è affrettato a render pubblica ha, solo in parte, ristabilito la calma: «La presunta dichiarazione del presidente Vendola non corrisponde alle reali dichiarazioni rese». Certo è che le circostanze impongono una certa rettifica da parte del direttore, ove l'autore rimanga silente. Fa nulla che ci siano o meno le prove del Vendola-pensiero.

Le querele promesse, la ritrattazione delle dichiarazioni e cosa più importante: chi si metterebbe contro il potere ed il carisma del presidente Vendola?

Sempre a proposito di Manduria. Un proverbio cinese recita "siediti sulla sponda del fiume ed aspetta che passi il cadavere del tuo nemico".

Che dire delle denunce contro gli amministratori di Manduria.

Denunce archiviate dalla Procura di Taranto. Denunce presentate contro l’abbandono della zona costiera e la distrazione dei proventi ici e oneri concessori e contro il concorso truccato di comandante dei vigili urbani con coinvolgimento prefettizio e contro il mancato rilascio della ricevuta da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria per gli atti consegnati a mano?

Che dire dell’assegnazione e gestione dei beni confiscati alla mafia con coinvolgimento prefettizio, chiaramente favorente “Libera” non iscritta a Taranto e discriminante nei confronti dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio nazionale con sede ad Avetrana?

Bene. Quel cadavere sta passando sotto gli occhi di tutti ed ha molti colori: politici si intende!

Intanto ciò che appare è chi è causa del suo mal pianga sè stesso.

Questo assioma, però è riferito a Taranto. Conclusa la tornata elettorale del 6 e 7 maggio 2012, analizzando i risultati usciti dalle urne a Taranto si possono trarre le seguenti considerazioni:

il 70,58% degli elettori di Taranto non riconosce Ippazio Stefano sindaco della città;

nei quartieri Tamburi, Città vecchia e Borgo vi è stato un maggiore astensionismo, probabilmente anche a causa di una più alta presenza di anziani. Ciò dovrebbe far riflettere che forse organizzare un servizio di accompagnamento ai seggi elettorali convincerebbe e aiuterebbe questi cittadini ad esprimere il proprio voto per chi deve amministrare la città;

il peso sempre maggiore che i quartieri periferici Paolo VI e Lama/Talsano/San Vito vanno assumendo rende necessario per chi intende proporsi a guida della città un’attenzione maggiore per la soluzione dei loro problemi. Sarebbe comunque utile fermare questa espansione verso le periferie che comportano dei costi sempre più crescenti per l’amministrazione comunale e per le aziende municipalizzate ad essa collegata;

la perdita di consensi dei partiti politici (il più suffragato rappresenta appena l’8,8% degli elettori). Si pensi che i vecchi partiti: “Democrazia Cristiana e Partito Comunista” insieme sommavano quasi l’80% dei consensi;

l’eccessivo numero di liste e conseguentemente di candidati denota come la società tarantina sia frammentata e molto individualista.

Questo è l’aspetto più negativo emerso dal voto e sul quale bisogna fare un serio esame. Taranto deve crescere come comunità, favorendo una cultura associativa capace di fare sistema;

i cittadini di Taranto non hanno premiato i movimenti ambientalisti. La certezza del pane ha prevalso su ogni altra considerazione. Ma sul tema dell’ambiente la guardia di tutti i cittadini deve essere altissima. Ricordiamoci di quello che è successo in passato in altre zone dell’Italia (Casal Monferrato – fabbrica Eternit) dove le polveri di amianto, la cui nocività, in un primo tempo sottovalutata, ha prodotto la morte di tanti lavoratori e abitanti del paese. E’ indispensabile che la cittadinanza prenda coscienza che Taranto deve cominciare da subito a diversificare la propria economia con lo scopo in un futuro non molto lontano di potersi affrancare dalla grande industria inquinante.

Il panorama ambientalista di Taranto è variegato ed appare come una galassia di individualità che si arrogano una sorta di primogenitura composto da diversi ambientalisti di diverse realtà. A Taranto il voto, che ha portato all’exploit della galassia ambientalista ascesa al 7.60 per cento dall’1.95 di cinque anni prima della federazione dei Verdi, è quindi in parte inquinato. In virtù dei 7241 voti guadagnati come raggruppamento di liste, gli ecologisti saranno presenti nel prossimo consiglio comunale con tre consiglieri, Bonelli compreso. Il candidato sindaco, Bonelli, ha sovrastato le sue liste raccogliendo sul piano personale 12.277 consensi, a dimostrazione che migliaia di tarantini hanno preferito altri gruppi, ma hanno coagulato sul suo nome il voto d’opinione.

Nell'estate 2012, durante la sospensione delle udienze riguardanti il processo sul delitto di Sarah Scazzi, i fari mediatici sono stati puntati sul caso ILVA. Di ripiego, come per colmare un buco. E’ come la pubblicità che interrompe un film, anche se di tutt’altra importanza per le sorti del territorio. Ma anche questo serve a far capire il sistema giustizia a Taranto.

Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” ci ricorda che accadde tutto, anzi di tutto, il 26 agosto 2010. L’omicidio di Sarah Scazzi. L’incendio doloso a Castellaneta in cui persero la vita un uomo e la sua figlioletta di 5 anni. La visita al sostituto procuratore Mariano Buccoliero, di turno quel giorno, di due dei tre periti incaricati di verificare, su incarico del magistrato, da dove provenga la diossina che ha avvelenato migliaia di capi di bestiame. Il professor Lorenzo Liberti, indagato a piede libero assieme a tre dirigenti Ilva per corruzione in atti giudiziari, e il dottor Roberto Primerano, consulente della Procura al pari di Liberti, il 26 agosto del 2010, seguiti dalla Guardia di Finanza, si incontrano in un bar nei pressi di Palazzo di giustizia prima di far visita al dottor Buccoliero. I finanzieri, nell’ambito dell’indagine denominata «Ambiente venduto», ascoltano il colloquio dei due. Primerano dice a Liberti di non essere convinto riguardo ai parametri utilizzati per i valori del Pcb e della diossina. Liberti, però, vuole agire in fretta. La richiesta di incidente probatorio presentata dalla Procura alla fine di giugno 2010 lo preoccupa, perché teme che gli inquirenti abbiamo deciso di agire con la formula dell’incidente probatorio in quanto non si fidano più dei tre consulenti incaricati di fare la perizia.

L’esplosione del caso Scazzi tranquillizza i tre periti. In una telefonata del 19 ottobre 2010, a quattro giorni dall’arresto di Sabrina Misseri, il professor Liberti, riferendosi alla Procura, dice «loro per adesso sono impegnati con la vicenda di Avetrana» e dunque non c’è alcun motivo di preoccupazione. Se sembra ormai destinata a non riservare ulteriori scossoni l’inchiesta sull’episodio di corruzione in atti giudiziari, per i quali sono indagati il professor Lorenzo Liberti, il vicepresidente del gruppo Riva Fabio Riva, l’ex direttore dello stabilimento Ilva Luigi Capogrosso e l’ex consulente Girolamo Archinà, l’uomo che avrebbe materialmente consegnato una busta bianca contenente 10mila euro a Liberti (il docente ha sempre respinto ogni addebito e la stessa Ilva sostiene che i soldi di cui si parla in alcune telefonate erano in realtà destinati alla diocesi di Taranto per la Pasqua 2010), c’è attesa per il troncone principale di «Ambiente venduto», indagine di cui è titolare il Pm Remo Epifani e che vedrebbe iscritti nel registro degli indagati una ventina tra politici e funzionari di enti pubblici, con reati ipotizzati molto gravi che vanno dall’associazione a delinquere alla corruzione, passando per la concussione. Sono state fissate le date dell’incidente di esecuzione (28 agosto) e delle udienze dei due ricorsi al Tribunale dell’appello (18 settembre) chiesti dall’Ilva riguardo ai provvedimenti del gip Patrizia Todisco relativi alla ridefinizione dei compiti dei custodi giudiziari e della revoca del presidente Bruno Ferrante proprio dal ruolo di custode. Con l’incidente di esecuzione, i legali dell’Ilva chiedono al Tribunale del Riesame (presidente Pietro Genoviva, giudici Paola Morelli e Filippo Di Todaro) quale titolo prevalga, se appunto quello del Riesame che nominava Ferrante, o quello del gip Todisco che lo ha revocato.

E giù la città di Taranto a sostenere la Todisco che vuol chiudere l’ILVA. Città di Taranto che non vede di buon occhio quella fabbrica che inquina e che dà lavoro perlopiù ai ragazzi provenienti dai paesi della provincia. Forse fatti entrare nel siderurgico proprio su spinta di politici e parlamentari non certo della città di Taranto. Taranto, la cui caratura e rappresentanza politica è pari a zero, però viene zittita. Quella Taranto che veniva foraggiata da regalie di ogni tipo.

C’è la banda di Crispiano e la parrocchia Santi Angeli Custodi di Taranto. Il Lions club di Taranto e il Politecnico di Bari. Tutti inseriti, insieme a società sportive, comitati festeggiamenti ma anche due note enoteche dalle quali partivano casse di champagne per giornalisti e rappresentanti delle istituzioni ogni fine anno, nelle due pagine della voce «omaggi e regalie» del bilancio dell’Ilva finite nell’inchiesta della Guardia di Finanza per corruzione in atti giudiziari che vede indagati a piede libero il vicepresidente del gruppo, Fabio Riva; l’ex direttore dello stabilimento siderurgico, Luigi Capogrosso; l’ex consulente dell’Ilva per l’ecologia e i rapporti istituzionali, Girolamo Archinà e l’ex consulente della Procura di Taranto, Lorenzo Liberti, già preside del Politecnico. Due pagine, ottanta righe, spiega Giusi Fasano su “Il Corriere della Sera”. Ogni riga una data, un nome e una cifra. C'è la parrocchia dei Santissimi Angeli Custodi (2.500 euro il 19 ottobre 2010), c'è l'Unione italiana per il trasporto degli ammalati a Lourdes (5.000 euro il 23 luglio 2010), compare la Banda municipale del Comune di Crispiano (2.750 euro, il 31 dicembre del 2010), il Lions Club locale (2.500 euro il 15 giugno del 2011), piccole società sportive come la Okinawa karate (4.000 euro il 31 maggio 2011) o la Triton Taranto che si occupa di football (2.000 euro il 30 giugno 2011) o un'associazione tarantina di pattinatori (2.000 euro il 31 luglio del 2011). E poi società per azioni, aziende informatiche, il Politecnico di Bari, centri culturali, un comitato per un non meglio precisato festeggiamento, anche un omaggio floreale da 50 euro, il 5 aprile del 2011. Eccola qui la lista Ilva degli «omaggi e regalie» 2010-2011. Soldi regalati a questo o quello oppure spesi per comprare pacchi dono. Gesti che non comportano alcun reato, ma che secondo la Guardia di finanza indicano quanto elevato fosse il budget a disposizione di Girolamo Archinà, il capo delle relazioni pubbliche dell'azienda accusato di fare pressioni sulle istituzioni per favorire in ogni modo l'acciaieria. E la lista indica anche quanto estesa fosse la rete di contatti «sociali» dell'Ilva nel territorio.

Contatti non solo locali, però. “Emilio Riva è il proprietario dell’Ilva, la fabbrica che da anni avvelena Taranto senza che la politica nazionale muova un dito per proteggere i cittadini e far rispettare la legge. Sarà una coincidenza, ma Emilio Riva è anche un grande finanziatore della politica. Uno di quelli che non fanno preferenze e foraggiano un po’ tutti, meno noi dell’Italia dei Valori che non accettiamo finanziamenti dai privati: un miliardo a destra, uno a sinistra e nessuno s’ingrugna”.

E’ quanto scrive sul suo blog il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro. “Mentre appestava il mare, l’aria e la terra di Taranto, Riva donava 245mila euro a Forza Italia e 98mila non al Pd, che allora ancora non esisteva, né ai Ds, ma al futuro ministro dello Sviluppo Economico e futuro segretario del Pd, Pierluigi Bersani. Si trattava di finanziamenti leciti e del tutto regolari. Ma, che il signor Riva, un tipo accorto e ben attento al proprio portafogli, abbia cacciato tutti quei soldi gratis et amore Dei non lo crederebbe nemmeno un bambino: lo scopo era riceverne regalie. Riva si è fatto bene i suoi conti. Ha capito che avrebbe risparmiato milioni di euro intervenendo sul sistema e rendendoselo amico con il denaro, piuttosto che mettendo in sicurezza i suoi impianti e bonificando l’ambiente che aveva inquinato”.

Quella Taranto che per 40 anni ha taciuto ed ora protesta.

Un’enorme zona rossa. Inavvicinabile. Come al G8 di Genova.

Sì, Taranto il 17 agosto 2012 sarà una città blindata. Chiusa. Una città in cui sarà di fatto impossibile manifestare e tanto meno sfilare in corteo. A stabilirlo è stato il questore di Taranto, Enzo Mangini, che ha fatto notificare dagli agenti della Digos un provvedimento con il quale viene di fatto annullata la manifestazione promossa e organizzata dal «Comitato cittadini lavoratori liberi e pensanti», lo stesso che lunedì 13 agosto aveva radunato in piazza della Vittoria un migliaio di persone per sostenere l’azione dei magistrati tarantini e in particolare della dottoressa Patrizia Todisco, il gip del Tribunale che a fine luglio ha ordinato il sequestro preventivo dell’area a caldo dell’Ilva; lo stesso comitato che aveva chiesto di poter sfilare in corteo (da piazza Municipio sino alla Prefettura) nella giornata del 17 agosto, quando a Taranto è previsto l’arrivo dei ministri Corrado Passera (Sviluppo economico) e Corrado Clini (Ambiente). Clini ha osservato che «a Taranto c’è un conflitto interno alla magistratura, visto che il Tar aveva valutato troppo severe le indicazioni dell’autorizzazione integrata ambientale, mentre il gip le ha considerate inadeguate».  Ancora più dura è la posizione dell’ILVA.

Il gip di Taranto Patrizia Todisco - secondo l’Ilva - ha usurpato poteri propri del tribunale del Riesame e della procura della Repubblica. Lo ha fatto per ben due volte firmando le ordinanze del 10 e 11 agosto. Con la prima ha ordinato all’Ilva di fermare la produzione nei sei reparti a caldo sequestrati il 26 luglio; con l’altra ha revocato al presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante, l’incarico di custode e amministratore delle aree sotto sequestro affidatogli dai giudici del Riesame quattro giorni prima.  A mettere nero su bianco le dure accuse al giudice Todisco è proprio il presidente del Siderurgico tarantino nei due appelli che egli stesso ha firmato e che ha voluto depositare personalmente nella cancelleria del tribunale del Riesame, assistito all’avv. Egidio Albanese. Il tribunale del riesame con le motivazioni ha confermato il sequestro degli impianti a caldo dell'Ilva, ma non la cessazione dell’attività. Il Riesame non ha concesso la facoltà d'uso, che peraltro - viene sottolineato - non era stata richiesta neppure dai legali del Siderurgico. Inoltre, dispone che «non si continuino a perpetrare i reati contestati nel provvedimento cautelare» e che si elimini «la fonte delle emissioni inquinanti» per «mantenere l'attività produttiva dello stabilimento», solo dopo averla resa «compatibile» con ambiente e salute. Secondo i giudici il «disastro» prodotto dall'Ilva è stato «determinato nel corso degli anni, sino ad oggi, attraverso una costante reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti». Questi «hanno continuato a produrre massicciamente nella inosservanza delle norme di sicurezza dettate dalla legge e di quelle prescritte, nello specifico dai provvedimenti autorizzativi». In un'altra parte del loro provvedimento i giudici del Riesame, sullo stesso tema, annotano: «Dalle varie parti dello stabilimento vengono generate emissioni diffuse e fuggitive non adeguatamente quantificate, in modo sostanzialmente incontrollato e in violazione dei precisi obblighi assunti dall'Ilva, nella stessa Aia e nei predetti atti d'intesa, volti a limitare e ridurre la fuoriuscita di polveri e inquinanti». Il disastro ambientale doloso prodotto dall'Ilva - prosegue il teso - è «ancora in atto» e «potrà essere rimosso solo con imponenti e onerose misure d'intervento, la cui adozione, non più procrastinabile, porterà all'eliminazione del danno in atto e delle ulteriori conseguenze dannose del reato in tempi molto lunghi». «Lo spegnimento degli impianti - proseguono i giudici - rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili. Non è compito del tribunale stabilire se e come occorra intervenire nel ciclo produttivo (con i consequenziali costi di investimento) o, semplicemente, se occorra fermare gli impianti, trattandosi di decisione che dovrà necessariamente essere assunta sulla base delle risoluzioni tecniche dei custodi-amministratori, vagliate dall'autorità giudiziaria: per questo lo spegnimento degli impianti rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili».

Mentre gli ambientalisti che si battono per la chiusura dello stabilimento, la pensano in modo diverso, anche travisando le parole. «Le motivazioni del Riesame - è scritto in una nota firmata da Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink Taranto, e Fabio Matacchiera, del Fondo Antidiossina Taranto Onlus - sono chiarissime: la produzione dell'Ilva va fermata perché è un pericolo per la salute. È esattamente quanto sostenevamo noi. Non era difficile interpretare il testo in italiano del dispositivo del tribunale del Riesame. E, tuttavia, da parte di Vendola e di Clini, vi era un susseguirsi di dichiarazioni forse fatte appositamente per confondere le acque. Sembrava che non volessero capire». L'Autorizzazione integrata ambientale, affermano ancora gli ambientalisti, «andrà rilasciata a impianti fermi e adottando solo le migliori tecnologie, sempre per chi nutra ancora la speranza, per noi a questo punto vana, considerando che un impianto di siffatte dimensioni e vicinanza alla città, possa essere mai ecocompatibile». Ambientalisti uniti nell'intento di far chiudere l'ILVA.

Antonio Giangrande, scrittore che proprio su Taranto ha scritto un libro su questioni che nessuno osa affrontare e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” sodalizio nazionale antiracket ed antiusura che proprio a Taranto ha la sua sede legale, si chiede perché i magistrati, i partiti di sinistra, gli ambientalisti ed i cittadini di Taranto tutti a difendere il Gip Patrizia Todisco, che ha adottato atti a rischio di abnormità, e nessuno difende le prerogative violate del Tribunale del Riesame composto dal presidente Antonio Morelli, che è anche presidente del tribunale di Taranto, e dai giudici a latere Rita Romano e Benedetto Ruberto? Tribunale del Riesame che sembra apparire un optional nel caso ILVA e non un organo sovraordinato per legge a giudicare merito e legittimità delle decisione del Gip?

«Il collegio del riesame non ha bisogno di essere difeso, tantomeno da me – dice il dr Antonio Giangrande – che dovrei essere l’ultimo a farlo per grave inimicizia con i suoi componenti. Ma sembra che sia proprio costretto a farlo.  Il Gip di Taranto Patrizia Todisco, il 10 e l'11 agosto 2012, ha, rispettivamente, ribadito il sequestro degli impianti e revocato la nomina di Bruno Ferrante a curatore dello stabilimento disposta dal Tribunale del riesame. Nel mirino c'è soprattutto il secondo provvedimento che sembra avere profili di «abnormità» sia perché è stato preso d'ufficio – mentre il Gip può intervenire soltanto su richiesta – sia perché sancisce l'incompatibilità tra la posizione di custode e quella di amministratore che il Tribunale aveva conferito a Ferrante il 7 agosto e che la Todisco ha revocato senza aspettare le motivazioni del Riesame. Da questo punto di vista, anche il primo provvedimento potrebbe essere considerato intempestivo perché interpreta la decisione del Riesame solo sulla base del dispositivo, senza conoscerne ancora le motivazioni. Gli errori interpretativi possono essere impugnati e, in caso di provvedimenti abnormi, si può ricorrere direttamente in Cassazione. Perché questa alzata di scudi a favore della Todisco? In ogni caso, la Todisco ha incassato solidarietà e stima da molti suoi colleghi e dall'Anm, che l'ha difesa ad oltranza. Non solo. Anche alcuni membri del CSM hanno promosso un’azione di tutela a favore della Todisco. Una richiesta di pratica a tutela del giudice per le indagini preliminari di Taranto, Patrizia Todisco è stata presentata dai componenti del Consiglio superiore della magistratura: Guido Calvi, Paolo Carfì e Francesco Vigorito. Il primo, membro laico del Pd e gli altri due, togati di Area (il cartello di Magistratura democratica e Movimenti per la Giustizia).

Così racconta Antonella Mascali per “Il Fatto”. Palazzo dei Marescialli è chiuso per ferie, ma i tre consiglieri si sono sentiti al telefono, hanno commentato le reazioni scomposte che si sono susseguite dopo che la giudice ha confermato la chiusura degli impianti dell'Ilva, e ha destituito il presidente, Bruno Ferrante da custode dell'area sotto sequestro, e hanno deciso di inviare una richiesta di pratica a tutela al Comitato di presidenza del Csm. Nella breve lettera fanno riferimento a una "campagna stampa" dai toni "lesivi del prestigio della magistratura e dell'indipendenza...tali da determinare turbamento alla credibilità della funzione giudiziaria".

Nella richiesta non c'è un riferimento specifico a quali giornali si riferiscano, ma il primo pensiero va al titolo apparso sul sito del quotidiano Libero, il 13 agosto: "Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa (per i capelli) che licenzia 11 mila operai Ilva". Anche Il Giornale se l'è presa con la magistratura: "Le toghe si accaniscono. Produzione ferma all'Ilva ma l'azienda fa ricorso". Nelle mailing list dei magistrati ogni giorno si possono leggere decine di messaggi in solidarietà con la giudice. Proprio in merito al titolo di Libero, un magistrato (uomo) ha scritto: " In questo momento di crisi economica , di disoccupazione, di famiglie disperate e di suicidi, è un insulto ignobile, volgare e pericoloso". E un altro magistrato (donna): "se il gip di Taranto fosse stato uomo non avrebbero certamente fatto riferimento alla stato civile del giudice. Ed invece, oltre ad esserci il riferimento, lo stato é tradotto in un'accezione, secondo alcuni, offensiva: zitella. Perché una donna, sopratutto se non giovanissima, é zitella, non ‘single'. Purtroppo é il quid pluris che accompagna noi donne se svolgiamo un ruolo ‘non tradizionale'". Nella richiesta al Comitato di presidenza del Csm, che da prassi è sempre generica (a settembre 2012 entrerà nel merito la competente Prima commissione) non ci sono riferimenti alle prese di posizione del governo di questi giorni. Palazzo Chigi ha paventato un ricorso alla Corte costituzionale e un decreto legge, pur di neutralizzare l'ordinanza del gip Todisco. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà, il 13 agosto 2012, ha dato voce all'intenzione del governo di sollevare un conflitto davanti alla Corte costituzionale: "alcune volte queste sentenze non sembrano proporzionate rispetto al fine legittimo che vogliono perseguire e quindi noi chiederemo alla Corte costituzionale di verificare se non sia stato menomato un nostro potere: il potere di fare politica industriale". In contemporanea, il ministro della Giustizia, Paola Severino ha chiesto le carte del gip, ravvisando una possibile "abnormità". Ma sia il ricorso alla Consulta sia il decreto legge, di cui si è vociferato immediatamente dopo le decisioni di Todisco sono tramontati. Anche se il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, da Taranto ha addossato ai magistrati una responsabilità che è della politica: "si convinca la magistratura ad aiutare il processo di ammodernamento dell'Ilva, in modo tale che l'azienda sia totalmente in linea con le regole, ma che questo non porti alla chiusura dello stabilimento. In una fase così iniziale della procedura giudiziaria sarebbe per noi sbagliato che venissero prese delle decisioni, quelle sì irreversibili, che potrebbero causare un danno non più recuperabile...". L'associazione nazionale magistrati ha difeso Patrizia Todisco dalle accuse dell'esecutivo di aver travalicato i confini: "la magistratura non intende invadere l'ambito di competenza di altre autorità, ma, in presenza di violazioni della legge penale, non può fare a meno di intervenire, con gli strumenti giudiziari ordinari, ove gli organi amministrativi di controllo non siano riusciti ad assicurare negli anni la tutela ambientale, con gravissimo rischio per la salute dei cittadini". Colleghi, membri del CSM ed ANM che non ha avuto lo stesso atteggiamento con i magistrati del Tribunale riesame. Nessuna parola in loro favore. Nonostante per i giudici Genoviva, Di Todaro e Di Roma, del tribunale di Taranto, è ovvio che le decisioni del tribunale del Riesame prevalgano sui provvedimenti del gip Patrizia Todisco. Per questo motivo, i decreti del 10 ed 11 agosto 2012, con cui veniva revocata la nomina a custode giudiziario di Bruno Ferrante, sono stati annullati perché "inefficaci". I tre magistrati tarantini nel giro di poche ore hanno accolto il ricorso presentato dai legali di Ilva e reintegrato il presidente Bruno Ferrante fra i custodi giudiziari precisando che è la procura ionica, non il gip, che deve dare esecuzione e stabilire le modalità del sequestro in conformità con quanto stabilito il 7 agosto dai giudici del Riesame. Il provvedimento dei tre giudici è arrivato il 28 agosto poche ore dopo la discussione anche in ragione di "evidente urgenza di dirimere la questione per le intuibili, gravi e presumibilmente irreparabili conseguenze che una viziata esecuzione del sequestro giudiziario potrebbe comportare in ordine alla salvaguardia degli impianti e della strategica capacità produttiva dell'azienda, nonché ai livelli occupazionali ed alle stesse finalità di tutela dell`ambiente e della salute pubblica poste a base della disposta misura cautelare". Nel dispositivo di due pagine, i giudici sottolineano il cambio di rotta del Riesame che, pur confermando il sequestro senza facoltà d'uso, nominando Ferrante custode giudiziario, hanno anche rimosso la disposizione di immediato avvio delle "procedure tecniche e di sicurezza per il blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento degli impianti" indicando ai custodi invece di garantire la sicurezza degli impianti e di utilizzarli "in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti". Tutto comincia il 25 luglio, con il sequestro firmato appunto dal Gip Todisco a cui segue, il 7 agosto, la decisione del Tribunale del riesame: i giudici Antonio Morelli, Rita Romano e Benedetto Ruberto, «in parziale modifica del decreto di sequestro preventivo», nominano «custode e amministratore delle aree e degli impianti sequestrati» anche il presidente dell'Ilva Ferrante, revocando Mario Tagarelli nominato in precedenza dalla Todisco. Poi dispongono che «i custodi garantiscano la sicurezza degli impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e dell'attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti». Fine. A molti viene il dubbio se, con queste parole, il Tribunale abbia confermato il blocco degli impianti oppure no, consentendolo solo per la messa in sicurezza dell'Ilva. Bisogna attendere il deposito delle motivazioni. Ma il 10 agosto, a seguito di una richiesta di direttive e indicazioni dei custodi, il Gip dà la sua interpretazione: non è prevista «alcuna facoltà d'uso degli impianti a fini produttivi». Quanto a Ferrante, ne ridimensiona i poteri di custode-amministratore conferitigli dal Tribunale e lo indica come «datore di lavoro» ai sensi della legge sulla sicurezza sul lavoro. A quel punto, un'agenzia Ansa dell'11 agosto, alle 16,43 riferisce che Ferrante «impugnerà immediatamente» il provvedimento. Il Gip la legge, va in ufficio, accende il computer e scrive che «le circostanze rendono manifesta l'incompatibilità del presidente del Cda con l'ufficio pubblico di custode e amministratore delle aree e degli impianti» dell'Ilva sottoposti a sequestro preventivo «stante il palese conflitto tra gli interessi» di cui Ferrante è portatore, in quanto amministratore e legale rappresentante dell'azienda, «e gli obblighi gravanti sui custodi e amministratori dei beni in sequestro». Gli revoca la nomina e rimette Tagarelli, cioè rovescia la decisione del Riesame, senza aspettare di leggerne le motivazioni. Senza prender posizione sul merito, ma a fil di diritto perché nessuno difende il tribunale del Riesame che sembra apparire un optional nel caso ILVA e non un organo sovraordinato per legge a giudicare merito e legittimità delle decisione del Gip? Decisioni del Tribunale del Riesame che possono essere impugnati e riesaminate solo dalla Corte di Cassazione.»

ILVA. LA GRANDE TRUFFA. TARANTO, IN CHE MANI SIAMO MESSI. A QUALI MAGISTRATI CREDERE?

Tutto l’ambaradan per avere i soldi dallo Stato ed i magistrati lì a fare la figura delle comparse. 336 milioni di euro stanziati dal Governo per risanare l’ambiente al posto dell’ILVA. I Riva,  proprietari dell’ILVA,  si dimettono dalla guida dell’azienda (Nicola, forse informato degli sviluppi dell’inchiesta penale, si dimette  a pochi giorni dal sequestro e dal suo arresto)e nominano un ex alto funzionario statale, l’ex prefetto di Milano, Bruno Ferrante, come garanzia di tutela istituzionale.

SI E’ DALLA PARTE DELLA MAGISTRATURA, SI’, MA QUALE?

SI E’ CON LA PROCURA CHE CHIEDE LA CHIUSURA DELL’ILVA?

SI E’ CON IL GIUDICE DELLE INDAGINI PRELIMINARI CHE NE DISPONE LA CHIUSURA?

SI E’ CON IL COLLEGIO DEL RIESAME CHE SOLO PER LEGGE HA L’ULTIMA PAROLA NEL MERITO E LASCIA TUTTO COME E’ STATO PER 40 ANNI?

LA DIFFERENZA CON IL PROVVEDIMENTO DEL GIP - Secondo quanto disponeva il gip Patrizia Todisco su richiesta della procura, i tecnici erano incaricati di «avviare le procedure per il blocco delle specifiche lavorazioni e per lo spegnimento». «I custodi - dispone invece il tribunale del riesame - garantiscano la sicurezza degli impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti». E, per rafforzare questa disposizione, il tribunale nomina custode giudiziario proprio il massimo rappresentante Ilva, Bruno Ferrante.

Al di la dei commenti di circostanza di politici e giornalisti (quelli con la lingua tagliata…) che volutamente evitano la polemica, vorrei analizzare da tecnico gli atti che sono stati prodotti sul caso ILVA  - dice il dr Antonio Giangrande, scrittore e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. - La ragion di Stato vuole che l’ILVA continui a produrre acciaio, tributi erariali e contributi INPS. Per questo il Ministro dell’economia Corrado Passera: "E' necessario evitare la chiusura dell'Ilva perché se si spengono quegli impianti, non si accendono più". Bruno Ferrante aveva espresso in Commissione rifiuti in Parlamento tutti i suoi dubbi sulla decisione relativa all'Ilva, sottolineando come da Taranto dipendano anche le sorti dei due stabilimenti di Novi e Genova. Anche il Ministro Corrado Clini si è sbilanciato in tal senso. “La parte offesa è l’ambiente, e chi lo rappresenta e dovrebbe tutelarlo é il ministro. Ministero, Regione, Provincia e Comune sono parti lese, che noi ci auguriamo di ritrovare dalla nostra parte nel processo”. Così si esprimeva esattamente il procuratore generale presso la Corte di Appello di Lecce, Giuseppe Vignola, in occasione della conferenza stampa presso il comando provinciale dei carabinieri a Taranto, il giorno dopo l’emissione dei provvedimenti del GIP Patrizia Todisco.

Le motivazioni di tali affermazioni, trovavano spunto in una delle tante uscite folkloristiche del ministro all’Ambiente Corrado Clini, che poche ora prima aveva affermato quanto segue: “chiederò che il provvedimento di riesame avvenga con la massima urgenza”. Ignorando, tra l’altro, il fatto che non ha alcun potere per fare una cosa del genere. Ma il ministro dell’Ambiente Clini continua ancora oggi, pervicacemente, ad insistere sulla strada della difesa delle attività del siderurgico, esponendosi quasi fosse il ministro dell’Economia o addirittura un avvocato di parte. Dimenticando invece di essere la massima autorità statale in tema di tutela ambientale. Ed enunciando teoremi alquanto risibili. Come ad esempio quando ha affermato che i rischi ambientali riconducibili all’attività dell’Ilva di Taranto, “sono dei decenni passati, mentre è più difficile identificare una correlazione causa-effetto sull’eccesso di mortalità per tumori nell’area con la situazione attuale che, per effetto di leggi regionali e nazionali e misure ad hoc hanno avuto una evoluzione delle tecnologie con significative riduzioni delle emissioni, particolarmente della diossina e delle polveri”. Questo l’incipit del discorso del ministro che alla Camera, ha riferito sulla situazione del siderurgico, finito sotto inchiesta e sotto sequestro dopo i provvedimenti della magistratura tarantina.

Anche i cittadini (poveri illusi) hanno voluto manifestare la loro opinione in contrapposizione agli operai che hanno manifestato per la difesa del posto di lavoro.  In piazza della Vittoria a Taranto un sit-in di sostegno alla magistratura,  mentre in tribunale si discutevano le “sorti” dello stabilimento siderurgico più grande d’Europa. Liberi cittadini, associazioni ed operai, ma anche mitilicoltori ed allevatori, hanno partecipato alla manifestazione organizzata volutamente in concomitanza con l’avvio dell’udienza del Riesame, per mostrare vicinanza e piena solidarietà verso l’azione della magistratura. «Siamo qui con tutti i cittadini e le associazioni di Taranto che in questo momento chiedono vita e salute – spiega Rossella Balestra, coordinatrice del Comitato Donne per Taranto – siamo dalla parte della giustizia. Vogliamo che nessun tipo di interferenza, in questo momento, venga messa in atto nei confronti della magistratura, né di politici, né di sindacati o operai che chiedono solo il diritto al lavoro a prescindere dal diritto alla salute. Siamo cittadini consapevoli ed arrabbiati, disposti a bloccare l’intera città se non verremo ascoltati. Io dico con assoluta forza e certezza che c’è solo un diritto che deve essere salvaguardato, ed è proprio quello della salute. Onore quindi alla magistratura». Il Comitato cittadino Taranto Lider, in vista dell’udienza, ha realizzato un manifesto che campeggia in via Medaglie d’oro angolo via Marche, vicino al tribunale appunto. Difficile non notarlo. Una scritta nera a caratteri cubitali su uno sfondo giallo. Quasi accecante. la frase “Noi siamo con gli operai e fieri della magistratura”.

«Vogliamo dimostrare di esser solidali con la magistratura – spiega Grazia Maremonti in rappresentanza di Taranto Lider – perché è l’unica a voler tutelare la salute dei tarantini. Ritengo che si possano trovare gli strumenti giusti per dare finalmente una svolta a questa città, una svolta doverosa e necessaria. Taranto, sembra una città a vocazione industriale. In realtà la storia della nostra città, dice tutt’altro. Il nostro territorio ha mille altre opportunità culturali ed economiche, dal turismo alla pesca. Le alternative ci sono e bisogna dare nuova linfa vitale a Taranto”. Una manifestazione pacifica, come avevano promesso che fosse. O quasi. Già, perché qualcuno non ha gradito la presenza di Francesco Voccoli. Ex consigliere comunale e “colpevole” di essere un “politico”. Per la cronaca in piazza, di “politici” ce n’erano (legittimamente) anche altri. “Fuori dalla piazza!”, ha urlato la Balestra al megafono ad un certo punto, rivolgendosi indirettamente a Voccoli. Spogliato da mille occhi prima, ed invitato poi, con cori da stadio, ad andarsene ed abbandonare la piazza, l’ex consigliere di rifondazione comunista è stato accerchiato dai cittadini sempre più insistenti e innervositi. Voccoli non ha risposto, ha mantenuto la calma e solo dopo ha lasciato piazza. La manifestazione poi è ripresa regolarmente. Il sunto del messaggio è questo: il comitato Donne per Taranto: “Noi siamo con la magistratura”.

Al conflitto tra politica e magistratura, nella città dell'acciaio si consumano nuove fratture. Da un lato i lavoratori si sono divisi in due blocchi: Cisl e Uil hanno da una parte e, la Fiom dall’altra al grido di "Non attacchiamo i magistrati". Magistrati che in piazza sono stati difesi anche da mille persone del comitato "Cittadini liberi e pensanti" che hanno dedicato un lungo applauso al gip Todisco. Il conflitto tra ambiente e lavoro sta lacerando Taranto in due opposte fazioni.

SI E’ DALLA PARTE DELLA MAGISTRATURA, SI’, MA QUALE?

SI E’ CON LA PROCURA? "E' un'indagine a tutto campo per stabilire una volta per tutte che i morti determinati dagli inquinanti a Taranto, a Brindisi o a Lecce meritano rispetto, lo stesso rispetto, ad esempio, della Thyssen, di Marghera, di Genova. I nostri non sono morti di serie B. Sono persone, operai e cittadini che hanno lo stesso diritto costituzionalmente garantito di vedersi tutelati una volta per tutte". Così il procuratore generale della Corte di Appello di Lecce, Giuseppe Vignola, circa l'inchiesta della magistratura del capoluogo jonico che ha portato al sequestro degli impianti più importanti dello stabilimento siderurgico Ilva: le cokerie, l'agglomerato, la gestione delle aree ferrose, i parchi minerali, gli altiforni e le acciaierie. Le accuse, a vario titolo, sono di disastro ambientale doloso e colposo, getto e sversamento pericoloso di cose, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici. "Quindi - ha aggiunto - la necessità di intervenire con il sequestro nell'ambito dell'incidente probatorio con quella perizia medico-epidemiologica. Ci siamo limitati all'Ilva ma evidentemente questo si estenderà anche ad altre industrie inquinanti: Cementir, Agip o Eni e poi a Brindisi". Inoltre ha sottolineato che "mentre di giorno si rispettavano le prescrizioni imposte, la notte ci si muoveva in maniera diversa", ricordando che "dalla eloquente e impressionante documentazione filmata e fotografica del Noe sul reparto agglomerato" è emerso che di notte "venivano fuori dai camini le nubi contenenti polveri sottili. Questo è un fatto inoppugnabile ripreso fotograficamente. La perizia medico-epidemiologica è stata difficile ma ha dato risultati sui quali non penso si possa avanzare alcun serio dubbio". Infine Vignola si è augurato che presto venga istituito il registro tumori "che chiediamo da tempo" e che e' previsto dalla legge regionale approvata recentemente.

SI E’ CON IL GIUDICE DELLE INDAGINI PRELIMINARI? «La gestione del siderurgico di Taranto è sempre stata caratterizzata da una totale noncuranza dei gravissimi danni che il suo ciclo di lavorazione e produzione provoca all'ambiente e alla salute delle persone». È quanto scrive il gip di Taranto nell'ordinanza di sequestro dell'Ilva di Taranto. «Ancora oggi» gli impianti dell'Ilva producono «emissioni nocive» che, come hanno consentito di verificare gli accertamenti dell'Arpa, sono «oltre i limiti» e hanno «impatti devastanti» sull'ambiente e sulla popolazione. La situazione dell'Ilva «impone l'immediata adozione, a doverosa tutela di beni di rango costituzionale che non ammettono contemperamenti, compromessi o compressioni di sorta quali la salute e la vita umana, del sequestro preventivo. L'imponente dispersione di sostanze nocive nell'ambiente urbanizzato e non - scrive ancora il gip nelle carte - ha cagionato e continua a cagionare non solo un grave pericolo per la salute (pubblica)», ma «addirittura un gravissimo danno per le stesse, danno che si è concretizzato in eventi di malattia e di morte. In tal senso - aggiunge il gip - le conclusioni della perizia medica sono sin troppo chiare. Non solo, anche le concentrazioni di diossina rinvenute nei terreni e negli animali abbattuti costituiscono un grave pericolo per la salute pubblica ove si consideri che tutti gli animali abbattuti erano destinati all'alimentazione umana su scala commerciale e non, ovvero alla produzione di formaggi e latte. Trattasi di un disastro ambientale inteso chiaramente come evento di danno e di pericolo per la pubblica incolumità idoneo ad investire un numero indeterminato di persone». «Non vi sono dubbi sul fatto - conclude - che tale ipotesi criminosa sia caratterizzata dal dolo e non dalla semplice colpa. Invero, la circostanza che il siderurgico fosse terribile fonte di dispersione incontrollata di sostanze nocive per la salute umana e che tale dispersione cagionasse danni importanti alla popolazione era ben nota a tutti. Le sostanze inquinanti erano sia chiaramente cancerogene, ma anche comportanti gravissimi danni cardiovascolari e respiratori. Gli effetti degli Ipa e delle diossine sull'uomo non potevano dirsi sconosciuti». «Chi gestiva e gestisce l'Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza». Lo scrive il gip nel provvedimento di arresto nei confronti dei vertici del siderurgico tarantino.

SI E’ CON IL COLLEGIO DEL RIESAME CHE SOLO PER LEGGE HA L’ULTIMA PAROLA NEL MERITO E LASCIA TUTTO COME E’ STATO PER 40 ANNI? Il collegio del Riesame era formato dal presidente Antonio Morelli, che è anche presidente del tribunale di Taranto, e dai giudici a latere Rita Romano e Benedetto Ruberto.

Sequestro finalizzato alla messa a norma, non alla chiusura. Colpo di scena, giuridicamente (c’è un precedente che riguarda una fabbrica nel Trentino) e soprattutto socio-economicamente prevedibile, nell’inchiesta che il 26 luglio 2012 ha portato all’arresto di 8 tra proprietari e dirigenti dello stabilimento siderurgico Ilva e alla notifica di un decreto di sequestro preventivo firmato dal gip Patrizia Todisco su richiesta del procuratore capo Franco Sebastio, dell’aggiunto Pietro Argentino e dei sostituti Mariano Buccoliero e Giovanna Cannalire. Il tribunale del riesame (presidente Antonio Morelli, giudici Rita Romano e Benedetto Ruberto) ha confermato gli arresti domiciliari per Emilio e Nicola Riva, ex presidenti dell'Ilva, e per l'ex direttore dello stabilimento Luigi Capogrosso ed ha accolto parzialmente il ricorso presentato dal gruppo Riva, annullando gli arresti dei capi-reparto Marco Andelmi, Angelo Cavallo, Ivan Dimaggio, Salvatore De Felice e Salvatore D’Alò, e - soprattutto - ha modificato il decreto di sequestro, revocando la nomina del commercialista Mario Tagarelli e affiancando il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante agli ingegneri Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento (già nominati dal gip Patrizia Todisco), nel compito di custodi e amministratori giudiziari delle aree e degli impianti sottoposti a sequestro. I quattro custodi dovranno garantire la sicurezza degli impianti e utilizzarli in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti. Non c’è più, a differenza di come aveva disposto il gip Patrizia Todisco, il compito di «avviare immediatamente le procedure tecniche e di sicurezza per il blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento degli impianti, sovrintendendo alle operazioni ed assicurandone lo svolgimento nella rigorosa osservanza delle prescrizioni a tutela della sicurezza ed incolumità pubblica e a tutela della integrità degli impianti». Il tribunale del riesame con le motivazioni ha confermato il sequestro degli impianti a caldo dell'Ilva. Il Riesame non ha concesso la facoltà d'uso, che peraltro - viene sottolineato - non era stata richiesta neppure dai legali del Siderurgico. Inoltre, dispone che «non si continuino a perpetrare i reati contestati nel provvedimento cautelare» e che si elimini «la fonte delle emissioni inquinanti» per «mantenere l'attività produttiva dello stabilimento», solo dopo averla resa «compatibile» con ambiente e salute. Secondo i giudici il «disastro» prodotto dall'Ilva è stato «determinato nel corso degli anni, sino ad oggi, attraverso una costante reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti». Questi «hanno continuato a produrre massicciamente nella inosservanza delle norme di sicurezza dettate dalla legge e di quelle prescritte, nello specifico dai provvedimenti autorizzativi». In un'altra parte del loro provvedimento i giudici del Riesame, sullo stesso tema, annotano: «Dalle varie parti dello stabilimento vengono generate emissioni diffuse e fuggitive non adeguatamente quantificate, in modo sostanzialmente incontrollato e in violazione dei precisi obblighi assunti dall'Ilva, nella stessa Aia e nei predetti atti d'intesa, volti a limitare e ridurre la fuoriuscita di polveri e inquinanti». Il disastro ambientale doloso prodotto dall'Ilva - prosegue il teso - è «ancora in atto» e «potrà essere rimosso solo con imponenti e onerose misure d'intervento, la cui adozione, non più procrastinabile, porterà all'eliminazione del danno in atto e delle ulteriori conseguenze dannose del reato in tempi molto lunghi». «Lo spegnimento degli impianti - proseguono i giudici - rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili. Non è compito del tribunale stabilire se e come occorra intervenire nel ciclo produttivo (con i consequenziali costi di investimento) o, semplicemente, se occorra fermare gli impianti, trattandosi di decisione che dovrà necessariamente essere assunta sulla base delle risoluzioni tecniche dei custodi-amministratori, vagliate dall'autorità giudiziaria: per questo lo spegnimento degli impianti rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili».

LA DIFFERENZA CON IL PROVVEDIMENTO DEL GIP - Secondo quanto disponeva il gip Patrizia Todisco su richiesta della procura, i tecnici erano incaricati di «avviare le procedure per il blocco delle specifiche lavorazioni e per lo spegnimento». «I custodi - dispone invece il tribunale del riesame - garantiscano la sicurezza degli impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti». E, per rafforzare questa disposizione, il tribunale nomina custode giudiziario proprio il massimo rappresentante Ilva, Bruno Ferrante.

Il Codacons, in merito alla vicenda dell'Ilva ha presentato  alla Procura di Taranto la propria nomina di parte offesa in qualità di associazione ambientalista e un esposto in cui si chiede di estendere le indagini anche nei confronti dei Ministeri dell'ambiente e della salute, nelle persone dei ministri che si sono succeduti negli anni, e degli enti locali territorialmente competenti. "La gravissima omissione delle istituzioni italiane, centrali e locali - scrive il Codacons nella denuncia - consistita nel non aver dato alcun allarme ufficiale ma soprattutto il mancato seguito da parte delle Autorità competenti, di un'adeguata campagna di informazione rivolta ai cittadini coinvolti e le azioni e gli interventi previsti nonché la violazione del principio di precauzione ripetutamente connessa al principio di informazione a favore della popolazione, appare indice di negligenza grave considerato che solo la conoscenza può consentire di adottare sistemi di prevenzione. Di rilevante importanza, quanto disposto dal d.lgs. 152/2006 (c.d. testo unico ambientale) e dell'ultimo suo "correttivo" (d.lgs. 4/2008) che prevede all'art. 257 una fattispecie di omessa bonifica che non solo sostituisce, con formula diversa, e per certi versi più limitativa, la fattispecie dell'art. 51-bis d.lgs. 22/97, ma che ricomprende di sicuro, al suo interno, parte della previgente fattispecie di cui all'art. 58 d.lgs. 152/99 (Danno ambientale, bonifica e ripristino ambientale dei siti inquinati)".

Per fare un esempio come tutti sono genuflessi al sistema massonico-economico tarantino si rappresenta un breve excursus di tentativi di getto di fumo negli occhi per tacitare le voci libere non conformate.

“La prima sentenza di condanna dell’Ilva per lo spargimento di polveri minerali sulla città è del 1982. La emise un pretore di Taranto, Franco Sebastio, ora a capo della Procura ionica. Ma i 32 anni trascorsi da quella prima sentenza sino al sequestro degli impianti dell’area a caldo del Siderurgico, il 26 luglio scorso, sono costellati da pronunciamenti e disposizioni della magistratura che lanciano allarmi o puniscono i presunti responsabili dell’inquinamento di Taranto”. Così esordisce il dettagliato focus dell’agenzia Ansa pubblicato ieri. La stessa inchiesta che ha portato al sequestro, senza facoltà d’uso, degli impianti e all’arresto di una parte dei vertici Ilva, indagine nata alla fine del 2009, riunisce tre procedimenti penali che si sono incrociati negli ultimi anni: quello sull’abbattimento di animali risultati contaminati dalla diossina, un altro contenente relazioni dell’Arpa e alcuni esposti, e infine un terzo basato sulle denunce di oltre un centinaio di famiglie del rione Tamburi, a ridosso del Siderurgico, che lamentavano problemi di salute e il danneggiamento delle loro case per colpa delle polveri minerali che si depositavano su muri e balconi. Ma già in una sentenza del 19 gennaio 1998 la Corte di Cassazione scriveva che è stata raggiunta "la prova certa del nesso di causalità materiale tra le modalità di svolgimento dell’attività produttiva e il fenomeno dello spolverio", nonchè "del consapevole mancato apprestamento di misure effettivamente idonee ad evitare la situazione di pericolo per l’incolumità pubblica". In quel pronunciamento l’Ilva era stata citata in giudizio dal titolare di una serra di fiori situata a 500 metri dal Siderurgico e danneggiata irrimediabilmente dalla quantità eccessiva di polveri minerali fuoriuscite dallo stabilimento siderurgico. Il 7 dicembre 2000, in una lettera inviata a governo, prefetto, Regione Puglia, presidente della Provincia e sindaco di Taranto, la Procura ionica lanciò un allarme indicando che dalle inchieste in corso emergeva "una grave situazione di inquinamento atmosferico" in città e nei territori limitrofi. La Procura sottolineò in quella lettera un drammatico paradosso: le polveri minerali rilevate nel quartiere Tamburi di Taranto "risultano maggiori di quelle rilevate all’interno di una zona industriale quale quella del parco materiali del cementificio Cementir"; dunque, un quartiere cittadino risultava più inquinato di un grande sito industriale. Nella lettera si aggiungeva che "l’esigenza di tutelare posti di lavoro in una terra che vive ancora drammaticamente fenomeni di sottoccupazione e disoccupazione è ben nota a chi scrive che se ne fa anche carico", ma si ricordava anche ai destinatari che "la tutela dei posti di lavoro non può prescindere dal rispetto della salute degli operai e degli abitanti della città di Taranto e dei comuni limitrofi e dell’ambiente".

E nel 2007 l’allora giudice monocratico del tribunale, Martino Rosati, condannò, tra gli altri, Emilio Riva a tre anni di reclusione e l’ex direttore dello stabilimento di Taranto Luigi Capogrosso a due anni e otto mesi, per aver omesso di adottare le misure idonee ad evitare che le batterie delle cokerie, ormai obsolete, disperdessero nei luoghi di lavoro e nelle aree circostanti fumi, gas, vapori e polveri di lavorazione in modo da "prevenire la possibilità di disastri, infortuni e malattie conseguenziali". Le batterie 3-4-5-6 delle cokerie erano state sequestrate nel 2001 su disposizione della magistratura, alcune di queste vennero completamente ricostruite.

Ma il primo allarme era stato lanciato nel 1996, un anno dopo l’avvento del gruppo Riva al Siderurgico: il dipartimento di prevenzione della Asl Ta/1 scriveva, dopo un’ispezione nelle cokerie, che c’era "rilevante presenza di idrocarburi policiclici aromatici, sostanze cancerogene derivanti dai processi di distillazione del carbon fossile". All’epoca, precisava la Asl, erano 629 i lavoratori, tra dipendenti Ilva e delle ditte d’appalto, ad essere "particolarmente esposti" e quindi a rischiare di contrarre malattie gravi.

Bene, la giustizia a Taranto così è, se vi pare……

Ma su tutto c’è da ridire. Il rapporto investigativo delle Fiamme gialle che era stato per più di un anno fermo sul tavolo del pm Remo Epifani, titolare di un’inchiesta parallela sulla presunta corruzione del consulente della Procura, Lorenzo Liberti, è lo spaccato di come il management dell’acciaieria riuscisse a controllare e manipolare tutto: enti, istituzioni e soprattutto l’informazione. Sempre Archinà in un’altra telefonata con il suo subalterno, Cattaneo, si sfogava così: «Ancora una volta ho avuto ragione, ho sempre detto che bisogna pagare i giornalisti per tagliargli la lingua». La condizione di assoggettamento di alcuni organi di stampa locali emerge con allarmante evidenza in altre conversazioni registrate dagli investigatori dove Girolamo Archinà si complimenta con i responsabili di testate per come avevano sviluppato una notizia (ovviamente favorevole all’Ilva) o che gli passava la «velina» da far pubblicare il giorno dopo sotto nome di fantasia. Per tutti i giornali a Taranto in agosto 2012 si fa ancora più incandescente il "braccio di ferro" tra Ilva ed alcuni magistrati, dopo la nuova ordinanza del gip Patrizia Todisco con la quale il presidente Bruno Ferrante viene rimosso da custode e amministratore dei sei impianti delle aree "a caldo" sequestrati. La decisione ha immediati riflessi sul mondo politico con il leader del Bersani e quello del Pdl Alfano che chiamano in campo Monti invitando il premier a "fare chiarezza". Il governo non può restare a guardare e Monti telefona ai ministri Passera, Severino e Clini, poi sente l'ufficio legale di palazzo Chigi per un consulto sulle possibili contromosse con cui ricacciare il fantasma della fine della siderurgia di Taranto. Il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, che tuona: "La chiusura sarebbe un danno irreparabile. Bisogna unire risanamento, lavoro e produzione sostenibile". A questo punto Monti decide di inviare a Taranto la troyka dei ministri più direttamente interessati: la missione di Passera, Severino e Clini è di riferire al premier. La Severino si è già attivata: il ministro della Giustizia chiederà l'acquisizione dei due provvedimenti con i quali il gip ha confermato il sequestro degli impianti dell'Ilva di Taranto e ha revocato la nomina di Bruno Ferrante dall'incarico di curatore dello stabilimento. A Via Arenula si spiega che la decisione è motivata "dalla necessità di una valutazione degli atti per quanto è di competenza del ministro della Giustizia". Ma anche il ministro dell'Ambiente Clini ha fatto sentire la sua voce e ha pesantemente criticato la decisione del gip, sostenendo che "é in aperto contrasto" con i provvedimenti presi da lui. La revoca di Ferrante decisa dal gip è arrivata dopo l'annunciato ricorso dell' Ilva al secondo decreto di sequestro degli impianti senza l'uso ai fini della produzione. Secondo il gip, il ricorso dimostra che Ferrante sarebbe in "palese conflitto di interessi". Al suo posto il Gip ha nominato il presidente dell'Ordine dei commercialisti di Taranto, Mario Tagarelli. Per il giudice c'é una "manifesta incompatibilità" di Ferrante con "l'ufficio pubblico di custode ed amministratore delle aree e degli impianti dello stesso stabilimento sottoposti a sequestro preventivo". Era stato il Tribunale del Riesame, con l'ordinanza del 7 agosto che confermava il sequestro degli impianti dell'Ilva, a nominare Ferrante custode e amministratore delle aree e degli impianti sequestrati, revocando la nomina di Tagarelli disposta dal gip per le questioni amministrative. Ora Tagarelli ritorna e affiancherà i tre ingegneri nominati dal gip custodi e amministratori dei beni sequestrati, Barbara Valenzano (gestore e responsabile), Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento. La maggioranza di governo con i massimi esponenti Alfano,Bersani e Casini chiedono al Presidente del consiglio di intervenire subito. La richiesta che viene da ABC è chiara: l'Italia rischia un clamoroso autogol mettendo in forse la produzione di uno dei suoi gioielli e dando all'estero un' immagine negativa sul fronte dell'appeal economico internazionale verso il Belpaese. "Se vogliamo spaventare gli investitori ci stiamo riuscendo" , dice il segretario del Pdl Alfano. Stesso concetto da parte di Pierluigi Bersani:"Bisogna essere consapevoli che la confusione attorno al più grande stabilimento siderurgico d'Europa farà presto il giro del mondo". Pier Ferdinando Casini si attesta sulla stessa linea e critica la scelta della magistratura che "rischia di segnare il punto di non ritorno di una vicenda drammatica" dopo anni di "incuria e noncuranza in primo luogo da parte delle autorità locali preposte alla funzione di vigilanza e di controllo della salute".

Una definizione che non esclude il ruolo primario della magistratura. Quella del Gip, secondo Casini, è una "entrata a gamba tesa" che fa "solo danno a tutti" perché viziata dal "protagonismo di certi magistrati di dubbia competenza". Anche il Pdl calca la mano sui magistrati di Taranto: "C'é un settore della magistratura che, pur di affermare le sue posizioni ideologiche, non esita a far correre il rischio a tutto il Paese della chiusura di una industria fondamentale come l'Ilva" accusa il capogruppo Fabrizio Cicchitto. Le opposizioni, Lega e Idv, confermano il loro ruolo e le loro vocazioni politiche; il Carroccio è allarmato per i possibili rapidi ricaschi che possono colpire Genova e la sua sede Ilva; Di Pietro per gli attacchi ai magistrati che fanno - dice - solo il loro dovere applicando la legge. L'ex Pm in particolare dice che ormai "è un gioco nazionale" scaricare le contraddizioni dei politici sulle spalle delle toghe.  A lui bisogna chiedere a quali magistrati si riferisca: procura, Gip o riesame? A sinistra interviene Paolo Ferrero che attacca proprio le posizioni espresse da Alfano, Bersani e Casini dato che -dice- servono solo a far da megafono "agli interessi della famiglia Riva" (proprietaria dello stabilimento e inquisita dalla magistratura) che vuole "mantenere il controllo dell'Azienda e non investire i soldi necessari per abbattere drasticamente l'inquinamento".

Ferrante non vuol pronunciare la parola 'licenziamenti', ma "se ci bloccano la produzione - dice - la prospettiva si complica" perché "dire no all'attività produttiva vuol dire togliere linfa vitale all'azienda. Viene meno la ragione stessa dell'esistenza dell'Ilva. E poi banalmente, se non produco come faccio a pagare 12mila persone?". L'Ilva diventa un caso politico, scrive “Libero Quotidiano”, con Mario Monti contro il gip Patrizia Todisco: il governo si è detto pronto a fare ricorso alla Corte Costituzionale contro la decisione del gip di sequestrare gli impianti di Taranto, bloccandone la produzione, e revocare la nomina dell'ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, attuale presidente dell'Ilva, dall'incarico di custode dello stabilimento. Di domenica invece è l'annuncio del premier di inviare a Taranto i ministri dell’Ambiente Corrado Clini e dello Sviluppo Corrado Passera per un sopralluogo sul sito industriale siderurgico sotto inchiesta per disastro ambientale. I ministri andranno a Taranto già venerdì 17 per un primo esame.

Monti poi, che resterà in stretto contatto con loro, ha intenzione di far esaminare il quadro giuridico della vicenda e di verificare di conseguenza gli spazi di azione che ci sono per il governo. Il ricorso alla Consulta - "Partiamo dal presupposto che la tutela della salute e dell’ambiente è un valore fondamentale che anche il governo vuole perseguire e anche dal presupposto che noi rispettiamo le sentenze dei giudici. Però, alcune volte queste sentenze non sembrano proporzionate rispetto al fine legittimo che vogliono perseguire e quindi noi chiederemo alla Corte Costituzionale di verificare se non sia stato menomato un nostro potere: il potere di fare politica industriale": con queste parole il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà, intervistato dal Gr1 Rai, ha annunciato la nuova iniziativa del governo. Il ricorrere alla Consulta per Catricalà non vuol dire scontro con la magistratura: "Noi contestiamo un singolo atto ritenendolo sproporzionato - tiene a precisare - noi abbiamo stabilito con un decreto legge in linea con un orientamento preciso del Tribunale della Libertà di continuare le lavorazioni che non sono dannose, che non sono nocive e nel frattempo cominciare seriamente la politica di risanamento. E abbiamo stanziato centinaia di milioni proprio per questo. Questo decreto legge resterebbe privo di qualsiasi valore se l’industria dovesse smettere di lavorare, se il forno si dovesse spegnere". E conclude: "Sarebbe un fatto gravissimo per l’economia nazionale, sarebbe un fatto grave non solo per la Puglia ma per l’intera produzione dell’acciaio in Italia". Al Corriere della Sera il ministro Clini si è detto "preoccupato che il piano di risanamento dell’Ilva adesso venga interrotto e si ricominci da capo con i contenziosi interminabili del passato". "Bloccare la produzione - ha aggiunto critico nei confronti della decisione del gip Todisco - vuol dire chiudere lo stabilimento, c'è poco da dire. E io francamente non la trovo la scelta migliore". Se "questa è un’emergenza ambientale, allora dobbiamo fare presto - ha aggiunto -. Questi sono problemi che non si affrontano con la carta da bollo o mettendo un custode giudiziario davanti ai cancelli di un impianto chiuso. L’Ilva - ricorda Clini - aveva dato un segnale concreto di collaborazione con le istituzioni e il tribunale del riesame bene aveva fatto a nominare il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante custode degli impianti dell’area a caldo". Ciò, infatti, osserva il ministro, "voleva dire che l’impresa si assumeva la responsabilità diretta del risanamento, mettendo in campo le sue competenze e le risorse finanziarie necessarie. Ma adesso che il gip l’ha rimosso, cosa succederà? - si chiede Clini - Il risanamento degli impianti industriali va fatto da chi li conosce". E poi: "Se chiudiamo la produzione dell’Ilva, a parte la sorte dei 20mila lavoratori, chi fornirà l’acciaio per l’economia italiana? Chi ci guadagna? L’Italia ci perde, mentre alla finestra mi pare già di vedere i tanti competitori europei per non parlare dei cinesi, che ne trarrebbero di sicuro un grande vantaggio".

Magistrato di ferro, dalla pedofilia alle cosche, dice di Patrizia Todisco il “Quotidiano Nazionale” e “La Repubblica”. Si è occupata di violenza sessuale su minori, criminalità organizzata, usura, assenteismo e di reati ambientali prima di arrivare a diventare l’ incubo dell’Ilva. Anna Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari di Taranto che ha firmato l’ordinanza di sequestro dell’area a caldo, ma anche i provvedimenti di ... Si è occupata di violenza sessuale su minori, criminalità organizzata, usura, assenteismo e di reati ambientali prima di arrivare a diventare l’incubo dell’Ilva. Anna Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari di Taranto che ha firmato l’ordinanza di sequestro dell’area a caldo, ma anche i provvedimenti di specifica e la revoca della custodia a Ferrante, è una donna di 49 anni, magra, capelli corti con sfumature rosse, segno zodiacale Toro, piglio più che deciso. Ha alle spalle una carriera all’insegna della difesa dei più deboli, i colleghi la definiscono «molto riservata e preparata». È nata a Taranto e ha da sempre negli occhi il profilo delle ciminiere dell’Ilva. Entra in magistratura nel 1993, arrivando tra i primi del suo concorso. L’ottima posizione in graduatoria le consente di scegliere la sede di lavoro e lei decide di rimanere a Taranto. Dal ’95 lavora presso il tribunale dei minori, poi passa al penale. Qui affronta casi di violenza in famiglia, ma anche di pedofilia: nel 2007, fece arrestate 21 uomini per aver abusato di due sorelle con grave disagio mentale, senza famiglia e senza alcun sostegno sociale.

Persegue anche i clan ionico-salentini e i loro legami con la Sacra corona unita con un’operazione che nel 2009 porta in carcere 43 affiliati, per arrivare ad un caso di ‘lupara bianca’ nel 2011. Il suo nome è finito anche nel ‘caso dei casi’, quello di Avetrana. Dopo l’omicidio di Sarah Scazzi, Patrizia Todisco si reca nel carcere di Taranto per la convalida di arresto di un detenuto. Nello stesso istituto è rinchiusa Sabrina Misseri, la cugina di Sarah accusata dell’omicidio. In un’informativa riservata, poi pubblicata, il magistrato racconta: «Mentre attendevo nella sala magistrati transitava un agente di polizia penitenziaria il quale, rivolgendosi a me, profferiva con aria sconfortata una frase del tipo ‘dottoressa, non ce la facciamo più’. Per far capire a cosa si riferisse, racconta la Todisco, il poliziotto «passandomi davanti mi mostrava velocemente un foglio, ponendolo di fronte a me ed indicandomi il nome che vi compariva nella parte superiore e che riuscivo appena a leggere: ‘Misseri Sabrina’». Da lì si apre un’indagine interna per capire se il foglio mostrato al giudice fosse una lettera che Sabrina avrebbe tentato di far uscire dal carcere o una semplice richiesta di colloquio che non avrebbe avuto seguito.

Di tutt’altro tono è l’immagine data da “Libero Quotidiano”. “Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva”. Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto 2012 ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca.

Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno.

Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come dice un avvocato "ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".

Operai contro cittadini. Chi è in piazza, (con i sindacati, ma per la prima volta anche contro gli stessi sindacati che hanno svenduto la dignità di una classe operaia), per difendere il "diritto al lavoro" e chi, invece, non aspettava altro che l'intervento della magistratura per veder difeso il "diritto alla salute". Per anni chi ha provato a recarsi a Taranto per raccontare questa dicotomia, lavoro contro salute, ha incontrato una realtà difficile da capire prima ancora che da scrivere o riprendere. Perché a Taranto non ci sono famiglie che vivono di Ilva e famiglie che muoiono di Ilva. A Taranto "ci sono famiglie che vivono e muoiono di Ilva" spiegano i comitati che da anni si battono per chiedere la bonifica della città. «Cosa vogliamo?

Lavorare e non inquinare. Si può, si deve». Parole in più non erano necessarie, né richieste. A migliaia di gradi, giù negli altiforni o volteggiando sulle gru, le parole si seccano. E infatti parlano poco gli operai dell’Ilva. In quelle giornate di lotta bastava il loro sguardo a far intuire che la maschera di fierezza non esiste. Esiste, semmai, l’umana paura del soldato in trincea: per sé, per le proprie famiglie e per il momento difficile da tutti contro tutti. Sindacati contro operai e viceversa, operai contro operai, lavoratori contro ambientalisti, cittadini contro operai. Tutti contro i politici, perché la politica è arrivata a un bivio di trasparenza oltre il quale c’è solo il precipizio se non si faranno scelte coraggiose.

Da parte sua anche l’Associazione dei magistrati è strabica nel difendere l’operato dei magistrati tarantini. Questi magistrati che di fatto hanno insabbiato ed oggi si sputtanano a vicenda emettendo ordinanze contrastanti. Neo-segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati, titolare dell’inchiesta che nel settembre del 2001 portò al sequestro di 4 batterie dell’area cokerie dello stabilimento siderurgico, tarantino da ormai quasi 20 anni, Maurizio Carbone offre il suo punto di vista sulle polemiche sorte a seguito del sequestro dell’area a caldo dell’Ilva e all’arresto di 8 tra dirigenti e proprietari. «Di fronte alla contestazione di reati così gravi c'è una sconfitta, una sconfitta di tutti, significa che non hanno funzionato a dovere la politica e gli organi amministrativi di controllo. È un provvedimento che è stato molto sofferto, si parla di supplenza della magistratura, ma questo - dice Carbone a Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” - è dovuto al fatto che non hanno funzionato evidentemente in questi anni gli altri organi di controllo.

Non c'è dubbio che quando la magistratura interviene, interviene per salvaguardare il diritto alla salute e il diritto alla vita». Il segretario generale dell’Anm ricorda che «La magistratura tarantina è impegnata, purtroppo, devo dire, da decenni sulla questione ambientale, dell'inquinamento e dei gravi danni alla salute che questo comporta. Nella stessa ordinanza di sequestro sono citate le tante indagini che sono sfociate ricordiamolo in processi e con sentenze definitive di condanna. Si tratta di vicende giudiziarie che sono durate anni e che hanno portato a decisioni definitive, anche una decina di anni fa ci fu un altro sequestro che riguardò una parte dello stabilimento, in particolare alcune batterie delle cokerie, con questo voglio dire - spiega Carbone - che la questione è nota da tempo, sono state già accertate responsabilità con riferimento ai diversi settori dell'azienda e devo dire che oggi tra l'altro non aiuta fare riferimenti al passato». Carbone sottolinea che «oggi la preoccupazione di tutti noi che viviamo tra l'altro a Taranto è questa situazione di attuale pericolo per la salute e per la stessa vita, così come è stato delineato nel provvedimento del giudice Patrizia Todisco ed è molto triste vedere una cittadinanza dilaniata in due tra diritto al lavoro e diritto alla salute. Spero che al più presto, ma questo è un auspicio che faccio anche come cittadino di Taranto, che la politica si occupi in maniera seria della questione. Voglio sperare che non sia crei un clima di sfiducia nei confronti dei magistrati che sono intervenuti sino ad ora o peggio ancora una influenza o un condizionamento nei confronti degli altri magistrati che tratteranno della questione. Ci sono in ballo dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, è giusto che la magistratura operi in piena autonomia». Sulla vicenda interviene anche Cosimo Ferri, segretario di Magistratura indipendente, che chiede «fiducia e serenità, anche da parte dell'opinione pubblica, nei confronti dei magistrati requirenti e giudicanti che si stanno occupando del sequestro» degli impianti Ilva di Taranto. Secondo Ferri, i magistrati «stanno lavorando con grande impegno, professionalità e senso di responsabilità, garantendo il rispetto della legge, ben consapevoli dell'effetto dei loro provvedimenti. Desideriamo esprimere - conclude Ferri - profonda stima verso questi colleghi che con sobrietà, riservatezza svolgono il loro compito. Rispetto quindi per la delicatezza e la difficoltà del loro lavoro». 

Vorrei dare un mio contributo alla discussione sul blocco degli impianti dell’ILVA di Taranto. Opinione letta il 3 agosto 2012 in diretta dal direttore di Bianco e Nero, trasmissione di TeleRamaNews, la tv del Grande Salento. Giuseppe Vernaleone ha letto e condiviso quanto io avevo scritto sui miei siti web e su altri organi d’informazione. Non che la mia opinione conti tanto, ma almeno per il fatto che per questa, come per altre problematiche, ho dato il mio apporto inascoltato per la soluzione dei problemi. Questo in virtù della mia esperienza e preparazione. Più domande sorgono spontanee. Perché l’ordinanza di sequestro degli impianti dell’ILVA solo ora dopo 40 anni di inquinamento e solo (si fa per dire) dopo 6 mesi dal deposito della perizia e perché si agisce contro i lavoratori? Perché un’ordinanza cautelare reale non è immediatamente esecutiva? Perché l’ordinanza di custodia cautelare per Emilio e Nicola Riva e per gli altri dirigenti è stata solo ai domiciliari e non in carcere come i comuni mortali? Perché la stessa ordinanza non è stata emessa anche per i dirigenti attuali, quale l’ex prefetto di Milano? Perché i dirigenti precedenti si sono dimessi una settimana prima dell’ordinanza? Qualcuno ne ha anticipato il contenuto per poter evitare l’arresto? Gli ambientalisti vogliono desertificare l’economia; i politici ci hanno portato alla fame; i magistrati prima insabbiano e poi mannaiano. Il Procuratore capo della Procura presso il Tribunale di Taranto, Franco Sebastio, è 20 anni che indaga i dirigenti dell'ILVA. Si va dal disastro doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, getto e sversamento pericoloso di cose, più una serie di altri reati sugli infortuni del lavoro. Mai, però, si era arrivati a questo punto. «Il provvedimento del gip è inevitabile, serio, sofferto. E’ un’indagine a tutto campo per stabilire una volta per tutte che i morti determinati dagli inquinanti a Taranto, a Brindisi o a Lecce meritano rispetto, lo stesso rispetto, ad esempio, della Thyssen, di Marghera, di Genova. I nostri non sono morti di serie B. Sono persone, operai e cittadini che hanno lo stesso diritto costituzionalmente garantito di vedersi tutelati una volta per tutte». Così ha parlato alla conferenza stampa del 27 luglio 2012 il procuratore generale della Corte di Appello di Lecce, Giuseppe Vignola, circa l’inchiesta della magistratura del capoluogo jonico che ha portato al sequestro degli impianti più importanti dello stabilimento siderurgico Ilva: le cokerie, l’agglomerato, la gestione delle aree ferrose, i parchi minerali, gli altiforni e le acciaierie. Le accuse, a vario titolo, sono di disastro ambientale doloso e colposo, getto e sversamento pericoloso di cose, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici. «Quindi – ha aggiunto – la necessità di intervenire con il sequestro nell’ambito dell’incidente probatorio con quella perizia medico-epidemiologica.

Ci siamo limitati all’Ilva ma evidentemente questo si estenderà anche ad altre industrie inquinanti: Cementir, Agip o Eni e poi a Brindisi». Inoltre ha sottolineato che «mentre di giorno si rispettavano le prescrizioni imposte, la notte ci si muoveva in maniera diversa - ricordando che - dalla eloquente e impressionante documentazione filmata e fotografica del Noe sul reparto agglomerato è  emerso che di notte venivano fuori dai camini le nubi contenenti polveri sottili. Questo è un fatto inoppugnabile ripreso fotograficamente. La perizia medico-epidemiologica è stata difficile ma ha dato risultati sui quali non penso si possa avanzare alcun serio dubbio». Infine Vignola si è augurato che presto venga istituito il registro tumori "che chiediamo da tempo" e che è previsto dalla legge regionale approvata recentemente. Il pg ha difeso le prerogative della magistratura.

Citando Montesquieu sulla separazione dei poteri: “Nessuna invasione di campo”. Poi una nota polemica al ministro dell’ambiente Clini che ha sollecitato il reintervento del Riesame:”Dovrebbe essere parte offesa”. Già, ci chiediamo: per quarant'anni da quale parte è stata la magistratura ed ancora oggi da quale parte sta la politica. Com'è labile il confine tra legalità ed interesse. Ma c’è la legge: chi inquina, paga. La legge non dice: chi inquina, chiudilo. Perché devono pagare solo e sempre i lavoratori e non i poteri forti? Diritto al lavoro e diritto alla salute perché non possono coesistere? L’ILVA, come altre grandi imprese, privatizza il profitto e collettivizza le perdite. Sarà così anche stavolta. Possibile cassa integrazione per gli operai e bonifica dell’ambiente inquinato tutto a spese dello Stato. 336 milioni di euro stanziati. Se chiude l’ILVA il danno non è per la famiglia Riva. Loro hanno grandi principi del Foro che li difendono, compreso l’ex presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Egidio Albanese. Con il ricatto occupazionale ci si può permettere di tutto in un’Italia politicizzata.

In altri tempi proposi una class action per danno, anche esistenziale, contro l’ILVA, affinchè si intaccasse l’interesse privato dell’azienda. In questo modo essa per forza di cose era costretta a limitare l’emissioni nocive contro le persone e l’ambiente, per non moltiplicare le azioni di tutela della salute. Azioni che limiterebbero il profitto dell’azienda. Invece no. Si lascia attendere fino a che lo Stato è costretto ad intervenire a vantaggio di un’impresa privata. Nessuno ha seguito il mio consiglio. Non vorrei che l’astio contro l’ILVA mosso da vari personaggi tarantini e il disinteresse dei cittadini tarantini nei confronti delle sorti dei suoi operai fosse insito nel fatto che proprio quegli operai sono cittadini della provincia e sappiamo quanto i cittadini tarantini abbiano la puzza sotto il naso nei confronti dei provinciali. Naturalmente allo stato dei fatti, senso di superiorità mal riposta.

E che dire dei magistrati del Tar di Lecce, competenti anche sulla provincia di Taranto. "Ilva, il presidente del Tar di Lecce cognato dell'avvocato dell'azienda", scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. I ricorsi del colosso sempre accolti. Esposto di Legambiente al Csm, bufera su Antonio Cavallari. "E' incompatibile". "Accuse infondate, il legale si occupa di cause di lavoro". Il primo a lanciare la pietra era stato il presidente dell'Arpa pugliese, Giorgio Assennato. "L'Ilva - aveva detto - non si è mai voluta sedere a un tavolo con noi. Sono rimasti sull'Aventino e hanno continuato a fare ricorsi su ricorsi al Tar di Lecce, sempre vinti... Sono sicuro che anche la Procura di Taranto perderebbe se fosse il Tar di Lecce a decidere sui suoi atti". Subito dopo erano intervenute le associazioni ambientaliste, segnalando come in questi anni molte decisioni di natura sanitaria prese da Comune e Asl fossero state sempre cassate dal Tar. Ora il caso arriverà davanti al Consiglio superiore della Magistratura. Perché? Il presidente del Tar di Lecce, Antonio Cavallari, è il cognato (hanno sposato due sorelle) di uno degli avvocati esterni dell'Ilva, Enrico Claudio Schiavone. "Una situazione - spiegano dal direttivo nazionale di Legambiente - che secondo noi è doveroso segnalare al Csm perché il Consiglio valuti eventuali situazioni di incompatibilità o anche soltanto di opportunità. La situazione è così delicata, che richiede il massimo della trasparenza a tutti i livelli.

Anche quello della magistratura amministrativa". I due protagonisti però rimandano al mittente tutte le accuse. "Da un punto di vista tecnico, non siamo nemmeno affini. E soprattutto l'avvocato Schiavone non difende l'Ilva davanti al Tar". Schiavone è infatti un lavorista, è lui a difendere il siderurgico (in qualità di consulente esterno) nella maggior parte delle cause contro i lavoratori: "Questo della parentela - dice - è un dettaglio insignificante". Il Tar era finito nell'occhio del ciclone per aver accolto una serie di ricorsi dell'Ilva: dal referendum chiesto dai cittadini per decidere sulla chiusura dello stabilimento a una serie di ricorsi di natura sanitaria. A febbraio il sindaco di Taranto, Ippazio Stefano, aveva ordinato la fermata degli impianti per effettuare una serie di lavori per ridurre inquinamento e impatto ambientale. Ma il Tar aveva sospeso il provvedimento sostenendo che non esisteva un'emergenza sanitaria tale da giustificare "l'esercizio del potere di ordinanza attribuito al sindaco".

Qualche mese dopo sarebbe arrivata la decisione del gip, Patrizia Todisco, di sequestrare l'impianto proprio per l'emergenza sanitaria. "Ma se c'è qualche responsabile in questa vicenda - dice Cavallari - è chi doveva controllare e non lo ha fatto. Noi in 23 anni abbiamo avuto appena 36 ricorsi dell'Ilva e molti sono stati respinti, come per esempio quelli su alcune prescrizioni dell'Aia". Assennato però faceva riferimento a un provvedimento dell'Arpa che, già nel 2010, imponeva all'Ilva di abbassare le emissioni di benzoapirene, l'inquinante segnalato come pericolosissimo oggi dai periti della procura. I tarantini potevano risparmiare due anni di veleno. Ma anche in questo caso, il provvedimento fu cassato. "Ma era incoerente - spiega il giudice amministrativo - si chiedeva all'Ilva di applicare determinate prescrizioni in materia di emissioni sulla base di parametri stabiliti in tempi successivi. Se si stabiliscono dei limiti alle emissioni, e poi quei limiti vengono abbassati, noi dobbiamo basarci sui parametri in vigore nel momento in cui si contesta il superamento di quei limiti". Cavallari, tra l'altro, in questi giorni è al centro di un'altra inchiesta giudiziaria. È indagato per abuso di ufficio con l'accusa di aver riassegnato un appalto a un'azienda che era stata esclusa per mafia. Firmò lui il provvedimento nonostante toccasse a un'altra sezione. "Ma era un provvedimento d'urgenza e la collega non c'era: agimmo in accordo. Sono serenissimo" conclude il giudice amministrativo. Già, però èindagato il presidente del TAR Lecce solo per abuso d’ufficio e solo lui. Antonio Cavallari, presidente del Tar di Lecce indagato per abuso d’ufficio per aver favorito un’azienda in odor di mafia difesa dal noto amministrativista leccese, avv. Pietro Quinto. Tutta la stampa ne parla. Un’azienda in odore di mafia. E un discusso decreto del Tar. Sono questi per “Il Quotidiano di Puglia” i due elementi alla base di un’indagine su cui la Procura, comprensibilmente, vuole mantenere il più stretto riserbo. Antonio Cavallari, presidente del Tribunale amministrativo regionale di Lecce, sarebbe indagato per abuso di ufficio, proprio in relazione a un suo provvedimento adottato nel marzo 2012. Sono queste le uniche notizie che trapelano dal Palazzo di giustizia. L’inchiesta sarebbe seguita personalmente dal procuratore capo di Lecce Cataldo Motta. La vicenda riguarderebbe un appalto per il servizio di raccolta dei rifiuti urbani di Casarano, vinto dalla Cogea.

L’aggiudicazione provvisoria, però, era stata revocata subito dopo dall’amministrazione casaranese sulla scorta di una informativa antimafia, ossia un documento in cui si mette in guardia dalle possibili infiltrazioni della criminalità organizzata nel tessuto economico e nell’organico di un’azienda. Nel documento, nello specifico, si ipotizzava un presunto legame della Cogea con Gianluigi Rosafio, imprenditore di Taurisano già condannato per traffico illecito di rifiuti, e legato a doppio filo con il boss ergastolano Giuseppe Scarlino, avendone sposato la figlia. A quanto pare, nell’informativa si faceva riferimento a una particolare vicinanza tra la Cogea e la Geotec Ambiente: entrambe le società avrebbero lo stesso direttore tecnico. E visto che la Geotec era già stata colpita da un’interdittiva antimafia perché aveva tra i suoi dipendenti proprio Gianluigi Rosafio, lo stesso provvedimento è stato preso nei confronti dell’altra società, neo aggiudicataria dell’appalto. I tempi sono stretti: il 2 marzo 2012 il Comune di Casarano revoca l’aggiudicazione; la Cogea fa ricorso al Tar e il giorno dopo il presidente Cavallari emette un provvedimento cautelare con cui accoglie l’istanza presentata dall’azienda e quindi sospende la revoca del Comune. Sarebbe questo il passaggio finito sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori. I carabinieri, peraltro, su ordine della Procura di Lecce, hanno effettuato un veloce blitz negli uffici del Tar, in via Rubichi, a quanto pare sequestrando alcuni documenti e anche un computer. A cosa porterà l’indagine e che tipo di illecito punta eventualmente a scoprire, rimane ancora un mistero. Che verrà svelato solo quando la Procura riterrà di poter uscire allo scoperto.

Per il resto ognuno si faccia una propria idea secondo i fatti raccontati ed avvenuti.

Secondo Giangranco Lattante de “La Gazzetta del Mezzogiorno”: Un blitz riservatissimo. Un fascicolo blindato, chiuso a chiave, nella stanza del procuratore Cataldo Motta che gestisce il caso in prima persona. La faccenda è delicata. Riguarda un indagato eccellente: il presidente dal Tar di Lecce Antonio Cavallari. Abuso d’ufficio è l’ipotesi di reato. Tutto il resto è top secret. La Procura ha acceso un faro su una decisione-lampo assunta dal presidente Cavallari con un decreto cautelare. Una decisione che si innesta nell’ambito di una misura interdittiva. Cosa si voglia accertare e perché sia stata avviata l’inchiesta è materia ammantata dal massimo riserbo.

Ma quando i carabinieri, su disposizione del procuratore, si sono presentati negli uffici del Tar hanno acquisito carte, fascicoli e documentazione relativa proprio al decreto cautelare che sospendeva l’efficacia della revoca di un appalto che era stato bloccato da un’interdittiva antimafia. Misure di questo tipo hanno l’obiettivo di evitare infiltrazioni della malavita nel tessuto produttivo.

La visita dei militari del Nucleo investigativo del Reparto operativo del Comando provinciale risale ai primi giorni del marzo 2012.

All’attenzione della Procura sarebbe finito il decreto cautelare emesso il 3 marzo (era un sabato) con il quale il presidente Antonio Cavallari ha accolto l’istanza presentata dalla società Cogea, la srl che si era visto revocare l’aggiudicazione provvisoria del servizio di raccolta dei rifiuti urbani di Casarano sulla scorta di un’informativa antimafia per via di presunti collegamenti con Gianluigi Rosafio, l’imprenditore di Taurisano condannato per traffico illecito di rifiuti e marito della figlia del boss ergastolano Giuseppe Scarlino, detto Pippi Calamita. La determinazione del responsabile del settore servizi tecnici del comune di Casarano, che aveva revocato l’aggiudicazione dell’appalto alla Cogea, era stata adottata il 2 marzo. Il giorno dopo il decreto cautelare del presidente del Tar Cavallari veniva depositato in segreteria. Più precisamente, l’interdittiva antimafia traeva origine nel fatto che il direttore tecnico di Cogea fosse lo stesso di «Geotec Ambiente», società a sua volta colpita da interdittiva per la presenza, fra i dipendenti, di Gianluigi Rosafio. L’unica volta che l’indagine è uscita allo scoperto è stato quando i carabinieri sono andati negli uffici del Tar, in via Rubichi a due passi da piazza Sant’Oronzo, per «prendere» le carte.

L’episodio, peraltro, era stato vagamente richiamato dallo stesso presidente Antonio Cavallari in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale amministrativo regionale. Erano trascorsi appena sette giorni dalla decisione e dal blitz. Un’uscita, quella del presidente del Tar, che era stata sepolta da una montagna di smentite. E il Procuratore era al lavoro, a testa bassa.

“Cavallari indagato? E’ una cosa che non sta nè in cielo né in terra”. L’Avvocato Pietro Quinto a “Trnews” non nasconde la propria perplessità dopo la tegola giudiziaria che si è abbattuta solo sul Presidente del Tar di Lecce, Antonio Cavallari, indagato per abuso d’ufficio. Tutto per una vicenda che si collega ad un appalto per la raccolta dei rifiuti urbani a Casarano. I fatti risalgono allo scorso marzo 2012: la Cogea vince l’appalto, ma l’aggiudicazione provvisoria viene revocata dalla locale amministrazione comunale retta dal Commissario prefettizio Ermina Ocello, sulla scorta di una segnalazione. Nel documento si ipotizzerebbe un presunto collegamento fra l’azienda in questione e Gianluigi Rosafio, imprenditore di Taurisano, già condannato per traffico illecito di rifiuti con l’aggravante mafiosa, genero di Giuseppe Scarlino, detto ‘Pippi Calamita’, boss del sud Salento condannato all’ergastolo. L’azienda non ci sta e assistita dall’Avvocato Pietro Quinto fa ricorso al Tar, chiedendo un decreto d’urgenza. “I tempi sono stretti – ricorda Quinto – l’informativa arriva alla vigilia dell’avvio del servizio e l’azienda che teme un danno economico, chiede un decreto d’urgenza”. Ed ecco che in assenza del giudice della terza sezione, la situazione la prende in mano il Presidente in persona, Cavallari appunto, che emette un provvedimento con cui accogliendo l’istanza presentata dall’azienda di fatto sospende la revoca del Comune di Casarano e dà il via libera al servizio che partirà di lì a poche ore. “E’ stato fatto tutto alla luce del sole – sottolinea ancora l’Avv. Quinto – impossibile anche lontanamente parlare di abuso d’ufficio”. Ma intanto i carabinieri, al cui vaglio ci sono documenti e pc sequestrati dall’ufficio di Cavallari, vogliono andare a fondo. In effetti tutta la vicenda si è consumata in sole 48 ore. C’è però un altro risvolto. Dopo la pronuncia di Cavallari, la Prefettura emise una vera e propria interdittiva nei confronti della Cogea, interdittiva recepita dal Commissario Ocello che stilò un nuovo atto di revoca del bando. Intanto la Cassazione aveva annullato con rinvio l’aggravante mafiosa nei confronti di Rosafio, chiedendo la celebrazione di un nuovo processo. Ora si attende la decisione del Consiglio di Stato che si pronuncerà solo dopo decisione del giudice penale.

Ahhh...Quante volte io e tutti gli avvocati non principi del foro che bazzicano le aule del Tar di Lecce avremmo desiderato un atto di sospensiva di sabato ed in 24 ore!!!!!!!!

Questi sono i magistrati con cui si ha a che fare ogni giorno e che dire della stampa?

La stampa a Taranto non è nuova a scandali. Come riportato da “La Repubblica” avrebbero gonfiato i fatturati per ottenere un punteggio maggiore nella graduatoria di concessione dei contributi pubblici stilata ogni anno dal Corecom per le emittenti televisive pugliesi.

Così due tv sono finite nei guai. A scoprire il raggiro è stata la guardia di finanza. A Taranto dal 2007 al 2009 l' emittente Studio 100 avrebbe emesso fatture per operazioni commerciali mai poste in essere. Il sistema sarebbe stato realizzato con l' aiuto di altre "società sorelle". Conti correnti, quote societarie, beni mobili e immobili di proprietà dell' emittente televisiva, del suo amministratore e dei due soci rappresentati delle "società sorelle" sono stati sottoposti a sequestro preventivo. Il profitto derivato dall' illecito conseguimento dei contributi sarebbe di 2,5 milioni di euro. In tre sono stati denunciati per truffa aggravata. A Castellana Grotte invece Puglia Channel, con la complicità di tre società, avrebbe dichiarato un fatturato fittizio per ottenere i contributi: i finanzieri hanno verificato l' utilizzo di fatture false per spot pubblicitari e prestazioni di servizio mai avvenute, per un totale di oltre 4,3 milioni. Lo scorso luglio 2011, nel corso di una complessa attività di indagine nei confronti di alcune emittenti televisive locali beneficiarie di contributi pubblici per il sostegno dell’informazione, previsti dalla legge nr. 448/98, i militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto effettuarono un sequestro preventivo nei confronti della società proprietaria di una nota emittente locale tarantina e del suo legale rappresentante di beni mobili ed immobili fino alla concorrenza della complessiva somma di circa 900.000 euro, in relazione ad indebite percezioni di contribuzioni, relative alle annualità 2005 e 2006. Il prosieguo di detta attività d’indagine ha riguardato l’erogazione dei contributi relativi alle annualità dal 2007 al 2009 percepiti dalla stessa emittente televisiva. In particolare, nel corso di questi anni, il parametro di valutazione denominato “media dei fatturati dell’attività televisiva” risultante dal conto economico del bilancio di esercizio, utile per conseguire un maggiore punteggio nella graduatoria di concessione dei contributi, è risultato artatamente “gonfiato” con ricavi relativi a fatture emesse per operazioni commerciali che si ritiene non siano mai state effettivamente poste in essere. Questo sistema è stato realizzato con l’aiuto di altre società “sorelle” riconducibili ai soci di maggioranza e reali amministratori della stessa emittente locale. Le risultanze investigative sono state partecipate e condivise dalla Procura della Repubblica di Taranto che ha richiesto ed ottenuto dal giudice per le indagini preliminari l’emissione di un decreto di sequestro preventivo di conti correnti, quote societarie, beni mobili ed immobili di proprietà della stessa emittente locale, del suo amministratore pro tempore e di altri due soci, rappresentanti delle citate società “sorelle” protagoniste dell’illecito sopra descritto, fino alla concorrenza della complessiva somma di circa 2.500.000 euro, che costituisce l’ingiusto profitto derivato dalle indebite percezioni di contributi erogati nelle annualità dal 2007 al 2009 in favore dell’emittente stessa. L’amministratore pro-tempore dell’emittente televisiva e due soci di maggioranza sono stati denunziati all’Autorità Giudiziaria competente per le ipotesi di reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, nonchè per emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. E dire che proprio il 12 settembre 2008, un'ora e mezzo di trasmissione in diretta sulla tv tarantina Studio 100, per l'occasione collegata con le emittenti Canale 7, Telebari e Teleonda Gallipoli. Argomento: la ripartizione - da parte del Corecom - dei contributi pubblici all'emittenza privata, previsti dalla legge 448 del 98. Nel corso della diretta - condotta dal direttore Walter Baldacconi con tre ospiti, due avvocati e l'editore di Canale 7, Gianni Tanzariello - una circostanziata denuncia. 13 emittenti pugliesi, su 42 ammesse ai contributi, avrebbero prodotto - in autocertificazione - documentazione non rispondente al vero in merito alla regolarità dei contributi versati all'Enpals per i lavoratori dipendenti. Ancora da accertare le posizioni con Inps e Inpgi. L'anno di riferimento è il 2006. Il puntuale versamento dei contributi previdenziali, costituisce condizione vincolante all'erogazione delle provvidenze pubbliche in questione. La denuncia è oggetto di interrogazione parlamentare del senatore di AN, Adriana Poli Bortone, che - collegata in diretta nel corso della trasmissione - ha ribadito la sua ferma intenzione di voler andare fino in fondo, nell'interesse di tutti. Nel corso del dibattito televisivo è emerso un altro dato: se quelle tv non sono in regola, non potranno sanare a posteriori la loro inadempienza. E’ al momento della richiesta del contributo che bisogna avere i titoli, come prevede la legge. Se è vero che il Corecom è tenuto ad accettare per buona l'autocertificazione sostitutiva, è altrettanto vero che quando questa dovesse risultare non veritiera - come pare nel caso di specie – sarà il ministero, erogante il contributo, a sospendere la procedura, e pare che questo stia già accadendo, con una prima richiesta di chiarimenti agli interessati.

Comunque per far capire l’ambiente e le circostanze su cui dileggiano le varie firme di stampa e tv e per chiudere la bocca a chi si destreggia tra ingiurie e diffamazioni gratuite basta la risposta delle istituzioni. «La Puglia e il Salento non sono diverse dalle altre zone di Italia, il Lazio, Roma Capitale, la Lombardia. Il Salento non è terra di sedimentate infiltrazioni mafiose». È questa la prima risposta data alla platea e all’intervistatore al capo della Polizia, Antonio Manganelli, ospite d’onore nella serata di venerdì 11 agosto 2012 a Miggiano (LE) della rassegna «Miggianosilibra», organizzata dall’assessorato comunale alla Cultura e patrocinata da Regione Puglia e Provincia di Lecce. Un evento d’eccezione con in prima fila il prefetto, Giuliana Perrotta, e il questore di Lecce, Vincenzo Carella e quello di Brindisi, Alfonso Terribile, autorità militari, consiglieri regionali, la vicepresidente della Provincia, Simona Manca e numerosi sindaci. Camicia bianca e jeans, accompagnato dalla moglie con la quale sta trascorrendo nel Salento alcuni gironi di relax, il prefetto Manganelli, come raccontato da Giuseppe Martella della Gazzetta del Mezzogiorno è arrivato nel piccolo centro del Capo di Leuca poco dopo le 20. Ad attenderlo, il procuratore capo della Dda, Cataldo Motta. Tra loro un colloquio fitto che dura una manciata di minuti, prima che Motta saluti e vada via. Prima dell’inizio dell’intervista, curata dal giornalista Rosario Tornesello, il capo della Polizia si intrattiene con funzionari e autorità. «Molti dei colleghi che sono presenti qui stasera – dirà nel corso della serata Manganelli – sono stati con me nel corso della mia carriera quasi quarantennale e vissuta in larga misura per strada. Con loro ho consumato le notti durante sfiancanti appostamenti, con loro ho condiviso la paura». Investigatori eccellenti li definisce il prefetto Manganelli, anche se alla domanda del giornalista che gli chiede se qualcuno di loro potrebbe lavorare con lui a Roma, risponde: «Stanno bene qui, lavorano in maniera ottima e conquistano ogni giorno risultati importanti, al centro dei miei frequenti contatti telefonici col procuratore Motta». È innamorato del Salento «territorio di frontiera e accoglienza che ha saputo mettere in vetrina le sue peculiarità», di quel Salento che pochi mesi fa è stato ferito a morte dal vile attento dinanzi alla scuola «Morvillo Falcone» di Brindisi. Nelle ore successive all’esplosione, il capo della Polizia fu uno dei pochi a parlare del possibile gesto di un folle. Da navigato investigatore ricostruisce: «Il nostro lavoro spesso procede per esclusione. Esclusa la pista mafiosa. Cosa nostra colpisce per raggiungere obiettivi e non lascia la Sicilia per un atto dimostrativo dinanzi a una scuola di Puglia.

Escluso il terrorismo rosso e l’anarco-insurrezionalismo. Gli anarchici colpiscono per poi rivendicare e spiegare e nell’omicidio di una povera studentessa non c’è nulla da spiegare. O si era di fronte a una cellula eversiva, oppure a un folle, come alla fine le indagini hanno dimostrato». Contrario a qualsiasi patto tra Stato e mafia «anche se bisogna distinguere tra i vari livelli di accordi, come quello che può insistere tra un investigatore e un criminale che decida di vuotare il sacco», Manganelli non si sottrae quando gli chiedono cosa ha provato a chiedere scusa per i casi Aldovrandi e G8 di Genova. «Quando si ha fiducia nella magistratura e nei pronunciamenti che essa presenta, condividendoli o meno, e nel momento in cui ci si trova dinanzi a sentenze definitive, è d’obbligo chiedere scusa e non nascondersi dietro un dito».

Così è la giustizia a Taranto, se vi pare……

26 AGOSTO 2012: L’ANNIVERSARIO DELLA MORTE DI SARAH

Racconta Mimmo Mazza sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” che a due anni dalla morte di Sarah ad Avetrana le uniche parabole sono quelle sistemate sui tetti delle case. Le uniche code sono quelle verso il mare di Torre Colimena o Porto Cesareo. Gli unici titoli di giornale letti con attenzione sono quelli sull'esordio della Juve.

Sono due anni che Sarah Scazzi è scomparsa ma non se lo ricorda praticamente nessuno. Passiamo un'ora nel cimitero che ha immediatamente dopo l'ingresso la tomba monumentale dove riposa lo scricciolo biondo drammaticamente strappato alla vita.

L'anno scorso c'era una fila enorme, i vigili urbani e la protezione civile furono costretti a regolare il traffico fin dall'uscita del paese.

Furono sistemate due transenne alle spalle della tomba per consentire a tutti di lasciare un ricordo, un fiore, un peluche, un cartello, una lettera per Sarah. Ieri, sotto un sole africano in tutto simile a quello del 26 agosto 2010, vediamo solo due carabinieri posare un fiore sulla tomba. Sono il maresciallo Fabrizio Viva, comandante della stazione, e il brigadiere Biagio Blaiotta. Sulla lapide ci sono altri fiori, qualche peluche, alcuni oggetti. Frutto del pellegrinaggio di alcuni turisti, ci dice il custode. Non del pensiero degli avetranesi che sembrano (finalmente?) aver rimosso Sarah e i suoi presunti assassini, Sarah e il circo mediatico che un anno fa trasmetteva in diretta, nei tg delle 20, la messa organizzata in suo ricordo su richiesta del padre Giacomo e del fratello Claudio, dopo aver messo le tende qualche giorno dopo la scomparsa della 15enne, aver militarizzato un intero paese e fatto diventare star nazionali tipi come zio Michele, un uomo tutto casa e campagna, che anche ieri, in silenzio, è andato alle 5 in caserma per assolvere all'obbligo di firma impostogli dopo la scarcerazione. Quest'anno, nemmeno una messa. Concetta, mamma di Sarah, è testimone di Geova e dunque non ha chiesto alcun tipo di commemorazione religiosa. Claudio è partito mercoledì scorso dopo aver cercato inutilmente di organizzare la presentazione del suo libro sulla sorella. Giacomo ha passato la giornata nel suo solito bar, a chiacchierare con gli amici, tra una birra e una partita a carte. Non una messa, non un manifesto, non una diretta. Concetta non concede interviste, dopo essere apparsa sui media di mezzo mondo ed aver subito anche l'intrusione in casa da parte di Fabrizio Corona. Ma a chi la va a trovare dice di avere fiducia nella giustizia. E che la verità alla fine del processo verrà a galla. Lo ha ripetuto anche ai componenti del gruppo Facebook «Verità e Giustizia per Sarah Scazzi» che le hanno fatto visita, regalandone una foto, elaborata al computer, di Sarah vestita da sposa. Concetta sente spesso i suoi avvocati, a partire dai tarantini Luigi Palmieri e Manuela Stallo. Chiede, suggerisce, consiglia.  Non smette di indagare sul movente. Perché se 21 udienze del dibattimento e un centinaio di testimoni sfilati, direttamente o tramite verbale, dinanzi alla corte d'assise, hanno dimostrato che gli autori del delitto vanno cercati tra le ultime persone ad aver visto Sarah il pomeriggio del 26 agosto, ovvero Michele Misseri, sua figlia Sabrina e sua moglie Cosima, sul movente, quel mix di gelosia e rancore tratteggiata dai pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino, non c'è ancora sufficiente chiarezza.  C'è una domanda, tra molte, che attende ancora una esauriente risposta: quanti sapevano già il 26 agosto del 2010 che a Sarah Scazzi era successo qualcosa di terribile? Il riferimento non è solo e soltanto al fioraio Giovanni Buccolieri che quel pomeriggio ha visto Sarah inseguita e poi costretta a salire in auto da Cosima Misseri, una ricostruzione che l’uomo ha prima confidato a conoscenti e amici e poi, però, non ha confermato in sede di interrogatorio, spiegando che era tutto frutto di un sogno. Buccolieri non sembra l’unico testimone – reticente o meno si vedrà solo al termine del processo – di quel giorno. Poche ore dopo la scomparsa di Sarah, quando la notizia comincia a circolare in paese, sul profilo Facebook chiamato «Regen» (pioggia in tedesco), gestito da alcune persone tra le quali ci sarebbero Antonella Spinelli, la cuginetta di Sarah di San Pancrazio Salentino, ma anche Sabrina Misseri (la cugina in carcere perché accusata di omicidio), Alessio Pisello, amico sia di Sarah che di Sabrina, e dalla stessa Sarah compaiono delle foto inquietanti (poi rimosse ma entrate in possesso della Gazzetta): un manichino legato da corde, una ragazza bionda che galleggia nell’acqua e un pozzo.

Coincidenze? Il cadavere di Sarah – stando a quanto raccontato da Michele Misseri – è stato imbragato con una corda (praticamente come il manichino postato su Fb) per poi essere calato nella cisterna di contrada Mosca, cisterna piena di acqua. Un manichino con la corda, la ragazza in acqua, la botola di un pozzo. Possibile che a suo tempo ci fu qualcuno che cercò d’indirizzare gli inquirenti verso la verità ma non fu ascoltato? Il mistero resta. E forse si intreccia con quello riguardante la collana con un teschio che Sarah comprò assieme alla cugina Antonella a San Pancrazio prima di far ritorno a casa, il 25 agosto e due anni fa. Concetta ricorda di aver visto quella collana ma quel teschio non è mai stato ritrovato. Il 18 settembre si ritorna in aula, parte l'esame degli imputati, chissà se Sabrina e Cosima, da oltre un anno nella stessa cella del carcere di Taranto, si decideranno a raccontare la loro verità.

E “Perché i pm Pietro Argentino e Mariano Buccoliero tra i molti testimoni non hanno chiamato anche Valentino Castriota a testimoniare  tutto quanto era da lui conosciuto sul caso Sarah Scazzi, essendo il Castriota il primo ad essere intervenuto da estraneo nell’ambiente familiare in qualità di portavoce della famiglia Scazzi nei rapporti con i media?”

Ripeto. Le 21 udienze del dibattimento e un centinaio di testimoni sfilati, direttamente o tramite verbale, dinanzi alla corte d'assise, hanno dimostrato che gli autori del delitto vanno cercati tra le ultime persone ad aver visto Sarah il pomeriggio del 26 agosto 2010, ovvero Michele Misseri, sua figlia Sabrina e sua moglie Cosima. Sul movente, quel mix di gelosia e rancore tratteggiata dai pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino, non c'è ancora sufficiente chiarezza e condivisione.  Hanno sposato un tesi e non la vogliono abbandonare. Ma è quella giusta? Porta ad una verità giudiziaria, ma è anche quella storica?  C'è una prima domanda di Mimmo Mazza del “La Gazzetta del Mezzogiorno”, tra molte, che attende ancora una esauriente risposta: quanti sapevano già il 26 agosto del 2010 che a Sarah Scazzi era successo qualcosa di terribile? Poche ore dopo la scomparsa di Sarah, quando la notizia comincia a circolare in paese, sul profilo Facebook chiamato «Regen» (pioggia in tedesco), gestito da alcune persone tra le quali ci sarebbero Antonella Spinelli, la cuginetta di Sarah di San Pancrazio Salentino, ma anche Sabrina Misseri (la cugina in carcere perché accusata di omicidio), Alessio Pisello, amico sia di Sarah che di Sabrina, e dalla stessa Sarah compaiono delle foto inquietanti (poi rimosse ma entrate in possesso della Gazzetta del Mezzogiorno): un manichino legato da corde, una ragazza bionda che galleggia nell’acqua e un pozzo. Coincidenze? Il cadavere di Sarah – stando a quanto raccontato da Michele Misseri – è stato imbragato con una corda (praticamente come il manichino postato su Fb) per poi essere calato nella cisterna di contrada Mosca, cisterna piena di acqua. Un manichino con la corda, la ragazza in acqua, la botola di un pozzo. Possibile che a suo tempo ci fu qualcuno che cercò d’indirizzare gli inquirenti verso la verità ma non fu ascoltato? Il mistero resta. E forse si intreccia con quello riguardante la collana con un teschio che Sarah comprò assieme alla cugina Antonella a San Pancrazio prima di far ritorno a casa, il 25 agosto e due anni fa. Concetta ricorda di aver visto quella collana ma quel teschio non è mai stato ritrovato. Attenti a parlare di omertà di un intero paese e della sua comunità. Si potrebbe parlare di reticenza di qualcuno o, quantomeno, di indagini svolte in modo approssimativo da gente forse non preparata a questo tipo di situazioni delittuose. Ma parlare di inadeguatezza degli inquirenti è un tabù per i giornalisti che si sono occupati del caso. Troppo amici dei magistrati, fonte delle loro notizie, per poter sputare nel piatto in cui mangiano. Da qui la domanda più importante.

«Vorrei farvi una domanda alla fine dell’audizione dei testi dell’accusa nel processo sul delitto di Sarah Scazzi: Perche non è mai stato ascoltato l’ex portavoce Valentino Castriota? -  chiede il dr Antonio Giangrande, scrittore di Avetrana che proprio su Taranto e su Sarah Scazzi ha scritto libri pertinenti questioni che nessuno osa affrontare e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) sodalizio nazionale antiracket ed antiusura che proprio a Taranto ha la sua sede legale - Perché i pm Pietro Argentino e Mariano Buccoliero tra i molti testimoni  non hanno chiamato anche Valentino Castriota a testimoniare  tutto quanto era da lui conosciuto sul caso Sarah Scazzi, essendo il Castriota il primo ad essere intervenuto da estraneo nell’ambiente familiare in qualità di portavoce della famiglia Scazzi nei rapporti con i media? “Il Corriere della Sera” e le altre testate, così come la rete, danno la notizia. Valentino Castriota nativo di Trepuzzi (Lecce) e residente a Roma è stato arrestato il 5 gennaio 2011 con l'accusa di truffa e millantato credito nell'ambito di un'inchiesta della Procura della capitale su finte assunzioni presso la Marina militare, di cui danno notizia alcuni quotidiani pugliesi. A Castriota è stata notificata dai carabinieri un'ordinanza di custodia cautelare del gip del Tribunale di Roma Giovanni Ariolli su richiesta del pm Ilaria Calò. L'uomo, a quanto riportato dai giornali, è accusato di aver millantato conoscenze nelle forze armate per garantire, in cambio di soldi, la ferma prolungata a otto militari in congedo illimitato. Per millantato credito e truffa: per questo è stato arrestato l' ex portavoce della famiglia Scazzi, Valentino Castriota. Avrebbe intascato soldi da ex ufficiali della Marina dietro la promessa di farli tornare in servizio. Valentino Castriota, 37 anni, di Trepuzzi, è stato arrestato dai carabinieri della stazione su delega dei colleghi del Nucleo in servizio presso il Ministero della Difesa: l’ordinanza di custodia cautelare del giudice per le indagini preliminari di Roma, Giovanni Ariolli, gli ha contestato di aver intascato diverse migliaia di euro da sette ufficiali della Marina in ferma prolungata, dietro la promessa di farli tornare in servizio. Uno di questi ha scoperto il raggiro contestato dal pubblico ministero Ilaria Calò, presentandosi negli uffici di Genova della Marina con lettera che avrebbe ricevuto per intercessione di Castriota: e fu allora che scoprì di essere stato raggirato. Castriota, tra l’altro, si rileva dalla stampa, non è nuovo a queste vicende nonostante si sia esposto come portavoce della famiglia Scazzi, ma anche come uno dei promotori dell’associazione “Famiglie fratelli ristretti di Brindisi” e recentemente ha fondato un sodalizio a difesa delle donne. Il pubblico ministero della Procura di Lecce, Giovanni De Palma, ha chiesto la proroga delle indagini su nove ragazzi che gli avrebbero consegnato del denaro per garantirsi un posto di lavoro. Chi per fare l’autista di Gianfranco Fini, chi per lavorare alla Stp e chi alle Poste. Quest’ultimo ha subito la stessa onta dell’ufficiale della Marina presentatosi a Genova: con una lettera si è rivolto alla direzione delle Poste centrali di Lecce credendo di essere stato assunto. Ma anche questa lettera non sarebbe stato altro che un tassello dell’ennesima truffa. Tra l’altro negli anni scorsi Castriota finì sotto processo al Tribunale di Mesagne per aver spillato 70 milioni di lire ad una biologa di Torchiarolo dopo averle promesso un posto in un ospedale del Nord Italia grazie all’intercessione di un fantomatico deputato di An chiamato Fittipaldi. Il processo si chiuse perché l’altro imputato risarcì la vittima convincendola così a rimettere la querela. Insomma, se le accuse che gli sono costate il carcere si riveleranno fondate, sembra azzeccata la descrizione della personalità di Castriota  fatta dal Gip del Tribunale di Roma Giovanni Ariolli: “Una spiccata capacità mimetica, doti dialettiche ed organizzative non comuni”. Ma l’indagato si professa innocente e vittima di raggiri anche lui: «Attendiamo l’esito delle indagini e spero quanto prima che il mio assistito dimostri la sua estraneità», sostiene l’avvocato difensore Giovanni Battista Cervo. «Se quelle promesse non hanno trovato seguito, lo si deve a terze persone.

Quelle che poi hanno preso i soldi». Valentino Castriota per qualche settimana si disse “portavoce” di casa Scazzi e alla famiglia propose la gestione dei media. Perché non è stato mai ascoltato? Si dirà: nel processo Sarah Scazzi è inattendibile od è ininfluente. Certo che un dubbio viene: non è forse perché si vuol tacitare l’errore commesso dagli organi investigativi che in quel frangente di tempo dicevano di cercare Sarah e comunicavano che le indagini approfondite erano in corso a 360° e che invece sfuggisse loro il fatto che proprio all’interno della famiglia nell’imminenza del fatto si era permesso di inserirsi un corpo estraneo, già noto anche come il presenzialista di “Striscia la Notizia”? Anomalia sconosciuta dai carabinieri e dalla procura di Taranto e resa nota proprio su mia segnalazione fatta settimane dopo la scomparsa di Sarah, per non essere accusato di protagonismo. Segnalazione che solo allora ha portato all’allontanamento del Castriota. O forse perché si vuol tacitare la pessima figura fatta proprio dai media, nazionali e in particolar modo locali, che si arrogavano una presunta emancipazione che non esiste (i cittadini tarantini vengono definiti dai provinciali: cozzari). Giornalisti così affamati di verità ed a tal fine impegnati a riportare chiacchiere, pettegolezzi e maldicenze sul paese e sulla ragazza scomparsa, tanto da non scoprire quanto era palese sotto i loro occhi? Gli stessi organi di informazione che prima cercavano Sabrina e che oggi sposano in pieno la tesi accusatoria della sua colpevolezza? Il Settimanale “Oggi”  con Giuseppe Fumagalli su Focus nel mese di novembre 2011 pubblicò una bella intervista del CASTRIOTA il quale parlava dei depistaggi e non solo di quelli. Perché non è stato mai ascoltato?»

E poi, così come racconta Nazareno Dinoi su “Il Corriere della Sera”, chi, tra i docenti del liceo classico «Archita» di Taranto, poteva avere interessi per la famiglia Misseri di Avetrana durante le prime fasi delle indagini sull’uccisione di Sarah Scazzi? Quale professore di quell’istituto, il 26 novembre del 2010, a tre mesi dall’omicidio, ebbe premura di avvertire Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri e mamma di Sabrina, circa un suo imminente coinvolgimento nell’inchiesta? E perché? E quali inspiegabili collegamenti legavano gli uffici della Procura, le stanze di un liceo statale della città capoluogo e la sperduta villetta di un remoto comune al confine della provincia? A distanza di due anni da quella tragedia, ecco l’ennesima ombra nel giallo che ha inorridito l’intero Paese. I particolari sono nascosti nelle migliaia di pagine che compongono gli atti del processo. È la trascrizione di un’intercettazione telefonica tra Valentina Misseri, sorella maggiore di Sabrina, e un certo Antonio Laserra che la chiama. «Valentì, - esordisce l’uomo - mi hanno chiamato per dirti una cosa, mi hanno mandato un messaggio e mi hanno detto che tua mamma è in pericolo e di cominciare a consultare un avvocato». In effetti in quei giorni la moglie di «zio Michele» è la sospettata numero tre di via Deledda. Proprio allora il suo nome viene iscritto nel registro degli indagati. Qualcuno, evidentemente ben collegato con gli ambienti investigativi, è preoccupato per il futuro della donna non ancora accusata dell’omicidio della nipote. La stessa Valentina nella telefonata non si spiega chi potesse avere tale interesse perciò ne chiede conto al suo interlocutore. «Me lo hanno detto i professori del liceo classico Archita - dice Laserra -, purtroppo non l’hanno potuto dire a te perché… non possono lo sai». È evidente che tutti sapevano di essere intercettati. Michele Misseri era in carcere dal 7 ottobre, sua figlia Sabrina lo sarà una settimana dopo e nessuno ancora, tranne gli investigatori e gli inquirenti della procura, ipotizzano, a quella data, un coinvolgimento così diretto di Cosima Serrano. Ad ogni modo l’allarme lanciato dal liceo classico di Taranto è colto senza stupore da Valentina che dopo aver salutato l’amico chiama subito sua madre. «Contatta il tuo avvocato, ma’… avvisalo, mi hanno detto così», dice la ragazza alla sua mamma che vuole sapere di più. «Mi sa che è anche per te adesso…», risponde la figlia riferendosi chiaramente alla possibilità di un arresto. «Ma non è che vengono oggi, no?», chiede Cosima preoccupata. In effetti i carabinieri busseranno alla sua porta molto tempo dopo, il 26 maggio del 2011, con un mandato di cattura che l’accusa di concorso in sequestro di persona, omicidio e soppressione di cadavere.

“Sabrina Misseri parla. Dal 26 agosto 2010 non ha fatto altro.

Fondamentalmente ha espresso due concetti. Oggi che è in carcere, accusata dell’omicidio di Sarah, proclama la propria innocenza. Prima di essere arrestata proclamava la colpevolezza degli altri. La ragazza, dicono i suoi avvocati, è sempre stata sincera. Lo è oggi e lo era anche allora, quando non poteva immaginare un padre mostro e forniva elementi, spunti e suggerimenti che potevano rivelarsi utili alle indagini. «Storie», ribattono i magistrati. Per loro Sabrina è una gran bugiarda. Sapeva benissimo che fine aveva fatto la cugina e tutto quello che raccontava aveva come unico scopo il depistaggio, per tenere carabinieri e magistrati il più possibile lontani da casa sua e dalla scena del delitto. Colpevolisti o innocentisti, ognuno può vederla come vuole. O se ancora non si è fatto un’idea, può rivederla come un film in dvd. Avetrana ha riempito Internet, giornali, trasmissioni televisive e oggi quel materiale permette di tornare indietro, premere play e ripartire da zero. Può essere un esercizio interessante. Utile per raccoglierle i frammenti dispersi dalla cronaca e allinearli in un’unica storia. Per scoprire così che nei primi dieci giorni di ricerche Sabrina ha indicato almeno dieci piste.

Una al giorno. In questo viaggio a ritroso la guida è Valentino Castriota, trentasettenne leccese, accorso ad Avetrana due giorni dopo la scomparsa di Sarah. «Un amico mio, parente della famiglia, mi presentò a Concetta, mamma della ragazza. Donna fredda? No, io ho visto una donna frastornata. Era assediata dai media, c’erano giornalisti che si infilavano in camera di Sarah e li abbiamo persino trovati a frugare nei cassetti, alla ricerca di chissà quale scoop. È allora che ho deciso di fare la mia parte e ho fatto da portavoce alla famiglia Scazzi. Gratis, naturalmente». In quei giorni Sabrina va e viene dalla casa di Sarah e Valentino entra subito in contatto con lei. «Quella ragazza era un fiume in piena», ricorda lui. «Appena arrivava voleva sapere tutto, le televisioni o i giornali che volevano intervistarla, gli orari delle trasmissioni e poi il suo look, se era meglio col codino o coi capelli sciolti, con gli occhiali o senza, col trucco o nature». Con gli inquirenti che non sanno da che parte girarsi, Valentino viene travolto dal tornado Sabrina. Lei produce ipotesi investigative a raffica, lui le organizza interviste, conferenze stampa, appelli. «Erano tutti lì a pendere dalle sue labbra», spiega, «e questo invece che intimidirla le dava una carica pazzesca.

Qualsiasi cosa andava bene. Bastava una voce, la notizia apparsa su un giornale o anche una supposizione campata per aria e lei partiva in quarta. Che fosse in casa coi famigliari o in pubblico davanti alle telecamere non si fermava più». L’ex portavoce di casa Scazzi però prende nota e quando riordina gli appunti si spaventa.

«All’inizio mi sono lasciato travolgere. Poi, col passare dei giorni, c’era qualcosa che non mi tornava e lei lo ha capito». I primi contrasti cominciano con la fiaccolata per Sarah. «Lei non la voleva», prosegue Castriota, «diceva che non serviva a niente, che sarebbero venute cento persone. Credo che Sabrina volesse avere tutto sotto il suo controllo e un evento pubblico come la fiaccolata la preoccupava. Temeva che la situazione le sarebbe scappata di mano. Il 9 settembre, dopo la fiaccolata, piangeva sulle mie spalle e ho pensato che avesse cambiato idea. La sera dopo quando mi sono avvicinato a casa sua lei non si è fatta vedere. È uscita solo Cosima, che mi ha preso a male parole, come uno che si stesse immischiando nelle loro faccende». In quel momento si consuma la rottura. Sabrina scarica Valentino e insiste perché Concetta faccia lo stesso. «Ormai c’era qualcosa che non mi convinceva», insiste lui, «non potevo far finta di niente e così mi sono tolto dai piedi. Le dieci storie che ho sentito raccontare a Sabrina però non le ho dimenticate. E nei giorni successivi le ho viste uscire tutte. E tutte si sono rivelate campate in aria». Valentino le elenca, dividendole in due capitoli. Il primo, più scarno riguarda due ipotesi di sequestro.

Uno, ordito dalla rumena Maria Pantir, badante del nonno di Sarah, il secondo portato a termine dagli zingari. Segue il capitolo più corposo delle fughe. Tre per amore. La cugina poteva essere scappata con un ragazzo conosciuto qualche giorno prima a San Pancrazio, poi con un trentenne col quale chattava e infine per farsi notare da un compagno di scuola che le piaceva e da cui si sentiva ignorata. «Me lo ricordo ancora quel ragazzino», commenta Valentino, «mentre lancia un appello la sera della fiaccolata: “Torna Sarah, diventeremo amici, te lo prometto”». Ma l’amore non è tutto. E Sabrina si sbizzarrisce. Sarah? Forse è in Germania, a casa di un cugino che la chiamava. Anzi, se n’è andata perché insofferente alla fede religiosa della madre, testimone di Geova. E non andava trascurato un episodio di inizio estate, quando Sarah si era scattata delle foto buttando lì una frase strana: «Le useranno quelli di Chi l’ha visto?» (la trasmissione che si occupa di persone scomparse e che il 6 ottobre avrebbe annunciato il ritrovamento del cadavere).

Siamo a otto. «Nove e dieci mi danno i brividi», continua Valentino.

«Me la ricordo come fosse oggi, mentre si rivolge a Concetta e le confida il lato segreto della figlia, ragazza spinta e disinibita, desiderosa di vivere la sua libertà lontana dalla famiglia. E se davvero sapeva della fine di Sarah, mi chiedo con che coraggio il 1° settembre abbia mostrato a sua zia quel messaggio arrivato sul suo telefonino da un numero sconosciuto: “Mamma sto bene non ti preoccupare”». Siamo a dieci. Ma sono ancora di più se si considera la testimonianza di Mariangela, che delle ricerche iniziate il 26 agosto fotografa un particolare: «Sabrina ripeteva “l’hanno presa, l’hanno presa”». Dodici se si considera l’interrogatorio dell’8 settembre, quando mette a verbale i suoi «sospetti sul padre di Sarah, descritto come uno che allungava le mani alle donne». Il 21 ottobre 2011, quando il gip Martino Rosati decide di tenere Sabrina in galera ed elenca tutti gli indizi raccolti contro di lei, in testa ci sono i depistaggi. Che alla fine non depistano. E per i giudici, riportano sempre a casa Misseri.”

Un giorno d’estate di due anni prima Sarah Scazzi usciva di casa per le vie di Avetrana. Provincia normale di un Paese, l’Italia, con pochi colpevoli e tanti imputati. Un Paese dove i delitti di Perugia e Garlasco sono ancora avvolti nel mistero dopo anni di processi. Al contrario, il giallo di Avetrana soffre di un eccesso verità. Le troppe verità di Michele Misseri che continua ad autodenunciarsi dell’omicidio della nipote di 15 anni sostenendo che moglie e figlia sono in carcere da innocenti: ”L’ho uccisa io, ma non mi credono più”. Il tempo scorre lento ad Avetrana. Come sempre le stagioni si inseguono. Questa è quella del mare, delle spiagge dorate e del mare cristallino che bagna le coste a pochi chilometri dal paese dell’olio e del vino buono. E da due anni, il 26 agosto per la precisione, anche la stagione di Sarah. Già, Sarah Scazzi, la ragazzina di appena quindici anni strangolata e buttata in un pozzo a pochi passi dalle ultime case di Avetrana. Vittima due volte Sarah, la prima del suo carnefice, la seconda di un lucifero depistaggio, di chi è stato capace di cancellare le prove e mescolare mille volte le carte in tavola a scapito della verità. Ad Avetrana tutto sembrava cambiato dopo lo tsunami mediatico del noir che sembra non conoscere oblio. Eppure non è così. Qui nessuno ne parla più e non solo perché stremato dalla saturazione che del caso ne ha fatto la tv riempiendo i palinsesti mattutini, pomeridiani e serali per mesi.

«Già due anni sono passati? E quando?» dice servendo il caffè al tavolo il barista che per settimane era stato una stella fissa dei cronisti a caccia di notizie. Gli fa eco un avventore solleticato dalla discussione. «Sai che c’è. Questo è un paese piccolo. Ci siamo fatti travolgere da questa invasione, ma poi, a riflettori spenti ci siamo ripresi grazie a Dio la nostra vita, il nostro quotidiano. L’omicidio di Sarah è un fatto vecchio ormai. Roba per turisti». La frase accende l’attenzione della cronista Maristella Massari . «Si, ogni tanto qualcuno che viene in vacanza da queste parti ci chiede di Sarah. Ma per noi ormai la bambina riposa in pace. Siete voi che continuate ad alimentare questa storia. Avete fatto diventare star certi personaggi che in paese quasi nessuno conosceva».

Un’affermazione dura, ma realistica. Impossibile non associare le parole ai nomi degli imputati. Partendo dalle due donne ancora in carcere per l’omicidio della giovane di Avetrana: Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano. Che, dopo le smorfie e le lacrime, sarebbero pronte ora a parlare in Corte d’Assise per raccontare la loro verità su quel maledetto 26 agosto. Sabrina, per gli inquirenti, prima di essere arrestata, il 15 ottobre del 2010, avrebbe utilizzato i media per farsi pubblicità, abbagliata - come molte ragazze di paese - dalla visibilità diabolica che può regalarti il piccolo schermo.

Alla fine avrebbe tentato di gestire i media per coprire le proprie responsabilità, questa, almeno, la tesi dell’accusa. Ancora più tragica la figura di sua madre, Cosima Serrano, matrona sfingea, probabilmente trascinata nell’orrore. Molta gente, ad Avetrana, ha subito creduto alla tesi della Procura, l’ha subito bollata «assassina» e non ha celato piacere quando per lei si sono spalancate le porte del carcere. Trame di paese, copione già visto.

Alla sbarra c’è anche Michele Misseri, marito e padre delle due donne, ma solo per soppressione di cadavere. Lui continua invece ad autoaccusarsi. Vive dividendosi tra la villetta di via Deledda e le sue amate campagne. Dopo il carcere, l’arresto della moglie e l’avvio del processo, è tornato ad occuparsi di vigne e ulivi.

Personaggio controverso, difeso dai paesani («Quello non farebbe male a una mosca»), talvolta deriso, adesso - per quel che si sa - spesso ignorato. Dopo due anni, insomma, ciò che resta sembra solo indifferenza.

Un quadro accusatorio ben delineato, secondo i magistrati, che collima con straordinaria preveggenza e nei minimi particolari con quanto aveva sospettato il fratello della vittima, Claudio Scazzi, già pochi giorni dopo quell’indimenticabile 26 agosto 2010.

Era il 6 settembre ed erano trascorsi solo nove giorni dalla scomparsa di Sarah. Le cronache non erano ancora molto interessate alla scomparsa e l’ipotesi più battuta era quella dell’allontanamento volontario. In casa Scazzi, però, c’era già chi anticipava i futuri punti cardine dell’accusa della procura: un omicidio parentale, commesso da una o più donne, per gelosia e invidia. «Noi stiamo sospettando i maschi, però può essere pure femmina, magari per invidia … un parente stretto stretto di cui non abbiamo manco idea ». Questa frase fu intercettata al fratello di Sarah, Claudio Scazzi, che da Milano telefonava ai genitori ad Avetrana. La conversazione inizia con Claudio che formula ipotesi indirizzando subito i sospetti su qualcuno che conosceva bene la sorella. «Le persone che possono fare una cosa del genere li puoi contare sulle dita di una mano … amici di Sabrina … non sono tanti, magari esce una cosa così che uno ha detto io sto a casa e poi esce che il telefono suo stava in quella via in quel momento». Il primogenito della famiglia Scazzi parlando poi con suo padre, insiste su questa tesi avvicinandosi ancora di più a quello che sarà il convincimento investigativo futuro. «Io dissi alla mamma, vedi che io magari mi sto sentendo qualche cosa di assurdo che magari questa è una donna, invece noi ci stiamo soffermando sugli uomini; vedi magari cioè un parente stretto stretto di cui non abbiamo manco idea». L’allora venticinquenne restrinse i sospetti sull’amica Mariangela Spagnoletti, la ragazza, amica di Sabrina Misseri con la quale Sarah quel giorno doveva andare al mare, non escludendo la cugina futura imputata e facendo per la prima volta emergere il movente della gelosia. «Una volta – raccontò Claudio al padre – Mariangela con Sabrina fecero un discorso strano del tipo che loro escono con Ivano no? … e Mariangela disse ma non portare Sarah perché sennò Ivano non ci caca a tutte e due. Perché Ivano teneva questo vizio che si abbracciava la Sarah, se la coccolava e così no? Metteva parecchia attenzione la Sarah no … e loro, magari lei può essere che era gelosa però ci disse questa frase qua, io mi ricordo che Sabrina mi disse questa frase qua».

La famiglia uccide più dei criminali. Se da una parte calano di un terzo gli omicidi, rispetto a 20 anni fa, dall'altra, però, aumentano pericolosamente i delitti che si consumano tra le mura domestiche.

L'Istat, secondo quanto si ricava da un'analisi dell'agenzia Ansa, fotografa la situazione dell'Italia relativa al 2010, confermando un trend che già si manteneva costante dalla fine degli anni '90. Vittime quasi sempre le donne, ne viene uccisa quasi una ogni due, tre giorni. Nel 2010 le donne uccise sono state 156, nel 209 erano 172, nel 2003 il picco del decennio scorso con 192 vittime. Avventure amorose finite nel sangue, follie dei mariti, aumenta così l'omicidio di matrice familiare o sentimentale. Circa il 70% di questi omicidi sono compiuti da partner o parenti, e solo nel 15% dei casi la vittima è un uomo. Se negli anni '90 la paura era rivolta alla criminalità organizzata, letta come mafia, soprattutto al sud Italia, ora la violenza si avvicina e diventa il compagno o la compagna do letto. Lo Stato pensava di avere vinto e superato la paura di questo tipo di violenze, ma si è trovato a fronteggiare un nuovo mostro. In base ai dati a disposizione dell'Associazione avvocati matrimonialisti italiani, in media dal 2006 gli omicidi tra familiari sono stati circa 200 l'anno, quelli della malavita organizzata 170.

Altra analisi: secondo una «sottostima» dell'Eurispes, nel biennio 2009-2010 ci sono stati 235 omicidi «domestici», di questi 103 tra amanti. Se la coppia si sgretola iniziano i problemi: «Nelle coppie - spiega Gian Ettore Gassani, presidente dell'Associazione avvocati matrimonialisti italiani al Corriere della Sera - l'80% degli omicidi avviene nelle fasi in cui la relazione sta finendo o quando è appena finita. Nell'85% dei casi, l'omicida è l'uomo, sia perchè di solito sono le donne a lasciare sia perchè per l'uomo è più difficile accettare di essere lasciato. A volte poi ci sono questioni di "onore", specie nei piccoli paesi, oppure economiche, come la perdita della casa, ma anche di affetto, come le difficoltà per vedere i figli». C'è la denuncia di stalking (il 70% riguarda denunce a uomini), che nel 40% dei casi avviene prima dell'omicidio, ma non sempre si riesce a intervenire per fermare la violenza. L'Eurispes, nel rapporto Italia 2011, scende nel dettaglio: dei 103 omicidi che hanno riguardato "innamorati", «gli autori sono stati principalmente mariti o conviventi (63,1%), ma anche fidanzati/ex amanti (15,5%), fidanzati, amanti, rivali o spasimanti (13,6%) ed ex coniugi o conviventi (7,8%). Per quasi 6 autori su 10 il movente è stata la gelosia, la non rassegnazione alla separazione o a un abbandono».

Ed Ancora. A due anni dalla morte di Sarah Scazzi Don Dario De Stefano sul suo profilo facebook il 25 agosto 2012 ha annunciato il suo trasferimento alla parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Avetrana in segno di disapprovazione ha reagito. Una raccolta di migliaia di firme tenta di far smuovere il vescovo di Oria dalla sua decisione di trasferire Don Dario De Stefano, il parroco della parrocchia Sacro Cuore di Avetrana. Sua destinazione la parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Don Dario va via, viva Don Dario e fortunati quei manduriani che lo avranno come parroco. Non è una nota stampa, né un commento ad un fatto di cronaca, ma un ringraziamento pubblico a Don Dario De Stefano, parroco della parrocchia del Sacro Cuore di Avetrana e futuro parroco della parrocchia di San Giovanni Bosco a Manduria. Lo faccio io che dovrei essere l’ultimo a farlo, in quanto molto cristiano sì, ma poco frequentante le chiese. Anche se non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Eppure non frequento molto la sua casa perché si accompagnano a Gesù in quei posti cattive compagnie. Laici peccatori che sulle panche consacrate sembrano angioletti che con un piccolo obolo si lavano la coscienza od usano le amicizie ivi coltivate a fini elettorali. E’ vero: il parroco raccoglie le pecorelle smarrite, ma mi trovo in disagio a frequentare interi greggi di ovini smarriti. Don Dario è un personaggio votato alle iniziative sociali, ma non alle lotte sociali. Eppure sono convinto che Don Dario, nonostante abbia nessun rapporto con me, merita di essere ringraziato. Una mia poesia dialettale contiene queste strofe: 

“Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè quistu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.”

Bene! Don Dario al suo arrivo era un giovane di Oria ambizioso, tenace, diplomatico fino ad un certo punto e con tanta voglia di fare. Io che guardo l’aspetto materiale, ossia i fatti, elenco alcune delle sue opere che resteranno alla storia sua e di Avetrana. Opere che vanno oltre la competenza parrocchiale, di cui tutta Avetrana ne ha tratto benefici: il rinnovo della sua chiesa e la costruzione del campanile, l’oratorio dove i giovani si educano e passano il loro tempo libero; i campi scuola; “il presepe vivente”; “la grande calza della Befana”; la squadra di calcio di Avetrana; la festa compatronale di Sant’Antonio; “Certe notti qui…”, ossia la “Notte Bianca”: evento agostano dove Avetrana per una notte è invasa dai turisti estasiati da decine di piccole e grandi manifestazioni culturali, culinarie, musicali, ecc…Non dimentichiamoci che ha gestito anche le funzioni religiose per la povera Sarah Scazzi ed avrebbe potuto fare di più se non fosse che la madre di Sarah è dei Testimoni di Geova ed il vescovo ha evitato inutili polemiche con nuove iniziative in suo ricordo. Questo è solo piccola cosa di quanto lui abbia fatto per la sua parrocchia e per tutta Avetrana. Non è stato facile per Don Dario fare tutto ciò in un piccolo paese con piccole vedute, molte maldicenze e con il braccino corto, specie da parte degli imprenditori che fanno affari con gli eventi organizzati da Don Dario.

Non sono mancati sin dall’inizio tra i suoi fedeli fazioni contrarie che spinte da gelosie prima hanno cercato di allontanarlo, per poi, non riuscendoci si sono allontanati loro stessi. Così come Don Dario è stato frenato e si è scontrato con degli amministratori poco illuminati e spesso incapaci a sostenere le sue o le altrui iniziative. Così come è stato vittima dei contrasti politici tra le avverse fazioni.

Intanto, a parità di fondi finanziari gestibili, ha fatto più Don Dario (orietano) in nove anni che tutti i politici avetranesi messi insieme per tutta la loro vita. Lui ha tirato dritto. Si è accompagnato con giovani fidati che lui stesso ha cresciuto. (In nove anni i bambini diventano ragazzi). Naturalmente lui ha i suoi pregi, ma anche i suoi inevitabili difetti, che sono infimi e non si notano pensando alla sua instancabile operosità. Avetrana perderà un attivissimo parroco, nella speranza che il nuovo, con la scomoda eredità, non lo faccia rimpiangere. Ecco perché a lei ed ai suoi lettori, per i passati di Don Dario posso dire: Don Dario va via, viva Don Dario e fortunati quei manduriani che lo avranno come parroco. E pensate un po’ cosa sarebbe una diocesi guidata da gente come lui…….. 

Il parroco di Avetrana che, come spiega Nazareno Dinoi su “La Voce Di Manduria”, smaschera i difensori “preventivi”. Don Dario De Stefano è furioso. Qualcuno gli ha fatto leggere il suo nome su un articolo che lo indica come colui che ha segnalato alla famiglia Misseri, per la difesa di Sabrina, l’avvocato del foro di Taranto, Vito Russo. «Io ho consigliato chi? Assolutamente no. Non conosco questo avvocato», commenta il sacerdote visibilmente contrariato.

Rilegge la notizia e la pressione gli alza. «Ecco un’altra delle cose che non mi piacciono di questa storia, ormai non se ne può più», sospira don Dario il cui volto è stato tra quelli più diffusi nei primi giorni della scomparsa di Sarah Scazzi. Da qualche settimana però, il parroco di Avetrana, fugge ai mezzi d’informazione perché, si dice, la curia vescovile di Oria ha consigliato di tenersi lontano dal circolo mediatico. Non può però tacere o celare la rabbia e, seppure con molto risparmio di parole, si lascia sfuggire dei commenti.

«Come si chiamerebbe questo avvocato? Russo? E di dov’è, chi lo ha mai conosciuto?». Il nome e il volto del legale, ben noto oggi grazie alle trasmissioni televisive, era saltato fuori all’improvviso la mattina del 15 ottobre quando la villa dei Misseri fu circondata dai carabinieri del Ris, inquirenti e investigatori che indagano sulla morte della quindicenne. Via Deledda fu dichiarata off limit e a nessuno fu consentito avvicinarsi al luogo delle operazioni.

Nemmeno all’avvocato Russo che con la sua grossa auto fu invitato da un carabiniere ad attendere poco distante da lì. Qualche giornalista lo riconobbe così il suo nome cominciò a circolare senza che nessuno riuscisse a spiegarsi la ragione della sua presenza.

Anche l’avvocato Daniele Galoppa, il giorno dopo, difensore della controparte, Michele Misseri, si chiedeva come mai il suo collega il giorno prima si trovasse a venti metri da via Deledda se Sabrina, sua futura assistita, non era stata nemmeno interrogata né poteva sapere che dodici ore dopo sarebbe stata addirittura arrestata per la confessione del padre che coinvolgeva nel delitto. In effetti fu lo stesso avvocato Russo, successivamente, a dichiarare pubblicamente che la sua venuta ad Avetrana era stata caldeggiata dal suo «amico don Dario». Il religioso, però, è pronto a smentire.

«Per favore non mi mettete in mezzo a queste cose, per questi comportamenti mi rifiuto di rilasciare interviste, questo modo di fare non mi piace proprio». E non che le richieste siano poche. «Sto dicendo di no a tutti e mi dispiace perché per colpa di pochi debbano patire tutti», afferma don Dario che torna sull’argomento.

«Questa notizia dell’avvocato o è una sua invenzione o un’invenzione del giornalista». L’avvocato Russo, informato del risentimento del parroco, spiega meglio e raddrizza il tiro. «Come? Don Dario non mi conosce? Ho qui i tabulati di due telefonate che personalmente gli ho fatto il giorno prima il mio arrivo ad Avetrana», informa il legale non spiegando, però, il contenuto e il tono di quelle conversazioni».

Ed ancora a due anni dalla morte si Sarah, il 26 agosto 2012: Che fine ha fatto il canile di Claudio? Si chiede Carlo Bollino su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. A due anni dalla morte di Sarah Scazzi, ormai restituita alla normalità la cittadina di Avetrana investita per mesi e mesi dal clamore mediatico e spenti i riflettori persino sul processo (complice certamente la pausa estiva), c’è un mistero che resta da chiarire: che fine ha fatto il canile che Claudio Scazzi, fratello di Sarah, voleva costruire ad Avetrana per poterlo dedicare alla memoria della sorellina uccisa? Per finanziarlo Claudio Scazzi nell’ottobre 2010 ha costituito una onlus chiamata “Sarah per sempre” , un’associazione di volontariato senza scopo di lucro “per la prevenzione del randagismo ad Avetrana”. Una iniziativa in verità sostenuta anche da mamma Concetta, da papà Giacomo e patrocinata dal comune di Avetrana. Sarah aveva la passione dei cani, specialmente per quelli randagi, e quindi il fratello e i genitori avevano scelto di onorarne la memoria seguendo la sua passione.

A sostegno dell’attività della Onlus, Claudio ha pubblicato prima un libro addirittura con l’editore Bompiani, e poi un calendario, assicurando in entrambi i casi che l’intero ricavato sarebbe stato devoluto al progetto del canile intestato a Sarah. Il calendario foriero di polemiche. L'appuntamento è stato preceduto da numerose polemiche, tanto che alla fine il sindaco di Avetrana, Mario De Marco, e il parroco della chiesa di Sant'Antonio, don Dario, hanno deciso di annullare la conferenza stampa di presentazione dell'iniziativa nell'oratorio della parrocchia, così com'era previsto inizialmente e di spostare il tutto nella sala dedicata ai Caduti di Nassiriya, dove fu allestita la camera ardente per Sarah. «Pensavo che l'esercito dei denigratori si fosse definitivamente messo a tacere. Purtroppo mi sbagliavo: sono stati gettati fango e ombre sulla trasparenza dell'iniziativa. Noi vogliamo fare solo un canile, senza polemiche e senza fango» ha detto il fratello di Sarah, Claudio Scazzi. Molte le ragazze di Avetrana che, alla fine della presentazione, si sono fatte fotografare con l'ex tronista di Uomini e donne, Giovanni Conversano, testimonial dell'evento, sulla cui presenza, nei giorni scorsi, si sono scatenate le critiche del presidente della Pro loco di Avetrana, Emanuele Micelli. «Sulla tragedia di Sarah Scazzi c'è stata una spettacolarizzazione ben più grave del calendario che viene presentato questa sera in sua memoria» ha detto Conversano, che spiega il suo pensiero parlando con i giornalisti poco prima della presentazione del calendario - nel quale compare - e di un cd in memoria della quindicenne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto scorso. «Solo Micelli ad Avetrana ha un giudizio critico su questa iniziativa - ha detto il primo cittadino - Attraverso questo finto moralismo ha cercato un modo per diventare protagonista della vicenda. Del resto siamo vicini alle elezioni e lui si vuole candidare. La speculazione politica probabilmente è la sua». A sostegno della sua tesi, il sindaco ha sottolineato che quella di mercoledì sera «doveva essere una festicciola tra pochi intimi all'interno di un oratorio da 100 posti. Se avessimo voluto dargli clamore mediatico l'avremmo organizzata nel palazzetto dello sport.

La presenza del tronista è dovuta anche al fatto che, dopo aver fornito la sua immagine per il calendario come altri personaggi, si trova da queste parti perchè lui è di Lecce. Solo grazie a questa polemica del presidente della Pro Loco si è trasformata in un evento per il quale arriveranno molte televisioni».

L’associazione Sarah per sempre ha anche un suo sito (www.sarahpersempre.it) sul quale tuttora campeggia sin dalla homepage il numero di conto corrente sul quale effettuare i versamenti. Un sito pieno di buone idee ma rimasto in gran parte vuoto. L’unica sezione che per alcuni mesi è stata aggiornata è stata quella dedicata al riepilogo delle offerte ricevute. E così apprendiamo che tra il primo novembre 2010 e il 5 settembre 2011 l’associazione “Sarah per sempre” ha raccolto complessivamente 21.970, 93 euro. Una bella sommetta. Ma il punto è questo. Che fine ha fatto questa somma donata da tanti comuni cittadini a nome di Sarah? Il sito non ne fa menzione e a scandagliare sul web non si trova una sola notizia che riferisca di nuove iniziative condotte dall’associazione, né di attività finanziate con quel fondo. E neppure si spiega (né sul sito dell’associazione, né altrove) se altre somme siano state donate e raccolte sul conto corrente della onlus dal 5 settembre 2011 ad oggi. A due anni dalla morte della 15enne, sarebbe giusto che almeno il comune di Avetrana che si offrì di essere il garante dell’iniziativa, riferisca a che punto è giunta l’attività dell’associazione e che fine abbia fatto il progetto del canile dedicato alla memoria di Sarah.

Invece la mamma di Sarah, Concetta Spagnolo Serrano, non crede più nella giustizia. «La morte di Sarah è un segreto che si porteranno sempre dentro Cosima e Sabrina». Queste alcune delle parole di Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, raccolte dall'inviato di Quarto Grado e in onda su Retequattro alle 21.10 del 7 settembre 2012. «Quel 26 agosto - racconta Concetta Serrano parlando con l'intervistatore del giorno della scomparsa della figlia quindicenne - ho avuto l'impressione che a Sarah fosse accaduto qualcosa di grave, ma non sapevo di preciso cosa. Mai avrei immaginato nulla del genere». «Mia figlia - afferma la donna - è stata vittima della cattiveria di Sabrina e Cosima. Il fatto che mia sorella, insieme alla figlia, abbiano rincorso Sarah, mi fa pensare a qualcosa di più squallido della gelosia. Secondo me oltre a quello ci sono altre cose». Già, ma quali? Per esempio le cose che ha pubblicato Panorama? «La mia Sarah non era incinta. Panorama ha dato la notizia ed ha fatto pessimo giornalismo». Così Concetta Scazzi alla trasmissione Quarto Grado. Il settimanale mondadoriano pubblicava, attribuendola ad abitanti di Avetrana, una indiscrezione che sembrava davvero poco credibile. Soprattutto perché sarebbe risultato dall’autopsia. L’attuale processo, nove mesi e ventuno udienze, sempre secondo Concetta, sembra una farsa. Panorama, il settimanale di Mondadori, manda Giacomo Amadori ad Avetrana per occuparsi del delitto di Sarah Scazzi. E lui prima accenna all’interno dell’articolo ad un rapporto ‘incestuoso’ tra Michele Misseri e la ragazzina, e poi scrive esplicitamente nel finale del pezzo: “Una quindicenne come tutte le altre”, dice il fratello Claudio. Ma era limpida come appariva? Qualcuno sostiene che fosse incinta, che il ciclo mestruale si fosse interrotto da mesi, ma che Sarah non aveva un ragazzo. C’è ora chi insinua che forse, con lo zio, fosse iniziato un torbido rapporto da tempo. Da quando lei era cresciuta, diventando sempre più simile a Cosima (la moglie di Michele) da giovane. Si dice veramente di tutto ad Avetrana.”Chissà, forse è vero che nel paese si dice di tutto. Anche se purtroppo non sapremo mai se questo è stato veramente detto, visto che un’indicazione più precisa delle fonti non c’è. E su Avetrana se ne son dette di cose non vere. Di certo però c’è una cosa: si può certo dire di tutto, ma non è certo un dovere pubblicare tutto, anche quello che ad occhio pare palesemente inverosimile. Il corpo di Sarah Scazzi è stato oggetto d’autopsia, ed i risultati – nell’escludere la possibilità di provare la violenza sessuale post-mortem confessata dallo zio - non hanno fatto alcun cenno alla possibilità che la ragazza fosse incinta. Ad onor del vero tale possibilità è stata esclusa perché era impossibile procedere all’esame, tenuto conto lo stato del corpo. E il particolare non poteva passare inosservato, visto che avrebbe costituito un sicuro movente nei confronti di Misseri, che all’epoca non aveva ancora parlato delle responsabilità della figlia Sabrina nell’omicidio. Insomma, ad occhio questa sembra davvero una ‘chiacchiera da bar di paese’. E non si capisce davvero come possa finire, senza riscontri e vista l’inverosimiglianza, su un articolo di giornale. «In questi mesi non ho mai avuto il desiderio di parlare con loro – continua Concetta riferendosi a Cosima e Sabrina – semplicemente perché tanto, vigliaccamente, non si assumono le loro responsabilità dicendo la verità. Continueranno sempre con quella versione all'infinito. È una pugnalata quando mi guardano con quegli occhi indemoniati e pieni di scherno. Mi sento tradita e penso che un tempo erano altre persone». «Non so se ci sia ancora poco o molto da scoprire sull'omicidio di mia figlia. L'importante - dice ancora la donna - è che si arrivi alla verità. Questo è un segreto che si portano dentro Cosima e Sabrina e non so come facciano a sopportare questo peso atroce sulla coscienza, ammesso che ne abbiano una». La donna conclude parlando del processo e del suo stato d'animo quando si trova in aula: «Quando sono in aula - racconta - mi sembra di perdere il contatto con la realtà. In questi mesi ho assistito alle udienze e sono rimasta profondamente turbata. Mi sembra un processo assurdo, tant'è che spesso mi pongo degli interrogativi e dico: ma questo processo perché si svolge? A chi serve? Chi se ne avvantaggia? La vittima? Non direi proprio». «Se la giustizia deve rendere a ciascuno il suo - conclude Concetta Serrano - a Sarah cosa verrà corrisposto?»

Nell'ambito della trasmissione Quarto Grado su Retequattro è stata rivelata anche che Ivano Russo, il ragazzo ritenuto dai pm «presunto movente» del delitto di Avetrana sta per diventare padre. E’ in attesa di un figlio dalla sua attuale compagna. Naturalmente l’intervista si è spinta fin’anche sull’aspetto religioso, come tutte le interviste a Concetta Spagnolo Serrano. E dire che è questo l’aspetto che più stona della vicenda. Nella trasmissione "Quarto Grado", in onda su Rete 4, è intervenuta  la mamma della povera Sarah, la bimba uccisa due volte: prima dall’omicida e dopo dai media. Pur comprendendo il dolore di una madre a cui viene uccisa una figlia, in modo crudele e da parenti, c'è da dire che la signora ha lanciato una serie di nefandezze. Nessuno le toglie il diritto sacrosanto di pretendere giustizia giusta e  vedersi risarcita per la perdita della figlia. Tuttavia, questo non la autorizza, in pubblico via Tv, a lanciare proclami di vendetta, parole forti e ancor di più fare ingiusta pubblicità alla setta dei Testimoni di Geova. Proprio lei che afferma che chi invita "zio Michele" nelle trasmissioni tv, lo invita in cerca audience a buon  mercato. Concetta Spagnolo Serrano più volte ha detto che vuole vendetta, che questa vendetta è gradita a Dio Geova. Insomma, un Dio vendicatore e giustiziere, una vera eresia mandata in diretta, senza che nessuno degli ospiti avesse avuto il coraggio di contraddirla. A parere della mamma di Sarah Scazzi, Dio dovrebbe mandare fulmini e saette sugli assassini. Una concezione eretica e blasfema, perché detta da una persona di fede. Quel Dio a cui la signora si riferisce forse è il Dio del vecchio testamento, adorato dai Testimoni di Geova, dagli ebrei e dai mussulmani. Il Dio di Gesù Cristo è Dio fatto da amore puro e  misericordia e sa perdonare, se pentito, anche il peggior delinquente. Se Dio fosse stato come dice la signora, non sarebbe morto di Croce, avrebbe sterminato facilmente i suoi aguzzini.

Bisogna distinguere: Dio non manda mai il male, ma lo permette, quando questa specie di catechismo del male, serve per ottenere un bene. La sparata della signora Scazzi, ci fa riflettere su come la Tv esageri con dibattiti relativi ai delitti, alle morti. Si ascoltano parole in libertà, interviste che potrebbero anche essere frutto di contrattazione e teorie spesso senza fondamento, in quanto nessuno dei soloni, ha letto le carte processuali. Non sarebbe ora di smetterla con questi catechizzatori mediatici, senza arte, ma di parte, che ci lavano il cervello?

Si nota, forse sbagliando, che i testimoni di Geova come i mussulmani, (confessione religiosa), i comunisti (ideologia politica tramutata in varie sigle partitiche di sinistra) come i razzisti xenofobi (società arretrate a nord del mondo che covano odio per gli stranieri, avversione contro tutto ciò che non appartiene alla propria nazione o etnia, ostilità pregiudiziale per gli stranieri. In Italia si indicano come razzisti i leghisti, ma sotto sotto lo sono molto gli italiani del centro nord) si accomunano in una cosa: qualsiasi sia l’argomento trattato in una conversazione, dopo il buon giorno di rito iniziano immediatamente a portare il discorso, pur iniziato con tutt’altro argomento, sul tema della religione o della politica, al fine di inculcare il loro credo. Convinti di una superiorità culturale e portatore di una verità assoluta assillano l’interlocutore con ragionamenti che non ammettono repliche o contestazioni. Attività di persuasione, spesso fuori luogo, secondo le circostanze di tempo, luogo e situazioni. Tutto al fine di fare proseliti per vincere le battaglie contro il loro “male” che li ostacola per il governo del mondo. A questo punto è innegabile il fatto che con la vicenda Sarah Scazzi i testimoni di Geova hanno avuto un insperato e forse cercato ritorno promozionale. Per rispondere alla domanda di Concetta non vogliamo credere che tra le altre cose, a cui ella fa riferimento, non ci sia anche quella riconducibile all’aspetto religioso della vicenda, così come agli inizi si era fumosamente prospettato e non approfondito. Ma a scanso di illazioni, certo è strano, anche lì tra le altre cose, come la scomparsa di una ragazzina, una tra le migliaia, abbia innescato un vortice mediatico nazionale, più che locale, sin dalle prime ore, come se fosse tutto pre-organizzato e premeditato. Sarebbe utile, per esempio sapere come tutto è cominciato e da chi è stato suscitato e perché i direttori, all’unisono, hanno deciso di seguire il caso nella sperduta e sconosciuta Avetrana. 

25 settembre 2012. Ventiduesima udienza.  Parla Antonio Colazzo, Anna Scredo, Valeria Scazzari, Michele Galasso. Nei giorni precedenti “Il Corriere della Sera” comunica che Michele Misseri, imputato nel processo in Corte d’assise per la soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi, dovrà pagare una parcella di cinquantamila euro al suo ex avvocato Daniele Galoppa. Il giudice onorario del Tribunale civile di Taranto, dott. Santoro, ha sciolto la riserva accogliendo la richiesta di sequestro conservativo dei beni per equivalente presentata dal penalista «licenziato» dal contadino di Avetrana perché accusato di avergli estorto le accuse rivolte alla figlia Sabrina. Il giudice ha ritenuto equa la richiesta del professionista acconsentendo al sequestro preventivo «risultando accertato – scrive -, anche in virtù delle note vicende giudiziarie, che il patrimonio del residente è insufficiente in relazione alla non attuale ma fortemente probabile esposizione debitoria tale da rendere fondato il timore» dell’avvocato «di perdere le garanzie del proprio credito». Misseri oltre alla villa di via Deledda è cointestatario con la moglie Cosima Serrano di un altro appartamento ancora incompleto nella stessa strada e numerosi terreni agricoli coltivati ad uliveto e vigneto. Lo zio di Sarah, inoltre, dovrà sobbarcarsi anche l’onorario dei due legali di Galoppa, Angelo Roma di Ostuni e Francesco Morgese di Mesagne oltre alle spese del giudizio. Niente male se si tiene conto che l’avvocato Galoppa si è impegnato a “cercare la verità” per la Procura di Taranto e che tale somma riguarda solo la parcella per il lavoro svolto, senza tener conto l’ulteriore richiesta di risarcimento danni per il processo penale intentato dallo stesso Galoppa contro Misseri. Per il giudice onorario, collega avvocato del Galoppa, è congrua la cifra di 50 mila euro riferita a pochi incontri con il cliente, poche udienze e tante comparsate pagate in tv. La stessa cifra è pari a quella che un operaio guadagna in 5 anni. Per questo motivo la professione di avvocato non è aperta a tutti. Detto questo si ritorna al processo. Riparte dopo i due mesi di pausa estiva, il processo di primo grado per l’omicidio di Sarah Scazzi, arrivato alla ventiduesima udienza. L’udienza del 18 settembre è slittato per l’ennesimo, inutile e pretestuoso sciopero dei penalisti. Sciopero di una lunga serie messo in atto perché gli avvocati, nonostante loro siano una forte lobby incontrastata, gli  sono sopraffatti dalla forte casta dei magistrati. Una lotta leguleia per spartirsi equamente il potere a svantaggio dei diritti dei cittadini. In questa udienza, davanti alla Corte d’Assise di Taranto presieduta da Rina Trunfio, erano presenti le due principali imputate Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della vittima, accusate di concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere. C'era anche Michele Misseri, lo zio di Sarah, marito di Cosima e padre di Sabrina. Non era presente la madre della vittima, Concetta Serrano Spagnolo. Sfileranno ancora una volta i testimoni citati dalla pubblica accusa ed è la volta di Michele Galasso, Antonio Colazzo e Anna Scredo, rispettivamente amico e cognati di Giovanni Buccolieri, l’uomo che in un primo momento dichiarò agli inquirenti di aver visto, quel 26 agosto 2010, Cosima Serrano costringere Sarah a salire a bordo della sua auto, salvo poi sostenere che si fosse trattato di un sogno. Poi segue la deposizione di Valeria Scazzari, consulente di parte dell’avvocato Raffaele Missere, difensore di Cosimo Cosma e l’esame di tre degli imputati minori: Antonio Colazzo, Cosima Prudenzano e Giuseppe Nigro, tutti e tre accusati di favoreggiamento del fioraio Giovanni Buccolieri, la cui posizione è stata stralciata prima dell’udienza preliminare. Il pm Mariano Buccoliero ha citato la cognata del fioraio, Anna Scredo (unica parente prosciolta dal gup) e Michele Galasso, imputato in procedimento connesso per false informazioni all’autorità giudiziaria (la sua posizione è stata stralciata come quella del suo amico fioraio) e gli imputati Giuseppe Nigro, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano. Quest’ultima è stata interrogata come testimone prima della pausa estiva. In quella circostanza, è caduta diverse volte in contraddizione e quando si è ritrovata alle corde si è rifugiata in qualche “non mi ricordo”. Il contenuto di alcune intercettazioni non sembra lasciare spazio ad interpretazioni.

«Come diceva Giovanni, dentro la macchina è avvenuto il fatto». E’ stata la considerazione della donna durante un colloquio con la figlia Giuseppina, quasi ipotizzando che il delitto sia avvenuto nell’auto di Cosima. Ma c’è anche un’altra intercettazione che incastra lei e la cognata di Buccolieri, nel passaggio in cui la Prudenzano dice ad Anna Scredo: «Se si va a scoprire che lui veramente stava là… ». Indicando, con quel là, un luogo fisico. Non certo virtuale. In apertura di udienza la corte ha preso atto del deposito da parte del perito delle trascrizioni delle intercettazioni ambientali riguardanti Cosima Serrano e Sabrina Misseri. Il marito della Scredo, Antonio Colazzo, imputato al processo per un reato minore (false dichiarazioni ai pm), si è avvalso della facoltà di non rispondere, in quanto avrebbe dovuto riferire su circostanze relative a una prossima congiunta, la suocera Cosima Prudenzano, anche lei imputata di false dichiarazioni. Sono stati anche sentiti Michele Galasso, amico del fioraio, indagato con quest'ultimo in un procedimento connesso per falsa testimonianza, e la dottoressa Valeria Scazzari, consulente di parte dell'avvocato Raffaele Missere, difensore di Cosimo Cosma. Cosima Prudenzano e Giuseppe Nigro, gli altri testi, non si sono presentati. Ha reso testimonianza, invece Valeria Scazzari. L'orario della morte di Sarah Scazzi andrebbe posticipato di un’ora e mezza-due ore e quindi indicato tra le 15.30-16.00 e non fissato alle 14-14.10, come stabilito dalla Procura. Lo ha affermato al processo la biologa Valeria Scazzeri, che ha eseguito una perizia di parte, affidatale dall’avvocato Raffaele Missere, difensore di Cosimo Cosma, in relazione alla durata della digestione delle vittima, prima che venisse uccisa. Cosimo Cosma è nipote di Michele Misseri ed è accusato, insieme allo stesso e al fratello di zio Michele, di soppressione di cadavere. Sarah, il 26 agosto 2010, prima di raggiungere casa della cugina Sabrina Misseri, mangiò nella propria abitazione in tutta fretta un cordon bleu. Secondo quanto asserito dalla biologa, per digerire l’alimento la ragazzina avrebbe dovuto impiegare 90-120 minuti, e non è possibile che lo abbia digerito in 30-40 minuti come affermato dal medico legale Luigi Strada nella perizia autoptica disposta dalla Procura. Nel corpo di Sarah in avanzato stato di decomposizione vennero rinvenuti, secondo la perizia autoptica, solo 20 cc di liquido grigiastro, forse derivante dalla putrefazione di una mucosa, mentre la biologa ha contestato l’assenza dell’esame dell’intestino della vittima da parte del medico legale. Secondo la biologa, se al momento di ingerire il cordon blue l’intestino di Sarah era completamente libero, per digerirlo completamente sarebbero potute occorrere anche 6-7 ore dal momento dell’ ingestione. I pm hanno consegnato alla corte una nota aggiuntiva di relazione del professor Strada e non è escluso che la corte decida di riascoltare il medico legale in aula in una udienza successiva. Anna Scredo ha riferito di aver saputo dalla madre che il cognato, il fioraio Giovanni Buccolieri, si trovava nei “casini” per colpa di un sogno; aveva cioè sognato che Sarah veniva strangolata con una corda nell’auto di Cosima Serrano. Prossima udienza il 2 ottobre quando sono previste le deposizioni di tre imputati: Carmine Misseri, fratello di Michele, Cosimo Cosma, nipote di Michele, entrambi accusati di concorso in soppressione di cadavere, e l'avvocato Vito Russo, ex legale di Sabrina, imputato per reati minori. Poi per due settimane, e cioè nelle udienze del 9 e del 16 ottobre, il processo si fermerà per riprendere a fine ottobre, il 23 con le deposizioni di Cosima e Sabrina.

2 ottobre 2012. Ventitreesima udienza.  Parla Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Vito Russo.

All'inizio della seduta i due imputati Carmine Misseri e Cosimo Cosma, rispettivamente fratello e nipote di Michele Misseri, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Sono tutti e tre accusati di concorso in soppressione di cadavere. I loro difensori hanno sostenuto che alcune loro deposizioni, rilasciate nel corso di interrogatori a sommaria informazione testimoniale, non sono utilizzabili nel processo in quanto nel momento in cui le fornivano Carmine e Mimino erano già indagati e sottoposti a intercettazioni.

Dalla verifica degli atti si è riscontrato, tuttavia, che ciò sarebbe avvenuto prima della data di iscrizione nel registro degli indagati. Per cui quei verbali sono stati acquisiti al processo. Verbali delle deposizioni dei due uomini rese prima in qualità di testimoni e poi come indagati. E' stato quindi ascoltato l'avvocato Vito Russo, ex legale di Sabrina Misseri. Vito Russo, accusato di favoreggiamento personale e intralcio alla giustizia per il delitto della ragazza uccisa il 26 agosto del 2010 nella casa degli zii Michele Misseri e Cosima Serrano e di sua cugina Sabrina Misseri, ha ribadito di non aver mai distrutto i verbali di indagini difensive riguardanti Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sarah e sua cugina Sabrina. Mai distrutto verbali di indagini difensive riguardanti Ivano Russo, il ragazzo che sarebbe stato conteso tra Sarah e Sabrina; «meravigliato» invece che lo stesso Ivano lo abbia accusato di aver tentato di intimidirlo per avere dichiarazioni favorevoli alla sua assistita dell'epoca, Sabrina Misseri. Così l'avvocato Vito Russo, ex difensore di Sabrina Misseri, si è difeso in Corte d'Assise al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Vito Russo è imputato di favoreggiamento personale nei confronti di Sabrina e di intralcio alla giustizia. La prima accusa deriva da un telegramma fatto inviare dalla sorella di Sabrina, Valentina, per far sostituire il legale del padre Michele Misseri, che aveva accusato la figlia Sabrina del concorso nel delitto. Vito Russo ha riferito in aula di aver solo accompagnato Valentina in auto a casa di Carmine Misseri, fratello di Michele, per un telegramma, ma di non aver avuto nulla a che fare con il testo del telegramma stesso. L'accusa di intralcio alla giustizia per l'avvocato Russo è legata ad un verbale di Ivano Russo, da lui sentito per indagini difensive, che secondo l'accusa sarebbe stato strappato perché non favorevole a Sabrina, e sostituito con un secondo verbale. Vito Russo ha negato in aula questa circostanza, riferendo che il primo verbale venne chiuso poco dopo l'inizio perché le domande erano ancora troppo "generiche" e se ne aprì un altro; modalità difensive, ha detto, che sarebbero state anche consigliate nei vari corsi forensi da lui sostenuti. Di quelle dichiarazioni di Ivano Russo l'ex legale di Sabrina non ha registrazione, che pure venne fatta con un Blackberry di una terza persona che li aveva fatti incontrare. Vito Russo ha detto oggi di aver tentato in più occasioni di avere copia della registrazione, ma senza riuscirci. La prossima udienza è stata fissata al 23 ottobre prossimo quando alla sbarra ci sarà Michele Misseri, zio della vittima, uno dei personaggi chiave del mistero di Avetrana. 

Nella puntata di Quarto Grado del 28 settembre 2012, Salvo Sottile ha mandato in onda un documento esclusivo, risalente proprio alle settimane successive al ritrovamento del corpo di Sarah. A video vengono mostrate le parole che si sono scambiate una sera al cellulare la mamma di Sarah con suo figlio Claudio. La donna confessa di sospettare con certezza di Michele e Sabrina, descrivendo la ragazza come una i cui nervi “scattano facilmente”.

Si tratta di una intercettazione telefonica, una conversazione tra la mamma Concetta ed il Fratello Claudio. I due cercano di ipotizzare il movente dell’omicidio e chi ha potuto commetterlo. Concetta in quella telefonata solleva dubbi su Cosima e Sabrina e ipotizza sul fatto che Sarah fosse stata uccisa proprio in casa loro. Concetta e Claudio, parlando al telefono, cercano di capire il perché dell’uccisione di Sarah e traggono questa conclusione: probabilmente in paese si era venuta a sapere la storia d’amore di Sabrina ed Ivano. Probabilmente questo ha dato fastidio a Cosima, che avrebbe rimbrottato la ragazza. A quel punto Sabrina, secondo Concetta, avrebbe aggredito Sarah, fino ad ucciderla. Un delitto d’impeto, secondo la tesi di Concetta, scaturito da una profonda lite.

Che siano state le supposizioni di Concetta Spagnolo Serrano, che indicavano Cosima e Sabrina come autori del delitto, ovvero che siano state le congetture di Claudio Scazzi, inerenti al fatto che gli autori dell’omicidio siano state donne e parenti, ad influenzare i giudizi della pubblica accusa? 

GIOCA CON I FANTI, MA LASCIA STARE I SANTI. DELLA SERIE: SUBISCI E TACI, SE NO TI TACCIO. MA IN CHE MANI SIAMO?

«Silvia mia carissima, mi regge feroce la certezza della mia onestà totale. Lo sbigottimento per questa mascalzonata, o errore, o macchinazione, o non so cosa. L’unica cosa che so è che sono innocente. Voglio, devo vivere fino a sentirlo dire. Dopo non mi importerà più di nulla. Mia dolcissima Silvia aspetto con tanta ansia in questo zoo di disperati un tuo scritto. Qui non faccio che vedere gente che da sette mesi od un anno aspetta un interrogatorio.

Questo, te lo confermo, è un paese infame. Se c’è un posto dove sorge automatico il disgusto per questo Italia, beh questo posto è proprio la galera. Sai qui si vive come i malati di un ospedale lugubre. O come scoiattoli che girano sempre alla stessa ruota.

Sento la radio e non ho più colpi al cuore quando mi accorgo che il mio nome è diventato il grottesco pretesto per una macabra pulcinellata. Così è, Silvia. Così è andata. Mai come adesso ho fatto appello a quel poco che so di filosofia e di stoici. Io sono, certe volte, proprio disperato. In questo paese non succede nulla. E’ questo che mi avvelena e mi dispera. Una ad una le speranze di una rigenerazione morale se ne vanno. Una Stampa stupida, serva, incline solo al pettegolezzo ed ai circensi. Aliena ai problemi veri e reali. Uno spettacolo immondo. Quanto dovrà passare per la riforma dei codici e per la riduzione della carcerazione preventiva?

Sono deluso Silvia. Mi pare di aver gettato via la mia vita e debbo fare anche autocritica. Credevo nella legge, nei magistrati e nelle istituzioni. Non promettete mai una lettera, una visita, se poi non mantenete. Il carcere corrompe anche i sogni. Ho sognato di far parte, comportandomi benissimo, di una banda di svaligiatori di appartamenti. Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini, ma pietre. Pietre senza suoni, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. Ed il mondo gira: indifferente a quest’infamia.»

Questa, per chi non lo sapesse è la testimonianza di Enzo Tortora alla figlia Silvia. La testimonianza di un innocente sbattuto in quell’inferno auspicato dai tanti benpensanti. Questi sono coloro che, quando le disgrazie capitano agli altri godono, se non che sbraitano quando gli altri sono loro.

Prendendo spunto dalla parole di chi è diventato la luce per gli innocenti in carcere ed al fine di contestualizzare il processo di Taranto sul delitto di Sarah Scazzi in un quadro nazionale e locale, evidenziando l'ignominia dei giornalisti sulla tv e la carta stampata nei rapporti con la verità e con la sudditanza all'alterigia dei magistrati permalosi, è utile conoscere alcuni risvolti riguardanti i magistrati ed i giornalisti con cui ci rapportiamo ogni giorno. Si legge sul “Il Corriere della Sera” che sono stati notificati gli avvisi di conclusione delle indagini per abuso d'ufficio al procuratore di Bari, Antonio Laudati, e al suo ex sostituto Giuseppe Scelsi. Il caso riguarda il procedimento penale sulle escort che l'ex imprenditore barese, Gianpaolo Tarantini, ha portato dall'ex premier Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli. Lo stesso atto, che solitamente prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, è stato notificato anche a sei giornalisti accusati di diffamazione. L'inchiesta a carico del procuratore di Bari è stata avviata dopo che Laudati è stato accusato da un suo ex pm, Scelsi (ora sostituto procuratore presso la Corte d'appello di Bari), di aver di fatto rallentato l'indagine sulle escort. Dopo i primi accertamenti, la procura di Lecce aveva indagato Laudati per favoreggiamento personale, abuso d'ufficio e tentativo di violenza privata. I sei giornalisti indagati per diffamazione sono stati invece denunciati dal procuratore Laudati nel corso del tempo. A proposito del procuratore di Bari, Antonio Laudati, la procura di Lecce ipotizzando il reato di abuso d'ufficio scrive: «Nello svolgimento delle funzioni di procuratore avrebbe intenzionalmente arrecato ingiusto danno ai magistrati Giuseppe Scelsi e Desirèe Digeronimo consistito nella indebita aggressione alla sfera della personalità per essere stati i due magistrati illecitamente sottoposti da parte della guardia di finanza ad investigazioni e ad abusivo controllo della loro attività professionale e della loro immagine». Ed ancora è scritto nell'avviso di conclusione delle indagini Laudati avrebbe «delegato, senza alcun atto scritto, al personale di polizia giudiziaria della guardia di finanza attività d'indagine - seguendone personalmente gli sviluppi - sulle modalità di conduzione delle indagini sulla sanità pubblica pugliese svolta dai sostituti procuratori Giuseppe Scelsi e Desirèe Digeronimo e sulle irregolarità e criticità di esse in violazione sia dell'articolo 11 del codice di procedura penale, sia delle disposizioni del decreto legislativo n. 109/2006 in materia di accertamento della responsabilità disciplinare nonché della relativa normativa secondaria del Csm che non consentivano di avviare di iniziativa indagini per accertare eventuali profili di legittimità svolte dai magistrati del suo ufficio». Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, è anche accusato di favoreggiamento personale per aver aiutato sia «Gianpaolo Tarantini ed altri indagati» ad eludere le indagini sulle escort, sia «aiutato» Silvio Berlusconi ad eludere le stesse indagini «dirette ad accertare anche l'eventuale suo concorso nei suddetti reati». A Laudati viene contestato di aver disposto «arbitrariamente», il 26 giugno 2009, due mesi e mezzo prima di insediarsi nell'incarico di procuratore di Bari, che le indagini sulle escort portate da Tarantini nelle residenze di Berlusconi «venissero sospese e non si adottasse alcuna iniziativa fino a quando non avesse assunto le funzioni» di capo della procura. L'incontro avvenne nella scuola allievi della Guardia di finanza di Bari alla presenza del pm inquirente, Giuseppe Scelsi, e di ufficiali della Gdf a cui erano state delegate le indagini. L'insediamento di Laudati avvenne il 9 settembre 2009. Dando quelle disposizioni - secondo l'accusa - «con abuso dei poteri e violazione dei doveri di magistrato» Laudati, tra l'altro, ha impedito «l'assunzione di sommarie informazioni dalle altre escort non ancora ascoltate» e ha causato «ritardo ed intralcio nello svolgimento delle investigazioni per la maggiore difficoltà di accertamento di fatti e circostanze conseguente alla maggiore distanza temporale del momento investigativo dal loro verificarsi». In questo si è concretizzato - secondo i magistrati salentini - il reato di favoreggiamento personale aggravato contestato al procuratore di Bari. Laudati avrebbe quindi - è scritto nell'avviso di conclusione delle indagini - «aiutato Gianpaolo Tarantini e gli altri indagati» ad «eludere le indagini» nel procedimento per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione delle «cosiddette escort» avviato dal pm Giuseppe Scelsi «nel quale era coinvolto quale fruitore delle prestazioni sessuali il presidente del Consiglio dei ministri, on. Silvio Berlusconi (al fine di favorire indirettamente quest'ultimo preservandone l'immagine istituzionale) ed aiutato anche quest'ultimo ad eludere le suddette indagini, dirette ad accertare anche l'eventuale suo concorso nei suddetti reati». Avrebbe «intenzionalmente arrecato ingiusto danno» ad un altro pm della procura di Bari, Desirèe Digeronimo, e a un'amica di quest'ultima, Paola D'Aprile, attuando una «indebita aggressione alla sfera della loro personalità» intercettandone le conversazioni «per fini estranei alla funzione giurisdizionale»: è con questa motivazione che la procura di Lecce contesta al pm barese Giuseppe Scelsi (ora sostituto procuratore generale) il reato di abuso di ufficio nell'avviso di conclusione delle indagini a suo carico e a carico del procuratore di Bari, Antonio Laudati. La vicenda attribuita a Scelsi nel capo di imputazione è estranea alle indagini escort che riguardano il suo ex capo Antonio Laudati. La contestazione del reato all'ex pm riguarda invece le inchieste sulla sanità della Regione Puglia che tra il 2008 e il 2009 conducevano sia Digeronimo (che aveva tra gli indagati l'ex assessore Alberto Tedesco) sia Scelsi stesso, che avrebbe agito per «ripicca», secondo la procura di Lecce, e per «costringere» la collega ad astenersi. Per perseguire le proprie finalità «estranee alla funzione giurisdizionale», Scelsi, infatti, avrebbe più volte usato «surrettiziamente» elementi acquisiti durante altre intercettazioni, che lui stesso alcuni mesi prima aveva ritenuto penalmente irrilevanti. Sempre per perseguire il proprio intento, avrebbe anche coinvolto la guardia di finanza chiedendo informative che giustificassero le sue richieste di intercettazione di D'Aprile, che sapeva amica di Digeronimo. L'accusa dei confronti di Antonio Laudati per abuso di ufficio è invece legata alla costituzione di un'aliquota di finanzieri voluta dallo stesso procuratore e che aveva l'incarico di lavorare esclusivamente ai suoi ordini. Secondo la denuncia presentata a suo tempo da Scelsi quei finanzieri avrebbero però svolto una sorta di indagine parallela sul modo in cui veniva condotta l'indagine su Tarantini. La Procura di Lecce sostiene oggi che di fatto Laudati "spiò" il pm Scelsi e la collega Desierè Digeronimo eseritando nei loro confronti una vera e propria violenza privata, deleggitimandone anche la funzione agli occhi dei finanzieri incaricati di controllarli. Sul caso era intervenuta anche la commissione disciplinare del Csm che aveva tuttavia archiviato il fascicolo. L'avviso di conclusione delle indagini è stato notificato anche a sei giornalisti accusati di diffamazione a mezzo stampa al procuratore di Bari, Antonio Laudati. I cronisti indagati sono di Massimiliano Scagliarini de "La Gazzetta del Mezzogiorno" per un articolo che riguarda la stessa materia per la quale oggi la procura ha indagato Laudati. Poi Gianni Lannes, accusato di aver offeso in un articolo la reputazione di Laudati, del presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, e dell’allora capo di gabinetto di quest’ultimo, Francesco Manna. L’articolo faceva riferimento ad un finanziamento concesso dalla Regione ad un convegno sulla giustizia organizzato a Bari da Laudati. Gli altri 'pezzi' ritenuti diffamatori per la reputazione del procuratore Laudati sono quelli della cronista di "Repubblica-Bari", Mara Chiarelli, (di omesso controllo risponde il direttore del quotidiano Ezio Mauro), e di Nazareno Dinoi del "Corriere del Mezzogiorno-Puglia" e direttore de “La Voce di Manduria” (di omesso controllo è accusato il direttore della testata, Marco De Marco).

Quando si dice la legge del contrappasso. Nazareno Dinoi, citato pocanzi è il giornalista di Manduria ben informato sulle carte del processo Scazzi, tant’è che ha pubblicato le famose foto della ragazza morta. Lui come i suoi colleghi non disdegna di sbattere il mostro in prima pagina. E’ incline a pubblicare le disgrazie degli altri. Oggi tocca a lui essere il mostro di turno sbattuto sulle prime pagine dei giornali nazionali: un po’ poco su quelli locali, molto attenti al rispetto della colleganza ed al rispetto per i magistrati. In loco la notizia è apparsa sul tg di Antenna Sud e sul tg di Tele Norba (con critiche del direttore ai magistrati di Lecce), niente di niente su TRNews, il tg di Tele Rama di Lecce. Nazareno Dinoi non ha avuto alcuno scrupolo nel scrivere, sui giornali che gli consentivano di farlo, della condanna in primo grado per abusivo esercizio della professione e per circonvenzione d’incapace a carico del sottoscritto dr Antonio Giangrande, per aver difeso una sua cliente nell’esercizio della professione forense, con regolare abilitazione. Condanna infondata e che non poteva essere altrimenti né in cielo, né in terra. Condanna generata dalla grave inimicizia con i magistrati di Taranto per non aver adottato la comune omertà in riferimento ai grossolani errori ed abusi che questi commettono. Non solo ha scritto della condanna, ma ha evidenziato il fatto che il Giangrande fosse il Presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio notoriamente non di sinistra. Questo per creare nocumento al Giangrande ed ancor di più alla sua associazione. Il Giangrande era lo stesso che ha denunciato magagne ai concorsi pubblici quando Manduria era sostenuta da una Giunta di Sinistra. Denuncie ben censurate sulla stampa di Manduria. Certamente Nazareno Dinoi ha pensato bene di non scrivere, però, sullo stesso giornale in cui ha dato la notizia a caratteri cubitali della condanna, che in appello la condanna non è stata confermata e che il magistrato del primo grado è stato denunciato a Potenza perché non nuova a sentenze ritorsive contro lo stesso Giangrande. Ha pensato bene di non scrivere di questa assoluzione come di tutte le altre assoluzioni per non aver commesso il fatto riguardo alle incriminazioni del reato di diffamazione a mezzo stampa. Reato che tocca proprio i giornalisti e che è il loro spauracchio. Oggi tocca a lui e di questo mi dispiace, perché non si augura a nessuno quello che si prova ad essere vittima di gogna mediatica.

Ma i giornalisti sono vittime od artefici di questo sistema informativo-giudiziario censorio od omertoso. «Con un’informazione libera l’Italia cambierebbe in 24 ore. I giornalisti italiani si suddividono in tre categorie: gli indipendenti (pochi, eroici e spesso emarginati), gli schiavi (tantissimi, sfruttati e pagati 5/10/20 euro a pezzo) e i Grandi Trombettieri del Sistema, nominati in posizioni di comando dai partiti e dalle lobby (direttori di testata, caporedattori, grandi firme, intellettuali per meriti sul campo). - E’ quanto scrive Beppe Grillo sul proprio blog, nell’iniziativa "Intervistiamo i giornalisti". - Il conflitto di interessi tra informazione e potere economico e politico è diventato insopportabile - sottolinea il comico - Siamo manipolati dai partiti, dalle banche e dalle industrie che, attraverso i media, stravolgono la realtà. L'Italia è un'Isola dei Famosi, un reality show di sessanta milioni di persone che ascoltano favole, racconti fantastici in dosi così massicce e da così lungo tempo da aver trasformato il Paese in un gigantesco Truman Show in cui la verità è menzogna e la menzogna è verità. Più il Sistema si decompone, più i media ne diventano l'ultimo feroce baluardo (dopo infatti non c'é più alcuna difesa) perdendo ogni ritegno e vergogna. La maggior parte degli italiani è informata da sette televisioni e tre giornali. Rai1, Rai 2 e Rai 3 sono occupate dai partiti, Canale 5, Italia 1 e Retequattro sono di proprietà di Berlusconi, a capo di un partito, la7 appartiene a Telecom Italia. La Repubblica è di De Benedetti, tessera numero uno del Pdmenoelle, La Stampa è della famiglia Agnelli, gli azionisti di riferimento del Corriere della Sera sono le banche e Confindustria. Siamo manipolati dai partiti, dalle banche e dalle industrie che, attraverso i media, stravolgono la realtà - aggiunge il fondatore del Movimento 5 Stelle. - Vorremmo però sapere qualche cosa di più su chi ci informa. Una questione di reciprocità. Il perché talvolta non riportano i fatti, se sono costretti o se è una loro attitudine.

Vorremmo sapere quali direttive ricevono da parte dei loro giornali o telegiornali. Perché fanno le domande che fanno (talvolta tendenziose per dimostrare una tesi a priori). Vorremmo conoscerli più da vicino: i loro nomi, il loro curriculum, i loro pensieri» conclude Grillo.

Riguardo alla violazione del diritto di cronaca su “Il Giornale” c’è un appunto di Filippo Facci Quando una campagna tipo «Sallusti libero» mette d’accordo praticamente tutti (destra e sinistra, da Libero a Ingroia, dal Giornale a Di Pietro) vien voglia di rimettere qualche puntino sulle i e di sforzare la memoria prima di rincoglionire del tutto. Allora:

1) Non è vero che il caso Sallusti accomuna tutti i giornalisti nello stesso modo: il cosiddetto «omesso controllo» riguarda solo i direttori della carta stampata ed esclude invece i direttori delle testate online e delle testate televisive.

2) Non è vero che siano finiti in galera per diffamazione solo Giovanni Guareschi e Lino Jannuzzi. A parte che Jannuzzi finì solo ai domiciliari (prima di essere graziato) finirono dentro altri colleghi tra i quali ricordiamo solo Stefano Surace (che finì dentro a 70 anni per una diffamazione di trent’anni prima: Libero ci fece una campagna) e poi Gianluigi Guarino (direttore del Giornale di Caserta) per non parlare dei casi di Vincenzo Sparagna e Calogero Venezia del periodico Il Male.

3) Non è vero che Sallusti mercoledì potrebbe finire in carcere: in caso di conferma della condanna, essendo la sua pena inferiore ai 3 anni e non essendo quindi immediatamente esecutiva, occorrerebbe attendere che la Cassazione notifichi la sua decisione alla procura di Milano (e già qui passa del tempo) e poi che la Procura faccia eguale notifica ai legali di Sallusti (altro tempo che passa) sinché da quel momento, cioè dalla ricezione, gli avvocati avrebbero altri 30 giorni di tempo per proporre delle pene alternative come per esempio il classico affidamento ai servizi sociali. La semi-libertà no, perché la pena supera i sei mesi. Insomma, tempo per fare qualcosa ce n’è.

4) Non è vero che i giudici si sono limitati ad applicare la legge. Il tribunale può giostrarsi tra sospensione della pena e riconoscimento delle attenuanti generiche, e, anche se la pena non fosse sospesa, possono decidere se infliggere il carcere in totale discrezionalità: in genere infatti si limitano a una pena pecuniaria. Così non è stato.

5) Non è vero, purtroppo, che le cause intentate dai magistrati corrano in corsia di sorpasso surrettiziamente: l’hanno addirittura codificato e previsto da una circolare del Csm (la n. 5245 dell’11 giugno 1981) che teorizza «la trattazione più sollecita» dei procedimenti riguardanti i magistrati. Chi l’ha deciso? I magistrati.

6) Non è vero, o pare strano, che i legali del giudice diffamato, ora, dicano che ingabbiare Sallusti non gli interessa e che a fronte di un «equo risarcimento» ritirerebbero la querela: la sentenza della Corte d’Appello ha già previsto multe e quantificazione del danno (5000 Sallusti, 4000 Montinone, altri 30mila generici) e quindi non è chiaro perché la querela non la ritirino subito, visto che il pagamento è obbligato. Se ingabbiare Sallusti non fosse stato tra gli obiettivi, dunque, non è chiaro perché non si siano limitati ad un’azione civile (che puntasse solo ai soldi) e perché il pm che rappresenta l'accusa, soprattutto, abbia formulato Appello e dunque richiesto che carcere fosse.

7) È vero che molti giornalisti e molti giornali, ormai, tendono a considerare le cause per querela come un costo ordinario da mettere a bilancio: i tempi e i costi della giustizia portano a transigere (si paga una cifra e buonanotte) e si rinuncia a far valere le proprie ragioni. Qui le colpe sono da ripartire tra la lentezza della giustizia e una certa pigrizia di qualche avvocato e giornalista, non c’è dubbio.

8) È vero che la situazione di Sallusti è stata peggiorata da recenti decisioni dei governi di centrodestra: anche se è vero che tutti i governi, negli ultimi lustri, se ne sono fottuti. Per diffamazione semplice non si può finire in carcere, ma per quella «a mezzo stampa» sì in quanto è quasi sempre «aggravata» dall’attribuzione di un fatto determinato. Dalla famigerata «ex Cirielli» del 2005 in poi, peraltro, è impedito ai recidivi (come Sallusti, colpevole di altri «omessi controlli») di ottenere la sospensione del carcere per le pene che non superino i tre anni; non bastasse, sono state introdotte delle restrizioni nell’accedere alle pene alternative per chi abbia dei precedenti come i citati «omessi controlli». Nel caso di Sallusti, tuttavia, va detto che di precedenti che prevedano la carcerazione non ce ne sono: il direttore ha solo delle condanne indultate o trasformate in pena pecuniaria, nessuna delle quali per articoli scritti da lui.

9) È vero che la solidarietà tra penne d’ogni bandiera è una buona cosa, ma certi toni di sufficienza fanno prudere la penna. Il Giornale - direttore Maurizio Belpietro - nell’estate 1998 pubblicò la prima inchiesta in assoluto sul tema della diffamazione a mezzo stampa: 9 puntate, 60.277 battute a cura dello scrivente. Seguirono pochi servizi di Panorama e del Foglio mentre la Fnsi, sollecitata, fece solo sapere che: «Abbiamo chiesto agli editori l’istituzione di un fondo per coprire le spese legali». Traduzione: per risolvere il problema delle querele, basta pagare; come a dire che per risolvere il problema della malagiustizia basta andare in galera. Fu il Giornale a pubblicare regolarmente i monitoraggi del professor Vincenzo Zeno-Zencovich (anche qui, silenzio) e furono giornalisti di centrodestra o comunque non di sinistra (Roberto Martinelli, Alessandro Caprettini) a promuovere incontri e convegni. Di una fantomatica proposta di legge annunciata da Luciano Violante non si seppe più nulla, di un’altra presentata dal senatore radicale Pietro Milio, pure ispirata dalle inchieste del Giornale, pure nulla. Analogo destino ebbe una proposta del senatore Marcello Pera di Forza Italia. Tutto questo sempre nel silenzio: tranne un paio di casi (forse uno solo, nel 2009) in cui il condannato era di sinistra e allora c’è stato un po’ di baccano.

10) È vero che Antonio Di Pietro ora fa il buono e invoca un decreto per salvare Sallusti. Ma andrebbe ricordato che un suo progetto di legge prevedeva il «decreto cautelare di rettifica» oltreché la rilettura obbligatoria dei virgolettati agli intervistati, nonché - inevitabile - un inasprimento delle pene per il reato di diffamazione: alle testate che di tale diffamazione si macchiassero, a suo dire, doveva appunto essere imposta un’esponenziale sospensione delle pubblicazioni: più diffamazioni ergo più sospensioni, ogni volta più prolungate. Se per salvare Sallusti finiamo nelle mani del molisano, uh, siamo a posto.

A questo punto ci tocca dare la parola all'indagato. Cosa che nè i giornali fanno, nè i magistrati consentono. Laudati contrattacca con una intervista a di Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Mi accingo a chiedere formalmente alla Procura di Lecce di essere sentito. Non si possono condurre indagini sull'attività di un procuratore senza ascoltarlo». Amareggiato, ma al tempo stesso combattivo. Il Procuratore della Repubblica di Bari Antonio Laudati, indagato dalla Procura di Lecce, respinge le accuse e fa quadrato intorno all’ufficio inquirente che dirige da tre anni. L’inchiesta è quella partita dalla denuncia del Pm Giuseppe Scelsi (oggi alla Procura generale), il magistrato che per primo ha indagato sulle escort reclutate da Gianpaolo Tarantini per partecipare a feste esclusive in residenze private dell’ex premier Silvio Berlusconi.

Procuratore, due giorni fa alcuni suoi sostituti sono stati sentiti come persone informate sui fatti dal procuratore di Lecce Cataldo Motta. Come commenta la notizia?

«Ho il massimo rispetto delle procedure istituzionali e sono convinto che chi svolge una funzione come la mia pubblica e di rilievo deve essere sottoposto a ogni forma di controllo. Sono sicuro di non avere nulla da temere perché ho improntato il mio comportamento al rispetto della legge, all’imparzialità della mia funzione e al perseguimento della giustizia».

Prima il Csm, poi gli ispettori ministeriali (i cui accertamenti al momento sono finiti con un nulla di fatto), infine la Procura di Lecce. Le verifiche sul suo operato non finiscono mai?

«Non posso non rilevare che questo tipo di accertamenti è iniziato un anno fa, ma un’indagine a carico di un procuratore non può durare tanto. Occorre dare risposte rapide sia che siano stati commessi reati, sia che non siano stati commessi, soprattutto per la credibilità dell’ufficio».

La pensano allo stesso modo migliaia di persone indagate che vivono in un «limbo» e che chiedono senza fortuna di potere dire la loro. La giustizia non è uguale per tutti?

«Capita a me quello che accade a tanti cittadini. Rappresento, però, che, indipendentemente dalla vicenda personale, la questione si riverbera sull'intero ufficio. Non sostengo che la mia posizione è diversa, ma lamento che così si mette a rischio la credibilità della giustizia e delle istituzioni. Una situazione che deve essere definita in tempi rapidi. Per questo voglio subito essere interrogato».

In realtà l’inchiesta di Lecce sembra volere accendere un faro non tanto o non solo sulla sua attività, ma anche su quella di alcuni suoi sostituti. Qual è il clima che si respira nel Palagiustizia?

«Non so se la vicenda riguarda altri magistrati, e comunque, leggendo i giornali, si tratta di cose avvenute prima del mio arrivo a Bari. Sono dispiaciuto della rappresentazione che viene data del nostro ufficio. In questi tre anni abbiamo svolto una grande mole di lavoro in rapporto all’organico e alle scarse risorse disponibili. Occorrerebbe guardare quello che facciamo tutti i giorni e mandare in soffitta tutti i veleni».

Eppure proprio l’indagine più delicata sarebbe stata rallentata. E poi ci sono l’aliquota e la banca dati volute da lei.

«Al mio arrivo mi sono posto due obiettivi: trasparenza ed efficienza. Ho istituito pool di magistrati, un coordinatore, è stata potenziata la polizia giudiziaria, ho applicato alla Procura di Bari quanto ho imparato in Antimafia: si lavorava in pool per garantire maggiore correttezza possibile delle decisioni (sei occhi guardano meglio di due) e per evitare la sovraesposizione di un singolo Pm».

Alla luce delle accuse che le vengono mosse, considera gli obiettivi raggiunti?

«L’inchiesta Tarantini è stata divisa in sette tronconi tutti a processo, prima che arrivassi non era stato neanche arrestato. Il processo Tedesco è all’udienza preliminare, prima del mio arrivo non era stata notificata neanche un’informazione di garanzia. Per tutti questi processi c'è la valutazione di Gip, del Riesame e della Cassazione. Trovo una certa amarezza nel fatto che il lavoro dei miei colleghi, al prezzo di grandi sacrifici anche personali, passi in secondo piano. Nessun rallentamento, dunque, per non parlare della fantomatica ricostruzione della “aliquota”. Sono solo stati creati gruppi “ad hoc” di Carabinieri (per Tedesco) Gdf (per Tarantini) e Polizia (per le fughe di notizie) decisi dai vertici della forze di polizia. L’accusa è smentita dai fatti».

Pensa di avere commesso qualche errore?

«Sì, per esempio, con il senno di poi, non avrei trasmesso al Procuratore generale presso la Cassazione la “relazione Sportelli”, in cui venivano evidenziate tutte le anomalie commesse prima del mio arrivo. Pensavo fosse mio dovere segnalarle, e, invece, la relazione si è ritorta contro di me».

Prima dello scandalo si parlava di lei come possibile Procuratore di Napoli o Roma o come prossimo Procuratore nazionale antimafia. Tutto sfumato? Pentito, oggi, di avere scelto Bari?

«Chi assume un ruolo come il mio in un distretto importante come Bari accetta anche il rischio della sovraesposizione. Sono stati anni pesanti, ma ho fatto una scelta di cui non mi pento. Sono convinto che il tempo è galantuomo e mi darà ragione».

Tra un anno scade il suo primo «mandato». Ne seguirà un altro? Cosa farà da grande?

«Chi fa il Procuratore ha incarichi a termine, indipendentemente dalla propria volontà. La legge stabilisce quanto devo rimanere, ma è un problema che non mi pongo adesso anche perché fino a quando non avrò dimostrato ai cittadini l'assoluta infondatezza di tutte le questioni sollevate nei miei confronti, mai penserò di cambiare incarico. Credo di dovere dare ai cittadini la sicurezza che hanno avuto un Procuratore al di sopra di ogni sospetto e che non ha commesso alcun reato».

Perquisizioni e spogliarelli: le intimidazioni ai cronisti, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. Uno studio rivela i metodi dei magistrati, dai blitz alle ispezioni "personali". Scrivere per il Giornale, o per qualsiasi altro giornale, sta diventando rischioso. Se adesso si va dritti in galera non è che fino a ieri la magistratura ci andasse leggera e non avesse altri strumenti per renderti la vita e la professione impossibili. Utilizzava (e utilizza) intercettazioni a strascico e soprattutto si avvale di uno strumento invasivo, ritorsivo, intimidatorio: quello della perquisizione-sfregio, a casa e in ufficio, nelle stanze dei tuoi bimbi o in redazione, a ficcare il naso nelle tue agende, aprendo i libri, i cd, tra la biancheria, in garage o in frigorifero, nell'appartamento di mamma e papà, perfino dai tuoi nonni. Tutto per scoprire la «fonte» e sequestrare il documento - che non trovano mai - all'origine di quella rappresaglia. Ormai è routine: si presentano all'alba, ti sequestrano fisicamente spesso fino a notte fonda, con decine di sbirri a mettere Le mani nel cassetto (e talvolta anche addosso), come titola uno studio del Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti rintracciabile su internet sui cronisti perquisiti. Storie drammatiche e paradossali. Il Giornale ovviamente la fa da padrone con Vittorio Feltri e Nicola Porro a raccontare la violenza del blitz che colpì anche Sallusti, sulla farsa del ricatto all'ex presidente di Confindustria. «La Procura di Napoli era partita lancia in resta contro la supposta macchina del fango da me diretta - racconta Feltri - nel frattempo però mi ero dimesso, cedendo il comando a Sallusti (...) e al mio posto fu perquisito lui che non c'entrava nulla, al tempo dei fatti, salvo aver firmato il pezzo. Fu perquisito anche Nicola Porro. Fisicamente. Carabinieri dappertutto: al Giornale e nelle abitazioni dei reprobi. Roba da matti. Ventiquattr'ore dopo pubblicammo davvero un dossier sulla Marcegaglia». Era un falso, collezionato con gli articoli dei giornali illuminati e progressisti. Porro non se lo scorderà più quel giorno. Nudo davanti ai carabinieri come un boss mafioso. «Sono stato perquisito per un'intercettazione telefonica. Il sottoscritto all'epoca dell'intercettazione non era indagato. Il reato di cui mi sarei macchiato (violenza privata) non è di quelli per cui il codice prevede le intercettazioni. Con questi criteri anche Babbo Natale sarà presto messo sotto controllo (...)».Tra i racconti dei cronisti del Giornale inseriti nel pamphlet anche quello di chi scrive, recordman del triste settore (una ventina di perquisizioni all'attivo, l'ultima in albergo a Montecarlo per la casa Fini-Tulliani). Poi c'è il nostro Stefano Zurlo, anzi suo figlio Giacomo (all'epoca aveva 4 anni) a cui le forze dell'ordine piombate in cameretta chiesero dove papà nascondesse le carte di uno scoop su Pacini Battaglia. E che dire di Anna Maria Greco «colpevole» di aver recentemente pubblicato su questo quotidiano un atto sulla pm Boccassini: perquisita davanti alla famiglia schierata, invitata a spogliarsi e sottoporsi a ispezione personale («...Mi dicono: "ci dia i documenti, così la finiamo qui: dove li ha nascosti?". Ho risposto: "Non ce li ho". Mi hanno detto che dovevano procedere anche alla perquisizione "personale". Mi sono preoccupata seriamente quando la donna carabiniere ha infilato i guanti di lattice. Mi ha fatto entrare in un bagno e mi ha detto di spogliarmi. "Anche la biancheria intima", ha precisato. Non volevo crederci. "E che, nascondo documenti segreti nelle mutande?"». Sull'onda del trattamento-Greco passiamo ai perquisiti degli altri giornali, come Roberta Catania di Libero, anche lei invitata a togliersi tutto per accertare che non nascondesse una chiavetta-dati coi segreti dell'inchiesta sul G8. Idem Carlo Mion de la Nuova Venezia che a quattro mesi dalla pubblicazione di un video dell'inchiesta Unabomber, è sollecitato a denudarsi: «Eh no, mi offendete! Ma pensate che per quattro mesi vado in giro col dischetto infilato da qualche parte?». Lo spogliarello è evitato, la perquisizione no. A Fabio Amendolara della Gazzetta del Mezzogiorno, per il caso Claps, e ad Enzo Bordin del Mattino di Padova, per una storia di trafficanti di droga, in assenza della pistola fumante sequestrarono interi archivi e fascicoli estranei al caso. Quanto capitato nel 2008 a Emiliano Fittipaldi e a Gianluca Di Feo de l'Espresso, per inchieste su camorra e politica, non ha eguali: «Ho subito due perquisizioni a una settimana l'una dall'altra su due inchieste differenti», racconta il primo. Anche Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera è stata perquisita due volte in una settimana, nel 2002, «perché nel primo controllo non era stata trovata la mia agenda personale». Nella casetta delle Barbie delle figlie della brava Alessandra Ziniti di Repubblica il Ros cercò l'identikit del capomafia Provenzano. L'appartamentino venne smontato, senza alcun riguardo per i vestitini, le scarpe e le borse delle bambole. La faccia del boss non saltò fuori. Quella della figlia Giulia, arrabbiatissima per il mini guardaroba in disordine, i carabinieri non la scorderanno. Le pagine del rapporto curato dall'Ordine dei giornalisti nel 2011 sui cronisti fatti perquisire dai magistrati è sotto gli occhi di tutti.

Direttori plurindagati in tutte le redazioni: non solo al Giornale, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Anche a carico di chi guida "Corriere" e "Repubblica" decine di inchieste per diffamazione. La pena più dura? Sotto i sei mesi. Ventisei nell'arco di due anni. E solo al tribunale di Milano.  È il numero degli articoli del Corriere della sera finiti sotto processo insieme ai giornalisti che li hanno scritti e al direttore della testata. Un record, ma in una graduatoria affollata di imputati. Il Giorno è a quota 17, Panorama segue a ruota a 15, poi via via tutti gli altri. Fa parte del mestiere, una professione che si svolge su un confine difficile, mai fissato con chiarezza.

Basta poco e scatta l'accusa di diffamazione. L'avvocato Sabrina Peron ha sviluppato nel 2007 uno studio approfondito, uno dei pochi sul tema, per conto dell'allora presidente dell'Ordine dei giornalisti della Lombardia Franco Abruzzo. La fotografia è un po' datata ma molto interessante perché al setaccio del legale sono passate tutte la cause arrivate al tribunale di Milano fra il 2003 e il 2004 e poi tutti i procedimenti definiti dalla corte d'appello del capoluogo lombardo nel triennio 2003-2005. Le cifre del contenzioso sono imponenti: un flusso continuo di carte bollate che ritorna nelle aule in cui si discutono i procedimenti di secondo grado. Qua troviamo il Giornale che sfuggiva al rilevamento precedente perché gran parte delle sentenze che lo riguardano arriva dal tribunale di Monza. E il Giornale è al vertice di questa poco invidiabile classifica con 55 processi, ma gli altri vengono dietro, sia pure a distanza: Panorama è a 19, Repubblica a 16, il Corriere della sera a 13, la Padania a 8, le tv di Mediaset a 7. Non è possibile generalizzare, ma si può affermare che i processi per diffamazione sono all'ordine del giorno, per non parlare di quelli civili che richiedono alti conteggi. Attenzione: una sentenza come quella che riguarda Alessandro Sallusti si fa però fatica a trovarla.

In tribunale, nel giro di 24 mesi, la punizione più dura è sempre sotto i 6 mesi. E in corte d'appello si scende ancora, anche se su un calendario spalmato su tre anni: il massimo della pena è di 4 mesi e 15 giorni, a correzione di un verdetto precedente, non di matrice ambrosiana, che aveva appioppato al giornalista una pena pesantissima di 24 mesi di carcere. In secondo grado, come si vede, la punizione è stata mitigata, il contrario di quel che è accaduto ad Alessandro Sallusti che in prima battuta era stato condannato a pagare 5mila euro, ovvero una pena pecuniaria. La multa è la pena standard di questi processi, il carcere l'eccezione.

Si è chiuso a colpi di euro il 94 per cento dei processi in tribunale, solo il 6 per cento delle querele è finito con la condanna al carcere, ma sempre con una pena poco più che simbolica. In corte d'appello le proporzioni cambiano ma non di molto: il 72 per cento delle condanne non va oltre la multa e solo il 20 per cento si traduce in una condanna detentiva. Insomma, il caso Sallusti è in controtendenza: è raro che la pena salga passando dal primo al secondo grado. È ancora più difficile trovare una condanna a 14 mesi e, anche se mancano dati specifici, sembra davvero un unicum la mancata concessione della condizionale. Non sorprende invece il fatto che a querelare il direttore dimissionario del Giornale sia stato un magistrato. In tribunale, dove già sono di casa, i giudici sono parte offesa nel 18 per cento dei procedimenti per diffamazione. Le persone giuridiche, quindi società e associazioni, rappresentano il 14 per cento del totale, contro il 9 per cento dei politici. In appello i magistrati svettano con il 19 per cento delle querele, ma i politici li appaiano con la stessa percentuale, mentre gli amministratori delle persone giuridiche si fermano al 9 per cento.

I custodi della legge sono dunque fra le categorie più attente nel non farsi pestare i piedi. L'alluvione di numeri può anche risultare indigesta, ma aiuta a far capire lo guerriglia che si combatte su quel confine inquieto. In particolare sul terreno della cronaca dove spesso si accende la scintilla della disputa: nel 46 per cento dei casi in tribunale, un po' meno in secondo grado. Certo, nove sentenze su dieci puniscono l'assenza del criterio di verità, insomma la pubblicazione di notizie false. Patacche. Ma in appello emerge un altro fenomeno allarmante che rischia di mandare al macero tutti gli altri numeri: un quarto dei processi svanisce nella nuvola della prescrizione. Le cancellerie sono ingolfate, ma col passare del tempo le accuse si assottigliano e le pene scendono.

Con Sallusti è successo tutto il contrario. Ma, si sa, le statistiche non hanno la faccia del direttore del Giornale.

Tortora, Sallusti. E Giangrande?

Enzo Tortora, icona dell’ingiustizia in Italia: un esempio per nulla. E poi Alessandro Sallusti esempio inane di ritorsione censoria. Ma perché nessuno parla di Antonio Giangrande?

«Questa è un’Italia ipocrita e dissimulatrice. - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “Italiopolitania, Italiopoli allo sbaraglio”.  La premessa alla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare – Si parla sempre a sproposito di meritocrazia, ma nulla si fa contro le rendite di posizione. Ruoli, funzioni ed incarichi pubblici immeritati? No! Meglio parlare sempre e solo di crisi e di soldi o sparlare di quella politica stantia che gli italioti votano e sempre voteranno. Il solito populismo sempre in cerca di una competenza ed onestà di parte. Periodicamente si parla di Enzo Tortora come icona dell’ingiustizia e di tutti coloro che scontano da innocenti le pene dell’inferno in carcere:  “Silvia mia carissima questo, te lo confermo, è un paese infame. Io sono, certe volte, proprio disperato. In questo paese non succede nulla. E’ questo che mi avvelena e mi dispera. Una ad una le speranze di una rigenerazione morale se ne vanno. Una Stampa stupida, serva, incline solo al pettegolezzo ed ai circensi. Aliena ai problemi veri e reali. Uno spettacolo immondo. Sono deluso Silvia. Mi pare di aver gettato via la mia vita e debbo fare anche autocritica. Credevo nella legge, nei magistrati e nelle istituzioni. Quello che non si sa è che una volta gettati in galera non si è più cittadini, ma pietre. Pietre senza suoni, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. Ed il mondo gira: indifferente a quest’infamia.” (lettere di Enzo Tortora alla figlia Silvia). Enzo Tortora un martire che illumina le battaglie per la responsabilità dei magistrati, che i manettari non vogliono.

Poi si è passati a parlare di Alessandro Sallusti come la vittima esemplare della ritorsione censoria del potere giudiziario. Un esempio per tutti i giornalisti liberi e coraggiosi che scrivono anche contro i magistrati, denunciandone abusi ed omissioni. Ma la Cassazione smentisce sé stessa pur di irrorare una pena esemplare: punire uno per tacitarne mille. La sentenza 19985 del 30 settembre 2011 della terza sezione della Cassazione parlava di «immediata rilevanza in Italia delle norme della Convenzione europea dei diritti dell'uomo», di «obbligo, da parte del giudice dello Stato, di applicarle direttamente» e di «tenere presente l'interpretazione delle norme contenute nella Convenzione che dà la Corte di Strasburgo attraverso le sue decisioni». Ma cosa dicono la Convenzione e la Corte Europea si chiede “Il Giornale”? Innanzitutto, stabiliscono un principio cardine e fondamentale: nessun giornalista può andare in carcere per il reato di diffamazione. L'assunto è stato ribadito nella sentenza del 2 aprile 2009 nella quale la Corte di Strasburgo ha condannato la Grecia a risarcire il giornalista Kydonis perché «le pene detentive non sono compatibili con la libertà di espressione» e perché «il carcere ha un effetto deterrente sulla libertà dei giornalisti di informare con effetti negativi sulla collettività che ha a sua volta diritto a ricevere informazioni». Se ciò non bastasse, la Corte di Strasburgo ha anche sottolineato come la previsione del carcere sia «suscettibile di provocare un effetto dissuasivo per l'esercizio della libertà di stampa». Anche la Corte Costituzionale è stata snobbata. Nella sentenza 39/2008, la Consulta aveva stabilito che «le norme della Convenzione europea devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati a uniformarsi». Concetto espresso anche dal Consiglio d'Europa. Oltretutto è indagato il magistrato che querelò Sallusti: però, fascicolo fermo. Così scrive Andrea Morigi su “Libero”.

L'accusa a Cocilovo: abuso d'ufficio nella gestione del patrimonio di una donna. Il figlio: "La rovinò". Dal 2009 nessuna novità. Il magistrato Giuseppe Cocilovo dovrà pazientare ancora un po’ per affermare che «giustizia è fatta». Almeno finché non si risolverà la vicenda giudiziaria che lo vede iscritto al registro degli indagati sin dal 15 giugno 2009 per il delitto di abuso d’ufficio. È un esposto, depositato alla Procura di Milano una decina di giorni prima, a chiamarlo in causa per una vicenda che risale agli anni fra il 2006 e il 2008, quando Cocilovo era giudice tutelare presso la VII sezione civile del tribunale di Torino. Per qualche motivo ancora da chiarire, tutta la documentazione relativa al procedimento giaceva fino a venerdì mattina sul tavolo del giudice per le indagini preliminari Fabrizio D’Arcangelo, nonostante una motivata richiesta d’archiviazione da parte del pubblico ministero Grazia Colacicco risalente al 17 febbraio 2010. Certo, com’è noto per l’articolo a firma Dreyfus comparso su Libero nel febbraio 2007, nel giro di soli cinque anni e mezzo si è giunti a una sentenza definitiva di condanna contro Alessandro Sallusti. Ma in quel caso il torto subito dal magistrato è stato riparato. A questo punto, anziché indignarsi contro i magistrati, monta l’antipolitica e lì la stampa a cavalcare l’indignazione sugli sprechi dei politici. Dallo spreco e dall’approfittamento si passa direttamente a parlare di corruzione. I giustizialisti ed i manettari sviano i temi forti e sono sempre lì pronti a crocifiggere tutti coloro che sono, addirittura, colpiti solo da un rinvio a giudizio. Tapini loro che si beano della loro ignoranza o dissimulano la loro malafede. Loro non sanno, o fanno finta di non sapere, che ben pochi sono coloro che hanno il privilegio di subire un giudizio, rispetto a milioni di denunce, che spesso ci si astiene dal presentare per l’improvvida conclusione (insabbiate o archiviate), e che il Gip-Gup non è altro che la “Longa Manu” del Pubblico Ministero. Spesso tali rinvii a giudizio sono per reati bagatellari commessi da poveri cristi o per reati di opinione. Molte volte tali giudizi si risolvono in assoluzioni o proscioglimenti in senso lato. Quasi mai si procede per abuso d’ufficio: il reato dei poteri forti. Ergo: l’arma pretestuosa della giustizia per discernere i buoni (ricchi e potenti) dai cattivi (poveri ed analfabeti); gli amici (di sinistra) dai nemici (di destra). In questo stato di appannamento mentale, influenzato dalla crisi, che addita i politici della fazione opposta come causa di tutti mali, c’è chi racconta una realtà diversa. Antonio Giangrande è il portavoce nel mondo in video ed in testi (non icona, non esempio) di chi in questa Italia bigotta voce non ha. Rappresenta centinaia di migliaia di candidati non idonei ai concorsi pubblici truccati, denunciandone le anomalie: per questo da 15 anni avvocati e magistrati non lo abilitano alla professione forense. Gente, che lui ha denunciato, solo in 2 minuti giudica i suoi elaborati, lasciandoli immacolati ed immotivati. Elaborati tecnici che, a parte le operazioni ante e post, si leggono con la dovuta attenzione in non meno di 10 minuti. Egli rappresenta centinaia di migliaia di innocenti in carcere, raccontando della malagiustizia che rende il sistema inefficiente e facendo conoscere singole storie di ordinaria ingiustizia che altrimenti rimangono nell’oblio. Egli, a parte ciò, racconta l’Italia per quella che è, approfondendo tutte le problematiche che l’attanagliano. Ma non senza, però, dal presentare al mondo con la sua “Tele Web Italia” la bellezza di cui la penisola è composta. Egli discerne l’Italia dagli italiani. Per questo i suoi siti web di informazione vengono chiusi e lui accusato del reato di diffamazione a mezzo stampa. Peccato però, che a differenza di Alessandro Sallusti, egli in sentenza è sempre dichiarato estraneo ai fatti. Non innocente, ma estraneo ai fatti incriminati. Già. Ma, stante l’utilità sociale del suo operato e le ritorsioni subite, perché di Antonio Giangrande nessuno ne parla?»

29 ottobre 2012. Ventiquattresima udienza.  Parla Michele Misseri. Da imputato.

L’ennesimo ed inutile sciopero degli avvocati penalisti ha imposto il rinvio dell’udienza del 23 ottobre. Preliminarmente l'avv. Franco Coppi, uno dei difensori di Sabrina Misseri accusata con la madre Cosima Serrano dell'omicidio e di sequestro di persona, ha chiesto di dichiarare inutilizzabili le parti del verbale dell'incidente probatorio del 19 novembre 2010 nelle quali Michele Misseri accusa del delitto la figlia Sabrina. Per il legale, nel corso dell'incidente probatorio, il gip avrebbe rivolto un avvertimento troppo sintetico sulle conseguenze che avrebbero potuto provocare le dichiarazioni accusatorie verso terzi da parte di Michele Misseri, tenuto conto che l'incidente probatorio era stato fissato proprio perchè l'agricoltore intendeva accusare del delitto altre persone e non se stesso, come aveva fatto nelle precedenti settimane. In particolare, Michele Misseri non sarebbe stato avvertito del fatto che, accusando terzi, sarebbe diventato anche testimone del processo, oltre che imputato. In subordine, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale. La richiesta è stata fatta dall'avv. Coppi prima che la Corte iniziasse l'eventuale interrogatorio di Michele Misseri. La Corte di Assise di Taranto, al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, dopo cinque ore e mezzo di camera di consiglio ha rigettato la richiesta della difesa di Sabrina Misseri di dichiarare inutilizzabile il verbale dell'incidente probatorio del 19 novembre 2010 nel quale Michele Misseri accusò del delitto la figlia Sabrina. La Corte ha inoltre dichiarato «manifestamente infondata» la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa di Sabrina sempre in relazione al verbale dell'incidente probatorio. Nell'ordinanza con la quale ha rigettato le eccezioni della difesa di Sabrina Misseri, la Corte di Assise di Taranto ha indicato che, quando venne sentito nell'incidente probatorio il 19 novembre 2010, Michele Misseri era incompatibile con il ruolo di eventuale testimone della difesa, in quanto ancora coindagato con la figlia Sabrina per omicidio volontario. Per questo motivo l'eccezione sollevata dalla difesa di Sabrina relativa al mancato avviso completo a Michele Misseri delle conseguenze delle sue dichiarazioni è, per la Corte, da considerarsi superata. Il decreto di archiviazione dall'accusa di omicidio volontario a carico di Michele Misseri venne firmato solo nel 2011. Potere dei media. Michele Misseri in aula a Taranto per l'udienza del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi ha sfoggiato il consueto "look da intellettuale".

Michele Misseri è tornato a parlare dopo mesi di silenzio. Silenzio dovuto al fatto che nessuno gli crede. Quando si è seduto dinanzi alla Corte di Assise e il presidente della Corte, Cesarina Trunfio, gli ha chiesto se volesse rispondere alle domande, Michele Misseri ha detto «per il momento no». Il presidente gli ha fatto presente che era quello il momento e allora l'agricoltore ha detto «mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Prima della chiusura dell'udienza, il pm Mariano Buccoliero ha chiesto l'acquisizione di una serie di verbali contenenti dichiarazioni di Michele Misseri rilasciate ai magistrati nel corso dell'inchiesta ed ha poi consegnato la relazione dei carabinieri del Ros di Lecce, il Reparto operativo speciale, con cui si stabilisce che il giorno dopo l'omicidio di Sarah, Sabrina e sua madre Cosima sarebbero andate al pozzo per controllare come Michele avesse nascosto il corpo della ragazzina. Il lavoro degli uomini guidati del colonnello Vincenzoni smentisce la parole di Valentina, la sorella di Sabrina, che aveva raccontato di aver ricevuto una telefonata dalla madre e dalla sorella il 27 settembre mentre erano nei loro campi fuori città. I tabulati dimostrano che quella telefonata c'è stata. Ma le due donne non erano nelle loro campagne: la cella telefonica agganciata è quella invece che fa riferimento al pozzo, il luogo dove Michele Misseri aveva nascosto il cadavere di Sarah. Bisogna tener conto, sotto l’aspetto processuale, che Michele Misseri è stato chiamato a rendere l’esame in qualità di imputato. Se avesse parlato, secondo il suo intendimento palesato dalle frequenti comparsate in tv, si sarebbe auto accusato del delitto. In questo modo avrebbe disatteso le indicazioni del suo avvocato, il quale invece ha interesse a scriminare la posizione del suo cliente. Se ci fosse stata la dichiarazione, forse, avrebbe portato al lascito del mandato di difesa. Il rilasciare le dichiarazioni spontanee non avrebbe conseguito lo stesso effetto, in quanto queste sono prese in minor considerazione dai giudici. Probabilmente le attese dichiarazioni di Michele Misseri saranno rese quando costui sarà chiamato a parlare in qualità di testimone della difesa si Sabrina e Cosima.

Allora sì che non ci sarà imbarazzo dell’avvocato e ci sarà obbligo di risposta, salvo per quelle parti che lo inchioderebbero al delitto.

Agli atti del processo restano dunque le diverse versioni - tre nella sostanza, almeno sette se si tiene conto delle variazioni nella ricostruzione dell’omicidio – fornite da Michele Misseri nel corso dell’inchiesta. Da quella autoaccusatoria di tutto del 6 ottobre 2010, quando fece ritrovare anche il corpo della povera Sarah, alla chiamata in correità della figlia Sabrina del successivo 15 ottobre, all’ accusa del 4 novembre, sempre alla figlia, di aver ucciso lei la cuginetta, sino a tornare ad addossarsi tutte le responsabilità, a partire dai primi mesi del 2011. "Sono stato io", "Ho fatto tutto da solo", "E' stata mia figlia", "No, ho mentito, l'ho uccisa io". Queste le versioni antitetiche di Michele Misseri, almeno 7, a cominciare da quella del 6 ottobre 2010, quando "zio Michele" crolla dopo ore di interrogatorio nella caserma del comando provinciale dei carabinieri di Taranto. Dice di aver ucciso la nipote in garage dopo un avance sessuale e il rifiuto della ragazzina, poi porta gli investigatori al pozzo in contrada Mosca nelle campagne di Avetrana, facendo ritrovare il cadavere e successivamente i resti di alcuni effetti personali della nipote. Trascorrono nove giorni, è il 15 ottobre 2010, quando Michele Misseri tira in ballo la figlia Sabrina: è lei, dice, che ha trattenuto per le braccia Sarah mentre lui la strangolava con una corda. Sabrina viene arrestata. Il 4 novembre arriva il primo forte atto d'accusa nei confronti di sua figlia: è accaduto tutto in garage, Sabrina ha strangolato Sarah, mentre lui dormiva in casa ed è stato svegliato proprio dalla figlia che cercava aiuto. Ancora, due mesi dopo, alla vigilia di Natale, Michele Misseri "si pente" e scrive dal carcere alle figlie Sabrina e Valentina dicendo di aver accusato ingiustamente la secondogenita. Nel febbraio 2011, ma la notizia trapela solo dopo qualche settimana, Michele Misseri scrive al suo legale scagionando completamente la figlia. Da quel momento in poi "zio Michele" continua ad autoaccusarsi del delitto, cambiando però spesso ricostruzione. Per la Procura, tuttavia, la ricostruzione è chiara: Sarah sarebbe stata uccisa dalla cugina per gelosia, folle di amore per Ivano, amico di entrambe ma molto più vicino, negli ultimi tempi a Sarah. Il delitto sarebbe avvenuto in casa, con l'aiuto della mamma di Sabrina, Cosima Serrano. Michele Misseri, invece, sarebbe responsabile solo di soppressione di cadavere oltre che del furto del cellulare della nipote e di danneggiamento seguito da incendio (bruciò vestiti e zaino della ragazzina). Via via sono cadute invece le accuse di omicidio volontario e violenza sessuale (inizialmente raccontò agli inquirenti di aver abusato del cadavere prima di nasconderlo). «Tutto quello che fa lo zio Michele è sbagliato. Nessuno mi crede. Per questo non parlo più. Ero diventato il burattino di tutti». Michele Misseri torna a parlare in televisione e lo fa a “Il Graffio”, programma di approfondimento del Gruppo Norba e condotto dal direttore Enzo Magistà, in onda, lunedì 22 ottobre 2012, alle ore 21, su TgNorba24. «Non mi credono - aggiunge Misseri al microfono de “Il Graffio” - ma la verità non la sanno neanche loro. Io so solo che due innocenti sono in carcere e io continuerò a lottare per dimostrare che questa storia non c’entrano niente». “Lei continua a dire che è colpevole mentre sua figlia e sua moglie sono innocenti, allora perché non viene a dirlo in un’aula di tribunale?”, ha chiesto la giornalista a zio Michele che ha risposto: “Non lo faccio per non aggravare ancora di più la posizione degli innocenti perchè quando parlo io, da una cosa se ne capisce sempre un’altra, non c’è niente di lucido. Loro sanno parlare l’italiano e sanno rispondere, io invece non so rispondere e può essere che faccio venire a loro carico ancora più cose”. Zio Michele che deve rispondere della sola soppressione del cadavere mentre si accusa anche dell’omicidio, si rifiuta quindi di parlare con i giudici ma lo fa con le telecamere. Ad esempio,  il 28 ottobre 2012, si è nuovamente fatto intervistare dalla giornalista Mediaset, Ilaria Cavo, assieme alla quale sono andati vicino al pozzo in contrada Mosca dove il 26 agosto del 2010 ha soppresso la nipote. Nell’occasione Misseri ha deposto dei fiori davanti alla foto di Sarah Scazzi posta nella colonna che qualcuno ha fatto erigere per ricordare il luogo dell’orrore.

Sei notizie in media ogni giorno su abusi e maltrattamenti subite da bambine e ragazze in Italia. E' il dato più significativo di un Dossier sulla condizione delle minorenni italiane messo a punto dall'agenzia ANSA , insieme a Terre des Hommes, in occasione della Giornata Mondiale delle bambine e delle ragazze indetta dall'Onu. Il dossier, realizzato su materiale tratto dall'archivio dell'Agenzia, prende in esame la cronaca di 18 mesi (gennaio 2011-giugno 2012). In questo periodo sono state trasmesse oltre 130 mila notizie di cronaca; i casi di abusi e maltrattamenti che hanno interessato bambine e ragazze sono state 3.196, appunto circa 6 al giorno.

Inoltre, si sono registrati 804 casi di pedofilia e adescamento online, sempre in 'rosa', seguiti da fatti di violenze familiari, abbandoni, trascuratezze, bullismo. I primi cinque casi più “popolari” al centro della cronaca nera per mesi sono stati quelli di Sarah Scazzi (914 notizie), Yara Gambirasio (413), Elisa Claps (304), delle gemelle Schepp (280), assieme alle notizie (46) che ancora oggi arrivano sulla scomparsa di Denise Pipitone. Certo è che nel riferire i fatti, bisogna parlare del contesto.

PARLIAMO DELLA MAFIA DEGLI AUSILIARI GIUDIZIARI. A quanto ammonteranno i compensi per i custodi giudiziari dell’ILVA?

I custodi giudiziari spesso si spacciano anche per amministratori giudiziari, per poter pretendere con l’avvallo dei magistrati compensi raddoppiati e non dovuti. «Essendo i consulenti tecnici, i periti, gli interpreti ed i custodi/amministratori giudiziari i principali ausiliari dei magistrati, come a questi ci si pretende di porre in loro una fiducia incondizionata. Spesso, però ci si accorge che tale fiducia è mal riposta, sia nei collaboratori, che nei magistrati stessi.

Ma a ciò bisogna far buon viso a cattivo gioco (giudiziario), se no succede quello che succede a me - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “Malagiustiziopoli” nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare – Io sono inviso dalla classe forense e giudiziaria, in quanto rendo pubbliche le magagne che si annidano presso gli uffici giudiziari. Il giornalista che va per la maggiore non vuole o non può pubblicare certe notizie, perché non ha il coraggio o, pur saccente, non ha la perizia giuridica per affrontare tematiche processuali, che solo scaltri avvocati riescono a scalfire. Per esempio, pragmaticamente, su sollecitazione di molti avvocati di Taranto vicini all’Associazione Contro Tutte le Mafie, prendiamo il caso concreto della decisione del Presidente del Tribunale di Taranto, Antonio Morelli. Già abbiamo affrontato il caso di quel consulente tecnico che non ha risposto alle domande postegli dal giudice delegante ed anzi andò in antitesi alla consulenza tecnica della parte convenuta e ben oltre la richiesta della consulenza tecnica della parte attrice. In quel caso il Pm archiviò a carico del CTU la denuncia per falso, ma, ciò nonostante, il dr Antonio Morelli estromise tale CTU dall’apposito elenco e per gli effetti quel consulente non fu più chiamato. L’archiviazione dette modo al consulente estromesso di rivalersi contro il denunciante per calunnia. Il denunciante a sua volta denunciò, inopinatamente il sottoscritto che lo difendeva in giudizio, per diffamazione a mezzo stampa per aver svolto un’inchiesta giornalistica sul funzionamento della giustizia a Taranto. Una golosa occasione per i magistrati di Taranto per tacitarmi, così come spesso hanno fatto, non riuscendoci. Ma arriviamo al caso di specie. Trattiamo della nomina e della remunerazione dei custodi/amministratori giudiziari. In questo caso trattasi di custodia dei beni sequestrati in procedimenti per usura. Il custode ha pensato bene di chiedere il conto alle parti processande, ben prima dell’inizio del processo di I grado ed in solido a tutti i chiamati in causa in improponibili connessioni nel reato, sia oggettive che soggettive. Chiamati a pagare erano anche a coloro a cui nulla era stato sequestrato e che poi, bontà loro, la loro posizione era stata stralciata. Questo custode ha pensato bene di chiedere ed ottenere, con l’avallo del Giudice dell’Udienza Preliminare di Taranto, ben 72.000,00 euro (settantaduemila) per l’attività, a suo dire, di custode/amministratore.  Sostanzialmente il GUP, per pervenire artatamente all’applicazione delle tariffe professionali dei commercialisti, in modo da maggiorare il compenso del custode, ha ritenuto che la qualifica spettante al suo ausiliario non fosse di custode i beni sequestrati (art. 321 cpp, primo comma), ma quella di amministratore di beni sequestrati (art. 321 cpp, secondo comma, in relazione all’art. 12 sexies comma 4 bis del BL 306/1992 che applica gli artt. 2 quater e da 2 sezies a 2 duodecies L. 575/1965). Il presidente Antonio Morelli ha riconosciuto, invece, liquidandola in decreto, solo la somma di euro 30.000,00 (trentamila). A parte il fatto che non tutti possono permettersi di opporsi ad un decreto di liquidazione del GUP, è inconcepibile l’enorme differenza tra il liquidato dal GUP e quanto effettivamente riconosciuto dal Presidente del Tribunale di Taranto.

Questa differenza fa sorgere qualche dubbio circa la bontà legale dei presupposti, a fondamento della richiesta, e la susseguente decisione di accoglimento della stessa. Va da sé che i giudicanti sono ingiudicati e poi si sa che su tutto si trova una giustificazione. E’ da scuola la lezione, però, data dal presidente del Tribunale, Antonio Morelli, al suo collega Giudice dell’Udienza Preliminare.

Morelli ha spiegato che è sbagliato considerare il custode giudiziario tour cour come amministratore e per gli effetti liquidare un compenso maggiore. Per due ordini di motivi: il primo è che non è ancora intervenuto il DPR previsto dal DLgs 14/2010 (istituzione dell’albo degli amministratori giudiziari); il secondo è che l’attività ed i compiti del custode, che danno diritto all’indennità prevista dall’art. 58 del DPR 1157/2002, sono infatti quelli di custodire e conservare la cosa custodita. “Né la figura dell’amministratore giudiziario, inserita dal legislatore nell’ampio contesto normativo di contrasto alle associazioni mafiose ed alle forme di criminalità similari, ha soppiantato la figura del custode, ma soprattutto non ha abolito, pur nell’ambito della sua qualifica, le attività tipiche di quello e cioè la custodia e la conservazione del bene sequestrato. E’ sufficiente, oltre che alla logica ed ai principi generali, fare riferimento al comma 8 dell’art. 2 sexies della legge 575/1965 che attribuisce all’amministratore il compito di provvedere alla custodia, alla conservazione ed alla amministrazione dei beni sequestrati anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi. Il senso del ragionamento - spiega Morelli - è che in concreto, tenuto conto della natura dei beni sequestrati, l’amministratore può svolgere attività tipiche del custode (custodire e conservare la cosa custodita), indipendentemente dal criterio nominalistico che lo definisce. Se si ragionasse diversamente si dovrebbe ritenere diverso dal custode colui che, nominato amministratore in procedimento per reati che prevedono tale figura, in concreto fosse chiamato a  svolgere compiti di mera custodia o di conservazione del bene nel senso sopra definito. Nel caso di specie i beni “amministrati” erano semplici immobili ad uso abitativo e le attività svolte non possono che considerarsi appropriata alla figura del custode e più in particolare al suo compito di sovrintendere alla conservazione del bene. Le argomentazioni di cui sopra conducono ad una conclusione di notevole rilievo in ordine ai criteri per determinare il compenso in maniera proporzionata alla natura e alla consistenza dei beni e delle attività svolta dal custode/amministratore. È infatti noto che ai sensi degli artt. 58 e 59 del DPR 115/2002 le tariffe relative alle indennità di custodia sono devolute a un decreto ministeriale e in mancanza agli usi locali. È noto, altresì, che il decreto ministeriale 256/2006 unico a provvedere un tariffario, contempla soltanto alcuni beni (motocarri, autoveicoli, motoveicoli e natanti) e che per gli immobili di cui al sequestro in questione, non vi sono usi locali che determinano le indennità di custodia. Non può allora che farsi ricorso ad un criterio di liquidazione secondo equità che, a parere del giudicante, deve prescindere dalle tariffe stabilite dagli ordini professionali, in quanto tutta la normativa in tema di custodia, così come di perizia e di consulenza tecnica, si scosta notevolmente dalle tariffe professionali, stante la diversità ontologica tra i compensi per attività chieste liberamente da privati e i compensi per attività costituenti un incarico di carattere pubblicistico. Prova di tale conclusione sta proprio nella necessità che il legislatore ha sentito di devolvere ad un decreto, non ancora emesso, un tariffario che, se avesse voluto, avrebbe potuto identificare con quello della categoria professionale. Alla stregua di tale considerazione, considerato il tempo della custodia, nonché la diligenza e la puntualità con la quale la stessa è stata espletata, ma anche la natura e la consistenza del patrimonio amministrato e la relativa semplicità degli interventi gestionali spiegati, si stima equo determinare l’indennità in euro 30.000,00” e non 72.000,00!! Tutto ciò sta a dimostrare che spesso e volentieri vi è una certa complicità tra magistrati ed ausiliari a speculare sulle disgrazie di chi, poi spesso, è prosciolto dalle accuse.  Caso limite  e quello di Giuseppe Marabotto. Come racconta “La Stampa” ed altri organi d’informazione, Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Si sapeva dal 2005. Si sa anche che i commercialisti e consulenti della procura restituivano a un suo collettore il 30 per cento. «Ci sono spese da sostenere» veniva detto loro. In tre hanno confessato. Pesanti le accuse: corruzione, associazione per delinquere, truffa aggravata ai danni dello Stato.

Per questo motivo anche a Taranto si augura lunga vita professionale al Presidente del Tribunale di Taranto, Antonio Morelli, anche perché il pensiero corre ai custodi giudiziari nominati per lo spegnimento degli impianti ILVA. Si pensi un po’, prendendo spunto da quanto suddetto ed adottando i criteri di liquidazione del GUP, quanto a questi sarà riconosciuto come compenso?»

PARLIAMO DI INTIMIDAZIONE. Per la serie: Giornalisti in galera, ma solo quelli che raccontano la verità e non sono accondiscendenti ai magistrati, specie ai PM. Si riporta la testimonianza di Umberto Brindani, direttore di “Oggi”. Il caso Sallusti, Salman Rushdie e una piccola storia che ci riguarda. Pochi giorni fa, potevo finire in galera anch’io. D’accordo, non è del tutto vero, ma mi sembra un buon incipit, forse sufficiente a convincervi a non girare immediatamente pagina. Da qualche settimana si ragiona del caso Sallusti (condannato a 14 mesi in via definitiva) e della questione dei giornalisti in carcere. So benissimo che alla maggior parte di voi, come dicono a Roma, non gliene potrebbe fregare di meno. E anzi, forse molti di coloro che non fanno parte della categoria, o della corporazione, qualche «pennivendolo» dietro le sbarre in fondo ce lo vedrebbero con gusto. Ma ne parlo perché la libertà di stampa, e cioè la libertà di esprimere il proprio pensiero, è il fondamento di ogni democrazia. E, se si manda in prigione una persona per aver scritto o detto qualcosa, è la democrazia stessa che comincia a incrinarsi, travolgendo poi, a poco a poco, la libertà di tutti. Per capirlo, basta leggere il nuovo, meraviglioso libro di Salman Rushdie (Joseph Anton, Mondadori, appena uscito). Joseph Anton è il nome falso che lo scrittore anglo-indiano dovette assumere per salvare la propria vita dalla fatwa dell’ayatollah Khomeini. Il libro racconta i suoi anni da «uomo invisibile», prigioniero in casa (in case sempre diverse), zittito,umiliato, minacciato, ricercato da squadre della morte. La sua colpa? Aver scritto I versetti satanici, un’opera sgradita agli islamici radicali. Rusdhie scrisse un libro, loro decisero di ucciderlo. in confronto a questa storia il caso Sallusti fa ridere. E il mio caso fa addirittura scompisciare. È successo che tempo fa abbiamo pubblicato un articolo su Claudio Scazzi (il fratello della povera Sarah, assassinata ad Avetrana) e una sua visita presso Lele Mora nell’ambito della quale i due avevano parlato anche della possibilità che il ragazzo facesse televisione. Scazzi si è sentito diffamato e ha querelato. Il pubblico ministero ha chiesto per me e il collega autore del pezzo una pena incredibile: due anni e sei mesi di galera! Per fortuna il giudice l’ha vista diversamente. Siamo stati assolti perché il fatto non sussiste (cioè abbiamo raccontato la verità) e comunque perché il fatto non costituisce reato (cioè, se anche avessimo inventato, non avremmo diffamato nessuno). Bene, per ora pericolo scampato. Qualcuno potrebbe trovare assurdo, o quanto meno esagerato, che venga chiesta ufficialmente una reclusione di due anni e mezzo per una vicenda così minuscola. Chissà che pena avremmo rischiato se avessimo scritto cose davvero pesanti, davvero diffamatorie. Eppure, il pm ha fatto il suo: ha chiesto una pena prevista dalla legge. già, la legge. Ecco il punto. Proprio per «salvare il soldato Sallusti» si discute di un decreto che elimini la galera per i giornalisti. Ma, sostiene tra gli altri l’avvocato Caterina Malavenda (co-autrice di un bel libro appena uscito: Le regole dei giornalisti, Il Mulino), se si moltiplicano le pene pecuniarie viene comunque messa in pericolo la libertà di stampa, perché non sempre giornalisti ed editori avranno i soldi per risarcire. E quindi i cronisti preferiranno auto-censurarsi. Insomma, la questione è aperta. Mi viene però un dubbio. Non sarà che alcuni vengono assolti e altri condannati solo perché i primi hanno semplicemente scritto la verità?

PARLIAMO DI TOGHE INFAMI E FALSE. Infamie e falsità. Se affidata a mani indegne la giustizia rischia di essere violenta, falsa e arrogante. Nella sentenza di Aldo Grassi e Antonio Bevere si legge che il direttore del Giornale avrebbe una "spiccata capacità a delinquere". La replica di Sallusti: "È una vera infamia, che non permetto neppure a un presidente di Cassazione, basata su odio ideologico e su una serie di menzogne". Così scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. C'è qualcosa che fa peggio dell'ipotesi di finire in carcere. È prendere atto di quanto violenta, falsa e arrogante possa essere la giustizia se affidata a mani indegne. È successo ieri, leggendo le motivazioni della sentenza, firmata da tale Aldo Grassi e tale Antonio Bevere (consigliere estensore), con cui la Cassazione mi condanna a 14 mesi di reclusione per un articolo neppure scritto da me. Si legge che io avrei una «spiccata capacità a delinquere», mi paragona a un delinquente abituale. È una vera infamia, che non permetto neppure a un presidente di Cassazione, basata su odio ideologico e su una serie di menzogne. Mi prendo tutta la responsabilità di quello che dico e sollevo il mio editore dal risponderne in tribunale. Ve lo dico io, in faccia, signori Grassi e Bevere: avete abusato del vostro potere, la vostra sentenza è un'infamia per me e per i miei parenti. Non si gioca con la vita delle persone come se fossero cose nella vostra disponibilità senza pagare dazio. Le motivazioni della vostra sentenza sono delinquenziali, non il mio lavoro. Sono parole basate su falsi, montate per costruire teoremi che esistono solo nella vostra testa.

E ve lo spiego. È falso che io abbia scritto alcunché. È falso che io abbia deliberatamente pubblicato notizie sapendole false. È falso che io mi sia rifiutato di pubblicare una smentita, nessuno me l'ha mai chiesta né inviata. È falso che sul mio giornale dell'epoca, Libero, sia stata pubblicata una campagna contro un giudice (un articolo di cronaca ripreso da La Stampa e un commento non possono in alcun modo costituire una campagna). È falso che non fosse possibile identificare chi si celava dietro lo pseudonimo Dreyfus: bastava chiederlo, non a me che come direttore sono tenuto al segreto deontologico, ma a chiunque e avreste accertato che si trattava di Renato Farina (lui stesso lo ha scritto in un suo libro). È falso che io abbia un numero di condanne per omesso controllo (7 pecuniarie in 35 anni di mestiere) superiore alla media dei giornalisti e direttori di quotidiani italiani. Delinquente, quindi, lo dite a qualcun altro. Non vi stimo, non vi rispetto, non per la condanna, ma per quelle vostre parole indegne. Vergognatevi di quello che avete fatto. E forse non sono l'unico a pensarla così. Ci sarà un motivo se il Parlamento sta lavorando per cancellare la vostra infamia e se un vostro collega, il procuratore di Milano Bruti Liberati, si rifiuta di applicare la vostra sentenza del cavolo nonostante io mi sia consegnato alle patrie galere, in sfregio a voi, rinunciando a qualsiasi pena alternativa. E adesso fate pure quello che credete, rispetto a me e alla mia storia siete un nulla.

PARLIAMO DI SCIENZIATI CON LA TOGA. Una barbarie le toghe che fanno gli scienziati. "Grazie a magistrati senza responsabilità e irresponsabili stiamo diventando un Paese di barbari", scrive Franco Battaglia su “Il Giornale”. Grazie a magistrati senza responsabilità e irresponsabili stiamo diventando un Paese di barbari. Barbarie è stato l'arresto di un imprenditore di 86 anni accusato di aver ucciso adulti e bambini con le emissioni della sua acciaieria. Abbiamo già scritto che il rapporto epidemiologico di cui s'è servita la magistrata è scientificamente carente e redatto da signori che già in passato si erano distinti per puntare il dito contro l'inesistente inquinamento elettromagnetico. Questi signori, anziché essere oggetti di una indagine che valuti i presupposti del procurato allarme, sono i consulenti della nostra magistratura. I dati ci dicono che a Taranto non si muore né si contrae tumore più che altrove in Italia, eppure è da due giorni che tutte le agenzie di stampa strillano perché un rapporto, chiamato «shock», rivelerebbe che a Taranto si sarebbe riscontrato un «eccesso del 419% di mortalità maschile per mesiotelioma pleurico». Soltanto chi conosce solo la statistica di Trilussa si allarma. In tutta la Puglia, negli 8 anni 1993-2001, vi furono 197 maschi con mesiotelioma pleurico certo, di cui 13 nel 1993, 32 nel 1996, e 20 nel 2001. Diremmo che nel 1996, in Puglia, ve ne fu il 146% in più che nel 1993? Lo diremmo se fossimo Trilussa o abituati a procurare, impuniti, allarme, anziché riconoscere che sono numeri troppo piccoli per fare quella statistica. (Peraltro, i Trilussa avrebbero anche dovuto dire che nel 2001 ve ne furono il 38% in meno che nel 1996, ma questo non fa notizia). Dicono che il colpevole sarebbe il benzopirene misurato con concentrazioni di 1.8 nanogrammi per metro cubo, ma sembra che ignorino che chi fuma una sola sigaretta al giorno di benzopirene ne aspira 20 di nanogrammi. Ora, siccome ci sono gli elementi per rassicurare (cioè, a dispetto delle frottole di questi giorni, non è vero che a Taranto si muore o ci si ammala di più che altrove in Italia) è nostro dovere rassicurare. Rischiando così di essere sbattuti in galera da chi ha il potere - impunibile se sbaglia - di sbatterci in galera. E questa è barbarie. Come quella che ha fatto condannare a 6 anni di galera alcuni stimati uomini di scienza - uomini che dovremmo tenere in conto come nostro fiore all'occhiello - per omicidio colposo plurimo. Su questo dobbiamo però essere precisi, perché a ridere del fatto che siano stati condannati per non aver previsto il terremoto, non si rende giustizia della barbarie in atto. E, soprattutto, si giustificherebbe la barbarica condanna nel momento stesso in cui essa dovesse rivelare motivazioni diverse da quelle per le quali oggi si ride sgomenti. Non è per non aver previsto il terremoto che sono stati condannati, né di questo erano accusati, ma - hanno dichiarato i pubblici ministeri - «per una carente valutazione degli indicatori di rischio e una errata informazione». Insomma, i condannati sono colpevoli di avere rassicurato la gente. Siccome le dichiarazioni del professor De Bernardinis sono ascoltabili in rete, le riporto testuali: «Dobbiamo mantenere uno stato d'attenzione senza avere uno stato d'ansia, capendo che abbiamo da affrontare situazioni per le quali dobbiamo essere sì, pronti, ma anche sereni di poter vivere la nostra vita quotidiana». Per la magistratura italiana questo sarebbe omicidio colposo plurimo. De Bernardinis, invece, non ha fatto altro che il proprio dovere: rassicurare. Non per minimizzare il terremoto (che è stato sì devastante, ma solo col senno di poi) ma perché di fronte all'ignoranza (nessuno può prevedere né tempi né intensità dei sismi) il primo dovere è non creare i presupposti per un panico destinato ad avere, quello sì con certezza, conseguenze devastanti.

Nel momento in cui scrivo un terremoto di magnitudo 3 è stato registrato sul Pollino: evacuerà la magistratura Castrovillari? La magistratura o, più precisamente, alcuni magistrati sono il nostro problema: ignoranti di statistica, di gestione dei rischi, di scienza, malati di protagonismo, imbevuti di preconcetti ideologici, sono liberi di muoversi senza freno e senza responsabilità. A cominciare dal fatto che possano far conoscere le motivazioni di una sentenza non contestualmente alla stessa, lasciando così il dubbio che possa essere aggiustata a seconda delle reazioni conseguenti. Una barbarie. Che non giova né al Paese né alla Magistratura stessa.

30 ottobre 2012. Venticinquesima udienza.  Avrebbero dovuto parlare Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Da imputate.

In tribunale a Taranto è il giorno delle due donne accusate dell'omicidio di Sarah Scazzi. In aula c'è la madre della ragazza, Concetta. Concetta Serrano, mamma di Sarah, all'ingresso in aula ha detto ai microfoni di Tgcom24 di "vivere con grande ansia questo processo", aggiungendo che "quello che dice Michele Misseri non viene più considerato". Misseri è solo imputato per concorso in soppressione di cadavere. La difesa della cugina di Sarah chiede di depositare i 'memoriali' di Michele, che si è avvalso della facoltà di non rispondere. La difesa di Sabrina ha chiesto un rinvio di 15 giorni perché la ragazza accusata dell'omicidio della cugina 15enne Sarah Scazzi vorrebbe rispondere in tribunale, ma non ha avuto modo di leggere tutti gli atti. Sabrina Misseri vorrebbe prepararsi al meglio per l'interrogatorio, per difendersi dalle accuse di concorso omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere, che la vedono imputata insieme alla madre Cosima Serrano. Il pm non si è opposto alla richiesta dei legali della giovane. Inoltre, in avvio di udienza, sono stati depositati quattro quaderni manoscritti di Michele Misseri forniti dalla figlia Valentina.

La richiesta di un rinvio di 15-20 giorni è stata avanzata dall'avvocato Franco Coppi, difensore di Sabrina. Stessa richiesta è stata successivamente avanzata dal difensore di Cosima Serrano, Franco De Jaco. Sempre Coppi ha chiesto di depositare i 'memoriali' di Misseri che - ha spiegato il legale - sono stati consegnati a Valentina Misseri dal padre Michele perché venissero utilizzati per la difesa di sua figlia. Coppi ha spiegato che Sabrina intende rispondere alle domande della Corte, dell'accusa e della difesa, ma non ha avuto modo di avere a disposizione e leggere tutti gli atti del processo che la riguardano. Inoltre, ha aggiunto Coppi, Michele Misseri scrive alla figlia in carcere quasi una lettera alla settimana, ma dal carcere - secondo quanto riferito da Sabrina al legale - alla detenuta sarebbe impedito di portare le lettere in aula. "Siamo in una posizione singolare e drammatica" ha detto Coppi. Stesse motivazioni ha addotto la difesa di Cosima. La Procura non si è opposta alla richiesta di rinvio, chiedendo di valutare i tempi e gli atti ai quali si riferiscono le difese delle due imputate. La presidente della Corte, Cesarina Trunfio, ha proposto, trovando iniziale consenso tra le parti, di invertire il programma per le prossime udienze, cominciando ad ascoltare i testimoni della difesa. Ma quando anche la difesa di Cosima ha chiesto il rinvio dell'udienza, i pm si sono opposti all'esame anticipato dei testi della difesa. I pubblici ministeri non si sono opposti alla richiesta, motivata in funzione del diritto di difesa, chiedendo alla Corte solo di valutare l'entità del rinvio e la possibilità o meno di sospensione dei termini di custodia cautelare delle due donne. I pm tuttavia si sono opposti alla proposta di sentire le due imputate dopo l'audizione di alcuni testimoni della difesa. Michele Misseri, che in qualità di imputato per concorso in soppressione di cadavere nell'ambito del processo per l'omicidio della 15enne Sarah Scazzi si era avvalso della facoltà di non rispondere davanti alla Corte d'Assise, è stato chiamato a confermare in aula, su richiesta del pubblico ministero, di essere l'autore dei 4 manoscritti-memoriali depositati agli atti dalla difesa di Sabrina Misseri, sua figlia, imputata insieme alla madre Cosima Serrano per concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere. «Sì - ha spiegato - li ho scritti io questi diari - aggiungendo che - «contengono tutto quello che è successo in questa storia e quello che faccio ogni giorno. Li avevo dati a Valentina (l'altra figlia) per farne quello che voleva. Scrivo tuttora. Ho iniziato a scrivere quando sono uscito dal carcere». Ma, subito dopo, quando il pm Mariano Buccoliero gli ha fatto notare su alcune pagine sono riportate delle date riferite al periodo in cui era detenuto, Misseri ha ammesso che almeno un diario era stato iniziato quando era rinchiuso nel penitenziario. A proposito della richiesta dei legali, la presidente della Corte Rina Trunfio ha letto una nota della direzione del carcere che in mattinata ha spiegato come "alla data odierna risultavano in giacenza una lettera del 30 settembre 2012 della detenuta Misseri Sabrina (a lei scritta dal padre Michele) autorizzata con nulla osta del 5 ottobre 2012 da codesta Corte ma non ritirata dal difensore, nonché il fascicolo processuale depositato dall'avvocato difensore Nicola Marseglia il 20 ottobre 2012 per il quale è pervenuto il nulla osta di codesta Corte e di essere in attesa del nulla osta della procura della Repubblica. Per Cosima presso questa direzione risultano giacenti lettere autorizzate ma non ritirate dai difensori di fiducia. L'eventuale consultazione degli atti processuali ovvero la corrispondenza epistolare in udienza necessita della richiesta da parte delle detenute che, per quanto riguarda quelle in oggetto, non hanno mai presentato richiesta. Questa documentazione è ora a disposizione delle parti". Il processo riprenderà il 6 novembre, essendo stata annullata l'udienza del 5 poiché le parti civili hanno rinunciato all'ascolto dei loro testimoni. La prossima udienza è prevista il 6 novembre, quando verranno sentiti i testimoni citati dalle difese.

6 novembre 2012. Ventiseiesima udienza. Parla Stefania Zizza,  Antonio Panzuto.

Intanto l’avv. Franco Coppi e gli avvocati Walter Biscotti e Nicodemo Gentile sono tutti reduci da sonore sconfitte, in quanto il primo è difensore dell’imputato condannato Giulio Selvaggi, uno dei componenti, come direttore del Centro nazionale Terremoti, della Commissione grandi rischi, sotto processo all'Aquila. Infatti il giudice unico Marco Billi dell'Aquila ha emesso la sentenza di condanna, per omicidio colposo plurimo e lesioni colpose, a sei anni per tutti e sette i componenti della Commissione Grandi Rischi tra cui Selvaggi. I secondi, difensori del condannato all’ergastolo, Salvatore Parolisi, per l’uccisione della moglie Melania Rea. Oggi, intanto, sono stati ascoltati alcuni testimoni convocati dalla difesa.

“Non potevo aver visto Cosima Serrano sequestrare Sarah Scazzi e farla salire in macchina perché ero ad un matrimonio”. Giovanni Buccoliero, fioraio di Avetrana, ha ritrattato così una sua iniziale testimonianza resa agli inquirenti. L’uomo aveva raccontato di aver visto con i suoi occhi Sarah salire a forza nella macchina della zia Cosima il 26 agosto 2010. Salvo poi ritrattare tutto: era un sogno, si era difeso, quel giorno non potevo aver assistito a quella scena perché ero a un matrimonio in qualità di fioraio alla masseria La Grottella di Avetrana. È stato smentito da una testimone, Stefania Zizza, responsabile di sala di una struttura ricettiva, il fioraio di Avetrana che ritrattò una sua deposizione contro Cosima Serrano asserendo di aver solo sognato quanto in un primo momento aveva dichiarato di aver visto: il sequestro di Sarah Scazzi nella vettura di Cosima. Zizza e un altro teste sono stati i soli protagonisti dell'udienza odierna. Altri citati dal collegio difensivo non si sono presentati (e per uno di loro è scattata un'ammenda di 400 euro), mentre alcuni saranno nuovamente citati a testimoniare. La teste Zizza ha detto che il 26 agosto 2010, giorno dell'uccisione di Sarah Scazzi, alla masseria "La Grottella" di Avetrana (Taranto) nella quale si festeggiava un matrimonio, degli addobbi floreali della sala si occupò un fioraio di Erchie (Brindisi), non il fioraio di Avetrana Giovanni Buccolieri. La teste ha detto anche di non conoscere Buccolieri. Quest'ultimo, che è indagato in processo connesso per false dichiarazioni al pm, quando disse agli inquirenti che aveva solo sognato il sequestro di Sarah, raccontò che quel giorno doveva consegnare dei fiori per un matrimonio alla masseria "La Grottella". La testimone era stata citata dalla difesa di Giuseppe Nigro, titolare e gestore della masseria, il quale - sentito in una precedente udienza - aveva dichiarato che quel giorno Buccolieri non fece alcuna consegna di fiori. Anche Antonio Panzuto, padre del giovane che festeggiò quel giorno il matrimonio alla "Grottella", ascoltato in aula dopo Zizza, ha confermato che Buccolieri non ricevette alcun incarico per il matrimonio né fu visto quel giorno alla masseria.

A proposito di persone scomparse e della straordinaria, inusuale ed ingiustificata mobilitazione per cercare Sarah c’è da rilevare che in Italia scompaiono 28 persone al giorno. Fenomeno in crescita. Ma arriva una nuova legge: ricerche immediate e supporto dei media, scrive Nino Materi  su “Il Giornale”.  Una media da desaparecidos; eppure non siamo nell'Argentina del dittatore Videla: nel nostro paese non ci sono vuelos de la muerte né Ford Falcon verdi senza targa. Eppure, quotidianamente, allo scoccare della 24esima ora, all'appello mancano sempre 28 persone. Ventotto persone sempre diverse che, senza interruzione, sprofondano nel gorgo dell'imponderabile. Una nebbia li avvolge, e poi nulla più. Di loro si «perdono le tracce», come scrivono polizia e carabinieri nei loro verbali. Scomparsi. Missing. Ci piace pensare che qualcuno tra loro sia un po' come il protagonista del film Into the wilde, il giovane che abbandona la «civiltà» per il fascino primordiale delle Terre Selvagge. Scelta coraggiosa. Tanto di cappello. Ma quella era fiction cinematografica (sebbene ispirata - pare - a una storia reale). Fatto che, nel concreto, dall'anno scorso in Italia gli «spariti» risultano aumentati del 10%. È il dato più rilevanti della relazione semestrale sulle persone scomparse, presentata al Viminale dal commissario straordinario, Michele Penta. Dal 1974 ad oggi, data di istituzione della banca dati interforze, sono complessivamente 25.453 le persone scomparse e di cui non si hanno più notizie. Di questi, 9.396 sono italiani, 16.057 stranieri; 14.855 sono invece i maggiorenni e 10.598 i minorenni. Rispetto al 31 dicembre 2011, sono 541 in più gli uomini, le donne e i minorenni che non sono stati ancora rintracciati. A questi si devono aggiungere i 135 italiani scomparsi all'estero, di cui 115 maggiorenni e 20 minorenni. Ma è proprio di ieri un'importante novità legislativa. La commissione Affari costituzionali del Senato ha infatti approvato la cosiddetta «legge sulle persone scomparse». Via libera ad un provvedimento che aiuterà «i familiari che finora non potevano avvalersi di alcuno strumento legislativo per ritrovare i propri cari», spiega Roberto Di Giovan Paolo del Pd, primo firmatario del ddl. Tra i punti significativi l'introduzione dell'obbligo di immediato avvio delle indagini, il consolidamento del ruolo dell'Ufficio del Commissario per le persone scomparse e il coinvolgimento delle associazioni dei parenti degli scomparsi e dei media. Intanto il monitoraggio dei dati, spiegano dal Viminale, evidenzia, ancora una volta, il progressivo aumento del numero degli scomparsi. Ed infatti, dalle 105.092 denunce presentate al 30 giugno del 2011 si è passati alle 115.366 del 30 giugno 2012. Si tratta di 10.274 denunce in più che rappresentano, appunto, un aumento percentuale su base annua del 9,78%; l'aumento è invece del 4,78% negli ultimi sei mesi. «Il fenomeno - ha confermato Penta - è ben lungi dall'essere in fase regressiva anche se fortunatamente la percentuale delle denunce di scomparsi e inferiore al numero delle persone che ogni anno vengono ritrovate».  Anche il numero dei minori scomparsi è in aumento: si è infatti passati dai 10.319 segnalati al 31 dicembre dell'anno scorso ai 10.598 di quest'anno: la maggior parte di quelli italiani sono scomparsi in Campania (339), mentre quelli stranieri nel Lazio (1.964). Verranno mai ritrovati?

Ecco perché non si capisce come mai nessuno ha posto queste domande ai giornalisti intervenuti nei primi momenti della scomparsa di Sarah. Chiamati a testimoniare, i giornalisti, sarebbero obbligati a rispondere a questo quesito: perché questo impari trattamento tra persone scomparse e chi ha dato il via all’ambaradan mediatico con risvolti salottieri e gossippari e morbosi?

Scrive un libro su Yara e Sarah e finisce in caserma. "Yara e Sarah, due vite rubate". Non è ancora il titolo di un libro. E forse non lo sarà mai. Ma potrebbe anche diventarlo presto… Per il momento, è solo un manoscritto, come si dice in questi casi, inviato dal suo autore agli editori Rizzoli, Mondadori, Bompiani e Sellerio. Un manoscritto, però, che pur essendo ancora tale, sta già ricevendo una certa “notorietà”; il tutto, perché il suo autore, Alessandro Castellani, un giovane scrittore che di mestiere fa l’infermiere, si è ritrovato vittima di una terribile coincidenza, una vicenda che sta balzando agli onori della cronaca. Il caso nasce a causa di una convocazione che l’infermiere di Castiglion Fiorentino ha ricevuto da parte delle forze dell’ordine. I carabinieri, infatti, lo hanno convocato perché nel manoscritto sono presenti particolari che i media non hanno diffuso. Il libro, ovviamente, parla di Sarah Scazzi e Yara Gambirasio, protagoniste dei tragici fatti di cronaca che da qualche tempo sono presenti in numerose trasmissioni televisive.

Nel libro, Yara e Sarah, due vite rubate (questo è il titolo del manoscritto) Castellani ha immaginato le vite delle due ragazze da adulte. Racconta come sarebbe stata la loro esistenza se non fosse stata “interrotta”. Come già accennato, il problema è nato perché all’interno del manoscritto i carabinieri hanno rinvenuto dei particolari sconosciuti. Ovvero che la studentessa di Brembate, Yara, aveva una passione per i Modà e che voleva iscriversi al liceo Scientifico. Ecco perché è scattato l’interrogatorio. “Lei sa particolari che tv e giornali non hanno mai diffuso”, gli hanno detto i militari. Il sito Arezzo Notizie, ha intervistato Castellani. Alla domanda: “Quando è stato interrogato? E che cosa le hanno contestato, esattamente?, il giovane infermiere-scrittore ha risposto: “Sono stato convocato nella caserma di Castiglion Fiorentino lo scorso 14 settembre, alla presenza del comandante della compagnia di Cortona. I Carabinieri mi hanno rivolto diverse domande. In quella circostanza i militari sono stati molto gentili, mi hanno spiegato che quella convocazione era necessaria, voluta degli inquirenti del caso Yara. Nel libro racconto la storia di Yara fino ai 30 anni. Racconto che riuscirà a coronare il suo sogno, quello di diventare una ginnasta professionista. Tra i tanti dettagli sulla sua esistenza ne aggiungo tre: la passione per la band dei Modà, che tra l’altro piace anche a me, l’iscrizione al liceo scientifico dopo le scuole medie e l’abilità in cucina di una nonna. Tutti frutto della mia fantasia che, coincidenza, avevano riscontri con la realtà. Yara amava i Modà, aveva intenzione di iscriversi allo scientifico e aveva una nonna brava tra i fornelli. Un caso“.

A proposito di libri tra i tanti scritti sulla vicenda.

Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri, ha depositato ai carabinieri della stazione di Avetrana una querela per diffamazione nei confronti della giornalista Mariella Boerci e della società editrice “Anordest”, che ha pubblicato il libro della Boerci “La bambina di Avetrana” inerente all'inchiesta sull'omicidio di Sarah Scazzi. Lo ha riferito il legale di Cosima Serrano, l'avv. Franco Se Jaco. Nella querela Cosima Serrano chiede anche il sequestro del libro su tutto il territorio nazionale. Secondo la donna, il libro conterrebbe valutazioni diffamatorie sulla famiglia Serrano e anche alcuni dialoghi frutto di invenzione. Il testo, supportato dall’associazione Telefono Rosa, è stato l’incipit per dare il via ad un progetto di borsa di studio istituita per studenti tra i 13 e i 19 anni, i quali potranno partecipare al concorso presentando un breve racconto sul tema della violenza con particolare attenzione alla violenza sulle donne. La discutibile iniziativa, dopo l’ormai noto calendario utilizzato per la raccolta fondi destinati all’associazione “Sarah per Sempre”, mira a pubblicare attraverso l’Anordest tutti i racconti raccolti annualmente devolvendo i profitti al Telefono Rosa. Il corpus del progetto è stato presentato nel corso del Festival della cultura di Galatina favorendo un incontro anche con alcuni protagonisti della vicenda, quasi fossero attori del nuovo film approdato nelle sale cinematografiche: l’ex avvocato di Michele Misseri Daniele Galoppa, l’autrice del libro e il direttore editoriale Marco Tricarico. L’avvocato di Cosima Misseri ha declinato l’invito all’ultimo momento per i successivi sviluppi della vicenda. E sempre in provincia di Lecce, in occasione della rassegna culturale "Miggianosilibra" del Comune di Miggiano, Roberta Bruzzone ha presentato il suo libro e ha parlato sugli ultimi sviluppi del delitto di Avetrana. All'evento partecipano anche l'avv. Luigi Rella, presidente Ordine degli Avvocati di Lecce e difensore di Cosima Serrano; l'avv. Daniele Galoppa, già difensore di Michele Misseri. Modererà Carlo Bollino, direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno. Saranno presenti noti esponenti delle Istituzioni locali e l’evento è accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Lecce quale “Evento formativo”. Ed ancora. Su Sarah Scazzi un altro libro si aggiunge a quello scritto dal fratello Claudio,"Un futuro spezzato da chi ha ucciso Sarah, per futili motivi di gelosia", promosso sulla tv di Stato al programma “La Vita in diretta” e sulle tv commerciali. Ossia in tutte le trasmissioni che da anni speculano sulla disgrazia che ha colpito la famiglia Scazzi e la comunità di Avetrana. Sempre con la litania secondo la quale il ricavato delle vendite sarà impiegato per la costruzione del canile dedicato a Sarah. All'edizione serale di "Studio Aperto", è stato dedicato un servizio in memoria di Sarah Scazzi e alla presentazione di un libro che il fratello Claudio le ha dedicato.

Centoventidue pagine nelle quali sono stati raccolti i pensieri, le confidenze e i progetti che Sarah aveva espresso per il suo futuro, parlando con il fratello. Si diceva a quel libro di Claudio si aggiunge quello di Michele Misseri e il suo libro su Sarah Scazzi. Si chiamerà "Il diario della tristezza", scrive Floriana Rullo su “Giornalettismo”.

Intanto sotto esame finiscono i suoi quattro diari. Quattro diari. La verità di Michele Misseri sulla morte della nipote Sarah sarebbe tutta contenuta lì. Poche pagine che di fatto secondo lo zio di Avetrana scagionerebbero la figlia Sabrina e di fatto proverebbero la sua di colpevolezza. Quaderni scritti durante la detenzione del contadino in carcere e consegnati poi alla figlia maggiore Valentina e che ora, depositati dalla difesa di Sabrina, imputata insieme alla madre Cosima per concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere, sono in mano dei giudici della Corte di Assise di Taranto insieme agli interrogatori fatti all’agricoltore. Ma che zio Michele fosse un piccolo amanuense era di fatto già noto. Lettere, in un italiano sgrammaticato, dal carcere e da fuori, indirizzate sia alla moglie che alla figlia ne aveva scritte a decine. E poco importava se le due donne le leggessero o no.

Scritti dove ora, dopo aver ritrattato le due versioni della verità sull’omicidio, la prima in cui raccontava che Sabrina aveva agito con lui seguita dalla seconda che accusava solamente la figlia, si carica totalmente di tutte le colpe per l’omicidio della nipote 15enne chiedendo scusa alle due donne perché da innocenti stanno pagando per lui. Già perché loro sono in carcere ma non hanno ucciso Sarah, invece lui, che l’avrebbe invece ammazzata, è in libertà. Corroso dal senso di colpa. Così, dopo che ieri in qualità di imputato per concorso in soppressione di cadavere nell’ambito del processo per l’omicidio Scazzi si era avvalso della facoltà di non rispondere davanti alla Corte d’Assise, oggi è stato chiamato a confermare in aula, su richiesta del pubblico ministero, di essere l’autore dei 4 manoscritti-memoriali. “Sì, i diari li ho scritti io.

Contengono tutto quello che è successo in questa storia e quello che faccio ogni giorno. Li avevo dati a Valentina per farne quello che voleva”. Ergo, dovevano servire alla difesa di Sabrina per scagionarla. Ma zio Michele non si ferma qui. “Scrivo tuttora. Ho iniziato a scrivere quando sono uscito dal carcere” afferma. Un’altra mezza verità però per il contadino di Avetrana. A smascherarla il pm Mariano Buccoliero che gli ha fatto notare che su alcune pagine sono riportate delle date riferite al periodo in cui era detenuto e che quindi i quaderni li aveva iniziati a scrivere molto tempo prima. Un’altra bugia per Misseri che colto in fallo ha ammesso che almeno un diario lo aveva cominciato quando era rinchiuso nel penitenziario. Povero zio Michele, nessuno ormai crede più alle sue parole. Tanto che a non ascoltarlo non sono solo i giudici di Taranto ma anche la mamma di Sarah, Concetta Serrano, che ha affermato di non starlo neanche più a sentire. E così Misseri per provare a farsi ancora ascoltare scrive, e non solo lettere e diari. Tanto che nonostante il suo italiano poco corretto, ha deciso di scrivere un libro sull’omicidio della nipote. Del resto lo fanno tutti, non si capisce perché lui non debba cimentarcisi. La notizia era contenuta in una delle sette lettere scritte alla figlia che fanno parte del fascicolo consegnato l’anno scorso e già in mano ai Pm. E il libro, cui ricavati secondo lui dovevano andare in beneficienza, si sarebbe dovuto chiamare “il diario della tristezza”. Un titolo azzeccato, forse l’unica cosa, per questa triste vicenda dai contorni sempre più oscuri. E intanto a Taranto oggi è stato rinviato, dopo la richiesta del legale di Sabrina, Franco Coppi, fino al 20 novembre il processo per l’omicidio di Sarah. Stessa cosa chiesta anche dal difensore di Cosima Serrano, Franco De Jaco. Il motivo è semplice: Sabrina e Cosima vogliono rispondere alle domande della Corte, dell’accusa e della difesa, ma non hanno avuto modo di avere a disposizione e leggere tutti gli atti del processo. Senza contare che papà Michele scrive una lettera alla settimana alla figlia in carcere, ma alla detenuta sarebbe impedito di portarle in aula. Una posizione singolare e drammatica, a dire dei difensori delle donne.

Per questo Sabrina Misseri e Cosima Serrano saranno ascoltate il 20 novembre. Il processo invece riprenderà il 6, essendo stata annullata l’udienza del 5 poiché le parti civili hanno rinunciato all’ascolto dei loro testimoni. Sempre che zio Michele non regali prima qualche altro colpo di scena televisivo. Ma quello che più colpisce, a parte il sapere che il caso di Avetrana continua ad essere un caso mediatico che si sciorina più in tv che nei tribunali a colpi di scoop, dichiarazioni, interviste e plastici, è che il contadino "ignorante", che il primo giorno dopo la scomparsa della piccola Sarah, vestito malamente, con un cappello in testa improbabile e con le mani sporche di terra, si era consegnato in pasto ai giornalisti raccontando una delle tante verità che in questi due anni ha rivelato, non esiste più. Si è, almeno all'apparenza, emancipato.

Così in aula si presenta con un nuovo look, vestito di tutto punto con una camicia bordeaux senza cravatta, una giacca a quadrettoni e gli occhialini da intellettuale. Come a dire, il vecchio Michele non c'è più. All'apparenza almeno. Quella che si vede è una persona diversa, seria, composta. Quasi aggraziato. Un Misseri che ascolta in silenzio, dritto sulla sedia, tutta l'udienza e poi con calma si va ad accomodare al banco degli imputati. Quasi con un'eleganza irriconoscibile. Salvo poi a sentirlo parlare. Lì il vecchio Michele torna a farsi sentire come non mai. E anche il suo vizietto di raccontare alle televisioni le sue verità e non ai giudici. Insomma lo zio più conosciuto d'Italia, e non per aver ricevuto il premio "parente migliore dell'anno" visto che è accusato dell'occultamento del cadavere della nipote Sarah e continua a dichiararsi colpevole anche della sua morte, è sempre più un caso mediatico. Forse attorno a lui un po' di silenzio non basterebbe allora. E non solo in aula, luogo forse dove invece sarebbe ora di parlare e di raccontare la verità, quella vera questa volta che solo lui sa quale sia davvero.

Libri e scrittori. Intanto sono stati assolti i giornalisti di «Oggi». Li denunciò il fratello di Sarah Scazzi, scrive “Eco di Bergamo”. Per un'intervista uscita sul settimanale «Oggi» nel novembre 2010, Claudio Scazzi, il fratello di Sarah, la ragazza uccisa ad Avetrana, aveva querelato per diffamazione il giornalista Giuseppe Fumagalli e il direttore della testata Umberto Brindani. Che sono stati però assolti. Il titolo dell'articolo diceva: «Anche il fratello di Sarah bussa alla corte di Mora» con sottotitolo: «Claudio Scazzi incontra Lele e dice: La tv? Per lui non sono adatto. Però mi aiuterà per il canile dedicato a mia sorella». Claudio Scazzi aveva deciso di querelare il settimanale perché secondo lui quell'intervista non l'avrebbe proprio rilasciata e perché nell'articolo c'erano contenuti diffamatori. Lo si sarebbe presentato, infatti, come persona «a caccia di soldi e fama». Per la difesa invece l'intervista era stata regolarmente raccolta e non c'era nessuna intenzione di diffamare. Il giudice monocratico del tribunale di Bergamo (competente per territorio in quanto il settimanale è stampato nella nostra provincia) ha però assolto ambedue gli imputati perché il «fatto non sussiste o comunque non costituisce reato». Ed a proposito di comparsate in tv nella settimana si può contare sull’intervista esclusiva a Giacomo Scazzi, il padre di Sarah che parla per la prima volta in tv con Barbara D’Urso su Domenica Cinque del 4 novembre, mentre Claudio Scazzi appare su Quarto Grado del 2 novembre ed alcuni giorni prima su la vita in diretta con Mara Venier. Gli Scazzi, come sempre, alzano sempre gli ascolti in tv, con un pubblico di gente guardona che non ha altro da preoccuparsi, nonostante l’Italia allo sfascio. Giacomo Scazzi, padre della piccola Sarah che, ospite per la prima volta in uno studio televisivo, in diretta durante la trasmissione di Canale5 condotta da Barbara D'Urso, parla dell’omicidio della figlia. «Michele l'ha buttata ma non l'ha ammazzata» afferma il sig. Scazzi durante l’intervista ai microfoni di Domenica Live. «Non è stato lui (Michele Misseri) perché secondo me non ne è capace. Io penso siano state le due donne». Giacomo Scazzi, con l’aiuto della conduttrice, parla a cuore aperto e ripercorre quei brutti momenti raccontando la sua vita. La lunga trasferta, per lavoro, a Milano, il ritorno della moglie e della figlia ad Avetrana per assistere la madre ammalata ed il padre rimasto solo.

Il lavoro da muratore. I giorni a casa, in quella che doveva essere una vacanza, ma che è diventato un vero e proprio incubo per la scomparsa della figlia, le ricerche ed il ritorno a Milano perché, nonostante tutto, il lavoro non poteva attendere. La D’Urso chiede delle foto di una ragazza trovate sul cellulare e con la stessa calma il signor Scazzi spiega, per l’ennesima volta, che erano foto che non sapeva cancellare ma che non aveva scattato lui in quanto erano rimaste in quel telefono comperato al mercatino dell’usato. I sospetti e le indagini su di lui sembrano il male minore soprattutto quando la conduttrice, a cuore aperto, dice ai telespettatori che nonostante la faccia burbera ha davanti un uomo molto dolce, un uomo che arriva a ribadire di andare sicuramente in aula, per l’udienza, il 20 novembre prossimo perché vuole conoscere la verità. Quando la conduttrice inizia a parlare del processo, l'uomo cambia in volto e si dice convinto che «non parleranno mai. Se non lo hanno fatto finora non lo faranno certo al processo. Voglio solo dire loro “Se avete sbagliato, ditelo e basta”».

E non è tutto sul circo mediatico su cui tutti hanno speculato. Dalle carte processuali, intanto, secondo il ben informato (da chi?) Nazareno Dinoi su “Il Corriere della Sera”, emergono fatti che mettono in luce uno spaccato che non dà lustro ad alcuni protagonisti del giallo. Si parla di un mercato di foto e interviste che vede coinvolto anche Fabrizio Corona. «Qualsiasi apparizione sui giornali ed in televisione dovrai dire: "parlate con Fabrizio Corona",... incominciamo da questi otto, poi te ne faccio guadagnare degli altri, almeno venti, venticinquemila euro l’anno».

Così l'agente di fotografi ha tirato nella sua rete Ivano Russo, le cui attenzioni nei confronti di Sarah Scazzi sarebbero state causa di litigi tra la quindicenne assassinata e sua cugina Sabrina Misseri accusata del delitto. L’«adescamento» di Ivano da parte dell’ex compagno di Belen, è contenuta nelle oltre cinquemila pagine di intercettazioni telefoniche. «Adesso che non sei ricco, ottomila euro ti fanno comodo, no?», chiede Corona. Il profumo dei soldi non lascia indifferente Ivano protagonista, nelle telefonate successive, di un’estenuante trattativa per la vendita di un servizio fotografico con intervista a lui e alla sua fidanzata Virginia. Anche i contenuti dell’intervista facevano parte degli accordi: «Solo un ricordo su Sarah - spiega Corona nella telefonata intercettata del 14 aprile del 2011 -, dirai che era una ragazza dolce, una ragazza bella, che Sarah era una ragazza meravigliosa e sensibile». Dalle carte si scopre che i due inviati di Corona, una giornalista e un fotografo, tornarono a mani vuote a Milano perché Ivano non si sentiva "tutelato". «Gli accordi non erano questi», spiegherà il giorno dopo all’ex fotografo che lo richiama infuriato chiedendogli le spese sostenute dai suoi collaboratori. A recuperare i rapporti tra i due fu il fratello di Corona, Federico, che in un’altra conversazione intercettata raggiunse nuovi accordi. Ma Ivano precisa: «Ci deve essere un'offerta sia per me che per la mia ragazza, cioè non è che io metto sul giornale la mia ragazza così… Era quello il prezzo, la mia ragazza ha detto: "no, no, per così poco io non ... non posso mettermi su tutti i giornali"». (Ivano vuole diecimila euro da dividere con la sua compagna). Il fratello di Corona fa la sua offerta di 1500 euro: «Diviso due sono settecentocinquanta euro per un'intervista che dura venti minuti, cioè, voglio dire non mi sembra pochissimo, cioè non lo so poi che richieste abbia la tua ragazza, sono tanti soldi che la gente guadagna in un mese quasi». Erano in tanti, in quel periodo, ad alimentare il commercio di foto e di comparse televisive con Ivano Russo. Sempre le intercettazioni sono un puntuale resoconto di richieste e offerte in tal senso. Il 9 aprile 2011, ad esempio, un operatore Rai invita il giovane in trasmissione: «Non lo so - dice -, se lei vuole qualcosa noi siamo anche disposti a dargliela, eh, non lo so». Così per la trasmissione di Quarto Grado. «La cifra dovrebbe aggirarsi intorno ai cinquecento euro», spiega la segretaria della produzione Mediaset che riceve le perplessità di Ivano: «Doveva essere di più, cioè io ho parlato con Enzo tempo fa, disse che era di più». Enzo era evidentemente il consigliere di Ivano. Nella trattativa con "Pomeriggio sul due" è ancora Enzo che gioca al rialzo. «Mi ha chiamato quello della redazione, mi ha detto: "per la diretta cinquecento», lo informa Ivano. Ed Enzo: «No, no, che c.. stai dicendo? ... di più ... no, no, che c..., com'è? Alza, alza».

Ed a proposito di Ivano. Intercettato: "Dì che quel giorno dormivo".

A distanza di due anni dal delitto spuntano nuove intercettazioni.

Ecco alcuni stralci trasmessi da “Studio Aperto” del 6 novembre 2012. Ivano Russo parla con sua madre Elena mentre in auto si stanno dirigendo alla caserma dei carabinieri per essere ascoltati.

Sono i giorni immediatamente successivi alla scomparsa di Sarah.

Elena: «Io comunque credo che non sia morta.»

Ivano: «Io spero che la trovino viva così finisce tutto. Hanno scritto cose assurde… Sabrina si arrabbiava con lei (Sarah) perché si avvicinava a me. Ma la ragazza non si avvicinava a me.»

Elena: «No io invece ho detto: “Mio figlio non è mai uscito solo con la ragazzina”.»

Gli investigatori vogliono sapere quali fossero realmente i rapporti tra il giovane e la piccola Sarah e soprattutto vogliono ricostruire la giornata di Ivano nelle ore della scomparsa ma lui imbocca la madre su cosa dire agli inquirenti.

Ivano: «Senti se ti chiedono qualcosa dici: “Mio figlio stava dormendo”. “E’ sicura?”. “Si, sono sicura anche perché c’era anche mio figlio, mia cognata che stavano sopra… Arrivarono tardi quel giorno perché c’era la partita del Napoli….”»

Elena: «No, non è che erano arrivati in ritardo…»

Ivano: «Arrivarono in ritardo, arrivarono all’una e io e mio figlio già avevamo mangiato e lui è andato subito (…) per andare a dormire. E quindi lui neanche li ha visti.»

Elena: «No, tu li hai visti. Hai pure riso!»

“Un mercato sotterraneo e inquietante di foto, video, documenti e persino interviste a pagamento”. È quanto denuncia l’ordine dei giornalisti della Puglia che ha annunciato per il 3 novembre una riunione straordinaria per affrontare “quanto sta avvenendo nel mondo dell’informazione attorno alla vicenda dell’omicidio di Sarah Scazzi e valutare se vi siano state violazioni disciplinari”. Un intervento che nel mondo dell’informazione pugliese e nazionale, cerca di riportare il lavoro delle centinaia di cronisti che si sono occupati dell’omicidio di Avetrana nell’alveo della deontologia professionale. “A fianco alla cronaca che quotidianamente decine di colleghi hanno fatto con correttezza e impegno – scrive Paola Laforgia, presidente dell’Ordine Pugliese - si è sviluppata e ha preso sempre più piede una informazione che è stata alimentata e ha alimentato a sua volta forme di curiosità morbosa con la pubblicazione di notizie, interviste e atti d’inchiesta anche segreti che hanno sforato il perimetro del corretto esercizio del diritto-dovere di cronaca”. Del resto giorni e giorni di dirette da Avetrana, migliaia di servizi giornalistici su ogni aspetto della vita privata di Sarah e della sua famiglia rischiano di far perdere la bussola anche ai più esperti cronisti. Da qui, l’intervento dell’Ordine. “ Il Consiglio regionale valuterà eventuali azioni disciplinari – conclude Laforgia - ma soprattutto intende richiamare tutti i colleghi a riprendere in mano il destino della nostra professione e autoimporsi una frenata su una strada scivolosa che rischia di attenuare sempre più, fino a cancellarlo, il senso del rispetto per le persone, per il dolore, per la vita, per la morte, e infine anche per la dignità e la credibilità della nostra professione”.

20/26/27 novembre 2012. Ventisettesima, ventottesima, ventinovesima udienza. Parla Sabrina Misseri.

«Sabrina dirà la sua verità, ma come faccio a crederle? Ci sono tanti indizi»: sono le poche parole pronunciate da Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, poco prima di entrare in aula oggi per assistere al processo per l'omicidio della figlia Sarah Scazzi.

Concetta Serrano è stata intervistata nel corso della trasmissione “La vita in diretta” della Rai. In apertura d'udienza del 20 novembre al processo dinanzi alla Corte di assise di Taranto per l'omicidio di Sarah Scazzi, la difesa di Sabrina Misseri ha prodotto 49 lettere scritte da Michele Misseri alla figlia Sabrina e un ulteriore memoriale dello stesso agricoltore. Nelle lettere e nel memoriale Michele Misseri si assume la responsabilità del delitto. Già in una precedente udienza la difesa di Sabrina aveva consegnato alla Corte quattro diari, con lo stesso contenuto, scritti da Michele Misseri. Poi l'avvocato Franco Coppi, uno dei difensori di Sabrina, ha eccepito dinanzi alla Corte di Assise di Taranto la inutilizzabilità del verbale della deposizione, in qualità di persona informata dei fatti, resa da Sabrina ai pm il 30 settembre 2010. Secondo Coppi, i pm sin dall'inizio avrebbero mostrato l'atteggiamento di chi non crede comunque a quello che sta per dire il testimone, facendo intendere al teste che rischia di essere incriminata per falsa testimonianza. Per il difensore di Sabrina, anche dall'interrogatorio successivo del 15 ottobre 2010, giorno in cui Sabrina venne fermata, i pm erano già convinti che la ragazza fosse coinvolta nell'omicidio. In base all'art.63 del Codice di procedura penale, ha sostenuto Coppi, se i pm avevano elementi perchè Sabrina dovesse passare da teste a indagata, l'esame doveva essere sospeso chiamando un legale a difesa della stessa persona, cosa che il 30 settembre non avvenne. "Se la persona doveva essere sentita sin dall'inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini - recita il secondo comma dell'art. 63 Cpp - le sue dichiarazioni non possono essere utilizzate". La Corte di Assise ha rigettato l'eccezione della difesa. La Procura aveva chiesto il rigetto dell'eccezione, sostenendo che la Cassazione ha già chiarito la circostanza: si parlava all'epoca di indizi e a carico di Sabrina il 30 settembre 2010 non era emerso nulla, né la norma impone di interrompere immediatamente l'esame del teste. Inoltre, secondo i pm, l'art.63 non prevede «sic et simpliciter» l'inutilizzabilità del verbale, perchè quelle dichiarazioni possono essere usate nei confronti di altri imputati. Cosima Serrano, accusata di concorso in omicidio, si è invece avvalsa della facoltà di non rispondere.

L’interrogatorio di Sabrina è durato oltre sette ore e mezza ed è stato interrotto per ben due ore a causa delle lacrime di Sabrina Misseri. Durante la seduta la 24enne Sabrina ha avuto un momento di scontro molto duro con il pubblico ministero Mariano Buccoliero che ha contestato e incalzato in modo aggressivo Sabrina Misseri riguardo alle parole scambiate da Sabrina nel primo pomeriggio del 26 agosto col padre Michele Misseri davanti alla loro villetta.

Durante l’interrogatorio Sabrina è scoppiata in lacrime gridando “io non ho fatto niente, so io come stavo quel giorno, sapendo che mio padre era un assassino. Se avessi fatto qualcosa l’avrei detto, non riuscirei a sopportare il peso, io non ho fatto niente lo volete capire?” ha urlato l’imputata. Di fronte a queste dichiarazioni il Pubblico Ministero si è rivolto a Sabrina dicendo “ma che sta dicendo Sabrina? Si mette a piangere?” a quel punto i difensori dell’imputata si sono rivolti al pm: “ma come si permette?” hanno tuonato e subito dopo il difensore di Sabrina, l’avvocato Coppi,  ha chiesto di sospendere l’interrogatorio perché in quel momento l’imputata non era più in condizioni di sostenere ancora un dialogo con il pubblico ministero a causa, secondo il legale, del suo atteggiamento. Nessun avvocato di Taranto mai si sarebbe permesso di rivolgersi così ad un Pubblico Ministero. Troppi intrallazzi e commistioni amicali o di interessi professionali avrebbero impedito a costoro di tutelare l’immagine e la dignità della loro assistita. Questo rende l’avv. Franco Coppi diverso dagli altri. Alcuni passaggi da nessun giornale sono stati riportati integralmente, se non da “Porta a Porta”.

Sabrina: «Questa cosa della gelosia. Non c’entra niente la gelosia….Io non ho fatto niente…Io non so niente.»

Pm Buccoliero a Sabrina: «Ce lo dica lei il movente allora…»

Coppi: «Eh no! Eh no! Questa domanda non può essere fatta “ce lo dica lei il movente”. Ma scherziamo? Questo non è possibile. “Ci dica lei il movente”. Ma scopritelo voi? »

Sabrina: «Si confonde la tutela, la protezione con la gelosia. Perché voi non avete conosciuto Sarah. Non avete avuto la fortuna di conoscerla.»

Giudice Trunfio: «Ha bisogno di una pausa?»

Sabrina: «Per me non c’è bisogno. Mi sono fatta due anni di carcere da innocente. Posso andare avanti. Non ho bisogno di pause io… »

Pm Buccoliero a Sabrina: «Allora io le dico questo. Lei mentre sta facendo quella chiamata in un’intervista dell’8 ottobre dice che sta parlando con suo padre.»

Coppi: «Adesso le contestiamo l’intervista?»

Pm: «Sì, le contestiamo l’intervista perché è agli atti del fascicolo… Lei dice addirittura che suo padre le dice “che non ti sta rispondendo Sarah?” E questo lei lo dice piangendo l’8 ottobre.»

Sabrina: «Ho capito…»

Pm: «E’ così, o non è così?»

Sabrina: «Io in quei periodi come stavo confusa potevo dire di tutto nell’intervista…»

Pm: «E vabbè….»

Sabrina: «E vabbè, e vabbè…So io come stavo per la scomparsa di Sarah. Non lo può sapere nessun altro.»

Pm: «L’8 ottobre?»

Sabrina: «L’8 ottobre, appunto. Aveva confessato pure mio padre. Se permetti come stavo io....»

Pm: «Appunto…»

Sabrina: «Appunto io lo so come potevo stare. Per una figlia sapere che il padre è un assassino. Io sto dicendo in quel periodo come stavo male, confusa. Non sapevo più che cosa capire. Tutta quella situazione. Io potevo dire qualsiasi cosa…Non stavo bene con la testa in quel periodo. I miei amici lo sanno. Non mangiavo da un sacco di giorni.»

Pm: «Che sta dicendo Sabrina…»

Coppi: Questo, no! Questo, no!»

Giudice Trunfio: «Pubblico Ministero, si astenga dai commenti!!!»

Coppi: «Questo, no! Questo, no! Non si può permettere nei confronti di un imputato di dire una cosa del genere! Cominci a rispettare un essere vivente. Incominci e abbia pazienza. Questo, no!»

Pm: «Ha ragione. Ha ragione…»

Sabrina: «Io non ho fatto niente. Lo ribadisco per l’ennesima volta.

Non sapevo niente. Non ho fatto niente. Se io l’avessi fatto, non riuscivo a sopportare un peso così grande. Ma lo vuole capire il bene che tenevo a Sarah. Non riuscivo a stare….Questione di ore. L’avrei già detto. Non avrei avuto problemi a dirlo.»

Pm: «Allora risponda a queste domande.»

Giudice Trunfio: «Per favore, ha bisogno di una pausa.»

Al rientro in aula, il pubblico ministero si è scusato con Sabrina Misseri e l’interrogatorio è proseguito con una particolare attenzione sui fatti riguardanti il 26 agosto. Sabrina ha risposto alle domande sui suoi spostamenti confermandole anche di fronte alle diverse testimonianze contrastanti. Sarah Scazzi come una sorella minore, qualche rimprovero sì, ma non litigi. Con Ivano Russo un rapporto sessuale non completo. Sabrina Misseri in aula nel processo in Corte d'Assise a Taranto ha risposto così alle domande sul rapporto con la cugina, la 15enne uccisa ad Avetrana il 26 agosto del 2010.

Il pm Mariano Buccoliero ha interrogato Sabrina prima sul rapporto con Sarah, poi con Ivano Russo. Secondo gli inquirenti la gelosia per Ivano fu il movente che scatenò l'omicidio della piccola Sarah. «Non c'entro nulla, non ho fatto nulla», ha detto Sabrina piangendo. «La mia era protezione per Sarah e non gelosia - ha aggiunto Sabrina in lacrime - sono da due anni in carcere da innocente». E poi in lacrime, riferendosi a Sarah, ha detto: «Non avete avuto la fortuna di conoscerla». La Corte ha deciso a questo punto di sospendere l'udienza per alcuni minuti. Sabrina: «Sara per me era come una sorellina minore». «Reputavo Sarah una sorella minore, non una cugina, e la trattavo di conseguenza. Qualche rimprovero sì, ma non litigi» ha detto Sabrina Misseri. «Sarah si faceva dei complessi sul suo fisico, tipo le orecchie a sventola o la dentatura imperfetta. Glielo dicevano anche sua madre e gli amici di scuola» ha risposto Sabrina alla domanda del pm Mariano Buccoliero, che le ha letto il contenuto di un sms tra lei e Ivano Russo nel quale Sabrina dice che la cugina la sta «stressando». «Ivano mi piaceva, c'era anche attrazione fisica ma non ero innamorata di lui» ha detto Sabrina Misseri rispondendo alle domande sui suoi rapporti con Ivano Russo, amico comune anche di Sarah Scazzi. «Non mi sono mai posta il problema di mettermi o no con lui» ha aggiunto Sabrina, rispondendo al pm che le contestava il fatto che diversi suoi amici hanno dichiarato che lei era quasi ossessionata dal pensiero di volersi fidanzare con Ivano. La gelosia per Ivano seconda la procura sarebbe proprio il movente dell'omicidio di Sarah. «Con Ivano rapporto sessuale non completo». «Il 2 agosto 2010 con Ivano c'è stato un rapporto sessuale, comunque non completo» ha riferito Sabrina. «I messaggi affettuosi con Ivano erano sempre a livello di scherzo», ha detto Sabrina in un primo momento sempre rispondendo a Buccoliero che le indicava alcuni delle centinaia di sms che si sono scambiati in pochi mesi Sabrina e Ivano Russo nel 2010. Sabrina ha anche detto di non ricordarsi il messaggio del 22 giugno 2010 mandatole da Ivano, in cui - secondo l'accusa - il giovane fa capire che la sera prima con Sabrina ci sarebbe stato un rapporto sessuale non completo. «Ci siamo dati probabilmente un bacio, ma non c'è stato nulla» ha risposto Sabrina la quale, successivamente, ha riferito che il 2 agosto 2010 con Ivano c'è stato un rapporto sessuale, non completo. Chi sapeva del rapporto con Ivano. «Di quel rapporto sessuale io riferii a Valentina e Mariangela (l'amica Spagnoletti), ma nè Sarah nè il fratello Claudio sapevano nulla» ha aggiunto. Sulla circostanza che ad Avetrana, si stesse spargendo la voce su quell'episodio, Sabrina ha raccontato che Ivano «si lamentò con me ritenendo che fossi stata io a diffondere la voce, ma non era vero».

Sabrina ha poi detto del cugino Claudio, fratello di Sarah, che con lui non ha mai «avuto un buon rapporto, anche perché sempre lui cercava di mettere zizzania nelle nostre comitive». La sera prima dell'omicidio di Sarah. «La sera del 25 agosto in birreria non ho litigato con Sarah, può darsi al massimo che le abbia fatto un rimprovero» ha detto Sabrina. Sarah scomparve e venne uccisa il giorno dopo, 26 agosto 2010. Sabrina, che qualche giorno prima aveva litigato con Ivano Russo e aveva detto in birreria «questa volta è finita», ha confermato di aver detto in quella occasione, riferendosi a Sarah, «si vende per due coccole», aggiungendo però che «era una frase che ci dicevamo spesso io e Sarah», al pari di una frase di circostanza. Sabrina ha negato che quella sera Sarah, come riferito invece da altri testimoni, avesse gli occhi lucidi, come di pianto. «Sarah aveva sempre la faccia bianca e le guanciotte rosse - ha detto Sabrina - ma non gli occhi lucidi». «Più di qualche volta rimproveravo Sarah perché stava magari troppo appiccicata a degli amici e non volevo che in paese si spargessero voci strane. Può darsi che lo abbia fatto anche il 25 agosto» ha raccontato. «Sì, è vero - ha aggiunto - che Sarah aveva quella sera una lacrimuccia, ma perché Stefania (l'amica di Luca, ndr) insisteva per sapere» perché la ragazzina stesse imbronciata. «Per me quella del 25 agosto fu una serata come le altre» ha spiegato.  Sabrina, Sarah e Ivano. «Mai notato che Sarah fosse gelosa per Ivano. Piuttosto amava stare al centro dell'attenzione. Con Ivano ogni tanto scherzava, qualche abbraccio, qualche bacetto sulla guancia, questo era il tipo di coccole». Il diario segreto di Sarah. «Non ho mai prelevato i diari di Sarah da casa di mia zia per portarli a casa mia - ha riferito Sabrina - Sbagliammo, lo ammetto, a non portare il diario segreto con lucchetto ai carabinieri, fu una decisione di comune accordo con i miei zii, non mia. Secondo noi quel diario non c'entrava nulla con la scomparsa di Sarah». Nel diario segreto Sarah diceva di essere «confusa» perché non riusciva a capire se quella con Ivano Russo fosse solo un'amicizia o qualcosa di più. Il pm Buccoliero ha rilevato all'imputata di aver scritto in un sms a Ivano «meno male che non l'abbiamo portato ai carabinieri» perché altrimenti il giovane sarebbe diventato il primo sospettato per la scomparsa di Sarah.

L'INTERROGATORIO QUASI INTEGRALE IN AULA, così come pubblicato da Nazareno Dinoi su “Il Corriere della Sera”.

Il pm Mariano Buccoliero legge alcuni messaggi del 26 aprile 2010 che Sabrina inviò a Ivano Russo: «Hai fatto una cosa buona con Sarah, che ora mi tortura. È così magra che mi fa male».

Sabrina risponde che non ricorda il contesto del messaggio e sulla magrezza di Sarah intendeva che le faceva male quando la prendeva sulle gambe e le sue ossa le facevano male. Sarah aveva complessi per le orecchie a sventola.

Un altro sms letto dal pm: «Ti giuro mi sto esaurendo tenerla 24 ore su 24».

Sabrina risponde: « Mi riferivo sempre ai suoi complessi delle orecchie. Io sempre dicevo, Sarah sei una bella ragazza non hai le orecchie a sventola».

Pm Buccoliero: «Perché i messaggi sempre a Ivano?

Sabrina: «Perché avevamo la promozione Vodafone e non pagavo i messaggi».

Pm: «Che tipo di confidenza c’era tra Sarah e gli amici?»

Sabrina:« Sarah era una ragazza molto affettuosa, spesso dava qualche abbracci a tutti..»

Pm: «Mariangela aveva interesse per Ivano?»

Sabrina: «Non lo so ricordo però la prima volta che lo vide disse: Però è proprio bono. I rapporti tra me e Ivano - prosegue Sabrina - sono iniziati per gioco quando lui era al militare e ci scambiavamo messaggi che non pagavamo per la promozione. Poi sono cominciati gli sfottò tra di noi. Mi piaceva ma non avevo interesse, c’era l’attrazione fisica non lo nego ma non era amore. Mi piacevano alcuni lati del carattere ma non ero innamorata».

Pm: «Come mai molti amici dicono che lei era innamorata di Ivano?»

Sabrina: «Sono deduzioni loro dalla mia bocca non è mai uscita la parola amore riferita a Ivano. Quando ho scritto nel messaggio Dio Ivano era un gioco di parole per dire DIO IVANO riferito ad un gioco sui dieci comandamenti che facevamo insieme».

Pm: «Ricorda un sms inviato a Sarah in cui le chiedeva chi era sceso per primo dalla macchina la sera prima in cui era uscita lei ed altri amici con Ivano e lei non c’era chi era sceso per primo dalla macchina?»

Sabrina: «Ivano buttava la pietra e nascondeva la mano, volevo capire con chi faceva questi discorsi relativi ai pettegolezzi della gente sul nostro conto. Volevo sapere con chi parlava Ivano di queste cose se era Mariangela o Sarah».

Pm: «In un sms dice ti voglio un mondo di bene, sei unico tu per me sei come un Dio».

Sabrina:«Scherzavamo erano messaggi in chiave scherzosa».

Pm: «Dio Ivano ti voglio un mondo di bene mi dispiace per come ci siamo lasciati».

Sabrina: «Forse avevamo litigato non ricordo».

Pm: «Ivano scrive a lei amore».

Sabrina: «Scherzavamo ancora, era lo sfottò solito perché a lui non piaceva questa parola che si scambiavano alcuni suoi conoscenti del militare».

Pm: «Cosa c’è stato il 22 giugno tra lei e Ivano?»

Sabrina: «Non ricordo ma sarà successo qualcosa, ci saremo appartati ma non c’ è stato un rapporto forse un bacio.. scherzando scherzando siamo andati a finire in quel modo…».

Pm: Legge un sms del primo luglio in cui Sabrina scrive a Ivano: «Amore inutile nasconderci a tutti dobbiamo uscire ala luce del sole.

Sabrina: «Questo è vero perché la gente chiacchierava si faceva una idea e su questo fatto ci scherzavamo sopra.

Il pm: Evita di leggere alcuni sms (del 4 agosto) dal contenuto esplicito e «più spinti». ma chiede spiegazioni all'imputata.

Sabrina. «Quel periodo lui mi stuzzicava, e mi faceva richieste sfacciate. Sabrina racconta l’episodio di un rapporto sessuale durato pochi secondi. «Lui si fermò perché per quel rapporto non voleva rovinare la nostra amicizia».

Pm: «Quindi non era uno scherzo?»

Sabrina: «Comunque c’era sempre l’attrazione fisica.»

Pm: «Era stata lei a provocare Ivano?»

Sabrina: «Non era nel mio genere buttarmi addosso, era lui che come al solito buttava la pietra e nascondeva la mano. Io dicevo di assumersi le responsabilità come io avevo fatto. Cercavo di sviare dicendo che se non aveva le precauzioni inutile andare oltre».

Pm.:«Sarah sapeva di questi aspetti sessuali tra lei e Ivano?»

Sabrina: «Sarah non ha saputo niente solo mia sorella sapeva tutto. Ivano aveva sempre l’atteggiamento di allungare le mani anche davanti alle persone, tipo mettere la mano sul sedere. Siccome Claudio Scazzi parlava troppo diceva che non vedeva normale il mio rapporto con Ivano e mi disse che tutti avevano saputo del rapporto sessuale tra me e Ivano».

Pm: «Ha mai pedinato Ivano?»

Sabrina: «Non io, una volta lo facemmo con la macchina di Mariangela ma fu una sua esigenza non mia».

Pm: «Come mai Mariangela dice il contrario?»

Sabrina: «Glielo chieda a lei».

Pm: «Cosa ha fatto Sarah dopo il 21 agosto?»

Sabrina: «Sarah quella notte dormì a casa mia poi il lunedì andò a San Pancrazio» (dagli zii).

Pm: «Quando è stata a San Pancrazio vi siete sentite con Sarah?»

Sabrina: «Non ricordo».

Pm: «Dai tabulati risultano degli squilli».

Sabrina: «Ero rimasta male con lei perché in quei giorni mi aveva lasciata da sola per andare a San Pancrazio».

Pm: «Ricorda quando è tornata Sarah?».

Sabrina: «Il 25 agosto di sera io ero in località Urmo con dei parenti. Sarah mi chiamò al telefono».

Pm: «Come faceva a chiamarla se aveva tre centesimi di ricarica?»

Sabrina:«Probabilmente con il telefono di qualcuno, della madre...»

Pm: «Lei sapeva che quella sera doveva tornare Sarah?»

Sabrina: «Per come ricordo io sì».

Pm: «Si ricorda che quel pomeriggio ci furono dei lunghi messaggi con Mariangela?»

Sabrina: «Forse aveva chiesto un appuntamento di lavoro o perché mi chiedeva che non uscivo».

Pm: «Cosa avete fatto quella sera?»

Sabrina: «Siamo uscite con la macchina di Mariangela io e Sarah, prima a Torre Colimena poi alla birreria 101 ad Avetrana. In birreria c’era pure Stefania de Luca. Io confidai al proprietario, Michele, che con Ivano era tutto finito».

Pm: «Era finito cosa? L’amicizia?»

Sabrina: «Non specificai a Michele cosa fosse finito.»

Pm: »Come era l’umore di voi tre amiche?»

Sabrina: «Era una serata normale, non eccezionale, Sarah era un po' dispiaciuta»

Pm: «Entrando nel bar lei cosa disse?»

Sabrina:«Non ricordo bene più o meno: basta è finito tutto… prendemmo una red bull e poi ci mettemmo sedute fuori dove c’era Stefania. Non ricordo minuto per minuto tutto. Ricordo che anche a Stefania dissi che con Ivano non volevo più uscire. Stefania chiese a Sarah del fratello che era partito.»

Pm: «Perché Sarah era dispiaciuta?»

Sabrina: «Perché io dissi che non sarei più uscita ma io dissi non ti preoccupare anche se non usciamo avremmo visto dei film a casa. Era felice per il fatto che saremmo andate al mare».

Pm: «Ricorda se quella sera ha litigato con Sarah?»

Sabrina: «Escluso che abbia litigato… se si riferisce a quella frase: "si vende per poche coccole", quella frase era da intendere come un consiglio; Sarah era molto accondiscendente e questo non andava bene. Anche lei usava questa frase nei miei confronti ma non era offensiva tra di noi. Ma non ricordo prima di arrivare a quelle frase cosa ci siamo dette… Io intendo "per coccole" che non doveva dire sempre si per ottenere quello che voleva, anche io mi facevo sfruttare da Mariangela perché pur di andare a mare con la sua macchina pagavo la benzina».

ORE 15. 50 - Riprende l’udienza. Il pm Mariano Buccoliero riprende l’interrogatorio di Sabrina Misseri.

Pm: «Ricorda se la sera prima della comparsa ci fu una lite tra lei e Sarah all’ interno della macchina di Mariangela?»

Sabrina: «No, non ricordo, non credo. Sarah quella sera era triste perché il fratello era partito.

Pm: «Nei diari di Sarah si parla di quella sera. Sarah scrive il 26 agosto. Oggi ho avuto il dolce risveglio con il trapano… Sabrina come al solito si è arrabbiata perché dice che sono sempre appiccicata con Ivano».

Sabrina: «È vero ma non mi sono arrabbiata, l’ho rimproverata perché era sempre appiccicata a Ivano».

Pm: «In quel diario Sarah dice altre cose. Il 9 giugno scrive di una gita al mare e scrive: "Sabrina vuole stare da sola con Ivano e quando fa così mi dà ai nervi».

Sabrina: «In quel momento dovevo parlare di cose mie e di Ivano e non mi andava di portare Sarah».

Pm: «Poi scrive: "Sabrina sta facendo la stronza e non mi fa uscir con lei… "».

Sabrina: «Sempre per lo stesso motivo quando pensavo che una ragazza di 15 anni non poteva ascoltare alcune cose io la lasciavo a casa».

Pm: «Mariangela era gelosa di Ivano?».

Sabrina: «Gelosia proprio no, magari le piaceva stare al centro dell’ attenzione, quello sì».

Pm: «Quando il 25 agosto dice nella birreria: basta questa volta è finita proprio, a cosa si riferiva?»

Sabrina: «Lo stavo dicendo al titolare della birreria e mi riferivo alla lite con Ivano del 21 agosto».

Pm: «E lo diceva con tono alterato?».

Sabrina: «Non ero alterata è il mio tono di voce che è proprio così».

Pm: «Sarah era interessata a qualche ragazzo?»

Sabrina: «Diceva che stava bene da sola».

Pm: «Lei ha detto che in macchina quella sera ha gridato per rimproverare a Sarah di stare troppo vicina a Ivano. Si ricorda di questo?»

Sabrina: «Non ricordo di aver gridato...».

Pm: «Quando lei non usciva, Sarah aveva la possibilità di uscire da sola con Ivano?

Sabrina: «No, usciva solo con me e Ivano abitava lontano e non poteva andare a piedi. Usciva con il fratello.»

Pm: «Sarah scriveva sms a Ivano?

Sabrina: «No era il fratello Claudio che utilizzava il telefonino della sorella per messaggiare con Ivano. Io ero categorica dicevo sempre specifica che sei tu per evitare equivoci…»

Pm: «Come fa ad esserne sicura? Era sempre presente lei?

Sabrina: «Ne sono sicura….»

Pm: «Claudio smentisce questo.. »

Sabrina: «Claudio lo deve ammettere perché spesso si lava le mani.»

Pm: «Cosa successe con i diari di Sarah?»

Sabrina: «I carabinieri mi chiesero dei diario e io dissi a mia zia Concetta di trovarli. Poi mia zia tirò fuori un diario segreto con il lucchetto dove c’era scritto che Sarah provava simpatie per Ivano… lì ho sbagliato perché in accordo con mia zia e mio zio abbiamo deciso di non consegnarli ai carabinieri. Ma io non ho mai portato diari di Sarah a casa mia».

Pm: «Perché ha deciso di non consegnare quel diario?

Sabrina: «È stato di comune accordo con la madre e il padre di Sarah perché il contenuto non ci sembrava collegabile con la scomparsa di Sarah».

Pm: «Ha detto a Ivano circa il contenuto di quel diario?»

Sabrina: «Sì e anche lui è rimasto basito di questo e poi ha detto "vabbè l’ importante è che non mi metti nei casini". Questo perché temeva di essere sospettato… Tutti eravamo sorpresi di quello che Sarah scriveva su Ivano».

Pm: «Perché il giorno della scomparsa avvertì Ivano che aveva il telefono sotto controllo? Come faceva a saperlo?»

Sabrina: «Perché i carabinieri mi chiesero i numeri di telefono dei nostri amici… e poi perché era normale che glielo dicessi non solo a lui ma anche a Alessio e Mariangela».

Pm: «Ha fatto delle ipotesi circa la scomparsa di Sarah?»

Sabrina: «Sì ho sempre escluso la fuga, ho pensato sempre ad un rapimento, poi ai rom, poi alla badante, addirittura al traffico di organi, prostituzione. Per questo mi arrabbiavo con i carabinieri perché dicevo non perdete tempo con la fuga volontaria».

Pm: «Perché a Ivano scrisse che secondo lei Sarah non era viva?»

Sabrina: «Perché avevo alti e bassi e in quel momento pensavo così, poi perché Ivano era sempre ottimista».

Pm: «Ha mai chiesto a Sarah se avesse simpatia per Ivano?»

Sabrina: «Sì anche perché il fratello Claudio si era insospettito. In precedenza aveva chiesto anche se si fosse attaccata a Alessio».

Pm: «Cosa sapeva Sarah del suo rapporto con Ivano?»

Sabrina: «Sapeva che ci vedevamo, poi sapeva dei nostri litigi».

Pm: «Le ha mai detto di mandarlo a quel paese?».

Sabrina: «Questo sì ma poi sapeva che facevamo pace».

Pm: «A lei davano fastidio le coccole che Sarah riceveva e dava a Ivano?»

Sabrina: «No, non mi dispiaceva ma la proteggevo sempre per la questione delle chiacchiere. La pulce nell’orecchio fu Claudio Scazzi a mettermela».

Pm: «In che periodo Sarah si era attaccata a Ivano secondo lei?»

Sabrina: «Non escludo che fosse da marzo aprile».

Pm: «Ha mai chiesto a Ivano o Alessio cosa pensassero di Sarah?»

Sabrina: «No, vedevo che per loro era una bambina. Una volta il fratello Claudio mi chiese se mi ero accorta mai di qualcosa, soprattutto nei confronti di Ivano. Claudio secondo me era geloso di Ivano perché tutte le ragazze scherzavano con Ivano e non con lui».

Pm: «Ma l’osservazione di Claudio riguardava solo Ivano, come mai?».

Sabrina: «Perché Claudio non vedeva come si comportava con Alessio perché Alessio non usciva spesso con noi poiché lavorava».

Pm: «È vero che aveva timore che Sarah si legasse troppo con Ivano?»

Sabrina: «Sì, ma perché temevo che se un giorno non dovessi più frequentare Ivano più lei ci sarebbe rimasta male».

ORE 17: UDIENZA SI INTERROMPE PERCHE' SABRINA SCOPPIA IN LACRIME

Pm: «Ha mai avuto il dubbio che Ivano fosse interessato a Sarah?»

Sabrina: «No, se l’avessi avuto sarei andato da lui a dirglielo.»

Pm: «Quando Sarah le consigliava di lasciar perdere Ivano lei cosa rispondeva?»

Sabrina: «Sarah era terrorizzata che se avessi litigato con Ivano non sarei uscita per un periodo.»

Pm: «Il 28 agosto e poi il 31 agosto e 2 settembre, il 6, 8, 15 e 28 30 settembre. Per quale ragione in tutti questi verbali non ha mai parlato dei rapporti che aveva con Ivano Russo soprattutto della vicenda della birreria e del rapporto che Sarah aveva con Ivano?»

Sabrina: «Perché io ho sempre risposto alle domande dei carabinieri e basta».

Pm: «Se si cercava una bambina scomparsa, non era importante dire anche la vicenda del rapporto con Ivano? Soprattutto quello che accadde la sera prima della scomparsa?»

Sabrina: «Perché per me quella sera non era successo niente di importante».

Pm: «La sera che ha visto i diari ed ha avuto conferma dell’interesse di Sarah per Ivano, perché lo ha tenuto nascosto ai carabinieri?»

Sabrina: «Ho detto che ho sbagliato e comunque sapevo che Ivano non centrava niente con la scomparsa di Sarah… tra le lacrime Sabrina dice che per l’omicidio non centra niente il movente della gelosia. Tra me e sara non c’è la gelosia si fa confusione tra protezione e gelosia. Parlate così perché non avere conosciuto Sarah, non avete avuto la fortuna di conoscerla…».

Sabrina piange, la Corte chiede se vuole fermarsi per una pausa.

Sabrina dice di andare avanti. «Ho fatto due anni di prigione da innocente, posso andare avanti» risponde. La difesa chiede all’accusa se ha intenzione di proseguire a lungo. La corte concede una pausa. L'udienza si sospende.

ORE 17.30 - RIPRENDE L'UDIENZA

Pm: «Cosa le disse Sarah?»

Sabrina: «Non ricordo se la rimproverai ancora per la vicenda della sera prima. Poi parlammo di quello che era avvenuto dalla cugina a San Pancrazio, ma era allegra. Con Anna Pisanò non parlò perché con Anna Pisanò qualche anno prima c’ era stata una vicenda. Con poca delicatezza raccontò alla ragazzina che il padre allungava le mani alle donne. Quella sera Sarah era molto triste e noi la portammo in pizzeria per distrarla. Sarah continuava a piangere e io, tornate a casa di Sarah, dissi a mia zia la vicenda. Da quel momento Sarah e anche mia sorella cambiò comportamento nei confronti di Anna Pisanò. Sarah rimase comunque scossa tanto è vero che per un po di giorni non volle dormire a casa perché aveva soggezione nei confronti del padre. ("non è vero", fa cenno Concetta).

Pm: «Anche lei ha cambiato atteggiamento con Anna Pisanò?».

Sabrina: «Io non ho mai avuto buoni rapporti con lei, era lei che voleva sempre sapere da pettegola… spiava quando veniva Ivano di cui diceva che era un bel ragazzo. Non ho mai detto cose intime a Anna Pisanò. Sarah non saliva in macchina».

Pm: «Come mai Concetta non dice niente di tutto questo?»

Sabrina: «Forse lo ha dimenticato.»

Pm: «Quella mattina non era triste Sarah?».

Sabrina: «No, era anzi divertita perché parlavamo del diario segreto di nostra zia di San Pancrazio.»

Pm: «Con Ivano avevo fatto pace nel frattempo?»

Sabrina: «Sì la notte stessa o la mattina presto avevamo fatto pace con Ivano».

Pm: «Fino a che ora siete rimaste a casa quella mattina?»

Sabrina: «Sino alle 12, o 12,30».

Pm: «Quella mattina ha parlato con Anna Pisanò dello stato d’animo di Sarah?»

Sabrina: «Fu lei giorni dopo che mi parlò di questo stato di umore di Sarah. Io le dissi vai dai carabinieri e raccontalo a loro».

Pm: «Pisanò ha dichiarato che lei le disse di non dire che era triste quella mattina.»

Sabrina: «Tutto il paese la conosce e sa che Anna Pisanò dice sempre le bugie.»

Pm: «Come siete rimaste d’accordo per il mare?»

Sabrina: «Che l’avrei avvisata se mi avesse chiamato Mariangela».

Pm: «E poi cosa ha fatto quando è andata via Sarah?»

Sabrina: «Ho messo a posto nello studio e mi sono messo a letto intorno all’una circa.»

Pm: «Non ha pranzato?»

Sabrina: «No, perché dovevo andare al mare.»

Pm: «Ma non sapeva ancora se andava o no al mare.»

Sabrina: «A casa mia non ci sono orari per mangiare, avrei mangiato dopo se fosse saltato l’appuntamento».

Pm: «Quando stata a letto cosa è accaduto?»

Sabrina: «Dopo le 13,30 è arrivata mia madre, piuttosto dopo non prima..»

Pm: «Chi arrivò prima mamma o papà?»

Sabrina: «Io ricordo mia madre… nel sonno veglia sentivo parlare mio padre che parlava con mia madre. Quando arrivò mia madre si mise anche lei nel letto».

Pm: «Suo padre dice di arrivare a casa prima di sua madre. Lei quando si è resa conto che suo padre stava in casa?».

Sabrina: «Quando l’ho sentito parlare in dormiveglia.»

Pm: «Quando si è svegliata?»

Sabrina: «Se non sbaglio intorno alle 14 arrivò una chiamata a cui non ho risposto».

Pm: «Come mai non ha risposto?»

Sabrina: «In quel momento non mi andava di rispondere, ho messo il muto.»

Pm: «Sua madre le disse perché non rispondi?»

Sabrina: «Non ricordo se me lo disse e comunque decido io se devo rispondere o meno.»

Pm: «Suo padre dove dormiva?»

Sabrina: «Da un po' di tempo dormiva sulla sdraio anche di notte.»

Pm: «E perché? Glielo ha chiesto?»

Sabrina: «Non lo so sono fatti loro».

Pm: «Cosa ha fatto dopo?»

Sabrina: «Dopo un po' è arrivato il messaggio di Mariangela.»

Pm: «Dopo quanto tempo di aver sentito suo padre parlare è arrivato il messaggio di Mariangela?

Sabrina: «Non lo posso dire dire non lo so…»

Pm: «Non riesce a collocare il tempo del sms?»

Sabrina: «Se non mi sbaglio dopo le parole di mio padre arrivò il messaggio di Mariangela.»

Pm: «Dopo l’sms di Mariangela riceve altri messaggi?»

Sabrina: «Io mando il messaggio a Sara dicendo di mettersi il costume veloce, poi un altro messaggio a Mariangela per dire se potevo dirlo a Sarah e poi un altro messaggio a Sarah per dire se avesse letto quello precedente.»

Pm: «Suo padre nel frattempo dove stava?»

Sabrina: «Non lo so comunque non credo fosse in casa perché se dormiva avrei sentito russare altrimenti i rumori in cucina.»

Pm: «Cosa scriveva Mariangela nel sms?»

Sabrina: «Il tempo di mettere il costume e arrivo e io chiesi se potevamo portare Sarah».

Pm: «Come mai Mariangela dice che eravate d’accordo dalla sera prima che sareste andate tutte al mare?»

Sabrina: «Non lo so non lo ricorda. Lo dice lei io dico un’altra cosa».

Pm: «Perché secondo lei Mariangela dice questo?»

Sabrina: «Lo chieda a lei.»

Pm: «Poi cosa ha fatto?»

Sabrina: «Avvisò Sarah di mettersi il costume.»

Pm: «Questo sms è dello 14,25. e dopo che fa?»

Sabrina: «Dopo rifaccio un altro messaggio per dire se ha letto quello precedente.»

Pm: «E nel frattempo dove si trova lei?»

Sabrina: «Sempre nel letto.»

Pm:«Il 15 ottobre lei disse che quando arrivò lo squillo di Sarah lei era in bagno Sabrina: dopo lo squillo sono andata in bagno».

Il pm fa rilevare alcune contraddizioni sugli orari e sui comportamenti di Sabrina il pomeriggio del 26 agosto a cui l’imputata non sa rispondere giustificandosi con il fatto di non ricordare.

Pm: «Alle 14, 28,26 arriva lo squillo di Sarah. Poi invia un sms a Mariangela dicendo sto tentando in bagno. Perché quel messaggio?»

Sabrina: «Per sdrammatizzare, volevo fare una battuta. Ero in bagno e non riuscivo a fare il bisogno così ho scritto quel messaggio».

Pm: «E come mai al gip ha detto di aver fatto quel bisogno fisiologico? E come è possibile che in 14 secondi fa tutte queste cose? Alzarsi dal letto, andare in bagno, fare il bisogno e fare il messaggio a Mariangela?»

Sabrina: (ride) «Scrivevo il messaggio mentre camminavo per andare in bagno… non ci vuole molto… »

Pm: «Prima ha detto che il messaggio lo ha mandato quando era seduta sul water.»

Sabrina: «Non ricordo».

Pm: «Poi lei fa un sms a Mariangela e dice: sono pronta, dove si trova in quel momento?»

Sabrina: «Se non sbaglio mentre stavo uscendo sotto la veranda.»

Pm: «Quando stava sotto la veranda cosa è successo?»

Sabrina: «Ho sentito rumore del portone del garage che sembrava si chiudesse e ho gridato: papà, ancora qui stai? E lui mi ha risposto dicendomi che il trattore non partiva e che avrebbe preso la macchina. Io ho chiesto se vedeva arrivare Sarah e lui mi ha detto di no. A quel punto è arrivata Mariangela e quando è arrivata io sono scesa in strada. Mi sono avvicinata alla macchina di Mariangela che aveva il motore acceso e nel frattempo ho visto mio padre che svuotava il portabagagli della macchina.

Pm: «Il portone era aperto?»

Sabrina: «Sì e mio padre faceva sue giù dalla cantina.»

Pm: «Aveva qualcosa in mano?»

Sabrina: «Credo di sì, forse una zappa.»

Pm: «La macchina di suo padre com’era parcheggiata?»

Sabrina: «Vicino al garage e dietro c’era la macchina di mia madre la Opel Astra. Il cofano della Marbella era aperto.»

Pm: «Quando suo padre faceva su e giù e c’era Mariangela cosa è accaduto?»

Sabrina:« Ho detto a mio padre di fare attendere Sarah se fosse arrivata mentre Mariangela con un certo nervosismo mi diceva di salire in macchina, questa cosa mi ha fatto innervosire ed ho detto aspetta fammi prima telefonare a Sarah.»

Pm: «Quando scende dalla veranda ha in mano l’asciugamano con sé?»

Sabrina:«Non me lo ricordo».

Pm: «Dopo il messaggio di Mariangela sua madre dormiva?»

Sabrina: «Non ricordo, forse no perché le ho detto che sarei andata al mare ma non ricordo.»

Pm: «Lei ha visto questo su e giù di sua padre mentre c’era Mariangela. In quel momento ha avuto un colloquio con suo padre?»

Sabrina: «Per dire di fare aspettare Sarah».

Pm: «Si ricorda se il cofano si manteneva da solo o aveva difetti?»

Sabrina: «non lo so anche se è intestata a me non la conosco proprio.»

Pm: «poi cosa è accaduto?»

Sabrina: «Ho telefonato a Sarah mentre salivo in macchina ma dopo qualche squillo si è inserita la segreteria. Dopo un po ho riprovato a chiamare ma era spento».

Pm: «Mentre faceva questa telefonata stava parlando con suo padre?»

Sabrina: «Non lo ricordo».

Pm: «In quel momento quando faceva gli squilli dove stava suo padre?»

Sabrina: «Non lo so».

Pm: «In una sua intervista televisiva fatta ad ottobre 2010 lei disse piangendo che mentre faceva quella telefonata a Sarah stava parlando con suo padre».

Sabrina (scoppia in lacrime): «In quel periodo lei non sa come stavo io con un padre assassino. Ero confusa. Io non ho fatto niente lo ribadisco per l’ ennesima volta se avessi fatto qualcosa lo avrei detto, non riuscirei a sopportare questo peso, lo volete capire? A quest’ora l’avrei detto. (Piange) La difesa chiede una nuova sospensione che la Corte concede.

ORE 19.18 - RIPRENDE L'UDIENZA

Pm: «Quando fa la telefonata a Sarah alle 14,42 del 26 agosto dov’era suo padre?»

Sabrina: «Non me lo ricordo di preciso se mio padre era già sceso».

Pm: «Quando scende dalla veranda vede suo padre?»

Sabrina: «Lo vedevo fare su e giù».

L’esame continua con la ricostruzione del pomeriggio in cui fu uccisa Sarah ed è su questo che Sabrina continua a mostrare lacune nei ricordi. Ancora una volta è sul ricordo dell’intervista contestata in precedenza che la ragazza riprende a piangere, questa volta trattenendo a forza le lacrime.

Pm: «Come mai suo padre dice che non si trovava fuori dal garage?»

Sabrina: «Chiedetelo a lui e comunque non fate affidabilità su quello che dice mio padre perché non ha buona memoria».

Pm: «La stessa cosa la dicono anche Mariangela e la sorella che era in macchina con lei».

Sabrina: «Però sono sorelle e avranno parlato tra loro. Non posso dare giustificazioni di quello che dicono gli altri».

Pm: «Suo padre dice che mentre strangola Sarah squilla il cellulare. Com’è possibile se lei dice di vederlo sopra?»

Sabrina: «Questo lo deve spiegare lui... So solo che la memoria di mio padre non è di ferro. Non posso dare una spiegazione per mio padre».

Pm: «Dove ha parcheggiato Mariangela?»

Sabrina: «Quasi in mezzo alla strada, un po' verso destra».

Pm: «Cosa ha fatto quindi?»

Sabrina: «Ho fatto gli squilli poi sono salita in macchina e siamo andati a casa di Sarah. Esce mio zio Giacomo e chiedo di Sarah, lui dice che è venuta a casa mia».

Pm: «Quando arrivate la prima volta a casa di Sarah c’è solo suo zio Giacomo?»

Sabrina: «Sì solo con lui ho parlato».

Pm: «Come spiega la telefonata che fa a suo padre subito dopo?»

Sabrina: «Non lo so non ricordo».

Pm: «È vero che appena è salita in macchina di Mariangela ha detto "l’hanno presa, l’hanno presa?"»

Sabrina: «L’ho detto al secondo giro non al primo perché ancora non era tanto allarmante».

Pm: «Alle 14,55 cosa dice a suo padre al telefono?»

Sabrina: «Se ha visto Sarah ma lui mi dice che non è più a casa perché sta andando in campagna.»

Sabrina incorre in diverse contraddizioni e molti “non ricordo” quando deve raccontare l’episodio dell’arrivo di Mariangela Spagnoletti e la collocazione del padre in quel contesto.

Pm: «Com’era vestita Sarah quella mattina del 26 agosto?»

Sabrina: «Se non sbaglio era vestita di nero».

Pm: «E il pomeriggio?»

Sabrina: «Non l’ho saputo subito ma solo il tardo pomeriggio. L’ho chiesto a mia zia che non sapeva perciò lo ha chiesto alla badante».

Alle 20 il processo viene aggiornato a lunedì prossimo 26 novembre.

Anna Pisanò all’uscita del tribunale, palesemente alterata, davanti alle telecamere del TG5,  in riferimento all’accusa di Sabrina di essere una bugiarda ha sbottato: «Se sono io bugiarda e pettegola, perché lei sta dentro ed io sto fuori?»

E poi a Nazareno Dinoi su “Il Corriere della Sera”. «Ho sopportato di tutto in questa brutta storia che mi tormenta da due anni, ma essere definita pettegola e bugiarda da Sabrina questo proprio non lo mando giù». Anna Pisanò era presente in aula quando la sua ex amica, ora imputata nel processo in Corte d’assise per l’omicidio di Sarah Scazzi, l’ha insultata durante l’interrogatorio di martedì scorso. Per questo, venendo meno al principio di non visibilità rispettato sinora, ha deciso di far sentire così la sua voce. Per la Procura, Pisanò è una dei testimoni chiave contro la figlia di Michele Misseri. Sabrina Misseri ha detto che lei è una nota bugiarda e che Sarah conservava del rancore nei suoi confronti per dei pettegolezzi sul conto del padre che lei le avrebbe confidato quando aveva ancora tredici anni. «E la bugiarda sarei io? Si faccia un giro in paese e chieda chi sono io e chi è la signorina Sabrina. La sua sfacciataggine ha raggiunto livelli incredibili quando s’è inventata la storia secondo cui avrei detto a Sarah che suo padre allungava le mani sulle donne. Mai detta una cosa simile. Il papà di Sarah — argomenta Anna Piasanò — l’ho conosciuto quando lei era già scomparsa. Sino a quel momento ero convinta che i genitori della povera Sarah fossero separati da tempo. Se avessi saputo una cosa simile e avessi avuto la confidenza giusta, lo avrei detto piuttosto a Concetta non alla ragazzina. Sono mamma di tre figlie e ho rispetto per i bambini io, non come lei che si permetteva di far vedere a Sarah e a mia figlia minorenne le immagini di un libro di kamasutra che aveva nel suo studio». Pisanò spiega che «noi tutti di casa abbiamo voluto bene a Sarah ed anche lei ce ne voleva, altro che odio come vuol far credere Sabrina per nascondere quella sua bugia del giorno della scomparsa di Sarah». A cosa si riferisce?

«La mattina del 26 agosto mi trovavo a casa Misseri per un trattamento estetico e vidi Sarah che era molto triste e insolitamente taciturna. Qualche giorno dopo sentì dire a Sabrina in un’intervista che la cugina quella mattina era stata allegra, che avevano sentito della musica ed avevano giocato. Le chiesi perché non aveva detto la verità che forse sarebbe stata utile alle ricerche; mi fulminò con lo sguardo e disse: "ormai ho detto così e se ti chiamano dì pure tu la stessa cosa, non mi mettere nei casini"».

Intanto si viene a sapere da “Il Corriere della Sera” che proprio il direttore responsabile del quotidiano locale «La voce di Manduria» e collaboratore del «Corriere del Mezzogiorno-Corriere della Sera», Nazareno Dinoi, ha sporto denuncia ai carabinieri nei confronti di Ivano Russo, il giovane di Avetrana del quale, secondo la Procura di Taranto, si sarebbero invaghite Sabrina Misseri e la cugina Sarah Scazzi, tanto da indurre Sabrina a uccidere Sarah il 26 agosto 2010. Dinoi ( a suo dire) sarebbe stato minacciato da Russo in relazione ad un articolo, pubblicato il 6 novembre scorso dai due quotidiani, sul contenuto di alcune intercettazioni telefoniche, agli atti del processo Scazzi, dalle quali emergerebbe una presunta trattativa tra Russo e Fabrizio Corona per la vendita di alcune foto riguardanti la vicenda. Nella tarda mattinata del 6 novembre, denuncia Dinoi, Russo lo ha chiamato al telefono lamentandosi per l'articolo e minacciandolo di aggredirlo fisicamente. Russo, è scritto sempre nella denuncia, avrebbe concluso la telefonata offendendo Dinoi e i suoi parenti defunti.

Lo stesso Nazareno Dinoi che su “Il Corriere della Sera” pubblica le lettere inviate a Michele Misseri dalle sue fans. Si chiama Fiorella, è sposata, ha cinquant’anni e vive a Roma. È lei la «pasionaria» di Michele Misseri, la donna che gli scriveva accorate lettere quando il contadino di Avetrana si trovava ancora in carcere per il delitto di Sarah Scazzi. Una corrispondenza molto calorosa, che forse non si è interrotta con la scarcerazione per decorrenza dei termini (superfluo dire che l’uomo è imputato nel processo in Corte d’assise e deve rispondere di soppressione del cadavere della nipote quindicenne), e della quale si trova traccia negli atti del processo. In particolare nel fascicolo che raccoglie le trentasette lettere ed altri documenti sequestrate dai carabinieri il 17 gennaio 2011 nella cella di zio Michele. Le missive in questione portano la data del 6 e 20 dicembre del 2010. In quel periodo, il papà di Sabrina e marito di Cosima Serrano, le due donne in carcere perché accusate di avere ucciso la ragazzina, aveva preso a scrivere lettere e memoriali indirizzate ai suoi familiari (soprattutto alla figlia Sabrina tuttora detenuta), che non hanno mai risposto al mittente. A compensare questa carenza d’affetto, di cui Misseri comincia a lamentarsi nel suo «diario della tristezza e del dolore» consegnato in questi giorni alla Corte d’assise (cinque quaderni di computisteria scritti di suo pugno), a lenire le ferite, almeno allora, ci ha pensato Fiorella. «Ti scrivo per dirti quanto sono triste per tutto quello che ti è accaduto», si legge nella corrispondenza datata 6 dicembre. Con una grafia elementare ma chiara e priva di errori, la donna romana fa chiari apprezzamenti sul detenuto di Avetrana. «Si vede dal tuo viso che sei una persona per bene». Poi si spinge più in là: «Un uomo dolce con occhi meravigliosi che incantano». Sino alla dichiarazione più esplicita: «Se non fossi sposata - scrive - ti porterei con me a Roma, lontano da tutto quel dolore».  Il primo a non credere a tanta dolcezza, forse, sarà stato lo stesso Michele poco abituato a simili affettuosità in un periodo così triste per la sua esistenza. Di sicuro gli avrà fatto bene vedere i tre cuoricini disegnati alla fine della lettera sotto il nome della sua ammiratrice: tre simboli dell’amore con dentro scritte frasi di affetto e di speranza: «Sei sempre nel mio cuore», «uscirai presto» e «sei una persona meravigliosa». Due settimane dopo a Michele fu consegnata un'altra lettera. Sullo stesso foglio a quadretti è ancora Fiorella a scrivergli. «Come vedi torno a scriverti con la speranza di darti un po’ di compagnia e affetto. Mi sta molto a cuore la tua situazione — insiste la signora — e vorrei che finisse tutto al più presto possibile». Sempre con l’intento di alleviare le sofferenze della persona internata, la cinquantenne romana invita Michele Misseri a «pensare che ti sei preso un periodo di riposo, visto che hai lavorato tanto nella tua vita». La chiusura della lettera è più intima. «Anche se non mi vedi, io sono sempre vicino a te. Un bacio sui tuoi splendidi occhi». L’ossessione di Michele Misseri, comunque, resta la figlia Sabrina a cui continua a scrivere memorie. L’altro ieri gli avvocati che difendono la ragazza, il penalista romano Franco Coppi e il tarantino Nicola Marseglia, hanno depositato alla presidenza della Corte d’assise 49 buste contenenti altrettante lettere scritte dal padre e un quinto quaderno del suo «diario della tristezza e del dolore».

Invece il rendiconto del “La Gazzetta del Mezzogiorno” la dice tutta sulla parzialità della sua posizione contro Sabrina. “Sicura, fiera, forte. Non rispondeva alle domande dei magistrati dal 15 ottobre del 2010 Sabrina Misseri, finita a giudizio con la madre Cosima Serrano per l’omicidio della cugina Sarah Scazzi, la 15enne scomparsa ad Avetrana il 26 agosto di due anni fa. Chiusa in cella per oltre 24 mesi - da innocente, come ha urlato, piangendo due volte nella lunghissima udienza di ieri - Sabrina Misseri, a differenza della madre, ha accettato di sottoporsi all’esame delle parti processuali, riacquistando il colorito e la baldanza dei giorni compresi tra la scomparsa della cugina e il suo arresto, giorni contrassegnati da interviste e ospitate nei salotti televisivi nazionalpopolari, quando Sarah sembrava svanita nel nulla e quasi nessuno sospettava che l’estetista potesse essere addirittura l’assassina. Compresa nel ruolo di imputata ma tutt’altro che rassegnata, Sabrina ha risposto per oltre 7 ore alle domande del sostituto procuratore Mariano Buccoliero e del procuratore aggiunto Pietro Argentino. Il racconto di Sabrina fila sui binari di due anni fa, senza novità di rilievo e con alcuni non ricordo quando le domande della pubblica accusa riguardavano aspetti che nel corso delle 26 udienze del processo avevano incrinato quanto Sabrina aveva detto in precedenza.” Quei non ricordo. Anche Bollino, il direttore, a “Porta a Porta” si è soffermato su quei non ricordo, dichiarando che era stati molti, rimbrottato dall’avv. De Jaco, che ha precisato che l’affermazione non corrispondeva a verità. In quel salotto vi era anche la Bruzzone che con veemenza sposava la tesi colpevolista per Sabrina, nonostante lei fosse lì come opinionista, e non come ex consulente di Michele Misseri, chiamata da Galloppa ed entrambi accusati dal contadino di Avetrana di averlo indotto ad accusare la figlia. Ed il commento sempre su quel giornale (La Gazzetta del Mezzogiorno) di Carmela Formicola conferma la tesi di parzialità. “Piange, Sabrina, in aula. Il pm la bacchetta: «Ma che si mette a piangere...». Perché per il pm Sabrina è un’assassina. E agli assassini è negato il diritto alle lacrime. Processo Scazzi, ennesima udienza. Parla l'imputata, Sabrina Misseri, la cugina- mostro che avrebbe ucciso la dolce piccola Sarah per gelosia. Lei nega. Nega da sempre, granitica, dietro la maschera di innocenza che continua ad indossare, ancora oggi, dopo una lunghissima carcerazione che proverebbe chiunque, perfino un assassino. Nega, controbatte, spiega, ricostruisce la sua verità, col suo grumo di segreti e rimpianti e l’eredità morbosa del paese che la giudica, della famiglia che custodisce fantasmi. E della morte, la morte di Sarah, che abita i suoi pensieri. Quindi «la tigre» s’arrende alle lacrime. Paura? Rabbia? Dolore? L’emozione non la governi. Entra a valanga, nella fredda aula di Tribunale dove tutti i protagonisti sono seduti, una quinta pirandelliana. Lo zio, il padre, la cognata, il cugino, la madre, la nipote. La famiglia. I Misseri, i Serrano, uniti e divisi dal sangue, finiti nel tritacarne dei media che ben oltre la morte violenta della piccola Sarah hanno fiutato l’audience di una storia impastata di reality e fiction in egual misura. Ma Sabrina, con le sue lacrime, non ci consegna il dubbio sulla sua colpevolezza (dubbio che probabilmente nemmeno una sentenza potrà mai fugare del tutto). Ci ricorda soltanto il sentimento del rispetto. Ce lo insegna nuovamente. Rispetto per l’altro, che sia una vittima o un assassino, rispetto per la sofferenza (l’etica cristiana parla piuttosto di «misericordia»), perché comunque la trama di orrore, misteri e mistificazioni toccata a Sabrina e alla sua maledetta famiglia ha cambiato le loro vite per sempre. Ha stravolto l’esistenza dolcemente grigia, la vita di campagna, le serate al pub, le confessioni tra amiche, i piccoli sogni da estetista. La speranza, il futuro: tutto finito, spazzato via dalla violenza, dal destino, dall’omicidio. E anche il pm lo capisce, se nella fredda aula di giustizia, dove irrompe l’emo zione, s’arrende anche lui al pianto di Sabrina. E dopo averla aggredita, le chiede scusa, perché alla fine s’accorge di non guardare l’assassina ma l’anima dolente.”

Di tutt’altro tenore (più equilibrato) è il resoconto di Maria Corbi su “La Stampa”. “E’ il giorno di Sabrina, della sua voce che risuona flebile nell’aula del Tribunale di Taranto dopo due anni di silenzio. Entra con i capelli sciolti, lunghissimi, che sembrano scandire il lento passare del tempo in cella. Più di due anni. Ed è lei a ricordarli quando dopo 4 ore di domande scoppia a piangere e al pm che le chiede se vuole un’interruzione singhiozza: «è da due anni che sono in carcere da innocente, possiamo andare avanti». Le lacrime scivolano sulle guance della ragazza che urla la sua innocenza: «non ho fatto niente, non so niente». E il suo amore per Sarah: «non avete avuto la fortuna di conoscerla», dice ai pubblici ministeri. Un’udienza carica di tensione. Appena entra in aula Sabrina stringe la mano del suo avvocato, il professor Franco Coppi, con affetto e fiducia. La ragazza di Avetrana e il principe del Foro. Lui l’ha preparata a questo giorno, alle domande dei pubblici ministeri, alla curiosità avida della gente. Prima che lei parli la difesa presenta 47 lettere che il padre le ha scritto. Fogli in cui Misseri continua a chiedere perdono e in cui ribadisce la sua colpevolezza. Un modo per fare entrare nel processo la sua voce fino ad oggi inascoltata. Nell’ultima, quella dell’11 novembre, Michele spiega alla figlia perché in aula si è rifiutato di rispondere e le assicura che dirà tutto quando sarà ascoltato come teste della difesa. Un’ udienza che inizia battagliera con Coppi che chiede alla corte l’inutilizzabilità dell’interrogatorio reso dalla sua assistita il 30 settembre 2010 quando era ancora solo una persona informata sui fatti. Dalle prime pagine del verbale che riporta quella testimonianza i pm fanno a capire a Sabrina, con modi molto bruschi, che su di lei ci sono sospetti che vanno ben al di la delle false dichiarazioni («Si rende conto che sta mentendo in una maniera pazzesca», pag 158 del verbale). E in questo caso, quando esistono indizi a carico, spiega Coppi, «secondo l’articolo 63 del codice di procedura penale, i pm hanno l’obbligo di interrompere l’esame per la nomina di un difensore. E tutte le dichiarazioni rese fino al momento diventano inutilizzabili». Anche se confermate dall’indagato successivamente. I pm si oppongono e la Corte respinge l’eccezione che rimane una «zeppa» per eventuali e futuri ricorsi in Cassazione. Sabrina ascolta attenta, una mano sulla guancia con l’aria rassegnata di chi vede tutto contro di lei. I pubblici ministeri, Mariano Buccoliero e Pietro Argentino, vogliono sentire prima Cosima che si avvale della facoltà di non rispondere come consigliato dai suoi legali. Ed ecco Sabrina, con il volto pallido e tirato. Il padre seduto dietro di lei sembra una statua, immobile con gli occhi fissi non si sa dove. Mamma Concetta, la fissa. Poco prima di entrare in aula aveva detto: «Sabrina racconterà la sua verità. Come faccio a crederle?». Il pm Buccoliero inizia chiedendo a Sabrina dei suoi rapporti con la cuginetta Sarah. «Io la reputavo una sorella minore, non una cugina», dice la ragazza. Il pm gli contesta alcuni sms inviati a Ivano Russo che dimostrerebbero secondo l’accusa la gelosia della Misseri per Sarah Uno dice: «Hai fatto una cosa buona con Sarah e una brutta. E’ così magra che mi fa più male». Sabrina spiega che non era invidia per la linea della ragazzina ma che quando la abbracciava sentiva le ossa appuntite e le faceva male. Dalle parole della Misseri un rapporto di affetto, di frequentazione con la cugina e anche di rimproveri. «Più di qualche volta rimproveravo Sarah perché stava magari troppo “appiccicata” a degli amici, a Ivano o ad Alessio, e non volevo che in paese si spargessero voci strane. Può darsi che lo abbia fatto anche il 25 agosto e il 26». Domande ripetute, circolari, che tornano al punto di partenza. I pm Buccolierio e Argentino usano una tecnica di interrogatorio a goccia cinese, ma Sabrina Misseri sembra leggerla.

E’emozionata ma tranquilla e spesso si è sentita confortata dagli interventi della Corte o della sua difesa. Si procede passo passo per trovare, nelle sue precedenti dichiarazioni, incongruenze, contraddizioni e soprattutto gli elementi che possono scolpire il movente della gelosia portato avanti dall’accusa. Ma Sabrina chiarisce che per Ivano c’era attrazione fisica, non innamoramento. E che quell’unico rapporto sessuale, in macchina il 2 agosto, è «durato pochi secondi». Comunque iniziano in quell’auto le incomprensioni che minano l’amicizia tra i due ragazzi. E Sabrina lo racconta. Ivano l’accusava di avere raccontato tutto al cugino Claudio. «Non l’ho mai fatto», ha spiegato la ragazza in aula, dicendo di non aver mai rimproverato alla cugina di avere messo in giro voci su quella sera. Si torna alla sera prima della scomparsa quando una testimone disse che Sarah era triste: «Sì, è vero che Sarah aveva quella sera una lacrimuccia, ma perché Stefania insisteva chiedendo del fratello che era partito e se era per quello che era triste». «La sera del 25 agosto in birreria non ho litigato con Sarah, può darsi al massimo che le abbia fatto un rimprovero«, ha spiegato Sabrina. Ha anche ricordato che qualche giorno prima aveva litigato con Ivano Russo e aveva detto in birreria «questa volta è finita». E che la frase «si vende per due coccole» - che l’accusa ritiene fondamentale nella ricostruzione del movente - era ricorrente nel loro modo di parlare. « Volevo dire che Sarah era sempre troppo condiscendente con gli altri». Chiarisce sui diari che, secondo l’accusa, ha nascosto: «Non ho mai prelevato i diari di Sarah da casa di mia zia per portarli a casa mia. Sbagliammo, lo ammetto, a non portare il diario segreto con lucchetto (dove Sarah confidava la sua attrazione per Ivano) ai carabinieri. Fu una decisione di comune accordo con i miei zii, non mia. Secondo noi quel diario non c’entrava nulla con la scomparsa di Sarah». Ivano, il movente, è su di lui che battono le domande a Sabrina.

Interminabili, tanto che all’avvocato Marseglia (insieme a Coppi difensore di Sabrina) scappa la pazienza e cita i metodi «alla Guantanamo». Il giudice Rina Trunfio invita alla calma. Domande a raffica anche sull’umore di Sarah la mattina del 26 agosto. Una cliente di Sabrina dice che quel giorno quando ha visto Sarah a casa Misseri era triste. Ma Sabrina spiega che non era così. Semplicemente alla cugina quella signora stava antipatica perchè tempi prima le aveva fatto dei commenti sulla debolezza del padre Giacomo per le donne. Sabrina nega di avere mai cercato di convincere questa teste a non andare dai carabinieri a raccontare del broncio di Sarah quella mattina. Il pm insiste e lei spiega che tutti sanno che quella signora è una pettegola. E si arriva alle ore del delitto. Alla gita al mare che Sabrina e Saeah dovevano fare con Mariangela. Ai messaggi e alle telefonate che scandiscono l’ora del delitto e che sono determinanti per l’alibi di Sabrina. «In quel telefonino è scritta l’innocenza di Sabrina», sostiene la difesa.

Mentre per l’accusa quel telefonino è stato il mezzo con cui la ragazza ha tentato di depistare i sospetti. Quando arriva il messaggio di Mariangela Sabrina era nel letto. «Mio padre non so dove fosse», spiega. Poi il pm inizia a martellare con domande sul messaggio «sto tentando in bagno» che Sabrina mandò a Mariangela. Buccoliero vuole sapere quale bisogno corporale esattamente stava tentando e se ci è riuscita. E così via con una serie infinta di minuziose contestazioni. Alle 18,38 Sabrina è sfinita.

Inizia a cedere. Ha un altro sfogo: «Non ho fatto niente, volevo bene a Sarah». Al pm che gli contesta delle dichiarazioni fatte nei giorni dopo l’arresto del padre spiega: «In quei giorni ero confusa, avevo scoperto di avere un padre assassino». Buccoliero perde la pazienza: «Ma che stai a dire...». Coppi interviene duramente - «questo non lo permetto!» - e si interrompe l’udienza per permettere a Sabrina di asciugarsi le lacrime. Sono più di sei ore che si va avanti e appena rientrata Sabrina ha un’altra crisi. Altra pausa. Ma il presidente della Corte è inflessibile: si va avanti. Buccoliero ricomincia con le domande su quell’intervallo di tempo che comprende delitto e occultamento del cadavere. Interrogatorio infinito «Abbiamo tempo», chiarisce il pm Buccoliero. La battaglia è solo all’inizio.”

La seconda parte della puntata di Quarto Grado del 23 novembre 2012, programma in onda su rete 4 e condotto da Salvo Sottile, è stata dedicata proprio al caso Sarah Scazzi ed alle ultime dichiarazioni rilasciate da Sabrina Misseri. Si parte con l’ascoltare la lettura (anzi, recitazione) delle dichiarazioni di Sabrina in aula, la quale, in lacrime, continua ad affermare di non aver ucciso Sarah e di essere innocente. La Misseri ribadisce di non aver mai litigato con Sarah ma, al massimo, di averla presa in giro come sempre faceva (riferendosi ad una sera passata in birreria in cui dei testimoni sostengono di averle viste litigare).  Si torna in studio e la parola va alla psicologa forense Silvia Gimelli, la quale aveva già ascoltato Sabrina Misseri all’inizio della vicenda; Sottile le chiede se riscontra dei cambiamenti in Sabrina rispetto alla prima volta che l’ha ascoltata, e la psicologa risponde di essere convinta dell’innocenza della ragazza. Viene mostrata un’altra parte dell’interrogatorio della ragazza, dove si parla di Ivano Russo e di uno scambio di messaggi tra lui e Sabrina. Stando a questi sms Sabrina e Ivano avrebbero avuto inizialmente un rapporto sessuale non completo e, in seguito, vedendosi, avrebbero continuato ad avere dei rapporti fisici, di cui però Sarah, secondo quanto detto da Sabrina, non avrebbe mai saputo niente (vengono letti vari sms scambiati tra Ivano e Sabrina). Si torna di nuovo in studio e, dopo il lancio della pubblicità, viene mostrata un’intercettazione inedita che coinvolge Michele Misseri, Sabrina Misseri e Ivano Russo. L’intercettazione è alquanto confusa e, infatti, non se ne capisce bene il contenuto. Quello che si capisce per certo è che Michele, Sabrina e Ivano parlano del ritrovamento del cellulare di Sarah, che Michele racconta di aver avvistato mentre cerca un cacciavite; i toni dei tre sembrano ansiosi e preoccupati, soprattutto quello della ragazza, ma nulla di confermato può esserci a riguardo. Si torna in studio è la parola va di nuovo alla psicologa forense, che “accusa” il pm che ha esaminato Sabrina, di aver quasi indotto le risposte della ragazza, “etichettandola” già come colpevole e, in alcuni casi, anche bugiarda. A questo punto Sabrina Scampini legge alcuni messaggi arrivati dal pubblico da casa; gli spettatori sono divisi: c’è chi crede nell’innocenza della ragazza, soprattutto dopo aver sentito le sue ultime dichiarazioni, e c’è chi invece considera le sue lacrime di coccodrillo e continua, senza indugiare, a puntarle il dito contro.

A Domenica Live del 25 novembre la D’Urso prova ancora a contrapporre la cronaca, questa volta nera, alla politica e agli argomenti più “impegnati” di Rai1. In esclusiva intervista a Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, la ragazzina uccisa ad Avetrana.

Dopo la presenza del fratello e del padre di Sarah questa volta è toccato alla madre “raccontare e raccontarsi” a Domenica Live. Lo stile è Dursiano in tutti i sensi con le dovute faccette di ordinanze. Domenica Live: Barbara D'Urso, intervistando Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi, forse per metterla a suo agio e creare "empatia" con lei, le diceva: "Sono terrona come te". Se per terrona si intende ignorante e cafona, si è data ed ha dato una bella definizione. E più avanti ripeteva: "Sono terrona, siamo due terrone". La D'Urso argomentando sul delitto di Avetrana, si definiva inoltre una giornalista. Se lo è (e non ho motivo di non crederle) usi termini più consoni alla cronaca, al buongusto e al politicamente corretto. Oltre che al buon giornalismo, che non deve essere "giornalettismo". Perché auto-definirsi in qualità di abitante del sud o originaria del meridione con un temine antipatico, abitualmente usato come dispregiativo? Per accontentare o assecondare il bisogno del pubblico guardone, seduto in studio od a casa, forse?

Intanto nel corso del programma di canale 5 "Domenica Live" sono stati proposti alcuni stralci delle 49 lettere, appena acquisite agli atti del processo, che Michele Misseri ha scritto a Cosima e Sabrina, per chiedere perdono e per ribadire la sua colpevolezza, senza mai ricevere risposta. Dura la replica della mamma di Sarah, "sono parole suggerite". "Non sono autentiche e poi esistono una serie di riscontri che incolpano Sabrina e Cosima" ha spiegato Concetta Serrano, ospite di Barbara d’Urso, dopo aver ascoltato le parole del cognato. Alla conduttrice che le chiede a chi si riferisca Concetta risponde: "Non so chi frequenta lui, sicuramente non le scrive e non le pensa lui". “Perché non parla con noi? Noi ci siamo sempre in udienza come c’è lui, scrive tanto ma non parla mai. Lo sa che racconta frottole e forse lo fa perché lui non è più utile a nessuno, né alla sua famiglia, né alla mia- Ha avuto un momento di coscienza quando ha accusato la figlia ma poi si è rinchiuso dentro se stesso”. Spesso nelle sue lettere Misseri fa riferimento a Sarah e alla sua famiglia.

Come in queste pagine, scritte a Sabrina il 19 dicembre 2011: "Gli inquirenti hanno sbagliato tutto però per non fare brutta figura non vogliono ammettere di avere sbagliato e vogliono andare avanti col sogno del fioraio…solo il mio sogno non si avvererà mai…perché l’altra notte ho sognato l’angelo biondo – io lo chiamo così perché Concetta non vuole che la nomino col suo nome, Sarah, …l’ho sognata , c’era tanta nebbia e mi diceva: zio, la verità secondo me non arriverà mai".

Così scrive il 2 febbraio scorso, dopo la deposizione del fratello e della mamma di Sarah: "All’udienza sono rimasto male per quello che ha dichiarato Claudio, io volevo gridare ma non potevo intervenire…e anche quello che ha dichiarato Concetta non è niente vero…per questo io non chiedo perdono perché Concetta non vuole credere che io ho distrutto tante famiglie e io chiederò perdono quando Concetta mi crederà… e solo allora l’angelo biondo riposerà in pace".

Queste le sue riflessioni del 6 maggio: "E’ molto triste la vecchiaia, dovevo stare bene e invece ho combinato un grande crimine che non potrò mai dimenticare… per l’angelo biondo e anche per te e la mamma perché solo io posso sapere che siete innocenti".

Poi, ancora, un riferimento a Concetta, (2 giugno 2012) : "Ho bisogno di parlare con mamma Concetta solo che devo riflettere quando lo farò".

Il primo luglio scrive alla moglie: "Cara Mimina, i rimorsi sono quelli che mi stanno facendo soffrire …io chiedo perdono sia a te, sia a Sabrina e anche a mamma Concetta, anche se non mi vuole credere…io lo faccio per l’angelo biondo, per farla riposare in pace.

Chiedo perdono a tutti i parenti dell’angelo biondo. Perdonatemi, nella vita tutti possono sbagliare, certo io ho fatto uno sbaglio molto brutto".

E quindici giorni dopo scrive: "Sento ancora la voce dell’angelo biondo che quando veniva alla metà dello scivolo del garage …io rimpiango il passato perché non riesco a capire perché ho fatto tutto questo".

Poi, ancora, si rivolge a Sabrina (5/8/2012): "Per la gente di tutto il mondo sei un’assassina, è assurdo perchè tu quell’angelo biondo non avresti toccato nemmeno un capello".

Dopo aver deciso di non rispondere alle domande dei pm fa recapitare un’ultima lettera alla figlia (11/11/2012): "Avevo deciso di non scriverti più perché ti ho colpito ancora per non aver parlato al mio interrogatorio…mi devi perdonare ma non ero pronto quel giorno".

Al proseguo del 26 novembre Sabrina Misseri è tornata in aula. La giovane imputata, insieme alla madre Cosima Serrano, accusata di aver ucciso la 14enne Sarah Scazzi, è stata sottoposta ad un vero e proprio fuoco di fila di domande e contestazioni da parte dei Pm. L'accusa, che ha incalzato l'imputata con un numero incredibile di domande sulla ricostruzione dei minuti e delle ore successive alla scomparsa di Sarah, ha più volte suscitato l'insofferenza della difesa che ha attribuito al Pm la volontà di "sfiancare" la ragazza con domande ripetitive. Ed effettivamente Sabrina appare sfinita, esausta, mormora "Non ricordo" e appare psicologicamente provata. Sabrina ha giustificato le ripetute incongruenze tra varie versioni fornite e i vuoti di memoria dicendo che in quel "momento non ero lucida, ero in confusione". Le domande dell'accusa hanno riguardato in particolare la ricostruzione degli spostamenti e delle telefonate fatte e ricevute da Sabrina subito dopo la scomparsa di Sarah e le persone che ha incontrato mentre, con amici e parenti, girava in paese alla ricerca della cuginetta scomparsa. Si era interrotto martedì 20 l’interrogatorio di Sabrina Misseri principale imputata per l’omicidio della piccola Sarah Scazzi, dopo ben 8 ore in cui la più piccola di casa Misseri aveva tentato di descrivere i suoi rapporti con la cugina e con il bello di Avetrana, Ivano Russo, ritenuto principale movente del delitto. È ripreso esattamente da dove lo avevano lasciato dinanzi alla Corte d'Assise di Taranto. In apertura dell’udienza, il pm Mariano Buccoliero ha chiesto di ascoltare in aula alcune interviste televisive rilasciate dall’imputata nei giorni successivi alla scomparsa di Sarah, con particolare interesse per quella dell’8 ottobre 2010, quando suo padre aveva appena fatto ritrovare il corpo senza vita della giovane in quel pozzo in contrada Mosca e tutte quelle rilasciate nei giorni precedenti al suo arresto. Secondo l'accusa, infatti, la ricostruzione fatta da Sabrina in queste interviste non coinciderebbe con quella resa in udienza. Ad assistere ci sono tutti i protagonisti di questa triste vicenda. C’è Concetta Serrano che ai microfoni - con poche parole – ha sempre espresso il suo desiderio di conoscere la verità e c’è Michele Misseri, accusato di soppressione di cadavere e forse l’unico in grado di raccontare cosa sia veramente successo in quell’assolato pomeriggio del 26 agosto 2010. Al centro dell’interrogatorio questa volta c'è la ricostruzione degli spostamenti che Sabrina fece quel giorno. «Non ricordo», ha risposto spesso una Sabrina ben diversa da quella che vista in tv. L'accusa, che ha incalzato l'imputata con domande sulla ricostruzione dei minuti e delle ore successive alla scomparsa di Sarah, ha più volte suscitato l'insofferenza della difesa che ha attribuito al pm la volontà di «sfiancare» la ragazza con domande ripetitive. In particolare, c'è un buco di un'ora e mezzo tra le 15.30 e le 17.00 quando la ragazza ha accompagnato la madre nella caserma dei carabinieri per denunciare la scomparsa di Sarah che ancora non è stata chiarita.

Mancano quei “dettagli” che avrebbero potuto fare la differenza, forse. Si è poi parlato del ritrovamento da parte di Michele Misseri del telefonino di Sarah. L'udienza è stata sospesa per il pranzo. Alla ripresa si ascolterà l'audio di una intercettazione ambientale nella quale Sabrina e sua sorella parlano della scheda Sim del telefonino di Sarah che il padre aveva detto di avere trovato casualmente per strada e di avere poi perso. Le due sorelle avrebbero concordato sul fatto di non dovere dire nulla della questione ai carabinieri. Come nella precedente occasione, anche durante questo interrogatorio Sabrina ha avuto un crollo emotivo, in particolare quando ha dovuto ricordare la sera del ritrovamento del cadavere della cugina in contrada Mosca, vicino ad Avetrana, dopo la confessione del padre Michele Misseri. La giovane ha detto che prima non era mai stata o comunque non conosceva quel luogo ma i pm hanno contestato questa circostanza. L’altro momento drammatico è stato quando ha ricordato di avere appreso per televisione del ritrovamento del cadavere e in relazione alla frase che lei avrebbe pronunciato incontrando una conoscente e cliente, Anna Pisano’, testimone chiave del processo. I pm ritengono quella frase una sorta di confessione extragiudiziale. Qualche difficoltà e diversi non ricordo da parte di Sabrina relativamente alle ore successive alla scomparsa di Sarah il 26 agosto del 2010. Per quasi nove ore la ragazza ha continuato a dichiararsi innocente non riuscendo ancora una volta a trattenere le lacrime, scrive Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. A tratti spavalda e sicura di sé, esibendo qualche sorriso tra le risposte, l’estetista si è scontrata con tanti non ricordo ad alcune domande più insidiose dei pubblici ministeri. Sono stati tre i momenti di maggiore criticità in cui la ragazza ha accusato il colpo di fronte alle precise contestazioni dell’accusa. Il primo è stato quando il pm Mariano Buccoliero ha voluto sapere il senso di un’intercettazione ambientale tra lei e i suoi familiari in cui si parla di una Sim trovata dal padre, Michele Misseri, che poteva essere della quindicenne scomparsa.

L’imputata si è trincerata dietro il «non ricordo» chiedendo di ascoltare l’audio della conversazione che, per motivi tecnici, non è stato possibile produrre in aula. Voce tremante anche quando i pm le chiedevano conto di un’ora e mezza di buco nel suo racconto del pomeriggio della scomparsa in cui lei e sua madre Cosima sarebbero rimaste a casa, «sotto la veranda a parlare» mentre gli altri andavano in giro per cercare Sarah. Imbarazzo anche quando è stato affrontato il capitolo delle presunte molestie del padre nei confronti della nipote. Alla domanda del pm, Sabrina ha detto di avere creduto a questo quando sentì il racconto di una sua zia secondo la quale, da giovanissima, era stata insidiata da Michele Misseri. Ripresa dal procuratore aggiunto, Pietro Argentino, sul fatto che in precedenza aveva sempre escluso che il padre potesse essere un molestatore, la giovane si è lasciata andare in un’altra crisi di nervi e lacrime provocando la reazione dei suoi avvocati che si sono opposti al genere di domande. Sempre in aula ieri è stata fatta ascoltare un’intervista rilasciata da Sabrina subito dopo l’arresto del padre in cui dichiarava, piangendo, che il giorno della scomparsa del padre lei la chiamava sul telefonino mentre il padre si trovava fuori dal garage. Circostanza questa che scagionerebbe zio Michele il quale, secondo la sua stessa ricostruzione autoaccusatoria, quando il cellulare della nipote riceveva quegli squilli, lui la stava uccidendo nel garage. Dopo le domande dell’accusa, la presidente della Corte d’assise, Rina Trunfio, ha passato la parola alle parti civili e alla difesa. Qui, ovviamente le cose per Sabrina sono andate liscia potendo smentire ogni addebito nei suoi confronti e, alla domanda finale di uno dei suoi legali, Franco Coppi, ha rispondendo con convinzione di non avere ucciso Sarah Scazzi. "Sarah non l'ho uccisa io". Ha risposto senza esitazioni, dopo 9 ore di interrogatorio, alla domanda dell'avv.Franco Coppi, suo difensore, Sabrina Misseri imputata dinanzi alla Corte d'Assise di Taranto per l'omicidio di Sarah Scazzi.

Allora perché suo padre l'accusa?, ha chiesto Coppi a Sabrina: "Il perché - ha risposto - è scritto nelle lettere e nei memoriali che continua a scrivermi e nei quali mi chiede perdono e nei quali si accusa di essere stato lui l'unico autore dell'omicidio".

« E' falso , è falso, è falso!». Scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Con decisione, la testa alta, senza «non so» e i «non ricordo» che poco prima avevano infarcito per sette ore le sue risposte ai pm, Sabrina Misseri riconquista la sua sicurezza e rispondendo alle domande del suo difensore e per un’ora smentisce tutte le accuse di avere ucciso Sara Scazzi. Sono quelle prevalentemente contenute nell’incidente probatorio in cui suo padre, Miche Misseri, la indica come responsabile dell’omicidio e quelle fatte da alcuni testimoni dell’accusa. L’avvocato Franco Coppi le cita puntualmente, una per una, e lei punto per punto nega tutto. A cominciare dalla domanda più diretta: lei ha ucciso Sarah? «No», risponde . Ma allora, le chiede l’avvocato, perchè suo padre l’accusa? «Il perchè – dice – è nei memoriali e nelle lettere che mio padre ha scritto e che continua a scrivermi e nei quali mi chiede spesso perdono». «Lui questo peso se lo vuole togliere – dice - e nelle lettere si accusa di essere stato l’unico responsabile dell’omicidio». Nella seconda udienza dedicata al suo interrogatorio – che così come la prima è durata dal mattino sino alla sera - Sabrina ha dapprima risposto per sette ore alle domande dei pm Mariano Buccoliero e Piero Argentino che alla sua sequela di «non ricordo» hanno risposto con altrettante contestazioni citando le dichiarazioni rese da Sabrina in precedenti interrogatori. Domande incalzanti e insistenti che a più riprese hanno indotto i difensori della ragazza a intervenire sino ad imputare ai pm la volontà di «sfiancare» l’imputata più che aiutarla a ricordare. Quasi sempre Sabrina non ha ricordato e soprattutto, non è stata in grado di riempire un vuoto di un’ora e mezza tra le 15.30 e le 17 del 26 agosto quando era a casa con sua madre, Cosima, coimputata.

Domanda non pertinente, ha detto la difesa. Per niente, ha risposto l'accusa: il procedimento riguarda anche l’occultamento di cadavere.  Finito, stremata, il confronto con l’accusa, con un momento di commozione solo quando ha ricostruito gli eventi della sera della scoperta del corpo di Sarah e l’incredulità per la confessione del padre, Sabrina ha risposto alle parti civili. Poi, con l’interrogatorio della difesa ha riconquistato tutta la sua forze e la memoria, sfoderando una serie di «non è vero», e fornendo la sua versione dei fatti, smentendo la versione del padre e anche quella dei testimoni che l’accusano. E' falso quel che dice suo padre, che il 26 agosto 2010 Sarah era a casa Misseri tra le 13 e le 14 e ha pranzato con loro. E' falso che stavano giocando a cavalluccio sotto la veranda. E' falso che lei ha svegliato suo padre che dormiva sulla sedia sdraio per chiedergli aiuto dopo avere ucciso Sarah. È falso che ha fatto da palo per strada mentre Michele Misseri si occupava di fare scomparire il corpo. Non è vero che aveva una cintura verde e che l’aveva appesa in garage. «Tutto quello che ha dichiarato mio padre è falso – dice ancora – non è vero che Sarah mi dava fastidio e che ero gelosa di lei a causa di Ivano. Non avevamo litigato la sera prima della scomparsa e comunque, quando la riprendevo per qualche motivo, poi le passava subito». Poi racconta delle liti continue tra suo padre e sua madre e della reazione violenta di quest’ultimo che una volta avrebbe aggredito sua moglie con un’accetta. Descrive il legame affettuoso con la sua cuginetta che non usciva mai senza di lei. Insomma, ha concluso il suo avvocato, possiamo dire che con la morte di Sarah lei ha perso una sorella? «Sì- ha risposto – possiamo dirlo».

Al proseguo del 27 novembre Sabrina Misseri è tornata in aula. E' ripreso con il controesame di Sabrina Misseri da parte dell’avv.Francesco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010. Il legale ha chiesto a Sabrina particolari della vita di coppia tra Michele e Cosima e di un violento litigio avvenuto nella villetta di via Deledda. Nell’aula di Corte d’Assise si sono ascoltate alcune intercettazioni ambientali che riguardano Cosima, Valentina e Sabrina Misseri in cui si parla anche del telefono di Sarah Scazzi fatto ritrovare da zio Michele.

L'imputata, accusata di aver ucciso la cuginetta con la complicità di sua madre Cosima Serrano, ha risposto alle domande, spiegando il contenuto delle conversazioni con la madre Cosima e la sorella Valentina. E’ poi cominciato l’esame del perito del tribunale che si è occupato delle intercettazioni ambientali. Alle ore 15 si è concluso l’esame di Sabrina. Dopo l’audizione del perito che si è occupato della trascrizione delle intercettazioni ambientali dei colloqui in carcere tra Michele Misseri e la moglie Cosima Serrano, il presidente della Corte d’Assise di Taranto, Rina Trunfio, ha aggiornato l’udienza del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi al 4 e 5 dicembre prossimi. Il 4 dicembre comincerà l’esame dei testi indicati dal collegio difensivo, tra cui il capitano Nicola Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo del comando provinciale carabinieri di Taranto, che si occupò delle indagini sull'uccisione della 15enne di Avetrana. Nell’udienza del 5 dicembre prossimo del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi deporrà Michele Misseri, il contadino di Avetrana che consentì il ritrovamento del cadavere della nipote. Misseri inizialmente confessò il delitto della nipote 15enne, qualche tempo dopo invece addossò tutta la responsabilità sulla figlia Sabrina. Il 4 dicembre deporrà anche la psicologa Dora Chiloiro, mentre nell’udienza del 10 dicembre saranno ascoltati due consulenti della difesa e Liala Nigro, amica di Sabrina Misseri.

Udienze sotto tono per il marasma scatenato per l’Ilva. Ilva, indagati anche il sindaco di Taranto e un sacerdote. Da email e intercettazioni, spunta una rete di relazioni che tira in ballo la politica a tutti i livelli. I pm indagano sulle vecchie autorizzazioni ambientali. Il direttore dell'Arpa, Assennato: "Mai avuto pressioni da Vendola". Avviso di garanzia anche per il sindaco di Taranto Stefano e un sacerdote, scrive  Chiara Sarra  su “Il Giornale”. A Taranto gli operai non si arrendono e combattono contro la chiusura dell'Ilva.  Ma la magistratura va avanti per la sua strada. Sette arresti e tutta la produzione degli ultimi quattro mesi (da quando cioè sono stati messi i sigilli) è stata sequestrata. Almeno altre cinque persone hanno ricevuto avvisi di garanzia e la procura di Taranto sta indagando anche a Bari e a Roma sulla vecchia Autorizzazione integrata ambientale (Aia) rilasciata il 4 agosto 2011 all’Ilva, poi riesaminata e approvata alcune settimane prima. Quel che viene fuori, però, è il chiaro coinvolgimento della politica locale: oltre all'ex assessore provinciale Michele Conserva, finito ai domiciliari, indagati anche il sindaco di Taranto Ippazio Stefano (Sel) e don Marco Gerardo, segretario dell'ex arcivescovo della diocesi. Dalle carte dei pm spunta anche il nome di Nichi Vendola, che avrebbe fatto pressioni sul direttore dell'Arpa Puglia, Giorgio Assennato, perché non pubblicasse gli studi sulle emissioni inquinanti dello stabilimento. Alla base di tutto ci sarebbe però, il consulente Girolamo Archinà. Ci sarebbe, infatti, proprio l’ex responsabile per i rapporti istituzionali dell'azienda dietro la fitta rete di esponenti politici messa in piedi per tenere bassa l'attenzione sulle emissioni dello stabilimento. Coinvolti esponenti a tutti i livelli: dal sindaco, appunto, al presidente della Provincia, Gianni Florido (Pd), ma anche consiglieri regionali e parlamentari (sia Pd che Pdl). Spuntano anche azioni "virtuose", come quella compiuta dall'onorevole democratico Roberto Della Seta (Pd) che ha provato a far inserire norme più restrittive sulle emissioni di benzo(a)pirene, scatenando però la reazione dell'azienda. Emilio Riva, patron dell'Ilva, avrebbe infatti scritto direttamente a Pier Luigi Bersani attraverso Archinà spiegando le sue ragioni per far tornare indietro Della Seta chiedendogli di "non fare il coglione". E le intercettazioni tirano in mezzo altri bersaniani, a partire dal deputato Ludovico Vico che avrebbe minacciato di far "uscire il sangue" alla Camera al collega. Senza dimenticare, come rivela il Fatto Quotidiano, i 98mila euro che la famiglia Riva diede a Bersani per la sua campagna elettorale...

Inoltre da “La Repubblica” si viene a sapere che ad Avetrana anche gli scuolabus sono coinvolti nelle truffe. L'Asaps rileva un caso appena scoperto ad Avetrana che interessa le irregolarità sugli automezzi utilizzati da una ditta privata appaltatrice del servizio di trasporto scolastico dei bambini. Fino a quando ci sono in ballo salumi e latticini si potrebbe dire "poco male", ma nel momento in cui viene messa a repentaglio la sicurezza dei bambini allora c'è poco da scherzare. In passato frodi e contraffazioni di tutti i tipi hanno visto coinvolte vetture e veicoli commerciali di vario tipo ma quanto successo ad Avetrana, comune salentino già salito agli onori della cronaca per il delitto di Sarah Scazzi, rasenta l'incredibile. A essere coinvolto nella vicenda è lo Scuolabus, mezzo adibito al trasporto dei più piccoli nel tragitto casa scuola e viceversa, che dovrebbe garantire sicurezza e tranquillità ai genitori che affidano al servizio i propri figli. Ebbene invece sembra proprio che non sia così poiché l'Associazione sostenitori amici polizia stradale ha rilevato come tutto questo venga clamorosamente disatteso: "Nella giornata di giovedì 22 novembre, infatti, durante un normale controllo effettuato dagli uomini del Distaccamento Polstrada di Manduria, sono emerse situazioni al limite dell'assurdo riguardo gli automezzi utilizzati da una ditta privata appaltatrice del servizio Scuolabus del comune in provincia di Taranto. Già ad un primo controllo gli agenti hanno accertato che le targhe appartenevano ad altri mezzi scuolabus e, inoltre, il certificato assicurativo era visibilmente contraffatto. Il Comando ha così deciso di procedere con un ulteriore controllo, effettuato il giorno successivo, a tutti gli automezzi presenti nella rimessa della ditta di trasporti. Con non poca sorpresa gli uomini accertavano l'apposizione di una targa non appartenente all'automezzo su un altro Scuolabus, peraltro sprovvisto di copertura assicurativa, e l'utilizzo di un terzo mezzo con destinazione diversa da quella per cui era stato immatricolato e, cioè, al trasporto di bambini fino a undici anni di età; in realtà trasportava ragazzi di età superiore che frequentano la scuola media". Una volta accertate le varie irregolarità il servizio è stato immediatamente interrotto, come sottolineano all'Asaps: "Ovviamente il passo successivo è stato il sequestro dei mezzi sprovvisti di copertura assicurativa e il fermo per targa non propria, nonché al ritiro della carta di circolazione per il veicolo adibito a destinazione diversa. Il conducente è stato denunciato in stato di libertà per i documenti assicurativi contraffatti.

Nonostante gli uomini della Stradale siano abituati, quando effettuano certi controlli, a vederne di tutti i colori, questa volta la sorpresa è stata elevata alla potenza dal comportamento inqualificabile e (si può dire) criminale di queste persone che con una spregiudicatezza senza limiti hanno messo a repentaglio la sicurezza e la tranquillità di intere famiglie sicure di affidare in mani e automezzi sicuri i propri figli. I controlli effettuati sugli automezzi adibiti al trasporto dei bambini e degli studenti, sia per trasferimenti giornalieri sia per gite scolastiche, costituiscono una regola ferrea capace di dissuadere certi comportamenti che ledono qualsiasi parvenza minima di sicurezza e regolarità". Insomma una vicenda piuttosto sconvolgente poiché non è la solita truffa ai danni delle assicurazioni ma coinvolge diversi illeciti che mettono a rischio la sicurezza di un servizio che invece dovrebbe garantirla e perseguirla come obiettivo principale.

4 dicembre 2012. Trentesima udienza. Parla Andrea Merico, Nicola Abbasciano.

“Un giorno trovai Sarah che piangeva in casa di Sabrina. Seppi che Anna Pisanò, un’amica di Sabrina, le aveva detto che il padre andava dietro a donne”.  Andrea Merico ha parlato dell’ottimo rapporto che esisteva tra le due cugine ma anche dell’odio che Sarah nutriva per Anna Pisanò da quando quest’ultima le avrebbe rivelato presunti tradimenti coniugali del padre. “Per Sabrina Sarah era quasi una sorella”. Sono queste le parole di Andrea Merico, fidanzato di Sabrina Misseri dal 2005 a ottobre 2009. Rapporti buoni, fraterni quelli tra le due cugine, almeno secondo Merico tanto che la ragazza veniva trattata “quasi come una sorella”. Parole che però non hanno convinto il pm Mariano Buccoliero che ha contestato alcune dichiarazioni dell’ex di Sabrina Misseri. In particolare, Merico avrebbe dichiarato che il suo rapporto sentimentale con Sabrina si sarebbe concluso nell’ottobre del 2009 e che ne era rimasto innamorato solo per poco tempo. Eppure, secondo il pm, non sarebbe stato così, visto il contenuto di alcuni sms dell’aprile 2010 scritti dal giovane a Sabrina, dai quali sarebbe emerso, invece, che il giovane era ancora innamorato della ragazza, anche se lei già frequentava Ivano Russo. Il ragazzo che ha cercato di mostrare il suo disinteresse nei confronti della sua ex, è apparso imbarazzato quando il pm ha letto alcuni suoi sms indirizzati a Sabrina, risalenti ad aprile e maggio del 2010, in cui traspare invece una forte attrazione per la ragazza che, in uno di questi messaggi recuperati, definisce «strabonazza». Processo che continua nella corte di Assise di Taranto, dove mentre sfilano uno ad uno i teste della difesa, fra gli altri, il capitano Nicola Abbasciano, all’epoca comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri del comando provinciale di Taranto, si attende con trepidazione l’udienza di domani, il giorno di Michele Misseri. La trentesima udienza del processo in Corte d’assise sull’uccisione di Sarah Scazzi, ha fatto rivivere in aula i momenti in cui Michele Misseri, una settimana dopo il suo arresto per il confessato omicidio della nipote, ritrattò parte di responsabilità coinvolgendo la figlia Sabrina Misseri nel delitto. Su richiesta dell’avvocato Nicola Marseglia, difensore dell’imputata che grazie alle accuse del padre deve rispondere di omicidio volontario in concorso con la madre Cosima Serrano, sono state proiettate le immagini del primo sopralluogo di zio Michele nel garage di Via Deledda dove, secondo il suo racconto, fu uccisa Sarah. Le riprese hanno riguardato anche la visita quello stesso giorno nelle campagne in contrada Mosca dove il contadino portò il corpo senza vita della nipote per nasconderlo e vi bruciò i vestiti e lo zainetto che indossava. In quelle scene si è visto un uomo visibilmente provato, nel fisico e nell’animo, schiacciato dal peso d’inconfessabili verità che forse non dirà mai o, secondo la sua ultima versione, che ha già detto senza essere creduto. Michele Misseri indossa gli stessi abiti della notte di una settimana prima quando con la sua confessione shock fa ritrovare il corpo di Sarah nel pozzo in contrada Mosca. Nel garage di via Deledda, ambiente sporco e buio con tanti arnesi da lavoro ma anche tante cianfrusaglie d’improbabile utilità, zio Michele non ha proprio l’apparenza dell’orco che ha strangolato la nipote quindicenne. E’ impaurito, spesso china la testa, alle domande del pm Mariano Buccoliero risponde con difficoltà e a volte con lunghi silenzi. Assistito dal suo avvocato di allora, Daniele Galoppa, il presunto omicida inciampa soprattutto nella ricostruzione della vicenda della ricerca della Sim che, secondo il suo ricordo, cadde dal telefonino della nipote mentre la uccideva. In quella fase non aveva ancora accusato la figlia, lo farà nel primo pomeriggio nella caserma dei carabinieri di Manduria dove sarà portata anche Sabrina prima di essere trasferita con lui nel carcere di Taranto. La drammatica videocronaca di quel 15 settembre è servita all’avvocato Marseglia per dimostrare lo stato di evidente spossatezza in cui si trovava Michele, ma anche per rinfrescare la memoria del capitano Nicola Abbasciano chiamato a deporre in qualità di teste della difesa in quanto protagonista delle ricerche e del successivo ritrovamento del cadavere della ragazzina e all’arresto di Michele Misseri. I pm dell’accusa, Buccoliero e Pietro Argentino, hanno rinunciato ad ascoltare il teste, mentre i difensori di Cosima Serrano, gli avvocati Franco De Jaco e Luigi Rella, hanno ritenuto utile fare le loro domande. Fra gli altri testi citati anche alcuni consulenti.

5 dicembre 2012. Trentunesima udienza. Parla Michele Misseri.

Trentunesima udienza del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, incentrata sulla deposizione di Michele Misseri, lo zio della vittima, che consentì il ritrovamento del cadavere la notte tra il 6 e il 7 ottobre 2010. Misseri, che si era avvalso della facoltà di non rispondere quando era stato chiamato a deporre in qualità di imputato, ha accettato (ora nelle vesti di testimone citato dalla difesa di Cosima Serrano e Sabrina Misseri) di rispondere alle domande. Il contadino di Avetrana inizialmente confessò di aver ucciso da solo la nipote Sarah perché aveva respinto le sue avances sessuali, poi chiamò in correità la figlia Sabrina, a cui addossò tutte le colpe nel corso di un incidente probatorio. Il contadino, affrancato dall'accusa di omicidio, ora risponde solo di concorso in soppressione del cadavere. Dopo essere tornato in libertà zio Michele è tornato ad autoaccusarsi dell'omicidio, ma fino a questo momento lo ha fatto solo nelle interviste televisive. In aula è presente Concetta Serrano, la mamma di Sarah Scazzi. «Parlerò, dirò tutto», ha assicurato prima di essere sentito in aula. E il suo avvocato Armando Amendolito ha confermato con un sibillino: «qualcosa diremo». Un’udienza che potrebbe presentare dunque colpi di scena, ma sarà difficile che il contadino di Avetrana possa rimanere muto avvalendosi della facoltà di non rispondere come ha fatto nella sua veste di imputato di reato connesso. Michele Misseri in una lettera a Sabrina le assicura che dirà la verità. E non si possono dimenticare i cinque memoriali depositati dalla difesa di Sabrina Misseri (avvocato Franco Coppi insieme a Nicola Marseglia) in cui Misseri ricostruisce il delitto e spiega anche il perchè abbia accusato la figlia. Sarà l’avvocato Coppi a fare le domande a Misseri e sarà la terza volta che il grande avvocato si troverà a interrogare il contadino di Avetrana. La prima volta avvenne in carcere a gennaio 2011 quando Coppi fece riconoscere a Misseri le lettere scritte alla figlia in cui si accusava e chiedeva scusa. La seconda volta in udienza preliminare quando Coppi chiese esplicitamente: «E’ lei l’assassino?» e zio Michele rispose di sì. Domande e risposte in corte di Assise avranno un peso determinante per la sorte di Sabrina nonostante i pm abbiano spesso ripetuto che a loro le auto accuse di Misseri non interessano. Difficile sarà però superarle (se le ripeterà in aula) soprattutto dopo l’udienza del giorno prima dove è stato ascoltato, tra gli altri, il maresciallo dei carabinieri. Abbasciano, che nei mesi successivi alla scomparsa di Sarah dirigeva le indagini, ha descritto un Michele Misseri stordito quel giorno in garage quando iniziò ad accusare la figlia. Cosa che Misseri ha sempre ripetuto, sostenendo di avere preso dei tranquillanti, confortato anche dalle dichiarazioni del suo psichiatra. Le parole di un carabiniere presente quel giorno sono adesso difficili da smentire. Ma soprattutto è il video, proiettato in aula, a parlare e a raccontare che quel giorno Michele Misseri era assai confuso. «Ho ucciso io Sarah, questo rimorso non lo posso più portare dentro di me….Non è stata Sabrina ad uccidere Sarah» così Michele Misseri ha risposto piangendo a Franco Coppi, difensore di sua figlia Sabrina accusata dell’omicidio di Sarah Scazzi. «Quindi a provocare la morte di Sarah è stato lei, lo sta dicendo davanti alla Corte d’Assise», ha insistito il legale: «Si, sono stato io», ha risposto il contadino. Nella sua deposizione, Michele Misseri, piangendo, ha ricostruito quanto avvenuto il 26 agosto 2010 nel garage della sua villetta, quando fu uccisa Sarah. «Non ho visto scendere Sarah, era dietro di me. Mi ha detto: “zio perché stai gridando?” Le ho detto: vattene. Non ho capito cosa voleva da me, mi stava dando fastidio. Quando gli inquirenti mi hanno portato in garage per raccontare quello che era successo, ero drogato. Forse mi ha chiesto se poteva suonare al citofono della mia abitazione o forse mi ha chiesto perché stavo gridando. Io ho chiesto a Sarah di andarsene, io l'ho sollevata, io l’ho spostata per farla andare via, ma lei mi ha dato un calcio - ha detto - Da questo calcio è partito tutto. L'ho afferrata alle spalle e ho preso un pezzo di corda e l’ho stretta, avvolgendola con tre giri. Ma di questo me ne sono reso conto dopo. Non so nemmeno quanto è durato. Lei si è accasciata ed è caduta su un compressore, che è stato prelevato dagli inquirenti dopo tanti mesi». Quindi Misseri ha spiegato che "stava suonando il telefono di Sarah". Ad un certo punto la ragazza "si è accasciata - ha continuato il testimone - ed è caduta sul compressore. Non so nemmeno io quanto è durato tutto. Sono rimasto scioccato e non sapevo cosa dovevo fare in quel momento.» Quando il contadino di Avetrana ha iniziato la sua deposizione con queste dichiarazioni autoaccusatorie, il suo legale di fiducia, avvocato Armando Amendolito, ha rinunciato al mandato perché le dichiarazioni del suo assistito non collimano con la linea difensiva. «E' stata una decisione sofferta. E' una decisione che deriva non da scelte puramente tecniche. Io avevo consigliato a Misseri di astenersi da posizioni che potevano danneggiarlo ulteriormente. Ne abbiamo parlato fino a un quarto d’ora prima di entrare in aula e non sapevo se la sua scelta sarebbe ricaduta sulla sua posizione di autoaccusarsi, cosa che poi è avvenuta. Io ho precisato a Michele Misseri che nel momento in cui si fosse autoaccusato io avrei lasciato». Lo ha detto l’avv. Armando Amendolito, il legale che oggi in aula ha rimesso la difesa di Michele Misseri in conseguenza delle dichiarazioni che il suo assistito ha fatto alla corte di assise. A chi lo ha accusato di aver abbandonato il proprio assistito, Amendolito risponde: «Non ho mai sottovalutato l'aspetto umano con il mio assistito e mi ha dato fastidio sentire che Misseri è stato abbandonato. Io sotto il profilo tecnico non ero più in grado di offrirgli l’adeguato supporto, tuttavia dal punto di vista umano credo di poter continuare a coltivare un rapporto umano che si è creato in più di un anno di assistenza». Anzi a “Porta a Porta” della sera stessa Amendolito ha dichiarato che non ha mai dubitato della sincerità di Michele Misseri.

L’udienza è stata sospesa in attesa che il Tribunale fornisca a Michele Misseri un avvocato d’ufficio. Già, gli avvocati. C’è chi per mesi ha cercato la verità, come Galoppa, per poi lasciare, e chi poi lascia perché si dice la verità!! I saluti cordiali di Amendolito con il Pm Buccoliero ed Argentino e la sua morale di avvocato che gli impone di difendere a tutti i costi il cliente da ulteriori accuse, che incastrerebbero, sì Michele, ma che renderebbero innocente Sabrina e Cosima, dà un’idea malsana della giustizia. D’altronde è da mesi che Michele ripete in tv e con le missive che è stato lui ad uccidere Sarah. Quindi perché meravigliarsi se tutto ciò viene confermato in aula? Meno male che c’è l’avv. Coppi che rimarca le posizioni: Pubblico Ministero per l’accusa; difensore per l’imputato.

Onore delle armi ma battaglia all’ultimo sangue. L'avvocato Armando Amendolito è il quarto difensore di Michele Misseri che rimette il mandato. Prima di lui avevano preso la stessa decisione gli avvocati Daniele Galoppa, Francesco de Cristofaro e Massimo Saracino. Uno dei legali, Daniele Galoppa, ha poi denunciato per calunnia Michele Misseri, che lo accusò di averlo convinto ad addossare tutte le responsabilità dell'omicidio di Sarah Scazzi su sua figlia Sabrina. Galoppa ha rinunciato perché gli era stato affiancato Francesco De Cristofaro, l’avvocato romano, che a sua volta ha lasciato la difesa di Michele in quanto è stato perseguito dalla procura per reati, a loro dire, attinenti proprio la conduzione della difesa. Massimo Saracino ha rinunciato per motivi personali.

La Corte d'assise ha disposto una pausa di cinque minuti. La Corte ha nominato l'avvocato Luca Latanza difensore d'ufficio di Michele Misseri dopo la rinuncia di Armando Amendolito. Il legale è stato individuato tramite il call center del sistema informatizzato.

L'udienza prosegue perché il nuovo difensore e il suo assistito non hanno chiesto termine per consultare le carte processuali. Prima di Latanza era stato contattato l'avvocato Giovanni Rana, che ha comunicato la sua indisponibilità trovandosi fuori città.  Il penalista ha accettato l’impegno permettendo all’interrogatorio di proseguire.

Per le otto ore che sono seguite, si è visto un imputato a due facce: remissivo, debole e spesso in lacrime davanti alle domande del professore Coppi e deciso e a volte persino sfrontato quando a chiedere conto di ciò che ha fatto il giorno del delitto erano i pubblici ministeri. Nella prima parte zio Michele ha drammaticamente espresso a parole quanto sostiene da un anno e mezzo attraverso le lettere e le interviste televisive: «Sono io l’assassino, ho ucciso Sarah e poi l’ho gettata nel pozzo, ho fatto tutto da solo; mia figlia e mia moglie sono innocenti, io deve andare in galera e loro libere». Il movente è quello che racconta da sempre: «Il trattore non partiva, il sangue alla testa e non ho capito più niente». L’imputato ha più volte contestato «le indagini sbagliate dei magistrati» ma soprattutto ha accusato il suo ex avvocato, Daniele Galoppa, con la sua consulente, la criminologa Roberta Bruzzone: «Sono stati loro a spingermi con l’inganno ad accusare mia figlia», ha ripetuto Misseri giustificandosi con argomentazioni che lasciano interdetti: «Mi hanno detto che se accusavo Sabrina lei avrebbe fatto solo due anni e io sarei uscito subito». E ancora: «Quando mi hanno parlato dell’incidente probatorio ho capito che dovevo dire che Sarah era morta per un incidente di gioco così ho inventato la storia del cavalluccio». Per nove volte, di fronte al professore Coppi, è stato costretto a fermarsi per via delle lacrime e la commozione nel ricordare la nipote morta e la figlia accusata ingiustamente. Diverse e spesso contraddittorie le risposte che ha fornito poi ai due pm, Mariano Buccoliero e Pietro Argentino. Con loro Misseri è inciampato più volte ma soprattutto in due casi avrà fatto tremare i polsi alla difesa di Sabrina. È stato quando ha detto che la figlia, il pomeriggio del delitto, si trovava già sulla veranda quando lui è sceso per andare nel garage (in questo caso Sabrina avrebbe visto arrivare Sarah prima che questa scendesse nella cantina). Il secondo inciampo è stato quando ha dichiarato che la mattina del sopralluogo del garage (il 15 ottobre 2010) lui era stato «drogato dalle medicine» e che «solo nel pomeriggio» si è ripreso ed è stato più lucido. A quel punto il pm Buccoliero gli ha dato ragione: «Infatti signor Michele – ha detto – è stato proprio nel pomeriggio che lei ha accusato sua figlia mentre la mattina l’aveva nascosta».  Il contadino ha dichiarato che in occasione del sopralluogo nel garage con gli inquirenti era stato «drogato», riferendosi a degli psicofarmaci che gli sarebbero stati somministrati mentre era in carcere. L'avvocato Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri, ha fatto presente al testimone che «nel caso, diremo alla Corte d'assise di recarsi sul posto e lei farà vedere come sono andate le cose». Michele Misseri ha ricostruito quanto avvenuto il 26 agosto del 2010 a partire dalla prima mattinata, quando si recò a un Consorzio per acquistare due lattine di olio e in seguito andò in campagna con il fratello Carmine. Al ritorno passò dalla banca per depositare un assegno. «Quel particolare l'ho ricordato in un secondo momento. Il bancario (Angelo Milizia, imputato anch’esso) - ha sottolineato zio Michele - mi disse che ci voleva la firma di mia moglie. Risposi che sarei tornato ma lui mi consentì di firmare al suo posto perché ci conoscevamo da tanto tempo». Misseri ha poi precisato che quel giorno aveva un forte mal di testa e che al suo ritorno a casa stava facendo un incidente stradale. «L'auto ha sbandato e stavo finendo fuori strada. Non so nemmeno io come sono riuscito a rimettermi in carreggiata. Peccato - ha detto piangendo - perché sarebbe stato meglio, la bambina si sarebbe salvata». Quando parla dell’oggetto utilizzato per uccidere la ragazzina, però, si esprime nuovamente al plurale, come già fece durante gli interrogatori nelle prime fasi del suo fermo. Ieri ha detto testualmente: «Quando abbiamo spostato il cadavere». Zio Miché non usa certamente il plurale perché ha fatto carriera ecclesiastica, ma è vero anche che non è un accademico della Crusca e quindi l’uso disinvolto della sintassi italiana non va esibito come la prova regina delle sue menzogne per coprire la verità giudiziaria su cui si incardina l’accusa per la figlia Sabrina e la moglie Cosima Serrano, in carcere da due anni. Certo che l’aspetto più importante non è quando Michele Misseri ha iniziato ad autoaccusarsi ed il suo legale di fiducia, Armando Amendolito, ha rinunciato al mandato, perché le dichiarazioni del contadino non collimavano con la linea difensiva.

Ma l’aspetto forse più importante è che per la prima volta, con ragionevole certezza si sia arrivati a definire l’ora esatta della morte di Sarah. Zio Miché non ha parlato di orari, ma ha riferito una circostanza talmente precisa nella ricostruzione dell’omicidio che consente, grazie all’esame dei tabulati telefonici, di datare al secondo la morte di Sarah Scazzi. «Ho stretto Sarah con forza e a un certo punto ha cominciato a squillare il telefonino, che è caduto per terra». Se davvero la manovra di strangolamento è avvenuta mentre squillava il cellulare della ragazzina è sufficiente consultare i tabulati per verificare se quello squillo avvenne alle 14,42 del 26 agosto, cioè quando Sabrina, allarmata della scomparsa della cuginetta, le telefonò senza ottenere risposta. In un caso di omicidio in cui manca la certezza dell’ora della morte, questo elemento rischia di diventare un momento cardine di tutta la querelle processuale. Se quell’ora risultasse compatibile con gli altri dati processuali, Sabrina sarebbe innocente, come si proclama da due anni. La versione fornita ieri non è un colpo di scena, perché ricalca quella dei memoriali e delle interviste televisive, ma stavolta Misseri ha parlato davanti ai giudici, anche se è vero che, messo alle strette dai pm, è più volte caduto in contraddizione. Dalla confessione di Michele un altro dato appare evidente: il contadino avrebbe incrociato Sarah nel garage dell’abitazione per caso e solo per pochi minuti, prima che la nipote incontrasse Sabrina per andare al mare. Sarah sarebbe arrivata a casa Misseri tra le 14,35 e le 14,40. «Io voglio andare in carcere e pagare per quello che ho fatto. Sarah non riposerebbe mai in pace con delle persone innocenti in carcere». Lo ha detto Michele Misseri nel corso del processo aggiungendo di non voler coprire responsabilità della figlia Sabrina. «Se fosse stata lei - ha spiegato - le avrei detto che aveva sbagliato e avrei chiamato un medico». L'avvocato Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri, ha chiesto al teste di riferire delle lettere e dei memoriali scritti nei mesi scorsi. «Era l'unico modo per sfogarmi e dire la verità. Per questo - ha precisato - ho scritto a Sabrina prima di Natale, per scusarmi». Il contadino ha sostenuto di non aver mai molestato alcuna donna, neppure la cognata Dora, che invece aveva raccontato di un tentativo di approccio del parente, pur se risalente a moltissimi anni fa. Misseri ha ricordato anche i due episodi in cui minacciò la moglie Cosima, la prima con un'accetta, la seconda con una pietra. In questa seconda circostanza, la moglie se ne andò con l'auto lasciandolo solo in campagna. «Quando fece buio - ha detto Misseri - chiamai Sabrina e mi vennero a prendere lei e Sarah». Dopo una breve interruzione dell'udienza, Michele torna a raccontare i dettagli del delitto ma quando parla dell'oggetto utilizzato per uccidere la ragazzina, rispondendo a una domanda dell'avvocato Coppi, si esprime nuovamente al plurale, come già fece durante gli interrogatori fatti dagli inquirenti nelle prime fasi del suo fermo, e dice: «Quando abbiamo spostato il cadavere». Il contadino ha sottolineato di aver utilizzato una corda per strangolare la nipote e che era stata la criminologa Roberta Bruzzone a dire, invece, che era stata usata una cintura. «Buttai la corda, insieme alle scarpe, in un cassonetto», ha ricordato il teste.

«Ho stretto Sarah con forza e a un certo punto ha cominciato a squillare il telefonino, che è caduto per terra. Non avevo visto che si era rotto, poi l'ho raccolto e messo nell'auto». Lo ha detto Michele Misseri, ricostruendo le fasi dell'omicidio di Sarah Scazzi. Il contadino ha aggiunto di aver premuto leggermente con le dita sugli occhi di Sarah. «Era una tecnica che avevo appreso in un corso che avevo seguito in Germania. Quando schiacci con il dito, se l'occhio si muove la persona è ancora viva, ma non si muoveva niente». Misseri ha poi sottolineato di aver cercato più volte di far trovare il telefonino di Sarah. «L'ho lasciato davanti alla caserma dei carabinieri - ha affermato Misseri - perché volevo che mi scoprissero, che era inutile girare e che ero stato io, ma non avevo il coraggio di confessare. In un secondo momento l'ho portato in una stazione di servizio di Manduria, dove c'erano due pietre grandi, ma nemmeno lì lo trovarono». «La terza volta - ha detto ancora - lo lasciai nei pressi di un vecchio autolavaggio dove poi ho scoperto che abitava Ivano. Quando lo trovarono tra gli arbusti mi misi a piangere: anche quello era un modo per far cadere le attenzioni su di me». «Quando lo seppe Sabrina - ha detto infine - mi disse: «se lo hanno lasciato lì, ti vogliono incastrare, ma ovviamente non sapeva che ero stato io». «Di quello che avevo fatto non lo sapeva nessuno, nemmeno Cosima e Sabrina. Loro mi vedevano piangere quando vedevo in tv le immagini di Sarah - ha continuato Michele in aula - mi stavo suicidando con un potente veleno - ha aggiunto - ma in questo modo però non avrebbero trovato il corpo della ragazza». Il contadino ha poi parlato nuovamente dell'omicidio ribadendo che Sarah gli aveva tirato un calcio. «Da lì- ha precisato - è partito tutto. Per questo mi è venuto il calore alla testa». Rispondendo alle domande dell'avv. Franco Coppi, alla ripresa dell'udienza sospesa per la nomina di un difensore d'ufficio, Misseri ha detto che tutte «le versioni in cui ha accusato Sabrina sono false». Misseri ha consegnato alla Corte una lettera anonima di minacce nei suoi confronti e ricordato che alcuni giorni prima qualcuno avvelenò i suoi 8 gatti. Inoltre, ha detto che il suo ex difensore Daniele Galoppa gli impedì di raccontare la verità, anche quando, dopo l'incidente probatorio, si era «pentito di aver raccontato cose non vere». «Non posso andare avanti così - ha aggiunto zio Michele - altrimenti devo pensare al suicidio. Mi dissero: arresteranno tuo fratello e tua moglie. Io lo so che mi inguaieranno perchè loro sono creduti e io sono uno stupido contadino. Dissero che mi potevano aiutare. - Piangendo, il contadino ha aggiunto - Tutti si sono approfittati della mia debolezza. Sanno che mi portano dove vogliono. Quello che dico è: proprio a me doveva succedere?» Rispondendo alle domande dell'avvocato Franco Coppi, Misseri ha detto che tutte "le versioni in cui ha accusato Sabrina sono false". Misseri ha consegnato alla Corte una lettera anonima di minacce nei suoi confronti e ricordato che alcuni giorni prima qualcuno avvelenò i suoi otto gatti. Inoltre, ha detto che il suo ex difensore Daniele Galoppa gli impedì di raccontare la verità, anche quando, dopo l'incidente probatorio, si era "pentito di aver raccontato cose non vere". Il contadino di Avetrana ha negato di aver abusato del cadavere della nipote. "Ho dichiarato il falso - ha detto ai giudici della Corte di assise di Taranto - solo quando ho affermato di aver abusato del cadavere di Sarah". Misseri ne aveva parlato nella sua prima deposizione agli inquirenti, quando aveva confessato di aver ucciso la piccola, determinando il proprio arresto. A proposito di presunte avances alla ragazzina, Misseri ha precisato: "C'è stato solo un episodio, quando detti a Sarah una pacca sul sedere e alcuni spiccioli".

Misseri ha poi fatto una precisazione su una intercettazione ambientale e ha detto che gli inquirenti hanno trascritto male una sua frase: "Dissi: “mi scoprirò” e non “lo scoprirò” o “li scoprirò” con riferimento all'assassino di Sarah. «Non volevo uccidere Sarah. Ho spiegato come è successo. Questo rimorso lo porterò con me per tutta la vita. Vorrei che fosse tutto finito». «Abbiamo aspettato due anni – ha aggiunto – e ancora non si fa chiarezza». Poi il contadino si è asciugato le lacrime e ha detto alla corte: «Vabbè, andiamo avanti». «Io voglio andare in carcere e pagare per quello che ho fatto. Sarah non riposerebbe mai in pace con delle persone innocenti in carcere». Il pm Mariano Buccoliero ha rivolto diverse contestazioni a Michele Misseri per dichiarazioni che contrastavano con quelle rilasciate agli inquirenti nel corso degli interrogatori. In particolare si è parlato della porta interna della villa di via Deledda che dà accesso al garage in cui sarebbe stata uccisa Sarah Scazzi. In un colloquio in carcere del 7 marzo 2011 con la moglie Cosima, i due coniugi discutevano del fatto che i carabinieri avevano trovato una traccia di sangue per terra. Misseri disse alla moglie: “è possibile che ti sei tagliata quando sei scesa”. Ma, ha fatto notare il pm, il contadino non poteva sapere che Cosima era scesa da quella porta, aperta successivamente dagli inquirenti, ed era andata nel garage. Un’altra contestazione ha riguardato le dichiarazioni di Misseri relative a quanto avvenuto il 26 agosto 2010, dopo che il teste aveva pulito il trattore ed era salito in casa per mangiare.

Misseri ha riferito di aver visto Sabrina e Cosima dormire sul letto matrimoniale. Nell’interrogatorio del 6 ottobre 2010, invece, l’agricoltore disse che aveva parlato con Sabrina e che era stata sua figlia a riferirle che la madre riposava nella stanza da letto. «L'ho sollevata da terra e mi ha tirato un calcio e forse anche uno schiaffo. Ho afferrato la corda ma non ricordo come l’ho strangolata. Dopo ho visto che c'erano due giri di corda». Michele Misseri ha ricostruito le fasi dell’omicidio di Sarah Scazzi, ma non ha saputo spiegare come si è avvicinato alla quindicenne e in che modo ha utilizzato la corda per soffocarla. Sul punto ci sono state numerose contestazioni da parte del pubblico ministero Mariano Buccoliero, che ha chiesto al contadino di raccontare nei particolari quanto avvenuto nel garage della villetta di via Deledda il 26 agosto 2010. Misseri più volte ha chiesto di essere portato sulla scena del delitto. Il contadino ha detto che lo spessore della corda era all’incirca di 12 millimetri. “Cercai la scheda sim del telefono di Sarah insieme a Sabrina”. Lo ha detto Michele Misseri nel corso del processo in Corte d’Assise, incorrendo nell’ennesima contestazione del pm Buccoliero. Alcuni giorni dopo l’omicidio il contadino si sarebbe fatto aiutare dalla figlia Sabrina per cercare nel garage della villa di via Deledda la sim del cellulare della nipote. Alla figlia, però, disse che avrebbero dovuto cercare una vite. “Come ha fatto – ha detto il pm – a correre il rischio pazzesco di trovare la sim del telefonino di Sarah e di farsi scoprire visto che Sabrina non sapeva nulla dell’omicidio?”. Sul punto Misseri ha risposto in maniera vaga.

Contestazioni risibili confronto alla confessione di chi, dichiarandosi colpevole del delitto, è libero. Contestazioni ingigantite, però da coloro che vogliono vedere in Sabrina l’arpia colpevole della morte di Sarah. Per chi ha fede non ci vogliono prove, per chi non ha fede le prove non sono mai abbastanza. Nell’ultima parte dell’udienza Michele Misseri ha parlato dei momenti successivi all’occultamento del cadavere della 15enne nel pozzo in località 'Mosca'. Di versioni ne ha fornite più di una indicando vari moventi e accusando prima se stesso e poi sua figlia, ma è dai primi mesi del 2011 che Michele Misseri ripete sempre la stessa cosa: “Sarah l’ho uccisa io da solo, e da solo ho nascosto il cadavere”. Ed è la stessa versione fornita oggi quando, dinanzi ai giudici della Corte d’Assise di Taranto, è stato interrogato come teste dalla difesa di sua figlia Sabrina, la giovane imputata dell’uccisione di Sarah Scazzi (avvenuto ad Avetrana il 26 agosto 2010) in concorso con sua madre Cosima.

L'autoaccusa di Michele Misseri ha prodotto la rimessione del mandato del suo difensore, l’avv. Armando Amendolito, il quarto da quando, nell’ottobre 2010, è cominciata la sua vicenda giudiziaria. Anche Michele Misseri infatti è tuttora imputato nel processo, ma solo per sottrazione di cadavere e, mentre sua moglie e sua figlia sono in carcere, lui è in libertà. Dalla prima confessione del 6 ottobre 2010, la notte in cui fece anche ritrovare il cadavere di Sarah nascosto in un pozzo nelle campagne di Avetrana, zio Michele ha cambiato più volte idea. In sostanza le versioni sono tre, ma contando le variazioni sulle tesi principali si arriva sino a sette.

La notte della confessione Michele disse di avere ucciso Sarah e di avere compiuto abusi sessuali sul suo corpo. Qualche giorno dopo, il 15 ottobre, chiamò in causa sua figlia Sabrina sostenendo che lei aveva trattenuto la ragazza mentre lui la strangolava in garage. Poi, in una ulteriore versione, cristallizzata in un incidente probatorio il 19 novembre 2010, ha attribuito tutta la responsabilità a Sabrina, sostenendo di avere visto Sarah quando era già morta in garage, e di essersi occupato solo di nascondere il corpo. Mai, in tutte le sue versioni, ha chiamato in causa sua moglie Cosima. La versione fornita nell’incidente probatorio è quella attorno a cui ruota l’accusa: Misseri ha indicato come movente la gelosia che Sabrina provava nei confronti della cuginetta Sarah, a causa del loro comune amico Ivano del quale entrambe erano invaghite. A partire dai primi mesi del 2011, zio Michele ha riavvolto il nastro ed è tornato ad addossarsi tutta la responsabilità dell’omicidio (escludendo però il movente sessuale) e accusando il suo primo difensore, l’avv. Daniele Galoppa, e la criminologa nominata da Galoppa come consulente, Roberta Bruzzone, di averlo indotto a accusare sua figlia che invece è innocente. La confessione in aula di Corte di Assise scalza la confessione resa nell’incidente probatorio.

Nonostante ciò durante la giornata i talk show si rincorrevano a dedicare la programmazione all’evento mediatico. Tutti a trovare ed a rimarcare le contraddizioni delle dichiarazioni del contadino di Avetrana ed a sminuirne la portata processuale. Perché, se Misseri è inattendibile, vienn ecreduto solo quando accusa Sabrina? Viene in mente quando qualcuno chiese a Michele sulle scale del Tribunale di Taranto “non ci sono prove della tua colpevolezza” e lui rispose “perché per Sabrina ce ne sono?”.

Il rendiconto quasi integrale ed asettico della giornata da parte dell’inviata de “La Stampa”, Maria Corbi.

«Non è stata Sabrina ad uccidere Sarah» così Michele Misseri ha risposto piangendo a Franco Coppi, difensore di sua figlia Sabrina accusata dell’omicidio di Sarah Scazzi. «Quindi a provocare la morte di Sarah è stato lei, lo sta dicendo davanti alla Corte d’Assise», ha insistito il legale: «Si, sono stato io», ha risposto il contadino. Nella sua deposizione, Michele Misseri, piangendo, ha ricostruito quanto avvenuto il 26 agosto 2010 nel garage della sua villetta, quando fu uccisa Sarah. Racconta la sua verità. Inizia dalle prime ore di quella mattina del

26 agosto:

«Quella mattina sono andato al consorzio a prendere due lattine di olio. Avevo mal di testa. Mentre andavo a lavorare sono uscito fuori strada con la macchina. Era meglio se quel giorno fossi morto io invece di quella bambina». «Quella mattina non ho sentito Cosima e Sabrina litigare (come invece detto in incidente probatorio) perchè dopo l’olio sono andato subito in campagna senza tornare a casa. Quel giorno stavamo preparando gli ulivi per la raccolta. Ho lavorato fino alle 12,30. Non sono tornato direttamente a casa, sono andato alla banca a depositare un assegno. E il banchiere mi disse: vedi che qui ci vuole la firma di tua moglie. E poi mi disse di metterla io la firma di mia moglie che tanto ci conoscevamo.. Non sono entrato a casa e sono andato direttamente in garage. Avevo avuto in prestito un arnese e volevo andare a lavorare per poi restituirlo. Quando stavo in garage non ho visto che ora era. Dalli Cuturi ad Avetrana sono 12 chilometri, massimo quindici minuti di vogliono perchè io non vado veloce in macchina. Dal deposito dell’assegno di può vedere che ora era quando stavo in banca. Quando sono salito in casa dopo il garage sono salito sopra e ho visto mia moglie e mia figlia che riposavano».

La morte di Sarah

«Sarah o non l’ho vista scendere, l’ho sentita dietro di me. E non lo so se mi chiedeva se potevo aprirle perchè non voleva suonare per non svegliare mia moglie, o se mi voleva dire qualcos’altro. Le ho detto Sarah vattene. Agli inquirenti quando mi hanno portato in garage non lo ho potuto dire perchè stavo drogato. Lei insisteva e la ho girata di peso per spostarla e lei mi ha dato un calcio. E da questo calcio è successo tutto. Sempre di spalle l’ho presa. E c’era un pezzo di corda, mica ho visto che ho fatto tre giri intorno al collo, solo quando gliela ho tolta me ne sono accorto. Non so nemmeno quanto ho stretto. Era una corda. Poi si è accasciata ed è andata a cadere sul compressore. Non so nemmeno io quanto è durato. Sono rimasto choccato, e non sapevo che fare. Bisogna capitarci per capire».

La confessione

Avvocato Franco Coppi: «Quindi non è stata Sabrina ad uccidere Sarah?

Misseri: «No».

Coppi: «E’ stato lei?»

Misseri: «Si».

L’avvocato di Misseri rimette il mandato

Una confessione in aula che provoca la reazione del suo avvocato, Armando Amendolito: «Rimetto il mandato perchè il mio cliente non ha aderito alla linea difensiva concordata». E cosa significhi questo non lo spiega. Avevano concordato di continuare ad avvalersi della facoltà di non rispondere? Amendolito non lo dice e fugge dal tribunale. Entra così un ennesimo legale per Misseri, nominato d’uffico, Luca La Tanza. L’avvocato chiede a Misseri cosa desidera fare. «Voglio parlare oggi», dice sicuro il contadino. E allora La Tanza decide di non chiedere i termini a difesa. Si va avanti. Coppi riprende da quel «Sì ho ucciso Sarah e porterò sempre il rimorso» e chiede il perchè delle sue tante versioni. Dalla confessione alle accuse alla figlia fino alla ritrattazione passando per un incidente probatorio in cui sosteneva che la morte di Sarah era avvenuta in seguito a un gioco tra le ragazze, il «cavalluccio».

L’inizio delle accuse a Sabrina

«Ricordo di un carabiniere che quel giorno in garage mi disse “e se diciamo che Sabrina ti ha portato Sarah e tu le hai messo la corda al collo?”. Io ho detto che non potevo accusare mia figlia e lui mi ha assicurato che tra «padre e figlia non ci sono reati. Ma voglio liberarmi la coscienza perchè non posso andare più avanti se no devo andare al suicidio».

Perchè ho accusato Sabrina

«Alla consulente ho raccontato le cose come sono andate. Lei mi disse: “Ti possiamo aiutare, se diciamo che è stato un incidente tu uscirai adesso, tua figlia tra due anni. E perciò io non sapevo che cosa era un incidente probatorio. Si sono approfittati tutti della mia debolezza». Misseri piange ma vuole andare avanti: «Mi devo sfogare». Lei (la consulente) si è sdraiata due volte a terra per farmi vedere come andava messa la cintura. E così è nata la versione della cintura.

Avvocato Coppi: «Perchè tutti ci chiediamo come fa un padre ad accusare la figlia».

Misseri: «Io con lo psichiatra ho detto che ho fatto la falsa perchè loro mi dissero che altrimenti avrebbero arrestato mia moglie e mio fratello». Ma alla dottoressa Chiloiro, a un’altra dottoressa, allo psichiatra al cappellano, agli agenti penitenziari, al detenuto che puliva i pavimenti ho sempre detto di essere io l’assassino.

Io con il mio ex avvocato non potevo parlare perchè non mi ha mai creduto. Lui mi diceva anche che non dovevo riconoscere le lettere che avevo scritto a Sabrina chiedendole scusa».

Coppi chiede se ricorda chi ci fosse quel giorno in carcere quando lui lo interrogò e gli chiese delle lettere. Misseri risponde di si, che si ricorda.

Qualcuno sapeva?

Coppi: «Lei ha mai confessato prima di essere arrestato quello che era successo a sua moglie e a sua figlia?»

Misseri: «Mai, ma io piangevo tutte le notti. Io stavo morendo e piangevo e Sabrina mi aveva visto in questo stato».

Perchè?

«Non mi so dare una spiegazione di quello che è successo. Dal calcio è partito tutto. Se non me lo avesse dato forse non sarebbe successo niente. Io so solo che quando ho detto Sarah vattene, la ho sollevata di peso».

Cinta o corda?

«Tutti dicevano che era una cintura, che si vedeva. Invece era una corda. Quella corda io l’ho buttata insieme alle scarpe nel cassonetto vicino a casa mia. Nessuna cintura. Sarah è cascata sul compressore con il collo e forse quei segni sono del compressore».

Incidente probatorio

«Dell’incidente probatorio non c’è niente di vero. Io volevo dopo che gli inquirenti mi interrogassero. De Cristofaro mi ha detto che se volevo dovevo scrivere una lettera per fare una richiesta e lui la avrebbe portata. Mi avevano detto che doveva sembrare un incidente e mi sono inventato il gioco del cavalluccio».

Coppi: «Tutte le accuse a Sabrina sono false?

Misseri: «Tutte false. Io sono qui solo per Sarah. Io volevo parlare anche l’altra volta, ma poi mi hanno ucciso i gatti, mi volevano avvelenare con delle merendine e allora non l’ho fatto. Ho avuto anche lettere di minaccia».

Bugie

«Non è vero che quel giorno andai a riposare dopo pranzo e non è vero che ascoltai Sarah e Sabrina che scherzavano. Non sapevo che dovevano andare al mare. La consulente mi disse se vuoi salvare tua moglie devi dire che Sabrina ti aveva svegliato sulla sdraio per farsi aiutare dopo aver ucciso Sarah».

Il garage

«Al garage non si poteva passare dalla casa in quel tempo ma solo dalla strada. Io avevo tolto la maniglia» (Secondo l’accusa il delitto è stato commesso in casa e poi il corpo trasportato in garage).

La scomparsa

«Sabrina mi ha chiesto più volte se avevo visto Sarah dicendomi che se la vedevo dovevo farla aspettare. E quando lei se ne è andata ho fatto marcia indietro con la macchina e ho caricato il corpo della ragazza, poi ho parcheggiato la macchina. Poichè Cosima mi aveva detto che dovevo andare a fare fagiolini con mio cognato, io le dissi che dovevo andare da mio fratello che erano scappati i cavalli. Per questo chiamai Carmine e gli dissi che se chiamava mia moglie doveva dirgli dei cavalli».

Il telefonino

«Non ho mai avuto il coraggio di confessare, ma volevo liberarmi la coscienza per questo ho lasciato il telefonino di Sarah davanti alla caserma dei carabinieri. Dopo 3, 4 giorni lo ho portato al benzinaio sulla strada di Manduria. Ma nemmeno li è stato trovato. Poi lo ho portato a un vecchio autolavaggio e nemmeno sapevo che lì abitava Ivano. Poi lo ho portato in campagna dove lo ho trovato. Ho telefonato a Valentina dicendo che mi ero dimenticato un cacciavite e che avevo trovato un telefonino. Mia figlia disse che dovevamo chiamare i carabinieri. Sabrina mi disse che qualcuno lo aveva messo lì per incolparmi. Non mi ha mai detto di non darlo ai carabinieri. Non avevo il coraggio di confessare perchè ad Avetrana mi conoscono tutti come una brava persona. Adesso non lo sono più».

Il soliloquio in macchina

Avvocato Coppi. «Lei il 6 ottobre 2010 di trovava in macchina e parlava da solo. Io traggo da questa pagina il contenuto di parole che pronunciava da solo. Prego l’avvocato Marseglia di leggere in dialetto l’intercettazione ambientale». Il presidente Trunfio spiega che non si può leggere l’estratto di quell’atto. «Io dicevo io mi scoprirò e poi mi riferivo alla famiglia Scazzi e dicevo che mi dispiacevo per la loro figlia. E’ stato tradotto malissimo».

Lettere e memoriali

«Quello che c’è scritto è verità». «Io sono andato in carcere cosciente di quello che dovevo subire. Io non volevo uscire dal carcere. Venne il direttore del carcere La Marca e mi disse che doveva darmi una brutta notizia. “Mi dispiace ma devi uscire”, disse».

Altarino per Sarah

«L’ ho messo li l’altarino perchè lì è morta. Io tutti i giorni prego. Per me Sarah è ancora lì, se ne andrà quando tutto sarà finito».

Pozzo

«Al pozzo sono andato una volta con una giornalista. Li ho portati».

Sabrina

«Sono pentito di quello che ho fatto. Devo pagare per quello che ho fatto. Non è giusto che paghino degli innocenti. Non ho mai coperto nessuno. Se fosse stata mia figlia le avrei detto hai sbagliato. Ma visto che era successo a me non volevo farmi scoprire».

Vilipendio di cadavere

«Ho detto una bugia, non l’ho toccata. L’unica volta che l’ho toccata è stato qualche giorno prima quando le ho dato una pacca sul sedere. E lei mi ha detto che se lo rifacevo un’altra volta lo avrebbe detto a Sabrina.

La valigia

«L’ho sempre pronta per tornare in carcere»

Il fratello e il nipote

«Non c’entrano niente, se gli avessi chiesto di aiutarmi avrebbero buttato me nel pozzo, non il cadavere. Sarah non pesava niente, è stato facile sollevarla da solo».

Già è un’aberrazione giuridica quella di affidarsi al libero convincimento di un giudice (una persona normale con i suoi limiti umani, non un dio), figuriamoci esser influenzati dal libero e personale convincimento di salottieri televisivi improvvisati e spesso interesati, come lo è Roberta Bruzzone che su “Porta a Porta” le viene dato modo di giustificarsi sulle dichiarazione di Michele che accusa lei e Galoppa di aver influito sulle accuse alla figlia Sabrina. Quando i parterre televisivi ospitano gente che ha tutto l’interesse a indicare Sabrina come l’omicida di Sarah, il popolino credendo a dei mistificatori, prende per buono quel che si starnazza nei salotti televisivi (l’hanno detto in televisione).

Michele Misseri, il contadino di Avetrana coinvolto nell’omicidio della giovane Sarah Scazzi, è stato dall’inizio di questo tragico delitto forse quello che, tra gli indagati, maggiormente ha fatto discutere. Ha fatto discutere perché “zio Michele” è stato colui che per primo ha confessato l’omicidio, che ha fatto ritrovare il corpo della nipote Sarah, colui che ha anche avanzato particolari ricostruzioni intorno al delitto di Avetrana ma che poi ha tirato in ballo la figlia Sabrina, ora in carcere (mentre lui è libero) con l’accusa di aver ucciso la cugina insieme alla madre Cosima Serrano. Ma da quando Misseri ha ritrovato la sua libertà non ha fatto altro che cercare di convincere gli inquirenti di essere il vero responsabile della morte di Sarah, di meritare il carcere al posto delle donne della sua famiglia. E proprio a loro Misseri ha scritto diverse lettere in questi mesi, Tgcom24 ne ha pubblicato alcune in esclusiva: ha preso foglio e penna e si è rivolto a Sabrina e a Cosima, protagoniste delle ultime udienze del processo a Taranto.

Nelle lettere Misseri parla di tante cose, compreso un tentativo di avvelenamento nei suoi confronti. Alla figlia Sabrina lui si rivolge in questo modo: “Quella mattina che io dovevo essere interrogato mi avevano messo nella cassetta della posta due fette biscottate al latte…c’erano due buchi invisibili, forse volevano avvelenarmi come hanno fatto coi gatti”. Così Misseri scrive delle presunte minacce di morte giunte nei suoi confronti, insieme a una “brutta lettera” di cui parla ancora a sua figlia. Ammette di non riuscire più a dormire, di essere stanco di vivere “in questo schifo di vita”. Quando, al processo, avrebbe potuto parlare ai giudici Misseri si è detto “stanco” e si è avvalso della facoltà di non rispondere ma a Sabrina dice: “La prossima volta al processo devo parlare per forza ma non so se gli inquirenti mi crederanno”. Poi ci sono le lettere indirizzate a Cosima Serrano, sua moglie. A lei Misseri ribadisce il suo pensiero sugli inquirenti e sulla giustizia, quella giustizia nella quale lui ormai non crede più.

Tgcom24 pubblica alcune missive che “zio Michele”, accusato di occultamento di cadavere della nipote Sarah Scazzi, ha scritto alle donne della sua famiglia tuttora in carcere. “Ho ricevuto minacce, non riesco più a dormire, volevano avvelenarmi come hanno fatto coi gatti”. In esclusiva per Tgcom24, le lettere di Michele Misseri che ha scritto alla moglie Cosima, in carcere, e alla figlia Sabrina.

Nelle missive, l'uomo sostiene di non essere creduto dagli inquirenti e di dubitare nella giustizia. Proprio a Cosima, scrive: “Chi sbaglia paga ma gli inquirenti non mi credono, io non sto coprendo niente io prima avevo fiducia nella giustizia ora non più”. Nella missiva alla figlia, invece, scrive: “Ho ricevuto una brutta lettera di minacce…io non riesco più a dormire..sono stanco di vivere in questo schifo di vita”. Sempre alla figlia, dichiara: “La prossima volta al processo devo parlare per forza ma non so se gli inquirenti mi crederanno”. Le presunte minacce di morte si sarebbero concretizzate in un tentativo di avvelenamento: "Quella mattina che io dovevo essere interrogato mi avevano messo nella cassetta della posta 2 fette biscottate al latte…c’erano due buchi invisibili, forse volevano avvelenarmi come hanno fatto coi gatti”. «Sabrina dice tante bugie e una che ha bisogno di mentire è chiaro che fa venire sospetti». Lo ha detto Ivano Russo, in un intervista mandata in onda il 3 dicembre 2012 durante la trasmissione di Rai 1, «La vita in diretta» con Marco Liorni, accompagnato da un nuovo avvocato accompagnatore, Francesco Mancini. Avvocato per che cosa, se non è indagato né imputato? «Se potessi tornare indietro non vorrei mai aver conosciuto quella famiglia», ha detto ancora il giovane che secondo la Procura rappresenta il movente inconsapevole del delitto di Sarah Scazzi. Una delle tante domande del giornalista Giuseppe La Venia, che ha soppiantato Giacinto Pinto, chiede se fosse vero, come sostiene Sabrina, di non essere stata mai innamorata di lui. L’ex amico dell’imputata ha confessato, per la prima volta, «di avere avuto l’impressione, soprattutto negli ultimi tempi, di un suo atteggiamento diverso». Russo ha smentito ancora l’estetista: «Ha detto in aula che io la toccavo davanti a tutti, ma anche questo non è vero». A proposito di menzogne sembra nell’intervista che Ivano entri in contraddizione con quanto se stesso ha dichiarato da sempre e, oltre che apparire reticente, si rimangi la sua deposizione resa in aula, da cui può scaturire reato di falsa testimonianza, e scarica l’amica Sabrina. Ad averne amici così. Ma fa un’altra cosa. Mette a nudo l’improvvisazione degli organi inquirenti che si aggrappano a qualsiasi movente, pur se risibile ed assurdo, facendo leva sul libero convincimento dei giudici nell’emettere sentenza. E comunque una domanda sorge spontanea: tenuto conto delle circostanze palesate dalle precedenti intercettazioni con Corona, quanto ha contrattato per apparire su Rai 1 in due successive comparsate, in un salotto oltremodo pieno di opinionisti mal disposti contro Sabrina? Certo è che è stato un forte spot per trovare lavoro, in quanto la Rai è apparsa un’enorme ufficio di collocamento.

Giornalista: «Sono passati oltre due anni dalla scomparsa di Sarah Scazzi. Lei secondo i magistrati è stato il movente inconsapevole di tutta questa vicenda e ne ha pagato le conseguenza in tutta la sua vita privata. Innanzi tutto, oggi come sta Ivano Russo.»

Ivano Russo: «Oggi sto molto meglio, perché comunque ….ho…devo diventare papà. Sto cercando di ripartire per garantirmi un futuro a me ed a tutte le persone…. cioè a mio figlio in particolar modo.»

Giornalista: «Il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi sta procedendo. Ormai siamo alle battute finali. Lei lo sta seguendo?»

Ivano Russo: «E’ inevitabile non sentire quello che succede. Ci sono parecchie cose che ho sentito che non sono veritiere. Ho sentito, per esempio, che io davanti a tutti la palpeggiavo. Io non l’ho mai palpeggiata davanti a nessuno. Cioè non ho mai fatto un atto del genere.»

Giornalista: «Sabrina per esempio ha detto “io non ero innamorata di Ivano”.»

Ivano Russo: «Non mi ha dato mai dimostrazioni che aveva dei sentimenti nei miei riguardi del genere..eh…sentimenti del genere, quindi…eh…diciamo che con il tempo invece un po’ il sospetto mi ha colpito, perché comunque alcuni atteggiamenti non mi sono stati più chiari.»

Giornalista: «Nei mesi successivi all’arresto di Sabrina lei diceva “non ho mai sospettato di Sabrina e sono sicuro fino a prova contraria che Sabrina sia innocente. Adesso con l’inchiesta e con il processo con tutto ciò che sta emergendo, ha cambiato idea o resta con l’opinione di allora?»

Ivano Russo: «Come ho detto prima…eh…questa donna dice tante bugie…ne dice proprio tante. Quindi io penso che quando una persona ha bisogno di mentire è perché nasconda qualche cosa. Eh..se all’inizio mi ero fidato di un’amica, adesso io ho dei seri dubbi su questa persona..proprio sul perché questa donna ha bisogno di mentire e quindi non mi è più chiara la sua situazione.»

Giornalista: «Qualche volta ha imprecato dicendo “magari non avessi mai conosciuto Sabrina, mai sarei entrato in questo guaio.»

Ivano Russo: «Diciamo che io non….se tornassi indietro…maledico quel giorno che ho incontrato Sabrina, che ho conosciuto questa famiglia. Ed adesso se dovessi scegliere, preferirei di non conoscerli.»

Giornalista: «Lei ha mai temuto un errore, un errore giudiziario?»

Ivano Russo: «C’è stato un momento che io mi sono sentito come un sospettato. Anche perché soprattutto mi ricordo al primo interrogatorio c’è stata una frase di un carabiniere. Parlandomi ha detto che….siccome mi stavano tenendo per parecchie ore, io gli ho chiesto “ma perché mi tenete qua tante ore” e lui mi rispose che praticamente…siccome a me era venuto a mancare mio padre, avevo…ero arrabbiato con l’esistenza, con Dio, poi…allora sarei stato capace di fare qualche cosa di grave, E lì ho incominciato ad aver paura di un errore giudiziario.»

Giornalista: «Di Sarah che cosa le resta dentro?»

Ivano Russo: «Mi auguro che chi ha fatto questo reato, possa un giorno, almeno per un giorno, eh…capire realmente quello che ha fatto. E che magari la propria coscienza si smuova un po’, perché stiamo parlando di una ragazzina indifesa che non aveva nessuna colpa e che non meritava questa tragica fine. Io la ricordo con tenerezza e mi dispiace che sia morta così. Ha avuto una fine così tragica e così giovane. Perché, ritorno a dire, non se lo meritava.»

Già il giorno prima sempre Ivano Russo, in un intervista mandata in onda il 2 dicembre 2012 durante la trasmissione di Rai 1, «Così è la vita» con Lorella Cuccarini, accompagnato sempre dal suo nuovo avvocato accompagnatore.

Giornalista: «La tua vita è cambiata, coinvolto tuo malgrado in questa bruttissima vicenda e c’è ancora un processo in corso. Tu torni a parlare con la stampa dopo un lunghissimo periodo di silenzio per parlare delle tue paure e del momento che stai attraversando. Quali era e quali sono le tue paure.»

Ivano Russo: «Le mie paure, all’inizio..diciamo che…siccome..i sospetti sono, in un primo momento, incentrati sulla mia persona, avevo paura di un errore giudiziario. Tutte le volte che mi ritrovavo a pensare se questo poteva succedere, mi faceva un certo effetto, perché, comunque, essendo una persona che sempre è stata tranquilla e che, comunque, non centra niente con quello che è successo alla povera Sarah, mi ritrovavo a pagare delle colpe che non avevo.»

Giornalista: «Volevi spiegare in quel momento che pochi ti credevano che certamente in quel periodo i riflettori erano stati accesi su di te. Però adesso stai vivendo un momento particolarissimo della tua vita, un momento molto felice, perché la tua compagna, Virginia, sta per renderti papà, perché tra poche settimane nascerà tuo figlio. Che cosa cambia per te.»

Ivano Russo: «Cambia tanto, perché, comunque, sarà una gioia immensa ed un punto sulla quale partire per una nuova vita, per un futuro. Lo devo fare per me e soprattutto per mio figlio e per la mia ragazza.»

Giornalista: «Le ripercussioni di questa vicenda, di questa inchiesta giudiziaria, ci raccontavi, che riguardano la tua vita privata e riguardano la tua famiglia, perché hai molte difficoltà a trovare un posto di lavoro, nonostante tu abbia tentato più volte. Perché questo.»

Ivano Russo: «Diciamo che all’inizio era ancora più difficile. Io sono una persona come tante altre, che al giorno d’oggi non riesce a trovare lavoro, soprattutto per il fatto che lavoro, comunque, non c’è ne. Un incentivo in più sul fatto che io ero…appartenevo a questo caso, anche se come movente, un incentivo in più per non assumermi. Quindi la difficoltà era maggiore.»

Lorella Cuccarini: «Senti Ivano. C’è la tua vita privata. C’è la tua intimità. Poi ci sono gli investigatori, l’inchiesta, ci sono i media, quindi anche la grande attenzione della gente, a volte morbosa. Tu hai dichiarato di essere stato come investito da un Tir. A cosa ti riferisce ed a chi ti riferisci in particolare?»

Ivano Russo: «La mia vita era talmente tanto tranquilla. Io vivevo…ho vissuto sempre di piccole cose e quindi ritrovarsi in questo trambusto mediatico e giudiziario era qualcosa che mi ha colto di sorpresa ed era una cosa del tutto inaspettata. Per questo motivo mi sono trovato ad affrontare una cosa più grande di me e che, diciamo, mi ha condizionato la vita per lungo tempo.»

Don Antonio Mazzi: «Senti Ivano, io conosco fatti di questo tipo. Soprattutto conosco l’incidenza che questi fatti hanno sul paese. Questi paesi piccoli, talaltro, questi paesi piccoli, adesso non dico..non voglio star dire qui a dire ci sono paesi più svegli e paesi meno svegli. E’ chiaro che un fatto come questo crea una mentalità e crea una mentalità di malessere generale che poi gira gira gira va a finire che un colpevole lo devono trovare, anche se un colpevole che in qualche maniera non ha delle prove, in qualche maniera si crea. Allora volevo lanciare un messaggio al paese. Che interesse ha il paese a rendere così problematica la vita di una persona. Che interesse ha il paese ad essere sempre nell’occhio del ciclone per cose che non sono chiare e quasi sempre forse non sono vere.

Allora io vorrei proprio lanciare da prete, da persona di cultura, da chi conosce queste cose, cerchiamo di smontare questa baracca, che comunque è facile montarla, ma è terribile smontarla. Noi conosciamo altri paesi che hanno vissuto questo, per cui io credo, Ivano, se hai qualcosa da dire, dilla, nel luogo che devi dirla e nel modo che devi dirla. E poi, io spero, che la nascita di tuo figlio non solo serva a te, ma serva al paese intero, per non creare un ulteriore emarginato, un ulteriore figlio di genitori che soffrono e soprattutto aumentare nel paese il disagio che già c’è. Siamo vicini al Natale. Fate..….invito il parroco, invito il Sindaco, invito le quattro…. le scuole, cerchiamo di lavorare per smontare questa baracca, che in fondo è una montatura.»

Lorella Cuccarini: «Ivano, c’è un primo responsabile per tutto questo che ti è successo?»

Ivano Russo: «Mah…io penso che la responsabilità bisogna darla a ad una famiglia di bugiardi. Perché comunque con le falsità hanno messo sotto pressione, come si diceva prima, un intero paese. E quindi è stato etichettato, questo paese, in una certa maniera, quando invece è un bel paese. Essendo una zona balneare c’è ospitalità, c’è cordialità, c’è gente fatta per bene. La responsabilità massima la do a loro, poi a tutto quello che intorno si è creato, perché comunque su casi del genere bisogna andare con molta cautela e non trovare un colpevole giusto per trovarlo e per avere un colpevole e dovevano andare con molta calma…..»

Lorella Cuccarini: «Perché comunque, Ivano, c’è la grande preoccupazione da parte tua, perché c’è il sospetto, tu leggi il sospetto negli occhi della gente che pensa che tu sappia qualcosa che non hai detto. Ecco, come vivi con questi atteggiamenti?»

Ivano Russo: «Mah…io ho detto sempre tutto e l’ho fatto con la massima tranquillità. Quindi che so che sono a posto con la mia coscienza, purtroppo andando…essendo un caso mediatico, molta gente quando vai in giro ti guarda con una certa maniera, magari ti guarda con un certo sospetto. E’ una cosa che all’inizio mi ha fatto male, perché, comunque, essendo a posto con se stessi, vedere questi sguardi così dubbiosi nei tuoi confronti non mi facevano certo del bene….»

Don Antonio Mazzi: «Ivano, smonta la tua rabbia. Tu dai un grande esempio ai tuoi colleghi ed ai tuoi compaesani. Poi lancio un messaggio agli industriali. A chi in qualche maniera può darti del lavoro. So che tu stai cercando lavoro, hai fatto cento lavori. Dimenticate anche voi e cerchiamo di dare una mano in modo che questo bambino che nasce abbia un padre che gli può dare da mangiare.»

Naturalmente dopo la testimonianza di Sabrina e la confessione del padre Michele Misseri con l’abbandono del suo avvocato, Anna Pisanò, l’avv. Armando Amendolito e Roberta Bruzzone sono stati ospiti delle solite trasmissioni salottiere. Talk show con un unico comun denominatore: ospitare solamente le voci colpevoliste a danno di Sabrina Misseri.

10 dicembre 2012. Trentaduesima udienza. Parla Dora Chiloiro e Luigina Quarta.

Non si smette mai di parlare di Avetrana e del delitto di Sarah Scazzi, i colpi di scena non sono ancora finiti né in tv né in tribunale. Tutta la settimana ed in special modo la domenica 9 tutti i talk show pomeridiani parlando di Michele Misseri, si concentravano a trovare breccia nelle sue dichiarazioni per minarne la sua attendibilità. Da un lato ieri domenica 9, mentre venivano mandate in onda le dichiarazioni che Michele Misseri aveva rilasciato a Ilaria Cavo e Barbara d’Urso su Canale 5 intervistava Anna Pisanò, supertestimone al processo, lo zio di Sarah è intervenuto telefonicamente. Misseri si è scagliato contro Anna Pisanò, coinvolgendo anche la conduttrice Barbara d’Urso per quello che ha definito un programma colpevolista che influenza la gente: “Voi la verità non la conoscete. E quando questa uscirà, vedremo chi avrà ragione. Sono arrabbiato non con voi, ma con me. Tu Anna perché vai in televisione? Tu non c’eri quel giorno, sei una bugiarda, vuoi influenzare la gente così nessuno crede alla mia verità. Sarah non voleva più vederti, lo sai!”. Dall’altro ieri in aula a Taranto durante la 31esima udienza del processo hanno parlato due testimoni che hanno fatto dichiarazioni davvero inaspettate. Nel processo prima di tutto ha parlato l’ex psicologa del carcere pugliese, Dora Chiloiro, citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri. La donna ha ritrattato alcune sue parole dichiarando di essere stata imprecisa nell’udienza preliminare del 7 novembre 2011. Allora disse di aver avuto dei colloqui con Michele Misseri quando l’uomo era in carcere e che questo aveva detto di essere il responsabile della morte della nipote Sarah. Dora Chiloiro ha affermato di aver avuto tre colloqui con Misseri (il 10, 13 e 17 ottobre): “Sono stata imprecisa perché dopo ho potuto controllare i miei registri interni. Quei colloqui erano solo degli ascolti, in cui Misseri esprimeva stati d’animo, sensazioni, non c’erano contenuti e non erano previste domande”. La donna, rinviata a giudizio per falsa testimonianza, si è giustificata dicendo che in quel periodo era esposta a una forte pressione mediatica ed emotiva. La seconda persona ascoltata invece è l’ingegnere Luigina Quarta, consulente della difesa di Cosima Serrano. Secondo la Procura, e secondo la relazione dei carabinieri dei Ros, il 26 agosto 2010 il cellulare della madre di Sabrina Misseri, alle 15,25, al momento di una telefonata effettuata al marito Michele, risultava nel garage della casa della famiglia Misseri in via Deledda sulla base dello studio delle celle telefoniche. L’ingegnere Quarta ha sostenuto che la frequenza utilizzata e quindi la cella poteva essere agganciata in tutta la casa quindi anche nella parte sovrastante dell’abitazione. Peraltro l’esame dei Ros potrebbe essere stato fatto in un momento in cui le condizioni meteorologiche erano diverse dal momento del delitto.

La donna ha dichiarato: “E’ quasi impossibile che un’onda radio non venga captata anche negli altri vani della casa. Si sarebbe dovuto misurare l’accertamento più di una volta. Ogni giorno i telefonini danno risultati sempre diversi. Il risultato è approssimativo, statistico, mai certo”. Poco più di un anno fa, la Chiloiro in udienza preliminare, aveva detto di aver avuto numerosi colloqui in carcere con Michele Misseri, che le avrebbe tra l’altro confessato di aver ucciso lui la nipote Sarah Scazzi. Dora Chiloiro, ex psicologa del carcere di Taranto, aveva ribadito quelle circostanze anche qualche mese fa dinanzi alla Corte di Assise che sta celebrando il processo per il delitto della quindicenne di Avetrana. Ma dai registri interni al carcere era emerso che la psicologa aveva avuto solo tre colloqui nell’ottobre 2010 con "zio Michele" e per questo motivo era finita sotto processo per falsa testimonianza. Oggi, citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri dinanzi alla stessa Corte, la psicologa ha ritrattato quelle dichiarazioni. Ascoltata col suo difensore in aula, l’avvocato Carlo Petrone, in quanto imputata per falsa testimonianza in un procedimento connesso, ha fatto dietro front spiegando di non aver raccolto gli sfoghi di Misseri che si autoaccusava dell’esclusiva responsabilità del delitto. La psicologa si è giustificata sostenendo di aver fatto confusione fra gli incontri di staff e i colloqui col detenuto. La sua deposizione, di fatto, ha rappresentato un autogol per la difesa e un punto in favore dell’accusa. “Michele Misseri non confessò“: ancora un colpo di scena al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, in corso a Taranto, dove la ex psicologa del carcere di Taranto Dora Chiloiro, citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri, ha ritrattato sulle sue precedenti testimonianze, sostenendo di essere stata ”imprecisa” nell’udienza preliminare del 7 novembre 2011. In quell’occasione la dottoressa Chiloiro riferì di aver avuto numerosi colloqui in carcere con Michele Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo l’incidente probatorio del 19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di essere stato lui ad uccidere Sarah. ”Ho avuto tre colloqui il 10, 13 e 17 ottobre – ha detto Chiloiro – sono stata imprecisa perché dopo ho potuto controllare i miei registri interni.

Quei colloqui erano solo degli ascolti, in cui Misseri esprimeva stati d’animo, sensazioni, non c’erano contenuti e non erano previste domande”. Per questi motivi Chiloiro è stata già rinviata a giudizio per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni dell’udienza anche nel processo dinanzi alla Corte di assise. ”In quel periodo – si è giustificata – eravamo esposti ad una forte pressione mediatica ed emotiva. Abbiamo fatto spesso riunioni di staff sul caso, ma Misseri non l’ho più visto dopo il 17 ottobre 2010”.

Per la Procura, che sostiene la tesi della colpevolezza di Sabrina e della madre Cosima per il delitto e la responsabilità di Michele Misseri solo per la soppressione del cadavere di Sarah, la ritrattazione della psicologa sono manna dal cielo, un supporto alle proprie tesi. Da tenere presente una cosa: trattare come veritiere le dichiarazioni di Dora Chiloiro rese nell’udienza preliminare e nella precedente testimonianza in Corte d’Assise o considerare quest’ultima trattazione come la vera verità? Certo che a rettificare la dichiarazione nello stesso procedimento, porta la Chiloiro a liberasi del fardello del procedimento penale per falsa testimonianza, non incorrendo così nelle conseguenze di carattere professionale. Questa cosa dà da pensare. Scegliere la propria carriera ed i propri interessi o salvare delle vite umane dal carcere? Una scelta di carattere pratico o una strategia difensiva, oppure cedere al rimorso della coscienza? Questa è solo una considerazione di carattere logico, non una diffamazione nei confronti di chiunque. Ma ad Avetrana non solo di processo Scazzi si parla. Due ragazze di 16 anni morte e cinque feriti, quasi tutti giovanissimi, tra cui quattro in prognosi riservata. E’ il pesantissimo bilancio di un incidente stradale avvenuto l’8 dicembre, festa dell’Immacolata sulla Avetrana – Erchie. Due automobili, una Alfa 159 e una Bmw 318 che procedevano in direzioni opposte si sono scontrate frontalmente a pochi chilometri da Avetrana. Il tremendo impatto ha ucciso sul colpo la sedicenne Ilaria Cosma, di Avetrana, che viaggiava su una Bmw guidata dal fratello Mattia con a bordo in tutto cinque persone. L’alfa, invece, era guidata dal diciannovenne Marco Carrozzo che trasportava la sua fidanzata, Chiara Scarciglia, di Erchie, deceduta nella notte nella rianimazione dell’ospedale Perrino di Brindisi. In coma anche Giuseppe Marra che si trovava a bordo della Bmw, ricoverato nella stessa rianimazione dell’ospedale brindisino. Due feriti meno gravi sono stati ricoverati nell’ospedale di Francavilla Fontana mentre gli altri due, L’autista della Bmw, Carrozzo, e Maurizio Nigro, sono stati trasportati prima al Giannuzzi di Manduria. Successivamente Nigro è stato trasferito nella neurochirurgia del Santissima Annunziata di Taranto per delle lesioni alla colonna vertebrale. La prognosi di quest’ultimo è riservata. Il destino che accomuna le povere ragazze decedute è atroce. Li collega al destino di Sarah Scazzi e Melissa Bassi. Appunto, Ilaria Cosma era cugina di Ivano Russo; Chiara Scarciglia era compagna di classe di Melissa Bassi. Una linea maledetta corre tra Brindisi e Avetrana, passando per Mesagne.

Una linea di morte e mistero lunga 45 chilometri che si percorrono in meno di un’ora. In poco più di due anni qui hanno perso la vita e la spensieratezza dell’adolescenza Sarah Scazzi, uccisa 2 anni prima forse da sua cugina, forse da suo zio, e Melissa Bassi, studentessa di Mesagne fatta saltare in aria da uno squilibrato bombarolo davanti alla sua scuola di Brindisi, e poi due sedicenni che per quei casi assurdi della vita erano in qualche modo legate alle prime due. Ilaria Cosma e Chiara Scarciglia sono rimaste uccise in un incidente sulla provinciale che collega proprio Brindisi ad Avetrana. Ilaria era una compaesana di Sarah e cugina di Ivano Russo. La Bmw su cui viaggiava, insieme a quattro amici, rimasti feriti, si è schiantata contro l’Alfa Romeo guidata dal fidanzato di Chiara, che invece era una compagna di scuola di Melissa. Un’altra morte e altro dolore per gli studenti della Falcone-Morvillo, un anno da dimenticare: ci sono ancora nove ragazze che portano le ferite di quell’attentato per cui è in carcere Giovanni Vantaggiato, imprenditore 68enne, padre e nonno amorevole. Ancora non ha spiegato il perché di quell’ordigno davanti a una scuola. Della morte violenta di Sarah Scazzi, scomparsa ad agosto 2010, l’Italia continua a parlare perché una verità su chi l’ha uccisa non c’è.

Brindisi e Avetrana, 50 chilometri di morte e misteri.

12 dicembre 2012. Trentatreesima udienza. Riparla Michele Misseri.

"A dire la verità adesso mi sento più leggero, cioè con tutto quello che avevo accumulato adesso sto meglio. Più parlo e più mi libero":

così Michele Misseri racconta in una intervista esclusiva nel corso di 'Domenica Live', in onda su Canale 5 il 9 dicembre, il suo stato d'animo dopo la sua confessione nell'udienza di qualche giorno prima. Misseri ha negato l'esistenza di un movente sessuale nell'omicidio: "Non c'è, non c'è - ha detto - perché devo dire che c'è se non c'è? Il trattore non partiva, dalla mattina, come ho detto in aula, avevo già un dolore alle testa, poi dal calcio è partito tutto".

Quanto al fatto che, durante la confessione, Misseri ha descritto quanto accaduto prima e dopo l'omicidio, ma non il momento dell'omicidio stesso, ha risposto: "E ma io l'ho detto, non ricordo nemmeno io come ho fatto, come è successo io ho detto che i giri della corda li ho visti quando li ho tolti dal collo, erano due o tre giri, non so, due sicuro". Eppur la situazione si complica sempre di più nel caso Scazzi, tra testimoni che ritrattano le loro passate dichiarazioni, testimonianze di colpevolezza e lapsus vari. Esattamente a distanza di 48 ore dalla precedente udienza dedicata all’esame di altri testimoni della difesa, fra cui la psicologa Dora Chiloiro che ha fatto dietro front spiegando di non aver raccolto gli sfoghi di Misseri che si autoaccusava del delitto, oggi riprende il controesame di Michele Misseri. Dopo la scorsa udienza ovviamente le carte in tavola sono notevolmente cambiate, la psicologa ha ritrattato le sue dichiarazioni, sostenendo di aver fatto confusione fra gli incontri di staff e i colloqui col detenuto e, oltre ad essere indagata per falsa testimonianza, ha concesso all’accusa molti spunti nonostante fosse una testimone della difesa. La 33ª udienza è stata molto lunga e complicata, si è basata esclusivamente sul controesame del contadino di Avetrana da parte dell’accusa, ovvero del pm Mariano Buccoliero e del procuratore aggiunto Pietro Argentino. Il contadino di Avetrana, interrogato per undici ore (un'ora è stata la pausa pranzo) in qualità di testimone nel processo per l'omicidio della nipote Sarah Scazzi, ha risposto con aria di sfida alle domande dei pubblici ministeri. «Non volete la verità. Solo io sto facendo la verità per quella poveretta. Io l'ho ammazzata una volta, voi chissà quante volte l'avete ammazzata».

Affermazioni che hanno costretto la presidente della Corte d'Assise, Rina Trunfio, ad ammonire il teste, chiedendogli di non parlare a ruota libera. Michele Misseri ha parlato tranquillamente e prima che gli venisse fatta qualunque domanda, mentre il pm Buccoliero cercava tra i verbali, ha preso dalla tasca della sua giacca una corda e si è alzato per mimare qualcosa. Il presidente Rina Trunfio ha detto al teste che non poteva parlare a ruota libera dal momento che si trattava di un controesame e non di dichiarazioni spontanee. Misseri si è allora seduto di nuovo e ha ripreso a rispondere alle domande dell’accusa. Il contadino di Avetrana ha ribadito di essere l’unico autore dell’omicidio ed ha nuovamente spiegato come sarebbero andati i fatti. Misseri ha ripreso il suo racconto, sempre più dettagliato. «Ho utilizzato la corda perchè era appoggiata sul trattore. Se avessi avuto il cacciavite, avrei preso il cacciavite». Il contadino ha poi ricordato l'interrogatorio del 5 novembre 2010. «Nel verbale c'è scritto cosa ho detto io, ma non cosa mi dissero di riferire». In questo modo è tornato ad accusare il difensore, Galoppa, e la criminologa Bruzzone, nominata consulente, sostenendo di essere stato indotto da loro ad accusare sua figlia Sabrina. Per questo la criminologa nei giorni scorsi lo ha nuovamente querelato. In aula sono state ascoltate fino a sera anche le intercettazioni ambientali più significative e dopo ore di interrogatorio, Misseri è crollato. Ha pianto e ha cercato di giustificarsi: «Chiedo perdono a tutti, non solo alla mamma di Sarah, che dopo tutto ha perso una figlia e io sono nei panni suoi. Devo parlare anche per gli innocenti che stanno in carcere». È stato l'unico momento di commozione che si è concesso il testimone. L'ennesimo colpo di scena. Si è parlato dell’avvicinamento al garage della giovane Sarah, dello strangolamento con la corda, dell’occultamento del suo cadavere e del ritrovamento del telefono cellulare che è risultato fondamentale per gli arresti di Cosima e Sabrina. I pubblici ministeri hanno rivolto molte domande al contadino che si è contraddetto più volte, in particolare riguardo al suo memoriale. Ad esempio, nell’interrogatorio reso tra il 6 e il 7 ottobre 2010, Misseri ammise di aver ucciso Sarah e di essersi occupato subito di gettare in un cassonetto le scarpe infradito che indossava la vittima insieme alla corda utilizzata per il delitto. Nel memoriale, invece, afferma che le scarpe e la corda erano rimaste nel garage e che successivamente le aveva recuperate, precisamente quando era tornato per prendere le cassette per andare a raccogliere i fagiolini in un campo vicino alla sua abitazione insieme al cognato. L’uomo in alcuni interrogatori parla anche del fatto di aver rimesso le scarpe alla ragazza in campagna quando l’aveva rivestita. Riguardo a queste dichiarazioni, il teste ha detto: “Ho sbagliato a scrivere nel memoriale di aver messo le scarpe nello zaino”. Inoltre spesso il contadino si è sbagliato e ha parlato al plurale, nonostante sostenga di essere l’unico colpevole.

Ha dichiarato: “Ho preso i vestiti di Sarah dopo aver gettato il cadavere nel pozzo quando ce ne siamo andati”. Durante l’udienza c’è stato spazio anche per parlare della telefonata del 26 agosto tra Michele Misseri e il fratello Carmine. Misseri che si trovava in campagna nella zona del pozzo, chiese a Carmine di mentire con sua moglie, se Cosima avesse chiesto di lui bisognava dire che era andato in campagna a controllare che i cavalli non scappassero.

Numerosissime sono state le contestazioni relative alle difformità tra le dichiarazioni rilasciate oggi e quelle che emergono dai verbali.

«Tutto ciò che ho detto dal 15 ottobre in poi non lo riconosco perché o ero drogato dai farmaci o ingannato dal mio primo difensore e la sua consulente», ha ripetuto Misseri. Il momento più difficile è stato il confronto con le numerose intercettazioni ambientali in cui, secondo l’accusa, emergerebbe la sua estraneità al delitto. Misseri si è difeso fornendo interpretazioni che non sempre hanno convinto. Non sono mancate, poi, nuove accuse agli investigatori. «Il giorno del sopralluogo nel garage – ha detto – mi avete portato dove avete voluto voi. Non vi do nemmeno risposte perchè stavo con i tranquillanti. Doveva essere l’avvocato Galoppa a dire “basta, questo interrogatorio non va avanti”». Oltre al suo primo difensore il contadino ha accusato anche la criminologa Roberta Bruzzone, nominata consulente dal’ex difensore, sostenendo di essere stato indotto dai due ad accusare la figlia Sabrina. Intanto si apprendono particolari inediti del periodo post omicidio. «Io voleva far trovare Sarah molto prima, infatti dopo qualche giorno che l’ho uccisa – ha detto zio Michele – ho pure cercato di infilarmi nel pozzo per tirarla fuori e lasciarla vicino al paese ma non ci sono riuscito perché era troppo stretto».

«Presidente, io ho bisogno almeno di un’altra ora». Così, nella precedente udienza di mercoledì scorso, il procuratore aggiunto Pietro Argentino fece sapere alla corte che le domande da fare a Michele Misseri erano ancora tante. E l’imputato fu il primo a non cedere alla stanchezza, nonostante fosse lì da quasi otto ore: «Per me possiamo andare avanti anche sino a domattina», disse con aria di sfida zio Michele prima della decisione della presidente Rina Trunfio che aggiornò la seduta a questa udienza. Lo zio di Sarah, che anche oggi si autoaccuserà dell’uccisione della nipote scagionando la figlia Sabrina, in carcere con la madre Cosima Serrano accusate entrambe di omicidio in concorso, dovrà riprendere l’esame da parte dei pubblici ministeri partendo dal sopralluogo del 15 ottobre del 2010, quando, a una settimana dal suo arresto per omicidio colposo, soppressione e vilipendio di cadavere, fu portato prima nel garage di via Deledda e poi sui luoghi dove il 26 agosto di quell’anno aveva portato il corpo di Sarah per nasconderlo. Fu quel giorno che il contadino di Avetrana accusò la figlia di averlo aiutato a uccidere la quindicenne. «Ero drogato dai farmaci che mi avevano dato in carcere», si giustifica ora Misseri sostenendo la tesi di una sorta di induzione farmacologica all’accusa. «La mattina non capivo niente, man mano che passava il tempo mi sentivo meglio», ha detto Misseri mercoledì scorso, subito incalzato dal pm Mariano Buccoliero: «Infatti – ha detto il magistrato – lei ha accusato sua figlia la sera».

Le immagini del sopralluogo del 15 ottobre di due anni fa in contrada «Sierri» e poi «Mosca», sono documentate in un video che riprende il contadino mentre mostra al pm, agli ufficiali dei carabinieri e agli investigatori di polizia giudiziaria, il famoso albero di fico dove aveva denudato e approfittato della nipote morta e il punto esatto dove aveva bruciato lo zaino con i vestiti della nipote. Il filmato, della durata di pochi minuti, fa vedere zio Michele con i soliti vestiti uguali a quando era stato arrestato, barba rasata e apparentemente lucido tanto da rispondere con cognizione alle domande del pm Buccoliero. Un altro momento difficile che Misseri dovrà superare in aula sarà la visione di un colloquio intercettato in carcere tra lui e una sua nipote, Antonella Greco, alla quale ha confidato di non aver partecipato all’uccisione di Sarah». «Ho preso i vestiti di Sarah dopo aver gettato il cadavere nel pozzo quando ce ne siamo andati». Ancora una volta Michele Misseri ha commesso una gaffe, parlando al plurale nel corso del processo per l’omicidio della nipote Sarah Scazzi, come se fosse stato aiutato da qualcuno ad occultare il corpo della ragazzina. Mercoledì scorso Michele Misseri, rispondendo alle domande dell’avv. Franco Coppi (difensore di Sabrina Misseri), ha sostenuto di aver ucciso da solo la nipote Sarah e di aver accusato ingiustamente la figlia su suggerimento del suo ex legale Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Bruzzone, all’epoca consulente di parte. Anche nel corso di quella udienza, aveva in qualche caso utilizzato il plurale descrivendo le fasi successive dell’omicidio. I pubblici ministeri hanno rivolto altre contestazioni al contadino, che si è contraddetto ricordando alcune telefonate in cui parlava con il nipote Cosimo Cosma, imputato per soppressione di cadavere. Il pm Mariano Buccoliero ha letto un passo del verbale del 5 novembre 2010 in cui gli inquirenti chiesero al contadino di Avetrana: "Sabrina ha mai manifestato la preoccupazione di essere scoperta o che potevate essere scoperti?". Il teste rispose: "Mai. Lei diceva: papà è troppo bravo e non lascia piste". Il contadino a quel punto ha chiamato in causa l'avv. Daniele Galoppa e l’ex consulente Roberta Bruzzone. Misseri è apparso provato dal lungo interrogatorio e in più occasioni, incalzato dalle domande dei pubblici ministeri, si è limitato a rispondere con un "Non ricordo". Numerosissime sono state le contestazioni relative alle difformità tra le dichiarazioni rilasciate oggi e quelle che emergono dai verbali.

«Non volete la verità. La verità è quella che so io. Io l’ho ammazzata una volta, voi chissà quante volte l’avete ammazzata». Lo ha detto Michele Misseri rivolgendosi ai pm Mariano Buccoliero e Piero Argentino in aula durante il processo. Per queste affermazioni il teste ha ricevuto un richiamo dal presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, che gli ha chiesto di limitarsi a rispondere alle domande senza fare commenti. «Ho utilizzato la corda perchè era appoggiata sul trattore. Se avessi avuto il cacciavite, avrei preso il cacciavite». Lo ha detto Michele Misseri riferendosi all’oggetto utilizzato per uccidere la nipote Sarah Scazzi.

Il pm Mariano Buccoliero gli aveva chiesto per quale ragione non avesse strangolato Sarah con le mani visto che l'aveva afferrata per portarla sulla rampa del garage. Misseri ha aggiunto. «Non potete comprendere. Quanto alla gelosia che Sabrina avrebbe nutrito per Ivano Russo, del quale si sarebbe invaghita anche Sarah Scazzi, Michele Misseri ha dichiarato di averlo appreso da alcuni amici della figlia, come Alessio Pisello, e che in ogni caso ne avevano parlato diffusamente le trasmissioni televisive. I pubblici ministeri hanno fatto domande anche sul contenuto di alcune intercettazioni, in parte ascoltate in aula. Nel corso della sua testimonianza in Corte d’assise, Michele Misseri ha pianto e ha detto: «Chiedo perdono a tutti». Lo sfogo del contadino è avvenuto dopo oltre sei ore di interrogatorio da parte dei pubblici ministeri e dei difensori degli imputati. «Non ha altro da aggiungere per fare chiarezza definitiva su tutto?» ha chiesto a Michele Misseri l’avv. Franco Coppi, uno dei difensori della figlia Sabrina. «Devo chiedere solamente – ha risposto zio Michele - perdono a tutti, anche alla mamma di Sarah che io non ho voluto mai contraddire perchè dopo tutto ha perso una figlia. Io sto nei panni suoi. Io non ho mai commentato contro di lei». «Lei – ha aggiunto il contadino riferendosi a Concetta Serrano – è convinta che sono state mia figlia e mia moglie, ma se erano state loro perchè io mi devo assumere ancora la responsabilità? Non ce la faccio ad andare avanti, devo parlare anche per gli innocenti che stanno in carcere». Da far notare un aspetto della vicenda. A fine giornata tutti i giornali e le televisioni hanno riportato un solo messaggio all’opinione pubblica: Michele Misseri è caduto in contraddizione con le sue precedenti dichiarazioni e vi sono state tanti non ricordo. 11 ore di interrogatorio su richiesta di esame della difesa degli imputati non può conseguire per loro una risultanza negativa, eppure per la stampa è stato così, influenzando in questo modo il popolino. Certo è che nessuno ha paventato l’ipotesi che facendo così Misseri passa dall’essere accusato di omicidio e di calunnia in aggiunta agli altri reati contestatogli ad essere accusato di falsa testimonianza ed auto calunnia, sempre in aggiunta al resto dei reati già contestati.

Ma quanto può essere attendibile un testimone ed il suo racconto.

Quando si parla di testimonianza si intende il racconto di un evento, filtrato tramite l'esperienza di un narratore che ha vissuto la scena; è chiaramente implicita, dunque, la connotazione soggettiva della testimonianza. Parte proprio da questa semplice osservazione il nodo del problema che si pone a riguardo: quanto può essere attendibile una testimonianza? La testimonianza riporta sia una parte di verità oggettiva sia una costruzione soggettiva dei fatti, legata a componenti emozionali e situazionali che influenzano il ricordo, ma anche ad errori di memoria. In questo lavoro si cerca di mettere in luce gli effetti di distorsione della memoria del testimone, al fine di dimostrare che la sicurezza mostrata nel resoconto testimoniale, non è predittore di accuratezza, in quanto il testimone è vittima della fallacia della propria memoria. Data la grande rilevanza della testimonianza diretta, è posta grande attenzione al testimone oculare in casi giudiziari, in particolare alle caratteristiche della testimonianza, nell'intenzione di giudicare nel miglior modo possibile l'effettiva veridicità della stessa; ma si può credere in assoluto ad un individuo che dice di ricordare esattamente un evento che “ha visto con i suoi occhi”? La memoria è un meccanismo imperfetto, dal momento che è influenzato da molteplici fattori che possono intervenire nelle tre diverse fasi precedentemente citate ed ostacolare così la modalità corretta di codifica, mantenimento e recupero di un ricordo. Molti studi ed esperimenti hanno dimostrato che nell’osservazione e nel racconto di un evento, è fondamentale l’influenza delle caratteristiche proprie di un individuo, dei suoi schemi mentali e delle sue conoscenze pregresse, nonché delle caratteristiche della situazione. Si può affermare che l'attendibilità di una testimonianza possa essere determinata da due fattori principali: Accuratezza, ovvero la corrispondenza tra realtà oggettiva e soggettiva e Credibilità, ovvero il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a dichiararlo. Purtroppo gli esperimenti hanno evidenziato che il giudicante non è in grado di giudicare in maniera corretta l'attendibilità del testimone ed hanno messo in luce una sorta di processo inferenziale attraverso cui sembra che le persone, per giudicare l'attendibilità di un testimone, si affiderebbero al grado di sicurezza da lui stesso mostrato nel corso di una testimonianza.

Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi.

Non si può concludere che il grado di sicurezza ostentato da un testimone sia un parametro da considerare come predittore di attendibilità. Vale come esempio l’interrogazione in classe o ad un esame. Tutti si studia un certo tipo di testo, tanto da memorizzare le risposte ad eventuali domande che verranno poste, eppure, pur avendo una fonte in comune, tutti, dico tutti, daranno risposte differenti tali da produrre valutazioni e giudizi diversi da parte degli interroganti. Certo è che quasi nessuno di è impegnato ad approfondire il segreto inconfessabile dell’infanzia di Michele, emerso durante l’interrogatorio del prof. Coppi. Si rifiuta di rispondere alla domanda del professor Franco Coppi e confessa un segreto che finora, sostiene, non aveva avuto il coraggio di rivelare a moglie figlia. Michele Misseri racconta che il padre sotto quel fico gli riservava botte e, ha lasciato intendere, non solo quelle. Il particolare emerge durante il controesame di Sabrina. Dinanzi alla Corte d’assise di Taranto, Misseri smentisce che Sarah lo aveva «stuzzicato» allungando una mano verso di lui con un’intenzione sessuale, come aveva riferito il 7 ottobre 2010 al medico legale, professor Luigi Strada. «Perché lo ha detto, perché ha offeso la memoria della bambina. Lo ha detto allo psichiatra Primiani, lo ha ripetuto il 5 novembre». E Michele: «L’ho detto per farmi credere. Il 5 novembre l’ho detto per mantenere quella versione, poi me l’hanno fatto smentire. Ho detto tante bugie…» La violenza sul cadavere, spiega Misseri, «era una bugia con altre bugie». Perchè, sostiene, lui non ha mai tentato di violentarla e tantomeno ha oltraggiato il cadavere. «L’ho fatta trovare nuda nel pozzo e prima che me lo dicessero loro (gli inquirenti ndr) l’ho detto io». Michele spiega il significato che ha per lui il luogo in cui porta il corpo della nipote. «Sotto il fico mio padre mi picchiava». Ha subito altre violenze lì? Gli chiede Coppi. Michele, in difficoltà, non smentisce: «Questo è stato sempre un segreto, che non conoscono né mia moglie né mia figlia. Non vorrei rispondere a questa domanda». Il contadino di Avetrana afferma di essersi accusato falsamente della violenza per rendersi credibile ed esclude non solo il movente ma anche qualsiasi approccio sessuale con la nipote. Ammette solo la pacca datale sul sedere qualche giorno prima dell’omicidio e il rimprovero della ragazza: «Zio, se lo fai di nuovo lo dico a Sabrina». Spiega che ha perso le staffe quando gli ha sferrato un calcio alle parti basse, ma non fornisce nessun particolare, non versa una lacrima e non c’è pathos nel suo racconto dell’omicidio.

Secondo l’accusa, Misseri mente. Malgrado il suo atteggiamento che rende difficile la sua difesa, da una settimana è assistito dall’avvocato Luca La Tanza (il quinto difensore in due anni), Misseri continua ad essere un cliente ambito. Nel corso dell’interrogatorio spiega di aver ricevuto diverse proposte: «L’altro giorno mi è arrivato il telegramma dell’avvocato Canzona, di Striscia. In aula altri avvocati mi hanno messo i biglietti in tasca. Se fossi un santo – è la sua considerazione – probabilmente non sarei un cliente ambito».

18 dicembre 2012. Trentaquattresima udienza. Richiesta di sopralluogo garage e pozzo.

Si è conclusa alle 11,30 davanti alla Corte di Assise del Tribunale di Taranto la 34° udienza del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, uccisa il 26 agosto del 2010 ad Avetrana. La difesa di Sabrina Misseri, imputata di concorso in omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere, ha chiesto come mezzo di prova un nuovo sopralluogo nel garage da parte del padre Michele Misseri, imputato di concorso in soppressione di cadavere e di reati minori, perchè, come spesso lo stesso contadino ha detto durante la testimonianza resa nei giorni scorsi, quello del 15 ottobre del 2010, il giorno della prima chiamata in correità della figlia, si sarebbe svolto mentre lui era in condizioni fisiche non adeguate. Michele Misseri ha detto davanti alla Corte di essere stato in quella circostanza sotto l’effetto di tranquillanti. Alla richiesta si è associata la difesa di Cosima Serrano, madre di Sabrina, detenuta insieme a lei, con le stesse accuse. Inoltre l’avvocato Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri, fratello di Michele e imputato di concorso in soppressione di cadavere, ha chiesto un sopralluogo nella zona del pozzo in contrada Mosca dove venne sepolta la vittima e nella zona dell’albero di fico. I pm della Procura di Taranto vogliono riascoltare il colonnello Paolo Vincenzoni, comandante dei carabinieri del Ros di Lecce e il perito tecnico Giovanni Leo riguardo la questione delle celle telefoniche e l’analisi del telefonino di Sarah e su alcune intercettazioni ambientali. La difesa di Sabrina ha chiesto di riascoltare Alessio Pisello, amico della giovane imputata, di Sarah e di Ivano Russo, in particolare sui rapporti di quest’ultimo con altre ragazze, e il titolare del pub 102 di Avetrana dove Sabrina e la cugina Sarah trascorsero la sera precedente al delitto. In particolare su “sopraggiunti interessi affettivi di Ivano nei confronti delle altre ragazze” e Michele D’Ippolito, proprietario del pub in cui si trovavano le due cugine il giorno prima del delitto. Infine l’avvocato Serena Missere, difensore del nipote di Michele Misseri, Cosimo Cosma, ha chiesto di poter produrre una valutazione scientifica sull’autopsia eseguita dal medico legale Luigi Strada. Nel corso della prossima udienza prevista per l’8 gennaio la presidente della Corte Rina Trunfio deciderà su queste richieste.

Newtown come Avetrana. Tutto il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è assalita da onde di cronisti e camion tv.

Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini, tra i 5 e i 10 anni, sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con problemi mentali, Adam Lanza, poco più che ventenne. Dopo la sparatoria, non c’è tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa dai media e dai giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della BBC, Johnny Dymond, così come ripreso da “Giornalettismo”.

“E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o cinque famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i media qui. Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove dorme, uno degli abitanti, infastidito dalla troppa attenzione.  Il villaggio della scuola di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e crocevia di persone, le stradine non sono più le stesse.

Dymond racconta: «Sembra un bel posto, un classico villaggio del New England, con le case di legno bianco e negozi carini. Ma è difficile sapere che cosa è ora in realtà, perché da sabato è stato trasformato in un set, uno sfondo per lo sciame di giornalisti che ha raggiunto il posto. La strada principale, Church Hill Road, che porta verso la scuola elementare di Sandy Hook, è invasa dalle macchine. Difficile immaginarla diversamente come invece accade ogni giorno. Ho seguito storie di cronaca per 15 anni, alcune delle più grandi, e non ho mai visto nulla di simile, né mi sono così sentito a disagio nel farne parte. Nel piccolo parcheggio di fronte alla chiesa metodista, ci sono camion satellitari che fanno continuo rumore con i gas di scarico. Su e giù per la strada vagano cameraman, filmano il traffico, riprendono i negozi, le persone. -  Il cronista continua con raccontare dei camion che puntellano la zona - Nella parte inferiore della chiesa di Hill Road, dove la collina comincia a salire verso la caserma dei pompieri e la scuola, c’erano più camion, che corrispondenti per la diretta televisiva. Sabato scorso alcuni negozi hanno abbassato le saracinesche, solo due/tre avevano un messaggio di lutto sulle serrande. Oggi, un santuario di candele e orsacchiotti e messaggi attrae un flusso costante di visitatori, con filmati e interviste delle troupe televisive onnipresenti. - E non risparmia critiche verso i colleghi - Normalmente noi giornalisti siamo pressanti, sbattiamo i nostri nasi contro le finestre delle case, riportando tutto ciò che vediamo. Così gli abitanti della città, si fermano, guidando molto lentamente, stupiti del paradossale show che è calato in città. Ci sono centinaia e centinaia di giornalisti qui, tutti alla ricerca di un nuovo punto di vista su una storia che, in realtà, si è chiusa in pochi terribili minuti, questo venerdì mattina. Cosa altro si può dire sull’orrore? Forse non molto. Sabato scorso, nel giro di 10 forse 15 minuti, mentre ho cercato invano di convincere i membri di un club femminile di Newtown per un’intervista, ho visto una donna che mentre portava un cartello è stata assalita da più di una dozzina di cameraman e giornalisti. Nel bene o nel male, capisco il meccanismo delle notizie. La BBC ha solo quattro canali di informazione h24 (due radio, due televisioni, ciascuno rispettivamente per il pubblico nazionale ed internazionale) con bollettini televisivi di tre notizie al giorno, quattro notiziari radiofonici quasi tutti i giorni, riassunti della giornate e il nostro flusso on-line. E i network americani e canali via cavo nuovi hanno inviato decine di persone qui, per i loro notiziari e i loro programmi; CNN ha lanciato da Newtown praticamente una non-stop del massacro. - Il cronista spiega che il “troppo” soffoca - Sulle reti, programma dopo programma è tutto legato alla città. Non si può negare che si tratta di un evento straordinario che il pubblico vuole conoscere. Ma la nostra presenza nella piccola Sandy Hook è eccezionalmente pesante. E dopo un po’, c’è da chiedersi cos’altro c’è da dire. I bambini sono morti. I loro poveri genitori sono in lutto. La polizia non dice niente di più. Alcuni report somigliano allo strappo di un cerotto. Guardare, ascoltare o leggere troppo, cullandosi nel dolore degli altri. ‘Vai a casa’, mi suggerì l’uomo della hall, ‘Vai a casa’. E penso proprio che lo farò.»

Il paradosso e l’inverosimile è successo martedì 18 dicembre 2012 ad Avetrana. Mentre la mattina si teneva l’udienza presso la Corte di Assise di Taranto, il pomeriggio Avetrana veniva invasa da una moltitudine di turisti giapponesi. Questi, con l’immancabile macchina fotografica o la telecamera hanno immortalato il paese di Sarah Scazzi. Abbracciando gli stupiti ed a volte impauriti ragazzini che si trovavano lì in piazza centrale , li facevano mettere in posa per una foto ricordo nel “paese degli orchi”. E non solo. Domenica 16 dicembre 2012 su Canale 5 a “Domenica Live” Barbara D’Urso intervista Michele Misseri. Lui parla di un padre orco, un padre padrone che maltratta tutta la famiglia e che gli fa patire la fame.

Dice che lo legava all’albero di fico e lo seviziava, così come facevano altre persone. Non ha potuto studiare. Solo a quattordici anni ha iniziato a studiare e d preso la quarta elementare alle serali con suo fratello Carmine. La quinta l’ha presa al militare. A 21 anni ha conosciuto Cosima per una strana circostanza: aver sostituito Carmine alla vendemmia di un campo in cui c’era lei con altre braccianti. L’ha sposata dopo 6 mesi su spinta della madre. Michele dice che non è vero che mangiava gli avanzi. Erano tutti a mangiarli perché si andava in campagna e si cucinava in più per non perder tempo. I piatti li lavava volontariamente e dormiva sulla sdraio perché russava a letto, disturbando Cosima. Oggi dorme ancora sulla sdraio, perché avendo l’obbligo di dimora è soggetto a controlli anche notturni da parte dei carabinieri e quindi, dormendo nel letto non li sente. Ha lavorato in Germania nel cimitero per 3 anni e Cosima lavorava in una fabbrica di cioccolato, facendo i turni.

Michele durante le ferie estive lavorava in campagna ad Avetrana.

Valentina è nata il 9 febbraio 1982 e l’hanno portata in Germania quando aveva poche settimane e poi la lasciavano ad una badante portoghese che le insegno la sua lingua, tanto da non farle parlare più l’italiano. Sabrina è nata il 10 febbraio 1988. Quando è nata è stata una gioia ed era molto attaccata al padre. Sarah frequentava la casa di Sabrina. Michele spiega che era benvoluto da tutti, amici e parenti, e ora tutti lo hanno abbandonato , eccetto Salvatore morto da pochi mesi. Dice che scrive a Cosima e Sabrina, ma che non gli rispondono. Inoltre in aula lo guardano con odio. Spiega che nei primi 42 giorni non riusciva a dire la verità perché era chiuso in sè stesso, piangeva e nessuno gli chiedeva il perché. In quel periodo era in crisi di coppia, nessuno gli parlava ed ha cercato di uccidersi con un potente veleno. Non lo ha fatto per amor di verità.

Ha portato Sarah sotto il fico, perché lì era nascosto e la denudata perché voleva bruciare i vestiti e poi si è ricordato del pozzo. Non è stato al funerale perché in carcere. Ha detto che Anna è una bugiarda perché il gatto “Schinki” è il gatto di Sarah ed ha tre anni, Sabina non è capace di accavallare le gambe e non è golosa del cioccolato. Valentina non lo pilota e comunque, per non sentire maldicenze, la figlia quando viene da Roma sta a dormire da altre persone. Michele si chiede perché i testimoni sono usciti dopo e non prima dei 42 giorni e dice anche che non si immola per la figlia, perché se fosse stata lei, sarebbe stato il primo a denunciarla. Ha risposto in un certo modo perché informato male dall’avvocato, avendogli presentato la minaccia di arresto di altri innocenti. Era buono con tutti e per tutti, per questo non gli credono, nonostante le sue versioni siano sempre le stesse: psiche alterata per il caldo e perché il trattore non partiva; Sarah che disturbava e che quando veniva cacciata, sferrava un calcio ai testicoli dello zio che perdeva i lumi della ragione e che la uccideva senza accorgersi di farlo, nascondendo il malefatto a tutti, compreso Sabrina. La D’Urso, nonostante la versione del delitto sia stata identica a tante altre rilasciate nel tempo, cercava di trovare le contraddizioni e di cogliere in fallo Michele. La trasmissione sembra la sede per trarre in inganno l’ospite per farlo capitolare a favore della procura di Taranto. Ma Michele non ci è cascato. Ha risposto che i giudici non gli hanno mai creduto: hanno messo in mezzo la figlia, la moglie, il fratello e il nipote. Pensa sempre a Sarah tanto da avergli dedicato un altarino, presso il quale prega e mette dei fiori. E’ pentito e non sa perché lo ha fatto. Ha fatto trovare il telefonino, ha fatto trovare il corpo e lo ha fatto per rimorso e per questo dice la verità. Non va più in chiesa perché la gente lo attacca. Gli sono rimasti pochi amici e per parenti solo le nipoti. Chiede perdono a tutti, anche a coloro i quali non gli credono.

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA. Il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! E che dire dei moventi, a cercare qualcosa che si adatta si trova sempre. Per Sabrina Misseri è la gelosia. Ivano Russo: «C’è stato un momento che io mi sono sentito come un sospettato. Anche perché soprattutto mi ricordo al primo interrogatorio c’è stata una frase di un carabiniere. Parlandomi ha detto che….siccome mi stavano tenendo per parecchie ore, io gli ho chiesto “ma perché mi tenete qua tante ore” e lui mi rispose che praticamente…siccome a me era venuto a mancare mio padre, avevo…ero arrabbiato con l’esistenza, con Dio, poi…allora sarei stato capace di fare qualche cosa di grave, E lì ho incominciato ad aver paura di un errore giudiziario.» In virtù di una giustizia che va alla rovescia (chi si dichiara colpevole sta fuori, chi si dichiara innocente sta dentro) tutta la settimana, ed in special modo la domenica, tutti i talk show pomeridiani condotti da improvvisati conduttori, parlando di Michele Misseri, si concentravano a trovare breccia nelle sue dichiarazioni per minarne la sua attendibilità, fino a tendergli delle trappole televisive. Da un lato domenica 9 dicembre 2012, mentre venivano mandate in onda le dichiarazioni che Michele Misseri aveva rilasciato a Ilaria Cavo, Barbara d’Urso su Canale 5 intervistava Anna Pisanò, supertestimone dell’accusa al processo contro Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Lo zio di Sarah è intervenuto telefonicamente. Misseri si è scagliato contro Anna Pisanò, coinvolgendo anche la conduttrice Barbara d’Urso per quello che ha definito un programma colpevolista che influenza la gente: “Voi la verità non la conoscete. E quando questa uscirà, vedremo chi avrà ragione. Sono arrabbiato non con voi, ma con me. Tu Anna perché vai in televisione? Tu non c’eri quel giorno, sei una bugiarda, vuoi influenzare la gente così nessuno crede alla mia verità. Sarah non voleva più vederti, lo sai!”. Nel proseguo del 16 dicembre la stessa D’Urso, con la sua maschera napoletana, definendosi anch’essa figlia del popolo che conosce il modo di pensare nei paesini (sic) tendeva delle trappole a Michele per trarlo in inganno con l’intento di farlo capitolare e fargli confessare le colpe di Sabrina. Un chiaro esempio di servilismo e sottomissione ai magistrati ed uno sfregio ad una emittente televisiva, se pur privata, che arriva in tutte le case della gente. Né Michele, né sua moglie, né sua figlia da anni non capitolano e non certo perché sono dei professionisti del crimine. 11 ore di interrogatorio di Michele da aggiungere alle altre 11 precedenti e su richiesta di esame della difesa degli imputati non può conseguire per la stessa difesa una risultanza negativa, eppure per la stampa è stato così, influenzando in questo modo il popolino. Certo è che nessuno ha paventato l’ipotesi che confessando l’omicidio Michele Misseri deve essere accusato di omicidio e di calunnia e di falsa testimonianza in aggiunta agli altri reati contestatogli ovvero essere accusato di falsa testimonianza ed auto calunnia, sempre in aggiunta al resto dei reati già contestati. Ma quanto può essere attendibile un testimone ed il suo racconto? Quando si parla di testimonianza si intende il racconto di un evento, filtrato tramite l'esperienza di un narratore che ha vissuto la scena; è chiaramente implicita, dunque, la connotazione soggettiva della testimonianza. Parte proprio da questa semplice osservazione il nodo del problema che si pone a riguardo: quanto può essere attendibile una testimonianza? La testimonianza riporta sia una parte di verità oggettiva sia una costruzione soggettiva dei fatti, legata a componenti emozionali e situazionali che influenzano il ricordo, ma anche ad errori di memoria. Data la grande rilevanza della testimonianza diretta, è posta grande attenzione al testimone oculare in casi giudiziari, in particolare alle caratteristiche della testimonianza, nell'intenzione di giudicare nel miglior modo possibile l'effettiva veridicità della stessa; ma si può credere in assoluto ad un individuo che dice di ricordare esattamente un evento che “ha visto con i suoi occhi”? La memoria è un meccanismo imperfetto, dal momento che è influenzato da molteplici fattori che possono intervenire nelle tre diverse fasi precedentemente citate ed ostacolare così la modalità corretta di codifica, mantenimento e recupero di un ricordo. Molti studi ed esperimenti hanno dimostrato che nell’osservazione e nel racconto di un evento, è fondamentale l’influenza delle caratteristiche proprie di un individuo, dei suoi schemi mentali e delle sue conoscenze pregresse, nonché delle caratteristiche della situazione. Si può affermare che l'attendibilità di una testimonianza possa essere determinata da due fattori principali: Accuratezza, ovvero la corrispondenza tra realtà oggettiva e soggettiva, e Credibilità, ovvero il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a dichiararlo. Purtroppo gli esperimenti hanno evidenziato che il giudicante non è in grado di giudicare in maniera corretta l'attendibilità del testimone ed hanno messo in luce una sorta di processo inferenziale attraverso cui sembra che le persone, per giudicare l'attendibilità di un testimone, si affiderebbero al grado di sicurezza da lui stesso mostrato nel corso di una testimonianza.

Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato.

Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. «L'ultima volta che ho incontrato in carcere Sebai, circa 10 giorni fa, mi aveva chiesto la Bibbia.

Nonostante Sebai sia un musulmano – precisa il legale – mi aveva chiesto la Bibbia perchè io, da cristiano, gli ero vicino. - Secondo Faraon, che è anche presidente dell’Anveg, Associazione nazionale vittime errori giudiziari, Sebai, in carcere dal 1997, - decise di confessare altri omicidi nel 2006 per una crisi di coscienza, dopo aver appreso del suicidio in carcere di un tarantino condannato per uno degli omicidi confessati dal serial-killer». Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. L'avvocato Faraon ha chiesto che venga disposta l’autopsia sul corpo. Secondo quanto riferito dal legale, quando aveva sette anni il tunisino sarebbe stato colpito alla testa dal padre con una chiave inglese. Il colpo gli aveva provocato gravi lesioni cerebrali. Ed era del serial killer delle vecchiette l’impronta digitale dimenticata per 9 anni in casa della vittima. Fu rinvenuta su una scatola di caramelle «Rossana» nell’appartamento di Anna Maria Stella, la maestra settantenne di Trinitapoli sgozzata a scopo di rapina nella sua abitazione il primo maggio del ‘97. Ma per scoprire che appartenesse al serial-killer ci sono voluti 9 anni; la riapertura dell’indagine dopo la confessione dell’imputato arrivata nel 2006; l’intuito del pm foggiano Ludovico Vaccaro; gli accertamenti dei carabinieri del Ris. Proprio l’interrogatorio di un sottufficiale del Reparto investigazioni scientifiche di Roma ha caratterizzato l’udienza in corte d’assise del processo a Ben Ezzedine Sebai, il tunisino di 45 anni in cella dal settembre ‘97, già condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi di vecchiette e che nel 2006 ha confessato d’aver ucciso e/o aggredito 15 anziane negli anni Novanta in Puglia e Basilicata. Sostiene d’aver agito perchè erano le voci a ordinargli di ammazzare. «Recentemente la corte di Cassazione ha disposto l'annullamento con rinvio di una condanna a 18 anni di carcere - precisa Faraon – per un omicidio compiuto a Lucera (Foggia) per esaminare, anche sulla base della perizia del prof. Mastronardi, la sua capacità di volere». Il legale ribadisce che nelle vicende giudiziarie che hanno riguardato Sebai ha «sempre visto delle abnormità». «Due confessi omicidi che a Taranto non sono creduti. La magistratura requirente sposa una tesi spesso sbagliata e la magistratura giudicante gli va a ruota.

Non è la prima volta che succede. Non era tanto malsana l’idea di Franco Coppi di chiedere la rimessione del processo Sarah Scazzi in altro foro» spiega Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul delitto di Sarah Scazzi e su Taranto ha scritto dei libri inseriti nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Basta ricordare i precedenti. «Non ha altro da aggiungere per fare chiarezza definitiva su tutto?» ha chiesto a Michele Misseri l’avv. Franco Coppi, uno dei difensori della figlia Sabrina. «Devo chiedere solamente – ha risposto zio Michele - perdono a tutti, anche alla mamma di Sarah che io non ho voluto mai contraddire perchè dopo tutto ha perso una figlia. Io sto nei panni suoi. Io non ho mai commentato contro di lei». «Non volete la verità. Solo io sto facendo la verità per quella poveretta. Io l'ho ammazzata una volta, voi chissà quante volte l'avete ammazzata». Lo ha detto Michele Misseri rivolgendosi ai pm Mariano Buccoliero e Piero Argentino in aula durante il processo sull’omicidio su Sarah Scazzi. «Lei – ha aggiunto il contadino riferendosi a Concetta Serrano – è convinta che sono state mia figlia e mia moglie, ma se erano state loro perchè io mi devo assumere ancora la responsabilità? Non ce la faccio ad andare avanti, devo parlare anche per gli innocenti che stanno in carcere». E poi la violenza sul cadavere, spiega Misseri, “era una bugia con altre bugie”. Perchè, sostiene, lui non ha mai tentato di violentarla e tantomeno ha oltraggiato il cadavere. «L’ho fatta trovare nuda nel pozzo e prima che me lo dicessero loro (gli inquirenti) l’ho detto io». Michele spiega il significato che ha per lui il luogo in cui porta il corpo della nipote. «Sotto il fico mio padre mi picchiava». Ha subito altre violenze lì? Gli chiede Coppi. Michele, in difficoltà, non smentisce: «Questo è stato sempre un segreto, che non conoscono né mia moglie né mia figlia. Non vorrei rispondere a questa domanda». Caso Michele Misseri e caso Sebai, stessa sorte, stesso muro di gomma.

Il 13 febbraio del 2009 il giudice per l’udienza preliminare Valeria Ingenito emise sentenza di assoluzione per l’omicidio di Grazia Montemurro, la 75enne di Massafra ammazzata il 4 aprile del 1997, nei confronti del serial killer Ben Ezzedine Sebai, 43enne di Kairouan (Tunisia), reo confesso. Quella sentenza è stata impugnata dall’avv. Giorgio Faraon, difensore di Sebai, e dall’avv. Ignazio Dragone, legale di parte civile. Sebai dopo essere stato condannato in via definitiva a 4 ergastoli per l’assassinio di altrettante anziane, ha deciso di confessare altri 10 omicidi e un tentato omicidio. Autoaccusandosi, intende scagionare detenuti che a suo dire sono stati accusati ingiustamente. Il gup Valeria Ingenito lo ha condannato all’ergastolo per l’omicidio di Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza il 21 agosto del 1997, mandandolo assolto dai delitti di Celestina Commessatti, 73 anni (Palagiano, 13 agosto 1995), Pasqua Rosa Ludovico, 86 anni (Castellaneta, 14 maggio 1997) e, appunto, Grazia Montemurro. A puntare alla condanna di Sebai è in maniera particolare l’avv. Ignazio Dragone, costituitosi parte civile per conto dei parenti della vittima ma legale anche di Cosimo Montemurro, l’ex dj di Massafra condannato a 18 anni di reclusione per l’omicidio della zia Grazia. Secondo l'accusa, Cosimo Montemurro avrebbe assassinato sua zia perchè non sopportava più di essere rimproverato. Il cadavere dell'anziana fu rinvenuto nell'abitazione di via Felice Cavallotti. Il nipote, che aveva trascorso la giornata a Mottola, dove abitava la fidanzata, rientrò a casa intorno alle 22. Fra zia e nipote, secondo le motivazioni della sentenza di condanna, scoppiò l'ennesimo diverbio. Colto da un raptus, Montemurro avrebbe afferrato un coltello da cucina con la lama zigrinata e sferrato un fendente alla gola dell'anziana zia. Poi avrebbe abbandonato l'appartamento per incontrarsi con due amici. Intorno a mezzanotte, sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, il presunto assassino sarebbe tornato sul luogo del delitto per allertare le forze dell'ordine. Il giovane massafrese crollò dopo quattordici ore di interrogatorio, motivando la follia omicida con la reazione ad un pesante rimprovero da parte della donna. Il caso sembrava chiuso. Poi, il presunto assassino ritrattò tutto, attaccando i carabinieri che lo avrebbero indotto, con la forza, a dichiarare il falso. Con la confessione del serial killer, Cosimo Montemurro, tornato in libertà dopo 10 anni di carcere, è tornato a sperare nella revisione del processo. La maestra sgozzata Anna Maria Stella fu sgozzata e rapinata nella sua abitazione di Trinitapoli il primo aprile del ‘97. In quel periodo in tutta la Puglia c’era la psicosi del killer delle vecchiette che aveva già colpito ripetutamente e ucciso: entrava in casa di anziane che vivevano sole, le uccideva con coltelli o punteruoli, rovistando in casa e rubando ori e soldi. All’epoca della morte della maestra trinitapolese, Ben Sebai non era stato ancora catturato: successe qualche mese dopo, il 16 settembre del ‘97, quando il tunisino fu arrestato dai carabinieri in flagranza a Palagianello, in provincia di Taranto, subito dopo aver ammazzato l’ennesima vecchietta. In seguito all’arresto di Ben Sebai, la Procura foggiana lo indagò formalmente - l’informazione di garanzia per omicidio gli venne notificata in carcere nel novembre del ‘98 - per l’omicidio della maestra trinitapolese. Fu disposto l’esame del dna su una cicca di sigaretta trovata in casa della vittima per verificare se fosse di Ben Sebai: visto l’esito negativo di quell’accertamento, le accuse contro il tunisino in relazione all’omicidio Stella furono archiviate. Nessuno pensò in quella fase investigativa di verificare se le due impronte digitali trovate su una scatola di caramelle in casa Stella fossero del serial killer. Le indagini sull’omicidio Stella (ed anche il delitto Garbetta e l’aggressione alla foggiana Assunta Aprile) si riaprirono nel 2006 con la decisione di Ben Sebai, detenuto da 9 anni, di confessare 15 delitti. Il pm Ludovico Vaccaro riaprì le indagini sui casi foggiani; rilesse il fascicolo processuale relativo al delitto Stella (non era lui il titolare dell’inchiesta nel ‘97/98); notò che su una scatola di caramelle rinvenuta in casa Stella furono trovate due impronte digitali; ordinò al Ris d’accertare se appartenessero al seriale killer. Responso positivo per una delle due impronte, il che rappresenta un fondamentale riscontro alla confessione del tunisino: basti pensare che Ben Sebai ha anche confessato l’omicidio di due anziane per le quali non è stato creduto, tant’è che sono stati condannati altri imputati. Quando Ben Sebai fu arrestato nel settembre ‘97 e poi condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi si dichiarava innocente. La svolta e la confessione arrivarono 9 anni dopo nel carcere milanese: disse che le voci gli ordinavano di uccidere le vecchiette che gli ricordavano la madre e la nonna con cui da bambino aveva un rapporto di odio-amore. Il difensore, l’avv. Lucian Faraon, punta ad una perizia psichiatrica, ma Ben Sebai vi è stato già sottoposto recentemente per un altro omicidio scoperto dopo la confessione (quello della lucerina Madonna Celeste uccisa in casa il 24 aprile ‘96, per il quale è stato condannato a 18 anni) e gli esperti hanno escluso l’infermità mentale del serial killer.

La Vergogna di essere italiano. Faiuolo, Orlandi, Nardelli, Tinelli, Montemurro, Donvito sono innocenti, ma colpevoli solo per convinzione personale dei giudici? Ben Mohammed Ezzedine Sebai (il Killer delle vecchiette), che tra il 1995 e il 1997 si macchiò dell’omicidio di ben 14 anziane tra Puglia e Basilicata. Nonostante il legittimo sospetto che non vi potesse essere serenità di giudizio, ed non essendo prevista la ricusazione del PM, si è permesso di giudicare il Sebai a Taranto con il rito abbreviato per delitti di cui altri già erano già stati condannati dal quel foro e accusati, in particolare, dagli stessi PM. Nessuno delle parti in causa (pubblici ministeri, avvocati e giudice), che abbia chiesto la rimessione del processo in altro foro per legittimo sospetto di parzialità nel giudizio.

I media tacciono la vergogna. Nella puntata di “Agorà” dell’8 febbraio 2011 su Rai Tre, dalle 9.00 alle 11.00, sarebbe dovuta andare in onda un’inchiesta della giornalista Angela Caponnetto sulla censurata vicenda Sebai. Nell’inchiesta si sarebbero potute ascoltare le parole di Michele Donvito, fratello di Vincenzo, suicidatosi nel carcere di Teramo nel 2005, accusato dell’omicidio di Celestina Commessatti, uccisa nella sua abitazione di Palagiano, in provincia di Taranto, il 14 agosto 1995. Eppure già nel 1999 il tunisino Ben Mohamed Ezzedine Sebai si era dichiarato colpevole dell’omicidio della stessa, confessione rafforzata di particolari e dettagli solo nel 2006. In studio era presente anche la giornalista che per cinque ore ha intervistato Donvito sulla triste vicenda, che ha coinvolto e stravolto la sua famiglia, eppure, a detta del suo conduttore, Andrea Vianello, di tempo non ce n’è stato a sufficienza e il servizio è saltato. La Caponnetto è stata liquidata con delle semplici scuse e la vicenda rimane nell’oblio. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha accolto la richiesta di revisione del processo, trasmettendo gli atti alla Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Vincenzo Faiuolo, arrestato per il delitto di Pasqua Ludovico, anziana uccisa in provincia di Taranto negli anni '90.

Faiuolo è una delle otto persone arrestate per diversi omicidi di anziane uccise in Puglia in quegli anni. Omicidi dei quali poi si è confessato colpevole Ben Mohamed Ezzedine Sebai, soprannominato 'il serial killer delle vecchiette'. A darne notizia è l'avvocato Claudio Defilippi, legale dello stesso Faiuolo, condannato a 25 anni di carcere, di cui ne ha scontati 15 anni. Defilippi spiega che è stata accolta anche la richiesta di revisione del processo, con rinvio alla sezione per i minorenni della Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Davide Nardelli, all'epoca dei fatti minorenne, che fu condannato a 7 anni per il delitto di un'altra anziana e che ha già finito di scontare la pena. "La Cassazione dice che la revisione dei processi deve andare avanti. Chiediamo ora che siano riaperti i procedimenti per questi diversi omicidi", afferma Defilippi. Il signor Sebai viene schedato con foto ed impronte sin dal 1991, dai carabinieri di Bolzano. Egli, nel corso delle dichiarazioni rese al sostituto procuratore del tribunale di Milano, dottor Nobili, in data 10 febbraio 2006, e successivamente confermate, a dicembre 2008, davanti al sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor, Ludovico Vaccaro, ha confessato i seguenti omicidi, compiuti tra il gennaio 1994 ed il settembre 1997:

gennaio 1994, presunta vittima ignota, in assenza di riscontri investigativi, poi identificata a seguito dell'interrogatorio di Sebai avanti al pubblico ministero di Foggia (avvenuto nel dicembre 2008, come citato in premessa) in Aprile Assunta, la quale è l'unica vittima sopravvissuta;

8 luglio 1995, Vernetti Petronilla, anni 83, Melfi (Potenza), assolto;

13 agosto 1995, Commessatti Celeste, anni 83, Palagiano (Taranto), per il quale delitto sono stati condannati Nardelli Davide e Tinelli Giuseppe, minorenni all'epoca del fatto, e Donvito Vincenzo, suicidatosi nel 2006 nella Casa di Reclusione di Teramo;

24 aprile 1996, Madonna Celeste, anni 81, Lucera (Foggia), omicidio irrisolto, nel 2008 Sebai condannato a 18 anni;

30 maggio 1996, Garbetta Giuseppina, anni 72, San Ferdinando di Puglia (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai;

10 agosto 1996, Stano Anna, anni 85, Ginosa (Taranto), ergastolo;

15 gennaio 1997, Totaro Maria, anni 76, Cerignola (Foggia), ergastolo;

5 aprile 1997, Montemurro Grazia, anni 76, Massafra (Taranto), per il quale delitto è stato condannato diciotto anni di reclusione Montemurro Cosimo, nipote della vittima;

1o maggio 1997, Stella Anna Maria, anni 69, Trinitapoli (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai;

9 maggio 1997, Leone Santa, anni 82, Canosa di Puglia (Bari), processato e assolto;

14 maggio 1997, Ludovico Pasqua, anni 86, Castellaneta (Taranto) per il quale delitto sono stati condannati Faiulo Vincenzo e Orlandi Francesco, rei confessi;

28 luglio 1997, Valente Maria, anni 84, Palagiano (Taranto), ergastolo per il quale delitto, oltre all'ergastolo per Sebai, sono stati condannati anche Tinelli Giuseppe e la di lui madre e sorella;

21 agosto 1997, Lapiscopa Rosa Lucia, anni 90, Laterza (Taranto), ergastolo;

27 agosto 1997, Sansone Angela, anni 84, Spinazzola (Bari), ergastolo;

15 settembre 1997, Nico Lucia, anni 75, Palagianello (Taranto), ergastolo;

per il delitto del gennaio 1994, ai danni di Aprile Assunta, unica sopravvissuta delle 15 vittime, quantunque ricoverata in prognosi riservata, gli investigatori non rilevarono le impronte digitali e, inoltre, a dispetto delle accuratissime descrizioni dell'aggressore, fornite dalla vittima, non fu esperita alcuna ricerca fra le foto schedate nel casellario centrale. Un tale accertamento avrebbe potuto impedire tutti i successivi 14 delitti, risalendo ai dati del Sebai schedati sin dal 1991;

per il delitto del 13 agosto 1995, ai danni di Commessatti Celeste, il signor Sebai viene fermato con la refurtiva sottratta alla vittima, viene fotografato, vengono rilevate le sue impronte digitali e poi rilasciato. In tale circostanza, la negligenza investigativa, manifestatasi già nel 1994, assume connotati gravi aprono la strada ai successivi 5 delitti, confessati dal Sebai;

per il delitto del 1o maggio 1997, ai danni di Stella Anna Maria, nel corso delle indagini successive, furono rilevate le tracce di Dna sulle cicche di sigaretta, rinvenute sulla scena del delitto, nonché le impronte digitali. Comparato il Dna a quello di Sebai, risultando negativo, Sebai fu rilasciato senza comparare le impronte digitali.

Solo nel 2008, cioè 11 anni dopo, a seguito degli accertamenti disposti dal nuovo sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor Ludovico Vaccaro, si scoprirà che Sebai aveva lasciato l'impronta sulla scena del delitto Stella. L'accertamento sulle impronte, omesso nel 1997, consente al Sebai lo stato di libertà nel corso del quale compie altri 6 omicidi. ''La procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia l’avv. Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni “pur essendo innocenti”.

Altra vergogna, altro precedente.

15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.

Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la corte d’appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto».

In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere.

E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono.

Le persone che lo scagionavano furono condannate per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’assise d’appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Altro precedente: Non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro.

Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocenti ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi.

Per la Procura, che sostiene la tesi della colpevolezza di Sabrina e della madre Cosima per il delitto e la responsabilità di Michele Misseri solo per la soppressione del cadavere di Sarah, la ritrattazione della psicologa sono manna dal cielo, un supporto alle proprie tesi. Da tenere presente una cosa: trattare come veritiere le dichiarazioni di Dora Chiloiro rese nell’udienza preliminare e nella precedente testimonianza in Corte d’Assise o considerare quest’ultima trattazione come la vera verità? Certo che a rettificare la dichiarazione nello stesso procedimento, porta la Chiloiro a liberasi del fardello del procedimento penale per falsa testimonianza, non incorrendo così nelle conseguenze di carattere professionale. Questa cosa dà da pensare. Scegliere la propria carriera ed i propri interessi o salvare delle vite umane dal carcere?

Una scelta di carattere pratico o una strategia difensiva, oppure cedere al rimorso della coscienza? Questa è solo una considerazione di carattere logico, non una diffamazione nei confronti di chiunque. Anche perché a Taranto ogni logica, anche giuridica viene disattesa. Taranto dove i magistrati si sentono anche legislatori. I magistrati di Taranto hanno una loro ben definita contrapposizione: «Prendiamo atto che il governo, di fronte ad una situazione complessa e con gravi ripercussioni occupazionali, si è assunto la grave responsabilità di vanificare le finalità preventive dei provvedimenti di sequestro emessi dalla magistratura e volti a salvaguardare la salute di una intera collettività dal pericolo attuale e concreto di gravi danni», dice il segretario dell'Associazione magistrati (Anm), Maurizio Carbone, proprio a Taranto sostituto procuratore. Per Carbone «resta tutta da verificare la effettiva disponibilità dell'azienda ad investire i capitali necessari per mettere a norma l'impianto e ad adempiere alle prescrizioni contenute nell'Aia», tenuto conto che «sino ad ora la proprietà ha dimostrato di volersi sottrarre all'esecuzione di ogni provvedimento emesso dalla magistratura». Ed ancora non ha lesinato critiche al provvedimento d'urgenza di Palazzo Chigi: «È un'invasione di campo, dov'è finito il principio della separazione dei poteri? Il decreto legge vanifica di colpo tutti gli effetti dei provvedimenti presi dai magistrati per la tutela della salute dei cittadini. Il governo, così facendo, si è preso una grossa responsabilità». Per il gip di Taranto Patrizia Todisco la nuova Aia per l'Ilva «non si preoccupa affatto della attualità del pericolo e della attualità delle gravi conseguenze dannose per la salute e l'ambiente». L'attività produttiva dell'Ilva è «tuttora, allo stato attuale degli impianti e delle aree in sequestro, altamente pericolosa». I tempi di realizzazione della nuova Aia sono «incompatibili con le improcrastinabili esigenze di tutela della salute della popolazione locale e dei lavoratori del Siderurgico», scrive il gip. Tutela che «non può essere sospesa senza incorrere in una inammissibile violazione dei principi costituzionali» (articoli 32 e 41).

Come è possibile, sulla base di quanto emerso dalle indagini, «autorizzare comunque l'Ilva alle attuali condizioni e nell'attuale stato degli impianti in sequestro, a continuare da subito l'attività produttiva», senza «prima pretendere» gli interventi di risanamento? aggiunge il gip dicendo no al dissequestro degli impianti. La partita con l'Ilva non è finita, «abbiamo ancora qualche cartuccia da sparare», sorride amaro il procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, che proprio non ci sta a passare per «il talebano», così come viene definito sui giornali, «il pazzo nemico di 20 mila operai», «se solo avessi cinque minuti per un caffè con il presidente Napolitano e con Mario Monti racconterei loro dei bambini che qui nascono già malati di tumore...», si sfoga il vecchio magistrato. La Procura solleva eccezioni di incostituzionalità del decreto legge di Palazzo Chigi, chiedendo l'intervento della Corte Costituzionale. Il diritto all'eguaglianza, ad esempio: la legge è uguale per tutti, no?

Ma se la legge è nata per l'Ilva, dove finiscono i principi di astrattezza e generalità? Intanto, oltre al sindaco di Taranto, alcuni preti della città, alcuni giornalisti tarantini, alcuni parlamentari locali, l’inchiesta coinvolge anche la provincia. Così come per il delitto di Avetrana: nel dubbio, tutti dentro, avvocati compresi. L'inchiesta afferra il Presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, un passato importante da sindacalista quale ex segretario regionale della Cisl e un presente da dirigente locale del Pd. Un'informativa di 182 pagine in parte mutilata da omissis e allegata all'ordinanza di custodia cautelare che aveva già bussato al palazzo della Provincia, relegando agli arresti domiciliari l'ex assessore all'ambiente Michele Conserva, lo fulmina in poche righe. "Si evidenzia - scrivono i militari della Finanza - che alla luce di quanto accertato, vanno ascritte al dottor Gianni Florido, Presidente della Provincia di Taranto, specifiche responsabilità penali per il delitto di concussione o, in subordine, di violenza privata". Certo è che qualcuno dovrebbe spiegare ai magistrati, che si lamentano quando la legge si stila senza la loro dettatura, che non vi è scontro tra poteri, proprio perché la magistratura non è un potere.

Se l’articolo 1 della Costituzione detta che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ne consegue che Potere è quello Legislativo che legifera in modo ordinario e quello Esecutivo che legifera in modo straordinario. La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.” Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla. Per gli effetti l’art. 101 dichiara che “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.” Ergo: i magistrati devono applicare la legge, rispettarla e farla rispettare, non formarla, né criticarla. Non devono sentirsi portatori di una missione non loro. E nessuna risonanza mediatica può essere ammessa, in special modo quando vi sono interessi più grandi che quelli castali. E si deve ricordar loro, ai magistrati ed alla claque che li santifica, che c’è anche quella legge ambientale che prevede il dogma “chi inquina paga”. Non esiste il dettato tutto di stampo tarantino: “chi inquina, chiude i battenti e tutti a casa”, specialmente se l’industria che viene chiusa, con le tasse che paga, mantiene i suoi detrattori.» Una cosa è certa: a Taranto non si deve dire la verità. Chi parla paga. Così come è successo al dr Antonio Giangrande: denuncia la malagiustizia a Taranto e le pratiche mafiose a Manduria, paese retto da un commissario e sotto indagine per infiltrazioni mafiose, e viene processato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa.

Processo che dura da anni e che non vede fine. Giangrande, però, non può bearsi, come per Alessandro Sallusti, della “solidarietà” dei coraggiosi colleghi giornalisti, in quanto il Giangrande non fa parte di un Ordine, come tutti gli ordini professionali, di origine normativa fascista, ma è un semplice scrittore che racconta ai posteri quello che oggi non si osa dire.

SOLO A TARANTO. ILVA, SARAH SCAZZI, BEN EZZEDINE SEBAI. AVVOCATI SUCCUBI DEI MAGISTRATI. Nel resto d’Italia c’è una sana contrapposizione tra la funzione accusatoria e quella difensiva. Interessi diversi che portano PER FORZA a posizioni diverse. QUESTI SIGNORI GIURANO DI RISPETTARE E FAR RISPETTARE LA LEGGE. I MAGISTRATI HANNO L'OBBLIGO DI APPLICARE LA LEGGE NON DI EMANARLA. GLI AVVOCATI HANNO L’OBBLIGO DI DIFENDERE I CITTADINI INNOCENTI ACCUSATI INGIUSTAMENTE DAI MAGISTRATI, NON ESSERE LORO SCHIAVI. INVECE A TARANTO TUTTI FANNO TUTT’ALTRO.

Il decreto legge 207 sull'Ilva ha operato un «grave vulnus ai principi di obbligatorietà dell'azione e di indipendenza del pm» (articoli 112 e 107 della Costituzione) e questo «non appare tollerabile». Così scrive la Procura della Repubblica di Taranto nel ricorso inviato alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sul decreto legge salva-Ilva, convertito in legge il 20 dicembre 2012. Per i pubblici ministeri, il decreto ha fatto di peggio, ha cioè «legittimato la sicura commissione di ulteriori fatti integranti i medesimi reati» contestati, a partire ovviamente da quello di disastro ambientale. Per questi motivi la Procura chiede alla Consulta di dichiarare che «non spetta, nel caso di specie, al Governo della Repubblica autorizzare la prosecuzione dell'attività produttiva per periodo di tempo predeterminato», e che questa autorizzazione non può scavalcare gli eventuali provvedimenti di sequestro di beni dell'impresa adottati dalla magistratura. La vicenda Ilva, al di là degli aspetti processuali e penali, è di «enorme importanza da un punto di vista sociale ed etico» ha voluto chiarire il procuratore, Franco Sebastio, e per questo motivo è stato chiesto alla Corte costituzionale «un contributo di chiarezza», ma «non c'è nessuno scontro». Dubbi di costituzionalità della legge vengono affacciati anche dal presidente dell'Ordine degli avvocati di Taranto, Angelo Esposito, che parla di «problema serio di sospensione dei provvedimenti giudiziari». Per Esposito, se il provvedimento «fosse stato intrapreso da un governo di qualunque matrice politica, sarebbe scoppiata una rivoluzione», ma «è la prima volta che un governo sospende un reato a tempo» e che «assistiamo ad una intromissione così invasiva ed efficace del governo e del legislatore rispetto alla magistratura». Non solo, ma «non è serio dire che chi difende l'operato della magistratura è contro il lavoro», sottolinea Esposito, perchè «se la procura è intervenuta, è perchè aveva il dovere di farlo». Che ci sia o meno scontro istituzionale, sulla legge salva-Ilva si vanno definendo posizioni nette: da una parte magistrati e avvocati, dall'altra governo e, ovviamente, azienda.

Con questo scenario si va chiudendo un tormentato 2012 per lasciare il posto ad un 2013 che non si preannuncia affatto tranquillo per il colosso siderurgico.

Ed è giallo di Natale nei luoghi della tragedia di Sarah Scazzi. Era stata dai parenti per il pranzo di Natale e poco dopo il rientro a casa è stata trovata impiccata all’albero del suo giardino. Così l’inspiegabile fine di una donna di 37 anni, Oksana Warkentin, originaria del Kazakistan ma residente ad Avetrana, dove viveva con il marito e due figli minorenni. Nessuno dei familiari sa darsi una spiegazione. La signora non pare soffrisse di depressione né di altre patologie della mente. I parenti hanno detto ai carabinieri che a pranzo era stata serena, aveva dialogato a lungo con le cognate e si era congedata senza nessun segnale che potesse presagire un gesto suicidario. Il dramma si è consumato proprio la sera del 25 dicembre 2012 in una villetta della cittadina jonica, scrive Mario Diliberto su “Il Nuovo Quotidiano di Puglia”. Il cadavere della donna che penzolava da un ramo è stato trovato dal figlio di quindici anni.

E’ stato lui a tirare giù il corpo della mamma. La stava cercando dopo averla sentita litigare con il papà. Proprio l’uomo uscendo di casa si era rivolto al figlio. «Vai a consolare tua madre» gli aveva detto, prima di imboccare la porta per recarsi in un bar vicino.

Cinque minuti dopo il ragazzino si è fiondato verso quella zona del giardino, proprio dietro la casa. Per la mamma quell’albero era il luogo dove fermarsi a fumare e magari a riflettere su un menage familiare pare alquanto accidentato. Quando il quindicenne ha visto il cadavere penzolare dal ramo lo ha tirato giù. Poi ha avvisato il padre ed un vicino. Assieme al padre, poi, l’avrebbe liberata dalla cintura e trascinata sul divano dove avrebbero tentato di rianimarla ma inutilmente. E solo dopo è stato avvisato il 118. Quando è intervenuto il 188 la donna era già morta. Quando sono giunti in casa i soccorritori non hanno potuto fare altro che constatare la morte della donna, una casalinga di nazionalità tedesca. I dettagli della tragedia, però, hanno insospettito i carabinieri. Su quella ricostruzione ora indagano i carabinieri che coordinati dal pm Maurizio Carbone conducono l’inchiesta con l’ipotesi di reato di induzione al suicidio per il momento senza indagati. Il marito e il figlio sono stati interrogati per ore. Sempre secondo la versione dei familiari, la vittima quella sera aveva litigato con il marito che ad un certo punto è uscito per andare al bar raccomandandosi con il figlio di consolare la madre. Sarebbe stato allora che il ragazzo è andato a cercare la madre facendo la terribile scoperta. Gli investigatori hanno acquisito le registrazioni delle telecamere della villetta dove è avvenuta la tragedia ma pare che proprio quella che avrebbe potuto riprendere la scena dell’impiccagione non era in funzione. E qualcosa davvero sembra non tornare se il giorno di Santo Stefano, ad Avetrana sono piombati il pubblico ministero di turno Maurizio Carbone ed il comandante del nucleo operativo dei carabinieri Giovanni Tamborrino, in compagnia del medico legale Marcello Chironi. Il magistrato e i carabinieri hanno lungamente interrogato il marito della vittima ed il figlio che ha fatto la tragica scoperta. Dal loro racconto sono emersi i momenti del burrascoso Natale trascorso in quella casa. Con una lite tra coniugi a pranzo e proseguita a cena. Sino a quando l’uomo, un idraulico di 37 anni, è uscito invitando il figlio a “consolare” la madre. I militari hanno repertato la vecchia cintura, forse una delle bretelle di uno zainetto, che la casalinga avrebbe utilizzato per impiccarsi. La cinta sarà esaminata dagli esperti della sezione scientifica. Ed il pubblico ministero Maurizio Carbone ha disposto l’autopsia che sarà effettuata quasi certamente domani. L’esame autoptico sarà decisivo e servirà soprattutto a decifrare i segni sul collo della vittima e la loro compatibilità con il suicidio.

Tra amori che portano alla morte e amori non corrisposti ad Avetrana succede di tutto.  Si chiama Fiorella, è sposata, ha cinquant’anni e vive a Roma, scrive Nazareno Dinoi su “Il Corriere della Sera”. È lei la «pasionaria» di Michele Misseri, la donna che gli scriveva accorate lettere quando il contadino di Avetrana si trovava ancora in carcere per il delitto di Sarah Scazzi. Una corrispondenza molto calorosa, che forse non si è interrotta con la scarcerazione per decorrenza dei termini (superfluo dire che l’uomo è imputato nel processo in Corte d’assise e deve rispondere di soppressione del cadavere della nipote quindicenne), e della quale si trova traccia negli atti del processo. In particolare nel fascicolo che raccoglie le trentasette lettere ed altri documenti sequestrate dai carabinieri il 17 gennaio 2011 nella cella di zio Michele. Le missive in questione portano la data del 6 e 20 dicembre del 2010.

In quel periodo, il papà di Sabrina e marito di Cosima Serrano, le due donne in carcere perché accusate di avere ucciso la ragazzina, aveva preso a scrivere lettere e memoriali indirizzate ai suoi familiari (soprattutto alla figlia Sabrina tuttora detenuta), che non hanno mai risposto al mittente. A compensare questa carenza d’affetto, di cui Misseri comincia a lamentarsi nel suo «diario della tristezza e del dolore» consegnato in questi giorni alla Corte d’assise (cinque quaderni di computisteria scritti di suo pugno), a lenire le ferite, almeno allora, ci ha pensato Fiorella. «Ti scrivo per dirti quanto sono triste per tutto quello che ti è accaduto», si legge nella corrispondenza datata 6 dicembre. Con una grafia elementare ma chiara e priva di errori, la donna romana fa chiari apprezzamenti sul detenuto di Avetrana. «Si vede dal tuo viso che sei una persona per bene». Poi si spinge più in là: «Un uomo dolce con occhi meravigliosi che incantano». Sino alla dichiarazione più esplicita: «Se non fossi sposata - scrive - ti porterei con me a Roma, lontano da tutto quel dolore».  Il primo a non credere a tanta dolcezza, forse, sarà stato lo stesso Michele poco abituato a simili affettuosità in un periodo così triste per la sua esistenza. Di sicuro gli avrà fatto bene vedere i tre cuoricini disegnati alla fine della lettera sotto il nome della sua ammiratrice: tre simboli dell’amore con dentro scritte frasi di affetto e di speranza: «Sei sempre nel mio cuore», «uscirai presto» e «sei una persona meravigliosa». Due settimane dopo a Michele fu consegnata un'altra lettera. Sullo stesso foglio a quadretti è ancora Fiorella a scrivergli. «Come vedi torno a scriverti con la speranza di darti un po’ di compagnia e affetto. Mi sta molto a cuore la tua situazione — insiste la signora — e vorrei che finisse tutto al più presto possibile». Sempre con l’intento di alleviare le sofferenze della persona internata, la cinquantenne romana invita Michele Misseri a «pensare che ti sei preso un periodo di riposo, visto che hai lavorato tanto nella tua vita». La chiusura della lettera è più intima. «Anche se non mi vedi, io sono sempre vicino a te. Un bacio sui tuoi splendidi occhi».

8 gennaio 2013. Trentacinquesima udienza. Parla Paolo Arbarello.

È la prima udienza del 2013 davanti alla corte d’assise di Taranto per il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Dinanzi alla corte d’assise dovrebbero presentarsi gli ultimi due testimoni, Liala Nigro, amica del cuore di Sabrina Misseri, e il professor Paolo Arbarello, luminare di medicina legale, consulente della difesa di Sabrina Misseri. Il perito della difesa di Sabrina demolisce la perizia dell’accusa redatta dal medico legale Luigi Strada. Il professor Paolo Arbarello, direttore del dipartimento di medicina legale dell’Università La Sapienza di Roma, citato dal professor Franco Coppi (sostituito oggi dall’avvocato Roberto Borgogno) e dall’avvocato Nicola Marseglia, solleva una serie di obiezioni su metodo e conclusioni. Secondo il perito, i segni trovati sul collo della povera Sarah Scazzi, durante l’autopsia effettuata il 7 ottobre 2010, quindi a distanza di 43 giorni dal delitto e a poche ore dal ritrovamento del cadavere nel pozzo, in contrada Mosca, non sono quelli di uno strangolamento. Il tessuto esaminato, spiega riferendosi al segno trovato sotto il mento, non presenta emorragie, sostiene il docente universitario sulla base dell’esame della documentazione fotografica e della relazione dell’esame autoptico: «Non si tratta di un segno dovuto ad una compressione, perché non ci sono segni di stravaso emorragico». «Non ci sono elementi per affermare con certezza che la sfortunata ragazza sia morta per strangolamento». Arbarello ha fatto presente che «il livello in cui si colloca la lesione non è compatibile con lo strangolamento.

Guardando le foto, la fascia è molto sotto il mento. Non c'è una ragione che mi spieghi, anche in termini isto-patologici, perchè – ha aggiunto – la cute della povera ragazza immersa in acqua abbia questa fascia preservata.» Il solco biancastro rilevato sarebbe, secondo Arbarello, più compatibile con l’impiccamento. La compressione del collo, ha precisato il docente universitario, avrebbe dovuto provocare un’emorragia che non è stata riscontrata in sede di esame autoptico. Arbarello ha criticato la metodologia utilizzata dal medico legale Luigi Strada, consulente dei pubblici ministeri, sia in relazione alla scelta di eseguire un solo prelievo, ai fini degli esami istologici, per la zona che riguarda il collo, sia per l’esame del contenuto gastrico e intestinale, ritenuto non approfondito. «E' irrituale – ha detto Arbarello – che nel corso dell’autopsia non si faccia un prelievo del contenuto gastrico». Il 'solco biancastro' rilevato dal medico legale Luigi Strada, secondo Arbarello, deriva «quasi certamente dalla postura della ragazza, che aveva il capo reclinato da un lato e pressava sul tronco». Si tratta del «tratto di pelle meno compromesso dal resto del processo di macerazione nell’acqua». L’esperto ascoltato in aula ritiene che non ci siano elementi per stabilire se la ragazzina sia morta strangolata e se l’arma del delitto sia una cintura. I processi di putrefazione e di macerazione provocati dall’acqua hanno cancellato molte tracce, quindi, secondo Albarello, è impossibile stabilire con certezza se il solco trovato sulla parte posteriore del collo sia stato provocato da una cinta: «Non abbiamo cinture, corde o altri oggetti con cui confrontare quella lesione. Dopo oltre 40 giorni in cui il corpo è stato in quelle condizioni, la macerazione rende impossibile identificare dei segni di una cintura o delle cuciture esterne». Il perito della difesa sottolinea di essere in «dissenso totale» con le conclusioni del suo collega Strada e di ritenere che la 15enne di Avetrana sia stata impiccata e non strangolata in considerazione del fatto che il segno «è troppo al di sotto del mento rispetto a quanto riscontrato in numerosi casi di strangolamento». Rispondendo alle domande dei pubblici ministeri e della difesa, Arbarello ha precisato che «Strada attribuisce la macerazione ritardata della cute a una compressione di una zona di derma, ma non c’è alcun segno di compressione e non si evidenziano aree di infiltrazione emorragica». Quanto all’ ipotesi che Sarah sia stata strangolata, il consulente ha detto che «non abbiamo un confronto tra la lesione e il mezzo che l’ha provocata.

Sono indicazioni puramente teoriche. Arbarello ha mosso anche rilievi sulla situazione di stress che secondo Strada avrebbe potuto accelerare la digestione dei cibi ingeriti da Sarah prima di morire. Può accadere l’esatto contrario – ha sostenuto il consulente di Sabrina – cioè che lo stress possa aver «bloccato la digestione». «Non concordo con quanto affermato dal prof. Strada, il quale ha sostenuto che la mancanza di ulteriori lesività della struttura del collo sta a significare che la vittima sia deceduta rapidamente nell’arco di due-tre minuti. Ulteriori lesività sono impossibili da vedere con il processo di macerazione del corpo immerso in acqua. L’azione omicidiaria, anche se non è un elemento importante, secondo il mio parere è durata almeno quattro-cinque minuti». Sicuramente, ha aggiunto, «c'è stata una iposia con insufficienza cerebrale acuta che ha fatto perdere ossigeno al cervello». Arbarello ha anche giudicato «molto discutibili le affermazioni di Strada che ha prima ha detto che i segni sulle braccia di Michele Misseri erano compatibili con due unghiature e in un secondo momento ha sottolineato di essersi sbagliato perchè c'erano state lesioni da grattamento che avevano potuto comportare delle modifiche». Dopo la deposizione del consulente di Sabina Misseri, Paolo Arbarello, è saltata la deposizione di Liala Nigro, amica di Sabrina, che ha comunicato di essere tornata in Polonia dove sta studiando per il progetto Erasmus e di essere impossibilitata a testimoniare. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino aveva chiesto alla Corte di rinunciare al suo esame e di acquisire le dichiarazioni rilasciate dalla teste nella fase di indagini preliminari, ma la difesa si è opposta. La corte si è riservata di decidere. La difesa di Sabrina aveva già chiesto l’esame di Alessio Pisello e del gestore di un pub di Avetrana e un nuovo sopralluogo nel garage da parte di Michele Misseri perchè lo stesso contadino ha spesso detto che quello del 15 ottobre del 2010, il giorno della prima chiamata in correità della figlia, si sarebbe svolto mentre lui era in condizioni fisiche non adeguate perché gli erano stati fatti assumere tranquillanti. I legali hanno chiesto di ascoltare in aula la registrazione degli interrogatori di Michele Misseri del 6 e 7 ottobre 2010 nei quali il contadino confessa di essere l’autore dell’omicidio della nipote. I pm hanno espresso parere negativo. Dopo l’ascolto di una intercettazione video e audio in carcere, di un dialogo fra Michele Misseri e il fratello Salvatore (deceduto alcuni mesi fa), il processo è stato aggiornato a lunedì 14 gennaio dal presidente della Corte d’assise di Taranto Rina Trunfio per la decisione sulle richieste di integrazione probatoria fra cui quella, avanzata dalla difesa, di riportare Michele Misseri nell’abitazione del garage di via Deledda per un nuovo sopralluogo. La Corte deciderà anche sull’esame della teste Liala Nigro, l’amica del cuore di Sabrina, citata dalla difesa dell’imputata.

Intanto a contorno della vicenda la notizia aveva dell'incredibile, pur in una campagna elettorale come quella attuale, che di colpi di scena ne ha già visti molti: a metà del 7 gennaio alcuni siti internet riferivano che il Partito dei Pensionati aveva offerto un posto in lista nientemeno che a Michele Misseri, lo zio Michele coinvolto nell'omicidio di Sara Scazzi ad Avetrana. Possibile? Contattato da Tgcom24, Michele Misseri negava risolutamente, definendo la notizia una "buffonata", l'ennesima "bufala" nei suoi confronti. "Io con la politica non ho e non avrò mai nulla a che vedere" ha spiegato con la rabbia nella voce. Insomma: sospettato di omicidio è un conto, ma in politica mai e poi mai. Si deve riflettere su una cosa. Persino Michele Misseri ha schifo di questi nostri politici. "Ma che candidato? Io di questa storia non so nulla". Michele Misseri cade dalle nuvole quando gli chiedono se è davvero in corsa alle prossime elezioni. Lo zio di Avetrana, autodichiaratosi l'assassino della nipote Sarah Scazzi, imputato nel processo per soppressione di cadavere della 15enne, lascia per un momento la cronaca nera per finire nella politica, argomento caldo in vista delle elezioni di febbraio 2013. C'è infatti chi lo inserisce nella mischia diffondendo un comunicato in cui si fa il nome. "E' una buffonata, non ne so niente. Non sono mai stato avvicinato da nessuno. Forse farò una denuncia perché ancora non si sa proprio nulla. Ormai scrivono di tutto, quindi forse è una provocazione. La cosa più importante per me è il processo, la politica non la seguo". Il numero fisso di un fax di una agenzia di onoranze funebri di Milano e un cellulare dal quale ogni volta il tizio dà un nome diverso, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. E' una bufala la notizia circolata attraverso un falso comunicato stampa recapitato nella posta elettronica degli organi di informazione pugliesi che annuncia la discesa/salita in campo di Misseri con i pensionati italiani. In tempo di liste, un nome che sorprende e lascia di stucco. Troppo assurdo per essere vero e infatti di falsa notizia si tratta. Come aveva fatto sospettare anche il legale dell'uomo, tagliando corto: "Non ne so nulla, ma non se ne parla proprio", la sintesi delle sue parole. Sul web intanto si è scatenata l'ironia, con i creativi di Quink che hanno lanciato lo slogan "Michele Misseri - Il senso dell'ho stato". Il comunicato era arrivato in mattinata: "Vi comunichiamo - si legge nelle righe - che il Sig. Michele Misseri ha accettato la candidatura nella lista civica dei pensionati italiani per le prossime elezioni politiche 2013. Lo stesso si presenterà per la Circoscrizione XXI (Puglia). La candidatura è possibile perché il regolamento del Ministero degli Interni impone, al fine della ammissione nelle liste, che tutti i candidati presentino un certificato di iscrizione nelle liste del Comune di appartenenze, un certificato di godimento dei diritti politici ed un certificato penale.

Ebbene dal certificato penale del Sig. Michele Misseri rilasciato qualche giorno fa risulta 'NULLA'. Il noto procedimento penale che ha in corso risulta sui carichi pendenti della Procura ma tale documento non è richiesto per la candidatura e non rileva per la stessa. Distinti saluti". Seguono i numeri di telefono fasulli e, presumibilmente, i sospiri di sollievo. Il Partito pensionati informa inoltre di essere del tutto estraneo alla vicenda che "non ha nulla a che fare con le battaglie per la dignità e i diritti dei pensionati, da sempre condotte dal partito".

14 gennaio 2013. Trentaseiesima udienza. Michele Misseri. La prima e l’ultima confessione a confronto.

In aula è stata ascoltata la registrazione integrale dell’interrogatorio reso da Michele Misseri la notte tra il 6 e il 7 ottobre 2010, quando confessò di essere l’unico autore del delitto. Nell’aula della Corte d’assise dove è in corso la trentaseiesima udienza del processo Scazzi riecheggia la voce dell’interrogatorio di Michele Misseri quando confessò per la prima volta l’omicidio ritrattato poi con l’accusa alla figlia Sabrina Misseri. La Corte presieduta dalla giudice Rina Trunfio ha accolto la richiesta avanzata dalla difesa della cugina della vittima, principale sospettata dell’omicidio, che ha chiesto di riascoltare la registrazione originale delle drammatiche deposizioni della sera del 6 ottobre del 2010 e della notte seguente in cui il contadino di Avetrana fece trovare il corpo della nipote nel pozzo in contrada Mosca. La stessa corte ha respinto invece la richiesta di un nuovo sopralluogo sui luoghi del delitto. L’imputato che ora si accusa nuovamente del delitto, ascolta in silenzio le sue parole registrate. Così alle 21,15 del 6 ottobre del 2010 Michele Misseri confessò di avere ucciso la nipote Sarah Scazzi e di averne gettato il corpo nel pozzo in contrada Mosca. E’ importante riascoltare la prima confessione del 6 e 7 ottobre 2010, perché spontanea e genuina, non contaminata da interferenze psicologiche esterne. Fattori di disturbo create dai familiari, dagli inquirenti, dagli avvocati e dai consulenti e per ultimo dai media. Influenze e fattori di disturbo psicologici, consapevoli ed inconsapevoli, che per la loro autorevolezza creano pressioni psicologiche ad un contadino non avvezzo al crimine come può essere un killer di professione od indole.  Intanto sono state respinte dalla Corte d’Assise quasi tutte le richieste di integrazione probatoria nel processo per l’uccisione di Sarah Scazzi, compresa quella della difesa di Sabrina Misseri di un nuovo sopralluogo nel garage con Michele Misseri. Questa richiesta era stata fatta perchè Misseri ha spesso detto che il sopralluogo del 15 ottobre 2010, giorno della chiamata in correità della figlia, si sarebbe svolto mentre lui era in condizioni fisiche non adeguate perchè gli erano stati fatti assumere tranquillanti. E' stata respinta anche l’istanza del pm Mariano Buccoliero di ascoltare nuovamente il colonnello Paolo Vincenzoni, del Ros di Lecce (sull'accertamento tecnico sulle celle telefoniche agganciate dai telefonini di alcuni imputati il 27 agosto 2010) e il perito Giovanni Leo (in relazione ad intercettazioni ambientali sia in carcere del 18 aprile 2011 tra Michele Misseri e alcuni parenti sia all’interno dell’auto di Carmine Misseri dell’8, del 16 e del 24 novembre 2010). La Corte ha accolto la richiesta del pm di acquisire un’intervista televisiva rilasciata da Ivano Russo alla trasmissione “La vita in diretta” del 3 dicembre 2012, la nota dei carabinieri sulle foto del garage che riprendono il trattore e il manuale in cui viene indicato come funziona il “sistema di attacco a tre punti” di cui ha parlato Michele Misseri in aula. Trascrizione dell’interrogatorio trasmesso nell’aula della Corte d’assise di Taranto dove è in corso il processo sull’uccisione della quindicenne di Avetrana.

Pm Buccoliero: «serenamente e tranquillo. Ce lo dica. Lei sa che Sarah non ha avuto ancora il battesimo vero? Almeno ce lo faccia fare questo battesimo con serenità. Non si può portare per tutta la vita una cosa del genere, una bambina di 15 anni. Purtroppo, ripeto, capitano queste disgrazie. Almeno ci dica dove sta il corpo, almeno quello.»

Dopo alcuni secondi di silenzio….

Misseri: «allu Mosca.»

Pm Buccoliero: «ma dov’è alla Mosca?»

Misseri: «vicino al fondo di mio padre».

Pm Buccoliero: «ma in un pozzo o sottoterra?»

Misseri: «in un pozzo, se volete vi posso portare.»

Pm Buccoliero: «possiamo andare? Ci porta adesso?»

Misseri: «solo che non si vede…»

Pm Buccoliero: «non fa niente. »

Pm Argentino: «non fa niente, non si preoccupi…»

Pm Buccoliero: «e così ci andiamo insieme, tutti e due insieme. Va bene? Posso venire pure io?»

Misseri: «si. »

Pm Buccoliero: e il procuratore?»

Misseri: «solo che non si vede niente adesso là…»

Pm Buccoliero: «non si preoccupi… stia tranquillo, in macchina ci mettiamo io, il procuratore e lei. Facciamo

guidare i carabinieri, però adesso ci dica…»

Misseri: «perché? Non lo posso raccontare in un secondo tempo? Quello che è successo, la vicenda…»

Pm Buccoliero: «no, diccelo adesso con calma, almeno per ricostruire…»

Pm Argentino: «almeno più o meno cosa è successo.. »

Misseri: «quindi, lei è scesa in cantina, non so come abbia successo.»

Pm Buccoliero: «ma perché è scesa signor Misseri?»

Misseri: «non lo so. Quel giorno mi stavo confuso e le ho messo una corda al collo.»

Pm Buccoliero: «e perché signor Misseri? Non le voleva bene alla bambina?»

Misseri: «si, lo so, però non… non so. …e l’ho uccisa.»

Ha pianto Sabrina Misseri durante l'ascolto in aula della registrazione dell’interrogatorio reso dal padre, Michele, il 6 ottobre 2010, quando confessò di aver ucciso la nipote Sarah Scazzi e consentì il ritrovamento del cadavere. Sabrina Misseri, in carcere insieme alla madre Cosima Serrano, è accusata di omicidio volontario. In particolare, Sabrina non è riuscita a trattenere le lacrime nella parte della registrazione in cui Michele Misseri, incalzato dal pubblico ministero Mariano Buccoliero che gli chiedeva di collaborare per dare alla ragazzina “una degna sepoltura”, indicò il luogo in cui aveva seppellito il cadavere. Questa è invece la identica confessione-testimonianza resa il 5 dicembre 2012 durante il processo. E’ importante riascoltare la prima confessione del 6 e 7 ottobre 2010, perché spontanea e genuina, non contaminata da interferenze psicologiche esterne. Fattori di disturbo create dai familiari, dagli inquirenti, dagli avvocati e dai consulenti e per ultimo dai media. Influenze e fattori di disturbo psicologici, consapevoli ed inconsapevoli, che per la loro autorevolezza creano pressioni psicologiche ad un contadino non avvezzo al crimine come può essere un killer di professione od indole. «Ho ucciso io Sarah, questo rimorso non lo posso più portare dentro di me….Il trattore non partiva ero già nervoso dalla mattina. Il portone del garage era tutto aperto: Sarah non l'ho vista scendere, è giunta improvvisamente alle mie spalle. Mi ha chiesto perché stavo gridando. Non so cosa volesse. Io ho detto “Sarah vattene”. Non ho capito bene cosa voleva da me. Mi stava dando fastidio così ho preso la corda e l'ho uccisa.» Si è conclusa l’udienza del processo Scazzi. Nella prossima udienza prevista per il 29 gennaio  è previsto l’interrogatorio di Liala Nigro, citata come testimone dalla difesa di Sabrina, essendo stata forse la migliore amica di quest’ultima, che però in diverse occasioni non si è presentata in udienza senza addurre giustificazioni valide, per questa è stata multata di 500 euro. La Corte ha stabilito che, se non dovesse presentarsi in quella data, sarà sentita utilizzando la procedura della rogatoria internazionale, in quanto la giovane si trova in Polonia per il progetto Erasmus. Inoltre Michele Misseri potrà lavorare tranquillamente nei campi per l’intera giornata. La Corte d’assise di Taranto ha revocato l’obbligo di doppia firma a cui era sottoposto dal 26 novembre 2011 accogliendo la richiesta avanzata dal suo difensore, avvocato Luca La Tanza. Quindi, il contadino non dovrà più recarsi in caserma a firmare due volte al giorno, dalle 12 alle 13 e dalle 17 alle 18 ed osservare, quindi, obblighi ritenuti eccessivamente restrittivi poichè rappresentavano un ostacolo per il suo lavoro di agricoltore. La Corte, invece, ha confermato l’obbligo di dimora che scade a novembre prossimo e il divieto di uscire di casa dalle 19 alle 7. Il provvedimento è stato parzialmente confermato in quanto il processo è ancora in corso. Il provvedimento è stato adottato dal gup Pompeo Carriere il 26 novembre di due anni fa su richiesta avanzata dalla Procura subito dopo una “trasferta” di Michele a Roma per prendere parte come ospite ad una diretta televisiva. Per raggiungere rapidamente gli studi capitolini della trasmissione “Matrix”, secondo l’accusa, aveva firmato il registro dei carabinieri della caserma di Avetrana in anticipo di dieci minuti. Poi Misseri ha continuato a fare il divo nelle dirette tv anche in seguito, con i collegamenti da Avetrana. Intanto a Sava si parla di giornalismo ma si ignora chi fa informazione sul territorio.

Su come si fa informazione in loco e come si promuove l’attività giornalistica la spiega bene Mirella Minerva su “La Voce di Manduria”. Studenti da tutte le regioni italiane e giornalisti di varie testate nazionali giungeranno a Sava tra giovedì 17, venerdì 18 e sabato 19 gennaio 2013. L’iniziativa è promossa dall’Istituto Tecnico Settore Tecnologico e Liceo delle Scienze Applicate “Oreste del Prete” di Sava. Temi interessanti quelli proposti che promuovono la valorizzazione dell’attività giornalistica fra i ragazzi identificandolo quale strumento comunicativo utile al confronto intellettuale e umano, in un’atmosfera di collaborazione e di rispetto dell’altro. Progetto proiettato verso il panorama nazionale e forse poco attento alla realtà locale. Sono assenti, infatti, nel folto numero di giornalisti invitati, i giornalisti delle testate locali come La Voce di Manduria, o Vivavoce di Sava e il Giornale di Sava come Liberamente e Casalnuovo di Manduria e Nuovo Marubbiando di Maruggio. Scelta questa che personalmente non comprendiamo e che vorremmo ci spiegassero. L’introduzione dei ragazzi a esperienze comunicative o lavorative dovrebbe prevedere anche il possibile sviluppo collaborativo tra scuola e imprese e quindi per uno dei criteri dei Pon quali “la coesione economica e sociale per ridurre il divario tra le regioni più avanzate e quelle in ritardo di sviluppo”, sarebbe opportuno coinvolgere soprattutto chi opera, a livello locale, nel settore e produce informazione, anche a titolo gratuito, e che interessa da vicino i nostri studenti e le problematiche del territorio. Al concorso hanno aderito centinaia di scuole italiane di ogni ordine e grado e sono tre le scuole della provincia di Taranto che saranno premiate: il circolo didattico “De Amicis” di Grottaglie, la scuola primaria “Michele Greco” di Manduria, l’istituto comprensivo “Deledda” di Ginosa. Ed ecco la straordinaria presenza numerica di giornalisti invitati al forum di tre giorni dove si può notare la nota stonata dell’assenza dei giornalisti del posto, unica eccezione Lucia Iaia, corrispondete di Quotidiano a Sava. Giovedì 17 gennaio interverranno Carlo Bollino, direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Fulvio Colucci, redattore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Venerdì 18 gennaio interverranno Mario Diliberto, giornalista de “La Repubblica”, Gianni Svaldi, giornalista de “Il Corriere del Giorno” e Lucia Iaia, giornalista de “Il Quotidiano di Puglia”. Sabato 19 gennaio interverranno Giuliano Foschini, giornalista de “La Repubblica”, Guido Rotolo, giornalista de “La stampa”, Mario Diliberto, giornalista de “La Repubblica”, Fulvio Colucci, giornalista de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, Nico Pillinini, vignettista de “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Questo, giusto per spiegare, che nessuno è profeta nella sua patria. «A Manduria si sono assegnati i beni confiscati ai mafiosi affinandoli agli amici di Libera di Don Ciotti, ma si ignora chi  opera in loco, il solo titolato e dà lustro e  fa informazione sul territorio. Questo nel silenzio della stampa locale. Bisogna dire che anche chi è stato estromesso dal contesto dl progetto e non è stato invitato alla rassegna non può certo scagliare la prima pietra» Spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul tema dell’ambiente truccato ha scritto un libro inserito nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

E su come si combatte la mafia da queste parti ne dà notizia Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. L’udienza preliminare a carico dei 31 indagati dell’operazione Giano da parte dell’antimafia di Lecce che ha dato origine al sospetto di infiltrazione mafiosa nel comune di Manduria, si è chiusa con un colpo di scena. Il gup Carlo Cazzella ha stralciato la posizione dell’ingegnere comunale Antonio Pescatore dichiarandosi incompetente sul caso specifico e rinviando tutto alla Procura di Taranto. Secondo il giudice salentino, il reato contestato al dirigente comunale (avrebbe favorito una società controllata da elementi della sacra corona unita nella gestione dei parcheggi a pagamento) non è di competenza della direzione distrettuale antimafia ma della procura ordinaria. Resta a Lecce invece il giudizio a carico di tutti gli altri indagati tra cui imprenditori, esponenti della malavita locale e l’ex boss della Scu, Vincenzo Stranieri che ha partecipato all’udienza grazie ad un collegamento in videoconferenza da un carcere del centro Italia dove è recluso in regime di isolamento del 41 bis. La decisione del gup Cazzella di derubricare il reato di mafia all’ingegnere Pescatore (che a questo punto risponderebbe al massimo del solo abuso d’ufficio), pone buone speranze per il futuro amministrativo del comune finito sotto i riflettori del ministero i quali, come si sa, hanno proposto lo scioglimento per infiltrazioni mafiose. Pescatore, infatti, è l’unico indagato che avrebbe potuto tessere il filo rosso capace di collegare la criminalità organizzata con le attività politica e amministrativa dell’ente. A meno che le indagini dei magistrati antimafia non abbiano nel frattempo individuato responsabilità dirette dei politici che al momento non risulterebbero indagati. Durante l’inchiesta ci sono stati momenti di tensione tra il giudice e Vincenzo Stranieri che si è lamentato per le parole pronunciate sul suo conto quando il magistrato pensava di non essere ancora collegato con il sistema. Le piaccia o no, lei mi deve ascoltare perché è un mio diritto, ha detto più o meno Stranieri che è apparso molto provato e abbattuto dal punto di vista fisico. L’operazione Giano ha portato il blitz scattato il 14 febbraio del 2011 che portò in carcere 16 persone e 2 agli arresti domiciliari, per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, concernenti armi ed esplosivi, attentati dinamitardi, tentato omicidio, rapina, estorsioni, traffico di sostanze stupefacenti e  spari in luogo pubblico. Tredici invece gli indagati a piede libero tra cui l’ingegnere Pescatore difeso dall’avvocato Raffaele Fistetti. Ma anche Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno” spiega bene l’ambiente. Niente revisione del processo. Francesco Cavallari è l’unico colpevole. La Corte d’Appello di Lecce ha rigettato l’istanza di revisione della sentenza con la quale il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato nel 1995 il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi con l’accusa di associazione mafiosa nei confronti dell’ex «re» della sanità privata pugliese imputato nell’ambito dell’operazione «Speranza». Tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui l’istanza di revisione del processo sulla base di quello che ai suoi difensori appare un paradosso: non può esistere un sodalizio mafioso con se stesso. Di diverso avviso il sostituto procuratore generale Antonio Maruccia che, al termine di una discussione durata due ore, ha chiesto fosse dichiarata l’inammissibilità dell’istanza. Ci sono volute altre cinque ore di camera di consiglio perché i giudici della Corte d’Appello di Lecce (presidente Giacomo Conte, relatore Nicola Lariccia) entrati nel merito, rigettassero l’istanza. «Tra quindici giorni leggeremo le motivazioni - dice l’avvocato Mario Malcangi che non si dà per vinto - ma certamente faremo ricorso per Cassazione. Sedici giudici (Tribunale di Bari, Corte d’Appello di Bari, Corte di Cassazione sia nel merito, sia sotto il profilo cautelare) hanno in un certo senso “perso” contro un solo giudice, quello che ha ratificato il patteggiamento». Se l’istanza fosse stata accolta, la condanna sarebbe stata immediatamente revocata, con tutte le conseguenze non solo sul piano penale, ma anche su quello civile. A partire dalla restituzione dei beni che furono confiscati a Cavallari.

29 gennaio 2013. Trentasettesima udienza. Parla Liala Nigro.

Sarà Liala Nigro, amica di Sabrina Misseri, l’ultima testimone che chiuderà oggi la fase dibattimentale del processo in Corte d’assise sulla morte di Sarah Scazzi. La testimonianza della giovane che è ritenuta tra le amiche più stretti di Sabrina, è stata chiesta dalla difesa dell’imputata. La studentessa Liala che è rientrata ad Avetrana dalla Polonia, dove si trova per motivi di studio, proprio per deporre a favore dell’amica (precedentemente non si era presentata per tre volte), dovrebbe chiarire i rapporti che intercorrevano tra Sabrina e Ivano Russo ritenuto il movente del delitto. La Nigro, studentessa universitaria, ha risposto alle domande di accusa e difesa, spiegando che fra Sabrina e Sarah c'era un normale rapporto fra cugine e di non aver mai notato gelosia o contrasti. La Nigro ha ricordato di aver ricevuto alcune confidenze da Sabrina circa un momento di intimità avuto con Ivano Russo, un bacio, dopo il quale i due giovani avrebbero deciso di non rovinare il rapporto di amicizia ed ha confermato che Sabrina era innamorata di Ivano e si lamentava del fatto che lui continuava a provocarla, ad avere atteggiamenti ambigui, nonostante non volesse fidanzarsi e fosse d'accordo nel restare semplici amici. La notizia dell'approccio intimo fra Sabrina ed Ivano si diffuse fra gli amici della comitiva e Sabrina si arrabbiò con Liala pensando che fosse stata lei a riferirlo. Dopo qualche giorno Sabrina le riferì che era stato il fratello di Sarah, Claudio, a diffondere il pettegolezzo. La Nigro ha aggiunto di non aver mai parlato con l'amica Sabrina del pomeriggio del 26 agosto 2010. Quest'ultima ipotizzava che Sarah fosse stata rapita. "Sabrina in un paio di occasioni, probabilmente un anno prima della morte di Sarah, mi disse che era preoccupata per il padre, temeva comportamenti strani, diceva che il padre aveva problemi di memoria ed aggressività" ha raccontato la Nigro in aula, aggiungendo che Sabrina si auspicava di far visitare il padre da un medico e precisando che fra Sabrina e suo padre Michele Misseri c'era un ottimo rapporto. "Sabrina adorava il padre e le piaceva Ivano Russo proprio perché le ricordava la figura del padre". La testimone ha ricordato che sua madre, Anna Lucia Morleo, vide Sarah Scazzi fra l'una e l'una e trenta del 26 agosto, poco prima della sua morte, passare davanti casa mentre ascoltava la musica nelle cuffie e indossava una maglia rosa (secondo gli investigatori in mattinata Sarah era vestita di nero ed indossò la maglia rosa quando si cambiò per andare a mare con la cugina). La testimonianza confermerebbe la tesi della procura secondo cui Sarah è uscita di casa ed è arrivata dai Misseri prima delle 14:00. Secondo l'accusa, la gelosia nei confronti di Ivano Russo, sarebbe il movente alla base del delitto. Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano sono accusate di concorso in sequestro di persona ed omicidio. «Sarah e Sabrina erano molto legate, si vedevano praticamente ogni giorno. Il loro rapporto era tranquillo e personalmente non ho mai visto screzi tra le due, nè ho notato atteggiamenti di gelosia o invidia per l'amicizia con Ivano Russo. I rapporti erano tranquilli e normali come possono essere quelli tra due cugine, una più grande e una più piccola». Lo ha detto Liala Nigro, amica di Sabrina Misseri, nel corso del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto del 2010, dinanzi alla corte d'Assise di Taranto. Liala Nigro, in occasione di udienze precedenti, non si è presentata per deporre perchè impegnata all'estero, precisamente in Polonia per un progetto Erasmus tanto che è stata anche multata dalla Corte. «Sapevo della simpatia e dell’innamoramento tra Sabrina e Ivano, dell’attrazione che ci può essere tra ragazzi di vent’anni. Non sono arrivati al fidanzamento, ma Sabrina mi disse che una sera ci fu una piccola effusione fisica tra i due che, però, non ha portato a nulla». La testimone ha ricordato che dopo l’arresto di Michele Misseri non andò a trovare Sabrina per alcuni giorni “perchè – ha osservato – mi sembrava indelicato. Quando ci siamo viste, in un momento successivo, lei sembrava abbastanza triste per quello che era accaduto”. La sera precedente l’arresto di Sabrina, Liala Nigro organizzò una cena a cui parteciparono la stessa Sabrina, Ivano Russo, Alessio Pisello e Valentina Misseri con il marito. “Avevo sentito Sabrina al telefono – ha aggiunto l’amica – e lei piangeva. Per quello decisi di organizzare qualcosa per distrarla”. La testimone ha sottolineato che Sarah usciva con loro solo quando era presente Sabrina e che era piuttosto taciturna. «Rimaneva - ha aggiunto - comunque sulle sue, non esprimeva tanto i suoi pareri perché noi facevamo discorsi lontani dai suoi interessi». «In un paio di occasioni, un annetto prima che accadesse il fatto, Sabrina mi disse che era preoccupata per il padre, sosteneva che aveva comportamenti un po' strani, che il suo rapporto con la madre si era deteriorato e che aveva problemi di memoria e di aggressività» ha detto Nigro. La teste ha parlato dei rapporti tra Sabrina e Mariangela Spagnoletti, osservando che tra le due ci fu una frequentazione più assidua per alcuni mesi ma che «non si poteva parlare di una vera e propria amicizia» e che ci fu «una simpatia» tra Ivano e Desiree, un'amica comune, «che si è concretizzata in un rapporto fisico e nulla più». Liala Nigro, amica di Sabrina Misseri, nel corso della deposizione nell’ambito del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi ha sottolineato che sua madre riferì ai carabinieri di aver visto Sarah il giorno dell’omicidio (il 26 agosto 2010) intorno alle 13-13.30 e che un paio di giorni dopo la sua scomparsa sempre la madre provò a telefonare a Sarah e il cellulare della 15enne in una occasione squillò. I pm hanno consegnato agli atti una serie di foto aeree dei luoghi di Avetrana ed una planimetria dell'itinerario casa Scazzi-casa Misseri. Per confermare il clima ostile creato dai media e per avvalorare la mancata serenità di giudizio dei giudici che emetteranno una sentenza già scritta prima del processo, un episodio spiacevole è stato denunciato in aula dall'avvocato Nicola Marseglia legale di Sabrina Misseri, durante l'udienza del processo in corso davanti alla Corte d'Assise del Tribunale di Taranto per l'omicidio della 15enne Sarah Scazzi. Nel corso dell'esame dell'unica testimone ascoltata oggi un giudice popolare avrebbe espresso un apprezzamento pesante nei confronti della stessa testimone. L'avvocato Marseglia, quindi, ha chiesto alla persona che avrebbe espresso questo giudizio, rivolgendosi ad un altro giudice che le era al fianco, di valutare la possibilità di dimettersi. A quel punto la presidente della Corte ha deciso di sospendere la seduta e di ritirarsi con tutti i componenti in Camera di Consiglio per discutere della questione. Secondo quanto riferito dall'avvocato Marseglia, questo non sarebbe il primo episodio del genere che si è verificato dall'inizio del processo. In seguito si è astenuta ufficialmente «per motivi personali e familiari» una dei sei giudici popolari della corte d’assise impegnata nel processo per l’uccisione di Sarah Scazzi. Nei confronti della donna l’avv. Nicola Marseglia, (difensore di Sabrina Misseri) si era riservato di chiedere la ricusazione perchè avrebbe espresso giudizi «poco lusinghierì nei confronti della testimone Liala Nigro. La decisione di astenersi del giudice popolare è stata comunicata, dopo una camera di consiglio durata trenta minuti, dal presidente della Corte d’Assise, Rina Trunfio, che ha anche proceduto alla sostituzione con un altro giudice popolare. Il colpo di scena è arrivato proprio in chiusura della fase dibattimentale. La Corte d’Assise di Taranto ha messo a punto le date delle ultime udienze del processo per l'uccisione di Sarah Scazzi. Il 25 e il 26 febbraio è prevista la requisitoria del pubblico ministero Mariano Buccoliero, il 4 marzo prenderà la parola il procuratore aggiunto Pietro Argentino, poi sono state fissate altre udienze per la discussione delle parti civili e dei difensori degli imputati fino all’8 aprile. Gli imputati sono nove. Sono accusate di omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere la zia di Sarah, Cosima Serrano, e sua figlia Sabrina Misseri. Michele Misseri è imputato di concorso in soppressione di cadavere con le due donne e del furto del telefonino di Sarah e di danneggiamento, seguito da incendio, degli effetti personali di Sarah. Carmine Misseri e Cosimo Cosma sono accusati di concorso in soppressione di cadavere. Gli altri quattro imputati a giudizio sono l'avvocato Vito Russo, ex difensore di Sabrina, al quale vengono contestati i reati di favoreggiamento personale e intralcio alla giustizia, e altri tre presunti favoreggiatori: Antonio Colazzo, Cosima Prudenzano e Giuseppe Nigro, che sono il cognato, la suocera e l’amico del fioraio di Avetrana Giovanni Buccolieri che dapprima raccontò di aver visto Cosima Serrano costringere Sarah, con la forza a entrare nella propria automobile e poi disse che si era trattato di un sogno. Buccolieri non è a giudizio in questo processo.

Concetta Serrano, fuori dall’aula nella pausa del processo, in collegamento con Giancarlo Magalli a “I Fatti Vostri” non ha perso occasione di accusare i suoi parenti e di promuovere la sua religione (Testimoni di Geova) con citazioni bibliche che ha lasciato inebetiti gli interlocutori in studio. (Vi era anche l’avv. Nino Marazzita). Intervistata da Filomena Rollo (la giornalista definita “cretina” da Michele Misseri perché accusata di essere giustizialista nei confronti di Sabrina) ha, anche, accusato i testimoni chiamati in aula di pensare più alla loro posizione che ad affermare la verità. Intanto l’odio parla per bocca della madre si Sarah. «L'hanno uccisa per tapparle la bocca. Perché‚ Sarah non doveva parlare più. Ho la sensazione che la bambina sapesse o avesse visto qualcosa… che sotto ci fosse qualcosa di grave». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, la ragazzina uccisa ad Avetrana, in un'intervista che verrà trasmessa il 25 gennaio da "Quarto Grado" su Retequattro e della quale è stata diffusa un'anticipazione. Per Concetta, «la bugia più grossa di mia nipote Sabrina (Sabrina Misseri, accusata con la madre Cosima dell'omicidio) è stata quando ha detto "Mio padre è un vigliacco"». «Quando Sabrina dice così - ha detto ancora - vuol far credere che sia stato Michele ad uccidere Sarah e non lei. Secondo me, in realtà, il senso è un altro: lo dice perché‚ suo padre ha parlato e invece doveva stare zitto, come hanno fatto lei e la madre tutto questo tempo». Per Concetta, «visto che non hanno nessun altro a cui dare la colpa, le due si nascondono vigliaccamente alle spalle di Michele. Lui si presta, perché‚ sono le sue donne: la figlia e la moglie». Parlando del comportamento di Michele in aula, la signora Serrano ritiene probabile «che in aula Michele stia recitando o calcolando la corda giusta per impiccarsi, visto che dice che vuol farla finita». In chiusura Concetta parla della sorella Cosima: «C'è un detto che dice "Chi tace acconsente". Prima nelle interviste Cosima sbandierava la frase "Male non fare, paura non avere". Adesso si è ammutolita. Vorrei capire perchè davanti al giudice non parla». «Da sorella a sorella - conclude - vorrei chiederle cosa voleva dire il 26 agosto, in caserma, quando ha detto riferendosi a Sarah: "Questa volta l'ha fatta grossa. Questa sera, se viene, quando viene, le devi tirare uno schiaffone". Vorrei capire cos'ha fatto di grosso o cos'ha detto di tanto grave Sarah». Non c’è dubbio nel suo pensiero, né discernimento tra i fatti avvenuti e quelli raccontati. Stille di odio e non di razionalità. L’esperienza dovrebbe insegnare e i suoi avvocati, proprio loro che difendono Salvatore Parolisi, dovrebbero spiegarle che nulla è mai come appare e che i giudizi (e le condanne) vanno date al di là di ogni ragionevole dubbio. E spesso l’odio o le influenze interessate sono cattive consigliere.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. LA STRAGE DI ERBA. Non si arrendono i sostenitori dell’innocenza di Olindo Romano e della moglie Rosa Bazzi, definitivamente condannati all’ergastolo come autori della strage di Erba, l’11 dicembre del 2006. La notizia, rimbalzata via internet, riguarda la costituzione di un "Comitato Rosa - Olindo:”giustizia giusta", fondato dall'avvocato Diego Soddu e dai giornalisti Paola Pagliari e Cristiana Cimmino, quest'ultima già autrice di una pubblicazione, "Finché morte non ci separi", che raccoglie le lettere di Rosa e Olindo dal carcere. Secondo i sostenitori dell'innocenza della coppia, «il Comitato ha come scopo principale quello di promuovere le iniziative e le attività che ritiene idonee al fine di dimostrare l'ingiusta condanna di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano, attualmente condannati all'ergastolo. Sono campi di intervento del Comitato tutti quelli in cui si può impegnare in una lotta civile contro le forme di ignoranza, intolleranza, preconcetti, emarginazione e discriminazione nei confronti di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano». Tra i propositi ci sono quelli di organizzare convegni, dibattiti, riunioni, di lanciare petizioni, raccolte pubbliche di adesioni, fondi e firme. I due coniugi erbesi, lo ricordiamo, furono riconosciuti, dopo tre gradi di giudizio, colpevoli di una delle più orrende stragi dell'Italia del Dopoguerra. Persero la vita una giovane mamma, Raffaella Castagna, all'epoca 30 anni, disoccupata, volontaria in una comunità di assistenza a persone disabili, colpita con una spranga e da dodici coltellate; Paola Galli, 60 anni, casalinga, madre di Raffaella, lei pure uccisa a colpi di coltello, e la vicina di casa Valeria Cherubini, 55 anni, commessa, accorsa per prestare aiuto. Con un unico colpa alla gola, Rosa Bazzi assassinò il piccolo Youssef Marzouk, un bambino di due anni e tre mesi, figlio di Raffaella. Il marito della Cherubini, Mario Frigerio, 63 anni, si salvò per un miracolo. La sua testimonianza si rivelò fondamentale per la condanna degli assassini. Sono ormai passati più di sei anni da uno dei delitti più efferati, la strage di Erba, ma nonostante la confessione dei due colpevoli, i coniugi Olindo e Rosa Romano che abitavano nello stesso palazzo in cui sono avvenuti i fatti, c'è chi li difende e ha deciso di fondare anche un comitato a loro sostegno. E' sempre difficile riuscire a dimenticare un caso di cronaca particolarmente grave nonostante il passare degli anni e il delitto di Erba è certamente uno di questi proprio perchè a causa di alcune liti di condominio due coniugi, Olindo e Rosa Romano, che sono ora stati condannati all'ergastolo, hanno deciso di agire con grande crudeltà attraverso coltellate e spranghe uccidendo quattro persone, tra cui anche il piccolo Youssef, che al tempo aveva solo due anni e mezzo e senza mostrare alcun tipo di pentimento. A distanza di qualche anno Carlo Castagna, che con questo delitto ha perso moglie, figlia e nipotino, ha trovato la forza di perdonare comunque gli assassini, anche se ben diversa è la reazione di Azouz Marzouk, il suo ex genero, che non solo si è ricostruito una famiglia, ma clamorosamente è arrivato addirittura a ipotizzare che i colpevoli non siano Rosa e Olindo. Il parere de tunisino, pur essendo sorprendente, non è però l'unico e lo dimostra anche la nascita di un comitato nato in loro dfesa chiamato appunto "Comitato Rosa - Olindo: giustizia giusta", che si pone proprio l'obiettivo quello di promuovere una serie di iniziative e attività volte a dimostrare l'ingiusta condanna della coppia. Si tratta comunque di un progetto apolitico e apartitico nato dall'iniziativa dell'avvocato Diego Soddu e delle giornaliste Paola Pagliari e Cristiana Cimmino, autrice del libro "Finchè morte non ci separi", che raccoglie proprio le lettere che i due si son scambiati da quando sono rinchiusi in carcere a dimostrazione che il loro legame, per quanto li abbia portati a compiere un atto tanto grave, non ha scalfito minimamente il loro amore. Da qui in avanti si proverà quindi a lottare contro ogni forma di ignoranza, intolleranza, preconcetti, emarginazione e discriminazione nei confronti di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano. Chi lo vorrà potrà quindi aderire a questa iniziativa attraverso la partecipazione a dibattiti, convegni, riunioni o raccolte fondi che saranno organizzati nei prossimi mesi. Azouz Marzouk scagiona Olindo e Rosa: "Non hanno ucciso loro Youssef e Raffaella". Una rivelazione che può riaprire il processo. Il marocchino pensa che i due assassini della moglie e del figlio non sono i vicini di casa. Parole che fanno discutere. I colpevoli non sono più colpevoli. Una rivelazione che può ribaltare una sentenza. Azouz Marzouk torna a parlare sulla strage di Erba. La sua dichiarazione lascia molte ombre su quello che è successo in quelle sera quando morirono il figlio Youssef, di 2 anni e la moglie Raffaella Castagna, e la suocera. Per l'omicidio sono stati condannati Olindo Romano e Rosa Bazzi, che per discussioni condominiali avevano deciso di fare fuori un'intera famiglia. Ora Marzouk parla e mette in dubbio la colpevolezza di Olindo e Rosa: "Loro non sono i colpevoli, sono solo dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità. Credo che giustizia non sia stata fatta – spiega al quotidiano “Il Giorno” a firma di Gabriele Moroni -. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente particolari che mi convincono che a ucciderli non siano stati i Romano”. Azouz vorrebbe la riapertura del procedimento per dimostrare che i due vicini non hanno compiuto la strage. “Ci sono dei colpevoli in giro e degli innocenti in galera. Prima o poi farò uscire la verità”. Su Erba il sipario non cala mai. «Olindo e Rosa sono innocenti. Mi batterò perché la loro innocenza venga a galla». Azouz Marzouk sei anni dopo. A sei anni dalla strage di Erba, quell’11 dicembre di orrore infinito, nella casa di ringhiera, grande come un falansterio, in via Diaz 25/C. Il giovane tunisino, marito, padre e genero di tre delle quattro vittime, parla da Zaghouan, la cittadina dove vive. E va oltre. La Cassazione si preparava a confermare l’ergastolo ai coniugi Romano, i vicini di casa che si erano autoproclamati giustizieri, e già Azouz auspicava una rilettura dell’inchiesta. Oggi Marzouk compie un passo in più. «Credo - dice scandendo le parole nell’italiano corretto di sempre - che giustizia non sia stata fatta. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente in mente particolari sia del processo sia della vita passata di mia moglie e di mio figlio che mi convincono che a ucciderli non sono stati loro, i Romano. Vedremo per un nuovo processo». Lancia quella che suona come una sfida. «Non ho mollato il processo. Chi pensa che mi sia fatto da parte si sbaglia. Prima o poi farò uscire la verità». L’ex netturbino di Erba e la moglie, la colf maniaca di ordine e pulizia, sono allora due innocenti murati nel carcere a vita? Azouz denuncia il suo parere assolutorio: «Sono dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità. Ci sono dei colpevoli in giro e degli innocenti in galera. Lo so perché ho passato anch’io il carcere da innocente, sottolineo da innocente». Una nuova moglie conosciuta a Lecco, una bambina, la proprietà di un minimarket nella sua città. Quanto pesa il passato sulla vita che ha ricominciato? «Porto nel cuore la breve vita che abbiamo passato insieme, io, Raffa, nostro figlio. La ripercorro almeno una volta la settimana per non dire tutti i giorni. L’amore per loro non lo può cancellare nessuno. L’uomo non è un computer a cui è possibile cancellare la memoria». Quella sera acqua mista e sangue lungo le scale, ristagnava nell’ampio cortile. Nell’appartamento al primo piano i corpi massacrati di Raffaella Castagna, della madre Paola Galli, del piccolo Youssef, due anni, sgozzato, riverso su un divano. Valeria Cherubini, la premurosa vicina, era vissuta giusto il tempo di risalire le scale, nove gradini, un pianerottolo, un’altra rampa e altri nove gradini, inseguita dal coltello assassino, per andare morire nella sua mansarda. Un uomo contemplava il massacro della sua famiglia: Carlo Castagna, il marito di Paola, il padre di Raffaella, il nonno di Youssef. Uomo di lavoro e di fede. Lì affonda la sua serenità, la stessa che usa per commentare le affermazioni di Azouz: «Non ho parole. Rispetto la sua posizione, anche se non riesco a capire cosa lo abbia indotto a prenderla. Mi pare incredibile, dopo tre gradi di giudizio. Come mi pare incredibile il ricorso della difesa a Strasburgo, come se non si avesse fiducia nella magistratura italiana. Vado avanti. Vivo nel ricordo di quelli che ho perduto, nella speranza e nell’attesa di raggiungerli. Nella vita ho messo il fieno in cascina con mia moglie Paola. Tanto fieno. Mi ha aiutato a passare questi inverni gelidi». Il coltello che gli trapassa la gola e recide una corda vocale. Nelle orecchie le invocazioni di aiuto della moglie. Mario Frigerio, il marito di Valeria Cherubini, è l’unico sopravvissuto. Ha lasciato Erba, vive in una paese vicino (ancora in via Diaz), a pochi passi dalla casa di Elena, la figlia dolce e forte. «Il nostro dolore - dice Elena - lo teniamo tutto dentro. La sofferenza è ancora tanta, tanto grande che è difficile esprimerla a parole». La truce saga di Erba forse non è ancora conclusa. Il difensori di Olindo e Rosa tenteranno di ottenere un nuovo processo. «Stiamo lavorando - dice l’avvocato Fabio Schembri - per la revisione. Abbiamo raccolto elementi interessanti, nuove dichiarazioni».

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. FABRIZIO CORONA: la giustizia sbaglia, ma non perdona, spiega Antonio Pellegrino. Dopo la fuga in Portogallo, Fabrizio Corona si è consegnato alle autorità portoghesi. Tornato in Italia, dovrà scontare 7 anni, 10 mesi e 17 giorni di carcere (la condanna iniziale era di 5 anni). Il reato di estorsione deve essere sicuramente punito e non ci sono scusanti. (Ma quel fatto configura l’estorsione e se sì, perché non perseguire tutto il sistema gossipparo?) In tale sede mi preme sottolineare il modus operandi quantomeno discutibile, a mio avviso della giustizia italiana. Il titolo del blog in esame non deve indurre il lettore in errore: con la locuzione “la giustizia sbaglia” non intendo affermare che la pena inflitta al fotografo dei vip sia erronea, bensì credo sia sbagliata nella sua commisurazione. Un esempio su tutti può evidenziare il mio ragionamento: Michele Misseri, noto alle cronache per essere implicato nella vicenda che ha portato all'uccisione di sua nipote, Sarah Scazzi, fu accusato di occultamento di cadavere. Si parla quindi di una vicenda legata alla morte di una persona, per di più una ragazza quindicenne. L'articolo 412 del codice penale recita testualmente: “Chiunque occulta un cadavere, o una parte di esso, ovvero ne nasconde le ceneri, è punito con la reclusione fino a tre anni”. Il reato di estorsione, dal canto suo, è disciplinato dall'articolo 619 del codice penale: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a euro 2.065”. C'è qualcosa che non quadra nelle due vicende: nella prima, quella riguardante Corona, quest'ultimo viene condannato a 5 anni dalla Cassazione (pena poi aumentata per la fuga) per aver estorto 25 mila euro a David Trezeguet, calciatore plurimilionario; nella seconda, legata all'omicidio di una ragazza, il codice prevede per occultamento di cadavere una pena massima di tre anni (il giudice decide da da zero a tre anni). Badate bene: con questo esempio non voglio scagionare il più noto paparazzo d'Italia, ma sottolineare l'incongruità della sua pena. Il reato di estorsione è sì grave, ma come molte norme del codice, penale o civile, c'è bisogno sempre di una interpretazione giurisprudenziale. L'estorsione di 25 mila euro fatta ad un calciatore plurimilionario è sicuramente meno grave rispetto a quella fatta ad una qualsiasi persona che porta a casa uno stipendio “ordinario”. In questo caso, anche 1000 euro sarebbero influenti nell'economia familiare. La giustizia italiana, talvolta, mostra alcune incongruenze e non solo. Lettera aperta a Tempi di Giuseppe Lucibello, avvocato di Fabrizio Corona: “Inspiegabile disparità di trattamento. In tutta questa vicenda l’aspetto che suscita maggiori perplessità è l’inspiegabile disparità di trattamento tra un Tribunale e l’altro”.  «Nel paese dove tutti si sentono allenatori della Nazionale di calcio si assiste, da qualche giorno, ad un nuovo, avvincente, esercizio intellettuale: improvvisarsi avvocato difensore del sig. Fabrizio Corona. In televisione e sui giornali ognuno dice la sua spingendosi sino a voler individuare, retrospettivamente, le migliori strategie processuali. Tuttavia, prima di lanciarsi in più o meno autorevoli, nonché improvvisate, dissertazioni su come si sia giunti alle sentenze di condanna occorrerebbe avere piena cognizione delle vicende processuali. Pertanto abbandonando il riserbo che mi ero imposto per non incentivare inutili illazioni e strumentalizzazioni sulla pelle di Fabrizio e sulla tragedia che sta vivendo, ritengo che sia doveroso, a questo punto, effettuare alcune considerazioni, avendo vissuto questa vicenda in prima persona (sia pur a processi già avviati, con le ovvie preclusioni del caso). Quando sono iniziate le sue vicissitudini giudiziarie (Potenza- Woodcock – con l’inchiesta Vallettopoli) Fabrizio era stato rappresentato come il dominus di una sorta di S.P.E.C.T.R.E. del gossip, seppur incensurato. Dopo anni di processi, grazie alla paziente e laboriosa opera anche dei colleghi che mi hanno preceduto o affiancato, l’ipotesi accusatoria di Potenza è stata smontata e la quasi totalità delle accuse mosse a Corona è venuta meno. L’imputazione di associazione per delinquere non è giunta neanche al dibattimento.

Conseguentemente le contestate estorsioni, si sono “sparpagliate” – per ragioni di competenza territoriale – in mezza Italia, creando così il primo serio danno a Fabrizio, costretto a difendersi in più sedi anziché innanzi ad un unico Giudice. I giudizi sono stati i più disparati; come si suol dire paese che vai usanza che trovi. Per i Giudici di Roma il pagamento di decine di migliaia di euro – da parte di un noto sportivo – per il ritiro di un servizio giornalistico non aveva natura illecita, tant’è che il procedimento è stato archiviato. I Giudici di Milano, competenti per sette casi di estorsione tentata o consumata, tra il primo ed il secondo grado, hanno ritenuto di mandare assolto Corona in ben 5 di essi. La condanna, ad un anno e 5 mesi, per i due residui tentativi è intervenuta per l’eccessiva lesività delle foto. Nonostante le decisioni di Roma e Milano, i Giudici di Torino, per un fatto indiscutibilmente analogo a quelli per cui vi è stata assoluzione, hanno ritenuto Corona colpevole condannandolo alla pesantissima pena di 5 anni di reclusione. Un esito particolarmente infausto che conclude un iter travagliato e denso di colpi di scena: basti pensare che il GUP inizialmente aveva mandato assolto Fabrizio o che la Corte d’Appello, “giocando” tra attenuanti ed aggravanti, ha aumentato la pena inflitta dai Giudici di primo grado da tre anni e quattro mesi a cinque anni. In punto di pena basti pensare che il Tribunale di Milano, in primo grado, per un’estorsione consumata e tre casi di estorsione tentata aveva inflitto una pena di tre anni e otto mesi! Ebbene il sottoscritto è ancora fermamente convinto che le condanne inflitte in relazione alla pratica del “ritiro” siano assolutamente ingiuste e che prospettare a qualcuno l’esercizio di un diritto quale la pubblicazione di un servizio fotografico (realizzato lecitamente) non ha nulla a che fare con la coercizione tipica del reato di estorsione. Del resto è singolare che dal 2007 ad oggi la lotta a questa “diffusissima pratica” si sia risolta unicamente nel processo a Fabrizio Corona ed ai suoi collaboratori. Se fosse bastata una sola inchiesta a smantellare definitivamente una pratica illecita ci troveremmo innanzi alla più efficace operazione anticrimine di questo paese. Ma posto che il “ritiro” dei servizi risulta essere ancora, pacificamente, in auge è evidente come Corona abbia assolto la funzione di capro espiatorio e che nella eccessiva severità di questa condanna siano entrate in gioco molte, troppe, variabili. Tra queste variabili che peso hanno avuto le assoluzioni di Corona a Milano nella condanna di Torino? In definitiva, in tutta questa vicenda l’aspetto che suscita maggiori perplessità è l’inspiegabile disparità di trattamento tra un Tribunale e l’altro e la circostanza che, pur applicando le stesse norme di diritto, i Giudici siano giunti a sentenze così diverse. Mai come in questo caso, in effetti, la supplenza giurisdizionale volta a colmare l’ennesimo vuoto legislativo ha prodotto risultati così discordanti.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. OMICIDIO DI MELANIA REA. Altra incongruenza. Il delitto di Melania Rea. Salvatore Parolisi è stato condannato per l'omicidio di Melania Rea? Si chiede Michela Murgia. Dipende dai punti di vista. Certo, in un'ottica giuridica la sentenza contro di lui non è nulla di meno che una condanna all'ergastolo, ma le motivazioni che sono state depositate dal giudice Tommasini raccontano piuttosto la storia di un'assoluzione civile. Raccontano, perché è questo che le motivazioni alle sentenze devono fare, e lo fanno nello stesso modo in cui lo fanno i romanzi, al punto che alcuni romanzieri italiani tengono appositi corsi ai giudici per insegnare loro a scriverle in modo narrativo. Se dovessimo quindi vederla dal punto di vista letterario, la ricostruzione del caso Rea mostra una trama che lascia interdetti, perché l'omicida vi appare come una figura fragile e deviata, preda di incontrollabili istinti, ma sottomessa e vessata dalla personalità forte di una moglie che lo umiliava di continuo. Melania Rea viene descritta invece come un'Erinni che faceva vivere il marito «in una sorta di sudditanza morale e fisica, già peraltro esistente per il divario economico e culturale ravvisabile tra le rispettive famiglie d'origine». In che modo venire da famiglie di diversa condizione socio-economica dovrebbe determinare sudditanza morale e addirittura fisica tra due coniugi non è per nulla chiaro, ma il giudice lo racconta come se il rapporto fosse logico. Tutte le ipotesi di premeditazione per odio, avidità e desiderio di vivere senza impedimenti un'altra relazione sono venute a cadere in questa nuova narrazione: quello di Parolisi è un «delitto d'impeto», un altro di quei «delitti passionali» che tante aggravanti fanno cadere nei processi per femminicidio. Di passione, intesa come brama sessuale, nella narrazione del giudice Tommasini ce n'è proprio tanta. Pure troppa per essere letterariamente credibile, al punto che viene presentato come verosimile un uomo che si eccita alla vista della moglie occupata in funzioni fisiologiche in un prato e vuole accoppiarsi sul posto a dispetto della figlia minore che poco distante dorme in auto. Ma persino il lettore di gialli di serie B riterrebbe fuori luogo che nel 2013 il rifiuto di Melania Rea ad avere rapporti sessuali in una situazione come quella venga raccontato come «l'ennesima umiliazione» inferta al marito e che l'omicidio feroce che ne è derivato sia motivato come reazione istintiva a un'umana passione respinta con sprezzo. Nella narrazione della sentenza del giudice Tommasini Melania Rea non è morta perché Parolisi la odiava, la tradiva e non sopportava che i soldi in casa li avesse lei. È morta invece perché ha rifiutato di soddisfare le «impellenti esigenze sessuali» di un uomo certamente bugiardo e avido, ma che lei umiliava ripetutamente e che aveva nei suoi confronti un rapporto di «sudditanza fisica e morale». È Melania Rea che è morta, ma nelle motivazioni della sentenza la vittima alla fine è Salvatore Parolisi. Che brutta storia ha scritto, signora giudice. Da qui lo sfogo di Salvatore Parolisi riportato da Diana Pompetti suIl Centro”.  «Io e Melania quel giorno siamo stati a Colle San Marco. L’ho sempre detto, nessuno mi ha creduto. Oggi un giudice riconosce questa verità. Ma per me non c’è nessun sollievo. Di che cosa dovrei sentirmi sollevato? Io so di non essere l’assassino. Ma come posso difendermi da accuse che cambiano sempre?» Salvatore Paroli si si prepara ad affrontare il secondo processo di un’altra vita: quella senza moglie, senza figlia, con una condanna di primo grado all’ergastolo. Nella sala colloqui di Castrogno consegna amarezza e paure all’avvocato Nicodemo Gentile, uno dei legali che lo difende con Valter Biscotti e Federica Benguardato. Chi è il caporal maggiore? L’assassino di Melania Rea o lo sventurato protagonista di un destino maligno che gli ha assegnato, in un solo colpo, due tragedie: la moglie ammazzata con 35 coltellate e le accuse contro di lui ? «Ora è un uomo molto preoccupato a cui non dà più sollievo nemmeno il fatto di sapersi innocente», dice Gentile, «perchè si trova davanti un’accusa in continua evoluzione, con una dinamica che cambia di giudice in giudice». A cominciare dal movente. Il giudice Marina Tommolini, il magistrato che lo ha condannato all’ergastolo al termine di un rito abbreviato, nelle sue motivazioni ne ipotizza un altro: Parolisi avrebbe ammazzato la moglie perchè lei gli ha negato un rapporto sessuale. «Mi sono difeso dall’imbuto passionale, mi sono difeso dal segreto inconfessabile della caserma e continuerò a difendermi perchè io non ho ucciso», dice all’avvocato, «ma come faccio a difendermi da accuse che cambiano sempre? Il perchè e il come di questo delitto continuano a mutare.Se è così, è davvero facile condannare una persona». Lo fa nel giorno in cui all’Aquila s’inaugura l’anno giudiziario e il presidente della Corte d’appello Stefano Schirò dice che le «sentenze vanno criticate, ma non denigrate». Al suo avvocato, pronto a dire «che c’è il massimo rispetto per il giudice Tommolini, l’unico che ha avuto il coraggio di dire che erano stati violati i diritti della difesa», racconta che non è Melania, non è la loro vita quella tratteggiata nelle sessanta pagine di una sentenza che ha letto e riletto. «Quel 18 aprile non c’era tensione, Melania mi aveva perdonato per il mio tradimento. Melania non è mai stata aggressiva, non è mai stata dominante», dice il caporal maggiore, «da quelle pagine emerge un’immagine distorta di mia moglie». Entro i primi giorni di marzo i legali depositeranno il ricorso in Appello e molto probabilmente già prima dell’estate ci sarà la prima udienza del processo di secondo grado. Processo che Parolisi chiederà di tenere a porte aperte. Nel canovaccio che in questi giorni sta prendendo forma nelle mani dei difensori tanti spunti, a cominciare da quello del vilipendio sul corpo di Melania. Per la Tommolini il caporal maggiore l’avrebbe fatto nella mattinata del 20 aprile , giorno in cui nel pomeriggio venne scoperto il cadavere. «Alle 8.57 di quella mattinata», ricostruisce Gentile, «Parolisi chiama i carabinieri che stanno indagando perchè deve consegnare delle cose che gli hanno chiesto nell’ambito delle ricerche. Gli dicono di aspettare a casa e così lui fa. Resta fino alle 10.49 ad attendere i militari con cui si intrattiene anche a parlare per un po’ di tempo. Come avrebbe fatto a raggiungere il bosco di Ripe in un momento, in cui quella zona era piena di elicotteri e forze dell’ordine impegnati nelle ricerche?». Per tutto il resto bisognerà aspettare l’inizio del secondo processo per l’omicidio di Melania Rea. Parla di “nulla totale” uno dei componenti della difesa di Salvatore Parolisi, l’ex caporalmaggiore condannato all’ergastolo per l’omicidio di sua moglie Melania Rea. Il nulla totale corrisponde al fatto che non c’è niente, secondo Federica Benguardato, che colleghi Parolisi alla scena del crimine. Ed è questa, a suo dire, la vera prova della sua innocenza. L’avvocato del marito di Melania è tornato a parlare del caso nella trasmissione televisiva “Attualità” su Vero, ha parlato delle tanto discusse motivazioni della sentenza di condanna e del ricorso in appello. Un ricorso che, ha spiegato, spingerà sulla mancanza di prove sulla scena del crimine: “Non c’è una sola goccia di sangue o solo un capello che leghi Parolisi alla scena del crimine, la sentenza ha ancora molti dubbi aperti e le interpretazioni sono contraddittorie”. Per questi motivi il lavoro della difesa di Salvatore Parolisi, come avevano già annunciato gli avvocati, si muoverà su due fronti: il ricorso in appello per la sentenza di condanna all’ergastolo e l’azione legale per far incontrare il loro assistito con la figlia Vittoria. Secondo l’avvocato Benguardato, infatti, è importante che i due possano vedersi perché la bimba è stata tenuta lontana dal padre anche prima del processo. A proposito della mancanza di prove nell’omicidio, l’avvocato parla in televisione della questione del Dna rinvenuto sulla bocca di Melania e appartenente a Parolisi. Quella traccia è stata considerata per l’accusa una prova schiacciante ma l’avvocato ha affermato che “non ci sono studi che determinano il tempo di permanenza del Dna all’interno della bocca, quindi nessuno è in grado di stabilire quanto tempo prima è avvenuto il contatto”. Per la difesa di Parolisi, inoltre, ci sono molte incongruenze da chiarire anche riguardo al luogo in cui si trovava Melania Rea il giorno della sua uccisione e, infine, non manca in televisione il riferimento al rapporto tra l’ex caporalmaggiore e la sua amante Ludovica Perrone. “Il giudice ritiene la relazione fra i due non forte, è vero Parolisi tenta nell’immediato di depistare le indagini, ma si giustifica come un tentativo di protezione nei confronti della famiglia e della figlia. Gli indizi a suo carico in questo caso non sono stati, infatti, ritenuti sufficienti dal giudice”, ha affermato l’avvocato. Insomma, sia per la sua difesa che per il giudice che ha emesso la sentenza, l’atteggiamento di Parolisi non può far supporre direttamente un coinvolgimento nell’omicidio.

25-26 febbraio, 4-5 marzo 2013. 38ª, 39ª, 40ª, 41ª udienza. Requisitoria dell’accusa: Mariano Buccoliero e Pietro Argentino.

A poco più di un anno dall'avvio del processo, e dopo 37 udienze, il procedimento si avvia verso la chiusura. La requisitoria del pm Mariano Buccoliero occuperà la seduta del 25 e 26 febbraio  e 4 marzo 2013, mentre martedì 5 marzo ci sarà l'intervento del procuratore aggiunto Pietro Argentino. Poi interverranno in aula i rappresentanti delle parti civili e fra questi gli avvocati della famiglia di Sarah, Nicodemo Gentile e Walter Biscotti. Gli interventi degli avvocati della difesa sono invece calendarizzati fino a quando interverrà l'avvocato Franco Coppi che difende Sabrina Misseri dall'accusa di concorso in omicidio volontario (con la madre) e sequestro di persona. Eventuali repliche e dopodiché la Corte d'assise, presieduta dal giudice Cesarina Trunfio, si ritirerà in camera di consiglio per la sentenza. La bomba atomica era pronta ad esplodere». E’ uno dei passaggi della lunga requisitoria del 25 febbraio da parte del pubblico ministero Mariano Buccoliero nel processo in corte d’Assise sull’uccisione di Sarah Scazzi. L’enfatizzazione del pm serviva ad introdurre il momento in cui, secondo la sua ricostruzione, la venticinquenne Sabrina Misseri, accusata di omicidio volontario assieme alla madre Cosima Serrano, avrebbe ucciso sua cugina Sarah perché accecata dalla gelosia per Ivano Russo. Ore di strali che fanno a pezzi Sabrina Misseri, la cugina accusata di aver strangolato Sarah con la complicità della madre Cosima Serrano. Il pm la dipinge come una strega, divorata da rabbia e gelosia, sino a trasformarsi in carnefice. Sabrina barcolla sotto il fuoco di accuse terribili. Spesso sembra sull’orlo di una crisi di pianto. Poi si riprende, mangiucchia le unghie e parla nell’orecchio dei legali. “E’ tutta invenzione” - sbotta ad un certo punto. Ma per il pm dubbi non ce ne sono. Fu lei ad uccidere Sarah e le bugie del papà Michele non possono nascondere la verità raccontata “da fatti e testimonianze”. “Michele - ha detto il pm - mente quando si addossa la responsabilità del delitto. Vuole recuperare quel patto scellerato stretto con le donne di casa il giorno dell’omicidio”. Doveva tacere Michele e invece prima consentì di ritrovare il corpo della nipote e poi accusò la figlia. In ore di eloquio interrotto da tre brevi pause, il rappresentante dell’accusa ha illustrato l’impianto del movente, la gelosia appunto, ricostruendo momento per momento i rapporti conflittuali che esistevano tra le due cugine entrambe attratte sentimentalmente dal bell’Ivano. Una requisitoria molto intensa, emotivamente coinvolgente e a tratti drammatica quella del pm Buccoliero, e non poteva esser altrimenti: dall’esito del processo ne va la reputazione e credibilità dell’intera procura di Taranto agli occhi dell’Italia che li guarda e che vogliono essere convinti con molto di più di quello che servirebbe alla Trunfio ed al suo collegio. Così il pm Mariano Buccoliero ha delineato lo scenario dell’omicidio di Sarah Scazzi, la ragazzina di Avetrana (Taranto) strangolata e gettata in un pozzo in contrada Mosca, nelle campagne del paese, il 26 agosto 2010, e il cui corpo venne ritrovato nella notte tra il 6 e il 7 ottobre successivi.

IL MOVENTE: LA GELOSIA E L’IMBARAZZO. Buccoliero ha esordito con queste parole: «Signor presidente, signori della corte, questo è il processo sul massacro di una bambina perciò nel giudicare serenamente mettiamo da parte le lacrime di plastica che abbiamo visto sul volto degli imputati. Questo non è il processo delle lacrime di Sabrina, lacrime di plastica, dei silenzi di Cosima, delle corde sventolate in faccia, qui in aula, da Michele Misseri. Questo è il processo del massacro di un bambina di 15 anni. Noi dobbiamo ricostruire la verità mettendo da parte le bugie di Sabrina e Michele Misseri». "Massacro". "Patto scellerato". "Lacrime di plastica". Parole pesantissime, quelle sentite nell'aula Alessandrini del tribunale, dove in corte d'assise va in scena la prima puntata della requisitoria nel processo più mediatico di sempre, quello per l'omicidio della piccola Sarah Scazzi, strangolata e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010. C’è la gelosia dietro il dramma, ma non solo. C’è anche la rabbia di chi pensava di poter continuare a “dominare una bambina che bambina più non era. Sarah stava diventando una bella ragazza e quindi una rivale” - ha spiegato Buccoliero. Una nemica soprattutto perché attirava le attenzioni di Ivano, il bello del gruppo di cui Sabrina era innamorata. E per inchiodare la giovane imputata il pm ha scelto di far parlare la vittima, citando le lunghe frasi che annotava sul diario. A cominciare da quelle scritte poche ore prima della sua morte. Dopo la scomparsa di Sarah, Sabrina tentò di nascondere quel diario. In quelle pagine, la cuginetta raccontava di come il loro legame si fosse deteriorato. E soprattutto riportava la lite tra le due ragazze avvenuta la sera prima del delitto in un pub. Di quella lite Sabrina non parlò mai agli inquirenti. “La principale testimone contro Sabrina è proprio Sarah” - ha tuonato il pm. Al centro del dissidio Ivano Russo, l’amore di Sabrina. “Ci sono 4500 messaggi e le testimonianze a spiegare che Sabrina era ossessionata da quel ragazzo” - ha aggiunto il pm. Un rapporto impari quello che tre anni fa legò quei due giovani. E sul quale “in aula - ha detto il magistrato - ha mentito spudoratamente lo stesso Ivano. Lei era follemente innamorata. Lui, invece, era spinto dall’istinto della conquista sessuale”. Approcci diversi ad un legame sfociato anche in fugaci rapporti sessuali consumati in macchina. Poi la violenta sterzata di Ivano, che ad agosto 2010 decise di troncare quel rapporto sul quale Sabrina aveva scommesso. In mezzo Sarah, testimone che rivelò al fratello di quel sesso in auto, che Sabrina le aveva confidato. Rapporti di cui Claudio chiese conto al ragazzo, mandando su tutte le furie il bello di Avetrana. Segreti rivelati e le attenzioni di Ivano per Sarah, convinsero Sabrina che il suo sogno d’amore era al capolinea. E individuò la causa nella bella cugina. Al punto da assassinarla. «E' il processo per il massacro di una bimba di 15 anni, che ha due colpevoli e un movente preciso, la gelosia di Sabrina perchè quella bimba 15enne, che bimba ormai non era più, si era invaghita come lei dell’amico comune, Ivano Russo, e rischiava di esserle d’intralcio. I colpevoli di quell'omicidio furono Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Fu il massacro di una bimba di quindici anni. Di questo si tratta. Il primo teste di accusa - ha incalzato il pm - è Sarah Scazzi che purtroppo non può essere smentito, con i suoi scritti sul diario, con le tracce del suo cellulare e i segni sul povero corpo martoriato. Il delitto è stato commesso in casa, dove in quel momento c'erano tre persone: Sabrina, Cosima e Michele.» «Negli ultimi tempi Sabrina guardava alla cugina come una rivale» perché «Sarah era presa da Ivano Russo, non ci sono dubbi. Lo scrive nel suo diario», ha raccontato il pm leggendo le innocenti confessioni che la ragazzina scriveva sui quaderni divenuti poi strumenti di accusa nei confronti di sua cugina. «Negli ultimi mesi prima del delitto – ha detto il pm – è evidente che i rapporti tra le due cugine sono cambiati completamente, Sarah non era più la bambina da coccolare e tutelare e a un certo punto è costretta ad accettare i soprusi di Sabrina, unico modo per poter uscire con quella comitiva, e con Ivano». Nei confronti del giovane conteso, il pubblico ministero ha usato parole durissime facendo prevedere nei suoi confronti possibili risvolti penali. Il giovane, secondo l’accusa, avrebbe dimenticato di riferire alcuni particolari del suo rapporto con le due cugine tendendo in generale a minimizzare il suo rapporto con Sabrina e sulla sua infatuazione per lui. «Una falsa testimonianza più grossa di questa non si è mai vista in un’aula di giustizia», ha detto il pm Buccoliero descrivendo Ivano Russo come «uno che non vedeva, non sentiva e che non ha detto tutto». Il magistrato ha letto in aula le ultime frasi scritte sul suo diario dalla piccola vittima. In quelle poche righe Sarah raccontava della lite del giorno prima dell'omicidio avvenuta in un pub di Avetrana. Durante la discussione la cugina la rimproverò per i rapporti che la ragazzina aveva con Ivano. «C'era molto di più» ha aggiunto. Fu la pubblicità che Sarah e di conseguenza il fratello Claudio Scazzi avrebbero dato di un rapporto sessuale tra Sabrina e Ivano risalente alla notte tra il 3 e il 4 agosto a suscitare prima il risentimento di Ivano nei confronti di Sabrina, accusata dal giovane di aver messo in piazza l'episodio, poi la decisione del primo di interrompere da quel momento i contatti con Sabrina (dal 23 al 26 agosto, ha ricordato il pm) e infine la rabbia di quest'ultima nei confronti della cuginetta al suo ritorno da San Pancrazio salentino il 25 agosto. Quella sera infatti ci sarebbe stata la famosa lite in macchina poi sfociata nella tensione delle due ragazze al pub, notata e riferita da alcune testimoni, anche al processo, soprattutto da Stefania De Luca e dopo da Mariangela Spagnoletti. Secondo il pm il 21 agosto ci sarebbe stato un chiarimento a tre tra Sabrina, Ivano e Sarah. I rapporti tra Sabrina e Sarah si sarebbero definitivamente deteriorati, secondo l’accusa, a partire dal 16 agosto 2010 quando parecchi del giro erano venuti a conoscenza di un rapporto sessuale non completo in auto tra Ivano e Sabrina risalente al 3 agosto. Sarah lo avrebbe saputo da Sabrina e lo avrebbe detto al fratello maggiore Claudio, il quale avrebbe chiesto a Ivano le sue reali intenzioni nei confronti della cugina Sabrina. Ivano avrebbe attribuito a quest’ultima la colpa di aver sparso la voce sull'episodio e da quel momento i rapporti con Sarah non sarebbero stati più gli stessi. Ma già dal 20 luglio, secondo il pm, tra Sarah e Sabrina non c'era più il feeling di prima. Proprio quel giorno, sul suo diario, Sarah scriveva: «Sabrina non mi sta facendo uscire più, è una stronza, la odio». E a proposito di diari, Buccoliero ha sottolineato che Sabrina, carpendo la buona fede della mamma di Sarah, se ne fece consegnare due o tre custodendoli per giorni prima di darli nelle mani dei carabinieri e quindi verificando cosa ci fosse scritto. Più volte il pm ha menzionato la figura e il ruolo di Ivano, ma solo per ricordare le «falsità» che avrebbe detto in aula nella sua deposizione, tanto che per lui si profila, a fine requisitoria, una richiesta alla Corte di trasmissione degli atti alla Procura per valutare se sussista l’ipotesi di reato di falsa testimonianza.

I TEMPI ED I DEPISTAGGI. «Misseri non può, in quattro minuti, aver ucciso Sarah, cercato di coprire il corpo ed essere uscito dal garage per parlare con Sabrina che già era in veranda. Il delitto è stato commesso in casa, dove in quel momento c'erano tre persone: Sabrina, Cosima e Michele. Lasciamo stare le chiacchiere di Michele Misseri, questo è il processo di Sabrina Misseri, che ha sempre negato persino che Sarah quel giorno sia arrivata a casa sua, tirando fuori la storia del rapimento, e del suo risentimento e della sua gelosia nei confronti di Sarah per il rapporto con Ivano Russo. La prima teste di accusa contro Sabrina è proprio Sarah con i suoi scritti, le tracce del suo cellulare e i segni del suo corpo martoriato. Tutte circostanze che smentiscono le bugie e i depistaggi di Sabrina….Questa ragazza, subito dopo la scomparsa della cugina, ipotizzò di tutto e lanciò accuse sul papà di Sarah e sulla badante rumena. Tacque solo sulla lite del giorno prima con Sarah. Lo fece per non fornire agli investigatori un elemento determinante.» Ancora su Sabrina: dopo la scomparsa di Sarah "è stata sentita dagli inquirenti ma non ha mai fatto riferimento ai rapporti con Ivano Russo e alla lite della sera prima nel pub tra lei e Sarah. Sabrina avrebbe potuto parlare di screzio o di Sarah turbata, al massimo per la partenza del fratello. Lo ha fatto un'altra testimone, Stefania De Luca, che si è “presentata spontaneamente” e che per questo viene considerata "molto credibile". «Gli imputati hanno detto una serie di falsità, a cominciare da Michele Misseri che si accusa del delitto ma non ha neppure visto uccidere Sarah. Lui, riferendo che era stata la figlia Sabrina per poi tornare ad accusarsi del delitto, ha rotto un patto familiare scellerato. E' impossibile che Michele - ha proseguito Buccoliero - abbia potuto uccidere Sarah per una serie di fatti temporali, testimonianze, le perizie dei Ros. Non è credibile che un padre accusi la figlia dell'omicidio della cugina perché glielo hanno detto il suo avvocato dell'epoca e la dottoressa Bruzzone. Lasciamo stare le chiacchiere di Michele Misseri, questo è il processo di Sabrina Misseri - ha aggiunto - per i rapporti familiari, per la ricostruzione dei tempi dell'omicidio, dei depistaggi, non solo quelli riguardanti la badante e il padre di Sarah ma quelli iniziati dai momenti successivi al delitto». Entrando subito nel cuore della vicenda, il pm ha voluto smontare con «i fatti» la ricostruzione del momento omicidiario fatta dalla difesa delle due donne alla sbarra. «Dando anche ragione all’organizzazione temporale fatta dagli imputati – ha detto – non sarebbe comunque possibile giustificare la morte della ragazzina in appena 8 minuti, vale a dire dalle 14,34 quando dicono che Sarah è arrivata in casa Misseri sino alle 14,42 quando il suo telefono squillava mentre lo zio la strangolava nel garage: è sufficiente questo per provare la colpevolezza i Sabrina Misseri». «Quel giorno Michele Misseri strinse un patto con le donne della sua famiglia. Un patto scellerato che ora cerca disperatamente di recuperare. Per questo ha ricominciato a dire di essere l'unico responsabile. Questo non è - ha sottolineato il pm - il processo delle lacrime di Sabrina e Michele o del silenzio di Cosima, ma della morte di Sarah. A quel delitto, che sarebbe avvenuto nella villa dei Misseri in via Deledda, Michele Misseri, secondo il pm, non avrebbe neppure assistito, anche se l’agricoltore se ne addossa tutta la responsabilità da due anni dopo aver accusato la figlia Sabrina rompendo un «patto famigliare scellerato». «Bugie e depistaggi hanno caratterizzato subito l’atteggiamento di Sabrina Misseri. Questo non vuol dire che chi è bugiardo è anche un assassino ma da parte dell’imputata c’è stato un atteggiamento teso a nascondere episodi ed elementi che consentivano di risalire al movente e al fatto che la ragazzina era arrivata in casa Misseri quel pomeriggio. - Fra gli episodi, il pm cita quello dei diari - Mentre la cugina era scomparsa, Sabrina si adoperava per non far venire fuori il nome di Ivano e i sentimenti di Sarah nei confronti del ragazzo». Era questo, sostiene l’accusa, il motivo alla base del suggerimento dato ai genitori della ragazzina di non consegnare ai carabinieri il diario in cui Sarah descriveva il suo stato d’animo, di risentimento nei confronti di Sabrina per i rimproveri che le riservava spesso e di affetto verso quel ragazzo che la coccolava, Ivano Russo. L’imputata si premura – aggiunge il pubblico ministero – di dire a Ivano che quel diario in cui Sarah parla dei suoi sentimenti con lui è rimasto al sicuro”.

LA RICOSTRUZIONE DEL DELITTO. «I movimenti di Sarah – ha detto il magistrato – sono riscontrati da quei dati oggettivi e dalle testimonianze di chi era in casa quel giorno. Tutto quello che Sabrina Misseri ha detto in quest’aula è falso. Come è falso tutto quello che hanno detto Cosima e Michele. Per questo le loro versioni sono piene di contraddizioni. Perché la verità è una sola, mentre i loro racconti sono costruiti».  Il pm Buccoliero in aula ha ricostruito i momenti drammatici dell’aggressione subita da Sarah partendo da un dato che ritiene provato. «Sarah Scazzi uscì da casa intorno alle 13.45-13.50 del 26 agosto 2010 dopo aver mangiato un cordon bleu, secondo alcune testimonianze tra cui quella della badante dello zio di Sarah, e dopo aver ricevuto verso le 13 un messaggio da Sabrina che dovevano andare al mare. Dunque la quindicenne di Avetrana arrivò a casa Misseri verso le 14. L'uscita da casa – ha detto tra l’altro il pm – non può essere collocata verso le 14.30. Se l’unico messaggio ricevuto da Sarah fosse stato quello delle 14.25 e 11 secondi, Sarah sarebbe dovuta arrivare a casa Misseri dopo l’amica Mariangela Spagnoletti che, a detta della stessa Sabrina, ha detto che arrivò alle 14.40. Dopo le 14 il cellulare di Sarah viene sollecitato da cinque chiamate, ma nessuno si è accorto di nulla in casa perchè Sarah era già uscita. Sarah quel giorno entrò nella villetta di via Deledda». Il magistrato ha attaccato Sabrina sostenendo che l’imputata ha aggiustato le sue dichiarazioni nel corso delle indagini a seconda dei progressi degli investigatori. In questo tentativo avrebbe anche cercato di influenzare la deposizione di Mariangela Spagnoletti, l’amica con la quale quel giorno doveva andare al mare con la cuginetta. Le dichiarazioni della ragazza non collimavano con quelle di Sabrina, e per questo l’imputata avrebbe cercato di farle cambiare versione nel corso di un dialogo intercettato nella caserma dei carabinieri, poco prima di un interrogatorio. Il pm ha fatto riferimento ad una intercettazione ambientale del 30 settembre 2010 (il corpo di Sarah non era stato ancora trovato) con il colloquio tra Sabrina e Mariangela. Sabrina avrebbe tentato inutilmente di convincere l’amica che il 26 agosto 2010, giorno del delitto, la stava attendendo nella veranda di casa per andare al mare con Sarah. Mariangela ha sempre riferito che, arrivando in aula con la sorellina, trovò Sabrina già in strada, agitata, che poi pronunciò le parole “L'hanno presa, l’hanno presa”. «Secondo quanto racconta Michele Misseri, e quanto si ricava dalle dichiarazioni di Sabrina, l'agricoltore avrebbe ucciso in garage Sarah e si sarebbe affacciato per parlare con la figlia che era in veranda, tutto in meno di quattro minuti. Ma è tecnicamente impossibile stando alle loro stesse dichiarazioni. La verità è che Michele parlava su 'imbeccata' di Sabrina. Sarah arrivò a casa Misseri e vi entrò prima delle 14. La conferma - ha aggiunto – è una telefonata senza risposta che Ada Maria Serrano fa a Sabrina alle 13,59 e 11 secondi. Sabrina non si rende neanche conto degli squilli perchè è impegnata a fare altro con la madre Cosima. Sabrina dice invece che era a letto con la madre e decise di non rispondere mettendo il 'muto' alla suoneria. Già, in quella casa tutti dormivano in quel momento, anche Michele. Anzi, in via Deledda tutti dormivano, solo la notte non dormono ad Avetrana. Così come tutto quello che Sabrina ha detto in questa aula è falso». «Se Michele Misseri avesse ucciso Sarah con una corda, come dice, avrebbe fatto trovare anche l'arma del delitto, come ha fatto con tutto il resto. Michele Misseri – ha aggiunto – vide arrivare Sarah e la lasciò con Sabrina con la quale lui si era visto in veranda prima di scendere in garage. Sarah entrò in casa Misseri prima delle 14».

IL PRESUNTO SEQUESTRO. Il pm è passato poi alla ricostruzione del presunto sequestro di Sarah. Sarah, arrivata in casa di Sabrina avrebbe trovato un clima ostile. A questo punto avrebbe deciso di andare via. Siamo a poco dopo le 14. Sarebbe stata ripresa con la forza per i capelli e infilata in auto da Cosima Serrano per riportarla a casa Misseri. Episodio al quale avrebbe assistito il fioraio Giovanni Buccolieri. Fioraio che riferì l’accaduto a Vanessa Cerra che lo raccontò a sua madre Anna Pisanò. Fioraio, il quale poi ritrattò sostenendo che si era trattato di un sogno.  Sarah Scazzi venne uccisa in casa Misseri da Sabrina e dalla madre Cosima Serrano tra le 14.10 e le 14.20 del 26 agosto 2010, dopo che le due donne l’avevano riportata con la forza a casa prelevandola in strada con la loro auto, e in casa in quei frangenti non c'era Michele Misseri. «Dopo l’omicidio – ha aggiunto il pubblico ministero – il corpo venne spostato in garage per essere trasferito nella Seat Marbella di Michele Misseri. Lo spostamento avvenne attraverso una porta interna che i Misseri hanno sempre detto essere bloccata da tempo, ma che invece si apriva con un cacciavite, come dimostrato in un sopralluogo dei carabinieri. Quella porta venne aperta il giorno del delitto per far passare il cadavere: lo conferma una intercettazione ambientale del 7 marzo 2011 durante un colloquio in carcere tra Cosima Serrano e Michele Misseri».

LE CONCLUSIONI. Sarah Scazzi venne uccisa nella villetta dei Misseri dalla cugina Sabrina e dalla zia Cosima Serrano tra le 14.10 e le 14.20 del 26 agosto 2010 mentre Michele Misseri non era in casa. Il corpo venne trasportato in garage attraverso una porta interna, che si è cercato di far credere agli inquirenti che fosse bloccata da tempo, per poi venire caricato nella Seat Marbella di Michele e far scomparire il cadavere nel pozzo in contrada Mosca. «Quel giorno in casa Misseri - ha detto in aula Buccoliero - ha prevalso l'istinto di conservazione. L'istinto normale, dopo quello che era accaduto, avrebbe fatto chiamare un medico, magari anche sapendo che non c'era più niente da fare. Invece l'unica preoccupazione era di prendere il cadavere e farlo sparire. E poi quel sequestro di persona che si sarebbe concretizzato, per il pm, poco prima del delitto quando Cosima e Sabrina avrebbero bloccato in strada Sarah che stava tornando a casa, costringendola a salire a bordo della Opel Astra di Cosima per riportarla alla villetta dei Misseri. Scena alla quale avrebbe assistito il fioraio Giovanni Buccolieri, che però poi ritrattò dicendo che si era trattato di un sogno. Ma allora, ha sostenuto il pm, non si spiega perché Cosima e Sabrina, che hanno sempre detto che in quei frangenti dormivano in casa, si siano premurate di contattare, ad esempio, il padre di una compagna di scuola di Sarah, che quella Opel Astra l'aveva vista in strada, per fargli cambiare versione. Secondo il pm Buccoliero quando madre e figlia riprendono in auto la piccola Sarah con la forza in una strada vicina a via Deledda, "prolungano il percorso perché devono calmare la bambina. Forse ci riescono e forse no", ha detto in aula. In quel giro l'Opel Astra di Cosima Serrano viene vista, stando a questa ricostruzione mentre procede ad alta velocità, da un potenziale testimone, Donato Massari, che Cosima Serrano e Sabrina Misseri, in particolare la prima, avrebbero "cercato di indurre a rendere false dichiarazioni agli inquirenti il 4 settembre del 2010", quando Sarah non era stata trovata, suggerendogli di cambiare il colore di un furgone visto quel pomeriggio, da blu a bianco per depistare gli inquirenti e comunque allontanare i sospetti dalla loro famiglia. "Insomma - ha sottolineato Buccoliero - Sabrina e Cosima capiscono di essere state viste da Massari quel pomeriggio. Su un punto non ha avuto incertezze il testimone Massari e cioè di aver visto l'Opel Astra di Cosima Serrano". Inoltre il pm Buccoliero ha chiesto alla Corte di assise di spiegare nella sentenza per quale motivo e chi ha spostato l'auto di Cosima vicino all'abitazione tra le 14 e le 14,25 di quel pomeriggio. Infatti la vicina di casa Lucia Morleo, quando va al mare poco prima delle 14, vede l'Opel Astra parcheggiata in una direzione e in una determinata posizione, mentre l'amica di Sabrina, Mariangela Spagnoletti, che arriva alle 14,40 la vede in un'altra direzione e in un'altra posizione. "Che bisogno aveva - ha chiesto il pm - di spostare la macchina? L'ha spostata per andare a prendere la povera Sarah. Non c'e' altra spiegazione allo spostamento della macchina ". L'uccisione di Sarah Scazzi da parte della cugina Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano non fu premeditata, ma frutto di uno scatto d’ira. L’azione omicida di strangolamento, in casa Misseri, durò da tre a cinque minuti; l’una persona avrebbe potuto fermare l’altra ma ciò non avvenne perchè c'era “una comune volontà omicida”. E' la tesi sostenuta dall’accusa al processo dinanzi alla Corte di Assise di Taranto per l’omicidio della quindicenne di Avetrana (Taranto), avvenuto il 26 agosto 2010. «Le assassine sono Sabrina e sua madre Cosima, una teneva la piccina ferma e l’altra la strangolava», ha detto Buccoliero che per Michele Misseri ha riservato il ruolo del «becchino» e del complice inconsapevole e impotente di quanto accadeva tra le tre donne. «Dopo l’uccisione Sabrina faceva da palo ferma in strada ad aspettare l’amica Mariangela – ha sostenuto il pm – mentre Cosima e Michele Misseri sistemavano le cose in casa». Sempre secondo l’accusa quando l’amica di Sabrina arrivò davanti casa con l’intenzione di prendere Sabrina e Sarah e andare al mare, «il corpo senza vita della bambina era già nella Fiat Panda». Sulle fasi dell’occultamento in contrada Mosca, poi, il pubblico ministero è stato categorico: «impossibile che Michele Misseri abbia potuto fare tutto da solo in così poco tempo e con un’imboccatura del pozzo così stretta: qualcuno lo deve aver aiutato tenendo le braccia della bambina perpendicolari al corpo mentre lui la sollevava per i piedi infilandola nella cisterna». Dopo una dettagliata elencazione degli orari ricavati dai tabulati telefonici e dalle testimonianze, l’accusa ha praticamente smontato ogni possibile difesa delle due imputate smentendo anche la disperata autoaccusa di Michele Misseri definita «una strampalata sceneggiata assolutamente priva di credibilità». Suggestiva poi la spiegazione di Buccoliero per giustificare l’alibi del delitto. «Oltre alla gelosia – ha detto – c’era anche la necessità, da parte di Cosima, di impedire che Sarah parlasse». E qui il magistrato ha dipinto inquietanti scenari di sesso tra gli amici di Sabrina descritti nei 4500 sms che Sabrina si era scambiata con Ivano Russo. Messaggi dai contenuti hot per niente adatti ad una ragazza per bene di 23 anni e ancor meno per la sua cugina quindicenne. In aula gli sms bollenti di Sabrina e Ivano. Dettagli di una gioventù celebrata tra ammiccamenti e approcci a sfondo sessuale. Di cui Sarah era a conoscenza e che avrebbe potuto raccontare. "Il giorno del delitto nella villetta dei Misseri ci fu una lite furiosa. Di quella lite fu protagonista Cosima che rimproverò la nipote. Quella discussione accesa segnò il punto di rottura dei rapporti tra le due cugine, ma anche tra Sarah e i Misseri. La ragazzina uscì in lacrime. Mamma e figlia uscirono a riprenderla perché temevano che Sarah raccontasse alla mamma altri fatti appresi in casa Misseri". Con queste parole il pubblico ministero Mariano Buccoliero ha raccontato i momenti che precedettero il delitto di Avetrana. Secondo il pm, le donne di casa Misseri raggiunsero e uccisero Sarah proprio perché temevano che i suoi racconti potessero screditare il buon nome di quella famiglia e di Sabrina. In particolare sugli atteggiamenti compromettenti della cugina con Ivano o con altri ragazzi. A riprova di questa tesi il magistrato ha letto sms a sfondo sessuale e esplicito tra la stessa Sabrina e Ivano. Il 26 agosto 2010, ha ricostruito il pm, Sarah arriva a casa Misseri verso le 13.50. Sabrina è in veranda, Michele è in cucina e scende in garage. Poco dopo Sarah va via turbata per tornare a casa, viene vista dal fioraio Giovanni Buccolieri mentre Cosima e Sabrina l’hanno raggiunta in auto per riportarla in via Deledda. Il ritorno a casa è alle 14.10, tra le 14.18 e le 14.23 Sarah non può più rispondere perchè viene uccisa in una stanza della villa. “Se Cosima è uscita e ha preso l’auto per riprenderla – ha detto il pm – vuol dire che era necessario impedire che Sarah tornasse a casa e raccontasse le ragioni del litigio e di tutto ciò che era accaduto in casa Misseri. Qualcosa di grave, legato allo stato di tensione tra le due cugine”. Quel “qualcosa di grave” non avrebbe riguardato solo la “pubblicità” in paese dei rapporti intimi tra Sabrina e Ivano Russo, e discussioni tra Sabrina e la madre per quello che avrebbe potuto dire la gente c'erano, a detta dal pm. Buccoliero ha letto in aula alcuni sms tra Sabrina e Ivano dai quali emerge un contesto scabroso che avrebbe caratterizzato la comitiva di cui faceva parte anche Sarah, dove i discorsi a sfondo sessuale sarebbero stati un’abitudine e dove compare persino uno “spogliarello” maschile con “paghetta” per lo spettacolo offerto. Un contesto, sostiene il pm, che se fosse stato svelato anche dalla stessa Sarah alla madre avrebbe danneggiato irrimediabilmente l’immagine della famiglia Misseri in un piccolo centro di provincia quale Avetrana. “Quel 26 agosto, in quella casa, è mancata la pietà umana – ha commentato il pm - ed ha prevalso l’istinto di conservazione, che ancora è prevalente in quest’aula da parte di tutti e tre”, riferendosi ai componenti della famiglia Misseri. Per il pm i Misseri hanno mentito sempre e su tutto e sono smentiti da una mole impressionante di dati emersi dal dibattimento. In aula il pm Mariano Buccoliero ricostruisce l'omicidio della quindicenne di Avetrana. E lo fa partendo proprio dai frammenti di verità ricostruiti nell'inchiesta. "All'arrivo di Mariangela Spagnoletti a casa Misseri il corpo di Sarah era già nel cofano dell'auto di Michele Misseri". Sabrina Misseri ha mentito quando ha detto di aver saputo come Sarah era vestita perché gliel’aveva riferito la madre della vittima, Concetta Serrano: «La madre non lo sapeva, lo sapeva la badante». Inoltre, per il pm, quando a casa Misseri arrivò l’amica Mariangela Spagnoletti, Sarah era già morta. Non a caso Sabrina andò ad aspettarla sulla strada. Per la procura, doveva fare da palo mentre la madre Cosima e il padre Michele nascondevano il corpo della vittima nel bagagliaio dell’auto. Una «farsa» quella dei Misseri, smentita da una montagna di dati e testimonianze. Il pm ha anche stigmatizzato in aula una delle contraddizioni più evidenti della versione di Sabrina Misseri: il giorno della scomparsa, infatti, la ragazza descrisse dettagliatamente all'amico Alessio Pisello i vestiti che indossava Sarah. Ma, lei stessa, ha sempre detto di non aver visto la cugina, quindi non poteva sapere come era vestita. "Sabrina - ha aggiunto - disse di aver saputo come Sarah era vestita da Concetta, che lo aveva saputo dalla badante. Ma è falso, falsità finalizzate ad impedire che si riconduca all'arrivo di Sarah a casa Misseri". Per il pm Sabrina avrebbe raccontato almeno due grandi falsità: la prima sui momenti in cui Mariangela arrivò a casa e l'altra sui frangenti nei quali Mariangela lasciò a casa per la prima volta Sabrina dopo l'inizio delle ricerche. "Da parte di Sabrina - ha spiegato Buccoliero - c'è la volontà di impedire a Mariangela di scendere dall'auto, e poi Sabrina ha funzione di palo perchè in garage c'erano padre e madre che si occupavano delle cose di Sarah". Cosima Serrano ha mentito quando ha dichiarato che quel giorno, dalle 15, dormiva: «I tabulati dimostrano che intercorsero almeno una decina di telefonate con la figlia».  "Cosima ha sempre sostenuto che era a letto a riposare dalle 15 in poi di quel giorno. Ma i tabulati testimoniano una decina di contatti telefonici. Molti dei quali con la figlia Sabrina". Così il pubblico ministero ha analizzato la posizione di Cosima Serrano nei momenti successivi al delitto. "Cosima quel giorno è stata l'organizzatrice dei movimenti perché lei era in casa a far sparire tutto. Perché in quella casa era stata strangolata la povera piccina". Il magistrato ha anche sottolineato come la presunta dama nera di via Deledda alle 15.18 era giù in garage, come testimonia il segnale del suo cellulare. A quell'ora, infatti, la zia di Sarah telefonò al marito che era già nella zona del pozzo di contrada Mosca dove nascose il cadavere della ragazzina. Sarah era in intimità con la cugina, raccoglieva confidenze anche di natura sessuale e probabilmente alla base del delitto, c'è anche il timore che dopo il litigio scoppiato intorno alle 14:00 del 26 agosto in casa Misseri, Sarah tornasse a casa e raccontasse in famiglia alcuni episodi scabrosi che avrebbero rovinato l'immagine della famiglia Misseri. Michele Misseri non è riuscito a tenere il segreto, ha fatto ritrovare il cellulare della nipote ed intercettato durante un soliloquio nella sua auto, poco prima di portare i carabinieri nel luogo dove ha nascosto il corpo, confessa di non credere alla versione che le donne di casa gli hanno rivelato. Sugli assassini il pm non ha avuto dubbi: «Sono state Sabrina e sua madre Cosima e non è stato un delitto premeditato ma l’effetto micidiale di un mix di rabbia, paura e risentimento». La rabbia della giovane ventitreenne per come la cugina più piccola riuscisse ad attirare su di sé le attenzioni del bell’Ivano Russo di cui lei era innamorata; la paura di Cosima che la nipote Sarah potesse diffondere notizie sconvenienti per il «buon nome della famiglia e per l’onore della figlia Sabrina»; infine il risentimento di entrambe nei confronti della mamma della vittima, Concetta Serrano Spagnolo, baciata dalla fortuna e da due ricche eredità che non erano andate alle altre sorelle. Sconvolta si è detta invece Concetta, mamma di Sarah che intervistata all’uscita del tribunale ha espresso «disgusto» per i messaggi a luci rosse tra Sabrina, Ivano e Alessio Pisello. «Se lo avessi saputo – ha detto Concetta – non avrei certo lasciato mia figlia nelle loro mani».  "Del suicidio non mi interessa. Ma nella vita mai dire mai". Così Concetta Serrano Spagnolo, la mamma di Sarah Scazzi, ha commentato le ultime dichiarazioni in televisione del cognato Michele Misseri, arrivando in Tribunale.  Durante la trasmissione domenica live su canale 5 del 3 marzo 2013 l'uomo aveva minacciato di togliersi la vita in caso di condanna in Cassazione della figlia e della moglie alla sbarra. In aula, presenti i principali imputati. Concetta Serrano, madre di Sarah, prima che iniziasse l’udienza e riferendosi alle ultime dichiarazioni televisive del cognato Michele Misseri, ha commentato seccamente: “Per farsi pubblicità gli mettono la camicia a quadri e lo mandano in tv. Quando tutto sarà finito, dovrà fare i conti con la propria coscienza”.

LE COMPLICITA’. Carmine Misseri quel 26 agosto 2010 ricevette dal fratello Michele diverse telefonate, inizialmente alle 15.08 e alle 17.25. Nella prima Michele lo avrebbe chiamato piangendo, secondo quanto emerso dalle intercettazioni, per chiedere un aiuto perchè era accaduta una disgrazia. Entro le 15.30 Michele è al pozzo in contrada Mosca per nascondere il cadavere e lì c'era anche il fratello Carmine. E’ la tesi del pubblico ministero Mariano Buccoliero che nell’ultima parte della sua requisitoria al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi sta esaminando le posizioni degli imputati Carmine Misseri e Cosimo Cosma, accusati di concorso in soppressione di cadavere. Dopo la telefonata delle 15.08, ha spiegato il pm, Carmine non è più in casa con la moglie. Carmine invece riferì che in quei frangenti era a lavorare in alcuni terreni con la moglie in una zona però diversa da quella che risulta dai tabulati telefonici. In una intercettazione ambientale del 27 dicembre 2010 tra Carmine e la moglie si ipotizza anche di trovare un falso testimone che confermi la presenza di Carmine in quei terreni e non nella zona del pozzo. In un’altra intercettazione ambientale emergerebbe che Carmine avrebbe visto il cadavere di Sarah in contrada Mosca, rimanendo turbato. In una intercettazione ambientale Carmine Misseri, parlando con la moglie, indica esplicitamente il coinvolgimento anche del nipote Cosimo Cosma nella soppressione del cadavere di Sarah Scazzi nel pozzo in contrada Mosca, operazione che sarebbe stata eseguita da Michele Misseri insieme al fratello e al nipote. Cosma, ha sostenuto il pm, ha dato due versioni su cosa fece nel pomeriggio del 26 agosto 2010, giorno dell’uccisione di Sarah. Nella prima disse di essere stato a lavorare in campagna dalle 15.30 alle 21; nella seconda disse di essersi trattenuto a casa sino alle 18.30, ma perchè a quell'ora Cosma risponde ad una telefonata di Michele sul cellulare della moglie, che è nell’abitazione. In realtà, ha affermato il pm, dalle 13.42 alle 16.26 Cosma non è in casa e dice il falso. «Quel giorno - ha aggiunto – Michele in auto, col cadavere di Sarah nel cofano, passò a prendere dalla sua abitazione il nipote Cosimo e, facendo una piccola deviazione, andò al pozzo per nascondere il corpo. Quel giorno lì erano in tre, non conosciamo però i ruoli che ebbero nella soppressione del cadavere».

LE RICHIESTE. Ergastolo: la parola, pesantissima, è risuonata in aula Emilio Alessandrini  del tribunale di Taranto alle 18.15 del 5 marzo 2013, pronunciata dal pm Mariano Buccoliero. Il volto di Cosima Serrano ha mostrato un attimo di turbamento per poi rimanere impassibile, sua figlia Sabrina Misseri è invece scoppiata in lacrime mentre il rappresentante della pubblica accusa proseguiva con le richieste di condanna per i nove imputati. «Con serenità, ma anche con un pizzico di amarezza, signor presidente, il pubblico ministero domanda per Misseri Sabrina e Serrano Cosima di dichiararle colpevoli del reato di omicidio volontario e sequestro di persona e condannarle alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per la durata di mesi sei, interdizione perpetua dai pubblici uffici e decadenza della potestà genitoriale». «Oltre a togliere la figlia ad una madre – ha detto riferendosi alle imputate –, hanno tentato di togliere ad una mamma il diritto di piangere sulla tomba della propria figlia; hanno fatto questo con il cadavere della bambina sotto i piedi. In quella casa – ha ripetuto il pm – è mancata la pietà umana e quel giorno forse il nostro Signore si è distratto un attimo». Consapevole della pesantezza delle richieste da avanzare alla corte, il sostituto procuratore ha voluto giustificare così la durezza delle pene: «Sono richieste che i pm sono stati costretti ad avanzare - ha detto il pm - per le modalità dell'azione, la capacità a delinquere, i modi, i luoghi. Sarah è morta dove è stata cresciuta. È entrata in quella casa per andare a mare, è uscita in lacrime, è stata ripresa in lacrime, riportata in casa in lacrime ed uccisa in lacrime. Lacrime che non hanno sortito alcun effetto. L'omicidio - ha aggiunto il pm - è durato dai tre ai cinque minuti. Lei ha capito in quei minuti che stava morendo per mano di chi diceva di volerle bene. Nessuna delle due donne ha avuto un momento di resipiscenza, fermarsi e dire che stiamo facendo». I pm hanno chiesto il massimo della pena per Cosima Serrano e Sabrina Misseri per la gravità del danno, «togliere la vita ad una ragazzina di 15 anni, privare la madre persino della possibilità di andare a piangere su una tomba». «E subito dopo - ha concluso il pm - è scattata l'organizzazione, con ruoli specifici, l'istinto di conservazione. Ripeto, signori della Corte, ciò che ho detto ieri, è mancata la pietà umana quel giorno». Prima di lui ha parlato il procuratore aggiunto Pietro Argentino. «L’estrema gravita dei reati di cui ci stiamo occupando e l’efferatezza e spregiudicatezza di chi li ha commessi – ha detto il numero due della procura tarantina – ci ha costretti a porci sopra il minimo di pena previsto». “Un delitto per motivi abietti”: così il procuratore aggiunto di Taranto, Pietro Argentino, ha definito l’uccisione della quindicenne Sarah Scazzi iniziando la sua requisitoria, al termine di quella del sostituto procuratore Mariano Buccoliero, durata tre udienze e mezza. “Sabrina stessa – ha detto tra l’altro Argentino – ammette che aveva scatti d’ira anche per cose non importanti. Lei non aveva solo risentimento nei confronti di Sarah perchè avrebbe letto alla presenza di altri un sms di Sabrina riferito ad Ivano e per aver riferito al fratello Claudio del rapporto sessuale avuto dalla stessa Sabrina in auto con Ivano, ma anche rabbia perchè Ivano l’avrebbe umiliata più volte pubblicamente”. La formulazione del pm è stata seguita dalle lacrime di Sabrina. Cosima Misseri era turbata, mentre Michele Misseri è rimasto impassibile.  Condanne pesanti sono state chieste anche per gli altri sette imputati. Nove anni per Michele Misseri e otto a testa per suo fratello Carmine e il nipote Cosimo Cosma, tutti e tre per il reato di soppressione di cadavere. Per tutti sono state applicate le aggravanti previste. Esemplare anche la richiesta di pena per l’avvocato Vito Russo, ex difensore di Sabrina Misseri che rischia tre anni e mezzo di reclusione e l’interdizione dalla professione per cinque anni. Tre anni a testa per favoreggiamento per Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano, cognato e suocera di Giovanni Buccoliero, il fioraio protagonista del presunto sogno sul sequestro di Sarah. Tre anni anche per Giuseppe Nigro, albergatore di Avetrana che avrebbe indotto una teste del processo a dichiarare il falso. Sono otto invece i testimoni (di loro parliamo a parte) che saranno sottoposti ad indagine perchè sospettati di falsa testimonianza. Il pubblico ministero Mariano Buccoliero in 23 ore di requisitoria, fisicamente estenuante ma professionalmente ineccepibile, tutta minuti, tabulati, testimonianze e perfino bugie incrociate, ha portato all’attenzione della corte d’assise la condotta di una famiglia che non ha avuto pietà di una bambina o che non ha cercato una chiamata al 118 o ad un medico amico di restituirla alla vita. Queste le sue richieste.

MISSERI MICHELE ANTONIO (concorso in soppressione di cadavere, danneggiamento seguito da incendio, furto aggravato): nove anni di reclusione, interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e sospensione della potestà genitoriale per la durata della pena; non doversi procedere per il reato di danneggiamento, così derubricato dalla imputazione originaria, per difetto di querela; a pena espiata, un anno di libertà vigilata;

SERRANO COSIMA (concorso in omicidio volontario, concorso in sequestro di persona, concorso in soppressione di cadavere, concorso in furto aggravato): ergastolo con isolamento diurno per sei mesi, interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e decadenza dalla potestà genitoriale; pubblicazione della sentenza di condanna mediante affissione nei Comuni di Taranto e di Avetrana, nonchè sul sito Internet del ministero della Giustizia per 30 giorni;

MISSERI SABRINA (concorso in omicidio volontario, concorso in sequestro di persona, concorso in soppressione di cadavere, concorso in furto aggravato, calunnia): ergastolo con isolamento diurno per sei mesi, interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e decadenza dalla potestà genitoriale; pubblicazione della sentenza di condanna mediante affissione nei comuni di Taranto e Avetrana, nonchè sul sito Internet del ministero della Giustizia per 30 giorni;

MISSERI CARMINE (concorso in soppressione di cadavere): otto anni di reclusione, interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e sospensione della potestà genitoriale per la durata della pena; a pena espiata, un anno di libertà vigilata;

COSMA COSIMO (concorso in soppressione di cadavere): otto anni di reclusione, interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e sospensione della potestà genitoriale per la durata della pena; a pena espiata, un anno di libertà vigilata;

RUSSO VITO JUNIOR (intralcio alla giustizia, favoreggiamento personale): tre anni e sei mesi di reclusione, interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, interdizione dall’esercizio della professione per la durata della pena;

COLAZZO ANTONIO (favoreggiamento personale): tre anni di reclusione, interdizione dai pubblici uffici per cinque anni;

NIGRO GIUSEPPE (favoreggiamento personale): tre anni di reclusione, interdizione dai pubblici uffici per cinque anni;

PRUDENZANO COSIMA (favoreggiamento personale): tre anni di reclusione, interdizione dai pubblici uffici per cinque anni.

Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto alla corte d’assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima.

Ivano Russo in collegamento da Avetrana con “La Vita In Diretta” con Marco Liorni si è lamentato del fatto che lui ha rischiato di essere arrestato perché sospettato del delitto o comunque di essere reticente o falso, oggi verrebbe indagato, pur inquadrate le responsabilità del delitto, per essere stato reticente e falso.

11 marzo 2013. 42ª udienza. Arringhe delle Parti civili: Nicodemo Gentile, Valter Biscotti e Francesco Cozza per Concetta Serrano, Giacomo Scazzi e Claudio Scazzi; Luigi Palmieri per Maria Ecaterin Pantir.

Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, cosa fa?  Ha affidato agli avvocati Giuseppe e Pasquale Corleto del foro di Lecce la costituzione di parte civile per il ristoro del danno a carico di Michele, Carmine e Sabrina Misseri, Cosima Serrano e Cosimo Cosma. Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, responsabili di delitti che niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». C’è anche la corona di fiori servita per i funerali di Sarah Scazzi (costo 250 euro) nell’elenco delle spese sostenute dal comune di Avetrana per l’ultimo saluto alla ragazza uccisa. Come anche il fascio di orchidee per lo stesso evento, il funerale, la sepoltura, le sedie e il palco della cerimonia funebre, le locandine con la foto della scomparsa: dodicimila euro in tutto. Ed è solo una piccola parte del conto che l’ente civico presenterà ai cinque dei nove imputati del processo davanti alla Corte d’assise di Taranto. Più corposo e «incalcolabile» il danno morale subito dalla comunità la cui «offesa» viene così esposta nelle nove pagine firmate dai legali Corleto. Oggi è stato il giorno della discussione dei legali di parte civile nel processo per l'omicidio della quindicenne di Avetrana. Mamma Concetta ha gli occhi umidi. Ha lo sguardo perso, è una maschera di dolore. Sarah il prossimo 4 aprile avrebbe compiuto 18 anni: lo ricorda l'avvocato Gentile prima di affondare i colpi contro la famiglia Misseri. In aula c'è un'atmosfera surreale. Gli avvocati si rivolgono direttamente agli imputati, qualche volta danno le spalle ai pubblici ministeri e alla Corte d'Assise. Si incrociano gli sguardi: Michele Misseri china spesso la testa, mentre Sabrina piange e la mamma Cosima mantiene un atteggiamento imperturbabile.

Pasquale Corleto per il Comune di Avetrana. Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente  «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono, «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, buttando a mare tutti gli avvocati precedenti hanno imposto questa linea  della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Il decano dei penalisti leccesi ha poi descritto Michele Misseri come «un uomo buono, schiacciato tra il peso dello scrupolo e l’amore per la figlia Sabrina, ma era anche uno zio che voleva bene a Sarah e per questo alla fine non ce l’ha fatta ed è crollato». Quindi il legale si è soffermato sulla paura che Michele Misseri provava per la moglie come «un’Arpia che lo ha soggiogato». Convinto della colpevolezza delle due donne per le quali il pm aveva chiesto l’ergastolo, l’avvocato Corleto ha evidenziato come «Sabrina, in quel periodo, si sia impossessata dei media che a loro volta l’hanno utilizzata per i propri scopi». L'avv. Pasquale Corleto per conto del Comune di Avetrana ha parlato dell’attenzione mediatica riservata al processo e si è soffermato sul lavoro degli investigatori definendolo «eccezionale». «Non dobbiamo cercare all’esterno la verità. È una realtà circoscritta, un cerchio. Come si fanno ad avanzare altre teorie». Quindi l’Avvocato Corleto ha sottolineato che “Michele Misseri non è un delinquente”. E’ un personaggio che “fa tenerezza”, poichè “è combattuto” tra il bene che vuole alla figlia e quello per la nipote ed è avvinto dal rimorso. Alla fine vince questa lotta disperata. Infine, ha evidenziato che “se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non  si sarebbe  potuto parlare della contestazione d’accusa di sequestro di persona”. Più di tutti parla del testimone  Ivano Russo, “insieme ad altri, gigante del turpiloquio, del falso e del depistaggio”. ”Questi testimoni, parlano fuori dall’aula, magari nelle interviste, ma quando devono dire qualcosa di concreto, si rifugiano dietro i “non ricordo”.Poi rincara la dosa: “Sarah  è stata usata in un gioco sadico”. Per l'avvocato Pasquale Corleto, il processo è chiuso, "non c'è ipotesi alternativa, la tesi difensiva è disperata". «Avetrana - ha detto il patrono di parte civile in aula - è una città di persone che lavorano, colpita al cuore nel primo pomeriggio di quel giorno di agosto da un fatto totalmente atipico ma c'è stata una banda del falso, ben identificata, a cominciare da Ivano Russo, che spesso s'è nascosto dietro i “non-ricordo”». L'avvocato Corleto ha avuto parole dure per Sabrina Misseri, definita una "criminale tendenziale" per la sua attività di depistaggio dopo il delitto, una "assassina che diventa la regista di intelligenza diabolica del muro di gomma ed omertà, si inserisce nel mondo dei media e trionfa perché lo utilizza". Il delitto, senza il pentimento di Michele Misseri, sarebbe rimasto irrisolto. Per l'avvocato del Comune di Avetrana, credere che il fioraio Buccolieri abbia solo sognato la scena del sequestro, farebbe ridere il mondo. "Ci sono testimoni, - ha detto Corleto - persone perbene di Avetrana, che hanno smontato il sogno e l'hanno buttato giù dal castello". «Michele Misseri è un grosso personaggio della storia giudiziaria. Ha lavorato in Germania, ha guadagnato il pane per la sua famiglia, è un uomo buono che ha sempre vissuto a contatto con la natura». «Michele – ha aggiunto – si è trovato nel labirinto di Minosse, tra il peso di uno scrupolo enorme e l’amore per la prediletta Sabrina. È un uomo che si aggira nel labirinto e non ce la fa più. La verità l’ha detta nell’incidente probatorio. Alla fine ha prevalso lo scrupolo». L’avv. Corleto ha poi detto che Avetrana è stata «colpita nel cuore in una giornata d’agosto, alla controra, quando è accaduto un fatto che è di una atipicità unica». Per il legale Sabrina ha ucciso e poi ha chiamato il padre: «Papà, papà, guarda che è successo». E Michele, «che non avrebbe saputo schiacciare una mosca, dice: ci penso io. Ma se avesse pensato in maniera totale oggi non saremmo qui». Michele Misseri, ha precisato Corleto, «vuole bene a Sarah e non abbandona Sarah dall’inferno del pozzo dove lui stesso la depone». Su Misseri ha ribadito che "è un uomo buono che vuole bene a Sarah e non la abbandona, perché la verità l'ha detta nell'incidente probatorio". Michele è un uomo buono, diviso tra lo scrupolo di dire la verità e il desiderio di salvare la figlia prediletta. Ed è soggiogato dalla moglie arpia, capace di un predominio diabolico. Secondo il legale del Comune di Avetrana Michele ha adempiuto a un «dovere criminale proveniente da una regia assassina. Sabrina, invece, non solo uccide ma rileva una criminalità tendenziale. Uccide e dopo un secondo inizia la criminale attività di depistaggio. Un depistaggio che fa paura. E' stata pervicace regista del branco della prova distorta che ha impedito l’attività dell’amministrazione della giustizia». Corleto ha ricordato le fiaccolate organizzate da Sabrina quando ancora non si sapeva che Sarah era stata uccisa. «L'assassina - sottolinea il legale – diventa la regista dalla intelligenza diabolica che si inserisce nel mondo dei media e trionfa». Anche Ivano Russo viene definito dal legale «un gigante dei depistaggi». Parole dure sono piombate anche sugli amici di Sabrina bollati come "banda di bugiardi". In particolare nel mirino è finito Ivano Russo definito come "gigante del turpiloquio, del falso e dei depistaggi". "Questi testimoni  -  ha concluso  -  parlano fuori dall'aula, nelle interviste, ma quando devono dire qualcosa di concreto si rifugiano dietro i non ricordo". Il legale ha anche depositato una memoria con la quale ha formalizzato la richiesta di risarcimento di 300.000 euro. 

Nicodemo Gentile per la famiglia Scazzi. "Alzatevi tu e tuo padre e dite finalmente la verità". Così l'avvocato Nicodemo Gentile del foro di Perugia, legale di Concetta Scazzi si è rivolto a Sabrina Misseri nel corso della sua arringa in Assise, durante il processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Sabrina non ha battuto ciglio. «La mamma di Sarah ha sempre chiesto giustizia, e mai vendetta. Qui si celebra un processo per il peggiore dei massacri. Sarah  -  ha aggiunto - doveva essere squagliata, doveva sparire. Doveva diventare parte dell'esercito degli scomparsi. Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi. E' stata messa sotto terra e gettata nel pozzo nuda. Lo dice Michele Misseri qual è stata la ragione di questa scelta: 'l'ho spogliata perché i vestiti non si squagliano'. La realtà è che Sarah doveva sparire. Questa donna vi ha consegnato il suo dolore. Lei vuole una giustizia giusta, proporzionata a quello che è accaduto. Il nostro ordinamento lo prevede - ha sottolineato l’avv. Nicodemo Gentile parlando di Concetta Serrano - questa è anche la storia di un omicidio domestico. Sarah è stata dipinta come la terza figlia dei Misseri e la seconda sorella di Sabrina, ma non é vero. Sarah è stata massacrata in casa, nel posto dove si sentiva più sicura, dove Concetta la mandava perché si fidava.. Michele Misseri è il becchino di Avetrana che ha abbandonato Sarah come un qualsiasi rifiuto e questo é il processo dell'umiliazione gratuita. Concetta è stata umiliata quando addirittura si voleva additare al suo comportamento la causa della morte di Sarah perché la faceva uscire troppo e la mandava a casa della zia. Concetta non ha avuto la possibilità di dare nemmeno l'ultimo bacio alla figlia. Sabrina è una mente che fabbrica le bugie. L'imputata giustifica la bugia con un'altra bugia che non ammette anche quando è impossibile negare. Non avevamo bisogno delle testimonianze della Spagnoletti, della Nigro, della Cimino per dire che Sabrina era completamente partita con la testa per Ivano. È lei che ha continuamente negato questa circostanza. Qui non si colpevolizza Sabrina perchè, come si dice in questi casi, aveva “sbroccato" per Ivano, ma perchè ha negato. Il forte conflitto tra la madre e la figlia Sabrina. Quest'ultima ha una sua attitudine a essere aggressiva. Questa è anche la storia di un omicidio domestico avvenuto in casa dei parenti dove la madre di Sarah la mandava perchè si fidava della nipote Sabrina. E invece è stata umiliata e ferita dai suoi parenti, non solo dalle imputate ma anche dalle sorelle Emma e Dora Serrano e dal fratello Giuseppe quando hanno testimoniato ed il gelo interiore degli imputati, dei familiari e di molti testimoni. Michele Misseri è il becchino di Avetrana: ha abbandonato Sarah nel pozzo come un frigorifero che non funziona più. Questo è qualcosa di più di un processo indiziario». L'intercettazione in carcere, quando Michele Misseri chiede all'altra figlia Valentina: “cosa sta nascondendo Sabrina? Che parlasse”, secondo l'avvocato Gentile basterebbe alla condanna. Per il legale della famiglia Scazzi le prove vengono dagli stessi imputati non tanto dagli altri testimoni. «Siete voi che vi contraddite - ha affermato l'avvocato Gentile, rivolgendosi ai tre imputati, Sabrina Misseri, Cosima Serrano e Michele Misseri - alzatevi e dite la verità». Ma poi ci sono due confessioni extragiudiziali, ha ricordato l'avvocato, e cioè le parole dette da Sabrina Misseri all'amica Anna Pisanò la sera del ritrovamento del cadavere, il 6 ottobre del 2010, e il soliloquio di Michele Misseri poche ore prima dell'interrogatorio durante il quale fece la sua prima confessione. «La seconda confessione extragiudiziaria di Michele Misseri, quella della ritrattazione, è stata etero-indotta. È falsa. Ed emerge anche dalle successive indagini. Il contadino non sa nulla dell'evento omicidiario». Gentile ha ricordato alcune intercettazioni ambientali e poi ha censurato il comportamento di «alcuni personaggi, con smania patologica di mettersi in evidenza, che hanno invaso i mezzi di informazione in ogni momento e anche di recente andando a vomitare pareri e sentenze. Ma qui - ha aggiunto - si sta oltraggiando la memoria di una bambina di 15 anni a cui è stato spento il sorriso. La mamma della quindicenne uccisa ad Avetrana, una mamma – ha detto il legale – che non vuole vendetta, ma giustizia. Sarah – ha detto Gentile – è stata umiliata, maltrattata e il pm Mariano Buccoliero l’ha presa sulle sue spalle, è riuscito a stare sempre un passo indietro, fuori dal clamore. Questo è "il processo dell'umiliazione gratuita. Concetta è stata umiliata quando addirittura si voleva additare al suo comportamento la causa della morte di Sarah perché la faceva uscire troppo e la mandava a casa della zia. Concetta non ha avuto la possibilità di dare nemmeno l'ultimo bacio alla figlia». Gentile ha ringraziato il pm Buccoliero, rappresentante dell’accusa insieme al procuratore aggiunto Pietro Argentino (definito dal legale «il secondo papà di Sarah“), facendo presente che il magistrato «si è fatto carico di un sentimento collettivo e l’abbiamo visto anche in difficoltà emotiva. La giovane età e la incensuratezza di Sabrina astrattamente richiederebbero dei benefici nei suoi confronti ma lei non ha avuto un attimo di pietà per la terza sorella e quindi non è giusto che abbia alcuna attenuante. A meno che non decida di farlo prima di farlo prima della fine di questo processo.  L'avvocato Gentile si è associato alla richiesta dei pm della Procura di Taranto della pena dell'ergastolo sia per la 24enne che per la madre Cosima Serrano. Per questa "resipiscenza" e per questo "pentimento" occorrerebbe che "il gelo si sciolga". Secondo il legale le due donne nella scelta tra la sicurezza dell'impunità e la necessità di dare una degna sepoltura a Sarah non hanno avuto alcuna esitazione, non sono arretrate di un centimetro». E Concetta, la madre di Sarah, proprio su questo "non riesce a capire l'atteggiamento della sorella Cosima". Gentile ha anche evidenziato che la ragazzina "è morta in casa Misseri perché non aveva interesse ad entrare in garage". E si è soffermato su alcuni componenti della comitiva che frequentava la vittima. "Tutti dicevano che era come una sorella ma l'hanno tradita", ha concluso.

Walter Biscotti per la famiglia Scazzi. Secondo un altro avvocato della famiglia Scazzi, Valter Biscotti, «è Cosima la regista dell'attività di depistaggio e ce lo fa capire Michele Misseri la sera in cui confessa e consente il ritrovamento del corpo della bambina quando chiede agli inquirenti di non dire nulla alla moglie». Biscotti ha fatto riferimento anche a un'intercettazione ambientale in carcere, in particolare a quella in cui il contadino di Avetrana dice: “Quel pomeriggio abbiamo fatto i furbacchioni, forse dovevamo chiamare il 118". Secondo il legale, Michele Misseri "ci fa capire che dopo l'omicidio c'è stata una discussione sul da farsi nella famiglia, tra Michele e le due donne. Forse non si può dire che ci sia stata una trattativa perché Michele non aveva la capacità di trattare in quel momento”". «Il tempo sta per scadere. Se davvero vuole bene a sua figlia ha un’ultima carta da giocare, non la boccettina bianca che ci ha fatto vedere con la minaccia del suicidio, ma quella di dire la verità. Sua figlia – ha aggiunto Biscotti – è giovane. Forse lei è l’unico che la può salvare dall’ergastolo. C'è ancora tempo e invece di guardare l’altarino che ha in garage provi a pensare a cosa è passato per la mente di Sarah quando la stavano uccidendo». Gli avvocati Nicodemo Gentile, Walter Biscotti e Antonio Cozza si sono associati alle richieste di condanna dei pubblici ministeri per gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi e confermato la richiesta di risarcimento danni per 33 milioni di euro. Ogni componente della famiglia Scazzi, infatti, ha chiesto tre milioni di euro ciascuno a Michele, Cosima e Sabrina Misseri e due milioni ciascuno a Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello e nipote di Michele accusati di averlo aiutato a nascondere il cadavere della ragazza di Avetrana, nel pozzo di contrada Mosca. L’udienza si è conclusa con le arringhe dell’avvocato Antonio Cozza, parte civile di Claudio Scazzi, fratello di Sarah e Luigi Palmieri che rappresenta l’altra parte civile del processo, Ecaterina Pantir, la badante rumena calunniata, secondo l’accusa, da Sabrina Misseri. Al processo è intervenuto anche l'avvocato Luigi Palmieri, parte civile per Maria Pantir, la badante romena di casa Scazzi (assisteva il nonno di Sarah deceduto a settembre 2010) accusata ingiustamente da Sabrina Misseri di essere coinvolta nella scomparsa della cugina. La collaboratrice familiare della famiglia di Sarah è parte offesa per il reato di calunnia contestato a Sabrina Misseri. Secondo l’accusa, l’opera di depistaggio dell’imputata è sfociata anche nel tentativo di adombrare sospetti sulla donna in un interrogatorio dinanzi ai carabinieri a settembre 2010.

12 marzo 2013. 43ª udienza. Arringhe delle Difese di Michele Misseri e delle parti meno importanti: Paquale De Laurentiis per Giuseppe Nigro, Giovanni Scarciglia e Lello Lisco per Cosima Prudenzano e per Antonio Colazzo, Gianluca Pierotti per Vito Russo, Luca Latanza per Michele Misseri.

Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, « Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. E’ passata sotto silenzio la 43ª udienza. Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele Misseri. Tra i media locali addirittura Telerama news ha ignorato l’evento.

Paquale De Laurentiis per Giuseppe Nigro. E' ripreso il processo per l'omicidio di Sarah Scazzi e lo ha fatto con l'arringa dell'avvocato Pasquale De Laurentiis, difensore di Giuseppe Nigro, accusato di favoreggiamento personale. Il Legale ha chiesto l’assoluzione per il suo assistito. Pasquale De Laurentis che difende l’albergatore di Avetrana, Giuseppe Nigro, titolare de “La Grottella” accusato di favoreggiamento. «Per aver cercato di nascondere irregolarità contributive su una sua parente-dipendente – ha detto De Laurentis – avete trascinato nella marmaglia una persona per bene che nulla a che vedere con un delitto così terribile».

Giovanni Scarciglia e Lello Lisco per Cosima Prudenzano e per Antonio Colazzo. I legali hanno chiesto l’assoluzione per i loro assistiti, suocera e cognato di  Giovanni Buccolieri, il fioraio che prima disse di aver visto la scena del sequestro di Sarah da parte della zia Cosima Serrano il pomeriggio del 26 agosto 2010 e poi ritrattò sostenendo che si era trattato di un sogno.

Gianluca Pierotti per Vito Russo. Ha chiesto l'assoluzione “perché il fatto non sussiste o perché non costituisce reato” l'avvocato Gianluca Pierotti, che difende il suo collega Vito Russo, ex difensore di Sabrina Misseri, al processo davanti alla Corte di Assise del Tribunale di Taranto per l'omicidio di Sarah Scazzi. La sua arringa è durata poco meno di due ore. L'avvocato Vito Russo è imputato di intralcio alla giustizia e favoreggiamento personale relativamente a un unico episodio. Accusato di favoreggiamento ed intralcio alla giustizia per aver cercato di estorcere una testimonianza ad Ivano Russo favorevole alla sua assistita, Sabrina appunto, facendogli intendere che rischiava l'arresto. L'accusa, che per lui ha chiesto 3 anni e 6 mesi di reclusione, sostiene che nel corso di indagini difensive avrebbe minacciato un testimone, Ivano Russo, nel tentativo di indurlo a cambiare versione, e avrebbe anche distrutto un verbale di interrogatorio. «Vi chiedono di condannare una persona per bene incensurata – ha detto Pierotti – per quello che ha detto uno come Ivano Russo che la stessa procura ha chiesto di indagarlo per falsa testimonianza». Per meglio inquadrare «il personaggio», l’avvocato Pierotti ha letto alcune intercettazioni ambientali in cui il giovane Russo concordava la vendita di interviste a giornali e televisioni «alimentando così – ha detto – un vergognoso mercimonio sulla disgrazia di una bambina». In particolare l'avvocato Pierotti nella sua arringa ha puntato sulla dubbia credibilità della testimonianza di Ivano Russo."Mente sapendo di mentire", ha detto, sottolineando che è la stessa Procura a ritenerlo "un testimone bugiardo". Ed infatti per Ivano, il giovane che sarebbe stato la causa della tensione tra Sabrina e Sarah, i pm, al termine della requisitoria, hanno chiesto alla Corte la trasmissione degli atti intravedendo l'ipotesi di reato di falsa testimonianza. Scontata anche per lui la richiesta di assoluzione per il suo assistito.

Luca Latanza per Michele Misseri. L'avvocato Luca La Tanza, legale di ufficio di Michele Misseri al processo in Corte di Assise a Taranto per l'omicidio di Sarah Scazzi, ha chiesto l'assoluzione del suo assistito dall'accusa di concorso in soppressione di cadavere e, in subordine, la riqualificazione del reato in occultamento di cadavere. Quest'ultimo reato prevede una pena più leggera. La Procura della Repubblica al termine delle requisitorie del pm Mariano Buccoliero e del procuratore aggiunto Pietro Argentino aveva chiesto per Misseri una pena a nove anni di reclusione. Il contadino di Avetrana è imputato anche per il furto del cellulare di Sarah e di danneggiamento seguito da incendio anche se per quest'ultima accusa la Procura ha chiesto il proscioglimento per difetto di querela. Una «richiesta assurda e provocatoria», l’ha definita lo stesso legale il cui intervento ha chiuso la 43sima udienza del processo in Corte d’assise che vede alla sbarra, accusate di omicidio, Sabrina Misseri e Cosima Serrano, sua madre, per le quali la procura ha chiesto l’ergastolo. Andando contro il volere del suo assistito, dunque, l’avvocato La Tanza ha fatto ciò che doveva, difendendo l’imputato che dichiarandosi colpevole cerca di ridare la libertà alla figlia Sabrina e sua moglie Cosima accusate, sostiene lui, ingiustamente. Ignorando volutamente la fase omicidiaria della giovane vittima, l’avvocato La Tanza («non è quello il mio compito», ha detto), ha citato una frase intercettata a Misseri durante un colloquio in carcere con la nipote Maria Greco. «Quando l’hanno seppellita io non c’ero», disse l’uomo in quella occasione. Per la procura quella frase era riferita ai funerali della nipote Sarah e non al suo occultamento in contrada Mosca. L'avvocato La Tanza ha sottolineato che "ci troviamo di fronte a un processo 'sui generis'" e si è soffermato "sulle difficoltà che ha presentato la difesa di Michele, un personaggio atipico e pittoresco". Inoltre ha ricordato che "i sanitari del carcere hanno riferito in aula del malessere psicologico di Michele Misseri. Lo stato confusionale è stato evidenziato dalle parti processuali più volte. Ma nessuno ha potuto verificare le condizioni effettive di Michele Misseri". In subordine l'avvocato ha chiesto la riqualificazione del reato trasformandolo da soppressione in occultamento di cadavere. Per quest'ultimo il Codice penale prevede una pena meno pesante perché nel primo caso si vuole impedire qualsiasi ritrovamento mentre nel secondo si tratta di nascondere il cadavere solo in modo temporaneo. Secondo l'avvocato La Tanza, Misseri avrebbe subito "uno shock emotivo particolarmente violento" determinato dal fatto di essersi autoaccusato di un delitto così grave. Ciò ha determinato in lui "una confusione e un caos mentale che hanno profondamente inciso su di lui e quindi sul processo, lamentando così il fatto che non è mai stata eseguito esame psichiatrico sul contadino. Per l'avvocato La Tanza comunque "Michele aveva fin dall'inizio la volontà di far ritrovare il corpo di Sarah e ha fatto di tutto per renderlo possibile", perché Misseri ha lasciato segnali sul pozzo, ha fatto di tutto per attirare l'attenzione di media ed investigatori su di sé e per far ritrovare il telefonino ed il corpo della nipote. Ad esempio lasciando il cellulare vicino alla caserma dei carabinieri e in una stazione di servizio o mettendo la pietra e il ceppo di vite sul pozzo. L'avvocato ha chiesto l'assoluzione dalle accuse di furto e di danneggiamento seguito da incendio. "O Michele non viene ritenuto credibile o solo in minima parte credibile - ha detto il legale - oppure se è credibile allora il procedimento ha un'altra storia che ora qui io non dirò".

18 marzo 2013. 44ª udienza. Arringhe delle Difese di Carmine Misseri e Cosimo Cosma, Lorenzo Bullo per Carmine Misseri e Raffaele e Serena Missere per Cosimo Cosma.

Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, « Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. E’ passata sotto silenzio la 44ª udienza. Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele Misseri. Tra i media locali addirittura Studio 100 News ha ignorato l’evento.

Lorenzo Bullo per Carmine Misseri. Lorenzo Bullo ha seguito la linea dell’innocenza del suo assistito, il venditore di ortaggi manduriano fratello di Michele Missere assieme al quale, secondo la procura, avrebbe soppresso il 26 agosto del 2010 il cadavere di Sarah Scazzi con l’aiuto del nipote, Cosimo Cosma, argomentando sui tempi in cui sarebbe avvenuto l’occultamento ed anche sul comportamento dell’imputato. In merito ai tempi l’avvocato ha parlato di «contraddizioni macroscopiche» nella ricostruzione del pubblico ministero. «Il mio assistito non sapeva nemmeno dove fosse il pozzo. Il pubblico ministero si sofferma sugli indizi, ma bisogna vedere quanto pesano dal punto di vista probatorio questi indizi. Il rischio è che ci possano essere nelle lettura globale delle contraddizioni macroscopiche». L'avv.Bullo ha dedicato parte dell’arringa alla ricostruzione del calcolo dei tempi necessari per raggiungere il pozzo di contrada Mosca e ha commentato l’intercettazione ambientale nel corso della quale Carmine Misseri dice che non conosceva la zona del pozzo. Secondo il legale, che ha chiesto l’assoluzione, non si trattava di una confessione ma di un commento alle notizie riportate dai giornali. «Lo dico con rispetto ma in questa inchiesta il pubblico ministero ha avuto paura a fare delle scelte. Con tutte queste schegge di indizi il rischio è quello di trovarsi di fronte a contraddizioni macroscopiche». Nella prima parte del suo intervento l'avvocato si è soffermato soprattutto sul calcolo dei tempi occorrenti per raggiungere il pozzo di contrada "Mosca" in quel pomeriggio del 26 agosto del 2010, sia da parte di Michele, che partiva da Avetrana, che di Carmine Misseri che partiva da Manduria e che, secondo quanto accertato dall'esame dei tabulati telefonici, venne chiamato dal fratello Michele alle 15,08 mentre quest'ultimo si trovava già al pozzo e Carmine era ancora a Manduria. Per il pm Michele avrebbe fatto "un'accorata richiesta di aiuto al fratello" senza specificare che Sarah era stata uccisa, né tantomeno chi era stato il responsabile. «Per arrivare al pozzo da Manduria - ha specificato il difensore - occorrono 23 minuti, secondo quanto dice il pm, e quindi l'arrivo di Carmine andrebbe collocato alle 15,31-15,32. Ma durante l'incidente probatorio, che è una prova, Michele, rispondendo a una domanda su cosa stava facendo alle 15,25 quando lo chiama al telefonino la moglie Cosima, afferma che stava al pozzo, aveva finito tutto e stava per andarsene. Se aveva finito tutto, e Carmine Misseri doveva ancora arrivare al pozzo qual è il suo aiuto a sopprimere il corpo della bambina nel pozzo? Magari dal punto di vista umano può essere deplorevole che sia arrivato lìquando gli abiti erano già stati bruciati ma nelle carte del processo io credo che ci sia la prova che non è mai partito da Manduria e che ha sempre detto la verità su quella telefonata.» La conversazione telefonica citata è quella in cui Michele Misseri, secondo la sua versione, chiamò il fratello per concordare una copertura con sua moglie Cosima in caso l’avesse chiamato (devi dire che sono andato ai cavalli). “Manco dalla zona del pozzo da 34-35 anni. Da bambino ci ho abitato ma non me lo ricordo”. E' una intercettazione ambientale citata dall'avvocato Lorenzo Bullo. La frase si riferisce a un colloquio tra Carmine e la moglie Lucia Pichierri che gli chiedeva proprio se avesse conosciuto l'area nella quale venne seppellito il cadavere della ragazzina. Il difensore si è soffermato su un’altra frase registrata durante un colloquio tra marito e moglie che, secondo la Procura, incastrerebbe anche Cosimo Cosma, imputato come Carmine di concorso in soppressione di cadavere (“Cosimo Cosma ha aiutato a gettare la bambina nel pozzo”). L’avvocato Bullo ha affermato che non si è trattato di una confessione ma che «è evidente – ha detto – che stanno commentando una notizia dei giornali visto che da poco c’era stato l’interrogatorio di Cosimo Cosma». «Restituite dignità a Carmine Misseri che ha già pagato una pena enorme. Qualunque sia la sua sorte processuale, come Michele è passato per il “becchino” di Avetrana, lui passerà come il “becchino di Manduria”» ha concluso Bullo chiedendone l’assoluzione.

Raffaele e Serena Missere per Cosimo Cosma. «Merita di essere assolto, di tornare a una vita normale: campagna, sacrifici e duro lavoro». E' quanto ha chiesto l’avv. Serena Missere per Cosimo Cosma, nipote di Michele Misseri, accusato di soppressione di cadavere nell’ambito del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. «Non c'è niente nelle intercettazioni per cui si possa dire che Cosimo Cosma e la moglie si siano assunti qualsiasi responsabilità su quello che è successo», ha aggiunto l’avv. Missere nel corso della sua arringa. «L'interessamento di Cosma alla vicenda, successivo alla scomparsa, è assolutamente normale, visti i rapporti – ha aggiunto il difensore – che c'erano tra le famiglie e visto il fatto che era sparita una bambina, peraltro coetanea del figlio di Cosma». Quanto all’intercettazione in cui Carmine Misseri sostiene che «Cosimo Cosma ha aiutato a gettare la bambina nel pozzo», secondo il legale faceva riferimento «a qualcosa che aveva appreso dai giornali, dai giornalisti o dalla televisione». «Non c'è una verità provata. Questo è un processo del nulla e l’unica verità è che una bambina è stata uccisa e chiede dall’aldilà che in quest’aula si faccia giustizia. Ma non si sa chi l’ha uccisa, come è stata uccisa e come è morta». Lo ha sottolineato nel corso della sua arringa difensiva nel processo per l’uccisione di Sarah Scazzi, l'avv. Raffaele Missere. L’avv. Missere ha criticato la perizia del medico legale Luigi Strada, che, a suo dire, ha mostrato “alterigia e supponenza”. Ma, fatto ancora più grave, ha affermato di non aver aperto l'intestino per non inquinare. Per l'avvocato Missere il medico legale ha mostrato "alterigia e supponenza, spocchia e indolenza. Questa carenza o incapacità, voluta o meno, è venuta da parte di un perito che doveva fornire gli elementi necessari alla Corte per una verità che non abbiamo. E' un processo nato male dove c'e' un deserto di verità.  Il legale ha parlato di una perizia “carente” perchè “non è stato scritto nemmeno se nei polmoni della ragazzina c'era acqua o meno”. «Inoltre, pur avendo trovato liquido nella cavità toracica, il prof. Strada – ha detto l'avvocato – non lo ha analizzato». Missere ha detto che con la richiesta che presentò alla Corte di riesumazione del corpo non intendeva “offendere nessuno” ma voleva “difendere la verità per la bambina che non c'è più e per chi c'è ancora”. «Prendo atto dell'impegno e dei sacrifici dell'ufficio della Procura per giungere alla verità - ha aggiunto - ma purtroppo non l'ha raggiunta. In questo processo c'è stata la volontà di ognuno dei protagonisti di apparire oltre a qualsiasi esigenza». Quindi ha invitato soprattutto i giudici non togati della Corte di Assise, a stare in guardia «dai messaggi inquietanti dei media dove sono state fatte ricostruzioni cinematografiche. Qui tutti sono voluti diventare protagonisti e parte di uno spettacolo che è andato avanti e continua ad andare avanti. Anche la testimonianza "di chi ha perso la bambina" - ha proseguito l'avvocato Missere riferendosi evidentemente alla madre di Sarah e agli altri più stretti parenti – è stata inquinata dai media». Ha inoltre sottolineato ch il numero di testimoni è stato eccessivo "rispetto al ragionevole". Infine ha chiesto alla Corte "che in camera di consiglio tutte le intercettazioni ambientali e telefoniche siano ritenute inutilizzabili perché effettuate in violazioni di legge". «Non piegate le vostre coscienze a una volontà di condanna. Non cercate un colpevole per forza». Lo ha detto l'avvocato Raffaele Missere, Il legale ha chiesto l'assoluzione del suo assistito, che è imputato di concorso in soppressione di cadavere. Per la Procura della Repubblica, invece, deve essere condannato a otto anni di reclusione, così come Carmine Misseri. Quanto all'alibi, l'avvocato Missere ha evidenziato che in genere «quanto più è preciso, tanto è più falso. E, comunque, il solo fatto di aver dato un alibi falso, non può portare a essere accusati della responsabilità di un determinato fatto. E' vero che cambia un orario nel corso dello stesso interrogatorio ma sostanzialmente quello che Cosma dice nell'interrogatorio a sommaria informazione testimoniale del 16 novembre 2010 - ha proseguito il legale – è quello che ha ripetuto nelle successive occasioni e quando viene sentito dal gip nell'interrogatorio di garanzia in carcere». In pratica, secondo l'avvocato Missere ha cambiato leggermente versione solo in una occasione ma poi l'ha mantenuta sempre.

19 marzo 2013. 45ª udienza. Arringa della Difesa di Cosima Serrano. Franco De Jaco e Luigi Rella.

Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, « Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. E’ passata sotto silenzio la 45ª udienza. Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti.

Franco De Jaco per Cosima Serrano. Anche Hollywood fa la sua comparsa nel processo Scazzi. L’accurata arringa dell’avv. Franco De Jaco affida al potere delle immagini di un film in bianco e nero del 1957 il destino della sua assistita. La pellicola diretta da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati” e magistralmente interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata difesa di un ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo picchiava. Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di Consiglio, spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è impossibile emettere un verdetto di colpevolezza.   Per primo ha preso la parola l'avvocato Franco De Jaco «Perché qui commetterete un altro omicidio, oltre quello perpetrato in danno di una povera ragazzina. E un altro omicidio è quello di mettere in galera, all’ergastolo due innocenti, una giovanissima. E’ un altro omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli specchi perché tanto la Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la sentenza, ha già deciso. Quando io sento queste cose mi sento mortificato come cittadino, pur sapendo che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo segnale, quando viene trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente quello che sta avvenendo: la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la rivolta verso le istituzioni.» Secondo De Jaco  non ci sono prove che al fatto abbia partecipato Cosima Serrano. «Lo dimostra la proporzione dell'attenzione che i Pm hanno riservato nelle 30 ore di disamina della requisitoria, se non collegandola al famoso sogno del fioraio Buccolieri. In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni». Parole pesantissime, quelle risuonate in Assise e pronunciate dall’avv. Franco De Jaco, uno dei difensori di Cosima Serrano, nella sua arringa al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Cosima, come è noto, è accusata, insieme alla figlia Sabrina, di omicidio, sequestro di persona e soppressione di cadavere. Per entrambe è stato chiesto l’ergastolo. «Quanto è avvenuto in questo processo non ha dimostrato assolutamente il coinvolgimento di Cosima Serrano nell’omicidio, tanto che la Procura ha dedicato alla sua figura pochi passi in relazione al presunto sogno del fioraio - ha sottolineato De Jaco - Perchè, ad esempio – ha aggiunto criticando l’operato della Procura – quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era arrivata in quella dei Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei Misseri? Il delitto non è avvenuto - ha sottolineato - con la partecipazione, né attiva né passiva, di Cosima Serrano». Per l’avvocato De Jaco l’unica prova evidente nel processo per l’omicidio di Sarah Scazzi l’ha data Michele Misseri, che ha fatto trovare il cadavere. E’ lui l’assassino e lo ha ripetuto. Poi, contestando ancora la tesi della Procura, De Jaco ha aggiunto che la sera prima dell’omicidio, il 25 agosto 2010, non c’e’ stato alcun litigio tra Sabrina Misseri e Sarah Scazzi. Altrimenti, perché la mattina dopo già alle 8 Sarah esce da casa e va da Sabrina, se fosse stata realmente offesa? Per Franco De Jaco non c'è nessun elemento di prova, né morale né materiale, del coinvolgimento di Cosima Serrano nel delitto di Sarah Scazzi. Il legale ha puntato il dito contro la perizia del professor Strada, che si occupò dell'autopsia sul corpo della vittima e contro alcuni testimoni, che prima sono apparsi in televisione e poi sono venuti in aula, migliorando i loro ricordi mesi dopo i fatti cui avevano assistito. L'avvocato De Jaco si è soffermato sul ruolo di alcuni testimoni che cambiano versione da agosto-settembre 2010 a giugno 2011, e che a distanza di mesi fanno precisazioni. In particolare secondo l'avvocato De Jaco a dire il falso in aula sarebbe stata Anna Pisanò, la donna che parlò della porta che dal garage di casa Misseri conduceva in casa, un passaggio che il giorno del delitto sarebbe stato utilizzato per trasferire il corpo di Sarah Scazzi in garage per poi portarlo in campagna al pozzo dove fu nascosto. Mandare le due donne all'ergastolo - ha detto il legale in aula - sarebbe un altro omicidio. Per i difensori, l'accusa per Cosima si fonda "sull'acqua" e il movente "che è stato tirato fuori negli ultimi minuti della requisitoria, nasce da falsi presupposti". "Le uniche prove - ha detto l'avvocato De Jaco - ce le ha date Michele Misseri, unico colpevole del delitto, che ha condotto gli investigatori al pozzo dove era il corpo della vittima, ha fatto ritrovare il cellulare. Io ho interrogato in modo brutale Cosima Serrano, lei ha sempre risposto con la sua frase, male non fare paura non avere". Franco De Jaco, ha concluso la sua arringa chiedendo l’assoluzione per la sua assistita.

Luigi Rella per Cosima Serrano. L’avv. Luigi Rella, difensore di Cosima Serrano, ha chiesto alla Corte di Assise la nullità di alcuni accertamenti tecnici eseguiti dai carabinieri del Ros di Lecce perchè «atti irripetibili eseguiti senza la presenza dei difensori». Si tratta degli accertamenti sulla cella telefonica agganciata dal cellulare di Cosima poco dopo l’ora presumibile del delitto, cella che corrisponderebbe, secondo gli accertamenti, al garage di casa Misseri. «Tale accertamento tecnico – ha detto Rella – è stato eseguito senza la preventiva comunicazione agli indagati che non hanno potuto quindi nominare un perito di parte o perlomeno presenziare attraverso i propri legali». La perizia di cui si parla, ha inoltre spiegato la difesa, non è più ripetibile «perché la Vodafone nel frattempo ha modificato irrimediabilmente la rete». Per l'avvocato Rella, che ha chiesto di non utilizzare gli accertamenti scientifici del Ros dei carabinieri, i testimoni al processo non sono credibili perché ascoltati più volte su episodi del loro quotidiano che non si possono vivere col cronometro. Il legale ha chiesto alla corte d'assise di non considerare la testimonianza del fioraio Giovanni Buccolieri, (che in aula non è mai stato ascoltato), l'uomo che avrebbe assistito sul presunto sequestro di Sarah, salvo poi dire di aver solo sognato la scena. Il legale ha infine precisato che nessuno ha mai parlato di Cosima, neanche Michele Misseri ha mai fatto riferimento al coinvolgimento della moglie nel caso. «La percezione che hanno diversi testimoni è che quello del fioraio sia un sogno». Per l’avv. Rella anche l’ex commessa di Buccolieri, Vanessa Cerra, ha riferito agli inquirenti che il fioraio le aveva parlato di un sogno. «Peraltro – ha aggiunto Rella – di questo girovagare a quell'ora di Buccolieri in paese non abbiamo riscontro. La vera fantasia di questo processo è stato il presunto litigio tra Sabrina e Sarah che non c'è mai stato». Proprio riferendosi al movente, il legale ha sostenuto che ci sarebbe una carenza di motivazione “così come indicato anche dalla Cassazione” quando la Suprema Corte annullò con rinvio, nel settembre 2011, l’ordinanza di custodia cautelare in carcere per Cosima, poi però confermata dal Tribunale di Taranto. Una carenza di motivazione circa il movente, ha spiegato l’avv. Rella, che esclude anche il coinvolgimento di Cosima nel delitto. Concludendo la sua arringa al processo per l’uccisione di Sarah Scazzi, l’avv. Luigi Rella, difensore di Cosima Serrano, oltre a chiedere l’assoluzione da tutte le imputazioni per la sua assistita (omicidio, sequestro di persona e soppressione di cadavere) ha chiesto in subordine, se la Corte di Assise dovesse ritenere che Cosima abbia avuto un ruolo nella sparizione del corpo della 15enne, di qualificare uno dei capi di imputazione in occultamento di cadavere e non soppressione. «Lo si evince – ha spiegato Rella – dalle stesse ammissioni di Michele Misseri, che ha detto di aver nascosto il cadavere nel pozzo perchè pensava poi di recuperarlo per dargli degna sepoltura».

25, 26, 27 marzo, 9 aprile 2013. 46ª, 47ª, 48ª, 49ª udienza. Video fuori onda, astensione dei magistrati ed arringa della Difesa di Sabrina Misseri. Franco Coppi e Nicola Marseglia.

Nicola Marseglia per Sabrina Misseri. «Questo è un processo particolare, abbastanza atipico. E' il processo di Sabrina Misseri, a Sabrina Misseri. E' stato così sin dal primo momento. Il capitano Nicola Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri, che fu posto al vertice delle indagini, l'aveva individuata fin dal primo momento insieme a Ivano Russo – dice l'avvocato Nicola Marseglia nell’udienza del 25 marzo - Si coltiva questa ipotesi di lavoro dall'inizio. La confessione di Michele Misseri - ha aggiunto Marseglia - ha spiazzato l'ufficio del pubblico ministero e ha introdotto un elemento spurio di ipotesi di lavoro a cui non aveva pensato nessuno. Da qui nasce l'equivoco nei confronti di Sabrina, che subisce una serie di aggiustamenti nel corso delle indagini che non conoscono alternative. E' un primo dato - ha sottolineato il legale - su cui invito a fare una riflessione. Io sono convinto che Sabrina non ha commesso alcun reato. Abbiamo assistito alla richiesta incredibile della procura di chiedere e ottenere l'archiviazione per Michele Misseri e non si è arrivati a ciò che chiedeva tutta l'Italia: portiamo a giudizio tutti e tre, Michele, la figlia Sabrina e la moglie Cosima, e vediamo cosa decide la Corte. Siamo oltre l'immaginazione processuale. Hanno lasciato tornare ad Avetrana – ha aggiunto - quello che fino a quel momento era stato il peggio e che ora viene additato come un pover'uomo che ha voluto aiutare la figlia». Il legale ha citato parte della relazione introduttiva del pm Mariano Buccoliero del 10 gennaio 2012, che chiedeva alla Corte di riconoscere nella stessa sentenza, se gli elementi a carico di Sabrina e Cosima non saranno ritenuti sufficienti, la colpevolezza di Michele Misseri. «Ma questo – ha osservato Marseglia – non è possibile. Misseri è protetto dalla legge, caso mai si dovrà aprire un altro procedimento.- Secondo il legale - potremmo uscire da quest'aula senza un colpevole: è il rischio di questo processo. Cosa dobbiamo dire alla famiglia di Sarah? Secondo voi non c'era niente a carico di Michele Misseri? E' uno degli aspetti più paradossali di questo processo, definito da tutti processo mediatico, processo indiziario. La questione degli orari in questo processo è di una importanza fondamentale. La prova passa attraverso la ricostruzione oraria del fatto, tutto il resto è paccottiglia. La ragazzina - ha detto il legale - è uscita dalla sua abitazione tra le 14.25 e le 14.30, non prima, per andare a casa di Sabrina, con cui aveva appuntamento per andare a mare. Mi devono spiegare perchè l’orario è questo e non quest’altro. Voglio capire a che ora Sarah è uscita e a che ora è entrata in casa della cugina - Marseglia si è poi soffermato su un dato che ritiene fondamentale, cioè che - alle 14.23 Sabrina riceve una telefonata da Mariangela Spagnoletti che le dice di mettere il costume perché sta per uscire da casa. Questo orario non lo può contestare nessuno. Le tre ragazze (Mariangela, Sabrina e Sarah) si sono accordate la sera precedente di andare al mare il pomeriggio del 26 agosto - ha spiegato - ci sarebbe dovuta essere solo la conferma di Mariangela che doveva rientrare dal lavoro. Al mare - ha continuato l'avvocato Nicola Marseglia - andavano sempre alle 14,30. L'accusa pretende che Sarah uscì di casa un'ora prima. E che andassero sempre a quell'orario al mare lo dicono i testimoni, Mariangela Spagnoletti, Ada Maria Serrano e Emma Serrano, gli stessi genitori di Sarah - ha sottolineato l'avvocato Marseglia. Quest'ultima non è mai andata al mare prima di quell'ora nei giorni feriali di fine agosto, magari di domenica era diverso. Quindi non poteva uscire di casa prima di quell'ora. Proprio perchè tutto dipendeva dagli impegni di Mariangela Spagnoletti. In questo processo abbiamo alterato un principio cardine del nostro ordinamento – rileva Marseglia – ovvero che la prova si formi nel dibattimento. Qui, invece, questo non è avvenuto. C’è stata sul caso Scazzi una continua e costante attenzione dei media e i testimoni non sono stati mai sereni». L'avvocato Marseglia, che insieme a Coppi difende Sabrina Misseri dall'accusa di sequestro di persona e omicidio, ha parlato di principio della formazione della prova mortificato durante il dibattimento, puntando il dito contro la partecipazione attiva del media alla vicenda e la "collaborazione intima tra informazione e parti del processo". Il legale si è soffermato a lungo sull'influenza che i media avrebbero avuto sul processo. «Siamo stati costretti a rincorrere – ha osservato – l'acquisizione di interviste e filmati, veri e propri esami testimoniali. Vi è una collaborazione intima tra informazione e parte del processo. E poi non bisogna dimenticare tutte le trasmissioni di approfondimento dove c'erano i protagonisti di questa vicenda giudiziaria. E’ come se fosse andata a parlare la presidente della Corte d’Assise, Trunfio». Marseglia ha sottolineato poi che «il principio cardine del nostro ordinamento è che la prova si formi nel dibattimento. Dove sono le prove? – ha detto - E' stato mortificato il principio della formazione della prova. Il testimone non è stato mai sereno, c'è stata sempre pressione». Nel ricostruire i fatti del 26 agosto 2010, giorno del delitto, il legale ha detto in aula che quel giorno Sarah Scazzi uscì di casa alle 14:30, orario che si incastra con la responsabilità di Michele Misseri nel delitto. «Petarra è smentito clamorosamente dai familiari di Sarah prima che dai tabulati. Quando dice di aver visto Sarah alle 13,45 del 26 agosto e afferma di aver controllato l'orologio e di averla seguita con lo sguardo sta dicendo il falso». Così l'avvocato Nicola Marseglia, uno dei legali di Sabrina Misseri, parlando di un testimone oculare, Antonio Petarra, che ha dichiarato di aver visto la vittima ben tre volte quella mattina ad Avetrana, compreso il momento in cui, appunto verso le 13,45, Sarah sarebbe passata davanti alla sua abitazione diretta a casa Misseri in via Deledda mentre lo stesso teste era impegnato nella tinteggiatura esterna dell'edificio. «Petarra è inattendibile, parziale e deleterio - ha proseguito - forse si confonde, non si ricorda bene oppure dice cose in libertà». E ha evidenziato che gli avvistamenti complessivi descritti da lui nelle sommarie informazioni testimoniali dal 21 settembre al 9 dicembre 2010 "passano da due a tre". A questo proposito l'avvocato Marseglia ha evidenziato «l'enorme influenza mediatica senza precedenti su questa vicenda». Il difensore di Sabrina ha ricordato che Petarra dice di essersi confuso sull'orario e poi esclude di averla vista alle12,45" poiché il momento del passaggio di Sarah coincideva con quello in cui la moglie lo invitò a salire in casa per accudire il loro figlio piccolo visto che la donna doveva andare a lavorare. Per il difensore di Sabrina Petarra "non sapeva nemmeno come era vestita Sarah". Il difensore di Sabrina ha poi presentato tesi che metterebbero in discussione l’attendibilità dell’altra testimone chiave del processo, Anna Pisanò, definita anche lei una «falsa testimone che s’inventa le cose più assurde pur di far condannare Sabrina». Testimoni inattendibili, testimoni che si calano nel ruolo di informatori, come se fossero personaggi di una fiction televisiva del tipo “Ris” o “Distretto di Polizia”. Il difensore di Sabrina, Nicola Marseglia, nell’udienza del 9 aprile continua sulla strada già tracciata nella prima parte dell’arringa. Mette in dubbio la ricostruzione della pubblica accusa perché basata su “dichiarazioni testimoniali che non possono essere ritenute credibili”, è la tesi dell’avvocato che, rivolgendosi ai giudici della Corte li invita a riflettere sulla richiesta dell’accusa di infliggere l’ergastolo a madre e figlia e sulle prove testimoniali prodotte per argomentare quella richiesta: «Vi stanno proponendo un errore giudiziario sulla base di prove acquisite in modo barbaro, in perfetto stile cubano. Sulla base di elementi forniti da testimoni che sostengono una giusta causa perché è una giusta causa, sono i metodi per sostenerla che non sono giusti, che fanno indignare e impegnano la difesa fino allo spasimo perché questo modello procedimentale, prima che processuale, non deve passare, perché questa inchiesta è stata condotta in maniera intollerabile in quanto ad acquisizione della prova». Secondo il difensore, Sabrina è finita nel mirino degli inquirenti sin dai giorni successivi alla scomparsa di Sarah, quando l’ipotesi dell’omicidio non era stata ancora presa in considerazione, la svolta delle indagini, con la simulazione del ritrovamento del telefonino da parte di Michele Misseri, era ancora lontana. Era lei il loro obiettivo. Poi lo è diventata anche la madre. L’avvocato di Sabrina Misseri, Nicola Marseglia, è andato giù duro nella sua arringa finale quando ha definito «barbaro, in stile perfetto cubano» il modo in cui sono state condotte le indagini dei pubblici ministeri. Invitando inoltre i giudici della corte d’assise a non prestarsi «ad un enorme errore giudiziario costruito su prove acquisite nel corso di deposizioni in cui gli inquirenti hanno usato metodo sbagliato che la legge vieta». In quasi sette ore di intervento, il legale del foro di Taranto che con il penalista romano Franco Coppi ha il difficile compito di far assolvere la ragazza per la quale l’accusa ha chiesto l’ergastolo, ha cercato di demolire le testimonianze più importanti a carico della sua assistita. Sostenendo, appunto, la tesi di una presunta cattiva interpretazione se non manipolazione di dichiarazioni rese da alcuni testimoni sentiti a sommaria informazione. Secondo questa lettura dunque, i testi si sarebbero trasformati in una sorta di alleati dell’accusa inficiando in questo modo «la genuinità e l’attendibilità delle loro stesse dichiarazioni». Si è concentrata soprattutto sulla testimone-chiave Mariangela Spagnoletti l'arringa dell'avvocato Nicola Marseglia. «Mariangela - ha detto il legale - aveva un rapporto competitivo con Sarah e Sabrina per Ivano Russo e Massimiliano Fantastico. Con Sarah non erano amiche, tanto che non aveva neppure il suo numero di cellulare. Questo emerge dagli atti processuali». La testimonianza di Mariangela, la ragazza che passò a prendere Sabrina Misseri e Sarah Scazzi nel pomeriggio del 26 agosto del 2010 per andare al mare, è importante sotto vari aspetti, in particolare quando descrive il punto in cui Sabrina l'aspettava e cioè per la strada e non sulla veranda, e lo stato d'animo nervoso con cui l'accolse. ''L'hanno presa, l'hanno presa'', avrebbe detto Sabrina entrando nell'auto di Mariangela. Il legale ha contestato il contenuto delle deposizioni dei principali testimoni d’accusa. "Mariangela Spagnoletti – ha detto ad esempio – non ha mai dichiarato che, quando arrivò dinanzi a casa Misseri quel 26 agosto, Sabrina era agitata". Sotto accusa soprattutto Mariangela Spagnoletti, testimone chiave del processo che a un certo punto delle indagini, sempre secondo l’avvocato Marseglia, avrebbe cambiato versione adeguandosi a quello che le veniva prospettato e «facendole addirittura credere di essere tra le persone sospettate». Prima accusatrice di Sabrina, è stata lei a dire di aver visto l’amica, il pomeriggio della scomparsa di Sarah, che l’aspettava in strada in evidente agitazione e con gli occhi lucidi. «Tutto falso e costruito quasi a tavolino» ha detto Marseglia facendo intendere l’esistenza di una regia che curava «attentamente le informazioni dei testimoni». Molto chiara anche, per il difensore della ragazza, la pressione esercitata su Michele Misseri quando ha chiamato in reità la figlia. Marseglia ha rispolverato la vicenda del primo colloquio in carcere avvenuto tra Michele Misseri, l’avvocato Daniele Galoppa e la consulente criminologa Roberta Bruzzone. In quell’occasione il contadino che sino a quel momento aveva detto prima di essere l’unico assassino e poi di avere commesso il delitto insieme alla figlia, cambiò nuovamente versione accusando Sabrina dell’omicidio. «Due strane interruzioni di quell’interrogatorio – ha detto Marseglia – mi fanno pensare all’esistenza di pressioni esercitate sul signor Misseri: una prima pausa prima che arrivassero i magistrati che erano stati chiamati dall’avvocato e dalla criminologa – ha detto il legale – e una seconda sempre di un ora poco dopo l’inizio dell’interrogatorio vero e proprio». «Michele Misseri ha ricevuto pressioni da tutti quelli che dicevano di sapere già cosa era successo, cioè che nell’omicidio di Sarah c’entrava Sabrina». Per il legale di Sabrina, Michele Misseri – che da due anni si accusa del delitto e della soppressione del cadavere sostenendo di aver fatto tutto da solo – ha avuto nel corso delle indagini un comportamento “a metà tra il moralmente condivisibile e l’utilitaristicamente appetibile”. Marseglia ha poi dato una diversa interpretazione del contenuto di un soliloquio del 5 ottobre 2010 in auto di Michele Misseri, intercettato dagli investigatori. “Lui dice ‘io mò mi scoprirò – ha sostenuto Marseglia – e non ‘li scoprirò riferito ai famigliari, come sostiene l’accusa”. Per il legale, inoltre, “deve essere provato che c’è stato un patto famigliare” in base al quale Michele Misseri si sarebbe assunto la responsabilità di tutto per salvare moglie e figlia. Il difensore di Sabrina ha criticato i risultati dell’autopsia eseguita dal prof. Luigi Strada ("farneticazioni medico-legali passate come dato scientifico") ed ha parlato di "suggestioni e forzature nell’approccio alle fonti di prova pregiudizialmente negativo per Sabrina". Infine la insussistenza del movente dell’omicidio. "Non potete condannare – ha detto Marseglia rivolgendosi alla Corte – se non si sa perchè la povera Sarah è stata uccisa". «Siamo entrati in questo processo respirando l’aria malsana dal pregiudizio. Ho potuto constatarlo prima come semplice spettatore e poi come difensore. Non basta mai niente per vincere il pregiudizio nei confronti di Sabrina, per sconfessare quello altri hanno sostenuto. L’opinione pubblica si aspetta un verdetto di condanna e prendere una decisione impopolare non è facile ma secondo me questa Corte ha le capacità per prendere qualsiasi decisione». Secondo il difensore, Sabrina è finita nel mirino degli inquirenti sin dai primi giorni, quando si indagava sulla scomparsa della 15enne e l’ipotesi dell’omicidio non era stata ancora presa in considerazione. La svolta delle indagini, con la simulazione del ritrovamento del telefonino da parte di Michele Misseri, era ancora lontana. Era lei il loro obiettivo. Poi lo è diventata anche la madre. Il giallo di Avetrana, secondo Marseglia poteva risolversi molto prima se qualcuno avesse compreso cosa intendesse dire Michele in caserma ad Avetrana il 28 settembre: «Sono andato in contrada Mosca a cercare Sarah, diceva Michele e se qualche carabiniere gli avesse dato retta, la vicenda sarebbe arrivata ad una soluzione molto prima, anche perché in quel periodo Michele era libero dalle pressioni che ha subito dopo». Il 4 ottobre gli notificano l’avviso dell’interrogatorio del 6. Questa volta dire contrada Mosca vuol dire molto di più per Michele. Lo dimostra il soliloquio in dialetto, in macchina del 5 ottobre. Secondo l’accusa, con quelle frasi «mi dispiace per la mia famiglia … ma io li scoprirò … cosa voglio fare fanno a tua figlia», Michele dimostra di aver deciso di rompere il fatto scellerato con le due donne e di confessare. Secondo Marseglia «malgrado lo spessore delle persone che si sono cimentate, viene data una lettura talmente assurda. L’interpretazione dell’accusa «è fuorviante». Lui ne propone una differente. Quella frase « …e se non avessi voluto andare», si riferiva al telefonino di Sarah e non al corpo, come sostiene l’accusa. «Non c’era nessun patto familiare, non c’è nulla che lo provi». Michele piange in aula e tira fuori il fazzoletto.. La lunga arringa durata 8 ore che si è conclusa nel tardo pomeriggio è servita al difensore per chiedere l’assoluzione da tutti i reati di cui è accusata la sua assistita, con formula piena e per non aver commesso il fatto. Non è stata avanzata alcuna richiesta subordinata. «Le accuse nei suoi confronti sono inconsistenti», ha detto Marseglia. Soddisfatto del suo lavoro lo stesso Misseri che con gli occhi lucidi ha dichiarato: «l’avvocato è l’unico ad aver capito tutto». Michele piange perché, dice a qualcuno, Marseglia è l’unico avvocato ad aver compreso il suo pensiero. Michele Misseri ha una nuova consulente al suo fianco. Nell’udienza, il contadino di Avetrana era affiancato da una psicologa, Annamaria Casale, 39 anni, originaria di Castellammare di Stabia, specializzata in psicoterapia e sessuologia, consulente del tribunale di Roma, già giudice onorario del tribunale di sorveglianza di Napoli, collaboratrice del professor Francesco Bruno. Da quanto si è appreso, non ha ricevuto formalmente l’incarico ma affianca Michele in vista di un eventuale processo per calunnia che potrebbe essere aperto a suo carico qualora la Corte d’assise di Taranto decidesse di trasmettere gli atti alla Procura per le valutazioni del caso. Michele, come è noto, ha accusato l’ex difensore Daniele Galoppa e la criminologa Roberta Bruzzone, ex consulente, di avergli suggerito di accusare la figlia Sabrina. Dichiarazioni pesanti che, in caso di trasmissione degli atti, passeranno al vaglio della magistratura inquirente. Il rapporto fra Galoppa e Michele, come è noto, è cambiato, da difensore e assistito i due sono diventati parti avverse di un procedimento civile. L’ex difensore ha chiesto e ottenuto il sequestro dei beni del contadino di Avetrana fino a 50.000 euro esibendo un cospicuo credito relativo alla sua parcella. Misseri, assistito in questa vicenda dall’avvocato Armando Amendolito (nel processo sull’omicidio dall’avvocato Luca La Tanza) aveva presentato reclamo ma il tribunale (presidente Marcello Diotaiuti, relatore Stefania D’Errico, giudice Antonio Attanasio) lo ha rigettato, confermando il sequestro dei beni disposto dal giudice onorario togato Lucia Santoro a settembre 2012. La lunga arringa durata 8 ore che si è conclusa nel tardo pomeriggio è servita al difensore per chiedere l’assoluzione da tutti i reati di cui è accusata la sua assistita, con formula piena e per non aver commesso il fatto. Non è stata avanzata alcuna richiesta subordinata. «Le accuse nei suoi confronti sono inconsistenti», ha detto Marseglia. Soddisfatto del suo lavoro lo stesso Misseri che con gli occhi lucidi ha dichiarato: «l’avvocato è l’unico ad aver capito tutto».

L’alibi di Sabrina Misseri, raccontato da Maria Corbi de “La Stampa”. L’alibi di Sabrina Misseri, secondo la difesa è offerto dalla successione dei messaggi da lei scambiati con Sarah, Mariangela Spagnoletti e Angela Cimino. «Un alibi talmente granitico», ha scritto la difesa di Sabrina in un ricorso in Cassazione, «e formidabile che ha costretto l’accusa – inizialmente convinta, sulla scorta delle dichiarazioni dei genitori e della domestica di Sarah, corroborate da alcune testimonianza esterne, che il delitto fosse stato consumato fra le 14.28 e le 14.37 – ad arretrare di mezz’ora l’ora dell’omicidio, attraverso una artificiosa rilettura di dichiarazioni testimoniali, nel frattempo progressivamente modificate dagli stessi testimoni ed arricchite di nuovi e sempre meno attendibili particolari. Tutto ciò al fine di corroborare l’ardita tesi che l’asserito “alibi” di Sabrina sarebbe in realtà un finto alibi che la stessa indagata si sarebbe procurato – con fredda deliberazione criminale – “fingendo” scambi di messaggi con Sarah del tutto fittizi». Ecco la successione dei messaggi tra Sarah e Sabrina e Mariangela Spagnoletti risultante dai tabulati telefonici: Mariangela Spagnoletti, alle 14.23.31, in base al generico accordo intervenuto la sera prima con Sabrina e Sarah di andare al mare non appena Mariangela si fosse liberata, invia un SMS alla Misseri, che in quel momento si trova a letto: “il tempo di mettere il costume e vengo”; alle 14.24 Sabrina le risponde con un altro SMS “avviso Sara?”; la Spagnoletti risponde con lo stesso mezzo: “ok”; alle 14.25 Sabrina manda un SMS a Sara per avvisarla di arrivare; alle 14.28 e 13 secondi Sabrina manda un ulteriore messaggio a Sarah, che non aveva risposto al primo; alle 14.28 e 26 secondi Sarah risponde con uno squillo a Sabrina per confermare che sta arrivando; alle 14.28 e 40 secondi Sabrina invia un altro SMS alla Spagnoletti: “sto tentando in bagno”; alle 14.31 e 44 secondi Sabrina riceve un messaggio da una sua conoscente Angela Cimino; alle 14.35 e 37 secondi Sabrina risponde al messaggio della Cimino; alle 14.39 Sabrina invia alla Spagnoletti un ulteriore messaggio: “pronta”; alle 14.42, Sabrina, ormai in compagnia di Mariangela, tenta di contattare il cellulare di Sarah senza riceverne risposta, di lì a poco il cellulare di Sarah risulterà spento. La difesa di Sabrina Misseri sottolinea lo strano fenomeno per il quale, nel presente processo, delle dichiarazioni dei testimoni ascoltati al fine di ricostruire l’ora del delitto o gli spostamenti delle persone oggetto di indagine esistono sempre due (o addirittura tre) versioni diverse (spesso fra loro assolutamente inconciliabili) e che, altrettanto stranamente, fra le versioni in conflitto viene sempre ritenuta più attendibile la seconda o la terza (quella cioè che, almeno in linea di principio, dovrebbe ritenersi meno genuina, in quanto più lontana dai fatti e possibile frutto di contaminazioni e suggestioni esterne, soprattutto nell’ambito di una vicenda oggetto di spasmodica attenzione da parte dei media). La difesa di Sabrina Misseri «sottolineando la necessità di far leva, al fine di stabilire l’ora in cui Sarah è uscita di casa il 26 agosto e, per conseguenza, l’ora del delitto, sugli unici dati certi a disposizione degli inquirenti; il documentato invio di due messaggi da parte di Sabrina a Sarah a distanza di tre minuti l’uno dall’altro (ore 14.25 e ore 14.28) per avvertirla che Mariangela Spagnoletti si era liberata e che quindi, come concordato la sera prima, ci si poteva preparare per andare al mare. Un dato certo che collima perfettamente con le univoche dichiarazioni fornite dalla madre di Sarah e dalla domestica Pantir circa il fatto che, indipendentemente da ogni più o meno preciso riferimento temporale da loro fornito, Sarah era comunque uscita di casa dopo aver detto di aver ricevuto un messaggio di Sabrina che la sollecitava ad uscire per andare al mare. Circostanza che, a sua volta, collima con il fatto, riconosciuto dalla stessa Spagnoletti, che le tre ragazze avevano concordato la sera prima di andare al mare, senza fissare un orario preciso, perché bisognava attendere che la Spagnoletti si liberasse dagli impegni di lavoro. Quindi Sarah è uscita di casa dopo le 14,25/14,28. Per superare questa ricostruzione temporale i pm sono costretti a sostenere che la piccola Sarah abbia detto una bugia alla madre per uscire prima e non lavare i piatti. E il messaggio di Sabrina non sarebbe che un depistaggio.

Per quanto preannunciato a tutta la stampa ed ad “Oggi” il 16 febbraio 2012, senza intenti diffamatori ho chiesto agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi oggi facenti parte dell’attuale collegio accusatore nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano già state. Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua astensione «per motivi personali». Sarà, commenta Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E che dire dei giudizi espressi dai giudici togati. Tutto tranquillo se non foss’altro che un fuorionda tra i giudici irrompe nel processo. Conversazione avvenuta martedì 19 marzo, prima dell’arringa di Franco De Jaco, difensore di Cosima Misseri, tra il presidente della Corte e il giudice a latere del processo Scazzi. Tutto ciò potrebbe sembrare un’anticipazione del giudizio, assolutamente negata dal Diritto e dall’etica, tenuto conto che le difese ancora non hanno parlato. Presidente Trunfio: «certo vorrei sapere, là, le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati… tra di loro e se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice latere Misserini: «ah, sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’ vedere, no, come imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che negheranno in radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in aula, tra il giudice Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il giudice a latere Fulvia Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina Misseri e sua madre Cosima, che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici - sembra dalla conversazione - optare per una strategia incrociata nella difesa che le porterebbe ad accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata dai microfoni delle telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento. In particolare la frase che ha colpito gli avvocati è quella dove il presidente della corte d’assise, il giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è che) negheranno in radice”. «Si evince che hanno già una ben definita opinione che non rinviene necessariamente da una valutazione attenta degli atti ma da un'idea precostituita». Spiega l'avvocato Franco De Jaco. Il professor Franco Coppi parte da solo all’attacco, e non poteva esser altrimenti, e viene seguito soltanto da un componente del collegio difensivo, Franco De Jaco, legale di Cosima, nella formulazione della richiesta di astensione dei giudici della Corte d’assise. Ed è sulle iniziative da adottare dopo il fuorionda che si spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli avvocati di Cosima, Luigi Rella, dimissionario presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, va via in netto anticipo rispetto alla fine dell’udienza. Marseglia nel corso del suo intervento spara a zero sugli inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta ma lascia da solo il professore nell’iniziativa contro l’assise giudicante. «Non posso che invitarvi a valutare la possibilità e il dovere di astenervi», ha chiesto senza mezzi termini ai giudici. «Domani – ha aggiunto Coppi – siamo disposti a riprendere il cammino se ci verrà restituita quella serenità che in questo momento mi è stata tolta. Un difensore – spiega Coppi – non può non rappresentare ai giudici le sue perplessità e le sue preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità ma anche il difensore ha diritto alla serenità di parlare con un giudice terzo, imparziale, che fino all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le ragioni dell’accusa e della difesa. Con quale spirito continuiamo ad affrontare al processo? Vi chiediamo una dichiarazione che vi rassereni ma che ci chiarisca il senso di quelle frasi che suscitano preoccupazione. Ci aspettiamo dalla corte un chiarimento che ci restituisca serenità salvo decisioni diverse che potete assumere. Chiediamo che i giudici togati valutino la possibilità di astenersi». Coppi non ha gradito una frase relative a possibili strategie difensive in cui «si fa riferimento ad accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi». La presidente Trunfio, da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le spalle dicendo che non dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di essere disposta al rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in questo caso, alla Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di astensione è stata fatta subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo collega del collegio difensivo, Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente l’aula. Alla richiesta di astensione formulata dal professore si associa soltanto un componente del collegio difensivo, composta dai tantissimi avvocati, più del numero richiesto rispetto ai molti imputati. Avvocati locali, tra cui Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri e già praticante avvocato di Nicola Marseglia, di cui ha assunto il modus operandi. Franco De Jaco: «Sono frasi che ci hanno messo in allarme. E’ normale per noi che due colleghi si scambino delle opinioni ma quello che ci preoccupa è l’ultima frase, “non possono negare in radice i fatti”. Diamo la patente di buona fede a quelle dichiarazioni, non ci sono dubbi di nessun genere. Domani se noi la rivedremo qui e saremo rasserenati». Le affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti», anche per il difensore evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non posso far finta di niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine, la posizione di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del professore. Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di Sabrina Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto modo e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo collega Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai giornalisti ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le cose stanno come mi dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda galeotto – spero domani di sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e di poter andare avanti con la mia arringa che è ancora impegnativa». Ma nessun avvocato del foro si associa. Solitamente sono i legali a lamentare il condizionamento ambientale dei magistrati presentando richiesta di rimessione. Evidentemente il condizionamento ambientale non vale soltanto per i magistrati. Da pensare è il fatto che un avvocato che si mette contro i giudici può rischiare di non esercitare più la professione forense (procedimenti penali pretestuosi o procedimenti disciplinari fittizi), ovvero rischia di perdere tutte le cause, ovvero rischia che i suoi protetti non passino l’esame di avvocato con i magistrati criticati nelle commissioni d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Questo deve far riflettere i profani del diritto. Riflessione generale sul mondo forense italico. A chiacchiere son tutti bravi. I veri avvocati si distinguono dagli “azzeccagarbugli” succubi del potere di manzoniana memoria, proprio nell’adozione di certi atti. Ma come disse don Abbondio  “se il coraggio uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Peccato però che gli avvocati vili e ignavi continuano sì ad esercitare in combutta con i magistrati, ma intanto a pagarne le pene sono i loro clienti. Per esempio in questo caso si noterà chi è molte spanne sopra ai colleghi, presunti principi del Foro.  Chi lo dice questo? Lo dice chi principe del foro lo è davvero. Franco Coppi: «Poi c’è chi ritiene di far finta di niente e chi ha il coraggio di dire alla giudice che in questo momento non si fida.» «La difesa non è spaccata. Il professor Coppi ha sempre la forza e il coraggio di assumere tutte le posizioni che deve assumere un avvocato comode o scomode che siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia, l’altro difensore, con Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì a limitare la portata della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad accusare i legali di difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un processo terminale. Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di studio 100 tv, emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di Taranto. «Insomma. Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili per far vincere le proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini. Sia mai che le imputate, ancora presunte innocenti, potessero uscire di galera. In seguito di ciò la corte d’Assise di Taranto ha deciso di astenersi nel processo sull’omicidio di Sarah Scazzi trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale dopo la diffusione del video con fuori onda tra presidente e giudice a latere. Questa la dichiarazione letta in aula in apertura di udienza dal presidente della Corte di Assise: ”Le sottoscritte Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte di Assise di Taranto, preso atto dell’invito ad astenersi avanzato nell’udienza del 25 marzo 2013 dagli avvocati Coppi e De Jaco, difensori delle imputate Sabrina Misseri e Cosima Serrano, ritenuto che le frasi captate prima dell’inizio dell’udienza in data 19 marzo 2013 non siano espressive di un parere e di un convincimento sull’oggetto delle imputazioni, trattandosi di mere considerazioni in termini interrogativi circa le possibili strategie difensive in sede di discussione finale (coordinamento o alternatività tra loro delle impostazioni difensive inerenti posizioni processuali collegate? Radicale confutazione o meno delle ipotesi ricostruttive illustrate dalle altre parti processuali?); ritenuto tuttavia, ferma la consapevolezza della propria serenità di giudizio, l’opportunità di sottoporre al vaglio dell’autorità competente la valutazione dei fatti, ove ravvisi gravi ragioni di opportunità; visto l’art. 36 c.p.p.; Dichiarano di astenersi dalla trattazione del processo a carico di Misseri Michele Antonio + 8, disponendo la trasmissione degli atti al sig. Presidente del Tribunale”. «Abbiamo chiesto ai giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi, abbiamo sollevato un problema come qualsiasi altro difensore degno di questo nome avrebbe fatto. I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo la valutazione dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di ottenere o non ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al quale noi puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci sembrava non potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano state rese pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale. Chi dice che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare di dirlo perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c'è stata questa sorpresa - ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai miei allievi che bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di assumere tutte le iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho fatto quello che la mia coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare mezzucci, che me ne importa del rinvio di un giorno o di un mese in un processo dove si discute di ergastolo. Quindi chi dice queste cose è completamente fuori strada e dovrebbe anzi vergognarsi di dirle, se sono state dette.» Il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. A chiedere astensione e chiarimenti erano stati gli avvocati Franco Coppi e Franco De Jaco, difensori di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia di Sarah Scazzi accusate di sequestro di persona ed omicidio. Alla richiesta non si sono associati invece gli altri due difensori delle donne, Nicola Marseglia e Luigi Rella. Prima di astenersi la presidente Trunfio ha chiarito che le frasi captate, per giunta in un momento in cui l'udienza non era ancora iniziata, non esprimevano un parere o un convincimento sulle imputazioni ma erano mere considerazioni in termini interrogativi sulle possibili strategie difensive.

Franco Coppi per Sabrina Misseri. Superata l’impasse con il sollievo di molti, la 48esima udienza del 27 marzo è stata aperta dall’avvocato Coppi che ha voluto giustificare la sua mossa. «Spero che nessuno pensi a doppi fini. Avremmo potuto fare molto di più, ma ci siamo rimessi alla decisione dei giudici perché volevamo una risposta che ci acquietasse. I pm non hanno capito i fatti di questo processo chiedendo alla cieca la pena perpetua. Hanno dimenticato che il delitto d’impeto da loro stessi definito, non prevede l’ergastolo. Quando abbiamo chiesto di interrogare Michele Misseri – ha denunciato -, siamo stati costretti a farlo alla presenza del procuratore, mentre a noi limitavano la libertà di difensori, hanno permesso ad una consulente di partecipare agli interrogatori consentendole di fare domande all’indagato. L’unico assassino in quest’aula – ha detto il professore – è Michele Misseri che ha ucciso sua nipote per motivi sessuali, con insulse voglie nei confronti della giovane nipote che cominciava a sbocciare. La storia del calore alla testa per il motore che non partiva è una banale scusa; Michele – è la tesi di Coppi -, ha tentato approcci sessuali su Sarah la quale poverina si è rifiutata. Per la vergogna e la paura di essere scoperto, il contadino l’ha uccisa. Un uomo solo – lo ha definito Coppi – una vita di fatica, di stanchezza, di aridità, ma anche un uomo capace di violenza, di approcci sessuali. Non è succube delle due “megere” di casa. E' un uomo che da piccolo ha subito violenze, brutalità, da quello che abbiamo capito, e non ne ha voluto parlare. E’ questo l'uomo che il 26 agosto, preso da raptus, ha causato la morte di Sarah Scazzi. Non c'è nessuno - ha aggiunto il difensore – che ci dica che quell'atteggiamento tra Sabrina e Sarah fosse cambiato, la rimproverava solo per alcuni comportamenti che potevano essere fraintesi con amici più grandi di lei, mai liti furibonde. Sarah non è mai stata una presenza ingombrante. Dov'è la rivale che doveva essere schiacciata, eliminata? Michele Misseri di fronte a voi ha dichiarato di essere l'unico assassino di Sarah Scazzi e non basta dire che è un bugiardo per cancellarlo. Non ci sono telefonate e squilli durante l'omicidio. Sono invenzioni di Michele Misseri». Il contadino, che al processo è imputato di concorso in soppressione di cadavere, ha riferito ripetutamente che, mentre uccideva la 15enne nel garage della sua abitazione in via Deledda ad Avetrana, il telefonino della vittima squillava. Questa, per l'accusa è una prova a carico di Sabrina, poiché quest'ultima ha riferito che mentre effettuava quegli squilli al cellulare della cuginetta il padre si trovava davanti al garage. Quanto a Sabrina e alle sue presunte attività di depistaggio dopo il delitto «se era alla ricerca di un alibi perché doveva far partire due messaggi dal telefonino di Sarah e non uno? E poi poteva avvisare Mariangela dicendo di non poter andare più al mare perché si sentiva male - ha proseguito l'avvocato Coppi. - Per evitarsi il carcere Michele accusò ingiustamente la figlia anche perché qualcuno lo aveva convinto che Sabrina se la sarebbe cavata con due anni di reclusione.» L'avvocato Coppi ha spiegato alla Corte d'Assise che il 28 settembre del 2010, quando non era neanche indagato, Misseri ha raccontato che il 26 agosto, giorno del delitto, intorno alle 14:30, scese per quindici minuti in garage e poi vide Sabrina davanti alla villa incontrare l'amica Mariangela Spagnoletti mentre telefonava alla cugina Sarah che non era arrivata. In quei quindici minuti, per il legale, Misseri ebbe tutto il tempo di uccidere la nipote. «Noi non trasformiamo in realtà sogni che hanno la consistenza della schiuma del mare» ha detto in aula il professor Coppi riferendosi al racconto/sogno del fioraio che disse di aver assistito al sequestro. «Dobbiamo liberarci dalle suggestioni del senso comune, dai pettegolezzi delle donnette di paese, sostituendo al senso comune il buon senso», ha aggiunto Coppi. Il legale romano non ha mancato di lanciare una stoccata alla procura definendo unico il processo anche per il numero di testimoni per cui è stata chiesta l'incriminazione per falsa testimonianza, «qui non si può dire una parola in favore di Sabrina che immediatamente si finisce sotto processo». L'avvocato Coppi si è chiesto poi come mai Michele Misseri, dopo essersi occupato, su sollecitazione della figlia e della moglie, di far sparire il corpo di Sarah (secondo la tesi dell'accusa), «non ha chiesto in 42 giorni alle due donne come avevano fatto, per esempio, a rincorrere la ragazzina per le vie di Avetrana, a far entrare in auto Sarah che si opponeva, come l'avevano trascinato in casa, come l'avevano uccisa nella stessa abitazione». Silenzio anche "sul ruolo della moglie". Insomma, ha sottolineato il difensore di Sabrina, in modo retorico "ha aiutato a nascondere il corpo e non ha detto nulla sul resto". «Molti aspetti della vita di Sabrina sono stati esplorati minuziosamente e secondo me incomprensibilmente. Dettagli neutri, comprensibili nella logica dei ragazzi di oggi. In quest'aula ci si è sorpresi del numero di messaggi tra Sabrina e Ivano non considerati come prova di attrazione o di un rapporto che sta nascendo. Qui è diventata prova di una gelosia che si libera soltanto con l'omicidio. Sul contenuto erotico degli sms - ha aggiunto - si costruisce il ritratto di una personalità attratta morbosamente dal sesso e vittima dell'ossessione di Ivano. E questi sms sono la prova di uno stato d'animo che deve portare necessariamente al un omicidio? Non si capisce la richiesta di ergastolo. Ha detto o non ha detto il pm che non c'è un omicidio premeditato? Ha detto o non ha detto che c'è stato dolo di impeto scatenato da una frase? E per questo si chiede la pena dell' ergastolo?. Non voglio semplicemente lamentarmi dell'entità della sanzione. Io voglio dimostrare l'infondatezza delle richieste del pm. La richiesta sembra corrispondere a una larghissima attesa dell'opinione pubblica. Non voglio dire che voleva compiacere l'opinione pubblica. Ma sta di fatto che corrisponde ai pettegolezzi e alle chiacchiere del paese e dei salotti televisivi. Ma la “vox populi” non sempre è “vox dei”. Non c'e stata nessuna lite furibonda tra Sarah e Sabrina in auto prima di arrivare al pub la sera prima del delitto. E neanche dopo. Ce lo dice Mariangela Spagnoletti: erano tranquille. Sabrina aveva nei confronti della cugina un atteggiamento protettivo che, come dicono tutti i testimoni e componenti del gruppo di amici, dura fino al giorno dell'omicidio. Non c'è nessun testimone che dica il contrario. E questo comportamento da sorella maggiore la portava a qualche rimprovero ad esempio la spronava a fare i compiti, visto che lei non ne aveva voglia. Oppure la metteva in guardia da atteggiamenti eccessivamente espansivi nei confronti dei ragazzi della comitiva, non solo Ivano Russo ma anche Alessio Pisello. E del resto, nel gruppo ha notato un interesse di Sarah per Ivano, né di Ivano per Sarah. Nei diari il sentimento di Sarah per Ivano è confuso, tanto che non ne ha parlato con alcuna amica. E quando negli stessi diari sottolinea che lui la coccolava mentre Sabrina la rimproverava, questo è un sentimento di reazione ai controlli della cugina, per esempio sui compiti, e non significa un effettivo trasporto sentimentale per Ivano. Questa ragazza è innocente», ha detto per questo il difensore ha chiesto l'assoluzione piena senza richieste subordinate né attenuanti generiche. «Vi affido con fiducia la sorte di Sabrina, convinto che lei sia innocente e che Michele Misseri sia l'assassino».

Il giorno della difesa, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note. Noi difensori non avremmo potuto fare nulla di diverso. Hanno detto che era un’ancora di salvezza insperata. Chi ha detto quelle cose offende quella toga che io indosso e che forse anche lui indossa. Nulla è stato fatto per rendere più difficile il cammino della giustizia. E da un mese che studiamo per l’arringa difensiva. Sono venuto a Taranto domenica scorsa con la voglia di discutere questo processo. Abbiamo appreso di questo scambio di battute, abbiamo fatto quello che tutti gli avvocati degni di questo nome avrebbero fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente alla coscienza dei giudici, non c’era bisogno della ricusazione. Volevamo una risposta che ci acquietasse. …abbiamo parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo messo in gioco la simpatia presso di voi, ma la toga impone iniziative di questo tipo. Noi dovevamo fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta che viene dalle vostre coscienze e spero che la vicenda sia chiusa così. Se ci saranno altri seguiti non dipenderà da noi. Credo di essere ugualmente legittimato di porre a lei il mio saluto e la dimostrazione del mio ossequio insieme all’augurio che la sentenza che voi state per pronunciare sia quale il popolo attende, ossia solamente espressione di verità e di giustizia».

Professor Coppi: «Dunque ergastolo parola tanto attesa da un’opinione imbevuta di messaggi televisivi. Questa parola è stata finalmente pronunciata, non un dubbio scuote il pm e di ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti la richiesta sarebbe stata diversa. Dice di essere sereno caso mai condito con un po’ di amarezza. Non importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa aula di essere stato lui l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far venire un ragionevole dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che sottolineano come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci solo quando non esiste una ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa parlare di una tesi oltre ogni razionalità umana, quando Misseri ha confessato, ha fatto ritrovare i vestiti, il cellulare, il luogo di sepoltura. Come si può pensare che questa ipotesi sia al di la della razionalità umana? …. Non riusciamo a comprendere come l’ipotesi di Michele Misseri colpevole non sia dotata di razionalità pratica. Altrimenti seguendo il ragionamento del pm dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E dobbiamo ricordare che due volte la corte di Cassazione ha dichiarato fragile l’indizio del movente gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi indizi a carico di Sabrina. Ma questo non ha nessuna importanza per i pm. Anzi hanno la massima serenità nel chiedere la condanna all’ergastolo per questa ragazza. Un’accusa cieca che non si rende conto delle contraddizioni delle accuse con cui chiede la condanna al’ergastolo. Ha detto o non ha detto che è stato un movente d’impeto? E per questo si chiede l’ergastolo. E’ vero che viene contestato il sequestro in cui assorbe l’omicidio. Ma questo è il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, non di sequestro. E l’omicidio è delineato come animato da un dolo d’impeto. Nonostante tutto ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni aspetti dell’intervento del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che intendo dispiegare per dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma iniziamo con il dire che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa dell’opinione pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione pubblica, ma certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le sentenze emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia anche una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che ci ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula».

Il professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato che vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo hanno pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza». «Abbiamo visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata arrestata. Voi dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna popolare. Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade fuori di essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei difensori degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare questa discussione in una questione personale, lasciamo perdere gli insulti di cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce. Che ci lasciano del tutto indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide, tutti i paragoni, le domande impudenti volte a sapere chi è che ha retribuito la nostra attività. E quale sarebbe il tornaconto che a noi verrebbe? A tutti ricordo che io sono un vecchio avvocato innamorato della giustizia e mi sia concesso di ripetere a voce alta: solo questo m’arde e solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per spirito di giustizia. Non accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è colpevole la mia cliente. Se posso far passare sotto silenzio le offese che riguardano la mia persona non posso far passare le offese sul merito di questa causa». «Una barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente sessuale. Vedremo se questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che quel giudizio non sia anche una sorprendente offesa nei confronti della mia persona. Ne parleremo a lungo della responsabilità esclusiva di Michele Misseri. Il pm dice che hanno dovuto subire una istanza di remissione, come se questo costituisse un offesa. Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo dovuto subire noi difensori? Vi siete chiesti perché l’abbiamo chiesta? Vogliamo ricordare i motivi di quella remissione? Ma vi rendete conto che quando noi abbiamo inteso svolgere investigazioni difensive, anche solo per andare in carcere a sentire Michele Misseri, che il giudice ha imposto la presenza del procuratore della Repubblica a una attività difensiva? C’è tutta l’Italia che ride. E non dovevamo proporre un’istanza di remissione? E vi siete chiesti perché la procura generale ha espresso parere favorevole alla remissione? E vogliamo ricordare le modalità con cui si è proceduto all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai tranquillo, a Sabrina non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del giudice popolare che si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone della difesa). Vogliamo ricordare la lista dei testi messi sotto processo per falsa testimonianza e favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore di Sabrina Misseri senza finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina di una consulente di Michele Misseri che data la sua specializzazione non capiamo a cosa servisse, che addirittura partecipa all’interrogatorio, che sposta il difensore per procedere lei stessa a fare domande? Anche perché questa consulente si era già pronunciata dicendo che Michele era un pedofilo, l’unico responsabile del delitto. Aveva già conquistata la ribalta televisiva accusando il suo futuro cliente. Una nomina che mi porta a pensare all’articolo 64 secondo comma, all’articolo 188 … Io mi sono dovuto ben guardare di svolgere qualche attività non per paura ma per l’interesse della mia cliente. Noi abbiamo una sola speranza e per questo abbiamo valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la fiducia che voi signori giudice saprete allontanarvi dalle suggestioni che vengono da fuori ma anche da dentro questa aula riconoscendo le ragioni della difesa. Le nostre ragioni sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono alla logica e al buon senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto dal senso comune». Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune il buon senso. Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro categorie di giudici quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma senza cuore, quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa. Noi siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha la forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata chiesta la pena dell’ergastolo. Una domanda che si fa spesso è se un genitore colpevole possa mai accusare una figlia innocente. Signori della Corte voi lo sapete è un interrogativo che grava su questo processo dall’inizio e fatto proprio dal pubblico ministero. Abbiamo madre che uccidono figli, padri chele violentano figlie, che usano i figli e di fronte a queste situazioni ci chiediamo se un padre può accusare una figlia innocente? Provate ad immaginare Misseri colpevole, e allora vi chiedo può un uomo che ha provato un approccio sessuale e poi ha uccisa la nipote, avere scrupoli nell’accusare la figlia soprattutto se si è convinto, o è stato convinto, che la figlia potrebbe cavarsela con una pena mite? A un uomo del genere in fondo un sacrifico della figlia era una ipotesi accettabile. Nell’ambito di ogni racconto dobbiamo chiedersi: ha sempre detto tutta la verità? Dobbiamo procedere con un metodo corretto. Dobbiamo respingere la faciloneria di chi dice che ha detto troppo versioni e quindi dobbiamo toglierlo dall’orizzonte di questo processo. Ecco perché i pm dicono di potere fare a meno di Michele Misseri. Troppo comodo. Questo non è il processo a carico di Michele Misseri per omicidio ma è una fonte di prova che esclude la responsabilità di Sabrina, specialmente in dibattimento, davanti a voi signori giudici che lo avete ascoltato accusarsi del delitto. Certo il nostro sistema processuale consente di procedere a contestazioni e di riesumare in aula quello che è stato acquisito nelle indagini preliminari, ma la prova di cui dovete tenere conto è la prova che si forma nel contraddittorio tra le parti in aula, non la prova che viene raccolta nel segreto delle indagini. Perché noi italiani siamo riusciti a fare un processo accusatorio mantenendo quello inquisitorio. Non potete sostituire una verità istruttoria a quella dibattimentale. Il punto di riferimento deve essere quello che Michele Misseri ha dichiarato di fronte a voi ossia che è lui l’assassino. Le due possibilità sono: o è stato lui o Sabrina. (Per quanto riguarda Cosima penso che c’entri come i cavoli a merenda, ma non me ne occupo io). E’ chiaro che Michele Misseri è caduto in contraddizioni se si sono fornite varie versioni. Ma le contraddizioni pericolose sono quelle che si formano dentro il racconto, non mi interessa la contraddizione fra una tesi e l’altra. Ma non mi potete dire che quando accusava Sabrina diceva una cosa e quando accusava se stesso diceva un’altra, questo non vale. Noi dobbiamo dargli credibilità o quando mantiene inalterata una versione o quando una sua versione ha qualche riscontro. Io ritengo preziosissimo il verbale sit del 28 settembre 2010 quando non è ancora accusato di nulla, non ha ancora fatto trovare il telefonino, quindi può raccontare ciò che vuole senza la preoccupazione di tradirsi. Il corpo di Sarah purtroppo giace in quel maledetto pozzo che nessuno aveva trovato. Michele Misseri rileva alcune circostanze che sono riscontrate da Mariangela e da altre fonti di prova. Cosa racconta ai carabinieri il 28 di settembre? Il 26 agosto sono tornato dal lavoro, ho pranzato, sono sceso in garage, sono salito in strada dopo 15 minuti e vedo Sabrina con Mariangela che sta telefonando. Ora questa telefonata che lui vede in quel momento non può essere altro che la telefonata che Sabrina sta facendo a Sarah, la prima delle due, prima di correre a casa della zia per vedere che fine aveva fatto Sarah. Telefonata delle 14,42. provate a togliere 15 minuti e si arriva alle 14, 27, ora in cui Sarah è arrivata a casa Misseri. Quindici minuti sono stati in garage e poi esce e vede Sabrina fare la telefonata. In quel verbale dice di aver partecipato alle ricerche di Sarah e di essere andato in contrada Mosca proprio dove è il pozzo. E non c’è dubbio che Sabrina stava telefonando e che lo ha fatto appena arriva Mariangela e la telefonate alle 14,42 emerge dai tabulati. 15 minuti sono più che sufficienti a uccidere la nipote. Pochi minuti ha detto il dottor Albarello, pochi minuti ha detto Strada. Molto meno ha detto lui. Quindi quando noi diciamo che alle 14,30 era nel garage, proprio in coincidenza con l’arrivo di Sarah facciamo una affermazione confermata da dati obiettivi. E infatti che Sarah sia arrivata nel garage qualche istante prima delle 14,30 lo dice Michele, perché nell’interrogatorio del 15 ottobre conferma che l’orario di arrivo è tra le 14,25 e le 14,30. Un riscontro ce lo fornisce il pm: “Guarda che Sarah alle 14,25 era nei pressi del garage, ne abbiamo la prova perché ce lo dicono due fidanzatini, La Stella.” (interrogatorio del Novembre 2010). Poi si cercherà di cambiare gli orari (e io non so se la santa inquisizione aveva questi metodi,.Mamma mia). La mattina quando la Pisanò ha visto Sabrina ha verificato che stava male. Quindi Sabrina poteva dire a Mariangela che non voleva andare al mare. Ma quale interesse aveva Sabrina omicida ad andare al mare? Aveva tutto l’interesse di allontanare Sarah dalla sua casa. Aveva interesse di non avvertirla e di dire che non la aveva più vista dalla tutto avrebbe mattina. Soprattutto avrebbe dovuto evitare che arrivasse Mariangela. Ma vi sembra un atteggiamento logico? Se partiamo dall’idea che Sabrina possa essere l’autrice del delitto dobbiamo procedere con logica. La verità è che non ci sono telefonate mentre Michele uccide Sarah, queste sono solo invenzioni di Michele, Michele Misseri risponde come vogliono gli inquirenti. Dopo il messaggio delle 14,28, non ci sono altre telefonate fin alle 14,42 a meno che non crediamo che Sabrina con il cadavere tra i piedi inizia a mandare tutti quei messaggi per crearsi l’alibi. Ma vogliamo mettere in dubbio che qualche giorno prima ha molestato Sarah? Non ha potuto negare alle mie domande che gli ha dato una pacca sul sedere ed è difficile escludere il movente sessuale quando uno rifila una pacca sul sedere a una ragazzina, è un atto erotico che suscita il risentimento di Sarah. Era un’attenzione non gradita: “queste cose non si fanno, dice Sarah allo zio, lo dico a Sabrina”. Michele Misseri lo dice fino al suo primo esame 8 ottobre ammette di avere allungato le mani, e anche quando chiama in correità Sabrina. Pag 3t interrogatorio dell’8 ottobre davanti al Gip. Poi il 5 Novembre pagina 92 conferma questo episodio e pure non avvenne nessun motivo di farlo visto che sta cercando di uscire dal delitto. Invece il 5 di Novembre ripete di aver tentato un approccio sessuale con la nipote e al dibattimento lo ripete. Purtroppo siamo tutti adulti e sappiamo come vanno queste cose. Il giorno 26 tenta un approccio perché già prima stava nascendo un interesse sessuale nei confronti di Sarah. «Ho visto le tette che le stavano sbocciando», dice. Il 26 Michele tenta un nuovo approccio. E’ più comodo dire “non so perché l’ho fatto”, ma, non per motivi sessuali. Nella sua testa ammettere l’omicidio ma negare l’approccio sessuale lo fa sentire meno colpevole, lui trova nella sua vigliaccheria una giustificazione nel raptus, nella vampa alla testa che lo ha preso. La mattina stavo male, ero nervoso, dice, un miracolo che non sono finito fuori strada. Quindi lui nega il movente sessuale perché questo rende più accettabile questo delitto, innanzi tutto verso se stesso, verso la famiglia, verso la collettività, verso l’ambiente carcerario dove non perdonano atti sessuali nei confronti di bambini. Michele vuole essere compreso se non perdonato. E sente che questo non sarebbe possibile se credono che lui abbia molestato Sarah. Contro di lui ci sono moltissime prove. Il pm dice è una barzelletta, Sarah non scendeva mai in garage. Non è vero scendeva per i gatti, per stendere la biancheria, per avvertire lo zio che il pranzo era pronto. Lo ammetterà Michele Misseri (verbale del 6 ottobre, pagina 18, quando ancora non ha confessato). Ma Pisello (un altro candidato alla falsa testimonianza) interrogato, pag 309 e 311 delle sue dichiarazioni dice che Sarah scendeva nel garage. Lo ha saputo da Sabrina. Dice che lo aveva appreso anche prima della scomparsa di Sarah. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo per falsa testimonianza. I pm dicono, ma perché Sarah doveva scendere in garage dopo gli approcci dello zio? Sarah è una ragazza pulita, una ragazza per bene, ingenua. Ha avvertito lo zio: “non lo fare più”. E non lo farà più. Questa è la spiegazione più ovvia. E sta di fatto che quel giorno scende in garage. Alle 14,28 è nei pressi della casa Misseri. Michele Misseri, verbale del 6 ottobre,, alla domanda può essere che l’ha chiamata lei? «Eh mi pare che l’ho chiamata». Quindi è un’idea che nasce perché ricaviamo dagli atti. Eh signori noi abbiamo troppe prove che Michele Misseri ha tentato un approccio sessuale. Michele Misseri ha ripetuto troppe volte di averci provato per pensare che sia tutto inventato. Il 6 ottobre ammette di aver tentato di violentarla e poi di avere vilipeso il cadavere. Il 7 (pag 72 73) ammette di aver voluto l’atto sessuale. E spiega il suo stato d’animo con parole tali che non si può dubitare: “Non l’avevo mai vista così vestita”. Ma come si può continuare a dire: invenzione. Noi siamo convinti della innocenza di Sabrina. Ma neanche un ragionevole dubbio? 8 ottobre ribadisce: mai vista così. Non so dire se le ho messo le mani addosso, ma lei non voleva. Come non sai se le hai messo le mani addosso, se lei non voleva? Se non hai fatto niente cosa è che non voleva volere? Sono ovvie le domande che gli fanno: ma dove gli hai messo le mani? Risponde: la davanti, tra le gambe. Lei però non voleva. Allora ho perso la pazienza, appena si è girata ho preso una corda e l’ho strangolata. Poi il… dice “lei mi aveva toccato”. Ha il coraggio di dire che l’approccio sessuale è di Sarah. Poi ripete di essere stato lui (pag 90 – 98). Ma insomma signori, ce lo stiamo inventando noi? Il 5 novembre Misseri consuma l’ennesima vigliaccheria: dice che è lei che stuzzicava sempre! Signori della famiglia state a sentire queste cose prima di dire che Sabrina è la colpevole. Sabrina per prima smentisce il padre dicendo che Sarah era una ragazza pulita. Ma proprio al dibattimento Michele si tradisce completamente. Dice che il 26 era nervoso ha detto “vattene” a Sarah, e poi che l’ ha afferrata da dietro per spostarla. Perché non bastava spingerla? E allora perché Sarah reagisce con un calcio nelle parti basse. E’ questa la reazione di una bambina a uno zio che dice spostati? O invece è la reazione di una bambina insediata, per bene? Ma questo aveva dato del denaro alla ragazzina per comprarne la simpatia. Forse Sarah disse che sarebbe andata a dirlo alla cugina e alla zia. Ma secondo me l’idea che Sarah doveva essere eliminata la concepisce giorni prima quando Sarah lo aveva minacciato di dire degli approcci sessuali alla zia. Può essere che l’idea nasca solo il 26, ma sono perseguitato dall’idea che Michele era ossessionato dall’idea di difendersi da Sarah. Perché l’idea che si doveva portare Sarah in garage per darle una lezione? Perché lui questa idea l’aveva. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va punita Sarah, e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché Sabrina porta Sarah in garage (una delle versioni di accusa) è proprio questa. Quale valore possono avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni? La ritrattazione della ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione annulla l’altra e si deve tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri argomenti. Iniziamo a chiederci il valore della confessione. Come si può definire prima di riscontri la sua confessione? Visto che ha fatto ritrovare telefonino, corpo, chiavi. La confessione è comunque una prova che non esige riscontri, come stabilisce la Cassazione. Non ha bisogno di riscontri esterni. Ma quanti ergastoli sono stati dati con una semplice confessione. Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato come persona informata sui fatti. I pm a quel punto hanno già sospetti su Sabrina, l’hanno già ascoltata il 30 e le hanno detto che sta dicendo delle falsità pazzesche. Questo è l’atteggiamento dei pm come risulta dall’interrogatorio del 30 settembre. I pm maturano l’idea che Sabrina sappia, che sia addirittura coinvolta bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a cadere in qualche contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E lo incitano a dire la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa essere capitato un incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia capire». La confessione spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio, ma la pista Sabrina non viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di eliminare una pista a cui si erano affezionati. E iniziano gli interrogatori. Michele prima coinvolge la figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi c’è la chiamata in correità e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si siano state tecniche persuasive che hanno vincolato la libera determinazione di Michele Misseri, che non aveva la forza di resistere alle domande di un pubblico inquisitore. E’ singolare, come i mutamenti di versione avvengono quasi sempre dopo una sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di rassicurazioni e di inviti su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina, Miché, stai tranquillo….». La cintura: «il 5 novembre si sapeva già che l’arma del delitto poteva essere una cintura perché durante l’autopsia il perito legale lo aveva detto alla presenza del difensore di Michele Misseri.» Chi ha convinto Michele a accusare la figlia? «Io sto al fatto che dagli atti esiste una attività persuasiva della consulente e del suo legale. Non credo che sia stato fatto con dolo, ma è stato fatto.»

10 aprile 2013, 50ª udienza. Replica finale dell’accusa: Pietro Argentino e Mariano Buccoliero.

Nell’aula Alessandrini del Palazzo di giustizia di Taranto è iniziata l’udienza del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, dedicata alla replica della Procura. Il procuratore aggiunto, Pietro Argentino, ha contestato alcune affermazioni fatte nelle udienze precedenti da alcuni difensori degli imputati nelle loro arringhe. In particolare, Argentino ha contestato con sarcasmo alcune frasi pronunciate ieri dall’avv. Nicola Marseglia, difensore di Sabrina Misseri, che aveva parlato di "metodo barbaro, in perfetto stile cubano" usato dagli investigatori nel corso delle indagini. Il difensore di Sabrina ha anche criticato i risultati dell'autopsia eseguita dal prof. Luigi Strada (“farneticazioni medico-legali passate come dato scientifico”) ed ha parlato di “suggestioni e forzature nell'approccio alle fonti di prova pregiudizialmente negativo per Sabrina”.. «Speriamo di non causare un incidente diplomatico - ha commentato il procuratore aggiunto.- Questo ufficio ha sempre rispettato le leggi e le regole del codice!» Il procuratore aggiunto Pietro Argentino ha anzi messo in dubbio l’attendibilità di un testimone della difesa. «Paolo Arbarello, presidente dell’Istituto nazionale di medicina legale – ha detto Argentino – quando ha deposto quale teste è venuto meno all’impegno di dire la verità». Secondo Argentino il professore romano non avrebbe «davvero visionato tutto il materiale messogli a disposizione dallo studio dell’avvocato Franco Coppi (che con Marseglia difende la ragazza imputata di omicidio). È veramente attendibile – ha detto il pm – oppure è una offesa per la giustizia l’averlo ascoltato? Nessuna spiegazione razionale è stata data - ha detto il procuratore Argentino - sul passaggio del soliloquio in auto di Michele Misseri è stata data dalla difesa di Sabrina quando dice “quello che vogliono fare a tua figlia fanno”. Sabrina aveva la necessità di dimostrare, come si è sforzata di fare per 51 giorni dopo la scomparsa, che Sarah non era mai arrivata a casa sua». Lo avrebbe fatto, secondo l'accusa, perché sapeva che il padre di Sarah, Giacomo, la madre Concetta e la badante erano a conoscenza che la ragazza era uscita per recarsi da lei. Inoltre Sabrina, per Argentino, "deve dimostrare che Sarah è arrivata dopo lo squillo delle 14,28". A fine udienza l’altro pm, Mariano Buccoliero, depositerà una memoria di circa 600 pagine.

15 aprile 2013, 51ª ed ultima udienza. Replica finale delle difese.

I difensori degli imputati hanno lamentato di essersi trovati di fronte a una memoria di 599 pagine depositata la scorsa udienza dal pubblico ministero che, al contrario di quanto era stato assicurato, non sarebbe una mera riproduzione della requisitoria pronunciata in aula, ma conterrebbe alcuni fatti nuovi, che stravolgerebbero la stessa e presenterebbe delle contraddizioni.

Nicodemo Gentile, legale di parte civile della mamma di Sarah Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo, aprendo l'udienza del processo per l'uccisione della quindicenne di Avetrana. « La famiglia Scazzi non è venuta qui a raccattare giustizia. Qualcuno ha cercato di descrivere Sarah come una ragazzina che mendicava coccole. Basta leggere invece un messaggio di Sabrina Misseri a Ivano del 6 luglio 2010: “quando mi arrabbio esce il peggio di me stessa per contrastare mia madre e la mia paura più grande è di diventare come lei”. Ecco l'errore fatto da Sarah e da Concetta: l'aver frequentato quella casa perché lì è stata uccisa». Gentile ha definito il movente sessuale, indicato dalla difesa di Sabrina quale causa del delitto che sarebbe stato commesso da Michele Misseri, una "filastrocca per bambini, esclusa dallo stesso Michele Misseri" quando si autoaccusa dell'omicidio. Gentile ha accusato anche Sabrina di non aver aiutato la Corte dicendo di non ricordare molte circostanze su cosa accadde il 26 agosto 2010, giorno del delitto. «Non è vero che i testimoni siano tutti militanti a favore dell'accusa, ci sono stati anche tanti testimoni militanti a favore delle imputate». E a questo proposito ha citato la zia Emma e la sorella Valentina Misseri. Per Gentile «il vero testimone di questo processo è Sarah e non è militante. Si arriva all'assurdo - ha sottolineato - che la colpa è della madre di Sarah che ha mandato la figlia dagli zii. Questo è stucchevole. Meno male che aveva compiuto 14 anni, altrimenti Concetta sarebbe stata accusata di abbandono di minore». Infine ha ribadito che la difesa "non vuole vendette muscolari ma che sia dato a ciascuno il suo". «L'unico errore che si può commettere in questa vicenda è di lasciare la giustizia italiana senza parole, magari dicendo che Michele era confuso, Sabrina non ha commesso nulla, Cosima dormiva e meno male che Sarah aveva compiuto già 14 anni sennò magari Concetta sarebbe stata accusata di abbandono di minore». Gentile ha definito Michele Misseri, che si accusa del delitto, "un ventriloquo, un invertebrato senza spina dorsale che ha paura delle donne di casa". «La famiglia Scazzi - ha concluso - vi ha consegnato il suo dolore e attende una risposta dalla giustizia italiana che non sia muscolare né una vendetta.» Per l'avvocato Gentile basta incrociare i messaggi di Sabrina, i dati e le intercettazioni per capire come sono andate le cose. Il movente della gelosia è confermato dal diario di Sarah. «Sparisce la cugina, cosa fa Sabrina? Chiama Ivano per dirgli che i loro cellulari sono sotto controllo. E poi non dice ai carabinieri che il giorno prima aveva litigato con Sarah». Per il legale Sabrina in aula si sarebbe nascosta dietro i "non ricordo" per quasi 500 volte. «Sarah ha cercato affetto nella casa sbagliata. Sarah è stata uccisa proprio in quella casa da chi si fidava. Basta leggere gli sms di Sabrina per capire cosa accadeva in quella casa», ha insistito l'avvocato riferendosi ad un messaggino del 6 luglio 2010 nel quale l'imputata scriveva che "a casa riesco a dare il peggio di me stessa". «Sabrina - ha continuato - ha taciuto elementi fondamentali agli investigatori per allontanare da se stessa e dalla sua famiglia ogni sospetto. Contro di lei è sua madre ci sono testimoni che non hanno motivo di mentire. Mentre lei ha nascosto tutto quello che poteva. La piccola Sarah - ha insistito - è la testimone principale contro le sue aguzzine. Ha parlato in questo processo con le ultime parole scritte nei suoi diari. Quando racconta di come era avvelenato il rapporto con la cugina».

Franco Coppi, uno dei legali di Sabrina Misseri, rispondendo a quanto affermato dalla pubblica accusa su presunte diversità di vedute su questo aspetto con l'altro difensore, l'avvocato Nicola Marseglia. «Ho letto che questa difesa cerca di confondere le acque. Questo non me lo ha mai detto nessuno! Il movente sessuale c'è ed è provato. Non c'è contrasto tra la ricostruzione dell'avvocato Marseglia e la mia. Non c'è una differenza di veduta tra me e l'avvocato Marseglia - ha aggiunto - ma solo due percorsi diversi. La conclusione è la stessa. Io parto da quel primo episodio dell'approccio di qualche giorno prima che Michele ha sempre ammesso. Anche la frase detta da Sabrina a Mariangela Spagnoletti quando arrivò a casa sua il 26 agosto del 2010 “l'hanno presa, l'hanno presa” non denoterebbe una responsabilità di Sabrina ma sarebbe giustificata dalla sorpresa del ritardo della ragazzina. Sarah era un orologio svizzero - ha detto l'avvocato Coppi - Destava sconcerto che non fosse arrivata anche per il fatto che Mariangela aveva fatto lo stesso percorso di Sarah e non l'aveva incontrata durante il tragitto». Durante la sua replica l'avvocato ha rimproverato Michele Misseri che scuoteva la testa. «E' inutile che fa sempre di no con la testa, stia a sentire per una volta». «L'innocente ha bisogno solo di giustizia. Oggi sono due anni e sei mesi che Sabrina è detenuta. Mi appello alla vostra ragione di assolverla. Se la assolverete - ha aggiunto - ci saranno i soliti cori sgangherati: ancora un delitto senza colpevole? No, ogni delitto ha un colpevole, e qui c'é uno che si proclama colpevole. La giustizia vince o perde solo se è stata pronunciata o meno una sentenza giusta. Come potrete superare ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza di Sabrina di fronte ad un uomo come Michele Misseri che si accusa del delitto, poi ritratta, e poi ancora ritratta la ritrattazione accusandosi di tutto da due anni?. Gli interrogatori da parte degli inquirenti sono stati portati avanti in maniera fuorviante - ha aggiunto Coppi - Siamo certi - ha detto ancora riferendosi al possibile movente del delitto - che il movente sia la gelosia di Sabrina?» Il legale ha quindi attaccato la credibilità di alcuni testimoni dell'accusa. «Non accetto che si dica che la difesa di Sabrina abbia cercato di confondere le acque -  ha poi sottolineato l'avv. Franco Coppi - Michele Misseri, che da due anni si accusa del delitto, ha sempre detto - ha sostenuto Coppi - di aver tentato approcci sessuali con la nipote Sarah e, di fronte al diniego, quel giorno gli salì il calore alla testa e strangolò Sarah. Non ha mai ritrattato questo. Il movente sessuale c'è ed è provato. Potete voi dire di aver superato ogni ragionevole dubbio - ha detto il legale rivolgendosi alla Corte - che ad uccidere non sia stato Michele Misseri, che ci ha portato al pozzo, ci ha ridato il cellulare, che da due anni si proclama colpevole, anche in aula, minaccia di suicidarsi, scrive lettere e memoriali? C'è tutta Italia che ride del fatto che il presunto assassino è a piede libero. Come farete a superare ogni dubbio con incrollabile certezza?» Per il legale romano le prove dell'innocenza di Sabrina sono negli squilli e nei messaggi che la ragazza si scambia con la vittima poco prima delle 14:30 del giorno del delitto. A quell'ora, secondo l'accusa invece Sarah è già morta e la cugina si fa gli squilli col cellulare della vittima per crearsi un alibi. «Nel dubbio non si condanna. Il dubbio nel processo penale, per poter giungere a una condanna, deve trasformarsi in certezza - così, citando alcuni illustri giuristi, il legale Franco Coppi - Il giudice - ha proseguito rivolgendosi ai due togati e ai sei non togati che compongono la Corte - deve raggiungere una convinzione incrollabile sulla verità dell'accusa. Potete dire in piena coscienza, tranquillità e serenità che le prove dell'accusa producono una incrollabile certezza sulla tesi accusatoria?» E inoltre ha avvertito: «non si condanna sulla base di un giudizio probabilistico. Quello che viene rappresentato dall'accusa deve avere un significato univoco», ha sottolineato Coppi. Quindi ha elencato una serie di "temi" decisivi del processo sui quali la Corte dovrà superare "ogni ragionevole dubbio" e raggiungere "una incrollabile certezza". «Si può condannare solo se è provata al di là ogni ragionevole dubbio la colpevolezza di un imputato, non perchè non è stata dimostrata la sua innocenza. Il concetto di “oltre ogni ragionevole dubbio” – ha aggiunto - deve essere, come dicono illustri giuristi, regola di giudizio».

Nicola Marseglia, co-difensore di Sabrina Misseri insieme con l'avv. Franco Coppi. «Possiamo inventarci le cose. Sino a questa mattina Michele Misseri - ha detto tra l'altro - ha scritto alla figlia Sabrina dicendo di essere il colpevole. Noi sosteniamo cose logiche e ancorate ai dati processuali». Marseglia si è anche detto "indignato" perché "una farneticazione come il sogno del fioraio (che avrebbe visto Cosima costringere Sarah a salire in auto, sostenendo poi però di aver sognato tutto) sia entrata nel fascicolo processuale". «Se i tabulati telefonici dicono il vero - ha detto ancora Marseglia - il processo non ha senso perché sono incompatibili con il coinvolgimento di Sabrina Misseri, crolla tutta l'impalcatura di menzogne su di lei». «Ma io non ho mai fatto niente di tutto questo» ripete lei da sempre ai suoi avvocati, il professor Franco Coppi e Nicola Marseglia. Ieri cercava il loro sguardo mentre gli agenti penitenziari la riportavano in carcere (dove divide la cella con la madre e con una detenuta romena). Cercava di capire dai loro occhi se tenere accesa la speranza o arrendersi. L’hanno portata via di corsa, non c’è stato nemmeno il tempo di una parola. Solo una richiesta: «Posso avere la memoria difensiva?»: Stavolta non è per annotare passaggi o studiare dettagli, ma per rileggere la storia di se stessa fra quel 26 agosto, quando Sarah sparì, e quel 7 ottobre, quando suo padre rivelò dov’era il corpo. I suoi avvocati raccontano che durante quasi tutto il processo ha vinto la Sabrina scoraggiata: «Lo so che mi aspettano al varco. Si vede che sono antipatica a tutti, sono contro di me qualunque cosa dica». E anche se nelle ultime udienze sembrava più tranquilla «emotivamente è a pezzi, non riesce più a mangiare senza vomitare ed è in apnea in attesa di questa sentenza», giura Nicola Marseglia.

Luigi Rella, uno dei difensori di Cosima Serrano «Non ci sono indizi convergenti su Cosima». Poi si è soffermato in particolare sulla questione degli esami irripetibili sulle celle telefoniche.

Franco De Jaco, uno dei legali di Cosima Serrano: «Lo spazio riservato in questo processo a Cosima Serrano è così risibile e ininfluente per cui non si capisce come si possa giungere a considerarla concorrente nel reato di omicidio». Il legale ha aggiunto che Cosima «voleva sottoporsi all'esame, ma noi difensori abbiamo detto di no perchè non era necessario visto lo svolgimento processuale. Una persona non abituata a queste situazioni, come Cosima, si sarebbe potuta contraddire, ma non perchè sia colpevole, ma perchè è detenuta da tempo, ha una figlia anche lei in carcere e un marito che si accusa del delitto. Una situazione che non può darle serenità».

Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri (fratello di Michele): «Negli atti c'è la prova dell’incertezza della ricostruzione sui movimenti di Carmine Misseri.»  Bullo ha depositato una breve memoria.

Di un processo "incompiuto" ha parlato l’avv. Raffaele Missere, difensore di Cosimo Cosma, nipote di Michele Misseri e anche lui accusato di concorso in soppressione di cadavere. «In questo processo – ha detto – manca la figura di un uomo che la Procura ha volutamente tenuto fuori. Si è preso da Michele Misseri quello che serviva».

A fine udienza la difesa di Sabrina e le difese degli altri avvocati hanno depositato una memoria in risposta a quella di 600 pagine circa già depositata dalla Procura.

Giallo di Avetrana, l’ultima udienza. La memoria della difesa in attesa del verdetto su Cosima e Sabrina. Memoria riportata da Maria Corbi de “La Stampa”. Siamo alla fase finale, agli ultimi atti del processo di Avetrana. Questa mattina le repliche della parte civile e delle difese, poi la Corte di Assise si chiuderà in Camera di Consiglio da cui uscirà con un verdetto: Sabrina e Cosima colpevoli o innocenti. E insieme a loro altri 7 imputati di reati minori. I pubblici ministeri hanno chiesto l’ergastolo, la difesa delle due donne (Franco de Jaco e Luigi Rella per Cosima Serrano; Franco Coppi e Nicola Marseglia per Sabrina Misseri) l’assoluzione piena. E in mezzo il tribunale incivile dei Talk show televisivi che ha già emesso la sua sentenza. Si dovrà vedere se i giudici manterranno unite le posizioni di madre e figlia, oppure se separeranno i destini, in questo caso scrivendo un’altra trama ancora di questo delitto.  Una sentenza attesa per metà di questa settimana. Intanto parlano in aula le parti civili. La parola a Nicodemo Gentile, che rappresenta la famiglia Scazzi. Nella sua replica la convinzione della responsabilità di Sabrina e Cosima che assistono a questa udienza. Sabrina è cambiata, l’ombra di se stessa. Molto dimagrita, con i lunghi capelli neri che incorniciano un volto pallido e smarrito. Sta male. Non mangia e vomita. Non l’aiuta più nemmeno il sostegno psicologico. Nemmeno un ragionevole dubbio nelle parole dell’avvocato Gentile, quello che pretendono nel caso del loro assistito Parolisi condannato all’ergastolo. Ma quello che tristemente si evidenzia in un processo così ossessivamente mediatico è la marginalità che fino ad ora è stato dato al principio costituzionale del ragionevole dubbio, solo oltre il quale si può condannare. Figuriamoci poi quando si tratta di un ergastolo. E il professor Coppi nella sua memoria prende il via proprio da questo, ricordando alla corte che si deve andare oltre ogni ragionevole dubbio, come continuamente nelle sue sentenze ricorda la corte di Cassazione. E non è facile andare oltre quando c’è un reo confesso, Michele Misseri, che ha ripetuto anche in aula, dove si forma la prova secondo il nostro ordinamento, che è lui e solo lui il colpevole. L’assassino di Sarah. Ma, sostiene la difesa si può anche prescindere da lui, perché la prova dell’innocenza di Sabrina è nei fatti. In quello che è accaduto quel maledetto 26 agosto.

Scrive la difesa nella sua memoria: «Quanto accade in quel primo pomeriggio del 26 agosto, almeno fino alle ore 14.28’26’’ corrisponde puntualmente a quanto era stato concordato la sera del 25 agosto con Mariangela Spagnoletti: e ciò, tra le tante altre prove favorevoli per Sabrina Misseri di cui già si è detto e di cui ancora si dovrà dire, costituisce un vero e proprio alibi in favore della tesi della innocenza di Sabrina Misseri». Nella ricostruzione di quanto accaduto la difesa conta su alcuni punti obiettivi costituiti dagli orari riportati nei tabulati telefonici. Dal memoriale: «La sera del 25 agosto Sabrina e Mariangela si accordano per andare al mare il giorno successivo se Mariangela cesserà in tempo dal lavoro e non sarà troppo stanca. Le due ragazze convengono che Mariangela si farà viva con una telefonata o con un messaggio. Il colloquio, naturalmente, si svolge tra Mariangela e Sabrina alla presenza di Sarah che, in un certo senso, non ha voce in capitolo perché la sua partecipazione alla gita è naturalmente subordinata a quanto decideranno e potranno fare Mariangela e Sabrina. Non si può per altro non sottolineare che se quella sera fosse scoppiata tra Sarah e Sabrina una lite furibonda e se Sabrina avesse maltrattato Sarah appare sorprendente che Sabrina non abbia escluso dalla gita Sarah o che quest’ultima non abbia dichiarato di non voler andare al mare in loro compagnia. Il giorno successivo alle ore 14.23’31’’ Mariangela invia a Sabrina il messaggio tanto atteso: “il tempo di mettere il costume e vengo”. Si è fatto un gran discutere circa il fatto se Sabrina in quel momento si trovasse nel proprio letto o in quello della madre grazie alle confuse dichiarazioni di Michele Misseri. Sta però di fatto che Sabrina, che secondo l’Accusa aveva appena ucciso la piccola cugina dopo averla rincorsa in compagnia della madre per le vie di Avetrana, risponde immediatamente (e con sorprendente prontezza se pensiamo che aveva appena ucciso la cugina, secondo l’ipotesi accusatoria) con un messaggio che viene inviato dopo neppure trenta secondi: il messaggio di risposta è infatti delle ore 14.24. Sabrina risponde: “avviso Sarah?” L’Accusa si chiede che bisogno vi fosse di chiedere a Mariangela se Sarah doveva essere avvisata: non erano già le tre ragazze tutte d’accordo? A parte quanto subito diremo circa l’assurdità di un tale messaggio nell’ipotesi in cui Sabrina fosse stata colpevole della uccisione della cugina, appaiono plausibili le più ovvie spiegazioni, rappresentate dalla stessa Sabrina: si trattava di chiedere in definitiva alla proprietaria della automobile, che già una volta non aveva nascosta una sua antipatia per Sarah, se ella – a parte quanto era stato detto la sera prima in presenza di Sarah – aveva nulla in contrario a che costei fosse della partita e se quindi andasse avvertita per rendersi a sua volta rapidamente pronta. Avendo Mariangela espresso il suo consenso, parte subito il primo messaggio di Sabrina verso Sarah. Sono le ore 14.25. E’ il messaggio che Sarah attendeva e che sperava di avere; si era già preparata per non perdere tempo e per poter subito raggiungere la cugina ed infatti comunica subito ai familiari di aver ricevuto il messaggio di Sabrina e di uscire per recarsi al mare. E poiché Sarah non risponde al primo messaggio di Sabrina, costei alle ore 14.28’13’’ invia un secondo messaggio a Sarah proprio per essere sicura che costei aveva ricevuto la prima avvertenza. Sarah, nello spazio di pochi secondi, e precisamente alle ore 14.28’26’’, invia alla cugina uno squillo che, secondo le loro abitudini, stava a significare che ella aveva ricevuto il messaggio e che confermava la sua partecipazione alla gita. Ricevuto il messaggio di Sarah, Sabrina invia a Mariangela, alle ore 14.28’40’’ il messaggio “sto tentando in bagno” contrassegnato da uno smile. È ragionevole ritenere che Sabrina abbia voluto giustificare qualche minuto di ritardo da parte sua e che ella abbia voluto “ingentilire” il messaggio proprio con lo smile di cui si è detto: e non si può ancora una volta non sottolineare che tutto ciò accadrebbe, secondo l’ipotesi accusatoria, pochi minuti dopo la consumazione dell’omicidio. Se infatti l’Accusa sostiene che i messaggi risultanti registrati sui tabulati relativi ai cellulari di Sabrina e di Sarah sarebbero stati formati tutti da Sabrina per costituirsi un alibi (ma sul punto torneremo di qui a poco), non si può certamente negare che il messaggio “sto tentando in bagno” è certamente autentico e che francamente appare sbalorditivo il fatto che Sabrina abbia avuto addirittura la spudoratezza e la freddezza di accompagnare il messaggio con lo smile dopo aver ucciso da pochi minuti la cugina. Ricevuto alle ore 14.31’44’’ un messaggio da Angela Cimino, al quale non viene data immediata risposta proprio perché Sabrina in quel momento si trovava in bagno e risposto alla Cimino con messaggio alle ore 14.35’47’’, Sabrina finalmente alle ore 14.39 manda a Mariangela l’ultimo messaggio: “pronta” esce di casa non trova Sarah, come probabilmente si attendeva dato lo squillo delle ore 14.28’26’’ e, all’arrivo di Mariangela, dopo aver chiesto all’amica se per caso aveva visto Sarah lungo la strada, prova alle ore 14.42 di mettersi in contatto con la cugina: il telefono lancia qualche messaggio per poi tacere: è la scena descritta da Michele Misseri nelle sue dichiarazioni del 28 settembre». La sequenza dei messaggi e il loro contenuto, sostiene la difesa di Sabrina, hanno una logica coerente con gli accordi del giorno precedente: accade esattamente tutto ciò che era stato convenuto. Dal memoriale: «Sabrina attende un messaggio e questo arriva; Sarah a sua volta attende un messaggio della cugina e anche questo giunge a destinazione. Ma il messaggio atteso da Sarah giunge alle ore 14.25 e Sarah non ha bisogno alcuno di inventarsi - come invece sostiene l’Accusa – messaggi non ancora inviati allo scopo di anticipare la sua uscita di casa: il messaggio atteso è proprio quello delle ore 14.25 e non è un caso che inizialmente, prima che incominci il solito balletto sugli orari, Concetta e la badante indichino nelle 14.30 l’orario di uscita di Sarah dalla casa per andare al mare; così come non è un caso che i fidanzati affermino di aver visto Sarah tra le ore 14.15 e le ore 14.30 e non prima comunque delle ore 14.00 come avrebbe dovuto essere invece se Sarah fosse uscita, come sostiene l’Accusa, tra le ore 13.45/13.50; così come non è un caso che La Stella individui la presenza di una persona, identificabile in Sarah sicuramente non prima delle ore 14.20». E ancora dal memoriale: «I messaggi corsi tra il cellulare di Sabrina e quello di Sarah sono veri e reali: quelli provenienti dal cellulare di Sabrina sono stati inviati da costei e sono gli unici che ella ha inviato; Sarah risponde effettivamente con il suo squillo. Non c’è alcuna simulazione, non c’è alcuna finzione realizzate allo scopo di costruire un alibi falso e di alterare o manipolare la realtà». Sul piano psicologico, fa notare la difesa «è incredibile la freddezza di cui avrebbe dovuto far mostra Sabrina – una ragazza di 22 anni! – che dopo aver ucciso con le modalità immaginate dall’Accusa la propria cugina avrebbe dovuto immediatamente avvertire la necessità di costituirsi un alibi e avrebbe immediatamente pensato allo scambio di messaggi sul cellulare suo e su quello della cugina morta in modo da lasciar credere che quest’ultima fosse invece ancora in vita alle ore 14.28 ed a consentirle di mettere in atto la successiva scena all’arrivo di Mariangela! Ancora più incredibile è il fatto che Sabrina, oltre ad avere la freddezza necessaria a concepire l’alibi, abbia poi potuto, senza un fremito della mano, manipolare i cellulari in modo da scambiare tra l’uno e l’altro i noti messaggi.  Sempre sul piano psicologico, e guardando ora alla condotta di Sarah, non si riesce a comprendere la ragione per la quale ella avrebbe dovuto raccontare una bugia e sostenere di aver ricevuto ben prima delle ore 14.00 l’atteso messaggio di Sabrina ed uscire subito dopo di casa. Perché avrebbe dovuto cambiarsi, mettersi il costume e uscire di casa se non aveva certezza alcuna della effettuazione della gita? Cosa avrebbe dovuto andare a fare a casa della cugina molto tempo prima di ricevere il messaggio senza certezza alcuna che la cugina non fosse a letto a dormire e senza certezza alcuna che la porta le sarebbe stata aperta? La tesi dell’Accusa, secondo la quale Sarah avrebbe inventato il messaggio e sarebbe uscita di casa ben prima delle ore 14.00, per non sbrigare le faccende di casa è francamente del tutto inconsistente. Sembra che in realtà Sarah si dedicasse poco alle faccende di casa tanto è vero che la madre si lamentava del fatto che la figlia non dava una mano in casa e trovava sempre una scusa per allontanarsi; e non risulta che la madre fosse particolarmente severa nel pretendere dalla figlia collaborazioni domestiche. D’altra parte, quando Sarah uscì realmente di casa e cioè alle ore 14.25, la famiglia non aveva ancora terminato di desinare e quindi, comunque, Sarah non avrebbe potuto in nessun modo sbrigare le faccende domestiche, a meno di non rinunciare alla gita o di dover pregare Sabrina e Mariangela, già pronte, di attenderla per il tempo necessario ad accudire alle faccende domestiche. Tutte considerazioni queste che appaiono, all’evidenza, del tutto inconsistenti e che non possono essere prese in seria considerazione. Sta il fatto obiettivo che Sarah attendeva un messaggio; che questo arrivò alle ore 14.25; che tra la casa Scazzi e la casa Misseri la distanza era molto breve e percorribile da una ragazza giovane e veloce, quale è stata descritta Sarah in tre/quattro minuti; che Sarah giunse a casa Misseri, purtroppo entro le ore 14.30, quando Sabrina era in casa». Le tesi dell’Accusa secondo la difesa, sono insostenibili anche sul piano logico. Dal memoriale: «Se fosse vera la tesi dell’Accusa, Sarah era già morta quando Sabrina ricevette, alle ore 14.23, il messaggio di Mariangela. Ed allora è inevitabile chiedersi perché Sabrina, che l’Accusa immagina così scaltra da costruirsi in pochi attimi un alibi in proprio favore, non avrebbe dovuto subito inventarsi una scusa per evitare di trovarsi tra i piedi Mariangela quando nel garage si trovava il corpo ancora caldo di Sarah? Bastava dire che ella quel giorno era indisposta, non stava bene, soffriva di dolori alla cervicale (sul punto avrebbe potuto persino testimoniare la stessa Pisanò che la mattina l’aveva vista talmente sofferente da sottoporsi ad un trattamento diverso da quello previsto). Sarah era stata appena uccisa dopo un inseguimento per le vie di Avetrana; bisognava convincere il padre a collaborare nell’occultamento del cadavere; bisognava far sparire ogni traccia del delitto e studiare con calma una strategia. Tutto suggeriva, insomma, di allontanare dal luogo del delitto Mariangela e di poter dire di non aver visto quel giorno Sarah, di non averle telefonato, di non sapere cosa costei avesse fatto e di manifestare meraviglia quando, certamente più tardi, la famiglia di Sarah, non vedendola tornare dal mare, le avesse chiesto informazioni: ella non aveva telefonato, non aveva preso appuntamenti con Sarah, aveva rinunciato ad andare al mare, nulla sapeva di cosa la cugina potesse aver fatto e poteva quindi disporsi a fingere interesse per la sua ricerca. Perché invece avrebbe dovuto complicarsi la via verso l’impunità mandando a Mariangela, dopo aver ucciso la cugina, il messaggio: “avverto Sarah?”, creando così un collegamento con la cugina che aveva invece tutto l’interesse a nascondere? È questo un argomento insuperabile sul piano logico: se fosse stata l’assassina Sabrina aveva tutto l’interesse ad allontanare Sarah da sé quel giorno, a non fornire la prova che esse dovevano incontrarsi, a non fornire la prova che l’aveva cercata e che era stata in contatto con lei fino alle ore 14.28». La difesa si chiede: Perché addirittura due messaggi? La spiegazione è logica, dice il professor Coppi: «Essendo Sabrina innocente, i due messaggi si spiegano agevolmente: Sarah non ha risposto al primo sia perché a corto di credito, sia perché sapeva di poter raggiungere in pochi minuti la cugina; non ricevendo risposta Sabrina reitera il messaggio e si spiega facilmente perché la cugina dia riscontro attraverso un semplice squillo. Logica e buon senso consentono di spiegare agevolmente la successione dei messaggi nella prospettiva della innocenza di Sabrina, così come è per ogni profilo di questa vicenda che trova sempre convincente spiegazione secondo logica e buon senso in termini coerenti alla innocenza dell’imputata. Nella versione del Pubblico Ministero invece la condotta di Sabrina appare assolutamente incomprensibile dal punto di vista logico e psicologico».

LA CORTE SI E’ RIUNITA IN CAMERA DI CONSIGLIO PER LA SENTENZA.

Una cella di pochi metri quadri condivisa con la madre Cosima e una ragazza romena. Una gabbia. La casa di Sabrina Misseri da due anni e mezzo. Alla vigilia della sentenza, quelle pareti scrostate sembrano ancora più soffocanti. Per scaramanzia non è stata fatta nessuna sacca. Troppe delusioni in questi anni, troppe richieste di scarcerazione rifiutate. «La mia custodia cautelare è un sequestro di persona. Ho avuto incubi terribili, e mi sono svegliata piangendo, poi mi sono fatta forza da sola». Sabrina è provata, non mangia, e quando lo fa vomita. E’ seguita da uno psicologo e prende delle pillole per dormire. Ma non bastano. L’unico che riesce a tranquillizzarla è il suo avvocato, il professor Franco Coppi.  «Io sono innocente e sentire il professore che spiegava le ragioni della mia innocenza mi ha fatto bene al cuore. Io non ho fatto niente, volevo bene a Sarah come una sorella e mi manca moltissimo». «So che anche l’assoluzione non servirebbe a cancellare i dubbi dalla testa di mia zia, ma ci sarà un luogo e un tempo in cui dovrò incontrarla. Io voglio parlarle perchè non ho fatto niente e a testa alta, con il cuore, voglio dirle che mai avrei fatto del male a mia cugina».

Sabrina sa che fuori l’aspettano astio e sospetto, almeno di buona parte della gente di Avetrana. «Lo percepisco, so di essere antipatica e non mi spiego perchè». «Mi fa impazzire l’idea che possano pensare che io sia un’assassina». Il suo legale Nicola Marseglia vorrebbe mandarla in un convento, in Umbria, lontana dalla curiosità e dall’odio. Lei fino a qualche tempo fa insisteva nel dire che voleva tornare ad Avetrana a testa alta: «Sono gli altri che dovranno abbassarla». Ma adesso ha cambiato idea, due anni e mezzo di galera la hanno vinta: «Voglio solo sparire». «Mi tiene in vita solo la speranza di essere assolta» Questo dice Sabrina Misseri ad uno dei suoi difensori, l’avv. Nicola Marseglia, mentre attende in carcere a Taranto la sentenza della Corte di Assise per l'omicidio della cugina Sarah Scazzi, del quale è accusata di essere stata l’esecutrice materiale insieme alla madre, Cosima Serrano, anche lei detenuta. Le parole sono state riferite dallo stesso legale, che è andato a trovare in carcere Sabrina. «Ci sarà un luogo o un momento nella vita in cui incontrerò zia Concetta e le voglio dire, guardandola negli occhi, che non ho fatto niente a Sarah: non l’avrei toccata per nulla al mondo. Lei mi deve guardare negli occhi e mi deve credere: deve capire che io non ho ucciso Sarah, perché so che se anche mi assolveranno a lei resterà sempre un dubbio. Lo so che mi aspettano al varco. Si vede che sono antipatica a tutti, sono contro di me qualunque cosa dica» Al suo legale Marseglia che le chiede: «Ma se uscirai, dove vuoi andare?» risponde così: «Voglio sparire: ci sarà un posto dove posso sparire». Poi ritorna la Sabrina scoraggiata che i suoi avvocati hanno visto durante tutto il processo: «Lo so che ce l’hanno tutti con me - ammette - ma un filo di speranza ce l’ho». Comunque mantiene i piedi per terra e aspetta il verdetto: per il momento «starò ad ascoltare quello che decidono».

Cronologia dei fatti principali

26 agosto 2010. Sarah Scazzi esce da casa ad Avetrana (Taranto) per recarsi al mare con la cugina Sabrina Misseri. Scompare nel nulla. Di venerdì, le tracce di Sarah Scazzi, quindici anni, si persero da vico Verdi dove abitava a via Grazia Deledda dove era diretta. Doveva andare al mare con la cugina Sabrina Misseri ed altre due amiche, le sorelle Mariangela e Alessandra Spagnoletti. Nessuna traccia, nessun segnale della sua presenza, scomparsa nel nulla. L’ultimo segno di vita la ragazzina lo fece alle 14,28 con uno squillo che inviò alla cugina per dire che stava per arrivare a casa. Poi più nulla. Iniziarono da quel giorno le ricerche della quindicenne a cui, nei giorni che seguirono, parteciparono forze dell’ordine con unità cinofile, militari a cavallo e volontari della Protezione civile. E naturalmente anche i parenti e il gruppo di amici. Di Sarah non fu trovata nessuna traccia.

6 settembre. La mamma di Sarah rivolse un appello al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, chiedendo l’impiego di più forze per la ricerca della figlia.

8 settembre. La Procura della Repubblica cominciò a prendere sul serio la scomparsa che in un primo momento era stata considerata come un allontanamento volontario. Il pm Mariano Buccoliero, che dirige le indagini col procuratore aggiunto Pietro Argentino, confermò in quella data l’apertura di un fascicolo a carico di ignoti per sequestro di persona.

10 settembre. Gli amici organizzarono una fiaccolata che vide una massiccia partecipazione di cittadini di Avetrana e di altri comuni confinanti. Assente la mamma della ragazzina, Concetta Serrano Spagnolo, in prima fila c’erano le cugine, Sabrina e Valentina Misseri, gli amici e i compagni di scuola della quindicenne.

29 settembre. Michele Misseri, zio di Sarah e papà di Sabrina, trovò il telefonino della nipote e lo consegnò ai carabinieri ai quali disse di averlo trovato in un uliveto dove lui stesso, il giorno prima, aveva eseguito dei lavori. L’apparecchio era bruciacchiato. Misseri disse di averlo trovato su un mucchio di foglie secche a cui lui e un altro suo collega il giorno prima avevano dato fuoco.

30 settembre. Sabrina Misseri fu ascoltata per la prima volta dai magistrati a Taranto. In quella la ragazza fu costretta ad ammettere l’esistenza di dissidi tra lei e la cugina Sarah. Sempre in quell’occasione si parlò del litigio avvenuto tra loro due la sera prima della scomparsa della ragazzina. Lite che Sabrina negò di avere avuto.

6 ottobre. Michele Misseri confessa di aver ucciso Sarah, strangolandola, e fa ritrovare i resti del corpo in un pozzo nelle campagne di Avetrana. I magistrati convocarono a Taranto per essere interrogati, Michele Misseri, la moglie Cosima, e l’altra loro figlia, Valentina. In quella occasione Michele Misseri fece trovare il corpo di Sarah che lui stesso aveva gettato in un pozzo in contrada Mosca. L’uomo quella stessa sera confessò di avere ucciso Sarah strangolandola con una corda e di avere abusato sessualmente dopo la morte. Per Misseri scattò il fermo per sequestro di persona, omicidio volontario, occultamento di cadavere.

8 ottobre. Il gip Martino Rosati convalidò il fermo di Misseri a cui venne contestato anche il reato di vilipendio di cadavere: egli stesso confessò di aver violentato la piccola Sarah dopo averla uccisa.

Il 9 ottobre. Migliaia di persone parteciparono ai funerali di Sarah che si svolsero nel campo sportivo di Avetrana. Nessuno della famiglia Misseri fu presente alla cerimonia funebre.

14 ottobre. La bara di Sarah fu tumulata nel cimitero del paese.

15 ottobre. Michele Misseri chiama in correità nel delitto la figlia Sabrina, che finisce in cella. Gli inquirenti portarono Michele Misseri nel garage di via Deledda per un sopralluogo. Lì il contadino descrive la scena del delitto. La stessa cosa farà in contrada Mosca nei luoghi della soppressione. In serata, nella caserma dei carabinieri di Manduria, Misseri chiamò in correità la figlia Sabrina che fu arrestata per concorso in omicidio.

5 novembre. Michele Misseri accusa la figlia Sabrina di aver ucciso Sarah. Michele Misseri ritratta e accusa la figlia Sabrina di essere l’unica autrice dell’omicidio.

19 novembre. Nell'incidente probatorio Michele Misseri conferma le accuse del 5 novembre nei confronti della figlia. Nel carcere di Taranto si svolse l’incidente probatorio. Alla presenza di tutte le parti chiamati in causa, tra cui la figlia Sabrina e gli avvocati difensori e di parte civile, oltre naturalmente al gip Rosati e ai pubblici ministeri, Michele Misseri conferma le accuse nei confronti della figlia. Il Gip riprende l’Avv. Di Michele, Daniele Galoppa, perché attraverso le domande suggeriva le risposte al suo assistito.

23 dicembre. Michele Misseri scrisse una prima lettera alla figlia Valentina (che ne saranno tante in seguito indirizzate anche alla moglie Cosima e a Sabrina stessa), in cui si assunse nuovamente tutte le colpe della morte di Sarah. Da quel giorno il contadino di Avetrana ha continuato a sostenere quella tesi senza più essere creduto dagli inquirenti che archiviano l’accusa di omicidio mantenendo solo il reato di soppressione di cadavere.

23 febbraio 2011. I carabinieri arrestano Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello e nipote di Michele Misseri, per concorso in soppressione di cadavere. I carabinieri arrestarono Carmine Misseri e Cosimo Cosma, rispettivamente fratello e nipote di Carmine Misseri, con l’accusa di avere aiutato Michele a sopprimere il cadavere di Sarah. I due lasceranno il carcere l’11 marzo su decisione della Cassazione.

10 marzo. Il Tribunale del Riesame scarcera Carmine Misseri e Cosimo Cosma.

26 maggio. Viene arrestata Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri e madre di Sabrina. E' accusata di concorso in omicidio e sequestro di persona. Analogo provvedimento viene notificato a Sabrina in carcere.

30 maggio 2011. Michele Misseri viene scarcerato. Ora è accusato solo di soppressione di cadavere.

1 luglio 2011. La Procura chiude le indagini preliminari.

29 agosto 2011. Dinanzi al gup comincia l'udienza preliminare, che si chiuderà con nove rinvii a giudizio, tre assoluzioni e un proscioglimento.

Tutte la tappe del processo Scazzi.

Ecco le tappe principali del processo per l’uccisione di Sarah Scazzi.

10 gennaio 2012. Prima udienza. Cosima e Sabrina sono nella gabbia riservata agli imputati. Sabrina è in lacrime.

17 gennaio. Cosima e Sabrina ottengono di poter assistere al processo fuori dalla gabbia, vicino ai loro avvocati.

31 gennaio. Viene sentito il teste Ivano Russo. «Con Sabrina - dice – si instaurò mano a mano un rapporto confidenziale. Ad un certo punto però vidi da parte sua atteggiamenti ambigui, complimenti che andavano oltre. Le ho chiesto se per lei era ancora amicizia o qualcos'altro, e lei mi disse che era amicizia».

7 febbraio. Viene sentito il fratello di Sarah, Claudio. «Il mio rapporto con Sarah era confidenziale. Mai mi parlò di aver avuto problemi con zio Michele o di aver subito molestie. Lo zio aveva sempre imbarazzo a parlare delle donne». Depone anche Concetta Serrano, mamma di Sarah. Per la donna, Sabrina era invaghita di Ivano, ma anche Sarah aveva preso una “cotta” per lo stesso ragazzo all’insaputa della stessa Concetta, che lo scoprì leggendo un suo diario dopo la scomparsa della figlia. Con la sorella Cosima, i rapporti non sarebbero stati mai idilliaci, perchè «lei era invidiosa di me» soprattutto per questioni di eredità.

21 febbraio. Quando arrivò sotto casa Misseri insieme alla sorellina perchè aveva appuntamento per andare al mare, Sabrina era già in strada e Sarah non c'era: lo dice Mariangela Spagnoletti, l’ex amica del cuore di Sabrina. Mariangela ribadisce che Sabrina disse subito “L'hanno presa, l’hanno presa”.

3 luglio. «Sono assolutamente convinta che ad uccidere Sarah sia stato mio padre, ma non posso dire se lo abbia fatto effettivamente per colpa del trattore che non partiva o per altro motivo». Lo dichiara Valentina Misseri, sorella di Sabrina, sentita come testimone.

17 luglio. Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri, accusate dell’omicidio di Sarah Scazzi, si avvalgono della facoltà di non rispondere quando vengono chiamate a deporre dall’accusa, in qualità di testimoni. Stessa cosa fanno Carmine Misseri e Mimino Cosma (fratello e nipote di Michele Misseri, che rispondono di concorso in occultamento del cadavere).

29 ottobre. Michele Misseri si avvale della facoltà di non rispondere quando viene chiamato dalla Corte di Assise per essere esaminato come imputato.

30 ottobre. La Corte di Assise, su richiesta dei pubblici ministeri, acquisisce i quattro memoriali scritti da Michele Misseri e consegnati dalla difesa di Sabrina, e i verbali degli interrogatori dell’agricoltore, questi ultimi depositati dalla Procura.

20 novembre. Cosima Serrano, accusata di concorso in omicidio, citata dalla difesa, si avvale della facoltà di non rispondere.

20 novembre. «Reputavo Sarah una sorella minore, non una cugina, e la trattavo di conseguenza. Qualche rimprovero sì, ma non litigi»: lo dichiara Sabrina Misseri,imputata di concorso nell’omicidio di Sarah Scazzi, durante l’esame della difesa.

5 dicembre. «Ho ucciso io Sarah, questo rimorso non lo posso più portare dentro di me». Lo dichiara Michele Misseri e subito dopo il suo difensore, Armando Amendolito, rimette il mandato perchè, spiegherà, gli aveva detto di astenersi. Viene sostituito dall’avv. Luca Latanza.

29 gennaio 2013. Uno dei sei giudici popolari viene “pescato” mentre esprime giudizi poco lusinghieri su una testimone durante la deposizione di quest’ultima. Si astiene ufficialmente «per motivi personali e familiari» e viene sostituito con un giudice supplente.

25 febbraio. «Questo è il processo per il massacro di una bambina di 15 anni». Così il pubblico ministero Mariano Buccoliero inizia la requisitoria.

5 marzo. La Procura di Taranto, a conclusione della requisitoria, formula le richieste di condanna: ergastolo per Sabrina e Cosima, nove anni per Michele Misseri, otto anni per Carmine Misseri e Cosimo Cosma, pene minori per altri quattro imputati.

11 marzo. Iniziano le arringhe con gli avvocati di parte civile.

25 marzo. Un “fuori onda” tra presidente della Corte e giudice a latere, risalente al 19 marzo, induce la difesa di Sabrina a chiedere alla Corte se non intenda astenersi dal processo.

26 marzo. La Corte d’Assise decide di astenersi dal processo, rimettendo gi atti al presidente del Tribunale, che il giorno dopo rigetta l’astensione e dispone la prosecuzione del processo.

15 aprile. Si chiudono le repliche dei difensori. Alle 17.30 la Corte si ritira in camera di consiglio per la sentenza.

20 aprile 2013, ore 14,13 LA SENTENZA

Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di Assise di Taranto ha disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere per entrambe. 8 anni a Michele Misseri per concorso nella soppressione del cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Condannati a 6 anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri il primo e nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni a Vito Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia. 1 anno a Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, tutti testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con pena sospesa. La Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele Misseri, Cosima Serrano e Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da stabilire in separata sede, alla famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana. Nello stesso tempo ha stabilito una provvisionale di 50mila euro ciascuno ai genitori di Sarah, Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, e di 30mila euro per il fratello Claudio. La sentenza è stata letta in aula dalla presidente Rina Trunfio che ha dovuto chiedere a forza il silenzio per fermare l’applauso spontaneo dei presenti in aula alla lettura della sentenza. Nella sentenza per l’omicidio di Sarah Scazzi, la Corte ha disposto la trasmissione di copia degli atti al procuratore della Repubblica nei confronti di Michele Misseri per verificare se esistano elementi per contestargli il reato di autocalunnia. L’agricoltore da due anni si autoaccusa del delitto e della soppressione del cadavere, dopo aver accusato la figlia Sabrina. La Corte ha inoltre disposto la trasmissione alla Procura degli atti riguardanti sei testimoni del processo: Ivano Russo, Alessio Pisello, Anna Scredo, Giuseppe Olivieri, Anna Lucia Pichierri, e Giuseppe Serrano. Nei loro confronti i pm avevano ipotizzato nella requisitoria il reato di falsa testimonianza. «Perchè piangi? Tanto lo sapevamo»: così Cosima Serrano si è rivolta alla figlia, Sabrina Misseri, al rientro in cella nel carcere di Taranto dopo la sentenza della Corte di Assise che le ha condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Per tutto il tragitto dal Palazzo di giustizia alla casa circondariale, Sabrina ha continuato a piangere, sia pure in maniera contenuta, e ad asciugarsi le lacrime. Nessuna reazione emotiva avrebbe lasciato trasparire invece la madre Cosima.

   

 

 

SARAH SCAZZI: IL DELITTO DI AVETRANA

IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

Di Antonio Giangrande

 

 INTRODUZIONE E PREMESSA

SCOMPARSA, RITROVAMENTO ED INDAGINI

PROCESSO

CONSIDERAZIONI E CONCLUSIONI

 

 

 

 

 LE CONCLUSIONI

 

LE CONCLUSIONI

 

SABRINA E COSIMA, COLPEVOLI DI UN OMICIDIO TANTO EFFERATO?

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

LA VOCE AD ANTONIO GIANGRANDE.

IL COMMENTO DI MAMMA CONCETTA.

IL COMMENTO DEI CONDANNATI.

GIUSTIZIA O INGIUSTIZIA? IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

Il falso Moralismo: l’arrembaggio mediatico e le speculazioni. IL CASO FABRIZIO CORONA.

La sindrome della "Ribalta Mediatica". GLI AVVOCATI, LA TV ED IL TESTIMONE MAI CHIAMATO AL PROCESSO: VALENTINO CASTRIOTA.

Il business sulla pelle di Sarah. GLI AVVOCATI E LA TV.

 

 

  

 

 

SABRINA E COSIMA, COLPEVOLI DI UN OMICIDIO TANTO EFFERATO?

Le conclusioni devono partire da un dato di fatto.

«Perché non me lo hai detto subito che eri stato tu, papà?». Queste sono state le prime parole pronunciate da Sabrina Misseri, parlando al telefonino con suo padre, la notte del suo arresto. Certamente dialogo non premeditato. Infatti, la notte della prima confessione di Michele Misseri in cui fece ritrovare Sarah, la giovane condannata all’ergastolo insieme alla madre per l’omicidio della cugina Sarah Scazzi, parlò con suo padre. Prima di non parlarsi mai più, infatti, la ragazza e suo padre Michele Misseri, 59 anni, si scambiarono una drammatica telefonata nella notte in cui il contadino di Avetrana fece ritrovare il corpo della nipote uccisa confessandone il delitto (che ritrattò in parte una settimana dopo). In quella breve e ultima conversazione tra padre e figlia, è contenuto l’epilogo della sconvolgente notte, tra il 6 e il 7 ottobre del 2010, che fece perdere le speranze di ritrovare viva la 15enne scomparsa misteriosamente il 26 agosto dello stesso anno. Mentre i due si parlavano, l’orecchio elettronico degli investigatori ascoltava e registrava minuziosamente ogni parola. «Perché non me lo hai detto subito papà? », chiedeva la ragazza al padre. Erano le 3.47. Tutte le edizioni notturne dei telegiornali nazionali avevano già diffuso l’angosciante notizia dell’uccisione di Sarah Scazzi e della confessione dello zio-orco. Anche i giornali avevano già dato alle stampe quella che per diversi giorni sarebbe stata la notizia d’apertura. Il reo confesso aspettava nella caserma dei carabinieri di Manduria di essere trasferito nel carcere di Taranto. Aveva appena firmato il suo primo interrogatorio da indagato (qualche ora prima, quando era crollato, era ancora considerato “persona informata sui fatti”). Il carabiniere che lo teneva d’occhio gli consegnò il telefonino che durante l’interrogatorio aveva squillato più volte. A chiamare era stata sempre Sabrina, sua figlia. Ed era ancora suo il nome che cominciò a lampeggiare sul display alle 3.47 in punto. Michele Misseri guardò il militare, che con un cenno gli fece capire che poteva rispondere alla telefonata. Fu quella una mossa studiata a tavolino dagli investigatori, ai quali interessava molto ascoltare (e registrare) l’inattesa conversazione tra padre e figlia. Sabrina Misseri, dall’altra parte del telefono, si trovava nella villetta in via Deledda ad Avetrana con la sorella Valentina, 28 anni, e la madre Cosima Serrano, 58 anni. Sapevano la stessa cosa che ormai tutti avevano appreso in quelle ore: ad ammazzare Sarah era stato zio Michele. Questo aveva confessato Michele. Aveva dichiarato di aver strangolata Sarah nel garage sotto casa per poi caricarla sull’auto per far sparire il corpo come un animale morto. Per tutti ormai era lui il mostro. Lo era anche per Sabrina, che appena ebbe l’occasione di parlargli non concesse al padre nessun dubbio, nessuna titubanza circa la sua certa colpevolezza: «Perché non me lo hai detto subito papà?» (“che eri stato tu a uccidere Sarah?”, è la naturale continuazione della frase).

Sabrina: «Perché non me lo hai detto subito papà?»

Michele : «… [incomprensibile]… non mi aspettare più.»

Sabrina: «Sì, va bene papà, … io ti voglio parlare, però poi…»

Michele: «Ma chissà quando…»

Sabrina: «No, ma chissà quando…! Vedi che puoi decidere quando vuoi tu per parlare con noi…»

Michele: «Sì, però, se il telefonino lo lasciano a me!»

Sabrina: «Va bene… e tu non ti preoccupare che se tu vuoi parlare con noi alla fine loro ti fanno parlare.»

Michele: «Il telefonino no, stasera è l’ultima telefonata… il telefonino me lo tolgono …»

Sabrina: «Ho capito papà… però gli avvocati poi alla fine gli danno il coso per farti parlare…»

Michele: «Sì.»

Sabrina: «Però; papà, perché lo hai fatto? Io non me lo so spiegare proprio… tu non hai fatto mai niente di male… perché in quel momento … cosa ti è venuto?»

Michele: «Non lo so.»

Sabrina: «Poi parliamo…»

Michele: «Sì.»

Sabrina: «Ciao.»

Michele: «Ciao.»

Esattamente una settimana dopo quella sconvolgente e chiara ultima conversazione da cui traspare la palese responsabilità, cioè il 15 ottobre 2010, Michele Misseri raccontò la sua seconda verità, coinvolgendo anche la figlia nel delitto della povera Sarah. Sabrina da quel momento in poi si è sempre rifiutata di parlare con il padre e di rispondere alle sue numerosissime lettere scritte e inviatele prima dal carcere e poi da casa. L’uomo ha poi ritrattato quelle confessioni che coinvolgevano la figlia, perché, a suo dire, era stato indotto alla falsa confessione dalla consulente Bruzzone e dall’avvocato Galoppa. Michele, successivamente e per sempre ha continuato ad accusarsi dell’omicidio, ma i giudici non gli credono più e lo hanno condannalo “solo” per il reato di occultamento di cadavere.

Questo succede perché, forse in Italia la legge non è uguale per tutti?

“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Questa è la realtà con cui dobbiamo confrontarci per poi esprimere le nostre valutazioni.

Invece questi sono i commenti alla sentenza.

Gli Scazzi. Ad assistere al verdetto, all'interno dell'aula Alessandrini del Palazzo di giustizia, il padre della vittima Giacomo Scazzi, il fratello Claudio e la madre Concetta Serrano Spagnolo che ha accolto con un po' di sollievo il verdetto: «Chi uccide merita l’ergastolo. Ci speravo ma è sentenza amara. Voglio ringraziare i miei legali che sono stati molto bravi e mi sono stati vicini. Un ringraziamento va poi alla Procura, a tutti i giudici e alle forze di polizia per il loro lavoro e il loro impegno. Speravo in questa sentenza. Certo questa è comunque una sentenza amara per tutti quanti e in ogni caso non dà nè soddisfazione nè serenità. Nessuno mi ridarà Sarah, il dolore rimarrà per sempre. L’unica cosa che mi porta un pò di sollievo è che Sarah riceva giustizia». «Non ha vinto nessuno, perchè Concetta, Giacomo e Claudio hanno perso una figlia e una sorella». Così l’avvocato Walter Biscotti, legale di parte civile della famiglia di Sarah Scazzi, ha commentato la sentenza di condanna all’ergastolo per Cosima Serrano e Sabrina Misseri. «E' una sentenza severa ma era attesa – ha aggiunto - perchè gli uffici del pm hanno fatto un lavoro esemplare che ha fatto emergere in modo inconfutabile le responsabilità». «Concetta chiedeva una giustizia inflessibile. Questa è una storia che ha generato dolore a 360 gradi. Una storia che purtroppo ha privato la famiglia Scazzi di una bambina, ma le imputate non hanno fatto alcun passo in avanti, non ci hanno permesso di aiutarle». Lo ha sottolineato l'avv. Nicodemo Gentile, legale di parte civile per la famiglia Scazzi. Secondo il legale, «la giustizia umana ha fatto il suo corso perchè doveva essere una sentenza giusta per il reato commesso e i comportamenti avuti». «Concetta – ha proseguito il legale – è in difficoltà per questo. Sicuramente non andrà a brindare al ristorante con la sua famiglia».  «La prima partita processuale ci dice quello che abbiamo sempre pensato e che ha pensato la procura: ad uccidere Sarah - ha detto – sono state Sabrina e Cosima». «Per Concetta – ha detto ancora – oggi la ferita è ancora aperta, c'è tantissimo dolore perchè in quella casa in cui Concetta mandava la figlia per proteggerla, purtroppo Sarah ha trovato la morte». «E' arrivata una sentenza dura, severa – ha concluso – però proporzionata alla gravità del fatto e soprattutto alle prove che sono state portate nel processo. Gli imputati hanno avuto un comportamento che ha cercato sempre di assicurare loro impunità e non si è mai preso in considerazione il dolore della famiglia Scazzi e di Sarah».

Sabrina Misseri. Particolarmente dura la reazione di Nicola Marseglia che con il professore Franco Coppi (assente in aula) difende Sabrina Misseri. «Con questa dura sanzione – ha detto – la Corte ha voluto esorcizzare la debolezza del quadro probatorio».

Cosima Serrano. Mentre l'avvocato Franco De Jaco, uno dei legali di Cosima Serrano, ha dichiarato: «Questa sentenza verrà ribaltata totalmente. La Corte si è presa cinque giorni per ribadire le stesse cose che avevano detto i pubblici ministeri. Questa è una sentenza che verrà ribaltata totalmente con buona pace dei media e di chi invece ritiene che questa accusa abbia fondamento. Abbiamo accontentato l’opinione pubblica perchè l’antipatia verso queste donne era forte, ma poi vedremo cosa accadrà. Se ci sono state le richieste del pubblico ministero totalmente accolte – ha proseguito – evidentemente qualcosa non ha funzionato nell’analisi. Si sono presi cinque giorni per dire esattamente quello che hanno detto i rappresentanti dell’accusa. La difesa di Cosima Serrano – ha aggiunto – si sente tranquilla per l’appello e per la Cassazione eventualmente». Il legale ha poi riferito che ascoltando la sentenza, «Cosima non ha pianto, non ha detto niente, ha solo subito questa ignominia e basta». «La posizione di Cosima meritava un’attenzione particolare. La ricostruzione dei pm era affidata a elementi fantasiosi», ha invece commentato Luigi Rella, uno degli avvocati di Cosima Serrano.

Michele Misseri. «sta molto male, è nervoso per gli ergastoli». Lo ha riferito l’avvocato Luca Latanza, il legale del contadino di Avetrana condannato ad otto anni di reclusione per soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi. Probabilmente non parlerà – ha aggiunto il legale - si chiuderà in casa e non parlerà».

Carmine Misseri. Lorenzo Bullo che difende Carmine Misseri è curioso di sapere «quale tesi dell’accusa i giudici hanno ritenuto valida dal momento che ne sono state cambiate tante».

Cosimo Cosma. «Prendiamo atto di una sentenza che va rispettata ma che ovviamente non ci lascia soddisfatti». Lo ha detto l’avv. Raffale Missere, legale di Cosimo Cosma, nipote di Michele Misseri, condannato a 6 anni di carcere per concorso in soppressione di cadavere nel processo di primo grado per l’omicidio di Sarah Scazzi. «Vogliamo capire in che modo - ha precisato – i giudici hanno valutato le accuse e per quale ragione non sono state tenute in considerazione le contraddizioni che abbiamo messo in evidenza nel corso del dibattimento.»

La Procura.«In Italia vige la presunzione di innocenza, e questa è una sentenza di primo grado, ma sembrerebbe che errori macroscopici o grossolani non ne siano stati commessi» questo invece il commento del procuratore capo di Taranto Franco Sebastio.

La massa di coglioni nullafacenti. Presenti in aula una cinquantina di cittadini autorizzati ad assistere al verdetto. In molti si sono radunati nella provincia pugliese per seguire l'ultimo capitolo della terribile vicenda. Giornalisti, televisioni e semplici cittadini curiosi. Fuori dal cancello del tribunale jonico anche uno striscione: "Vogliamo la verità". Si sono registrati inoltre anche una serie di disordini. Un tarantino, Sergio Pichierri 43 anni già conosciuto alle forze dell'ordine per passati gesti eclatanti, ha tentato di aggredire Michele Misseri all'ingresso in aula.

Il Giudice Popolare. Quando lascia il palazzo di giustizia, dopo cinque giorni di isolamento in camera di consiglio, Giancarlo De Santis, unico uomo dei sei giudici popolari del processo Scazzi, ha gli occhi stanchi e lucidi, scrive Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. Visibilmente provato, la sua prima reazione è quella di «non voler più ricordare tutto ciò che ha letto e visto in questi giorni». De Santis, pensionato, non ha ancora fatto rientro a casa dove non vede l’ora di ritrovare i propri familiari. E’ restio a parlare, ma qualcosa alla fine la dice su come si sono svolti i lavori al secondo piano della palazzina della Marina militare che li ha ospitati. «Abbiamo lavorato ininterrottamente dalle otto di mattina sino a tarda sera, a volte dopo mezzanotte», racconta il giudice popolare. Che aggiunge: «tra di noi c’è stata sempre unanimità ma questo non vuol dire che non abbiamo mai avuto dubbi, anzi». De Santis spiega la fatica di tutti nell’espletamento dei propri compiti poi si lascia andare a ricordi tristi. «La parte più difficile per tutti noi – dice – è stata quando abbiamo visto le immagini del pozzo e della povera Sarah. Sono cose che non dimenticheremo mai», confessa l’uomo che racconta di come «alcune scene ci hanno provocato commozione e dolore interiore». La stessa commozione, aggiunge il giudice del popolo «che non abbiamo notato in alcune persone presenti in aula durante le udienze». Dalla sua testimonianza è possibile scandire i tempi per una decisione così importante come l’ergastolo. «La presidente Rina Trunfio e la giudice Fulvia Misserini – dice – hanno completato tutto stamattina alle undici perché dovevano chiudere il capitolo dei risarcimenti per le parti civili. Le condanne – invece – fa sapere De Santis – le abbiamo stabilite ieri sera nella più completa condivisione e unanimità». Una decisione sofferta e per niente facile, fa sapere. «Abbiamo letto ogni atto depositato, ogni memoria sia dell’accusa sia delle difese; abbiamo ascoltato e visto tutte le intercettazioni con le cuffie facendo attenzione alle traduzioni di quelle in dialetto». Una mole impressionante di documenti. «Io personalmente – spiega De Santis – ho scaricato trenta faldoni pieni di fogli di carta e supporti magnetici». Il giudice quasi non ricorda il giorno in cui ha presentato la sua candidatura per quel ruolo. «Sarà stato una ventina di anni fa, mi trovavo in municipio per fare la domanda da scrutatore per le elezioni e vidi il modulo di candidatura per giudice popolare che compilai e spedì senza speranze. Dopo vent’anni, un anno e mezzo fa, mi è arrivata la sorpresa». Lo rifarebbe? «Per carità, mai più. Questa storia che non credo di riuscire a dimenticare mi ha provato assai e non nascondo che mi ha coinvolto anche emotivamente».

Avetrana. Ottocentosessantotto giorni dopo quel torrido e brutale 26 agosto, Avetrana non sembra più la stessa, scrive Michele Pennetti su “La Voce di Manduria”. Come se l’accoramento postumo per la morte di Sarah prevalesse su tutto. Anche sulla rabbia nei confronti di quella mamma – Cosima Serrano – che la sera in cui venne portata di peso in caserma rischiò il linciaggio della folla inferocita. E pure sul livore verso quella figlia – Sabrina Misseri – che, nel ponte tra la scomparsa e il ritrovamento del cadavere, capeggiò fiaccolate e si espose in prima persona in nome della cugina. Trascorse un paio di ore dalla sentenza che ha condannato le due donne all’ergastolo, nel cuore di un pomeriggio che il sole non riscalda e il vento non alleggerisce, la sintesi del sentimento comune è nel gesto di tre signore – Iolanda, Concetta e Sonia – e di un uomo – Angelo – che varcano la soglia del cimitero e si fermano a pregare sulla tomba di Sarah Scazzi. Recitano un Padre Nostro, borbottano qualcosa del tipo «bella mia, oggi ti hanno reso giustizia», si fanno il segno della croce, cantilenano parole tristi. Cariche di rammarico, invece, sono le dichiarazioni del sindaco Mario De Marco. «Perché – sostiene – il processo ha offerto uno spaccato particolare della nostra cittadina. Come se, quel tremendo 26 agosto, più di qualcuno fosse a conoscenza dei fatti e avesse deciso di starsene zitto. Eppure, in questi casi, può essere sufficiente una lettera anonima inviata ai carabinieri per lanciare un segnale. Niente di niente. È il dato, da primo cittadino, che più mi colpisce e rincresce dell’intera vicenda». In vico Verdi, intanto, un solo fotografo e una sola troupe televisiva aspettano il rientro a casa di papà (a pezzi), mamma (confusa) e fratello (appesantito) di Sarah. Tirano dritto i tre, non si concedono, «non andranno certo al ristorante a festeggiare», come dice l’avvocato Valter Biscotti a sentenza appena emessa. In via Grazia Deledda, peraltro, dove una volta i turisti dell’orrore si accalcavano assieme a giornalisti e cameraman, il villino della famiglia Misseri non subisce l’assedio immaginabile qualora Sabrina e Cosima fossero state assolte. Al suo interno è già rientrato Michele. «Può darsi che lo faccia più tardi, ma adesso non ha voglia di parlare», sostiene il suo legale Luca La Tanza che, a distanza di un’ora abbondante, si concede un caffè con un collega in un bar nei paraggi. La ragazza al bancone chiede: «Allora, avvocato, si è conclusa ‘sta storia?…» e il collega di La Tanza lì pronto: «No, oggi è iniziata la storia del prossimo processo, quello di secondo grado…». In via Roma, di converso, quando aprono i negozi, il traffico s’intensifica e gli anziani cominciano ad occupare le prime panchine, la percezione è che Avetrana non sia per niente sorpresa. In settemila (abitanti) alle 14.13, quando la giudice Rina Trunfio leggeva il dispositivo con allegato ergastolo, sostavano (forse) tutti incollati davanti alla tv. Però erano in pochi a credere che Sabrina e Cosima potessero uscirne indenni. «Siamo dispiaciuti per come si sono comportate», afferma Roberto Distratis, 43 anni, operaio, mentre porta a passeggio il cane. «Non pensavo ad una pena talmente severa, ma come ho sentito dichiarare a Concetta – la madre di Sarah – chi uccide se la può anche meritare». Un pelo di giustizialismo affiora pure dalla considerazione di Carmela Raho, 24 anni, studentessa universitaria: «Non vedo quale altro castigo fosse più sacrosanto, hanno distrutto la vita di una magnifica ragazza e della famiglia a cui apparteneva». Ma sono apici che De Marco, sindaco dal 2006, smorza in base a ciò che ha visto e ascoltato: «In paese non c’era grande trepidazione per la decisione dei giudici. Disappunto per l’atteggiamento delle due condannate, diversamente, sì. Non conosco la famiglia Scazzi e nemmeno la famiglia Misseri. Di nome conoscevo Michele, perché era unanimemente ritenuto uno dei migliori agricoltori della zona e in molti non lo presumevano capace di uccidere. Di sicuro, dalla valanga di testimoni – duecento – presentatisi in aula resta in me il sospetto che qualcuno il 26 agosto sapesse e tacesse». Una spia che Avetrana, in reminiscenza di Sarah, ha il dovere di tenere accesa.

Il Commento di Antonio Giangrande. «Se il sindaco Mario De Marco, che dovrebbe difendere i suoi concittadini e l'onore e la dignità di una comunità, ha dei dubbi sull’omertà dei suoi concittadini e lo stesso dà mandato ad un legale, non per perseguire tutta quella marmaglia che ha vilipeso gli avetranesi, ma per costituirsi parte civile nel processo. E questo legale (avv. Pasquale Corleto) dice che gli avetranesi sono come Michele Misseri. Bene, a questo punto bisogna dire che Avetrana meriterebbe il sindaco che ha. Purtroppo non è il sindaco di Brembate che ha cacciato i giornalisti dal suo territorio. Fortunatamente in questa storia nulla è come i media vogliono far apparire. I giornalisti sanno bene dove andare a trovare tutti quei personaggi senza arte né parte che possano convalidare le loro idee stravaganti. Meno male che Avetrana non è solo De Marco, c’è molto di più. Basta saper cercare. Purtroppo però, dobbiamo farcene una ragione. Ci è toccato lui, i Misseri e gli Scazzi. Alle disgrazie non c'è contrasto.»

Ed a proposito del giudice c'è da constatare che la separazione delle carriere avrebbe fatto del bene a questo processo. Per carità, fino a prova contraria il presidente della Corte, la dottoressa Maria Ausilia Cesarina Trunfio, è un buon giudice che non sarà influenzabile dal contesto in cui "vive ed opera". Il problema è che ad ogni istanza difensiva non accolta, ad ogni ulteriore chiusura alla Difesa, si potrebbe pensare che parteggia per la Procura della Repubblica di Taranto e ci potrebbero essere polemiche. Questo perché "vive ed opera" a Taranto da molto più di vent'anni e negli anni novanta era lei stessa un sostituto procuratore di quella città, al pari del dottor Buccoliero per fare un paragone attuale, ed ha lavorato gomito a gomito, tutti i giorni, anche con chi tutt'ora in procura vi lavora. E, per fare un esempio, coi i procuratori ha avuto frequentazioni. Lei ed il dottor Argentino il 28 aprile 2011, dalle 15.30 alle 17.30, hanno parlato agli studenti della sezione di Taranto della facoltà di giurisprudenza (con sede centrale a Bari), sul tema: "L'esame incrociato: insidie e strategie". E l'esame di cui si parla riguarda i testimoni e gli indagati, quindi sia l'uno che l'altra hanno una identica veduta su come lo si deve fare, combacerà con quanto crede la Difesa?

La dottoressa Maria Ausilia Cesarina Trunfio ricopre il ruolo che occupa dal 2008 in seguito al valzer delle toghe ed in seguito allo scandalo delle toghe sporche sullo Jonio. Il giudice Pio Guarna è il nuovo capo dei gip presso il Tribunale di Taranto. La sua nomina rappresenta l’ultimo dei tanti cambiamenti nel Palazzo di Giustizia che negli ultimi mesi ha profondamente cambiato il suo volto. A cominciare dai vertici con Antonio Morelli, divenuto presidente del Tribunale, e Franco Sebastio, procuratore capo della Repubblica. Entrambi, come Guarna, tarantini doc. Gianfranco Coccioli e Pietro Genoviva sono divenuti presidenti delle sezioni del Tribunale civile, mentre a capo di una sezione penale è stata indicata Lina Trunfio. Il nuovo capo dei gip sale in plancia di comando di un ufficio che ha radicalmente rinnovato i suoi ruoli. Sono passati in Corte d’Appello gli ex gip Annamaria Lastella e Bina Santella, mentre in Tribunale sono arrivati i loro colleghi Ciro Fiore e Luciano La Marca. Negli uffici di gip e gup sono arrivati Pompeo Carriere, Martino Rosati, Patrizia Todisco, Giuseppe Disabato e Valeria Ingenito.  Il quadro dei gup è completato dal giudice Giuseppe Tommasino. Valzer di toghe anche in procura, dove trasferimenti e promozioni hanno aperto più di qualche varco. L’ultima in ordine di tempo ha lasciare l’ufficio è stata Antonella Montanaro, passata alla procura generale presso la Corte di Appello, dove era stata preceduta da Mario Barruffa. Alla DDA di Lecce è passato Alessio Coccioli,  mentre Luca Buccheri è andato in forza alla procura di Brindisi. Pietro Argentino, invece, è diventato procuratore aggiunto.

In procura sono invece arrivati Enrico Bruschi e Giovanna Cannarile.

Al Tribunale di Taranto si è tutti una famiglia, ma per il resto si può stare tranquilli. Appunto. Il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero emette sentenza.

Ci sono anche altri 3 avvocati, oltre a Vito Junior Russo, che poi il 21 novembre 2011 sono stati assolti da Pompeo Carriere: Gianluca Mongelli accusato di tentato favoreggiamento personale insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina con il marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla giustizia e di soppressione di atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del foro di Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta invece il reato di infedele patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono stati giudicati e assolti con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno di reclusione per Emilia Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per Gianluca Mongelli. Settantacinque pagine per spiegare perchè gli ex legali di Michele e Sabrina Misseri e l’aspirante difensore del contadino di Avetrana andavano assolti. Nei loro confronti, i pm Pietro Argentino e Mariano Buccoliero avevano chiesto la condanna, ad un anno di reclusione per Francesco De Cristofaro (difensore di Michele) ed Emilia Velletri e sei mesi per Gianluca Mongelli. Coloro che facevano parte del collegio difensivo, dopo l’incriminazione, furono costretti a rimettere il mandato. Tutti e tre hanno scelto di essere giudicati con l’abbreviato (solo l’avvocato Vito Russo, ex difensore di Sabrina, ha scelto il rito ordinario). L’ex difensore di Michele, De Cristofaro, del foro di Roma, accusato di infedele patrocino, secondo il gup, non ha cercato di convincere il contadino di Avetrana ad autoaccusarsi falsamente del vilipendio del cadavere per rendere più credibile la sua versione. De Cristofaro, si legge nelle motivazioni, “si è limitato a raccogliere la versione dei fatti di Michele Misseri su quale fosse stata la dinamica dell’omicidio, invitandolo semplicemente a ripetere tale versione davanti agli inquirenti e davanti ai giudici”. Un comportamento che quindi, “all’evidenza risulta del tutto difforme da quello ipotizzato nell’imputazione”. Inoltre, la condotta del professionista, scrive ancora il giudice Carriere, anche “ove fosse stata posta in essere in termini storicamente diversi da quelli descritti nel capo d’imputazione, non potrebbe comunque essere qualificata come infedeltà ai doveri professionali”. De Cristofaro è stato assolto “perchè il fatto non sussiste” poichè il gup non ha ritenuto “sufficientemente provato, oltre ogni ragionevole dubbio, lo stesso fatto storico oggetto dell’imputazione”. Infine, sull’imputazione, Carriere osserva che il reato contestato “andrebbe più inquadrato nella fattispecie del tentativo” poichè il presunto suggerimento del legale non fu seguito da Michele. L’avvocato Velletri (difesa dall’avvocato Gianluca Pierotti) rispondeva di distruzione di un verbale di un interrogatorio di Ivano Russo nell’ambito delle indagini difensive. L’imputata, da quanto si evince dalle motivazioni, è stata scagionata dalla perizia disposta sul Balckberry dallo stesso pm. La registrazione vocale trascritta dal perito, ingegnere Sergio Civino, ”è perfettamente conforme e fedele al contenuto del verbale” poi esibito da Russo durante una perquisizione effettuata dai carabinieri. Quel verbale cartaceo, quindi, rileva Carriere, non fu strappato o cancellato ma “semplicemente conservato” dai legali. La loro condotta “appare essere stata tutt’altro che ineccepibile dal punto di vista procedurale e deontologico” ma i fatti contestati “non sussistono”. Riguardo alle dichiarazioni di Ivano Russo sulla cancellazione della registrazione audio, due le ipotesi di Carriere: o ha mentito oppure ha scambiato l’interruzione dell’audio (rilevata dal perito) con la distruzione. Anche Mongelli (difeso dall’avvocato Antonio Raffo) che rispondeva di favoreggiamento è stato assolto il 21 novembre 2011. In concorso con l’avvocato Russo (per il contestato favoreggiamento il gup ha emesso nei suoi confronti sentenza di non luogo a procedere, rinviandolo a giudizio per intralcio alla giustizia), avrebbe cercato, attraverso il fratello Carmine Misseri, di indurre Michele a cambiare difensore. Ciò per convincerlo a ritrattare le accuse su Sabrina.Secondo il gup, “manca la prova certa della direzione inequivoca degli atti” rispetto all’ipotesi di favoreggiamento. Inoltre, il giudice ritiene il comportamento di Mongelli, “rispettoso della deontologia professionale” in quanto di fronte all’eventualità che la nomina gli venisse conferita dalla figlia di Michele, Valentina, lui “preferì, nel rispetto del codice deontologico, che la nomina provenisse direttamente da Misseri”. Infine, fa notare Carriere, nulla vieta che un legale possa essere contattato da un collega, purchè quest’ultimo non riceva denaro. Dopo le motivazioni del gup, la Procura deciderà se impugnare il verdetto di assoluzione in appello oppure lasciare che il processo a carico dei tre avvocati termini in primo grado. In questo processo quel che salta agli occhi di chi ha anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e che palesemente si evidenzia è la coerenza assoluta del pensiero dei magistrati.

I moventi del delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi, no;  lesione dell’onore e della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra sorelle. Uno vale l’altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione del delitto secondo la procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle motivazioni delle custodie cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6 ottobre 2010, Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina (d’accordo con il padre che uccide Sarah) ha trascinato con forza nel garage la cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza, anzi no; l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37, anzi no; l’omicidio è stato commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20, anzi, no; l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più in garage, ma in casa.

Le tante ricostruzioni del delitto fatte dall’Accusa a carico di Sabrina Misseri, elencate da Maria Corbi de “La Stampa”.

a) prima ordinanza di custodia cautelare emessa a carico di Sabrina Misseri, in data 21 ottobre 2010, dal G.I.P. di Taranto, basata su una delle ricostruzioni dei fatti fornite dal padre Michele Misseri (cfr. all. 1): Sabrina (d’accordo con il padre) ha trascinato con forza nel garage la cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza. Nel frangente, quindi, mentre quest’ultima teneva per le braccia la cugina, impedendole di allontanarsi, lo zio le aveva avvolto una corda intorno alla gola ed aveva stretto, per alcuni minuti, fino ad ucciderla; Sabrina, dal canto suo, nel momento in cui aveva visto la cugina accasciarsi, impaurita, aveva mollato la presa e si era immediatamente allontanata (p. 4, ord. in data 21.10.2010); l’azione omicidiaria si assume avvenuta fra le 14.28.26, ora del messaggio con cui Sarah avrebbe segnalato il suo arrivo nei pressi di casa Misseri e le 14.35.37, ora in cui Sabrina risulta avere risposto con il suo cellulare ad un messaggio inviatole dalla sua amica Angela Cimino (p. 13, ord. di custodia cautelare in data 21.10.2010);

b) ordinanza del Tribunale del Riesame di Taranto, in data 22.11.2010, con la quale è stata rigettata la richiesta di riesame avanzata avverso contro l’ordinanza di cui al punto 1)(cfr. all. 2): l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37. “E’ il caso di evidenziare – recita l’ordinanza in questione – che la Misseri non avrebbe avuto alcuna necessità di condurre la cugina nel garage contro la sua volontà, peraltro in tal modo esponendosi al rischio di essere vista da terzi. Come già evidenziato, lei e Sarah si recavano spesso insieme in quel posto, sicché è assolutamente verosimile, a maggior ragione considerando che Sarah non aveva alcun motivo di sospetto verso la cugina, che costei con un qualsiasi pretesto l’abbia indotta ad entrare nel garage. E’ quindi altamente plausibile che la Misseri abbia atteso sulla veranda, o addirittura in strada vicino al garage, l’arrivo della Scazzi, la quale era giunta in perfetto orario (anzi, come al solito, leggermente in anticipo) rispetto all’appuntamento fissato per le 14.30; che le due siano entrate nel garage, luogo dove andavano abitualmente insieme; che lì sia avvenuta (rectius proseguita) la lite dovuta alla gelosia a seguito della quale la Misseri ha ucciso la cugina strangolandola. La morte della Scazzi è stata infatti causata da un’asfissia acuta primitiva, meccanica e violenta messa in atto mediante costrizione del collo, con una cintura, durata circa 2,5 minuti (media dei tempi, minimo e massimo, stimati concordemente dai Consulenti di parte) e senza che la vittima offrisse resistenza all’aggressore. Successivamente a questo momento la ricostruzione del fatto si fonda sulle credibili dichiarazioni del Misseri, secondo cui la figlia ha avuto il tempo per entrare in casa, chiamare il padre, ritornare con Misseri nel garage, scambiare qualche battuta con il predetto, mandare il messaggio alla Cimino (ore 14.35.37), mentre fungeva da palo sulla soglia del garage, inviare un altro SMS (“pronta”, ore 14.39.27) alla Spagnoletti, che quando l’ha ricevuto era quasi arrivata in Via Deledda n. 22. Il lasso temporale di circa 7 minuti – tenuto conto della contiguità dei luoghi (casa-garage), della concitazione del momento e in considerazione della verosimile breve durata del litigio (l’odio della Misseri per la cugina covava da tempo ed è stata un’azione d’impeto totalmente inaspettata della vittima) – autorizza pienamente a concludere per la ragionevolezza di siffatta conclusione (p. 48 ord. 22.11.2010);

c) ordinanza del Tribunale del Riesame di Bari, in data 31.1.2011, con il quale è stato rigettato l’appello proposto avverso l’ordinanza del G.I.P. di Taranto, in data 22.10.2010, con la quale era stata rigettata una richiesta di revoca della misura cautelare (cfr. all. 3): l’omicidio è stato commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20. In base a tale ricostruzione, Sarah sarebbe uscita dalla sua abitazione non oltre le 13.55 e sarebbe giunta presso quella del Misseri dopo circa 5/6 minuti (p. 20, ord. cit.); può a questo punto “plausibilmente affermarsi” secondo la citata ordinanza che “l’omicidio della Scazzi è avvenuto entro le 14.20. Una volta ricevuto il messaggio dalla Spagnoletti delle ore 14.23.31 (“il tempo di mettere il costume e vengo”), la risposta della Misseri delle ore 14.23.02 (“avviso Sara”) altro non è che il primo atto con cui la ricorrente ha iniziato scaltramente a precostituirsi l’alibi falso: ovvero che la cugina non era ancora giunta presso la sua abitazione e non era neppure a conoscenza della gita al mare con la Misseri e la Spagnoletti” (p. 21, ord. 31.1.2011);

d) seconda ordinanza di custodia cautelare, emessa dal G.I.P. di Taranto, in data 26 maggio 2011: l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più in garage, ma in casa. Sarah Scazzi è giunta a casa Misseri fra le 13.55 e le 14.00 (p. 32 ord. cit.) ed è stata dunque strangolata, all’interno dell’abitazione, fra le 14.00 e le 14.20 (p. 37 ord. cit.). “Con ogni verosimiglianza quel 26 di agosto, intorno alle 14.00, quando Sarah Scazzi è arrivata a casa della cugina, Michele Misseri e sua moglie stavano riposando, uno in cucina e l’altra nella stanza da letto, come sempre facevano, dopo una giornata di lavoro nei campi iniziata di primo mattino. E questo dà ulteriore conferma del fatto che non v’era alcuna ragione perché Sarah scendesse in quel garage” (p. 70, ord. cit.); siccome l’indagine avrebbe messo in luce che i rapporti fra Sabrina e Sarah erano particolarmente tesi, “è del tutto illogico ipotizzare che le due non abbiano, anche soltanto per pochi minuti, discusso fra loro; dovrebbe pensarsi, altrimenti, ad un’azione proditoria della Misseri, che però, a quel punto, aprirebbe scenari diversi e più gravi per costei, non potendosi logicamente escludere, in tal caso, l’eventualità della premeditazione”; dunque, nella migliore delle ipotesi per lei, Cosima Serrano, che era lì, in quelle stanze, a pochissimi metri, se non soltanto a decine di centimetri, da dove sua figlia stava strangolando la cugina, non può non aver assistito, per lo meno, ad un’ampia parte di un’azione omicidiaria protrattasi per vari minuti (che, in quel contesto, sono un’eternità) e, in una simile situazione, non ha fatto nulla per impedire che siffatta condotta giungesse a termine” (p. 76, ord. 26.5.2011) [resterebbe da capire che cosa ha fatto Michele Misseri, che la citata ordinanza colloca in casa, insieme alla moglie, ma evidentemente si tratta di un dettaglio irrilevante…..];

e) Il sogno: Il fioraio Buccoliero ha raccontato un sogno ai carabinieri secondo cui Sarah sarebbe stata ad un certo punto costretta dalla zia Cosima a salire in macchina e che sul sedile posteriore aveva visto la sagoma di una persona di sesso femminile, robusta e con i capelli di colore scuro, lunghi e raccolti dietro. Sabrina? Dunque Sabrina non era in casa, diversamente da quanto sostenuto dall’ordinanza di custodia cautelare. Buccolieri ha prima firmato un verbale senza specificare che era un sogno, per poi una volta accortosi dell’errore ha chiesto ai carabinieri di rettificare il verbale. Una rettifica che gli ha procurato un rinvio a giudizio per false dichiarazioni e favoreggiamento.

Avetrana, l’ “inattendibilità diffusa”, dei testimoni ascoltati sui fatti di causa, continua Maria Corbi. La difesa di Sabrina Misseri ha sottolineato in diversi ricorsi «lo strano fenomeno per il quale, nel presente processo, delle dichiarazioni dei testimoni ascoltati al fine di ricostruire l’ora del delitto o gli spostamenti delle persone oggetto di indagine esistono sempre due (o addirittura tre) versioni diverse (spesso fra loro assolutamente inconciliabili) e che, altrettanto stranamente, fra le versioni in conflitto viene sempre ritenuta più attendibile la seconda o la terza (quella cioè che, almeno in linea di principio, dovrebbe ritenersi meno genuina, in quanto più lontana dai fatti e possibile frutto di contaminazioni e suggestioni esterne, soprattutto nell’ambito di una vicenda oggetto di spasmodica attenzione da parte dei media)». «A ciò va aggiunto – sulla scorta dell’analisi obiettiva degli interrogatori di Michele Misseri, amplissimi stralci dei quali sono stati integralmente trascritti in tutti gli atti difensivi, compresi i motivi nuovi depositati nell’ultima udienza dinanzi al Tribunale del Riesame – che le modalità di conduzione dell’esame da parte degli inquirenti appaiono spesso ispirarsi ad una metodologia del tutto criticabile. Sono numerosissimi i passaggi di tali interrogatori caratterizzati da domande apertamente suggestive, che tradiscono chiaramente le preconcette convinzioni degli inquirenti e trasmettono all’interlocutore una implicita richiesta di adeguamento all’opinione dell’interrogante, con rischi inevitabili per la genuinità del materiale probatorio che si viene così ad acquisire».

Questo è un PROCESSO INDIZIARIO. Ossia è un processo senza prove ma solo indizi, contrastanti e contestabili. Senza prove, nonostante vi siano innumerevoli intercettazioni ambientali, anche in carcere. Nulla traspare la prova regina. Mai vi sono state confessioni carpite, ma solo le confessioni genuine di Michele Misseri: la prima e l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi è solo l’esigenza di accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli imputati e la dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da un giornalismo approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e luoghi comuni. A ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del delitto pare che sia più frutto di illazioni, supposizioni e congetture della Pubblica accusa, mal sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione è facilmente attaccabile dalla difesa degli imputati. Difesa composta da vecchi ed agguerriti volponi. Da quanto desunto e dalla mancanza della pistola fumante (prova certa) appare che le imputate (Cosima e Sabrina): o sono innocenti,  o siano talmente brave, le imputate, da non lasciar alcuna traccia del loro delitto. Nessuna prova; nessuna confessione. D’altro canto colui che si professa colpevole, inascoltato, lui sì, avendo fatti trovare prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente riconducibile al delitto ed alla soppressione del cadavere. E non si pensi che Michele sia uno sprovveduto. Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro fatto senza la presenza dei parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il fatto suo. Ogni sua azione non può essere frutto di induzione ed istigazione di moglie e figlia tenuto conto che esse marciscono in galera da anni e quindi nessuna possibilità di regia. Comunque, per colpevoli che possano essere agli occhi dei giustizialisti, è pur vero che la colpevolezza va provata e nessuno, dico nessuno, può essere condannato senza prove che adducano ad una colpa al di là di ogni ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener ferma la sua posizione, senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e poco religiosi.

«Non possiamo sapere se c'era dell’altro di ancora più losco e pericoloso. Dai messaggi è emersa la vita immorale che conducevano. Sabrina aveva tutto il diritto di fare la vita che voleva, bastava non lo facesse davanti alla bambina - Lo ha affermato Concetta Serrano, mamma della 15enne Sarah Scazzi uccisa ad Avetrana il 26 agosto 2010, intervenendo a Domenica live del 10 marzo 2013 e commentando uno dei possibili moventi dell’omicidio. - Può darsi che Sarah abbia visto qualcosa – ha aggiunto - sia rimasta scandalizzata e abbia spifferato qualcosa in giro. Credo che gli amici, Alessio, Ivano, Mariangela e non so chi altro, sappiano la verità, ma non la dicano».  Riferendosi alla sorella Cosima e alla nipote Sabrina Misseri, per le quali la Procura di Taranto ha chiesto la condanna all’omicidio, Concetta ha detto: «La cosa che più mi fa arrabbiare è la falsità che c'è in Cosima e Sabrina, l'ipocrisia, il non voler confessare, il loro mancato pentimento. Non le vedi disperate. Fanno quella faccia come se loro non c'entrassero niente, anche davanti all’evidenza. Quella condanna è il minimo per loro perché per le persone che hanno ucciso una bambina in un modo così barbaro è anche poco. La cosa che mi rattrista di più è che non so come fanno a dare l’impressione di persone che non hanno fatto niente. Non c’è sofferenza nel loro volto. La falsità, l’ipocrisia, il non voler confessare, il loro mancato pentimento, non le vedi disperate, non le vedi tristi. Nessuna persona nemmeno la più stupida crede più a quello che dice lui (Michele Misseri). Volevo capire perché lui dice di aver fatto tutto da solo. Tutto quello che lui dice è falso, non ha potuto fare tutto lui. E’ andato con qualcuno, i pm credono siano stati il nipote e il fratello. Tutto ruota intorno a loro- dice riferendosi alla sorella Cosima e alla nipote Sabrina -dai testimoni agli indizi, tutto conferma che sono state loro. Abbiamo tutti gli accertamenti e il pm ha fatto un ottimo lavoro. Cosa possiamo chiedere di più? Mi chiedo solamente, queste persone in quale famiglia sono vissute? In una famiglia di criminali? Non hanno avuto un briciolo di pietà verso questa bambina. Ho visto Cosima impassibile e non ho visto piangere Sabrina, anche se i giornalisti dicono che sia scoppiata a piangere. Se la legge prevede questo (la pena richiesta per Michele), è bene che li faccia: sarà anche innocente per l’omicidio, ma ha pur sempre seppellito una bambina. La legge umana prevede questo. È inutile chiedere di più o di meno. Sono stata dove Michele ha seppellito Sarah - ha confessato Concetta - E sono ricordi che fanno molto male. Ma ho voluto rendermi conto, vedendo i luoghi e le distanze, che non ha potuto fare tutto da solo. Ho visto l’albero di fico. Ha fatto troppe manovre, l’ha vestita l’ha spogliata. Sarebbe trascorso troppo tempo. Non poteva essere da solo. Il pm dice che fosse lì con il nipote ed il fratello. Sarah conosceva quasi tutti i segreti di Sabrina: magari l’hanno portata a qualche festino e ha visto qualcosa che l’ha sconvolta. C’è gente che sa e se non parlano non possiamo sapere tutta la verità fino in fondo. Gli amici, Ivano, Alessio, Mariangela, forse sanno e non dicono nulla». «Non  abbiamo mai frequentato festini particolari o scabrosi – ha detto Ivano Russo in un’intervista trasmessa a “Quarto Grado” di Salvo Sottile dell’8 marzo 2013 – Se queste cose, sono nate fantasiose da questi sms, stiamo toccando l’assurdo. Claudio Scazzi ha frequentato la nostra comitiva e si è fidato. Con Sabrina c’era solo un rapporto di amicizia. Sarah era sotto la completa tutoria di Sabrina. Se in Sabrina c’era qualcosa che non andava, si doveva intervenire prima, ahimè! Adesso sono un papà che cerca di sistemarsi e vivere la propria vita tranquillamente. Gli sms, era una presa in giro tra me e la mia interlocutrice (Sabrina)…non mi sarei mai spogliato per 15 euro. Quella sera io stavo lavorando. E praticamente da quello che ricordo del contesto del messaggio che poi mi è stato riferito, si trattava di una serata dove è entrata una tedesca, un turista tedesca, in birreria, il posto dove di solito eravamo noi, che frequentavamo noi. E praticamente ha incominciato uno show perché forse un po’ brilla ed ha cominciato a denudarsi (le tette) per far vedere i tatuaggi…queste cose qua. Il messaggio in cui si parla che con Sarah sono passati dove si appartano le coppiette. Sicuramente doveva essere un gioco, anche perchè non so con chi stavano, dato che Sabrina non aveva la macchina e Sarah era minorenne. Non so con chi stavano, probabilmente con qualche amica loro ed andavano in giro. Non sapendo come passare la serata scherzavano in questa maniera. Il mio gruppo, quello che facevamo è andare in birreria, bere qualche birra, scherzare, ridere, ma non abbiamo mai frequentato ipotetici festini particolari o scabrosi. Non è mai accaduto. Se queste cose sono nate, direi fantasiosamente dai messaggi che hanno detto in Tribunale, stiamo toccando veramente l’assurdo. Che queste cose non esistono. Da quello che io so, non esistono. E comunque, ritorno a dire, Claudio Scazzi ha frequentato anche noi, la nostra compagnia, evidentemente si è fidato perché se c’era qualche cosa di strano da buon fratello direbbe “guarda quella gente non la frequentare più”. Con Sabrina era un rapporto di amicizia. Sarah, come ho sempre detto, era una ragazzina di 15 anni che ne dimostrava molti di meno, era sotto la completa tutoria di Sabrina. Quindi non stava mai a casa, rare volte stava a casa (di mamma Concetta), spesso e quasi sempre stava con Sabrina. Se c’era qualche cosa che non andava in Sabrina, ahimè bisognava accorgersene prima e bisognava capire prima. Io non ho mai fatto spogliarelli, anche perché, leggendo il messaggio, è facilmente capibile che era un tono scherzoso. Si scherzava su questa cosa qui, tanto è vero che poi alla fine gli scrivo che “guarda che non le faccio queste cose perché io sono gay”. Gli scrivo. Io adesso sono papà. Adesso sono un papà che cerca di vivere la sua vita tranquillamente.

La mamma di Sarah come non si era mai raccontata prima intervistata da Nazareno Dinoi per il settimanale Di Più e per “La Voce di Manduria”.

Come per liberarsi di un pesante fardello che la opprimeva da quella terribile notte del 6 ottobre in cui la figlia fu trovata morta nel pozzo in contrada Mosca, appesantito dalle lunghe udienze del processo in Corte d’assise, Concetta Serrano Spagnolo, mamma di Sarah Scazzi, mi rilascia una lunga intervista in cui si apre come mai aveva fatto prima, parlando di tutti i dubbi accumulati in questi due anni.

Signora Concetta, dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta?

«Ho trovato eccellente la presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per questo».

Lei ha preso parte a quasi tutte le udienze. C’è stata una testimonianza che l’ha infastidita particolarmente?

«Sono state più di una per la verità, ma quella che mi ha fatto proprio male è stata la testimonianza di mia nipote Valentina Misseri. Per difendere sua sorella Sabrina, ha infangato il nome di Sarah in una maniera vergognosa, pesante. Non ha avuto nemmeno rispetto verso una povera bambina che hanno ucciso. In aula ha detto che Sarah e sua sorella non avevano litigato per Ivano e che, anzi, era mia figlia che si mischiava con tutti i maschi. E già, proprio loro dovevano dare lezioni di buon comportamento a mia figlia. Come si dice: “Da quale pulpito arriva la predica”. Altri testimoni hanno detto cose irriguardose nei confronti di mia figlia, ma erano degli estranei, mentre da lei non mi aspettavo un comportamento simile. Quasi tutti i testimoni sono andati E per difendere la propria posizione, nessuno con la voglia di fare scoprire la verità, tranne Donato Massari, Mariangela Spagnoletti, Anna Pisano e Antonio Petarra, e forse mi sfugge qualcuno: tutti gli altri si sono preoccupati di difendere o difendersi da qualcosa».

Secondo lei, i testimoni hanno detto la verità?

«La verità non è venuta fuori fino in fondo. Il fioraio Giovanni Buccolieri sarebbe il testimone chiave, ma non è mai venuto da me a parlarmi: inizialmente aveva espresso a qualcuno questo desiderio, ma poi non l’ho mai visto. Come lui, anche mio cognato Michele Misseri non si è visto, ma non mi importa sentirlo: se deve dire anche a me, come va ripetendo a tutti, che è stato lui a uccidere Sarah, è meglio che non venga, perché tanto non gli credo. Sono convinta che Michele nasconda dell’altro: lui stesso dice spesso che nessuno conosce la verità ed è proprio così».

Signora Concetta, lei spesso dice che sua figlia è stata uccisa per farla tacere. Che cosa intende di preciso?

«Sì, è vero, io dico sin dall’inizio che a Sarah è stata tappata la bocca perché non parlasse. Quando senti parlare i testimoni e leggi i verbali, allora conosci tante cose che non sapevi e ti fai una idea. La mia è questa: non credo che il movente che ha fatto uccidere mia figlia sia solo la gelosia di Sabrina per il giovane Ivano Russo che frequentava la loro compagnia. Se fosse solo quello, allora sarebbe bastato che Sabrina venisse da me chiedendomi di non fare andare più Sarah a casa sua perché magari si impicciava di troppe cose. Io lo avrei fatto e il discorso sarebbe finito lì. Invece non mi spiego tanto interesse da parte di mia sorella Cosima che addirittura, secondo il racconto che alcuni testimoni attribuiscono al fioraio Buccolieri, si espone in quel modo, con inseguire mia figlia e a fare tutto il resto. Tutto questo affanno solo per Ivano? Mi sembra esagerato. Ecco perché sono convinta che il motivo è un altro ed è legato a qualcosa che mia figlia ha visto o sentito».

Sì, ma cosa?

«Di preciso non lo so, non so se riguardi fatti di sesso o di droga o altro, non lo posso sapere. Magari il movente della gelosia c’entra pure qualcosa, ma non solo quello. Forse è un insieme di cose, questo sì. Il “movente Ivano” è debole, anche se la Procura punta tutto su quello. Solo alcuni comportamenti tra Ivano e Sabrina erano strani. Sarah, per esempio, si lamentava sempre degli atteggiamenti di Ivano nei confronti di Sabrina. Mia nipote confidava tutto a mia figlia, per questo quando eravamo sole Sarah mi diceva: “Mamma, se fossi io Sabrina manderei Ivano a quel paese, gli tirerei un calcio e via”. Io allora dicevo: “Scusa, Sabrina è più grande di te: saprà pure comportarsi, no?”. E lei insisteva: “Mamma, ma se quella piange ed è depressa che cosa devo fare io per confortarla?”. Una delle tante anomalie: era lei che consigliava la cugina più grande».

Sempre secondo il suo punto di vista, c’è qualcuno che non figura tra gli imputati e che invece meritava di essere indagato?

«Per l’omicidio, sicuramente no. Però sono sicura che altre persone erano informate sui fatti. Più di uno tra gli amici di Sabrina, per esempio: lei avrà pure detto qualcosa quando è stata con loro. Certi amici, secondo me, nascondono qualcosa e tacciono per paura: sanno che cosa ha fatto Sabrina prima dell’omicidio e non parlano per tutelare se stessi. Mi ha fatto molto riflettere mia nipote Valentina, per esempio, quando, durante un interrogatorio, si meravigliava del fatto che io non mi preoccupassi di conoscere le persone che frequentava mia figlia. Che cosa voleva dire? Che avrei dovuto sapere forse più cose sugli amici di sua sorella? Che facevo male a fidarmi di lei che era più grande e matura? Che cosa avrà voluto dire con quelle parole? C’è poi la storia della frequentazione di una villa di cui non si è mai saputo nulla. Perché nessuno parla più di questo? Gli stessi investigatori, forse, avrebbero potuto scoprire qualcosa indagando di più sugli amici di Sabrina».

In questi anni, ha mai pensato che forse avrebbe potuto salvare sua figlia Sarah?

«No. Più che altro avrei voluto che avesse seguito la mia religione. Io appartengo ai Testimoni di Geova e avrei voluto che restasse tra noi fratelli, come noi Testimoni di Geova ci chiamiamo l’un l’altro: tra noi sarebbe stata più al sicuro. Noi Testimoni di Geova nemmeno nella fantasia possiamo pensare di uccidere una persona, figuriamoci realmente. Lo dicevo sempre a mia figlia che chi non ama Dio non può amare te. Non l’ho mai obbligata a seguirmi, forse in questo ho sbagliato? ».

I suoi parenti le stanno vicino?

«I miei parenti? E dove sono? Nella mia congregazione dei Testimoni di Geova ho sorelle, figli, nonni, nipoti, quella ora è la mia famiglia. Nessuno dei miei parenti è più presente, sono come morti. Le mie sorelle, piuttosto che stare vicino a me che ho perso una figlia in quel modo atroce, hanno subito parteggiato per l’altra sorella che invece ha la figlia in carcere».

Ed ancora, a pochi giorni dalla sentenza di un lungo processo che mira a dare una giusta pena agli assassini di Sarah Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo, ha trovato la forza di visitare i luoghi dove il 26 agosto del 2010 il corpo senza vita di sua figlia finì il suo viaggio da Via Deledda alla contrada Mosca. Ferma sul bordo di ciò che rimane del pozzo che ha inghiottito la sua creatura, mamma Concetta scruta con apparente calma il centro del cratere, ora coperto di rovi, cercando con l’immaginazione l’ingresso della cisterna dove Michele Misseri, suo cognato, ha detto di avere infilato l’esile corpo di Sarah. Per arrivare lì Concetta ha percorso il sentiero fatto da zio Michele due anni e mezzo prima. Gli occhi bassi guardano con attenzione il terreno come se volesse con i suoi passi calpestare gli stessi passi del contadino che ricurvo e senza pietà si appresta a sbarazzarsi del peccato che porta in spalla. Con questa visione nella mente la donna cerca di giustificare a se stessa la sua presenza: «Quando scriverà l’articolo – chiede a Nazareno Dinoi de “Il Corriere del Mezzogiorno” - deve dire che Concetta ha voluto venire qui per fare le sue deduzioni». L’impatto emotivo è molto forte.

Signora Concetta, che impressione le fa visitare questi luoghi?

Si capisce che non ha voglia di mostrare le sofferenze che la dilaniano ancora. «Che devo pensare? Che Michele ha trovato proprio bene questo posto sperduto che se non fosse stato lui a farlo trovare nemmeno tutte le protezioni civili d’Italia ci sarebbero riusciti». (Pochi minuti in silenzio, forse a pregare, su quell’enorme buco tra la vite e un vicino canneto prima di tornare indietro. Liberatasi di un peso che la opprimeva dalla notte del 6 ottobre del 2010 quando la televisione le raccontò i particolari del macabro ritrovamento, mamma Concetta si sente ora libera di parlare e lo fa come non lo aveva mai fatto tirando fuori le impressioni più intime partendo proprio dal lungo processo che sta per concludersi).

Signora Concetta, cosa ne pensa del processo e come spera che finisca?

«Spero non come dicono gli avvocati dei miei parenti perché a sentire loro mia figlia è come se non fosse stata uccisa. La presidente della Corte d’assise è bravissima e anche i pubblici ministeri che hanno fatto indagini scrupolose. Come andrà a finire? Inutile prendersi in giro, perché anche se prenderanno l’ergastolo, tra una decina di anni ce le troveremo libere in giro. Quindi mi chiedo a cosa sono servite tante indagini, tante udienze e tanti soldi spesi se poi tra sconti di pena e indulti ce le ritroveremo fuori?»

Lei che ha partecipato a quasi tutte le udienze, c’è stata una testimonianza che l’ha infastidita particolarmente?

«Sono state più d’una, ma più di tutte quella di mia nipote Valentina perché pur di difendere la sorella ha gettato fango su mia figlia, non ha avuto rispetto per una ragazzina di quindici anni che hanno ucciso dicendo in udienza che si strusciava con tutti gli uomini. Anche altri hanno parlato male di mia figlia ma loro almeno erano estranei, invece Valentina non ha avuto pudore ad infangare il nome di Sarah».

Hanno detto tutti la verità secondo lei?

«Non tutti. Molti hanno mentito, il fioraio ad esempio, ma non è il solo. Quasi tutti i testimoni hanno parlato più che altro per proteggere la propria posizione o quella di altri, nessuno che sia venuto per aiutare la giustizia a trovare la verità. Solo pochissimi si sono presentati spontaneamente per dire ciò che sapevano, tutti gli altri invece sono stati trascinati dagli investigatori. Anche tra gli amici c’è stata molta falsità. Non riesco a credere che nessuno abbia saputo niente di più di quello che dice. Nei 42 giorni delle ricerche di mia figlia loro sono stati sempre insieme ed è impossibile che nessuno abbia mai avuto sospetti su Sabrina o sulla sua famiglia. Gli amici quando parlano mettono sempre le mani avanti, si propongono come persone che non sanno niente e ti raccontano certi episodi ma solo per dire: guarda che io non so niente».

Lei ha sempre sostenuto che sua figlia sia stata uccisa perché non raccontasse qualcosa. Ne è ancora convinta?

«L’ho sempre pensato e lo penso ancora. Anche il pubblico ministero Mariano Buccoliero lo ha fatto capire con la storia dei messaggi e delle cose losche che accadevano in quella comitiva. Non credo che la gelosia sia il solo movente, credo piuttosto ad un insieme di motivi che riguardano forse storie di sesso, di droga o altro che non saprei dire. Agli inizi si era parlato della famosa villa ma poi non si è più saputo niente, forse non si è indagato molto in quella direzione».

Si è mai sentita in colpa di ciò che è successo?

«L’unico rammarico è non essere riuscita a convincere mia figlia a seguire la mia religione di Geova. Le dicevo sempre che gli uomini sono cattivi e solo con Geova si è al sicuro».

Questa storia le ha portato via una figlia e, in maniera differente, anche una parte dei parenti. Che rapporto ha con gli altri suoi familiari?

«I miei parenti sono le consorelle e i confratelli di Geova. Tutti gli altri hanno preferito stare con la sorella che ha la figlia in carcere e non con me che una figlia non ce l’ho più».

Eppure, nonostante la sicurezza di Concetta, senza alcun ombra di dubbio, troviamo d’altro canto la certezza di Michele Misseri.

La residenza dei Misseri in Via Deledda è troppo grande per un uomo solo. Le ampie stanze con gli arredi che tradiscono l’assenza prolungata di una donna, sono abitate da quasi due anni da Michele Misseri che lotta per un’impresa ardua: liberare dalla prigionia le sue donne, la moglie Cosima con la figlia Sabrina accusate di avere ucciso la nipote Sarah Scazzi e arrestare lui che si addossa, non creduto, tutte le colpe di quell’omicidio. A Nazareno Dinoi de “Il Corriere della Sera” e de “La Voce di Manduria” pensando al peggio, Michele Misseri prefigura così l’esito finale del processo in corso a Taranto: «alla fine – dice – ci saranno quattro innocenti in galera e un colpevole fuori e io a quel punto la farò finita». Ad essere condannate ingiustamente, secondo il contadino di Avetrana, saranno Sabrina e Cosima per l’omicidio e Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello e nipote per la soppressione del corpo della quindicenne uccisa.

A quel punto cosa ha intenzione di fare?

«Aspetterò sino alla Cassazione e se anche lì non mi crederanno allora la farò finita, so già come devo ammazzarmi, ho ancor ala bottiglietta in cantina. Non sopporterei ancora una vita di solitudine in questa casa. Questa per me non è più vita già adesso, figuriamoci dopo. Ho perso l’unico fratello che mi voleva bene, Salvatore e con le famiglie dei miei fratelli e sorelle che vivono a Manduria ho chiuso ogni rapporto».

Qui in paese ha delle frequentazioni? Ha degli amici?

«Pochissimi, tutti mi scansano, mi dicono che dovrei marcire in galera ma io che ci posso fare se i magistrati non mi arrestano perché non mi credono? Lo so che la gente mi odia, ma devo pure uscire, lavorare, comprare qualcosa, che faccio chiuso in questa casa che mi fa impazzire?»

Se anche riuscirà a farsi arrestare e dare così la libertà a sua moglie e a sua figlia, crede che la perdoneranno mai per ciò che ha fatto loro?

«Cosima sì. Già quando veniva in carcere mi aveva perdonato. Sabrina non lo so. Forse come dice giustamente Valentina, l’altra mia figlia, lei mi perdonerà di tutto ma non di avere ucciso Sarah. Per quello non mi perdonerà mai».

Sua figlia Valentina le dà conforto?

«Meno male che ho lei. Però per colpa della gente non ci vediamo spesso perché lei vive a Roma e quando viene ad Avetrana evitiamo di incontrarci spesso perché dicono che è lei che mi manovra».

Quanto le manca sua figlia e sua moglie?

«Mi mancano tanto, quando vado al processo le vedo solo di spalle, loro non si girano mai, solo qualche volta Sabrina mi ha lanciato degli sguardi veloci. Vorrei poterle abbracciare. Con il mio avvocato stiamo decidendo di chiedere un colloquio in carcere, però dopo la sentenza sennò dicono che mi suggeriscono cosa devo dire».

Signor Misseri, come ha vissuto le ore e i giorni successivi all’uccisione di Sarah?

«In quei giorni io stavo morendo, aveva deciso di avvelenarmi poi ho pensato che se l’avessi fatto nessuno avrebbe saputo la verità e il corpo di quell’angelo biondo sarebbe rimasto per sempre in quel pozzo. Nessuno mi capiva, piangevo, non mangiavo, dimagrivo, mi rifiutavo di vedere la televisione che parlava dell’angelo biondo, ma nessuno si chiedeva cosa avessi. Sabrina qualche volta si è accorta che piangevo ma non è mai venuta a dirmi: papà ma che hai? Forse se me lo avessero chiesto avrei detto tutto a loro». La prima notte non ho dormito. Mi alzavo sempre da quella sdraio e uscivo fuori in giardino, poi rientravo e uscivo di nuovo. Volevo morire, stavo impazzendo, mi dicevo, ma cosa ho fatto? Possibile che è successo proprio a me? Volevo farmi scoprire ma non ci riuscivo, la vergogna era troppo forte per ciò che avevo fatto. Ero e sono da solo, sin da bambino lo sono stato. A sei anni mio padre mi ha dato alle masserie per lavorare. A otto anni poi quella brutta storia che non ho mai detto a nessuno, nemmeno a mia moglie. Sotto quell’albero sono stato legato e qualcuno, un parente di mio padre, mi ha fatto delle cose che non posso dire».

Ci fa pensare ancora e dovrebbe far pensare anche la mamma di Sarah, in attesa del verdetto, cosa è successo all’udienza precedente alla requisitoria della Pubblica Accusa in riferimento all’atteggiamento tenuto dai giudici popolari, giusto per far capire che in Italia mai nulla è come appare. Ci fa riflettere sulla questione anche il pensiero di Maria Corbi su “La Stampa”.  Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua astensione «per motivi personali». Sarà. D’altronde il beneficio del dubbio sembra concedersi a tutti in questa aula. Tranne che alle imputate, Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, accusate si essere le assassine della piccola Sarah. Condannate dai milioni di giudici fai da te attaccati ai salotti tv invasi di cronaca. Ed evidentemente condannate anche da quella signora seduta in giuria, se è vero quello che sostiene l’avvocato di Sabrina, Nicola Marseglia. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E questo ennesimo colpo di scena turba un clima già non sereno dove il principio democratico e a base del sistema giudiziario del «dubbio pro reo», sembra dimenticato. Non è questione di essere innocentisti e colpevolisti, basta analizzare le circostanze venite fuori da queste udienze a carico di Sabrina e Cosima per capire che non si tratta di fatti, di prove. E che gli indizi anche messi tutti insieme non fanno una prova. A Sabrina piaceva Ivano. Anche a Sarah piaceva Ivano. Quel giorno le cugine dovevano andare al mare. Non si sa bene se quel giorno in attesa di Sarah, Sabrina fosse sulla veranda o per strada. Una testimone dice che Sarah quella mattina era triste. Un altro testimone spiega che quella signora (la supertestimone) era detestata da Sarah ed era per quello che sembrava triste la mattina del 26 agosto a casa di Sabrina dove c’era proprio quella signora. Gli orari? Ognuno ricorda diversamente. E per mettere tutti i testimoni d’accordo non sono bastati due interrogatori dei pm e tutte le udienze. Il sogno? E’ rimasto tale con il fioraio che preferisce finire nei guai, indagato per false dichiarazioni piuttosto che dire quello che tutti vogliono sentire da lui, ossia che quel sogno (dove Sabrina e Cosima trascinavano via Sarah in macchina) è realtà. Confusi dopo questo riassuntino? Nessuna preoccupazione, è questo lo stato dell’arte. Peccato che una ragazza e sua madre stiano in carcere da anni. E chi se ne importa del ministro Severino che in apertura di anno giudiziario ha ripetuto fino allo sfinimento che la carcerazione preventiva deve essere solo una extrema ratio.  Ma torniamo alla testimone, quella che non è piaciuta alla giudice popolare che alla fine ha deciso saggiamente di dimettersi dal suo incarico. Forse sarebbe stato meglio che lo facesse anche la sua vicina, quella a cui ha urlato l’insulto all’orecchio, visto che la risatina offerta al pubblico non è sembrata a molti garanzia di imparzialità. Liala parla tranquilla, senza esitazioni, invitata dalla presidente Trunfio a stare tranquilla e a dire la verità, di non avere altre preoccupazioni. E Liala ricorda. Forse le cose che dice sono troppo distanti dal ritratto che è stato fatto di Sabrina. Chissà. Ma la giudice popolare non ce la fa e sbotta in quella frase poco lusinghiera. «E’ stato un episodio increscioso», - dice diplomaticamente Franco Coppi, il principe del Foro che difende Sabrina Misseri -. «E mi auguro che sia limitato a questo giudice perché non possiamo che continuare ad avere fiducia nella serenità e nell’imparzialità di tutto il collegio».

Fiducia ed imparzialità. Già, non ci sono prove, eppure si considera Sabrina e Cosima colpevoli del delitto di Sarah Scazzi. Invece per definire il comune di Manduria come mafioso ci sarebbero le prove, ma non per il Ministro Cancellieri, per la quale il Comune di Manduria (paese limitrofo ad Avetrana) non sarà sciolto per infiltrazioni mafiose così come si temeva e come avevano chiesto sia i tre commissari ministeriali che per sei mesi hanno tenuto sotto accertamento la macchina amministrativa, sia il prefetto di Taranto, Claudio Sammartino. Lo ha definitivamente stabilito il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri, nel decreto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. «Dalla documentazione esaminata – si legge nel provvedimento del ministro – non emerge la concomitanza di elementi concreti, univoci e rilevanti tali da pregiudicare il funzionamento dei servizi ed i legittimi interessi della collettività, amministrata da un commissario straordinario sin dal 19 aprile 2012». L’atto ministeriale ripercorre l’iter dell’accertamento antimafia innescato dall’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Lecce  e dal decreto del prefetto di Taranto con il quale, il 29 marzo del 2011 istituiva la commissione d’indagine composta da due prefetti e dal maggiore della Guardia di Finanza, Giuseppe Dell’Anna. I tre commissari finirono il loro lavoro, durato sei mesi, proponendo lo scioglimento del Consiglio che, di fatto, si era autosciolto per il venir meno della maggioranza di centrodestra. Sulla scorta di quest’analisi, Il 4 novembre 2012,  anche il prefetto di Taranto inviava al ministro una sua relazione nella quale, scrive la Cancellieri, «venivano valutati gli elementi di cui all’articolo 134, comma 1 del decreto legislativo 18 agosto 2000, numero 267». Considerato tutto questo, il ministro ha comunque deciso che «non sussistono i presupposti per lo scioglimento o l’adozione di altri provvedimenti», stabilendo così la conclusione del procedimento.

GIUSTIZIA O INGIUSTIZIA? IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

«Giusto processo in Italia. E’ solo una stronzata. E l’intercalare rende bene l’idea sull’indignazione dei giuristi con un po’ di dignità. A Taranto ci hanno messo 6 giorni per accogliere pari pari le richieste dell’accusa. Ufficio della Procura di cui la presidente Trunfio ne faceva parte. Tutti abbiamo diritto al Giusto Processo, ma a Taranto tale diritto è negato. Sabrina Misseri e Cosima Serrano colpevoli del delitto? Forse sì e forse no. Ma anche loro meritano un giusto processo. Per la morte di Sarah Scazzi una sentenza di condanna per tutti gli imputati accolta da un’Italia plaudente. E’ una vergogna. E’ disumano ed incivile rallegrarsi per le disgrazie altrui. Una sentenza di condanna così come da me ampiamente prevista anche per l’appello. Previsione pubblicata sui giornali in tempi non sospetti. E non poteva essere altrimenti. Una trappola strategica ordita dall’accusa. I Giudici sono stati obbligati ad emettere sentenza di condanna. Al contrario ci sarebbe stato il paradosso di non aver avuto nessun colpevole per quel delitto, essendo stato estromesso Michele Misseri dall’accusa di omicidio. Con un’assoluzione e senza responsabili del delitto la Procura di Taranto in Italia avrebbe fatto ridere pure i polli. Una sentenza emessa dal popolo italiano e non “in nome del popolo italiano”. Un popolo che ha giudicato non solo i protagonisti, ma tutta una comunità. Un popolo plasmato da media morbosi e gossippari. Nei film la trama ed il regista ci fanno sapere chi è l’assassino, che la polizia ed il giudice non conosce. Se il colpevole viene assolto o non indagato perché non ci sono prove, lo spettatore ci rimane male. Eppure, attraverso i comportamenti ritenuti corretti da parte dei protagonisti del film, la morale è chiara. Niente prove, niente condanna. La morte di Sarah Scazzi è realtà. Come in un film i media morbosi ci hanno indotto a credere, convincendoci, che Sabrina Misseri e Cosima Serrano fossero le colpevoli. Potrebbero esserlo, nulla è escluso, ma dobbiamo farcene una ragione: non ci sono prove. Indizi contestabili, sì, ma prove niente. Addirittura per Cosima meno di nulla. L’art. 533, primo comma, c.p.p. impone il principio di Diritto per cui si condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Questo perché in un paese civile meglio un reo in libertà, che un innocente in galera. E, a quanto pare, l’Italia pur essendo la culla del diritto, non figura tra i paesi civili.»

Intervista esclusiva al dr Antonio Giangrande, avetranese doc.  Egli, avendo vissuto la storia del delitto di Sarah Scazzi sin dall’inizio, conosce bene fatti e persone, protagonisti della vicenda. Corso degli eventi seguiti e documentati sin dal principio in un libro e con video. Un punto di vista interessante ed alternativo, sicuramente non omologato. Un personaggio che non si fa certo intimorire dalla magistratura e dall’avvocatura e che bistratta quell’informazione corrotta culturalmente. Per conoscerlo meglio basta andare su www.controtuttelemafie.it.  

Dr Antonio Giangrande sembra sicuro di quello che dice.

«Via Poma, Garlasco, Perugia, il caso Yara Gambirasio. I casi più celebri. Orrori senza fine e quando, per caso, il colpevole salta fuori, si scopre che la soluzione era a portata di mano, quasi banale, e perfino ovvia: come nella vicenda dell'Olgiata con il maggiordomo filippino. E invece la nostra giustizia e i nostri apparati investigativi continuano, spesso e volentieri, a perdersi dietro congetture dietrologiche e teoremi labirintici, ma soprattutto le troppe inchieste finite in nulla e i troppi processi impantanati. Gli esperti arrivano tardi, quando le prove sono già state compromesse, contaminate, sprecate. Polizia e carabinieri sono spesso in disaccordo fra di loro, secondo una trita consuetudine centenaria, e la polizia giudiziaria esplora le piste possibili con il guinzaglio corto impostole dalla legge che le ha messo addosso il collare della dipendenza dalla magistratura. Per restare sulla cronaca: da una parte c’è Michele Misseri, difeso dagli avvocati Luca Latanza da Taranto e Fabrizio Gallo da Roma. Quest’ultimo che accusa a Quarto Grado del 19 aprile 2013 il primo avvocato di Misseri, Daniele Galoppa, di essere stato ripreso dal GIP perché suggeriva a Michele Misseri le risposte che accusavano la figlia Sabrina in sede di Incidente Probatorio. Il contadino di Avetrana che si dichiara colpevole del delitto e della soppressione del corpo della nipote, non risparmia dichiarazioni e interviste ai vari corrispondenti delle testate televisive nazionali che presidiano costantemente la villa di via Deledda. In una di queste, al Graffio di Telenorba, prima ha spiegato per l’ennesima volta le modalità del delitto e poi ha mostrato la valigia già pronta per quando sarà trasferito in carcere al posto – così lui spera fino in Cassazione – della figlia e di sua moglie. Dall’altra parte, dopo aver rispedito alla Corte d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due novembre 2007, la Cassazione ha annullato anche la sentenza di assoluzione di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007 a Garlasco (in provincia di Pavia). Da quando Chiara Poggi venne uccisa e ritrovata senza vita il 13 agosto del 2007 nella sua casa di Garlasco, errori soprattutto nelle prime 24 ore ci sono stati. Così come a Perugia; così come ad Avetrana. Innanzitutto troppe persone sono entrate nella casa, inquinando la scena del crimine. Poi il primo interrogatorio di Alberto, che poteva essere determinante, è stato condotto prima da un maresciallo dei CC, poi interrotto, e continuato da un Capitano arrivato più tardi. Non è stata cercata immediatamente l'arma del delitto. E' stato acceso e spento troppe volte il pc di Alberto, che, per la Procura, doveva essere la prova regina. Non sono state sequestrate subito le famose scarpe di Alberto, né la bicicletta. Non è stato fatto un sopralluogo a casa sua o nell'officina del padre dove poteva nascondersi l'arma del delitto. I cellulari di alcune persone legate ai due sono stati messi sotto controllo solo dopo mesi e non immediatamente. Tutto questo davanti ad una Procura che è parsa inadeguata fin dal principio come gli investigatori. Perché solo con la parola "inadeguatezza" si può spiegare il fatto che nella casa sotto sequestro e con la "scena del crimine" ancora da analizzare (lo ricordiamo era quasi ferragosto e persino la scientifica era in ferie) venne lasciato libero di circolare il gatto di casa e qualcuno si è pure permesso di fumare, lasciare cenere sul pavimento, calpestare tracce ematiche. Il 18 aprile 2013 la Cassazione ha conferma questi dubbi ed ha deciso che il procedimento va rifatto per questioni di "metodo". L'accusa chiede la condanna a 30 di reclusione. Diversi gli indizi raccolti contro l'ex fidanzato: le scarpe “candide”, i pedali della sua bicicletta con tracce ematiche della vittima, le sue impronte miste al Dna di Chiara trovate sull'erogatore del sapone nel bagno dove l'assassino si è lavato. Nessun alibi, secondo l'accusa, per l'ex fidanzato: non era al computer mentre Chiara veniva uccisa. Innocente al di là di ogni ragionevole dubbio in primo grado ed in Appello. A questo punto mi si deve spiegare una cosa: a chi dare ragione? Ai giudici che assolvono od a quelli che condannano? Perugia, Garlasco, Avetrana: il ragionevole dubbio per motivare l’assoluzione se non sovviene in questi casi, allora quando?»

Ma chi è Antonio Giangrande. Nessuno da Avetrana ha mai parlato di lui, né, tantomeno, tv e giornali hanno richiesto i suoi commenti.

«Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Il fatto che nessuno mi ha mai interpellato sul delitto di Sarah Scazzi, nonostante che tutti ad Avetrana abbiano avuto l’occasione per farsi intervistare (alla faccia dell’omertà), non me ne cruccio, probabilmente i giornalisti non ritengono interessante il personaggio e le sue opinioni. D’altronde mi vanto proprio di essere diverso per i miei convincimenti e per il mio spirito libero e responsabile. Di parere diverso dai miei detrattori sono i miei sostenitori, che, in centinaia di migliaia, invece, seguono i miei video e leggono i miei testi,  ritenendoli importanti, alternativi e fondamentali per farsi un’opinione corretta sui fatti. Oltretutto su internet seguono più me e le mie inchieste che il lavoro di tante redazioni stereotipate e finanziate da una certa politica, che, pur pensando di essere unici, navigano nel mare dell’informazione insieme a migliaia di simili. Mi da fastidio solo una cosa: snobbare me può essere giustificato dalla codardia, ma ignorare l’associazione antimafia che rappresento, a tutto vantaggio di altri sodalizi ben sponsorizzati politicamente, descrive bene la professionalità di certi giornalisti».

Che coincidenza: nascere ad Avetrana, il paese dei Misseri, e vivere di luce riflessa!

«Ognuno di noi è nato in qualche posto che sicuramente non era voluto dal nascituro. Poi sta a noi rendere quel posto dove siamo nati degno di essere vissuto, né quel posto può essere l’alibi dei nostri fallimenti. Per dire: Chi nasce a Roma non diventa automaticamente Presidente della Repubblica. Io vivo in questa vita con dei compagni di viaggio. Qualcuno scenderà  dal treno prima, qualcun altro dopo di me. Scenderanno comunque tutti dal treno della vita, anche coloro che saliranno dopo, così come hanno fatto quelli che son saliti prima. E non osta il fatto di avere nobili natali.  Sono le fasi della vita. Io faccio di tutto per tutelare e onorare il posto dove sono nato. Località né peggio, né meglio di altre. Non vivo sotto i lampioni, per cui non rifletto né la mia, né l’altrui luce. Anche perché ognuno di noi vive il suo spazio e con il web questo mio spazio è il mondo. Solo gli ignoranti sminuiscono la forza che la mente ha nel superare lo spazio ed il tempo. Il miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento da parte del Commissario Governativo per le iniziative contro la lotta alla mafia e all’usura, il quale mi ha invitato, anche, a partecipare all’incontro tenuto a Napoli con i Prefetti del Sud Italia per parlare di Sicurezza, mafia ed usura. Ciò significa considerarmi degno interlocutore, mentre le Autorità locali mi ignorano, mi emarginano, mi perseguitano. Appunto. L’avv. Santo De Prezzo, di Avetrana, conferma in una sua denuncia (in seguito alla quale per me è scaturita assoluzione più ampia perché il fatto non sussiste e di cui si è chiesto conto a lui ed anche nei confronti dei magistrati che l’hanno agevolata), che il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore. Tale affermazione spiega bene il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le mie denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili. Spiega bene altresì, l’ostracismo dei media. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.»

Dr Antonio Giangrande, con le sue opere letterarie, la sua web tv ed i suoi canali youtube ha voluto documentare in testi ed in video pregi e difetti della società italiana. Ma chi sono gli italiani?

«Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.»

A scrivere delle malefatte dei poteri forti a lei cosa ne consegue?

«Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo. Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Mi hanno condannato all’indigenza. Tenuto conto che i miei libri si leggono gratuitamente, da scrittore non ho nessun introito. A dover scrivere la verità, purtroppo, non posso essere amico di magistrati, avvocati e giornalisti. Essere amico su chi avrei da scrivere, inficerebbe la mia imparzialità di giudizio. Avendo avuto l’occasione di svolgere l’attività forense per 6 anni senza abilitazione ma con il patrocinio legale, ho sì vinto tutte le cause, ma si sono imbattuto in tutto quello che è più malsano del mondo della giustizia: la corruzione morale e materiale delle toghe, siano essi magistrati od avvocati. E nessuno ne parla. Io ne parlo e ne subisco le ritorsioni. Non mi abilitano e sono investito da processi per diffamazione. Sempre assolto, ma per esserlo sono stato costretto a denunciare e ricusare il giudice naturale. Il giudice Rita Romano di Taranto, tra le altre cose, ha assolto chi mi aveva aggredito in casa mia con l’intento di far male a me, a mia moglie ed ai miei figli, affinchè non presenziassi ad un’udienza in cui difendevo la moglie dell’aggressore, vittima di stalking. Le prove dell’aggressione non sono state prodotte dalla procura, né ammesse dal giudice. A questo punto l’assoluzione dell’aggressore fu così motivata: “la testimonianza di Antonio Giangrande non possa ritenersi pienamente attendibile”. La Procura di Taranto chiede ed ottiene l’archiviazione delle denunce contro loro stessi. La Procura di Potenza archivia tutte le mie denunce contro i magistrati di Taranto ed accoglie tutte le denunce dei loro colleghi tarantini contro di me per quanto scrivo su quello che succede a Taranto. Un modo di tacitarmi per quanto scrivo anche su quello che succede  Potenza. In virtù della mia esperienza il mio assunto è: la mafia vien dall’alto!»

Perché parla di cortocircuito Giustizia-Informazione?

«I giornalisti ci hanno inculcato la convinzione della santità, della infallibilità e della intoccabilità della magistratura. Il mondo della comunicazione e dell’informazione fa passare il principio per il quale i magistrati, preparati, competenti ed equilibrati, non sbagliano quasi mai e per di più, quando lo fanno, non devono essere criticati, in quanto le colpe delle disfunzioni giudiziarie vanno ricondotte sempre e comunque al sistema, quindi alla politica. Insomma: i magistrati sono di un’altra razza. Gli avvocati, anche per colpa della propria viltà, anziché imprimere l’assioma della indispensabilità e della parità della loro funzione, sono fatti passare per comprimari. Agli occhi della gente incarnano coloro che con sotterfugi e raggiri fanno uscire i rei dalla galera. Il dogma che dovrebbe valere per tutti i Magistrati e tutti i Giornalisti è: non avere ideologia, né amici. Questo per dare un’apparenza di imparzialità. Invece l’ideologia non gli manca, né tantomeno gli amici. Ed ottimi amici, spesso, sono proprio tra di loro, i Magistrati con i Magistrati ed i Magistrati con i Giornalisti, in un rapporto di reciproca mutualità. Amici ed ideologia, a iosa, spesso in un rapporto vicendevole: eccome! I magistrati ed i giornalisti hanno un ego smisurato che li rende autoreferenziali, presuntuosi ed arroganti, dimenticando che il potere, che gli uni e gli altri hanno, è stato assunto in virtù di un concorso pubblico, come può essere quello italiano. I Magistrati ed i Giornalisti non vengono da Marte, pertanto senza natali e casato e con un DNA differente dal resto dei cittadini. I primi, quindi, non sono la voce della Giustizia, i secondi non sono la voce della Verità. Tutto questo crea un vulnus all’esistenza di tutti noi. Prova ne è la sorte di Pietro D’Amico. Si è tolto la vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico, autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". Tutto ciò fa pensare una cosa: se è successo a lui, figuriamoci cosa succede ai poveri cristi. Non esiste un solo Paese democratico e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità che si è trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti di comparazione nell’intero mondo occidentale; uno Stato nello Stato, regolato da leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo con ondate di fango mediatico; gli stessi per i quali un magistrato in esercizio della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare liberamente lo Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul Parlamento che vota le leggi (che un magistrato dovrebbe applicare e che invece vorrebbe lui dettare) e ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo Stato o il Parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato si grida al complotto, o, addirittura, si è condannati per diffamazione dagli stessi magistrati criticati. Ma si sa. La coerenza è il segno distintivo dei limitati encefalici.»

Perché tra le sue opere a carattere generale ha scritto il libro su una vicenda particolare “SARAH SCAZZI, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE”?

«Avetrana, e per questo non si ha alcuna spiegazione logica, stranamente ed a differenza di altre sparizioni di persone, sin dal primo giorno della scomparsa di Sarah Scazzi è stata oggetto di attenzione mediatica morbosa. Sin dal primo momento è stata invasa dai camion con le paraboliche tv, come se una regia occulta avesse predisposto l’evento ed avesse previsto l’imponderabile, misterioso e drammatico seguito. Sin da subito sono arrivati i migliori consulenti forensi e gli eccelsi avvocati dai fori più importanti con la conseguente domanda logica: chi li paga? Per propaganda e pubblicità: chissà? Sono calati avvocati propostisi (vietato dalla deontologia; divieto che pare valga solo per l’avv. Vito Russo di Taranto), o avvocati consigliati da parenti od amici interessati. Solo per gli imputati minori si son visti avvocati riconducibili a conoscenza personale. Si son visti, addirittura, avvocati che si sono arrogati la funzione di pubblici ministeri: la ricerca della verità. In questo coinvolgendo i consulenti salottieri che alla tv, in programmi che dovevano trasparire imparzialità, invece, propinavano la loro convinzione personale ospiti di conduttrici compiacenti. Poi alle accuse di Michele di essere stato plagiato rispondevano: io non c’ero! Si son visti giornalisti vagare per Avetrana intenti ad intervistare appositamente ignoranti nullafacenti nei bar, con l’intento di estorcere delle considerazioni dotte. Si son visti giornalisti aspiranti scrittori, con il sogno di scrivere sul delitto di Avetrana un esclusivo Best Sellers, arrogandosi la elitaria genitura della verità. Generalmente da tutta Italia mi si chiede aiuto, essendo riconosciuta la mia competenza per aver seguito tutti i casi giudiziari analoghi. Ad Avetrana, da avetranese, sono stato tra i primi ad offrire la mia consulenza gratuita, dopo aver segnalato alle autorità alcuni personaggi che gironzolavano intorno alla famiglia Scazzi. Personaggi che hanno conosciuto i fatti dall’interno della famiglia nell’imminenza dell’evento, ma che non sono stati mai chiamati a testimoniare. Con Concetta e Giacomo Scazzi vi è stato un’incontro, qualche consiglio. Presente era Cosima e Valentina. Le ho viste affiatate con Concetta. Successivamente, con l’arrivo degli avvocati di Perugia (in quella fase non vi era alcun assoluto bisogno di assistenza legale) si era sottoposti al loro vaglio per parlare con la Famiglia Scazzi. Si è erto un muro. Da allora nessun incontro vi è più stato, né nessun grazie si è dato alle associazioni avetranesi che si sono attivate per la ricerca di Sarah e per la fiaccolata in suo onore. Le luci della ribalta sono un’illusione anche nel dolore, in special modo se c’è qualcuno che illude. In quei frangenti caotici si veniva a formare la trama intrigante, oscura, imperscrutabile e misteriosa di un film più che “giallo”. “Giallo” è la definizione italiana, poiché negli Stati Uniti non esiste questa parola per definire lo specifico genere cinematografico che va sotto i nominativi di “crime story”, “noir”, “mistery” e “thriller”. Avetrana è diventata, suo malgrado, l’ombelico del mondo. E’ conosciuta ormai in tutto il pianeta. Tutti parlano di Avetrana, degli avetranesi, degli Scazzi, dei Serrano e dei Misseri. E tutte le altre località se ne dovranno fare una ragione. Eppure tanta notorietà (subita) provoca immenso rancore. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Studi scientifici dimostrano come spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. Per questo si odia tanto Avetrana e Sabrina Misseri. Loro malgrado hanno un successo planetario che altri (gli invidiosi) vorrebbero per sé, finanche per le stesse ragioni, ma non lo possono mai avere. Allora scatta il meccanismo di delegittimazione e di denigrazione, fino ad arrivare al vilipendio di una comunità. Quando si parla del delitto di Sarah Scazzi, non si parla del danno che il sistema banale, superficiale e poco professionale dell’informazione e della comunicazione ha arrecato alla comunità colpita. State sicuri: nessuno vuol parlarne e nemmeno può. Bisogna essere Avetranesi con dignità ed orgoglio per sentire sopra la propria pelle il disprezzo di gente stupida ed ignorante che quando sa che tu sei di Avetrana nella migliore delle ipotesi sghignazza: “ahhaaaa…., ahhaaaa…”. Oppure di gente cattiva che lancia epiteti e che ti apostrofa: “ahhaa…, siete quelli che hanno ucciso Sarah”; “ahhaaa…, il paese omertoso e mafioso che ha ucciso la bambina”. Come al solito, poi, in questa Italia dove il migliore c’ha la rogna, te lo dice gente che a parlar di loro o della loro comunità dovrebbero mettersi la maschera in faccia per coprirsi per la vergogna. Certo che ad Avetrana vi è un inspiegabile accanimento mediatico. Finanche lo sport ha parlato di Sarah Scazzi. Un servizio della “Domenica Sportiva” della Rai il 7 aprile 2013 parla, sì, di calcio ad Avetrana, ma (pure qui con retro pensiero) evidenzia anche il malessere che comporta l’essere di Avetrana in trasferta. Ma noi avetranesi ad  aver grande intelletto e ad insegnare cultura adottiamo il celebre verso della Divina Commedia del sommo poeta Dante Alighieri “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. E proprio per passare oltre, il mio compito è quello di svelare il corto circuito informazione-giustizia. In questa Italia pregna di banalità e pregiudizi, frutto di ignoranza e disinformazione, e a volte di malafede, ognuno di noi dovrebbe chiedersi. La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!" «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio. «Dovete sapere – dice a un certo punto Salvatore Borsellino al convegno a Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala - che mio fratello Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone per riferire circostanze decisive per l'accertamento della verità della strage di Capaci, in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato: “Eh si! In effetti c’è anche questa!”. Sono piene le aule dei Tribunali di tesi accusatorie, spesso strampalate dei PM, imbastite in modo a dir poco criticabile, poi accolte dai loro colleghi giudici. Il caso di Salvatore Gallo è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. Ed ancora la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Giuseppe Uva il 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Lucia Uva chiede solo giustizia e si ribella contro gli insabbiamenti delle denunce. Stessa sorte, querela per diffamazione, è toccata alla mamma di Aldrovandi, come stessa sorte è toccata ad Alfonso Frassanito, padre adottivo di Carmela, la ragazzina di Taranto morta perché stuprata e non creduta dai magistrati. In Italia devi subire e devi tacere. Da sempre, inascoltato, combatto per istituire il “Difensore Civico Giudiziario” con i poteri dei magistrati, ma senza essere uno di loro. Solo nel 2012 l’Italia ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite (arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione. Senza parlare poi di quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed avvocati che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno 2012, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio 2011, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Bisogna che qualcuno dica alla gente che quello che succede ad Avetrana succede in tutta Italia. Tante le similitudini con i fatti di cronaca riportati dai media. Informazione e giustizia. Simbiosi cinica e bara, sadismo allo stato puro. Parliamo di Franco Califano. È stato arrestato due volte per cocaina, una volta nell’ambito del caso Chiari-Luttazzi (una serie di personaggi dello spettacolo messi in cella per droga nel 1970 e poi tutti assolti), un’altra all’interno del caso Tortora (l’inchiesta della magistratura napoletana che accusò falsamente il popolare presentatore di essere un boss della Camorra, uno dei più grandi scandali giudiziari degli anni Ottanta). In tutto s’è fatto per questo tre anni e mezzo di carcere. Suo commento: «Negli anni Settanta sono finito nel processo di Walter Chiari, negli anni Ottanta in quello con Tortora: possibile che alla mia età, con la mia carriera non me ne sono meritato uno tutto per me?». Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare. Ed ancora. Per i pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, Stefano Cucchi «è morto di fame e di sete». "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''. «Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso , vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora, dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico». Ed ancora. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana? Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia. Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini. Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati. Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo. Il fenomeno Vallettopoli era appena cominciato: un tormentone mediatico che aveva trasformato la tranquilla e sonnecchiante città di Potenza in un vero e proprio “ombelico del mondo”, scriveva Stella Montano sul “Quotidiano della Basilicata”. Giornalisti, reporter, fotoreporter, cameraman di testate giornalistiche e agenzie di stampa di tutt’Italia, tutti a Potenza, per studiare da vicino quella che sarebbe stata una delle inchieste più discusse degli ultimi anni; ma anche autisti, avvocati, segretari, agenti di spettacolo al servizio di veline e soubrette, di attori e calciatori, chiamati a rispondere alle difficili domande del pm che aveva aperto le indagini sulle presunte estorsioni ai danni di vip, attività che aveva fatto la fortuna dell’agenzia “Corona’s”, il cui logo, in quel periodo era diventato uno status symbol, consolidato persino dinanzi al carcere di Potenza, il 29 marzo del 2007, giorno del suo 33esimo compleanno, festeggiato dai suoi collaboratori più fedeli con una grande torta e con tanto di candeline. Albergatori e ristoratori felici del tutto esaurito; trovare un posto libero in un pub o in una pizzeria era diventata un’impresa. Esaurite sin dalle prime ore del mattino le copie di quotidiani, settimanali e periodici: la voglia di leggere era diventata dilagante, dirompente. Per i 3 tassisti in servizio in città, spola ininterrotta dalla stazione al tribunale, dagli alberghi al carcere: un lavoro così estenuante a Potenza non si era mai visto. Come non si era mai visto che qualcuno prendesse addirittura dei giorni di ferie dal lavoro per non perdersi uno spettacolo “live” senza eguali, tra le inferriate del Tribunale. Tra flash e microfoni buttati letteralmente in aria, il passaggio super scortato di Raoul Bova, Loredana Lecciso, Diego Della Valle, Fernanda Lessa, Nina Moric, aveva mandato in visibilio anche studenti, adolescenti e ragazzine, pronte ad immortalare con un flash quel passaggio dorato di vittime/carnefici del “sistema Corona”. Girandola di starlette e paillettes che in quei giorni avevano di fatto trasformato la visione del capoluogo lucano agli occhi del mondo mediatico. Merito di quel “pm biondo che faceva impazzire il mondo” che aveva scoperchiato le malefatte di un “ragazzo insolente” di nome Fabrizio Corona. Qualcuno aveva persino proposto di far diventare Henry John Woodcock «assessore al turismo del comune di Potenza». Starlette, gossip ed inchieste giudiziarie. Le tante Ruby dell’informazione e della giustizia italiana. Guerra, Berardi, Polanco, Faggioli… Che fine hanno fatto le “olgettine”? Qualche anno fa non si parlava che di loro, oggi sono quasi dimenticate. Da Barbara Guerra a Iris Berardi, da Marysthell Polanco a Barbara Faggioli. Che fine hanno fatto le cosiddette ragazze del bunga-bunga? E quelle che abitavano nell’ormai famigerato appartamento di via Olgettina, a Milano? Non si parlava d’altro, i quotidiani erano ricchi tutti i giorni di notizie e segnalazioni sulle loro imprese e i rotocalchi si contendevano le loro immagini «rubate» durante costosissime incursioni nel quadrilatero della moda, in centro a Milano, per l’immancabile shopping quotidiano. Erano tante le ragazze in qualche modo entrate nell’elenco delle donne attribuite a Silvio Berlusconi. “Oggi” le aveva contate una a una: da Nicole Minetti a Maryshtell Garcia Polanco, da Roberta Bonasia a Barbara Faggioli, da Alessandra Sorcinelli a Iris Berardi, per non parlare di Ruby Rubacuori. L’elenco, alla fine, ne conteneva ben 131. È passato, come dicevamo, solo qualche anno. Per qualcuno il ricordo di quelle ragazze è già sbiadito. Per altri sono rimaste nella memoria collettiva. «Subisco dai giudici violenza psicologica, una vera e propria tortura, una pressione insostenibile». Lo ha detto Ruby, all’anagrafe Karima El Mahroug, la giovane marocchina al centro del processo sui festini hard nella residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore, che il 4 aprile 2013 ha inscenato una protesta contro i magistrati davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. La giovane ha letto un comunicato stampa lungo sei pagine sulle scale del tribunale e si è presentata con un cartello che recitava 'Caso Ruby: La verità non interessa più?'. Protesta anche contro la stampa, che a suo parere strumentalizza la sua storia: «Per colpire Berlusconi la stampa ha fatto male a me. Oggi ho capito che è in corso una guerra contro Berlusconi e io ne sono rimasta coinvolta, ma non voglio che la mia vita venga distrutta». Ruby ha letto un comunicato che ha consegnato ai giornalisti presenti. «La colpa della mia sofferenza è anche di quei magistrati che, mossi da intenti che non corrispondono a valori di giustizia, mi hanno attribuito la qualifica di prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver avuto rapporti sessuali a pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio Berlusconi. Non sono una prostituta. Nessuno ha voluto ascoltare la mia verità, l’unica possibile. Voglio essere ascoltata dai magistrati per dire la verità, sono la parte lesa in questa vicenda. Voglio protestare per non essere stata sentita. Non ne capisco la ragione e intendo dirlo pubblicamente. La violenza che più mi ha segnato è stata quella del sistema investigativo. Dei ripetuti interrogatori che ho subìto, soltanto alcuni sono stati messi a verbale. Trovo sconcertante e ingiusto che nessuno voglia ascoltarmi, soprattutto perché secondo l'ipotesi accusatoria io sarei la parte lesa, secondo la ricostruzione dei pm sarei la vittima. Oggi dopo aver sopportato tante cattiverie sono qui a chiedere di essere sentita. Sono vittima di uno stile investigativo e di un metodo fatto di domande incessanti sulla mia intimità, le propensioni sessuali, le frequentazioni amorose, senza mai tenere conto del pudore e del disagio che tutto ciò provoca in una ragazza di 17 anni. A 17 anni non sapevo nemmeno chi fossero i pm, non leggevo i giornali, a malapena sapevo chi fosse Berlusconi. Oggi ho capito che è in corso una guerra nei suoi confronti che non mi appartiene, ma mi coinvolge, mi ferisce. Non voglio essere vittima di questa situazione non è giusto. Chiedo che qualcuno ascolti quello che ho da dire, voglio raccontare l'unica verità possibile e lo voglio fare in sede istituzionale. La violenza che più mi ha segnato è stata quella di essere vittima di uno stile investigativo fatto di promesse mai mantenute di aiutarmi a trovare una famiglia e di proseguire gli studi. Alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili, piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Ho deciso di parlare per rispondere a chi, magistrati e giornalisti inclusi, mi ritiene una poco di buono. Sono spiaciuta di aver fatto una cavolata dicendo che ero parente di Mubarak». E contro i magistrati: «Non c’è la prova che mi prostituissi, l’atteggiamento degli investigatori fu amichevole poi cambiò quando capirono che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto sono iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle persone che mi avevano aiutato...una vera e propria tortura psicologica. Una volta - ha raccontato ancora Ruby - non potendone più sono addirittura scappata dalla comunità di Genova in cui mi trovavo per non dover subire ancora quella pressione e l'unico che si preoccupò e mi convinse a rientrare è stato un amico al quale sono tuttora affezionata. Sono rientrata e di fronte alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Mi sono resa conto - ha continuato - che a loro non interessava nulla di me. Ho raccontato di aver incontrato persone che conoscevo solo grazie ai rotocalchi, come Cristiano Ronaldo o Brad Pitt e dentro di me mi domandavo come fosse possibile che non si accorgessero che erano frottole. Questa è stata la peggiore delle violenze che ho subito, oltre alle costanti diffamazioni riportate dalla stampa alle quali mi pento di non aver reagito prima. Ho  raccontato tante bugie, anche ai magistrati, perché mi vergognavo di me, del posto in cui sono nata, della mia famiglia, dei piccoli lavori di fortuna che sono stata costretta a fare per racimolare qualche spicciolo. Per questo ho raccontato bugie per sentirmi diversa e per convincere anche gli altri che lo fossi davvero, diversa come avrei voluto essere sempre. Mi spiace aver raccontato queste bugie anche a Silvio Berlusconi, il quale, oggi, sono sicura, si sarebbe dimostrato rispettoso e disposto ad aiutarmi anche se avessi detto la verità. La verità è che vengo da una paesino che si chiama Letojanni e che la mia famiglia vive in condizioni di grande precarietà. La verità è che per tanto tempo volevo essere un'altra persona e adesso pago il conto: il rischio di vivere il resto della mia vita con appiccicato il marchio infamante della prostituta che qualcuno ha voluto affibbiarmi a tutti i costi. Quanto alla finta parentela, «mi spiace di aver detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di fantasia perché il vecchio passaporto me lo ha permesso». E, per essere ancor più credibile, la giovane marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso passaporto nel quale compariva il nome di Mubarak. «Presentarmi come la nipote di Mubarak - ha aggiunto Ruby - mi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver lasciato la mia famiglia in Sicilia. Ho subito un ennesimo episodio di intolleranza, quando la domenica di Pasqua una persona guardando mia figlia ha detto “spero che non diventi come sua madre”. Voglio che si sappia che la colpa è di quella stampa che per colpire Silvio Berlusconi ha fatto del male a me. Parlo di quei giornalisti che mi hanno violentato pubblicando le intercettazioni telefoniche che mi riguardavano». La ragazza ha spiegato di essere stata «umiliata per troppo tempo» e, ha aggiunto, «se questo è il Palazzo di Giustizia voglio che giustizia sia fatta». «Non voglio - ha concluso Ruby - essere distrutta, non voglio che venga distrutto il futuro di mia figlia a causa di un gioco pericolosissimo molto più grande di me nel quale sono stata trascinata con violenza quando avevo solo 17 anni. Voglio che mia figlia sia fiera di me». Intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in “L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo 2013 ma solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno voluto stampare. Questa volta non è una ragazza chiamata Sabrina, ma una ragazza chiamata Amanda. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del Mostro, Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una “santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al magistrato nelle indagini sul Mostro». Amanda sembra non avere dubbi. «Contro di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone». «L’aveva intuito anche Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge: «Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte dei tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è stata costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto. Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo grado Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era colpevolista. Per loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti minacce». Sul delitto di Sarah Scazzi sono stati scritti fiumi di parole e mandati in onda migliaia di ore di disquisizioni giornaliere sull’argomento, in salotti con gente che si improvvisava esperta di sociologia e di diritto. Avetrana è stata invasa da orde di giornalisti, ognuno portatore di pregiudizi e luoghi comuni. Sentimenti che hanno trasbordato ai loro lettori. Io conoscitore attento delle vicende umane in Italia in tema di violazione dei diritti umani in ambito della giustizia e dell’informazione, ho voluto riportare un punto di vista oggettivo che nessuno mai ha ed avrebbe avuto il coraggio di riportare. La storia di Sarah da me riportata è intrisa di storie analoghe alla sua. Ho rapportato il comportamento di media e magistratura per poter fare un parallelismo tra le varie vicende.  Chi legge i miei libri, e quello su Sarah Scazzi in particolare, non rimarrà deluso, ma si arricchirà di informazioni mai da alcuno riportate. Per esempio nessuno ha mai parlato di Valentino Castriota, il portavoce della famiglia Scazzi, che nelle prime settimane viveva in quella casa. Il Castriota non è stato mai chiamato a riferire quanto lui avesse saputo in quei giorni. Come strano è – così come ha sottolineato Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, criticando l’operato della Procura – il perché, quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era arrivata in quella dei Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei Misseri?»

Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana funziona così. E’ d’accordo con me Luca che scrive su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Al 4 aprile 2013, dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi, quelli privilegiati, accelerati perché illuminati dal faro mediatico, che avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti incredibili: a gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine.

Da queste sue parole si evince che lei non ha remore a parlare degli errori, veri o presunti, commessi dai magistrati di Taranto.

«I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. A Taranto i magistrati non applicano la legge: loro SONO LA LEGGE. Questo atteggiamento li ha portati a disapplicare le leggi dello Stato, ma per la Corte Costituzionale la legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare.  Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231/2012 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. L’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!? Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Magistrati denunciati proprio da Di Giorgio. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono a Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. C’è una cittadina in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare del P.D Rocco Loreto ed un magistrato della locale Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio, i cui parenti militano politicamente nell’area di centro-destra. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Le denunce però vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente di sinistra e viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). In un paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale. Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. In seguito Alberto Santacaterina si troverà in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce vorrebbero incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una denuncia del magistrato sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone puteolento della malasanità pugliese.  Anche i magistrati del Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio inquietante attraverso l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Per aver pubblicato sul mio sito web le vicende attinenti il caso di Clementina Forleo, la Procura, il GIP ed il Tribunale di Brindisi, prima, e la Procura, il GIP ed il Tribunale di Taranto, poi, hanno pensato di incriminarmi per violazione della Privacy e di oscurare l’intero sito di centinaia di pagine, con vicende estranee a quelle oggetto di processo. Ma “un giudice a Berlino” ha rimesso le cose a posto, pronunciando l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In questo processo, ossia nel processo per il delitto di Sarah Scazzi, quel che salta agli occhi di chi ha anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e che palesemente si evidenzia è la incoerenza assoluta del pensiero dei magistrati. I moventi del delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi, no; lesione dell’onore e della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra sorelle. Uno vale l’altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione del delitto secondo la procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle motivazioni delle custodie cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6 ottobre 2010, Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina (d’accordo con il padre che uccide Sarah) ha trascinato con forza nel garage la cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza, anzi no; l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37, anzi no; l’omicidio è stato commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20, anzi, no; l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più in garage, ma in casa. Inoltre, i difensori degli imputati hanno lamentato di essersi trovati di fronte a una memoria di 599 pagine depositata dal pubblico ministero che, al contrario di quanto era stato assicurato, non sarebbe una mera riproduzione della requisitoria pronunciata in aula, ma conterrebbe alcuni fatti nuovi, che stravolgerebbero la stessa e presenterebbe delle contraddizioni. Quando si pensa che in un dato ufficio giudiziario giudicante vi possa essere il dubbio che il giudizio possa esser influenzato da fattori esterni al processo, la legge dà la possibilità al cittadino di presentare alla Corte di Cassazione il ricorso per rimessione in altro luogo del processo per legittimo sospetto che il giudizio non sia sereno. E’ il ricorso per legittima suspicione. Questo ricorso è stato presentato da Franco Coppi, e non poteva essere proposto se non da un avvocato estraneo al Foro di Taranto anche per ragioni di opportunità, oltre che di coraggio, così come è stato da me presentato per le mie vicissitudini ritorsive, proprio perché, io parlando senza peli sulla lingua sono molesto ai magistrati di Taranto che, da me criticati, pretendono di giudicarmi per quello che scrivo. Purtroppo la Corte di Cassazione mai ha accolto un ricorso del genere, disapplicando di fatto una legge dello Stato per tutelare i loro colleghi magistrati, a scapito della vita di un presunto innocente, dichiarato erroneamente colpevole. Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di Assise di Taranto ha disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere per entrambe. 8 anni a Michele Misseri per concorso nella soppressione del cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Condannati a 6 anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri il primo e nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni a Vito Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia. 1 anno a Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, tutti testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con pena sospesa. La Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele Misseri, Cosima Serrano e Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da stabilire in separata sede, alla famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana. Nello stesso tempo ha stabilito una provvisionale di 50mila euro ciascuno ai genitori di Sarah, Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, e di 30mila euro per il fratello Claudio. La sentenza è stata letta in aula dalla presidente Rina Trunfio che ha dovuto chiedere a forza il silenzio per fermare l’applauso spontaneo dei presenti in aula alla lettura della sentenza. Durissima la reazione alla sentenza della madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo: “chi uccide merita questo”. Le posizioni dei testimoni che non hanno testimoniato a favore dell’accusa saranno vagliate dallo stesso ufficio della procura. Come volevasi dimostrare e come già ampiamente anticipato a tutta la stampa e ad “Affari Italiani” del 15 novembre 2011 «posso profetizzare la condanna per gli imputati, in 1° e 2° grado, con assoluzione in Cassazione». D’altronde lo stesso Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, aveva avvertito lo stesso sentore. «Perché qui commetterete un altro omicidio, oltre quello perpetrato in danno di una povera ragazzina. E un altro omicidio è quello di mettere in galera, all’ergastolo due innocenti, una giovanissima peraltro. E’ un altro omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli specchi perché tanto la Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la sentenza, ha già deciso. Quando io sento queste cose mi sento mortificato come cittadino, pur sapendo che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo segnale, quando viene trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente quello che sta avvenendo: la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la rivolta verso le istituzioni.» Per quanto preannunciato a tutta la stampa ed ad “Oggi” il 16 febbraio 2012, senza intenti diffamatori ho chiesto agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi oggi facenti parte dell’attuale collegio accusatore nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano già state. Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua astensione «per motivi personali». Sarà!, commenta Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E che dire dei giudizi espressi dai giudici togati. Tutto tranquillo se non foss’altro che un fuorionda tra i giudici irrompe nel processo. Presidente Trunfio: «certo vorrei sapere, là, le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati… tra di loro e se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice latere Misserini: «ah, sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’ vedere, no, come imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che negheranno in radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in aula, tra il giudice Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il giudice a latere Fulvia Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina Misseri e sua madre Cosima, che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici - sembra dalla conversazione - optare per una strategia incrociata nella difesa che le porterebbe ad accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata dai microfoni delle telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento.  In particolare la frase che ha colpito gli avvocati è quella dove il presidente della corte d’assise, il giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è che) negheranno in radice”. «Si evince che hanno già una ben definita opinione che non rinviene necessariamente da una valutazione attenta degli atti ma da un'idea precostituita». Spiega l'avvocato Franco De Jaco. Il professor Franco Coppi parte da solo all’attacco, e non poteva esser altrimenti, e viene seguito soltanto da un componente del collegio difensivo, Franco De Jaco, legale di Cosima, nella formulazione della richiesta di astensione dei giudici della Corte d’Assise. Ed è sulle iniziative da adottare dopo il fuorionda che si spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli avvocati di Cosima, Luigi Rella, dimissionario presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, va via in netto anticipo rispetto alla fine dell’udienza. Marseglia nel corso del suo intervento spara a zero sugli inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta. «Vi stanno proponendo un errore giudiziario sulla base di prove acquisite in modo barbaro, in perfetto stile cubano. Sulla base di elementi forniti da testimoni che sostengono una giusta causa perché è una giusta causa, sono i metodi per sostenerla che non sono giusti, che fanno indignare e impegnano la difesa fino allo spasimo perché questo modello procedimentale, prima che processuale, non deve passare, perché questa inchiesta è stata condotta in maniera intollerabile in quanto ad acquisizione della prova. Un enorme errore giudiziario costruito su prove acquisite nel corso di deposizioni in cui gli inquirenti hanno usato metodo sbagliato che la legge vieta ». Ciò nonostante Marseglia lascia da solo il professore nell’iniziativa contro l’assise giudicante. «Non posso che invitarvi a valutare la possibilità e il dovere di astenervi», ha chiesto senza mezzi termini ai giudici. «Domani – ha aggiunto Coppi – siamo disposti a riprendere il cammino se ci verrà restituita quella serenità che in questo momento mi è stata tolta. Un difensore – spiega Coppi – non può non rappresentare ai giudici le sue perplessità e le sue preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità ma anche il difensore ha diritto alla serenità di parlare con un giudice terzo, imparziale, che fino all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le ragioni dell’accusa e della difesa. Con quale spirito continuiamo ad affrontare al processo? Vi chiediamo una dichiarazione che vi rassereni ma che ci chiarisca il senso di quelle frasi che suscitano preoccupazione. Ci aspettiamo dalla corte un chiarimento che ci restituisca serenità salvo decisioni diverse che potete assumere. Chiediamo che i giudici togati valutino la possibilità di astenersi». Coppi non ha gradito una frase relative a possibili strategie difensive in cui «si fa riferimento ad accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi». La presidente Trunfio, da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le spalle dicendo che non dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di essere disposta al rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in questo caso, alla Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di astensione è stata fatta subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo collega del collegio difensivo, Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente l’aula. Alla richiesta di astensione formulata dal professore si associa soltanto un componente del collegio difensivo. Ampio collegio, composto dai tantissimi avvocati, più del numero richiesto rispetto ai molti imputati. Avvocati locali, tra cui Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri e già praticante avvocato di Nicola Marseglia, di cui ha assunto il modus operandi. Franco De Jaco: «Sono frasi che ci hanno messo in allarme. E’ normale per noi che due colleghi si scambino delle opinioni ma quello che ci preoccupa è l’ultima frase, “non possono negare in radice i fatti”. Diamo la patente di buona fede a quelle dichiarazioni, non ci sono dubbi di nessun genere. Domani se noi la rivedremo qui e saremo rasserenati». Le affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti», anche per il difensore evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non posso far finta di niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine, la posizione di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del professore. Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di Sabrina Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto modo e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo collega Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai giornalisti ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le cose stanno come mi dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda galeotto – spero domani di sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e di poter andare avanti con la mia arringa che è ancora impegnativa». Ma nessun avvocato del foro si associa. Solitamente sono i legali a lamentare il condizionamento ambientale dei magistrati presentando richiesta di rimessione. Evidentemente il condizionamento ambientale non vale soltanto per i magistrati. Da pensare è il fatto che un avvocato che si mette contro i giudici può rischiare di non esercitare più la professione forense (procedimenti penali pretestuosi o procedimenti disciplinari fittizi), ovvero rischia di perdere tutte le cause, ovvero rischia che i suoi protetti non passino l’esame di avvocato con i magistrati criticati nelle commissioni d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Questo deve far riflettere i profani del diritto. Riflessione generale sul mondo forense italico. A chiacchiere son tutti bravi. I veri avvocati si distinguono dagli “azzeccagarbugli” succubi del potere di manzoniana memoria, proprio nell’adozione di certi atti. Ma come disse don Abbondio  “se il coraggio uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Appunto e proprio per questo a Franco Coppi va il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof.Coppi – è detto in una nota – è “per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato”'. Il riferimento è al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Peccato però che gli avvocati vili e ignavi continuano sì ad esercitare in combutta con i magistrati, ma intanto a pagarne le pene sono i loro clienti. Per esempio in questo caso si noterà chi è molte spanne sopra ai colleghi, presunti principi del Foro.  Chi lo dice questo? Lo dice chi principe del foro lo è davvero. Franco Coppi: «Poi c’è chi ritiene di far finta di niente e chi ha il coraggio di dire alla giudice che in questo momento non si fida.» «La difesa non è spaccata. Il professor Coppi ha sempre la forza e il coraggio di assumere tutte le posizioni che deve assumere un avvocato comode o scomode che siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia, l’altro difensore, con Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì a limitare la portata della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad accusare i legali di difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un processo terminale. Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di studio 100 tv, emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di Taranto. « Insomma. Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili per far vincere le proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Avetrana:”Humus sociale e culturale che ha prodotto il delitto; ambiente malsano scandagliato dai magistrati tarantini”, dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, diffamando il paese di Sarah Scazzi e dei Misseri, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini. Sia mai che le imputate, ancora presunte innocenti, potessero uscire di galera. In seguito di ciò la Corte d’Assise di Taranto ha deciso di astenersi nel processo sull’omicidio di Sarah Scazzi trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale dopo la diffusione del video con fuori onda tra presidente e giudice a latere. «Abbiamo chiesto ai giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi, abbiamo sollevato un problema come qualsiasi altro difensore degno di questo nome avrebbe fatto. I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo la valutazione dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di ottenere o non ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al quale noi puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci sembrava non potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano state rese pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale. Chi dice che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare di dirlo perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c'è stata questa sorpresa - ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai miei allievi che bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di assumere tutte le iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho fatto quello che la mia coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare mezzucci, che me ne importa del rinvio di un giorno o di un mese in un processo dove si discute di ergastolo. Quindi chi dice queste cose è completamente fuori strada e dovrebbe anzi vergognarsi di dirle, se sono state dette.» Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note. Noi difensori non avremmo potuto fare nulla di diverso. Hanno detto che era un’ancora di salvezza insperata. Chi ha detto quelle cose offende quella toga che io indosso e che forse anche lui indossa. Nulla è stato fatto per rendere più difficile il cammino della giustizia. E da un mese che studiamo per l’arringa difensiva. Sono venuto a Taranto domenica scorsa con la voglia di discutere questo processo. Abbiamo appreso di questo scambio di battute, abbiamo fatto quello che tutti gli avvocati degni di questo nome avrebbero fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente alla coscienza dei giudici, non c’era bisogno della ricusazione. Volevamo una risposta che ci acquietasse. …abbiamo parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo messo in gioco la simpatia presso di voi, ma la toga impone iniziative di questo tipo. Noi dovevamo fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta che viene dalle vostre coscienze e spero che la vicenda sia chiusa così. Se ci saranno altri seguiti non dipenderà da noi. Credo di essere ugualmente legittimato di porre a lei il mio saluto e la dimostrazione del mio ossequio insieme all’augurio che la sentenza che voi state per pronunciare sia quale il popolo attende, ossia solamente espressione di verità e di giustizia». «Dunque ergastolo parola tanto attesa da un’opinione imbevuta di messaggi televisivi. Questa parola è stata finalmente pronunciata, non un dubbio scuote il pm e di ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti la richiesta sarebbe stata diversa. Dice di essere sereno, caso mai condito con un po’ di amarezza. Non importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa aula di essere stato lui l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far venire un ragionevole dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che sottolineano come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci solo quando non esiste una ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa parlare di una tesi oltre ogni razionalità umana, quando Misseri ha confessato, ha fatto ritrovare i vestiti, il cellulare, il luogo di sepoltura. Come si può pensare che questa ipotesi sia al di la della razionalità umana? …. Non riusciamo a comprendere come l’ipotesi di Michele Misseri colpevole non sia dotata di razionalità pratica. Altrimenti seguendo il ragionamento del pm dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E dobbiamo ricordare che due volte la corte di Cassazione ha dichiarato fragile l’indizio del movente gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi indizi a carico di Sabrina. Ma questo non ha nessuna importanza per i pm. Anzi hanno la massima serenità nel chiedere la condanna all’ergastolo per questa ragazza. Un’accusa cieca che non si rende conto delle contraddizioni delle accuse con cui chiede la condanna al’ergastolo. Ha detto o non ha detto che è stato un movente d’impeto? E per questo si chiede l’ergastolo. E’ vero che viene contestato il sequestro in cui assorbe l’omicidio. Ma questo è il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, non di sequestro. E l’omicidio è delineato come animato da un dolo d’impeto. Nonostante tutto ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni aspetti dell’intervento del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che intendo dispiegare per dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma iniziamo con il dire che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa dell’opinione pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione pubblica, ma certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le sentenze emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia anche una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che ci ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula». Il professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato che vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo hanno pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza». «Abbiamo visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata arrestata. Voi dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna popolare. Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade fuori di essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei difensori degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare questa discussione in una questione personale, lasciamo perdere gli insulti di cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce. Che ci lasciano del tutto indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide, tutti i paragoni, le domande impudenti volte a sapere chi è che ha retribuito la nostra attività. E quale sarebbe il tornaconto che a noi verrebbe? A tutti ricordo che io sono un vecchio avvocato innamorato della giustizia e mi sia concesso di ripetere a voce alta: solo questo m’arde e solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per spirito di giustizia. Non accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è colpevole la mia cliente. Se posso far passare sotto silenzio le offese che riguardano la mia persona non posso far passare le offese sul merito di questa causa». «Una barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente sessuale. Vedremo se questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che quel giudizio non sia anche una sorprendente offesa nei confronti della mia persona. Ne parleremo a lungo della responsabilità esclusiva di Michele Misseri. Il pm dice che hanno dovuto subire una istanza di remissione, come se questo costituisse un offesa. Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo dovuto subire noi difensori? Vi siete chiesti perché l’abbiamo chiesta? Vogliamo ricordare i motivi di quella remissione? Ma vi rendete conto che quando noi abbiamo inteso svolgere investigazioni difensive, anche solo per andare in carcere a sentire Michele Misseri, che il giudice ha imposto la presenza del procuratore della Repubblica a una attività difensiva? C’è tutta l’Italia che ride. E non dovevamo proporre un’istanza di remissione? E vi siete chiesti perché la procura generale ha espresso parere favorevole alla remissione? E vogliamo ricordare le modalità con cui si è proceduto all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai tranquillo, a Sabrina non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del giudice popolare che si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone della difesa). Vogliamo ricordare la lista dei testi messi sotto processo per falsa testimonianza e favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore di Sabrina Misseri senza finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina di una consulente di Michele Misseri che data la sua specializzazione non capiamo a cosa servisse, che addirittura partecipa all’interrogatorio, che sposta il difensore per procedere lei stessa a fare domande? Anche perché questa consulente si era già pronunciata dicendo che Michele era un pedofilo, l’unico responsabile del delitto. Aveva già conquistata la ribalta televisiva accusando il suo futuro cliente. Una nomina che mi porta a pensare all’articolo 64 secondo comma, all’articolo 188 … Io mi sono dovuto ben guardare di svolgere qualche attività non per paura ma per l’interesse della mia cliente. Noi abbiamo una sola speranza e per questo abbiamo valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la fiducia che voi signori giudice saprete allontanarvi dalle suggestioni che vengono da fuori ma anche da dentro questa aula riconoscendo le ragioni della difesa. Le nostre ragioni sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono alla logica e al buon senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto dal senso comune». Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune il buon senso. Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro categorie di giudici quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma senza cuore, quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa. Noi siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha la forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata chiesta la pena dell’ergastolo. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo per falsa testimonianza. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va punita Sarah, e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché Sabrina porta Sarah in garage (una delle versioni di accusa) è proprio questa. Quale valore possono avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni? La ritrattazione della ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione annulla l’altra e si deve tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri argomenti. Iniziamo a chiederci il valore della confessione. Come si può definire prima di riscontri la sua confessione? Visto che ha fatto ritrovare telefonino, corpo, chiavi. La confessione è comunque una prova che non esige riscontri, come stabilisce la Cassazione. Non ha bisogno di riscontri esterni. Ma quanti ergastoli sono stati dati con una semplice confessione. Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato come persona informata sui fatti. I pm a quel punto hanno già sospetti su Sabrina, l’hanno già ascoltata il 30 e le hanno detto che sta dicendo delle falsità pazzesche. Questo è l’atteggiamento dei pm come risulta dall’interrogatorio del 30 settembre. I pm maturano l’idea che Sabrina sappia, che sia addirittura coinvolta bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a cadere in qualche contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E lo incitano a dire la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa essere capitato un incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia capire». La confessione spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio, ma la pista Sabrina non viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di eliminare una pista a cui si erano affezionati. E iniziano gli interrogatori. Michele prima coinvolge la figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi c’è la chiamata in correità e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si siano state tecniche persuasive che hanno vincolato la libera determinazione di Michele Misseri, che non aveva la forza di resistere alle domande di un pubblico inquisitore. E’ singolare, come i mutamenti di versione avvengono quasi sempre dopo una sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di rassicurazioni e di inviti su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina, Miché, stai tranquillo….». Anche Nicola Marseglia per Sabrina Misseri, nonostante il suo smisurato rispetto per i magistrati tarantini  afferma che «Questo è un processo particolare, abbastanza atipico. E' il processo di Sabrina Misseri, a Sabrina Misseri. E' stato così sin dal primo momento. Il capitano Nicola Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri, che fu posto al vertice delle indagini, l'aveva individuata fin dal primo momento insieme a Ivano Russo – dice l'avvocato Nicola Marseglia - Si coltiva questa ipotesi di lavoro dall'inizio. La confessione di Michele Misseri - ha aggiunto Marseglia - ha spiazzato l'ufficio del pubblico ministero e ha introdotto un elemento spurio di ipotesi di lavoro a cui non aveva pensato nessuno. Da qui nasce l'equivoco nei confronti di Sabrina, che subisce una serie di aggiustamenti nel corso delle indagini che non conoscono alternative.»

Questo la dice tutta sul clima che si respira a Taranto e sulla conduzione dei processi. A Taranto poi, c’è il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti. Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi, accusata anch’essa di falsa testimonianza.»

Come si è comportata la stampa e la televisione in questa vicenda che ha colpito, sì, la famiglia Scazzi e Misseri, ma anche tutta la comunità avetranese?

«Anche Hollywood fa la sua comparsa nel processo Scazzi. L’accurata arringa dell’avv. Franco De Jaco affida al potere delle immagini di un film in bianco e nero del 1957 il destino della sua assistita. La pellicola diretta da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati” e magistralmente interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata difesa di un ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo picchiava. Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di Consiglio, spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è impossibile emettere un verdetto di colpevolezza. “Avetrana non è Hollywood”. L’assedio di media e curiosi. «Non è Hollywood» c’è scritto su un muretto di mattoni che si trova a poca distanza dall’abitazione della famiglia Misseri, dove è stata uccisa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi. Il messaggio è indirizzato alle numerose troupes televisive e di ‘fly’ (furgoni con le antenne paraboliche montate sul tetto) che presidiano da giorni l’abitazione in cui vivono la mamma e la sorella di Sabrina Misseri. Proprio davanti alla villetta di via Grazia Deledda vanno in onda, in diretta, diversi collegamenti televisivi e si montano ogni giorno i servizi per i telegiornali e gli speciali tv. Già Valentina Misseri aveva urlato in più occasione contro i giornalisti. La sorella di Cosima, Emma,per sfuggire all’assalto dei giornalisti ha colpito con uno schiaffo al volto un operatore tv; contro gli altri ha urlato: «Andate via, che c’entriamo noi!». E continuano anche i pellegrinaggi dei “turisti dell’orrore”: alcune famiglie arrivate dal Foggiano per visitare i luoghi in cui ha vissuto, è morta e ora riposa Sarah. Ma la storia si ripete. A Newtown come Avetrana. Tutto il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è assalita da orde di cronisti e camion tv. Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini, tra i 5 e i 10 anni, sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con problemi mentali, Adam Lanza, poco più che ventenne. Dopo la sparatoria, non c’è tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa dai media e dai giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della BBC, Johnny Dymond. “E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o cinque famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i media qui. Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove dorme, uno degli abitanti, infastidito dalla troppa attenzione.  Il villaggio della scuola di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e crocevia di persone, le stradine non sono più le stesse. E poi Casa Grillo come ad Avetrana. Dal giorno della certificazione del successo del Movimento 5 Stelle alle politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi stanzia di fronte alla casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella speranza di una dichiarazione o di un’immagine dell’inafferrabile leader mentre scorrono, nei tg, le immagini del cancello che si apre e da cui esce, quando va bene, un’auto. Un modus operandi, un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose che ricorda da molto vicino le più recenti pagine di cronaca del nostro Paese, con i cronisti accampati di fronte alla casa dell’assassino o della vittima di turno. E un modello che, quando Beppe Grillo non è in casa, come in occasione della trasferta romana per l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete puntuale fuori dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito informativo in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non dichiarano e i giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono spianato della dichiarazione sarà vana. E così il modello applicato è e rimane quello classico: il modello "Avetrana", un modello inadeguato che genera persino dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè che, appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con i loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. Come è diversa Brembate di Sopra. Il sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli, dopo la richiesta di silenzio stampa avanzata dalla famiglia Gambirasio sulla scomparsa di Yara, è intervenuto sulla vicenda e attraverso un comunicato ha invitato “gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio di Brembate di Sopra”».

Dal punto di vista sociologico cosa ha dedotto dal comportamento dei media e dell’influenza che questi hanno sulla gente che li segue?

«Il delitto di Sarah Scazzi ha dato vita ad un fenomeno inspiegabile e mai avvenuto prima. La gente a casa partecipa ad un reality show e con il telecomando della tv decide chi è il colpevole. Quanto più le trasmissioni tv che si interessano al caso alzano il loro share adottando la linea giustizialista, tanto più quella trasmissione viene seguita dai telespettatori e tanto più si guadagna in pubblicità. Di conseguenza la trasmissione rincara la dose, concentrandosi sugli elementi, veri o artefatti, adducenti la colpevolezza del tapino di turno. Essere garantista in tv non paga e i giornali si adeguano. Lo hanno capito bene i magistrati aprendo un processo ed adottando le tesi accusatorie che più aggradano il pubblico.»

Da esperto giuridico: a punta di Diritto cosa ha da contestare?

«Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un processo con prove certe? No! E’ un processo con indizi precisi, gravi e concordanti, tali da formare una prova? No! E’ solo un processo alle intenzioni. Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un esempio. Questo è un PROCESSO INDIZIARIO. Ossia è un processo senza prove ma solo indizi, contrastanti e contestabili. Senza prove, nonostante vi siano innumerevoli intercettazioni ambientali, anche in carcere. Nulla traspare la prova regina. Mai vi sono state confessioni carpite, ma solo le confessioni genuine di Michele Misseri: la prima e l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi è solo l’esigenza di accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli imputati e la dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da un giornalismo approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e luoghi comuni. A ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del delitto pare che sia più frutto di illazioni, supposizioni e congetture della Pubblica accusa, mal sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione è facilmente attaccabile dalla difesa degli imputati. Difesa composta da vecchi ed agguerriti volponi. Da quanto desunto e dalla mancanza della pistola fumante (prova certa) appare che le imputate (Cosima e Sabrina): o sono innocenti,  o siano talmente brave, le imputate, da non lasciar alcuna traccia del loro delitto. Nessuna prova; nessuna confessione. D’altro canto colui che si professa colpevole, inascoltato, lui sì, avendo fatto trovare prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente riconducibile al delitto ed alla soppressione del cadavere. E non si pensi che Michele sia uno sprovveduto. Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro fatto senza la presenza dei parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il fatto suo. Ogni sua azione non può essere frutto di induzione ed istigazione di moglie e figlia tenuto conto che esse marciscono in galera da anni e quindi nessuna possibilità di regia. Ossequiosi e  servili, poi, sono state le parti civili. E non sono mancate i riporti ai luoghi comuni ed ai pregiudizi diffamatori alla comunità: “Delitto di mafia” ha sentenziato la difesa di Concetta Serrano; “Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona”. Così si è espresso con la sua arringa l’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Amara verità per chi come lui denuncia, sì, ma non fa niente per cambiare le cose e per chi come me, invece, porta avanti una battaglia ventennale che riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato”. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Non solo, pur avendo già segnalato ai precedenti Parlamenti, è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 10 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me, come presidente di una associazione antimafia, è stata impedita l’iscrizione del sodalizio per mancata costituzione dell’albo. Tornando al processo sono di tutt’altro tenore le difese degli imputati: “In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Tant’è che i pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Atti che arriveranno allo stesso ufficio della Procura che ne ha chiesto la trasmissione. Poi ci sono anche altri 3 avvocati, oltre a Vito Junior Russo, che, d'altronde, il 21 novembre 2011 sono stati assolti da Pompeo Carriere: Gianluca Mongelli accusato di tentato favoreggiamento personale insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina con il marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla giustizia e di soppressione di atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del foro di Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta invece il reato di infedele patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono stati giudicati e assolti con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno di reclusione per Emilia Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per Gianluca Mongelli. Non ci dimentichiamo poi che il processo ha altri tentacoli. Tra questi c'é quello che coinvolge Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che raccontò di aver visto, il 26 agosto 2010, Cosima intimare in strada a Sarah di salire in auto (dove c'era presumibilmente, per l'accusa, anche Sabrina), salvo poi riferire due giorni dopo che si era trattato di un sogno. C’è sua cognata Anna Scredo, moglie dell’imputato Antonio Colazzo, poi prosciolta dal Gup, c’è il suo amico  Michele Galasso, c’è il funzionario di banca Angelo Milizia. E che dire della ex psicologa del carcere di Taranto Dora Chiloiro, citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri. La stessa, all’udienza del 10 dicembre 2012, ha dichiarato di essere stata "imprecisa" nell' udienza preliminare del 7 novembre 2011, quando riferì di aver avuto numerosi colloqui in carcere con Michele Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo l'incidente probatorio del 19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di essere stato lui ad uccidere Sarah. Per questi motivi Chiloiro è stata già rinviata a giudizio per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni dell'udienza preliminare anche nel processo dinanzi alla Corte di assise.»

Da esperto dell’informazione cosa ha da contestare?

«E la stampa cosa fa? E’ sadica e cinica. Da bollino rosso sono tg e approfondimenti giornalistici: il Comitato Media e Minori e L’Agcom hanno «bocciato» soprattutto servizi e dibattiti sui delitti con vittime minorenni: preoccupante lo stile usato nel trattare i casi di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio ed Elisa Claps da Tg1 e Studio Aperto (sanzionati più volte); da censurare anche l’approccio di Chi l’ha visto? (Rai3) sull’omicidio Claps per le «immagini particolarmente impressionanti» o di Quarto grado (Rete4) per la «dettagliata galleria di casi criminosi». Il Comitato biasima la scelta di trattare crimini nella fascia protetta «spettacolarizzando la notizia» e «soffermandosi sugli aspetti più morbosi», come è accaduto nei contenitori pomeridiani delle principali reti. Violazioni sono state compiute da Pomeriggio Cinque e Domenica Cinque su Canale 5, e La vita in diretta (Rai1) dove si è giocato sull’«invasività e la ricerca di espressioni e filmati forti capaci di attirare l’attenzione dei telespettatori». Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi «Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Eppure c’è stato il coinvolgimento di Ilaria Cavo, giornalista di Mediaset, l’unica insieme a Maria Corbi de “La Stampa”, a raccontare in modo corretto ed imparziale la cronaca di un processo emblematico. Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. Decine di simili situazioni, nel suo libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più sconcertanti. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino ha fatto notificare l’avviso di chiusura delle indagini preliminari al 34enne di Ginosa Raffaele Calabrese, ingegnere, consulente della difesa di Sabrina Misseri, e alla giornalista di Matrix Ilaria Cavo. L’episodio in questione è quello avvenuto il 26 ottobre 2010, quando Calabrese avrebbe offerto ad alcuni giornalisti televisivi che stazionavano dinanzi al tribunale, alcune foto scattate nel garage della famiglia Misseri, quello che viene indicato negli atti ufficiali come il luogo del delitto di Sarah. Il giornalista del Tg2 Valerio Cataldi riuscì a registrare il colloquio con il consulente della difesa di Sabrina, rifiutando ovviamente ogni forma di trattativa economica. La stessa sera, quelle foto poi furono mandate in onda da Matrix. A Raffaele Calabrese il procuratore aggiunto Pietro Argentino contesta l’interferenza illecita nella vita privata dei Misseri perché «mediante l’uso di una macchina digitale, si procurava indebitamente immagini relative all’interno del «garage» dell’abitazione di Cosima Serrano e Michele Misseri, scattando almeno 16 foto delle quali tre le cedeva a Ilaria Cavo. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera». La giornalista Ilario Cavo è indagata invece per ricettazione in quanto «a scopo di profitto acquistava e, comunque, riceveva da Raffaele Calabrese le foto del garage di sicura provenienza delittuosa». E sul fronte dell’informazione, va segnalato che la Procura ha avviato accertamenti anche sull’intervista a Michele Misseri fatta in carcere il 13 febbraio 2011  dalla giornalista di Libero Cristiana Lodi che entrò nella casa circondariale come collaboratrice di un parlamentare del Pdl, la deputata del Pdl Melania Rizzoli De Nichilo. Per Ilaria Cavo e Raffaele Calabrese il giudice monocratico Ciro Fiore il 22 maggio 2012 ha dichiarato l’assoluzione. Calabrese ha chiesto il processo con rito abbreviato, la Cavo rito abbreviato condizionato all'audizione di un altro giornalista. E poi ancora c’è il caso di Fabrizio Corona, condannato a cinque anni di detenzione per estorsione ai danni del calciatore David Trezeguet. Il 2 luglio 2013 da detenuto dovrà presentarsi al Tribunale di Manduria con l’accusa di violazione di domicilio. La denuncia è stata sporta da Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi. La vicenda risale al 26 febbraio 2011, quando l’ex re dei paparazzi era entrato in casa della famiglia Scazzi passando da una finestra e spaventando la madre della ragazza. Nonostante le scuse alla donna, in televisione Corona ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse di essere rimasto nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una mezz’oretta, e che Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del fotografo era quello di realizzare delle interviste in esclusiva ai protagonisti della tragica vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la denuncia e, come disposto dal pm Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà presentarsi quest’estate al Tribunale di Manduria. Per l’accusa di violazione di domicilio, Fabrizio Corona rischia altri 3 anni di carcere. A proposito di interviste non autorizzate. Concetta Serrano, la mamma della 15enne Sarah Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile 2011 ha presentato una denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello Vinonuovo per la trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda venerdì 8. L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato denunciato ai carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una nuova puntata di Studio Aperto Live, lo spazio di approfondimento di Studio Aperto che su Italia 1 si occupa delle vicende di cronaca più attuali. Quindi alla luce delle nuove notizie legate alla richiesta del Dna per quattro persone implicate nel caso con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana per parlare con Concetta Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla madre di Sarah che però non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento dell’ultima puntata era ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce di Dna riaprono le indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il giornalista di Mediaset Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della Stazione di Avetrana. Subito sono arrivate le repliche di Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto, e Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i due hanno subito detto che quella realizzata da Vinonuovo non è un’intervista rubata, Toti dice: “Il cronista si è qualificato come tale, aveva il microfono in mano e accanto l’operatore con la telecamera in spalla. Le domande erano assolutamente rispettose: non c’era nulla che potesse ledere la dignità della madre di una vittima, anzi la signora Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo punto di vista. La conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè fraintendimento, nè sui contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non avremmo dovuto mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda dicendo: “L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un giornalista che si è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come dimostrano le immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a quello che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a nessuno il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla cronaca con la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i media siano con lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua nipote Sabrina Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode e di denunciare Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di Ilaria Cavo. Ilaria Cavo è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con un minimo di imparzialità. Ad Avetrana non c’è modo di palesare la verità nonostante la multa per 400 programmi tv che si sono occupati in maniera morbosa del caso di Avetrana. L’Agcom ha voluto porre un freno a questa continua ricerca di fare ascolti in televisione sfruttando il dolore delle persone ed ha comunicato all’Ordine dei giornalisti l’intenzione di multare 400 trasmissioni che si sono occupate del caso Scazzi violando le norme. Ma secondo il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino i giornalisti sono stati trattati come burattini da burattinai: “Seminavano tutto e tutto noi giornalisti mandavamo in onda o pubblicavamo sui giornali”

A questo punto cosa vorrebbe che si sapesse?

«Ora basta!!! Bisogna far conoscere la verità. La verità storica alternativa a quella mediatico-giudiziaria. Il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi non è contro i Misseri, ma contro Avetrana, anzi, contro il Sud Italia. Gelosia e Reputazione sono i traballanti moventi inquadrati da stampa e magistratura. La magistratura sin da subito è stata incapace di sbrogliare la matassa fino a quando la soluzione gli è stata offerta sul piatto d’argento proprio da Michele Misseri. Ed ancora si continua ad insinuare che Avetrana non ha collaborato. Ipotesi fomentate da giornalisti ignoranti e prezzolati da padroni senza scrupoli e dal finanziamento pubblico. Pennivendoli che alimentano stereotipi datati. Nel contesto territoriale (per loro omertoso e retrogrado) non emerge più il cafone con coppola e con lupara che per gelosia spara a destra ed a manca. Oggi ci rapportiamo con l’evoluzione del pregiudizio: donne baffute in nero nascoste da gonne lunghe e fazzoletto in testa che con il sangue lavano l’onta del tradimento e della maldicenza. Poco si parla dell’Avetrana tecnologica con i suoi giovani a navigare sul web ed a rapportarsi sui social network ed a passare il tempo libero fino a notte inoltrata nei Pub all’inglese maniere. No! Bisogna far immaginare Avetrana con i carretti trainati dai muli o meglio dagli asini di Martina Franca. Quante volte si è sentito nei salotti trash della tv italiana da improvvisati commentatori: “…non siamo a Milano o a Roma, siamo lì. Qui si parla di Avetrana, un piccolo paese del sud. Lì..un paese così…dove tutti si conoscono, dove tutti stanno a sparlare…un paese del profondo mezzogiorno. Mi sa tanto che quando si parla dei cervelli in fuga non ci si riferisce alle nostre eccellenze che sono costrette ad emigrare, ma ci si riferisca agli encefali fuggiti dai crani dei giornalisti che sono stati ospitati ad Avetrana, anziché cacciati così come hanno fatto a Brembate di Sopra. Giornalai, e non giornalisti, che per dare la loro verità sono stati pronti ad intervistare nullafacenti ed ubriaconi nei bar del paese. Nel film “Benvenuti al Sud” la frase ricorrente è che chi viene al sud piange due volte: nel venire e nell’andar via. Bisogna dire che, invece, è proprio certa stampa che fa venir da piangere, ma per la loro condizione professionale. Mi sa che fa bene Beppe Grillo a non voler rapportarsi con tutti loro, così come aveva ragione Malcom X. Disse Malcolm X, «Se non state attenti, e dico questo perché ho visto qualcuno di voi cascare nella trappola, se non state attenti finirete con l'odiare voi stessi e con l'amare il bianco che vi procura tanti guai. Se gli consentite di persuadervi, vi spingerà a credere che non è giusto usar violenza contro di lui quando lui la usa contro di voi. Se non state attenti i media vi faranno amare gli oppressori e odiare quelli che vengono oppressi. La stampa è capace di farvi amare gli assassini ed odiare le vittime». Giorgio Bocca (notoriamente antimeridionale) su “L’Espresso” se la prende anche con i giornalisti locali: «Ne esce male anche l'informazione, Avetrana è un villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere sono i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una minima ragione nella caotica e irragionevole vicenda.» Avetrana, invece, ha capito da subito che le luci della ribalta volevano un paese maledetto, omertoso. «Ma quale omertà, qui è il contrario, nessuno si fa i fatti suoi» dicono ora che il virtuale è più forte della realtà. Adesso che i programmi televisivi si sono inseguiti in una corvée instancabile e ormai quasi mancano le comparse, a Sabrina tocca apparire a reti unificate: piange a Matrix e nello stesso tempo è a Porta a porta con la riedizione di un suo intervento a La vita in diretta. La prima a capire che solo la tv poteva salvarla è stata la madre di Sarah, Concetta. Da subito ha intuito che spalancando la porta ai media avrebbe conosciuto la sorte di sua figlia. E così è stato. Sospira il procuratore capo di Taranto Francesco Sebastio: «Ditemi un momento nel quale non era in televisione a dirci come condurre le indagini, come dovevamo fare... Non si poteva neppure dire all’assassino: aspetta a confessare che finisca la trasmissione. Ne sarebbe iniziata un’altra». E per 42 giorni, come nota un investigatore, «lei davanti alle telecamere si è fatta sempre trovare pronta e in ordine». Senza un filo di ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi, come se ogni giorno si rifacesse l’henné». Una famiglia diabolica, i Misseri, decimata dalle accuse ed Avetrana, bollata come omertosa, bugiarda, depistante. Questo il ritratto che il pm del caso Sarah Scazzi ha tracciato in quattro giorni di requisitoria chiedendo l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, zia e cugina della vittima accusate di concorso in omicidio e sequestro di persona. Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima.  Ivano Russo in collegamento da Avetrana con “La Vita In Diretta” con Marco Liorni si è lamentato del fatto che lui ha rischiato di essere arrestato perché sospettato del delitto o comunque di essere reticente o falso, oggi verrebbe indagato, pur inquadrate le responsabilità del delitto, per essere stato reticente e falso. Il movente per i Pubblici Ministeri di Taranto? «La possibile rivelazione dei rapporti intimi con Ivano (amico delle due cugine) che avrebbe potuto compromettere l'immagine della famiglia Misseri in un piccolo centro provinciale come Avetrana». Come se la gente del piccolo centro come Avetrana non ha null’altro da fare che stare dietro alle vicende sessuali di una ragazza che non conosce e che non interessa conoscere tenuto conto di tutti i problemi che attanagliano i cittadini italiani. Naturalmente qui si parla di magistrati che, dai dati pubblici rilevabili da siti istituzionali, risultano essere anche loro del posto che degradano. Si parla  di BUCCOLIERO dott. Mariano Evangelista Nato a Sava il 7.4.1965 e di Argentino dott. Pietro di Torricella. Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il 7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»

Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?

«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità»,  rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia.  «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente  «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea  della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no?, cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole…..»

Va bene. Allora presenti lei Avetrana.

«Sorge su quella che era chiamata la “Via Sallentina”, Avetrana, l’antico tratto viario che in epoca messapica, e successivamente in quella romana, collegava Taranto, Manduria, Nardò, Leuca e Otranto. Con le sue 8.300 anime, il paese vanta origini antiche, ma sono in particolare le tracce di epoca romana a risaltare come il “canale romano”, che raccoglieva e faceva confluire le acque in quello naturale di San Martino. Sono numerose le ipotesi del suo toponimo, tra cui quella che lo fa derivare da “habet rana”, per via delle massiccia presenza di rane nella zona ricca di paludi o, ancora e forse più attendibile, l’ipotesi che risalga ad una distorsione di “terra veterana”, ovvero non coltivata. Certo è che Avetrana custodisce e mostra le sue vestigia con orgoglio a cominciare dal suo piccolo ma prezioso centro storico, nel quale ogni nobile e feudatario del suo tempo ha lasciato la propria firma: dai Pagano agli Albrizi fino agli Imperiale ed i Filo. Di quello che doveva essere un imponente castello si scorge oggi il torrione circolare e parte delle mura mentre i vezzi decorativi di alcuni palazzi come palazzo Torricelli e palazzo Imperiale, accanto alle architetture più modeste tra i viottoli del centro lasciano oggi intuire il potere della nobiltà nel piccolo e operoso borgo. Zona di grotte e depressioni carsiche dalle quali sono emersi anche resti del Neolitico, Avetrana, in epoche sicuramente più recenti, vanta un’ammirabile tradizione di resistenza: nel 1929 fu il centro di una rivolta dei contadini poi repressa dal regime fascista, mentre negli anni Ottanta si oppose strenuamente alla costruzione nel suo territorio di una centrale nucleare. Il paese dista dal mare appena quattro chilometri e dalla zona denominata “Urmo Belsito”, località marina abitata da moltissimi cittadini extraregionali e comunitari scelta da loro come dimora di relax, lo sguardo può spaziare dal mare all’orizzonte alla rigogliosa macchia mediterranea che la fa da padrone nell’entroterra. Il patrono di Avetrana è San Biagio e viene festeggiato il 29 aprile. Il comune dista 43 chilometri dal capoluogo,Taranto, e 37 chilometri da Lecce. Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della Banda della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi, professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice presidente della Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi, soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora. Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.»

La stampa. L’informazione cartacea e video come hanno riportato i fatti storici e giudiziari?

«Con la loro verità mediatica. Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, « Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Sono passate sotto silenzio le udienze dedicate agli imputati. Addirittura le tv locali, a turno, hanno ignorato l’evento. Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele Misseri. Solo la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli operatori dell’informazione. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si spengono, fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto che s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una sospetta concentrazione d’infortuni scuote il popolo dei media che ha preso domicilio ad Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola Sarah Scazzi. Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la peggio è quella dei giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro colleghi. Sono molti, anzi troppi i processi sotto la lente mediatica. Si parla troppo spesso di processo mediatico, di quanto possa influenzare quello giudiziario, soprattutto quando l'opinione pubblica non accetta i fatti e le sentenze. Il problema, secondo alcuni, è che anche nei processi si preferisce soffermarsi sugli aspetti scandalistici o curiosi delle vicende anziché addentrarsi sul merito dei reati. Il processo del terzo millennio si offre oramai senza veli allo sguardo mediatico che imbastisce processi paralleli fuori dalle aule di giustizia e dai suoi riti, i cui improvvisasti ed imperiti pubblici ministeri sono i giornalisti od i conduttori di trasmissioni trash tv ed i giudici sono i loro lettori o telespettatori, godenti peccatori delle altrui disgrazie. Nessuno spazio alla difesa dei malcapitati. Fa niente se poi i tapini sono prosciolti nei processi veri. Ha ragione Massimo Prati quando dice che questo fa capire in maniera netta come tanti nostri magistrati non sappiano, o per diversi motivi non vogliano, leggere allo stesso modo le “'tavole” dei codici penali e come tanti di loro si sentano ancora parte attiva di un'altra epoca storica. Fa capire come i nostri magistrati non siano stati preparati, da chi doveva insegnargli ed aiutarli mentalmente, ad entrare da uomini giusti negli anni duemila. Fa capire come siano rimasti ancorati agli albori della giustizia, a quando chi giudicava comminava pene in base alle possibilità economiche ed al ceto sociale. Nella Babilonia di quasi quattromila anni fa, durante il regno di Hammurabi, il povero, a parità di reato, era obbligato alla morte, mentre chi aveva possibilità economiche, per tornare un “uomo libero” si limitava a pagare un'ammenda. Nel basso Medioevo, nella futura italica terra, si procedeva con un trattamento simile, trattamento che teneva conto non solo dei beni posseduti, ma anche delle amicizie altolocate e del ruolo che il reo ricopriva nella sua comunità. Ad oggi nel terzo millennio pare proprio che nulla sia cambiato. Da anni la nostra “giustizia” è divisa in tronconi colorati. E sempre più spesso capiamo di avere a che fare con enormi disparità di trattamento. Già nel '71 con il film “In nome del popolo italiano” ci fu chi puntò il dito (Dino Risi) contro quei magistrati, allora idealisti e squattrinati, che abusavano del potere concesso loro dal popolo italiano. Qualcosa è cambiato da allora? Difficile rispondere sì, visto che fra il “certo colpevole” e chi si dichiara innocente la disparità di trattamento è enorme e tutta in favore del “certo colpevole”, visto che i trattamenti cambiano da procura a procura, da tribunale a tribunale, visto che con alcuni imputati c'è chi usa il guanto di velluto mentre, per reati simili se non identici, da altre parti c'è chi usa il pugno di ferro. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono rimasti quattro anni in carcere in attesa di un verdetto “giusto”. Sabrina Misseri e sua madre sono chiuse in galera da anni senza essere dichiarate colpevoli in modo definitivo. Sabrina Misseri è stata arrestata perché non ha ammesso di amare e di essere gelosa del “Delon di Avetrana”, perché non ha ritenuto di aver litigato con la cugina la sera precedente la scomparsa. Questo è bastato ad impedire si facesse un minimo di indagine che convalidasse i sospetti. Di logica le accuse, siano di estranei o di un “caro genitore”, vanno verificate prima di mandare i carabinieri ad eseguire un ordine di arresto... non si dovrebbe arrestare e sperare di trovar prove successivamente, si dovrebbero trovar prove e poi arrestare. Sua madre ha subìto la stessa sorte: ha seguito la figlia in carcere perché un fiorista l'ha sognata e perché c'è chi ha notato un'ombra grigia sfrecciare per Avetrana. Un sogno ed un'ombra possono giustificare il carcere in canili umani? Non inserirò altre storie di presunti colpevoli, arrestati e carcerati preventivamente e senza prove, basta cercare in internet per trovare migliaia di innocenti risarciti della reclusione ingiusta con soldi statali... e non con quelli privati di chi ha sbagliato a chiudere in carcere, senza avere prove, un incensurato. Rovinare la vita delle persone comuni è fin troppo facile, questo è quanto l'italiano, che non ha mai avuto guai con la giustizia, deve capire. Non deve credere di essere immune perché onesto, e non deve pensare che a lui ed ai suoi figli non capiterà mai quanto capitato ad altri. Lo sbaglio è sempre dietro l'angolo. Lo sa bene Giuseppe Gullotta, che di anni in galera ne ha fatti ventuno, compresi i preventivi, a causa delle torture riservate a chi lo ha accusato (poi impiccatosi in carcere seppure avesse un solo braccio). Ed anche se un domani il danno verrà scoperto e riparato, non ci sarà mai un risarcimento che possa compensare la psiche, che possa riportare in vita i genitori morti dal dolore, che possa ridare la “salute” alle mogli che per la vergogna e il dispiacere sono invecchiate anzitempo (sempre siano restate accanto ad un marito che non c'era), che possa far tornare l'infanzia e l'adolescenza nei figli cresciuti senza un padre accanto, cresciuti col marchio dell'infamia che porta il dover parlare di un genitore non presente perché in carcere. Non inserirò altre vergogne italiche, non le inserirò perché anche se narrassi mille e una storia, nulla cambierebbe e nessuno modificherebbe il proprio modo di operare e di giudicare gli altri, siano essi giudici o pubblico di talk show. Per questo servirà tempo e una buona capacità di insegnamento da parte di chi formerà i nuovi giudici ed i nuovi magistrati. Ma non c'è da stupirsi, in fondo la nostra giustizia rispecchia la maggioranza del popolo italiano... quella maggioranza che succhia la notizia senza accorgersi che il gusto lascia l'amaro in bocca. A un mese dalla sentenza di primo grado sull'omicidio di Avetrana, Michele Misseri torna ad autoaccusarsi. Ospite in collegamento di Barbara D'Urso a Domenica Live, zio Michele ha nuovamente confessato la sua colpevolezza scagionando la moglie Cosima e la figlia Sabrina. “Loro sono innocenti – ha ripetuto più volte Misseri – io sono l’assassino, ma nessuno mi vuole credere. Ho i rimorsi e devo pagare per quello che ho fatto.” L'uomo ha poi minacciato il suicidio se la moglie e la nipote verranno condannate in via definitiva. Per chi se lo fosse perso: Barbara D'Urso e le sue faccette il 3 marzo 2013 hanno intervistato Michele Misseri a Domenica Live su Canale 5. Tempo concesso all'occultatore del cadavere di Sarah Scazzi e reo confesso del delitto: un'ora circa, nemmeno fosse Silvio Berlusconi. Senza lasciare nulla al caso, la D'Urso si è vestita a righe per l'occasione e lo ha intervistato per la seconda volta nel giro di pochi mesi (la prima era stata a dicembre 2012); da Avetrana, collegata in diretta, Ilaria Cavo. Perché a Michele Misseri, nello spazio domenicale che un tempo era rivolto alle famiglie, si concede la diretta. Ma lo scandalo è la piega che prendono certe trasmissioni trash e disinformative: Quarto Grado, La Vita in Diretta, Porta a Porta, Chi la Visto? ecc. E' interessante notare l'evoluzione della figura di Michele Misseri; all'inizio era lo “zio orco”, poi è diventato - per i giornalisti - la povera vittima di moglie e figlia, e allora la sua immagine è stata in parte ripulita. Così per i tg è tornato semplicemente ad essere un uomo: lo zio Michele. Contemporaneamente il processo sull'omicidio di Avetrana si era spostato dalle aule giudiziarie in televisione; la sovraesposizione delle persone coinvolte era stata tale da renderli personaggi televisivi, Sabrina e Michele Misseri in particolare. La voglia di sangue del pubblico. Il Colosseo come gli studi televisivi. La parzialità dei conduttori è spudorata e non fanno niente affinchè non prevalga la voglia di giustizialismo a danno di Sabrina Misseri e Cosima Serrano: Mara Venier e tutti gli altri, compreso l’ipocrisia di Barbara D’Urso che si dichiara  “vicina a Concetta e alla sua battaglia”. Mai nessuno di loro, però, a raccontare la verità. La verità storica ed incontestabile è che il processo è ancora al primo grado, manca il certo appello e la Cassazione e, cosa che rimarca un certo senso di malessere nei confronti di certi magistrati, è che Michele Misseri si dichiara colpevole ma è libero, mentre la moglie e la figlia che si professano innocenti sono in carcere. Si dichiarano colpevoli l’uno ed innocenti le altre da sempre e con coerenza, come se fossero criminali esperti ed incalliti. Non solo: prima la D'Urso lo invita per impennare lo share (e per cos'altro sennò?), poi lo cazzia per quello che ha fatto, (confessare il delitto che secondo lei non ha commesso o aver commesso il delitto?). “I padri non diventano assassini” dice la D’Urso, giusto per appagare le voglie del pubblico guardone e schierarsi dalla parte di chi pensa che Michele menta per coprire Sabrina.»

La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, come si è comportata?

«Comunque, per colpevoli che possano essere agli occhi dei giustizialisti, è pur vero che la colpevolezza va provata e nessuno, dico nessuno, può essere condannato senza prove che adducano ad una colpa al di là di ogni ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener ferma la sua posizione, senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e poco religiosi. Eppure nessuno, oltre al sottoscritto, osa parlare contro il sentimento comune, se non Ilaria Cavo con i suoi atteggiamenti, la giornalista Mediaset indagata proprio dalla procura di Taranto, e Maria Corbi con i suoi articoli, giornalista del “La Stampa” di Torino. La nostra colpa è vedere le cose con imparzialità senza essere genuflessi e succubi ai magistrati tarantini. Il processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana. Alla richiesta da parte di Argentino e Buccoliero della condanna per tutti gli imputati, specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre Cosima Serrano, tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Si sentono ancora gli applausi registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco Liorni e di “Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che hanno testimoniato contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per falsa testimonianza. L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di vendetta pretende la tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un efferato delitto. A scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a precisare che si può essere d’accordo, ma non bisogna mai emettere giudizi affrettati e sommari, prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto conto che nei processi italiani, fino a che non tocchi ai difensori la parola, hanno voce solo i pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti approssimativi e parziali. Per chi conosce bene il sistema della giustizia in Italia ed i magistrati italiani prima di emettere sentenze popolari bisogna essere cauti e con cognizione piena di causa. La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, ha accolto le richieste di ergastolo con mezza soddisfazione. «Sono cose che non fanno gioire nessuno e che non servono a ridare la vita strappata di una bambina. Chi uccide merita l'ergastolo - ha dichiarato la mamma di Sarah, Concetta - è stato il processo delle menzogne ed è anche giusto che coloro che hanno detto tutte queste menzogne paghino per quello che hanno detto. Non hanno avuto pietà per una bambina che stava anche piangendo». «Ho sempre detto che il movente della gelosia di Ivano non mi convinceva, che c'era qualcosa di losco e quello che è emerso ieri lo conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi. Concetta ha fatto riferimento, con quel 'losco', alle abitudini a sfondo sessuale che aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come fare spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente anche Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa facesse una ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed avere orari di rientro non compatibili per una ragazza della sua età. Concetta ha aggiunto che «è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e abbia partecipato al delitto, secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di altra tradizione, di altra generazione e non accettava questo stile di vita di Sabrina». «Non è vero, come hanno detto – ha aggiunto – che io odio Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro ce l’abbiano ancora con Sarah e continuino a dire che sono innocenti nonostante l'evidenza».» Un giornalista chiede a Concetta: “Signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta?” «Ho trovato eccellente la presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per questo». Critiche alla giustizia in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati, che poi non sono altro che il corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del colpevole e la pena dura e certa da far scontare in canili umani per soddisfare il bisogno di vendetta e non di giustizia, pare che sia l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sui magistrati italiani non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo non traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usati da quest’ultime come strumento per una lotta dura e costante mirante alla ricerca della verità. «Ci sono in Italia "inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i sequestri dei bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno mai trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano, rispettivamente la madre di Denise Pipitone  – scomparsa a Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008 le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece quei due bambini sono lassù - dice Maria Celentano per attaccare investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave nelle indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo scoperto una cosa allucinante. Ci sarebbe stata la risoluzione del caso di Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano le competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise - possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti non si trovano. Non so perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia - aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di più per loro». La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia.  Il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Tutto quello che non si osa dire”, fa parte integrante della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” composta da 50 opere trattanti, appunto, la sociologia storica, di cui io sono profondo cultore: ossia rappresentare e studiare il presente, rapportandolo al passato e riportandolo al futuro. Il libro su Sarah Scazzi è la vicenda soggettiva ed oggettiva che rappresenta l’Italia. Sarah Scazzi può essere Yara Gambirasio, Elisa Claps, Ciccio e Tore, Denise Pipitone, e tutte quelle vicende misteriose che hanno interessato i media. Se l’Italia dei media ha giudicato Avetrana, influenzando il pensiero dei più, un Avetranese giudica l’Italia dei media e le sue patologie: omertà, censura, disinformazione. E lo fa con una certa e non indifferente perizia, adottando un sistema inoppugnabile. Non riportare le proprie opinioni, che non interessano a nessuno ed a scanso di accuse di mitomania o pazzia, ma affidarsi ai fatti certi ed incontestabili, citandone la fonte. Il libro work in progress aggiornato periodicamente come tutti gli altri libri si può trovare da leggere gratuitamente sul sito dell’associazione di cui sono presidente nazionale www.controtuttelemafie.it in cui vi sono pure i filmati di riferimento, ovvero a minimo costo su Google libri, su Amazon per l’E-Book o su Lulu per il cartaceo.»

E sui magistrati in generale cosa ha da dire?

«Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati? Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa, avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro son loro e noi “non siamo un c….”. Le strade italiane, oramai, sono diventate molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip, i Gup e i Procuratori Capo? I giudici monocratici o riuniti in assise. Neanche per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano. I tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un emerito c…., e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che - di fatto - potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai chiamati a rispondere in solido (pecuniariamente, moralmente, penalmente) dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli, sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio. Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere. Il rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano al contrario.»

Che rapporto ha lei con i magistrati locali e se ha fiducia nel loro operato, tenendo conto anche dell’esito del processo sul delitto di Sarah Scazzi?

«C’E’ SEMPRE UN GIUDICE A BERLINO. IL FUTURO AFFIDATO ALLA SORTE PER CHI RACCONTA LA VITA SENZA PARAOCCHI. La condanna o l’assoluzione affidata alla fortuna per la quale ti viene assegnato un magistrato dedito alla giustizia e non al culto della propria personalità. Quando, per poter esercitare il diritto di critica e di cronaca, senza pagare fio, ti tocca essere giudicato dal giusto giudice assegnato per sorte (e non per normalità come dovrebbe essere). «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Questa premessa per raccontare le mie e l’altrui vicissitudini giudiziarie per aver scritto la verità  e l’esito differenziato dei processi  in virtù del giudice che ha deciso sulle cause.  Per raccontare come può cambiare il senso della vita dell’imputato le cui sorti sono pendenti dal volere  di una persona,  il cui giudizio può essere falsato da un criticabile modus operandi. E’ un giorno come gli altri in quel Tribunale. Tribunale di Manduria, sezione staccata di Taranto. Ma è come se fossi in qualunque Tribunale d’Italia. E’ il 21 febbraio 2013, ma può essere qualsiasi altro giorno dell’anno che fu o che sarà. Sono lì da imputato per l’ennesimo processo per diffamazione a mezzo stampa, uno dei tanti senza soluzione di continuità. E’ il prezzo da pagare per non essere pecora in un immenso gregge. In attesa del mio turno, tra i tanti procedimenti chiamati, seguo il processo a carico dei dirigenti della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana ed a carico di un noto politico dello stesso paese, la cui moglie si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati. Sono molteplici i reati contestati, in riferimento ad un assegno incassato ante datato e firmato per somme di denaro riferibili ad un defunto. La stessa banca è coinvolta, tramite il suo funzionario, anche nella vicenda di Sarah Scazzi. Nel proseguo dei procedimenti penali sento il nome dell’imputato di un altro processo, Giovanni Caforio, anche lui perseguito per diffamazione a mezzo stampa. Anche lui una mosca bianca nel sistema disinformativo locale. Accusato e giudicato per aver scritto sul suo giornale di Sava, Viva Voce, il resoconto critico della mal amministrazione cittadina a vantaggio personale, facendo riferimento ad un procedimento penale a carico di un amministratore, avvocato. L’avvocato Romoaldo  Claudio Leone, sentendosi diffamato, ha querelato il direttore del giornale. Nel processo è stato difeso come parte civile dall’avv. Gianluigi De Donno. Il giudice titolare Rita Romano non è lei a decidere ed allora in quel processo accade una cosa che non ti aspetti: il suo sostituto, il giudice togato Simone Orazio, dopo un’attenta ed approfondita analisi della questione giuridica, assolve l’imputato, visibilmente commosso. Strano quel che è successo in quel giorno in quell’aula. In precedenti udienze il direttore Giovanni Caforio era già stato più volte condannato per lo stesso reato, ma per altri fatti, proprio dal Giudice Rita Romano. Sentenze naturalmente appellate. Per la Corte di Appello di Taranto, che assolve Giovanni Caforio perché il fatto non costituisce reato, è da assolvere "perchè nella critica, la verità esprime un giudizio che, in quanto tale, è sì, l’elaborazione soggettiva di un avvenimento ma non può del tutto essere scollegata dalla realtà". Ancora mi rimbomba in testa quel che accadde il 12 luglio 2012: assolto con la formula più ampia nel Tribunale di Manduria dove è titolare Rita Romano, ma da lei non giudicato: per non aver commesso il fatto. Assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. Da rimarcare è il fatto che tutte, dico tutte, le mie denunce od esposti presentati agli organi competenti sono state regolarmente insabbiati: archiviati o di cui non si è più avuto notizia pur chiedendo esplicitamente l’esito. Far passare per mitomane o pazzo chi è controcorrente è la prassi, per denigrarne nome ed attività. Nonostante non vi sia mai stata condanna per calunnia.»

Quindi ritiene che, nonostante la sua opera moralizzatrice, alcuni magistrati del posto la perseguitano?

« Non  dimentico il 18 aprile 2013. Due processi a Manduria, sezione staccata del tribunale di Taranto. In quei processi scomodi, che nessuno vuol fare, più giudici togati di Taranto si avvicendano: Rita Romano, Vilma Gilli, Maria Christina De Tommasi; oltre a 2 giudici onorari: Frida Mazzuti e Giovanni Pomarico. Processi a mio carico costruiti ad arte senza che vi sia stata la querela necessaria o la denuncia di attivazione. Alla prima giudice, Rita Romano, si è presentata ricusazione per la denuncia presentata contro di lei. In seguito di ciò l’avv. Gianluigi De Donno rinuncia alla mia difesa. Ha avuto le stesse remore di Nicola Marseglia nel momento in cui Franco Coppi ha presentato istanza di astensione alla Misserini ed alla Trunfio, i giudici di Sabrina Misseri. Per il primo sono accusato di calunnia in concorso con mia sorella, per aver presentato una denuncia contro un sinistro truffa, in cui era coinvolta un’avvocatessa stimata dai magistrati di Taranto, compreso  un sostituto procuratore della Repubblica dello stesso Foro in cui esercitava, e sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato un esposto penale ed amministrativo a varie istituzioni denunciando questo ed altri casi di malagiustizia. Per l’altro processo sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato una denuncia contro le perizie false in Tribunale, da chi, Giuseppe Dimitri, mio cliente che ho difeso da avvocato fino all’estremo, mancava di legittimazione a farlo, in quanto il presunto diffamato era altra persona, cioè il denunciato. In udienza il danneggiato ha confermato che non ha mai presentato querela contro di me, né aveva avuto mai intenzione di farlo. Per quella denuncia il giudice Rita Romano ha condannato per calunnia Dimitri, nonostante il Consulente Tecnico del Tribunale, proprio per il reato di cui era accusato, era già stato depennato dalla lista tribunalizia dei CTU. Nel primo processo mi si accusa di aver calunniato, in concorso con mia sorella, un avvocato, Nadia Cavallo, accusandola, sapendola innocente, di aver chiesto ed ottenuto illecitamente i danni per un sinistro truffa e con testimoni falsi in suo atto di citazione che indicava come responsabile esclusiva Monica Giangrande. In effetti Monica Giangrande non era responsabile di quel sinistro. Eppure è stata condannata dal giudice Rita Romano. La condanna per calunnia a carico di mia sorella inopinatamente non è stata appellata dai suoi avvocati, pur sussistendone i validi motivi. La giudice, Rita Romano, è stata da me denunciata, così come Salvatore Cosentino, sostituto procuratore a Taranto e poi trasferito a Locri . Salvatore Cosentino, come tutti i magistrati di Taranto aveva molta stima per Nadia Cavallo. Rita Romano ha condannato mia sorella pur indicando in sentenza che altra persona era responsabile esclusiva del sinistro, così come mia sorella andava attestando. Va da sé che tale sentenza contenente illogicità e contraddizioni sarebbe dovuta essere appellata. Salvatore Cosentino era il Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione della denuncia contro la Procura di Taranto. Procura che ha archiviato le denunce presentate riguardo proprio a quel sinistro truffa. I processi civili inerenti il sinistro sono stati tutti soccombenti, nonostante le prove indicassero palesemente il contrario. La Nadia Cavallo ha ottenuto il risarcimento danni del sinistro dall’assicurazione, oltre che 25,000 mila euro di danni morali da Monica Giangrande proprio per la condanna di calunnia. Per questo procedimento la mia posizione sin dall’inizio è strana. Non sono convocato nella prima udienza preliminare con mia sorella, quindi è nullo il mio rinvio a giudizio. Dopo anni, nella seconda udienza preliminare, il GUP chiede al PM gli atti di prova a mio carico, in tale sede mancanti. Alla risposta negativa gli concede ulteriore termine di 6 mesi per trovare la prova della mia colpa, al termine dei quali, durante la terza udienza preliminare vi è comunque il Rinvio a Giudizio. All’ultima giudice devo provare se il fatto sussiste, se l’ho commesso, se è previsto come reato. Ebbene. Io, come mia sorella sapevamo benissimo che l’avvocato era colpevole: perché non era attendibile la versione fornita dell’evento. Ma questo non lo dicevamo solo noi, io e mia sorella, ma anche l’avvocato della compagnia assicurativa costituita nei vari giudizi. Eppure questi non è stato perseguito dello stesso reato. Per la compagnia non era verosimile il fatto che un signore che tocca lo sportello di un’auto non identificata e condotta da signora diversa dalla Monica Giangrande, si alzi e se ne vada, per poi chiamare un’ambulanza per farsi portare a casa e non in ospedale. Eppure negli atti di citazione non viene chiamata in causa la vera responsabile del presunto sinistro ed il vero proprietario dell’auto. Ciò nonostante si conoscesse il responsabile esclusivo del sinistro, veniva chiamata in causa mia sorella che acclamava a gran voce la sua estraneità. Ma il fatto eclatante è che sono stato accusato di calunnia io che quella denuncia non l’ho mai presentata, né ho indotto mia sorella a farlo, non essendo il suo avvocato. Sono stato accusato di calunnia io, che se l’avessi fatto, sapevo benissimo che la denuncia era fondata. Per quanto riguarda la seconda accusa, di diffamazione a mezzo stampa, c’è da dire che il sito web, su cui vi era l’articolo che faceva riferimento ai fatti, non era mio, né l’articolo era a me riferibile. Io per scrivere le mie inchieste ho moltissimi miei canali di divulgazione facilmente riconducibili a me e di quelli io ne rispondo. Né tantomeno la Polizia Postale si è prodigata sotto gli ordini del PM di sapere dall’azienda web provider che gestisce il server di pubblicazione chi fosse il vero proprietario del sito web e quindi responsabile delle pubblicazioni. E bene sapere, comunque, al di là di questo, che è lecita la pubblicazione delle denunce penali, così come stabilito dalla Corte di Cassazione. Per questi processi, come volevasi dimostrare, con il giusto giudice l’esito è scontato: Assoluzione piena da parte del Giudice Togato Maria Christina De Tommasi e da parte del GOT Giovanni Pomarico. Anzi, meglio ancora. Giovanni Pomarico, nel processo della presunta diffamazione per le perizie false, non ha fatto altro che registrare la remissione della querela delle parti. Di chi non aveva legittimazione a presentarla contro di me e di chi addirittura non l’aveva presentata affatto. Con il giudice naturale, se non vi fosse stata la ricusazione, sarebbe stata condanna certa. Quanto successo a Caforio mi conforta di un fatto: aver adottato i rimedi giusti per potermi salvare da sicura condanna. Il giudice titolare Rita romano è stata da me denunciata per fatti attinenti l’attività giudiziaria, scaturenti condanne per me, che nel proseguo si sono estinti, e per i miei familiari, e per tale denuncia è stata ricusata. Le ricusazioni presentate contro il giudice nei successivi processi che mi riguardavano, ha permesso a me di cambiare il mio destino e comunque di essere giudicato da giudici diversi e per gli effetti di essere dichiarato assolto. Per le ricusazioni presentate per palese mio interesse, però, lo stesso avvocato Gianluigi De Donno, mio difensore, ha rimesso il suo mandato. Motivo: la Ricusazione non si doveva fare. C’è da sottolineare che successivamente il Giudice Rita Romano, ogni qualvolta era investita dei miei procedimenti,  si asteneva,  tacendo della mia denuncia contro di lei, non mancando, però, di sottolineare ad alta voce nelle udienze affollate che l’astensione era dovuta al fatto che io ero stato da lei denunciato per calunnia. Denuncia che avrebbe scaturito un procedimento, di cui io non avevo avuto notizia. Non solo. Il 18 febbraio 2013 il Pm Ida Perrone, sostituta di Pietro Argentino (entrambi denunciati a Potenza) nella sua requisitoria in un procedimento per il reato di usura a carico di un Giangrande (poi non condannato) ha pensato di dichiarare: «i Giangrande sono ben noti in Avetrana per essere considerati usurai e per aver io stessa trattato alcuni procedimenti». In quello stesso collegio giudicante la medesima Rita Romano ha dovuto astenersi per grave inimicizia con il sottoscritto per i suddetti motivi riferiti. Le stesse affermazioni diffamatorie sono state proferite in altro procedimento penale in sede di conclusioni dall’avvocato Pasquale De Laurentiis, difensore di un individuo giudicato e condannato proprio per diffamazione in udienza ed anche lui per aver pronunciato proprio la stessa frase. Evidentemente questi signori lo possono fare, legittimati a farlo dal loro ruolo ed agevolati dal farlo da chi in toga lo permette, senza alcun controllo alcuno, tanto meno se le vittime in tale sede non possono alcunchè obbiettare, né tali dichiarazioni offensive, denigratorie e diffamatorie rese in udienza, vengono verbalizzate dai cancellieri per poter querelare i responsabili, sempre che si trovi un loro collega disposto a perseguirli. E’ chiaro che i magistrati e gli avvocati di Taranto e provincia hanno il dente avvelenato contro di me. L’intento è colpire i Giangrande per colpire il Giangrande, ossia me. Ma una cosa è certa. In Avetrana vi sono centinaia di persone con il cognome Giangrande. Nessuno di loro è stato mai condannato in via definitiva per il reato di usura. Quindi nulla si può dire sul nome Giangrande, ne tanto meno si può dire qualcosa su di me, Antonio Giangrande, che, oltretutto, sono il presidente nazionale proprio di una associazione antiracket ed antiusura, il quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura bancaria e l’usura di Stato. E’ quello che a Taranto è stato il primo ad attivarsi contro le bufale dei titoli MyWay e 4you della Banca 121 poi Banca Monte Paschi di Siena. Quello che ha lottato a tutela degli incapaci e delle perizie false. Quello che ha denunciato i concorsi pubblici truccati e i sinistri stradali falsi. Denunce regolarmente archiviate. Certo è che io, sì, invece, ho scritto libri sui miei detrattori. Specialmente quelli operanti sul foro di Taranto. Che sia per questo il motivo di tanto astio? Ed è questo il motivo che non vogliono che faccia l’avvocato e da decenni non mi abilitano alla professione forense? Ed è questo il modo di collaborare con chi ha il coraggio di mettersi contro la mafia e di affermare che comunque la mafia vien dall’alto e per gli effetti aver denunciato le malefatte dei poteri forti e presentato altresì a Potenza le denunce contro i magistrati di Taranto, che tra l’altro si son archiviati una denuncia a loro carico anziché girarla proprio a Potenza? Per questo forse non vi è alcuna collaborazione istituzionale e sostegno morale e finanziario, per il modo di pormi nei confronti dei poteri forti? Ed è per tutto questo che i loro amici giornalisti ignorano e denigrano me così come fanno con Beppe Grillo?»

Lei ha altri esempi di contrastanti giudizi riferibili all’attività dell’informazione?

«Certo. Il 21 febbraio 2013, un altro fatto. Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e 12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto di Tele Rama, a sua volta protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. La stessa sorte non è toccata per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e, nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze dell’ordine per esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la diffusione di alcune parti del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di archiviazione – , nel quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’ scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le immagini del corpo nudo della vittima.  Il giudice, nel disporre l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a mezzo stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è “pacifica la sussistenza dei requisiti della verità dei fatti rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito della continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare il comune sentimento della morale”. L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il gup di Perugia ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati (oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per sostenere l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo le conclusioni della procura.»

Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana funziona così, scrive Luca su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi che avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti incredibili: lo scorso gennaio, la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine. Perché la giustizia italiana è in tilt? «Perché le regole del nostro processo sono farraginose e insopportabilmente burocratiche. Perché, come in tutte le altre professioni, ci sono magistrati che lavorano il giusto e altri che lavorano troppo poco, finendo per ingolfare i tribunali; e poi si perde un sacco di tempo in procedure inutili », ci dice l’avvocato Nino Marazzita, esimio penalista, veterano di casi complessi come quello Moro e Pasolini. «Un esempio? La cosiddetta generalizzazione dei testimoni (obbligatoria da noi, ma inesistente in altri Paesi, come l’Inghilterra) che prima di dire in tribunale quello che sanno devono rispondere a domande del tipo: come si chiama? Quando è nato? Dove abita? Che lavoro fa? Eccetera eccetera. Totale: dieci minuti, in media, persi nei preliminari della testimonianza e cinque pagine almeno di verbale. Moltiplichiamo questi dati per le circa 3 milioni e 300 mila cause penali, ognuna delle quali ha in media cinque testimoni, e scopriremo che la “generalizzazione” ci costa 82 milioni e 5 0 0 mila pagine in u tili e 2.750.000 ore perse ogni anno». E poi c’è il problema delle indagini, troppo spesso sbagliate. «In Inghilterra, è dal 1890 che esistono manuali che spiegano come sterilizzare la scena di un delitto per evitare l’inquinamento delle prove», spiega Marazzita. «Da noi, invece, funziona ancora oggi tutto alla carlona. Ecco perché molte, troppe sentenze di primo grado vengono rovesciate in appello oppure in Cassazione». Sul banco degli imputati c’è il principe delle prove: il test del Dna. «E proprio così», spiega Marazzita. «Anche perché da noi si usa una tecnologia ormai datata che fornisce il risultato, spesso non risolutivo, in 40 giorni, mentre negli Stati Uniti bastano 2 ore e 15 minuti per avere delle certezze scientifiche molto più affidabili. Ecco perché Oltreoceano ci sono magistrati che risolvono, dopo decenni, i cosiddetti coldcase, mentre da noi si impasticciano anche le indagini più lineari o si creano casi spesso grotteschi». Tutto è relativo. C’è da chiedersi, perciò, con che stato d’animo, Alberto Stasi – unico indagato per l’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco – viva il ricorso in Cassazione (udienza, il 5 aprile) del Procuratore generale di Milano. Sottoposto a un provvedimento di fermo il 24 settembre del 2007, è stato liberato per l’insussistenza di elementi contro di lui quattro giorni dopo; assolto in primo grado; assolto in Corte d’appello con motivazioni durissime nei confronti dell’accusa, che, scrivono i giudici, delinea «un gioco di variabili multiple, di probabilità assolutamente caotiche e non solidali». «Confidiamo nella fine di questa odissea», ci dice l’avvocato Angelo Giarda, difensore di Stasi. «Certo è che, dopo tre sentenze uniformi, ci potevano risparmiare questo ulteriore passaggio. Alberto è vittima di una persecuzione dei pubblici ministeri». Morale della favola: non c’è un colpevole (e non ci sarà mai) per il delitto di Garlasco; Alberto Stasi ha bruciato quasi sei anni della sua vita; la sua famiglia ha speso una montagna di soldi per difenderlo. E previsto un indennizzo? «Ovviamente no», dice l ’avvocato Giarda. «Il codice non lo prevede perché costerebbe troppo allo Stato, il quale non chiederà nemmeno scusa». Il caso di Elisa caso di Elisa Claps è emblematico di quasi tutti i mali della giustizia italiana. «La Polizia aveva risolto il delitto poche ore dopo», ci dice l’avvocato Giuliana Scarpetta, legale della famiglia Claps. «Avevano messo nel mirino Danilo Restivo chiedendo il sequestro e l’analisi dei suoi abiti insanguinati: la verità sarebbe venuta a galla. Ma il magistrato si rifiutò. Ecco perché si sono persi 17 anni. Ora vogliamo chiarire ogni aspetto oscuro, sapere i nomi di chi ha coperto l’assassino. Noi non ci arrendiamo». La famiglia di Yara, invece, sembra prossima a gettare la spugna. «A quasi tre anni dal l’assassin io del la ragazzina e per lo stato delle indagini», ci dice l’avvocato Enrico Pelillo, legale della famiglia Gambirasio, «si può ragionevolmente sospettare che non ci sarà mai un processo». L’ennesimo delitto senza colpevole; l’ennesima sconfitta della Repubblica italiana.

Il processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana. Alla richiesta della condanna per tutti gli imputati, specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre Cosima Serrano tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Questi sono gli applausi registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco Liorni e di “Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che hanno testimoniato contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per falsa testimonianza. L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di vendetta pretende la tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un efferato delitto. A scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a precisare che si può essere d’accordo ma non bisogna mai emettere giudizi affrettati e sommari, prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto conto che nei processi italiani fino a che non tocchi ai difensori la parola hanno voce solo i pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti approssimativi e parziali. Per chi conosce bene il sistema della giustizia in Italia ed i magistrati italiani prima di emettere sentenze popolari bisogna essere cauti e con cognizione piena di causa. La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, ha accolto le richieste di ergastolo con mezza soddisfazione. «Sono cose che non fanno gioire nessuno e che non servono a ridare la vita strappata di una bambina. Chi uccide merita l'ergastolo - ha dichiarato la mamma di Sarah, Concetta - è stato il processo delle menzogne ed è anche giusto che coloro che hanno detto tutte queste menzogne paghino per quello che hanno detto. Non hanno avuto pietà per una bambina che stava anche piangendo». «Ho sempre detto che il movente della gelosia di Ivano non mi convinceva, che c'era qualcosa di losco e quello che è emerso ieri lo conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi. Concetta ha fatto riferimento, con quel 'losco', alle abitudini a sfondo sessuale che aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come fare spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente anche Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa facesse una ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed avere orari di rientro non compatibili per una ragazza della sua età. Concetta ha aggiunto che «è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e abbia partecipato al delitto, secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di altra tradizione, di altra generazione e non accettava questo stile di vita di Sabrina». «Non è vero, come hanno detto – ha aggiunto – che io odio Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro ce l’abbiano ancora con Sarah e continuino a dire che sono innocenti nonostante l'evidenza».

Signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta? «Ho trovato eccellente la presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per questo».

Critiche alla giustizia in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati, che poi sono il corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del colpevole pare che sia l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sulla giustizia italiana non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo non traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usati come strumento per una lotta dura e costante mirante alla ricerca della verità. Un testimone il 26 febbraio 2013 ha smentito Jessica Pulizzi, imputata del sequestro della sorellastra Denise Pipitone scomparsa da Mazara del Vallo a Trapani l’1 settembre 2004 quando aveva meno di quattro anni. La venticinquenne aveva dichiarato che la mattina della scomparsa, tra le 8.30 e le 9, era andata in un’officina meccanica per una riparazione. Oggi davanti ai giudici del tribunale, Stefano Di Bona, titolare della concessionaria Aprilia dove, nel maggio 2004, Jessica acquistò un ciclomotore Scarabeo 50, ha detto che “non risulta che l’1 settembre 2004 ci siano stati interventi nell’officina convenzionata per conto della Pulizzi ed essendo il mezzo ancora in garanzia non poteva rivolgersi ad altre officine, a meno che non volesse pagare per l’intervento”. E’ stato, poi, ascoltato anche il contitolare dell’officina convenzionata con il concessionario Aprilia, Giovanni Rallo, che ha detto che Jessica si recò in officina per il “tagliando” nel luglio del 2004. In apertura di udienza ha deposto Carla Ciriaco, il perito nominato dal Tribunale per la trascrizione dell’intercettazione ambientale effettuata il 24 novembre 2004 sullo scooter dell’imputata che ha detto: «Sono passati 42 secondi dal momento in cui si spegne il motore dello scooter di Jessica (parcheggiato sul marciapiedi di via Pirandello, davanti l’abitazione della ragazza) fino a quando si sentono due voci maschili. Una, piu’ vicina, dice: “Va pigghia a Denise. Ma Peppe chi ti rissi? Ma dunni l’ha purtari?” (Vai a prendere Denise, ma Peppe che ti ha detto, ma dove la devo portare?). L’altro uomo risponde: “Fora” (Fuori)». Furono, poi, interrogati dalla polizia tredici persone che avevano figlie che si chiamavano Denise. Ma lo spunto investigativo non ebbe seguito. La madre di Denise, Piera Maggio dice che «tutti i testimoni chiamati in causa da Jessica Pulizzi per la ricostruzione dei suoi movimenti nella giornata del primo settembre 2004 hanno fatto crollare il castello di sabbia degli alibi che si era costruita. E oggi è cascata anche la sua ultima carta. Abbiamo avuto la prova in assoluto che quanto abbiamo sempre detto su Jessica: sulla sua posizione bisognava prestare attenzione da subito. Quanto emerso oggi – aggiunge – è anche una prova in più per dire che Denise è viva, come ho sempre sostenuto. Anche perchè non c’è stato mai alcun elemento che provi il contrario. Se il 24 novembre 2004, infatti, si parla di uno spostamento di una bambina, e non abbiamo dubbi sul fatto che si parlasse di Denise nel dialogo intercettato, adesso c’è  anche l’elemento in più costituito da questo “fora”, e cioè fuori, in risposta a chi chiede “ma dunni l’ha purtari?”. Ma chi sono questi due uomini intercettati accanto allo scooter di Jessica? E’ questo il problema – dice la madre di Denise – Allora il procuratore Sciuto incaricò la polizia di piazzare telecamere sul quel tratto di via Pirandello. Ma quell’ordine non fu eseguito. Uno dei tanti gravi errori commessi in questi anni. Se le telecamere fossero state piazzate, avremmo saputo dove stava mia figlia». «Mi vedo costretta a inviare una lettera al Presidente della Repubblica e a organizzare una pubblica raccolta di consensi e sostegno, tramite il sito ufficiale e il blog, per richiedere con grande forza che si faccia al più presto giustizia per Denise, ma soprattutto voglio che sia data risposta alla domanda: a giudizio della procura di Marsala chi ha preso Denise?». Questo lo sfogo di Piera Maggio, madre della piccola scomparsa otto anni fa a Mazara del Vallo, alla richiesta di archiviazione per Anna Corona, madre di Jessica Pulizzi, sorellastra di Denise Pipitone e unica imputata del sequestro della bambina. Lo rende noto il sito “Cerchiamo Denise”. Anna Corona era indagata in un nuovo procedimento per la scomparsa di Denise. «Nonostante ciò che è emerso nel processo sulle responsabilità attribuibili ad Anna Corona - commenta Piera Maggio - incredibilmente la procura della Repubblica di Marsala ha richiesto l'archiviazione dell'indagine a suo carico. «Qualcuno avrebbe contribuito a non far ritrovare mia figlia. Provo sdegno e delusione e al dolore si aggiunge tanta rabbia per ciò che non si è fatto per mia figlia. Sono passati quasi anni e la mia sofferenza non ha fatto altro che accrescere; e mi sento beffata sapendo che ci sono dei responsabili che addirittura possono aver contribuito a non far ritrovare mia figlia, esattamente come sostenuto dal consulente della Procura». Lo dice in una nota Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone, la bimba scomparsa da Mazara del Vallo il primo settembre del 2004. In una nota l'Associazione Cerchiamo Denise spiega che alla diciottesima udienza del processo per il sequestro della bambina il consulente della Procura di Marsala, Gioacchino Genchi, ha riferito che una persona vicino alle forze dell`ordine di Mazara del Vallo, in contatto con la madre dell’imputata, agì ai fini di eludere il sistema di intercettazioni, della cui esistenza le due donne erano state poste a conoscenza. “Davanti al giudice - riferisce l'Associazione - Genchi ha precisato: 'Stefania Letterato fornì il suo telefono ad Anna Corona e questo emerge dalle intercettazioni'. Ai tempi la signora Letterato era fidanzata (ora sposata) con l`ex-dirigente del commissariato di polizia di Mazara del Vallo, Antonio Sfameni, mentre Anna Corona, madre di Jessica Pulizzi, è indagata ella stessa per il sequestro di Denise". «Tutto questo non mi da pace: se solo queste persone vivessero un giorno di quelli che io da anni sto attraversando sicuramente capirebbero quanto male sono riusciti a causare. Oggi dagli organi inquirenti non accetto più scuse perché i fatti sono gravi e i comportamenti vergognosi: chi ha colpa deve pagare», conclude Piera Maggio. Nell'ottavo anniversario della scomparsa di sua figlia, Denise Pipitone, Piera Maggio ha tenuto una conferenza stampa nella quale ha fatto il punto sul processo e sulle sue iniziative a tutela delle famiglie dei bambini che, come Denise, sono scomparsi nel nulla. «Dopo questo calvario giudiziario qualcuno mi risarcirà degli errori commessi e di quelli che si continuano a commettere? », si è chiesta Piera Maggio. Piera Maggio, supportata dal suo legale, l’avv. Giacomo Frazzita ha attaccato l’attività investigativa e l’iter processuale. Secondo Piera Maggio «il processo dovrebbe procedere più speditamente, ma in realtà la conduzione delle udienze è spesso ostacolata non dalla burocrazia giudiziaria ma delle tensioni in aula tra le diverse parti. Va precisato inoltre che non si può chiedere al processo, o ai giudici del processo, di svelare il mistero di dove sia Denise, perchè - come è nella logica del diritto - è la Procura (a cui va tanta responsabilità, invece) a svolgere le indagini, mentre il giudice è chiamato solamente a decidere, sulla base delle prove, se gli imputati hanno commesso un reato. Da un anno e mezzo - ha detto Piera Maggio - non ho più notizie dell'indagine riaperta nel 2010. A giugno abbiamo depositato in Procura un sollecito per avere l'esito dell'indagine e sapere delle decisioni della Procura di Marsala. Non sono state approfondite le gravi affermazioni che il consulente Genchi fece su un poliziotto allora capo del Commissariato di Mazara e sulla vicinanza tra la moglie di quest'ultimo e Anna Corona». Sulla questione l'avv. Frazzitta ha aggiunto: «Due donne (alludendo a Jessica Pulizi e Anna Corona) vengono lasciate in una stanza, con le finestre aperte, del Commissariato e la microspia messa accanto a un condizionatore acceso al massimo, ovvio che non si senta bene la registrazione di quanto si sono dette. Le stesse, pur segnalate, a seguito dei sospetti di Piera Maggio, informalmente dopo un'ora dalla scomparsa di Denise, non sono state pedinate». «Non mi risulta - ha aggiunto Maggio - che siano stati effettuati posti di blocco. L'indagine è stata inquinata fin dalle primissime ore». Piera Maggio ha criticato aspramente la magistratura per i continui trasferimenti dei magistrati che hanno condotto l'indagine: 11 in 8 anni, e per la mancata valutazione di importanti aspetti peritali. Si è riferita in particolare al prof. Roberto Cusani, ordinario di telecomunicazioni alla Sapienza di Roma. «Potrebbe - ha detto - apportare un importante contributo al dibattimento, invece è stato messo da parte. Il Tribunale ha ritenuto ammissibili interrogazioni su sogni ed esoterismo, è scandaloso». Alla conferenza stampa era presente pure il padre naturale di Denise, Piero Pulizzi, che ha affermato: «Condivido le esternazioni di Piera, anche io ho forti dubbi sull'attività investigativa e processuale. Voglio la verità. La vittima di questa vicenda è la mia piccola Denise». In aula sono stati ascoltati anche gli investigatori coinvolti nelle ricerche di Denise subito dopo la sua scomparsa. Ed è emerso nuovamente un dato da sempre denunciato da Piera Maggio, ovvero gli errori commessi durante la prima, delicatissima fase delle indagini. I carabinieri che avviarono le ricerche a Mazara del Vallo furono depistati dalla famiglia di Jessica Pulizzi (sorellastra di Denise per parte di padre): quando gli agenti si recarono per la prima volta ad ispezionare l'abitazione di Anna Corona, madre di Jessica ed indagata di reato connesso in un secondo filone investigativo, furono indirizzati verso la casa di una vicina credendo invece di trovarsi invece nell'appartamento di Corona. L'udienza - fiume è stata anche sospesa per qualche minuto a causa di uno scontro tra il legale Frazzitta e il padre naturale di Denise, Piero Pulizzi: uscito dall'aula, l'avvocato ha sorpreso il suo assistito mentre conversava nei corridoi del Palazzo di Giustizia con alcuni testi prima che questi fossero ascoltati. Dopo un diverbio piuttosto acceso, Frazzitta è rientrato in aula facendo presente al presidente del Tribunale Riccardo Alcamo la necessità di un controllo più severo sull'effettivo isolamento dei testi. "Cose simili non devono accadere anche se si tratta di un mio cliente", ha detto il legale, che era sembrato perfino in procinto di rifiutare il mandato affidatogli da Pulizzi. «Ci sono in Italia "inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i sequestri dei bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno mai trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano, rispettivamente la madre di Denise Pipitone  – scomparsa a Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008 le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece quei due bambini sono lassù - dice Maria Celentano per attaccare investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave nelle indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo scoperto una cosa allucinante, ci sarebbe stata la risoluzione del caso di Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano le competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise - possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti non si trovano. Non so perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia - aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di più per loro». «Non so più nulla delle indagini. La giustizia ha commesso errori - dice il 2 settembre 2012 Piera Maggio - Troppi gli avvicendamenti dei pm sul caso di mia figlia: ogni volta bisognava ripartire da capo. E nemmeno le istituzioni mi sono state vicine in questo lungo calvario". Sono trascorsi 8 lunghi anni dall'ignobile gesto commesso ai danni di mia figlia Denise e oggi come allora sento lontana la “Giustizia”, quella con la “G” maiuscola. Mi riferisco sia alle competenze della magistratura, ma anche più in generale agli impegni e alle promesse delle istituzioni italiane che avrebbero dovuto attivarsi per ritrovare mia figlia. Comunque procediamo per gradi, e partiamo dall’ambito giudiziario, perché è attualmente in corso il processo contro gli accusati per il rapimento di mia figlia. Ben 11 magistrati si sono alternati in questi 8 anni, ed in particolare cito: il Procuratore Sciuto a cui è succeduto l'attuale Procuratore Di Pisa ed inoltre in ordine cronologico i sostituti Dr. Boccia, Dr.ssa Angioni, Dr.ssa Puliatti ( della Procura presso il Tribunale per i minorenni di Palermo), Dr.ssa Avila, Dr. Imperato, Dr.ssa Sessa, Dr.ssa Cerroni, Dr. Brandini, Dr.ssa Carmazzi. Loro svolgono quella che io definisco la "giustizia dei magistrati", ma spesso questo tipo di lavoro non soddisfa i danneggiati: a titolo di esempio, troppi e continui cambiamenti non hanno certamente giovato al procedimento. Il processo per il sequestro di mia figlia Denise ha la stringente necessità di una particolare attenzione specialmente nella memoria storica degli atti giudiziari e di indagine, vista la mole di informazioni relative. E invece non appena i magistrati erano in sintonia con i 350.000 atti e avevano cominciato a districarsi nell'ingarbugliata matassa fatta dal consulente tecnico della Procura Dott. (oggi avvocato) Genchi, ecco che giungeva il trasferimento. I continui trasferimenti (anche richiesti dagli stessi magistrati) invalidavano definitivamente la possibilità di poter venire a capo della situazione. L’ultima partenza in ordine cronologico è stata quello del Dr. Brandini approdato alla vicina Procura di Termini Imerese. Ebbene ad oggi non ho più notizie dell'indagine riaperta nel 2010. A mezzo del mio legale abbiamo depositato in Procura nei mesi scorsi un sollecito diretto ad avere notizie sull'esito dell'indagine e sulle decisioni che la Procura ha preso. Abbiamo chiesto di sapere ufficialmente se l'indagine va avanti o se si deve procedere con una richiesta di rinvio a giudizio o con una richiesta di archiviazione nei confronti del filone che vede coinvolta la madre dell'attuale imputata Jessica Pulizzi, ossia Anna Corona. Nel processo principale a volte vengono fissate le udienze a cadenza temporale lentissima. Mi chiedo se sia normale o giusto che i magistrati possono lasciare indagini così laboriose e complesse (oltre che costose per lo stato) possano essere frammentariamente gestite da più persone e tutto ciò senza che gli organi di controllo della magistratura o del ministero intervengano a fare le verifiche del caso… Mi chiedo se dopo un calvario giudiziario come quello che sto passando qualcuno mi risarcirà degli errori commessi e di quelli che si continuano a commettere. Una giustizia senza continuità è di fatto un'ingiustizia legalizzata. Se i medici sbagliano devono rispondere dei loro errori, così come tutte le altre categorie sociali. Sono però a chiedermi: e se l’errore viene commesso da un magistrato, quest’ultimo sconterà i propri sbagli nel nostro paese? Durante il processo che si sta svolgendo come parte lesa ci sentiamo “menomati” dei nostri consulenti tecnici di parte che non sono stati ammessi a contro dedurre e mi riferisco in particolare al Prof. Roberto Cusani, ordinario di telecomunicazioni alla Sapienza di Roma, che potrebbe apportare un importante contributo alla verità o alle falsità che stanno emergendo in dibattimento, e che invece è stato messo da parte. Il Tribunale ha ritenuto ammissibili interrogazioni su “sogni ed esoterismo” piuttosto che sugli argomenti forniti come contributo da un luminare nel campo della telecomunicazioni. Spero che questo Tribunale possa rivedere la assurda posizione assunta processualmente nell'escludere il nostro consulente. Riassumendo non ho più notizie dell'indagine e il processo ristagna dall'inizio dell'anno sulla farraginosa consulenza dell'ex dottore oggi avvocato Genchi. Senza contare che non mi risulta che alcuno abbia approfondito le gravi affermazioni che Genchi fece su un poliziotto allora capo del Commissariato di Mazara del Vallo e sulla vicinanza tra la moglie di quest’ultimo e Anna Corona, madre dell'accusata... E' tutto scandaloso: sia i Procuratori che si trasferiscono sia i poliziotti che possono inquinare le indagini. Se questo è stato l’ambito giudiziario, non migliore sorte è toccata alle ricerche di mia figlia sotto il profilo delle istituzioni. Decine e decine di incontri, di promesse, di strette di mano; rassicurazioni di politici, parlamentari, ministri e delegati…. Ognuno ha fatto a gara per mostrare il proprio interessamento al caso di mia figlia, peccato però che pochissimi abbiano davvero deciso di “continuare” e insistere sull’argomento. Il caso Denise per molte persone è stato un evento “mordi e fuggi”, che ha rappresentato forse una opportunità di promozione personale. Ho sollecitato le istituzioni italiane a farsi carico della vicenda di Denise, come anche di tutti i bambini scomparsi. Inutili sono stati gli appelli alla Chiesa perché venisse lanciato un comunicato a favore di una bambina. Altrettanto inutile l’appello all’ex- Presidente della Repubblica a riconoscere ufficialmente Denise come “figlia di tutti gli italiani”. Era un messaggio forte di solidarietà nazionale, da esprimere a favore di tutti i bambini scomparsi, dei quali proprio il capo dello Stato dovrebbe essere il primo sostegno morale. Alcuni potranno dire che sono stata ricevuta al Quirinale, altri però sanno che ho dovuto incatenarmi per avere un po’ di attenzione… quindi non direi di aver trovato la porta spalancata. I nostri politici hanno altri pensieri, e quando vengono coinvolti direttamente nei problemi della gente comune, sono decisamente infastiditi e cercano di liquidare la situazione nel più breve tempo possibile e al “costo” più basso possibile (non mi riferisco affatto all’aiuto economico che non si è mai visto, ma a quello personale e morale). Ho lottato perché venisse approvata una modifica di legge per punire i responsabili di sequestri di minorenni in modo esemplare. Grazie all’interessamento di qualche saggio politico, la normativa ha fatto un piccolo passo avanti: ma quanti sforzi per muoversi nella direzione giusta, quanta fatica per un risultato la cui utilità era palese agli occhi di tutti ! Centinaia di appelli in televisione e trasmissioni di settore dedicate, con una forza costante applicata alle iniziative per la diffusione dell’immagine di mia figlia, hanno condotto il caso davanti all’attenzione dei media internazionali e ho avuto la possibilità di essere ospite al Parlamento Europeo, dove dinnanzi alla commissione che si occupa dei minori ho potuto esprimere un serio giudizio circa le modalità di intervento e di allerta nelle prime fasi delle “scomparse” dei minori. Soltanto che nulla di ciò che ho proposto è poi stato realmente recepito. Se un bambino viene rapito oggi, succede esattamente quello che è sempre successo in passato; non c’è stato in otto anni un miglioramento dell’efficacia della risposta delle istituzioni nelle prime fasi del sequestro di un minore. L’unica cosa che forse è stata cambiata è la risposta della gente comune, che forse dopo tante battaglie e impegno, ha capito che la voce di una madre non deve rimanere inascoltata, perché i fatti orribili capitano a tutti, in Sicilia e in Lombardia, e non si circoscrivono a quelli di cui viene detto “è nella famiglia”. E’ sempre “nella famiglia”, solo che sono tante le famiglie colpite e la gente ha cominciato a capire che non si può dormire sonni tranquilli quando si è genitori e senza le istituzioni che ti tutelano. Chiedo l'aiuto di tutti. Non abbandonate Denise, a un destino che lei non ha scelto di avere. Aiutatemi ad acquistare la fiducia, perché oggi io non so più chi sono i buoni e chi i cattivi.

Due anni e tre mesi dopo, Yara resta un tragico ricordo. Pieno di misteri, rabbia, amarezza, frustrazione. Quella di non aver saputo trovare chi in una gelida sera di novembre la massacrò. Nessuna giustizia, nessun colpevole per la piccola ballerina di Brembate, 13 anni pronti a sbocciare in un tuffo nel fiore della vita, l'apparecchio ai denti, il corpo che cominciava a trasformarsi in quello di donna. Chi può dimenticare? I corsi della legge, le lentezze, i freni, con tempi che non sembrano oggi più adeguati a quelli degli uomini, però dicono, come avrebbe chiosato caustico Tortora a Portobello, «Big Ben ha detto stop». L'inchiesta è finita, l'indagine forse più dispendiosa nella storia d'Italia, ha fallito, intercettazioni, superesperti, 15mila campioni di Dna prelevati tra vallate e paeselli del Bergamasco non sono serviti a nulla. Hanno fallito polizia e carabinieri, un colonnello silurato e un questore mandato con piacere in pensione. Loro non hanno risolto il caso. Come la pm, Letizia Ruggeri, la signora che andava in vacanza nel pieno delle ricerche. Due anni e tre mesi dopo la scomparsa di Yara Gambirasio il 26 febbraio 2013 si sono chiuse definitivamente le indagini. Archiviato il fascicolo contro ignoti aperto il 27 novembre 2010, il giorno successivo la scomparsa della ragazza. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. Dolore e sconforto. Sentimenti troppo forti per continuare a rimanere chiusi a doppia mandata nel proprio cuore. Mamma Maura lo ha fatto per quasi due anni, ma adesso non ce la fa più. E lo scrive, in una lettera accorata, al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L'assassino di sua figlia Yara non ha volto. Tante le piste, tante le supposizioni, tante le amarezze sopportate dal giorno in cui il corpo della ragazzina è stato trovato in un campo incolto di Chignolo d'Isola. Ma vedere che la Giustizia non approda a nulla è troppo anche per chi non ha mai perso occasione di manifestare fiducia negli investigatori e negli inquirenti. Proprio per questo l'iniziativa è clamorosa. Mamma Maura si rivolge direttamente al Capo dello Stato. Lo fa da semplice cittadina che si rivolge alla massima autorità. Il tono è pacato ma fermo. Le parole misurate, gli aggettivi calibrati. Ma da quelle poche righe emerge forte, senza inutili orpelli, l'insoddisfazione per il modo in cui finora sono state condotte le indagini sull'omicidio di Yara. Senza assumere i toni del «j'accuse», la lettera sottopone a Napolitano i dubbi e le perplessità che più volte sono state sollevate anche dagli organi di informazione. Le diverse piste battute: dal cantiere di Mapello ai sospetti su Mohamed Fikri fino al figlio illegittimo di un autista di Gorno morto ormai da parecchi anni. La battaglia, legittima certo, ma poco comprensibile all'uomo della strada, tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari. I tempi infiniti per avere risposta anche sulle iniziative del proprio legale. Mamma Maura rende partecipe il presidente della Repubblica del dolore provato in questi due anni (Yara fu trovata cadavere a Chignolo il 27 febbraio del 2011) e gli esterna il suo sconforto. Non si aspetta che la soluzione arrivi dal Quirinale. Non cerca a Roma le risposte che tardano ad arrivare (se mai arriveranno) da Bergamo. È lo sfogo di una cittadina amareggiata e delusa. Il grido di dolore di un'intera famiglia che ha sempre tenuto un atteggiamento molto composto. I Gambirasio hanno dovuto farsi forza. All'inizio non avevano voluto nemmeno affidarsi a un avvocato, come pure qualcuno aveva consigliato loro anche solo per mantenere il controllo sull'operato degli inquirenti. Poi, si erano convinti ad affidarsi ad Enrico Pelillo, il legale che dal momento in cui fu effettuata l'autopsia li segue. Ed è toccato a lui sollecitare, come parte lesa, il pubblico ministero ad effettuare nuovi accertamenti. Di qui anche la soluzione di affidarsi a un consulente del calibro dell'ex ufficiale del Ris di Parma, Giorgio Portera, che ha portato nuovi elementi all'attenzione degli inquirenti. Ma era stata proprio Maura Gambirasio ad esternare, rompendo il silenzio fin lì rigorosamente osservato, in aula davanti al giudice per le indagini preliminari Ezia Maccora, lo sconcerto per la mancata verifica delle traduzioni della frase di Fikri che hanno ingenerato più di un sospetto. «Posso dire una cosa?» si era fatta avanti con tono fermo in Tribunale. «Da mamma mi chiedo com'è possibile che le traduzioni siano così diverse», aveva chiesto rivolgendosi al giudice. Un paio di mesi prima, ancora lei aveva sussurrato: «Se questo ragazzo non c'entra nulla, sarò io la prima a chiedergli scusa». E invece, rimane ancora tutto aperto. Il pubblico ministero che vuole l'archiviazione del marocchino. Il gip si oppone. E il mistero, insieme al dolore di una madre e di una famiglia, rimane profondissimo.

Il falso Moralismo: l’arrembaggio mediatico e le speculazioni.

L’orrore e la normalità scrive Terry Marocco su “Panorama”. Avetrana ha capito da subito che le luci della ribalta volevano un paese maledetto, omertoso. «Ma quale omertà, qui è il contrario, nessuno si fa i fatti suoi» dicono ora che il virtuale è più forte della realtà. Adesso che i programmi televisivi si sono inseguiti in una corvée instancabile e ormai quasi mancano le comparse, a Sabrina tocca apparire a reti unificate: piange a Matrix e nello stesso tempo è a Porta a porta con la riedizione di un suo intervento a La vita in diretta. La prima a capire che solo la tv poteva salvarla è stata la madre di Sarah, Concetta. Da subito ha intuito che spalancando la porta ai media avrebbe conosciuto la sorte di sua figlia. E così è stato. Sospira il procuratore capo di Taranto Francesco Sebastio: «Ditemi un momento nel quale non era in televisione a dirci come condurre le indagini, come dovevamo fare... Non si poteva neppure dire all’assassino: aspetta a confessare che finisca la trasmissione. Ne sarebbe iniziata un’altra». E per 42 giorni, come nota un investigatore, «lei davanti alle telecamere si è fatta sempre trovare pronta e in ordine». Senza un filo di ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi, come se ogni giorno si rifacesse l’henné». Ma Concetta, madre dura e dallo sguardo immobile, per 42 notti da sola nella casa di via Verdi ha urlato il suo dolore. E raccontano che le grida spezzavano il silenzio del sonno. Concetta, come chi sa usare i media, dopo il ritrovamento del cadavere si è ritirata. E il testimone è passato al figlio Claudio, cappello con la visiera e piercing sul viso. Lui è meno abile. «Dimmi veloce, che mi chiamano in tanti, se mi piace l’articolo ti dico se mi va di farlo» dice al giornalista di turno. Ma vuole sapere «quante pagine mi dai? E quante foto?». La dirimpettaia della famiglia Scazzi prima di cena si affaccia sulla porta di casa, quasi aspettando come un dovere la sua intervista quotidiana: «Tanti, tantissimi sono venuti da me e alla fine qualcosa gli si doveva pur dire». E racconta di avetranesi che rincorrevano le telecamere pur di essere intervistati. Missione facilissima, soprattutto fra via Verdi e via Deledda, dove i camion delle tv sono parcheggiati a presidiare le case delle due famiglie, che ormai si vedono solo via cavo. In paese, al Pub 102, dove passavano le notti Sabrina e Sarah, Ivano e Mariangela, si riunisce il coro greco. Qui, dove Michele, il proprietario, chiama i suoi panini con nomi di romanzi di Yukio Mishima (Haru no yuki, neve di primavera, speck e fontina), Sarah ascoltava i discorsi dei più grandi abbracciata a Sabrina. E spesso si addormentava appoggiata sulle sue ginocchia mentre la cugina la accarezzava.

E la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli operatori dell’informazione cacciati prima dalle strade dell’orrore di Avetrana e da ieri anche davanti il tribunale di Taranto, scrive Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. E le negatività non si fermano qui. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si spengono, fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto che s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una sospetta concentrazione d’infortuni sta scuotendo il popolo dei media che da due mesi ha preso domicilio ad Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola Sarah Scazzi. Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la peggio è quella dei giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro colleghi. La prima ad essere colpita dalla «maledizione» è stata Valentina Loiero del Tg5: una caduta nel box doccia le è costata la rottura del labbro inferiore e un indolenzimento diffuso in tutto il corpo durato diversi giorni. Seconda caduta per Maria Corbi del quotidiano «La Stampa» con infrazione del pollice della mano sinistra. Ritorno a Roma anche per lei. Più preoccupante il malore accaduto alla giornalista di Rai Uno, Flavia Lorenzoni. Un’apparentemente banale caduta nell’albergo dove era alloggiata ha avuto conseguenze più serie con due giorni di ricovero all’ospedale di Manduria e il consiglio dei medici di un lungo periodo di riposo. La sfortuna non ha risparmiato la giornalista di «Porta a Porta», Rosanna Santoro, vittima anche lei di una scivolata per colpa di un gradino poco evidente e la conseguente contusione di un polso e ammaccature alle ginocchia. L’inviata del salotto più famoso d’Italia ha raccontato anche un altro episodio da far venire i nervi. «Dovevo recarmi urgentemente in un posto e la troupe non arrivava e quando ho cercato di avviarmi da sola – dice – sono rimasta bloccata perché la chiave elettronica della messa a moto si era inceppata». Lei, a differenza delle sue colleghe, ha potuto rimanere sul campo a lavorare. Ha dovuto invece recuperare un’altra auto il giornalista dell’agenzia ApCom, Filippo Marra, coinvolto in un incidente stradale quando da Avetrana si stava recando al tribunale di Taranto: lievi ferite per lui, distrutta invece la sua automobile. La iattura ha colpito anche gli operatori e cameramen che accompagnano i cronisti. A passarne di tutti i colori è stato l’operatore di Rai Uno, Vito Cacucciolo che elenca così le malesorti: «Il display del telefonino oscurato, la prima telecamera che non funziona, la sberla in faccia dalla sorella di Concetta, Emma Serrano, una caduta mentre salivo i gradini del furgone del montaggio, infine la rottura della seconda telecamera. Tutto questo in pochi giorni; è una coincidenza che non dovrebbe preoccuparci», conclude Cacucciolo usando prudentemente il condizionale. Altri episodi simili sono accaduti ai suoi colleghi: batterie che si scaricano prima del tempo, lampade che si fulminano oscurando la scena che si attendeva da ore, microfoni che non si agganciano alla telecamera, forature di gomma multiple e così via. Francesco Saccente, cameramen di Mediaset, non vuol rischiare e s’improvvisa dispensatore di amuleti contro la iella. «L’alloro è un ottimo rimedio per allontanare il malocchio – dice –, non per niente gli scaramantici imperatori romani lo usavano come corona». Un gioco, il suo, che comincia a dare i primi risultati perché le sue foglie d’alloro che un vicino di casa di Sara Scazzi gli ha donato, sono andate a ruba.

Parliamo della super testimone Anna Pisanò, testimone di Geova come Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi e nemica giurata ed astiosa di Sabrina Misseri. Innumerevoli sono state le sue comparsate in TV. La Pisanò, unica ad Avetrana, ha sostituito Sabrina Misseri nei salotti trash della tv italiana. Nel corso dell’ennesimo appuntamento all’insegna della trasmissione Pomeriggio Cinque, il sequel lavorativo di Domenica Cinque e Domenica Live, il 6 marzo 2013 in collegamento da Avetrana e precisamente e provocatoriamente davanti l’abitazione di Misseri, abbiamo ritrovato Anna Pisanò, supertestimone al processo per il delitto di Sarah Scazzi. Nel corso del collegamento, la Pisanò ha nuovamente ribadito per l’ennesima volta il racconto di quel giorno in cui Sarah è stata uccisa, nel quale ha incontrato sia Sabrina, nella sua abitazione, che la piccola Sarah. Tutto ciò serve ad aizzare ed a istigare la folla di vergognosi telespettatori influenzando loro con messaggi subliminari e continui per convincerli di una verità artefatta. I Misseri continuano a darle della bugiarda, mentre la sua testimonianza è stata definita dal pm assolutamente attendibile e di estrema importanza ai fini della ricostruzione stabilita dallo stesso Mariano Buccoliero di quanto accaduto in quel giorno di agosto del 2010. Proprio nel corso del collegamento, abbiamo assistito ad un colpo di scena: Michele Misseri ha voluto reagire dall’interno della sua villetta, inveendo contro la donna e minacciando di denunciarla ai carabinieri. Barbara D’Urso, padrona di casa della trasmissione, ne ha approfittato subito per chiedere all’inviata di avvicinarsi all’abitazione di Michele, chiedendogli se avesse intenzione di intervenire in diretta, ma a quanto pare l’uomo non avrebbe risposto al citofono, nonostante i rumori provenienti proprio dalla villetta. Fabrizio Gallo, uno dei legali del contadino di Avetrana è intervenuto telefonicamente con la trasmissione di Canale 5, dopo richiesta esplicita del suo cliente, replicando alle parole della supertestimone (“Anna Pisanò non credo abbia detto tutta la verità”). Barbara D’Urso come Marco Liorni e Mara Venier, Salvo Sottile come Federica Sciarelli, Bruno Vespa come Massimo Giletti, Giancarlo Magalli come tutti i giornalisti della Rai e di Mediaset, forse hanno preso le loro trasmissioni come un tribunale personale e mi dispiace vedere come lor signori possano dare spazio a tanto SHOW su un problema cosi delicato. Di giudici c’è ne sono anche fin troppo e mi sembra superfluo assistere ad arringhe gratuite di persone motivate da una rabbia di vendetta e prive di umana pietà, pur se sedicenti di profonda religiosità. Quanto accaduto a Pomeriggio Cinque all’indomani della richiesta di condanna con l’ergastolo per Cosima e Sabrina segue l’altro colpo di scena durante la diretta di ‘Domenica Live’ di domenica 9 dicembre 2012. Mentre Barbara d’Urso sta raccogliendo la versione della supertestimone al processo per il delitto di Sarah Scazzi, Anna Pisanò, interviene al telefono un furibondo Michele Misseri che chiede di parlare dopo che la donna aveva commentato l’intervista al contadino di Avetrana, proposta nel corso del programma, come una vergogna: ” E’ un imbroglione nato. A 58 anni non si dicono bugie. Non si vergogna? Ha perso una nipote. Anzi dovrebbero vergognarsi tutti e tre”. Misseri si scaglia subito contro Anna Pisanò coinvolgendo anche la conduttrice, Barbara d’Urso, per quello che definisce programma colpevolista: “Voi la verità non la conoscete. E quando questa uscirà, vedremo chi avrà ragione. Sono arrabbiato non con voi, ma con me. Tu Anna, perché vai in televisione? Tu non c’eri quel giorno, sei una bugiarda, vuoi influenzare la gente così nessuno crede alla mia verità. Sarah non voleva più vederti, lo sai!” Anna Pisanò, malgrado le sue parole, cerca di confortarlo “Se hai detto la verità, sei un grande padre, io avrei fatto lo stesso per mia figlia e spero di tutto cuore che Sabrina sia innocente”.

L'intervista proposta nel programma, domande e risposte sulla Pisanò riportate da TGCom.

Misseri: «Anna Pisanò non l’ho vista, l’ho incrociata solo la mattina quando andavo al lavoro…»

Cavo: «Però lei ha detto che è bugiarda».

Misseri: «Certo che è bugiarda, lo dicono tutti pure…Quando Sarah non si trovava diceva "Ho sognato che sta a Lecce, ho sognato che sta di qua…" quando mia figlia le diceva "Perché non vai dai carabinieri a fare le cose" lei non andava mai».

Cavo: «Però ad esempio ha raccontato della lite tra Sarah e Sabrina la mattina della scomparsa di Sarah.. »

Misseri: «Non lo so, di questa lite non sapevo niente …non penso che hanno litigato perché se Sarah era così era perché ce l’aveva con Anna Pisanò perché parecchio tempo fa lei disse davanti alla ragazza (io non ero presente, me lo avevano raccontato ma ho visto la ragazza che piangeva) lei disse 'Tuo padre sta con altre donne a Milano, tu stai qua', robe del genere…»

Cavo: «Quindi Sarah era così triste e imbronciata quella mattina…»

Misseri: «Perché non la voleva vedere più Anna Pisanò, quando veniva Sarah non stava neppure più nella stanza dove lavorava Sabrina…»

NdR
I punti rilevanti della testimonianza di Anna Pisanò riguardano la lite tra Sabrina e Sarah che ha descritto la mattina dell’omicidio, quando lei si era recata a casa di Sabrina per un trattamento estetico e aveva visto Sarah arrabbiata…Un altro punto riguarda la porta sul retro di casa Misseri: la Pisanò, che andava spesso in giardino, ha detto di averla vista aperta: per l’accusa (che ritiene che Sarah sia stata uccisa in casa da Cosima e Sabrina e solo successivamente portata in garage dallo zio) Anna Pisanò dimostra che esisteva il passaggio interno tra casa e garage. Misseri, nel servizio, mostra invece come la porta a cui si riferisce Anna Pisanò sia quella esterna, sempre aperta, ma non quella in fondo alle scale, sempre chiusa. Mostra anche come, volendo seguire l’ottica accusatoria, se si fossero voluti disfare del corpo di Sarah uccisa in casa l’avrebbero fatto più agevolmente portando un’auto sul retro del giardino e non passando dal garage (percorso più complicato).

Il resto dell'intervista proposta nel programma. «A dire la verità adesso mi sento più leggero, cioè con tutto quello che avevo accumulato adesso sto meglio… Più parlo e più mi libero» così Michele Misseri racconta a Ilaria Cavo, nel corso di ‘Domenica Live’ in onda oggi su Canale 5, il suo stato d’animo dopo la clamorosa confessione fiume nell’udienza di qualche giorno fa. «Questo è il gatto di Sarah, l’unico ricordo che è rimasto…è come un cagnolino, viene lui però lo trovo sempre davanti al garage. Io ho ucciso Sarah, ma non è che volevo ucciderla veramente..quello che ho detto è che non so nemmeno io perché l’ho fatto, questa è la verità, non lo so nemmeno io».

Cavo: «La prima volta aveva messo un movente sessuale?»

Misseri: «Non c’è,non c’è perché devo dire che c’è se non c’è? Il trattore non partiva, dalla mattina, come ho detto in aula, avevo già un dolore alle testa, poi dal calcio è partito tutto».

Cavo: «Come fa a non ricordarsi come ha ucciso –se l’ha uccisa – una ragazzina di 15 anni? Come fa a non ricordarsi quel momento? Lei ieri non ha descritto il momento dell’omicidio, ha descritto il momento prima e quello subito dopo".

Misseri: «E ma io l’ho detto, non ricordo nemmeno io come ho fatto, come è successo io ho detto che i giri della corda li ho visti quando li ho tolti dal collo, erano due o tre giri, non so, due sono sicuro».

Cavo: "Lei ha detto che ha fatto tutto da solo, omicidio e occultamento di cadavere…»

Misseri: «Io ho detto che loro mi hanno sempre sottovalutato. Io oggi spero, visto che l’ho detto davanti alla Corte, di essere un po’ più creduto, di essere meno burattino rispetto a come mi hanno sempre descritto…perché l’ho detto davanti a una corte e non l’ho detto davanti alle telecamere solamente».

Cavo: «Lei guardava spesso sua moglie Cosima in aula?»

Misseri: «E’ stata la prima volta che ce l’avevo di fronte…anche lei mi guardava…le vedevo che erano tristi, ma tristi…di più Sabrina».

Cavo: «Lei si rende conto che dopo la deposizione può avere altri procedimenti per calunnia (da parte di persone che lei ha accusato) o anche nei suoi confronti se decidessero di riaprire la sua posizione processuale».

Misseri: «Tanto se io sto dicendo la verità che paura devo avere? La paura che mi condanneranno? Ma che ho più da perdere? Ho perso tutto… Non penso che rimarrò libero…la cosa che mi sento è che rischiamo di andare in galera tutti e tre però con due innocenti».

Prometteva false assunzioni, condannato ex portavoce degli Scazzi. Valentino Castriota era stato 'ingaggiato' dalla famiglia di Sarah durante i drammatici giorni della scomparsa. Pena esemplare per l'uomo che millantando conoscenze eccellenti truffava ingenui disoccupati, scrive Chiara Spagnolo su “La Repubblica”. Il vizietto per la promessa di false assunzioni Valentino Castriota lo ha coltivato per anni. Millantando conoscenze eccellenti e spillando soldi a ingenui disoccupati da un capo all'altro della Penisola, non disdegnando di concretizzare le sue abilità truffaldine anche in Salento. O almeno così crede il giudice del Tribunale di Campi Domenico Greco, che ha condannato il quarantenne di Trepuzzi, salito alla ribalta delle cronache come portavoce della famiglia di Sarah Scazzi nei giorni drammatici dopo la scomparsa della ragazzina, a un anno di reclusione. Condanna esemplare, a fronte dei sei mesi chiesti dal vice procuratore onorario Antonio Paladini, che ha portato in aula l'ipotesi accusatoria formulata all'esito delle indagini coordinate dal pm Giovanni De Palma. A lui era toccato, infatti, indagare sull'ennesima truffa attribuita a Castriota, arrestato nel gennaio 2011 proprio a causa delle false assunzioni promesse ad alcuni giovani nella Marina militare. Era stata proprio una delle sue vittime a presentarsi in Procura a Genova con la lettera di raccomandazione firmata dall'ex portavoce, facendo scattare indagini e arresto. Lo stesso copione si è ripetuto, qualche mese dopo, a Lecce, quando una donna di Squinzano si è presentata alle Poste centrali con tanto di missiva di "segnalazione" a firma di Castriota. Grande la sorpresa del direttore della filiale nell'ascoltare la richiesta di un posto di lavoro e ancora più grande quella della signora nello scoprire che sarebbe rimasto un sogno quel posto fisso, per il quale aveva sborsato 2.300 euro. A tanto ammontava la cifra chiesta e ottenuta da Castriota, che aveva fatto credere alla vittima designata di conoscere nientemeno che l'amministratore delegato di Poste italiane e di poter avere da lui una raccomandazione talmente potente da farle ottenere un contratto a tempo indeterminato presso la sede di Lecce. Una promessa che ben presto si è rivelata fasulla mentre vera era, secondo l'ipotesi accusatoria, la truffa ordita dal quarantenne. Dello stesso avviso anche il giudice che ha esaminato la vicenda, il quale ha disposto un anno di reclusione e il pagamento di 800 euro di multa insieme alle spese processuali, nonché un risarcimento alla parte civile da liquidarsi in separata sede, affinché la donna possa trovare ristoro dei 2.300 euro che credeva di avere speso per assicurarsi un lavoro e che invece erano finiti nelle tasche di Valentino Castriota. E poi ancora c’è il caso di Fabrizio Corona, condannato a cinque anni di detenzione per estorsione ai danni del calciatore David Trezeguet. Il 2 luglio 2013 da detenuto dovrà presentarsi al Tribunale di Manduria con l’accusa di violazione di domicilio. La denuncia è stata sporta da Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi. La vicenda risale al 26 febbraio 2011, quando l’ex re dei paparazzi era entrato in casa della famiglia Scazzi passando da una finestra e spaventando la madre della ragazza. Nonostante le scuse alla donna, in televisione Corona ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse di essere rimasto nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una mezz’oretta, e che Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del fotografo era quello di realizzare delle interviste in esclusiva ai protagonisti della tragica vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la denuncia e, come disposto dal pm Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà presentarsi quest’estate al Tribunale di Manduria. Per l’accusa di violazione di domicilio, Fabrizio Corona rischia altri 3 anni di carcere. A proposito di interviste non autorizzate. Concetta Serrano, la mamma della 15enne Sarah Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile 2011 ha presentato una denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello Vinonuovo per la trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda venerdì 8. L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato denunciato ai carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una nuova puntata di Studio Aperto Live, lo spazio di approfondimento di Studio Aperto che su Italia 1 si occupa delle vicende di cronaca più attuali. Quindi alla luce delle nuove notizie legate alla richiesta del Dna per quattro persone implicate nel caso con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana per parlare con Concetta Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla madre di Sarah che però non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento dell’ultima puntata era ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce di Dna riaprono le indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il giornalista di Mediaset Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della Stazione di Avetrana. Subito sono arrivate le repliche di Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto, e Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i due hanno subito detto che quella realizzata da Vinonuovo non è un’intervista rubata, Toti dice: “Il cronista si è qualificato come tale, aveva il microfono in mano e accanto l’operatore con la telecamera in spalla. Le domande erano assolutamente rispettose: non c’era nulla che potesse ledere la dignità della madre di una vittima, anzi la signora Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo punto di vista. La conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè fraintendimento, nè sui contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non avremmo dovuto mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda dicendo: “L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un giornalista che si è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come dimostrano le immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a quello che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a nessuno il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla cronaca con la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i media siano con lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua nipote Sabrina Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode e di denunciare Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di Ilaria Cavo. Ilaria Cavo è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con un minimo di imparzialità. Ad Avetrana non c’è modo di palesare la verità nonostante la multa per 400 programmi tv che si sono occupati in maniera morbosa del caso di Avetrana. L’Agcom inutilmente ha voluto porre un freno a questa continua ricerca di fare ascolti in televisione sfruttando il dolore delle persone ed ha comunicato all’Ordine dei giornalisti l’intenzione di multare 400 trasmissioni che si sono occupate del caso Scazzi violando le norme. Ma secondo il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino i giornalisti sono stati trattati come burattini da burattinai: “Seminavano tutto e tutto noi giornalisti mandavamo in onda o pubblicavamo sui giornali”.

Il falso Moralismo: l’arrembaggio mediatico e le speculazioni. Dalla Gazzetta del Mezzogiorno: “Violazione di domicilio”. È il reato contestato a Fabrizio Corona, il fotografo dei vip (o presunti tali) che il 26 febbraio del 2011 cercò di entrare da una finestra nella casa di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa ad Avetrana il 26 agosto del 2011. A Corona è stato notificato un avviso di conclusione delle indagini preliminari firmato dal sostituto procuratore Maurizio Carbone, il magistrato tarantino, eletto recentemente segretario nazionale dell'Anm, che si occupa di tutte le vicende, poco commendevoli, che si sono svolte parallelamente all'omicidio della povera Sarah. Fu Concetta Serrano, mamma di Sarah, a presentare denuncia contro Fabrizio Corona, recandosi dai Carabinieri. «Me lo sono trovato davanti all’improvviso, mi ha terrorizzato» spiegò Concetta alla Gazzetta. «Stavo leggendo una rivista in cucina. Ho visto muoversi la maniglia della porta della camera da letto di mio padre (Cosimo Spagnolo, padre adottivo di Concetta, morto nel settembre del 2010). Una prima volta, poi una seconda. Dio mio, chi sarà? Come ha fatto ad entrare? La paura mi ha bloccato. Ho pensato, sarà un giornalista? Ma nessun giornalista si è mai comportato così. Qualcuno è stato scorretto con me. Ha detto una cosa e poi ne ha fatta un’altra. Qualcun altro ha rubato immagini e parole senza avvisarmi prima, ma una cosa del genere è giunta veramente inaspettata. È successo tutto in modo imprevedibile e irreale. Con sé aveva un oggetto, non so se era un registratore oppure una piccola videocamera. Io non avevo nessuna intenzione di essere intervistata». Corona, dopo aver fatto irruzione nella casa di Concetta, andò dal sindaco De Marco al quale disse che si trovava ad Avetrana per fare un lavoro per conto di Canale 5. Il paparazzo cercò di rimediare con un videomessaggio trasmesso alcuni giorni dopo nel corso di «Domenica Cinque» su Canale 5. «Sento il bisogno di chiederti scusa – disse Corona rivolgendosi a Concetta Serrano, la mamma di Sarah – per averti spaventato, per aver violato il tuo dolore di mamma che con dignità sopravvive ad un lutto così profondo. Quello che conta adesso – aggiunse il fotografo – è che tu accetti le mie scuse, perché‚ solo così, Concetta, potrò tornare a guardare negli occhi anche la mia di madre. Le cose – disse tra l’altro Corona – non sono andate proprio come hanno scritto i giornali. Non volevo fare niente di male, cercavo di parlarti, e sono pronto a prendermi le mie responsabilità per ciò che è accaduto. Ho suonato alla porta, poi mi sono avvicinato all’altra entrata e quasi non mi sono reso conto di essere già in casa tua». Ora Corona ha venti giorni di tempo per accedere agli atti e chiedere di essere interrogato e spiegare la sua posizione. Il reato è procedibile solo in presenza di querela della persona offesa: dunque bisognerà vedere anche se Concetta deciderà se ritirare o meno la denuncia.

26 febbraio 2011, gli avvocati di Concetta Serrano, la mamma della 15enne uccisa ad Avetrana, denunciano l'intrusione del fotografo, Fabrizio Corona. I carabinieri hanno raccolto la denuncia per violazione di domicilio, ma Corona assicura: "Mi ha invitato ad entrare e mi ha offerto un caffé".

Tutti ne parlano. Tutti ad attaccare Corona: in TV e sui giornali. Uno dei tanti resoconto: su “La Repubblica”.

Un blitz dalla finestra per registrare un'intervista da centomila euro. Fabrizio Corona ne ha combinata un'altra, in linea con lo show dell'orrore di Avetrana. Il fotografo dei vip, già incappato in Vallettopoli e in altre indagini penali, si è introdotto da una finestra in casa Scazzi spaventando la madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano. Era l'ora di pranzo. La mamma di Sarah, la 15enne uccisa dallo zio Michele e dalla cugina Sabrina il 26 agosto scorso e scaraventata in un pozzo, era sola: alla vista dell'uomo si è spaventata, è rimasta pietrificata. "E tu che ci fai qui?, ha chiesto a Corona senza neppure riconoscerlo. Il fotografo le ha sorriso e le ha domandato: 'Come, non mi hai riconosciuto?'.

Ha quindi chiesto un bicchiere d'acqua e, mentre Concetta glielo versava, ha posizionato sul tavolo un registratore che poi è stato costretto a rimettere in tasca dopo le proteste della donna. Ha spiegato che voleva realizzare un'intervista per alcuni settimanali e ha detto di essere pronto a offrire alla mamma della 15enne 50-100mila euro. Per entrare in casa, dopo aver suonato due-tre volte inutilmente, ha aperto una porta di servizio, che si trova accanto all'ingresso principale, ha percorso un corridoio interno e ha scavalcato una finestra. Unica testimone dell'incursione del paparazzo più famoso d'Italia una giornalista di 'Quarto Grado' Filomena Rorro, che pochi minuti dopo l'arrivo di Corona ha suonato a casa Scazzi perché aveva un appuntamento con Concetta.

Una mossa che non è piaciuta ai legali della donna che hanno denunciato il fatto. Il fotografo è entrato da una finestra in casa di Concetta Serrano - lamentano Valter Biscotti e Nicodemo Gentile - la signora Concetta era sola e si è spaventata, è rimasta pietrificata non appena si è accorta della presenza dell'uomo nella sua abitazione. Subito non l'ha riconosciuto". Stando al racconto del legale, nel momento in cui Corona tentava di entrare in casa della donna, ha suonato alla porta la giornalista che ha riconosciuto il fotografo. A quel punto, Corona ha deciso di allontanarsi da casa Scazzi. I due legali condannano "la vigliaccheria, la volgarità, l'essere così spregevoli nei confronti del rispetto delle persone da parte del già giudicato Fabrizio Corona" e "chiedono speranzosi che prima o poi il fotografo torni ad abitare le patrie galere". Sono gli avvocati ad allertare i carabinieri, che sono andati sul posto e hanno raccolto la denuncia di Concetta Serrano per violazione di domicilio.

La versione di Corona - "La mamma di Sarah Concetta mi ha fatto entrare in casa, mi ha offerto caffè e acqua, sono rimasto con lei ben trenta minuti: ho le immagini che lo possono documentare. Ero ad Avetrana per il mio spazio a 'Domenica 5' - ha spiegato Corona - sono stufo che ogni volta che faccio qualcosa di serio per il mio lavoro si scrivano cose che non sono vere". Ha poi aggiunto di aver offerto alla donna 50-100mila euro per un'intervista. Testimone della faccenda è proprio la giornalista che pochi minuti dopo la presunta incursione di Corona ha suonato a casa Scazzi per l'appuntamento con Concetta. La giornalista è poi andata in caserma per la denuncia.

Il racconto della testimone - "Intorno alle 13.30 - dice Rorro - ho suonato alla porta e ho sentito una voce maschile che mi chiedeva: 'Chi e'?'. Lo stesso uomo mi ha aperto la porta e ho riconosciuto Fabrizio Corona: indossava un felpa con cappuccio e un jeans. Concetta, appena mi ha visto, mi ha detto 'Lo vedi, mi ha invaso la casa, è entrato dalla finestra...'". "Sulle scale che portano all'abitazione della famiglia Scazzi - continua la giornalista - c'erano molte tracce di fango, fatto questo che mi fa pensare che Corona sia andato prima a fotografare il pozzo in cui fu nascosto il corpo di Sarah", nelle campagne di Avetrana, in contrada Mosca. A quanto si apprende da Rorro, Corona, prima dell'incursione, ha suonato per due-tre volte il campanello di casa Scazzi, poi, poiché Concetta non apriva, ha aperto la porta secondaria dell'abitazione, ha percorso un corridoio interno e ha scavalcato una finestra che porta direttamente nella casa di Sarah. Una volta entrato è stato visto da Concetta che si è molto spaventata, è rimasta impietrita. Corona si è quindi giustificato dicendo di essere stato contattato da alcuni settimanali per fare un'intervista a Concetta. Ha aggiunto di essere disposto a pagare 50-100mila euro. Corona aveva con sé un registratore che ha prima messo sul tavolo della cucina e poi, alle proteste di Concetta, ha rimesso in tasca. Fuori da casa di Concetta è rimasto un fotografo che ha detto all'operatore di Mediaset, riferendosi a Corona, "speriamo che si ricordi di accendere il registratore".

Nel programma di Rai 1, “Le amiche del Sabato”, condotto da Lorella Landi, addirittura anche il prete ospite in studio ha usato i toni e le parole dei legali di Concetta contro Corona. Questo senza sapere i fatti.

Dura la reazione dei comitati di redazione delle testate giornalistiche del Gruppo Mediaset, che "si dissociano dal grave episodio di cui si sarebbe reso protagonista Fabrizio Corona, che purtroppo attualmente ha un rapporto di collaborazione con l'Azienda".

Redazione che come, appunto “Quarto Grado” di Filomena Rorro, il giorno prima mandando le immagini, non si è fatta scrupoli nell'entrare in casa di Michele Misseri o come alla prima puntata attinente la vicenda ha rappresentato Sarah come poco di buono ed Avetrana come arretrata ed omertosa.

La stampa e la tv tacciono il fatto che sono due gli indagati per la compravendita delle foto del garage di casa Misseri, ad Avetrana (Taranto): si tratta della giornalista di Mediaset Ilaria Cavo e di un consulente della difesa di Sabrina Misseri, l’ingegnere Raffaele Calabrese di Ginosa. Con questi provvedimenti la procura di Taranto ha chiuso le indagini sulla presunta vendita delle foto scattate nel garage dove sarebbe stata uccisa Sarah Scazzi. L’inchiesta è partita da una denuncia fatta da un giornalista del Tg2, al quale (secondo quanto accertato dal pm) il 26 ottobre scorso il consulente della difesa di Sabrina avrebbe offerto delle foto scattate all’interno del garage dei Misseri in cambio di denaro. Il giornalista della Rai registrò il colloquio con il consulente e rifiutò di acquistare le foto. Le stesse foto furono mostrate in serata durante la trasmissione Matrix su Canale 5.

Naturalmente tutti tacciono gli assalti dei giornalisti alla stessa Concetta nell'entrare in casa, tornando dall’obitorio in cui c’era Sarah, ovvero gli assalti a Cosima e Valentina in casa Misseri. Tutto sbeffeggiato da un servizio delle “Iene”.

Non si può tacere il fatto che il dr. Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, prima del ritrovamento di Sarah si attivava per promuovere iniziative atte a favorire la ricezione di notizie utili. Aveva invitato i legali e i familiari di Elisa Claps, Ottavia De Luise, i fratellini Ciccio e Tore, oltre che il presidente dell’associazione “Penelope”, per un convegno da svolgersi nell’auditorium dell’Oratorio ad Avetrana, affinchè questi potessero dare un contributo alle indagini e alle ricerche, secondo le loro esperienze acquisite. Bene: la mamma Concetta, interpellata, inibì ogni manifestazione a favore di Sarah in Oratorio (riconducibile al cattolicesimo, essendo lei testimone di Geova) e senza la super visione dei suoi consulenti (Biscotti e Gentile). "La televisione non mi dispiacerebbe". A parlare è Claudio Scazzi, il fratello di Sarah, che dopo il dramma vissuto in famiglia, ha ammesso di aver contattato l'agente delle star Lele Mora per valutare le sue possibilità nel mondo dello spettacolo. "Sto a Milano e ho chiesto a Mora se aveva in mente qualcosa per me", ha detto. La risposta però sarebbe stata negativa: "Dice che non vado bene, che non sono fatto per la tv", spiega il giovane.

Fa pensare il fatto che il figlio Claudio Scazzi, durante il viaggio per andare da Milano ad Avetrana, i momenti successivi al ritrovamento della sorella, si sia fermato da Lamberto Sposini alla “Cronaca in diretta” su Rai 1 o le sue successive comparsate avvengono solo per la promozione del calendario e la raccolta di fondi per la sua associazione per la costituzione del canile intitolato a Sarah, tanto che vi è stata aspra polemica politica. Alla presentazione del calendario del 5 gennaio 2011, che doveva svolgersi nell’auditorium dell’Oratorio, le polemiche hanno fatto sì che intervenisse il Vescovo, tanto da far spostare la sede. Una decisione, quella di organizzare l'evento nella sala dei Caduti di Nassiriya anzichè nell'Oratorio sant'Antonio, presa all'ultimo momento per motivi di opportunità dopo le polemiche infuriate per giorni. La presenza di Claudio, che ha teneramente ricordato la sorella, è stata oscurata dal sindaco della città, Mario De Marco, e dall'ex tronista di Uomini e Donne, il salentino Giovanni Conversano, che hanno pensato a difendersi dalle polemiche sollevate dal presidente della pro loco di Avetrana, Emanuele Micelli, il quale ha denunciato la spettacolarizzazione dell'evento e ha censurato la partecipazione di un ex tronista alla presentazione del calendario. «Come possiamo dare un' immagine positiva di Avetrana se sulla morte di una ragazzina si organizza una serata con un tronista?», si era polemicamente domandato Micelli scatenando la bagarre. Il primo cittadino di Avetrana ha risposto con rabbia. «Il presidente della pro loco - ha detto - deve chiedere scusa alla comunità avetranese e alla famiglia Scazzi perchè ha pescato nel torbido». De Marco ha preteso anche «le scuse del direttore di Telenorba», Enzo Magistà, «uno scienziato che fa moralismo a tutto spiano», perchè - ha accusato polemicamente il primo cittadino - «insieme ad altri intellettuali italiani si è espresso e ha dato giudizi gratuiti senza essere informato». «La conferenza stampa di oggi - ha sottolineato De Marco - è finalizzata a chiedere le scuse di chi ha gratuitamente offeso la comunità avetranese». «Gli intellettuali - ha aggiunto - sono bravi a parlare, ma di intellettuali che fanno beneficenza ne conosco ben pochi».  

La sindrome della "Ribalta Mediatica". Con l'ingresso di nuovi personaggi e la promozione di un'inutile petizione al Presidente della Repubblica (senza alcun potere esecutivo), suggerita da impreparati o in mala fede istigatori, atta a rinforzare le inutili ricerche, ma non a dare vigore alle ferme indagini, c’è la conferma del fatto che troppi falsi consiglieri sfruttano il clamore mediatico per farsi pubblicità, promuovendosi come salvatori della Patria. Già la stampa riporta che la famiglia Scazzi, ha nominato dapprima un legale di fiducia, l’avvocato Maria Di Castri del Foro di Brindisi, e un portavoce, Valentino Castriota, entrambi componenti dell’associazione “Famiglie fratelli ristretti”. Poi ha nominato legale Giambattista Cervo del Foro di Lecce per la tutela della reputazione e verificare eventuali violazioni della privacy. Nella vicenda di Sarah Scazzi era comparso più o meno all’inizio quando ad Avetrana sono arrivati gli inviati dei quotidiani nazionali e le troupe dei network televisivi più importanti. Valentino Castriota, ben piazzato, di corporatura robusta, era stato presentato come portavoce della famiglia di Sarah. In effetti non c’era dichiarazione o intervista della mamma della ragazza in cui non ci fosse lui; vigile dietro le spalle di Concetta. Valentino diceva di rappresentare l’associazione «Famiglie fratelli ristretti». Era sul balcone di casa Scazzi la sera della fiaccolata ad Avetrana, quando mamma Concetta ha lanciato un ennesimo appello alla figlia. Anzi, proprio Valentino reggeva tra le mani i microfoni di alcune emittenti, tra cui "Studio 100" di Taranto, affinchè cogliessero tutte le parole della madre della ragazza. Poi, di Valentino Castriota si sono perse le tracce. Anzi, l’11 settembre la mamma di Sarah è uscita da casa, è andata dai Carabinieri e quando è tornata, volto scuro, ha detto che erano accadute delle «cose spiacevoli» senza però scendere nei particolari. Si apprende che Valentino Castriota è fuori. Fuori come portavoce, fuori da tutto. I giornalisti hanno pensato bene di sottacere la notizia (o la gaffe). E pensare che era il loro valido interlocutore. L’associazione «Famiglie Fratelli Ristretti», con una nota di Franco Nardelli e Renato De Giorgi, diffida infatti «Valentino Castriota e l’avvocato Giovanni Battista Cervo, come chiunque altro, dal prendere a nome dell’associazione e a nostra insaputa contatti con la famiglia Scazzi, a proporsi come assistente legale o portavoce. Sarebbe un esercizio abusivo della ragione sociale dell’associazione e prova anche di scarsa professionalità». Tutto questo non è altro che l’articolo apparso sulla Gazzetta del Mezzogiorno a titolo “Il portavoce viene sconfessato”. A riguardo su Youreporter del 19 settembre 2010 con titolo “Le mie ragioni sulla famiglia Scazzi” c’è la dichiarazione di Valentino Castriota: «in merito all'articolo pubblicato dalla gazzetta del 14 settembre 2010 intitolato “il Caso Valentino Castriota” mi preme precisare alcune cose:

1) La signora Scazzi la sera del 9 settembre firmò la liberatoria per la trasmissione di mattino 5, liberatoria che una volta firmata nessuno, compreso il sottoscritto, poteva chiedere compensi a Mediaset. Questa liberatoria ha prodotto frutti di puro isterismo nella persona della madre di Sabrina, che non accettava minimamente che sua figlia Sabrina firmasse tale foglio.. ci sono testimoni e un parente. Il giorno dopo sono stato rimosso dalla famiglia per un foglio a titolo gratuito e per aver fatto una cortesia a Mediaset;

2) sia io che i miei collaboratori ci abbiamo rimesso di tutto, compreso giornate di lavoro e soldi, ma l'abbiamo fatto con amore e per amore;

3) io non è che non sto andando più ad Avetrana perchè mi sento in colpa di qualcosa, ma perche è da sabato che sono a Roma per lavoro. Infatti io venni a sapere della mia rimozione quando oramai ero arrivato a Roma. Educatamente chiamai la signora Concetta e lei non si permise di rispondermi. Io non avevo niente contro di lei e contro nessuno, ma quanto meno sapere le motivazioni giuste;

4) la mia associazione. Dico mia perché l'ho fondata io insieme a due altre persone e tutti erano a conoscenza che ero lì e del mio operato. Guardatevi le interviste di Studio 100 il giorno della fiaccolata. Era presente il segretario e vari componenti dell'associazione “Famiglie Fratelli Ristretti”, perciò da chi dovrebbero prendere queste distanze? L'avvocato, e vi suggerisco di guardare le interviste sia della Gazzetta del Mezzogiorno che di certe testate giornalistiche, non era Giovanni Battista Cervo, ma bensì un altro legale dell'associazione. Mi chiedo solamente a che gioco stiamo giocando? Con questo ho detto tutto e sono io a prendere le distanze da tutti, visto come stanno le cose. Grazie al mio intervento ho smosso l'unione sportiva Lecce e il Taranto calcio per il mondo del calcio, Lele Mora per lo spettacolo. L'appello del Presidente della Repubblica sono stato io l'artefice di tutto e l'ho fatto gratuitamente». Questo, oltre a dare una luce nuova, dà da pensare. C’è da chiedersi se, poi, le continue comparsate in tv dei nomi citati, non siano avvenute a titolo oneroso. La risposta la dà successivamente lo stesso Castriota. «Molte tv nazionali hanno offerto soldi a Sabrina e lei li ha accettati volentieri». L'accusa, circostanziata, è stata lanciata ai microfoni del Tg Norba del 19 ottobre 2010 da Valentino Castriota, che per una quindicina di giorni dopo la scomparsa di Sarah Scazzi ha svolto il ruolo di 'portavoce' della famiglia della 15enne di Avetrana. Castriota contesta le ultime dichiarazioni di Valentina Misseri, sorella di Sabrina, che ha accusato i giornalisti di non aver mai aiutato sua sorella, ma di averla rovinata: «Ma se era lei che dalla mattina alla sera cercava i giornalisti... - ha dichiarato Castriota a Telenorba. - Io le organizzavo il palinsesto giornaliero, dalla mattina alla sera si organizzavano le interviste. E quando mi sono permesso di andare a far firmare una liberatoria a casa della famiglia Misseri, la signora Cosima mi attaccò duramente, perché la figlia non avrebbe firmato alcuna liberatoria a titolo gratuito. Sia un settimanale nazionale che molte tv nazionali le hanno offerto soldi e Sabrina li ha accettati volentieri - conclude Castriota, che ha vissuto a stretto contatto con le famiglie Scazzi e Misseri ed oggi afferma: - Ho capito che lei c'entrava qualcosa in questa storia e che c'entrava qualcosa la famiglia». Non solo. Il Messaggero in un articolo pubblicato l’8 ottobre riapre i dubbi sul reale svolgimento della tragedia di Sarah Scazzi. Il giornale romano riporta la testimonianza di Valentino Castriota, per alcuni giorni portavoce della famiglia Scazzi, testimonianza che rivela alcuni particolari sui giorni immediatamente precedenti all’omicidio e a quelli successivi che vengono rilasciate solo ora per la prima volta. «Secondo me le indagini sono al 90%, manca un 10%. - Le parole di Castriota sono state rilasciate all’emittente radiofonica Radio les. Per Castriota - all'interno della famiglia qualcuno conosce qualche dettaglio in più. Sarah - afferma Castriota - ha detto a Sabrina (il 25 agosto) che il papà il giorno prima l'aveva molestata. Non è vero che hanno litigato per altro (gelosia per Ivano Russo). Il litigio era partito dalla denuncia di Sarah alla cugina. Sabrina e Sarah hanno litigato perché Sabrina non accettava il fatto (delle molestie). Castriota pone dubbi anche sul comportamento del padre e del fratello di Sarah: «Il suo comportamento, anche con me, è stato strano sin dall'inizio. Non si è fatto mai vedere. Strano anche il comportamento del fratello, che non si è mosso da Milano. La mamma ha un carattere freddo - conclude - era convinta fosse viva, era tranquilla». Non finisce qui. A “Porta a Porta” su Rai 1 del 19 ottobre 2010 l’avvocato d’ufficio di Michele Misseri, Daniele Galoppa, chiede all’avvocato di Sabrina Misseri, Vito Russo, come mai era in Avetrana, insieme alla moglie, l'avvocatessa Emilia Velletri, vicino a casa di Sabrina, la mattina presto del 15 ottobre, quando ancora non era indagata, in quanto la versione del padre che la coinvolgeva nel delitto era stata resa solo nel pomeriggio? Russo affermava che era stato contattato da Don Dario De Stefano, parroco di Avetrana. Don Dario, la sera stessa, in diretta, ha smentito, escludendo qualsiasi contatto o coinvolgimento. Ma nel prosieguo li stessi Russo e Velletri sono stati sfiduciati dalla famiglia Misseri, non si sa quanto felici del fatto e nello stesso modo in cui loro volevano fare con l'avv. Galoppa. Appunto. Sulle reti Rai nel pomeriggio del 16 novembre 2010, Carmine, fratello di Michele Misseri, affermava che Russo, Velletri e Valentina, figlia di Michele Misseri, lo hanno costretto ad inviare allo stesso Michele un telegramma, in cui lo si esortava ad estromettere il Galoppa ed a nominare altri avvocati. Carmine ha testimoniato che non voleva noie e chiedeva perchè non lo facessero loro, ma questi lo hanno rassicurato sul fatto che era tutto lecito. La Procura ha aperto un inchiesta ed ha verificato che il telegramma era su carta intestata di un noto studio legale di Taranto vicino proprio ai difensori di Sabrina. La sfiducia si è concretizzata e sono stati affiancati dall'avv. Francesca Conte del Foro di Lecce, che su Telerama del 16 novembre 2010 si è presentata con modo ironico attaccando Galoppa: «Noi non saremo bravi come gli avvocati d'ufficio, ma siamo forti dei nostri 27 anni di attività». Bah!! Galoppa, nominato d'ufficio dalla Procura di Taranto è l'unico che non si è proposto e con la sua pacatezza e professionalità non incarna certo il luogo comune che colpisce gli avvocati d'ufficio: incapaci e/o disinteressati. Ma il suo mandato non dura molto. Fino all'incidente probatorio del 19 novembre 2010, dove in carcere viene sentito Misseri e contestualmente a "Quarto Grado" compare il video (secretato) in cui si vede Misseri nel suo garage che confessa. «Il caso Scazzi ha perso le sue connotazioni di caso giudiziario ed assume sempre più le connotazioni del business - sono le parole con cui l'avvocato ha motivato la sua decisione di lasciare -. Un business a cui, per cultura ed educazione giuridica e professionale, mi debbo necessariamente sottrarre». Dichiarazioni pesanti, che gettano un'ombra sull'atteggiamento che ha assunto il collegio difensivo di Sabrina Misseri. «Mi è stato insegnato - ha aggiunto Francesca Conte - che la difesa tecnica, per essere efficace, deve essere libera da condizionamenti, indipendente, coerente ed onesta, non potendo invece essere legata a speculazioni inconfessabili di ogni tipo». Ma qualcuno gli fa notare che non ha lasciato lei, ma è stata Sabrina a revocargli il mandato. La Conte si difende dicendo che è stato l’avvocato Vito Russo a fare in modo che Sabrina Misseri revocasse il mandato. È quanto denuncia la stessa penalista di Lecce sottolineando che ha anche una registrazione delle parole di Russo. «L'avvocato Russo, mentre io ero con sua moglie in carcere per l’incidente probatorio – spiega Conte -, dichiarava alla stampa, senza accorgersi della presenza di due miei avvocati che lo hanno registrato, che avrebbe fatto in modo di far revocare il mio mandato, dicendo che l’incidente probatorio è andato male». Che situazione: avvocati dello stesso collegio difensivo che si registrano e si "fanno le scarpe". Bah!! Intanto il 19 dicembre 2010 la stampa comunica che il collegio difensivo di Sabrina Misseri registra una ulteriore new entry: ci sarà, infatti, anche l'avvocato Franco Coppi tra coloro che proveranno a convincere i giudici dell'innocenza della 22enne accusata di aver ucciso la cuginetta, Sarah Scazzi. Coppi, professore di diritto penale alla Sapienza di Roma, ha una grandissima esperienza nelle aule giudiziarie, essendo stato, tra l'altro, tra i difensori di Giulio Andreotti e altri personaggi notissimi del panorama politico italiano. Affiancherà Russo e Velletri. Con l’evolversi degli eventi criminologi e psichiatri della tv irrompono in truppa nel caso Sarah Scazzi. Dagli studi televisivi direttamente ad Avetrana. Pronti a sfidarsi a colpi di perizie per decifrare le pieghe del delitto. Pronti a dire tutto e il contrario di tutto così come hanno fatto in tv. Questa volta sono i legali della famiglia Scazzi a calare gli assi della tv dopo che Galoppa ha preso Roberta Bruzzone, criminologa, e Giancarlo Umani Ronchi, medico legale, Marina Baldi, esperta di genetica forense, per Michele Misseri e Russo ha preso la psicologa e criminologa Cinzia Gimelli e il medico legale Enrico Risso e l'ingegnere elettronico per i telefonini Andrea Paoloni per Sabrina. Come consulenti di parte Scazzi, infatti, sono stati nominati Massimo Picozzi, criminologo, e Alessandro Meluzzi, psichiatra, volti noti del piccolo schermo, oltre che Luciano Garofano, ex Ris di Parma (questi contestualmente è anche consulente dell'avv. di Sabrina Misseri, Francesca Conte, nel processo per l'omicidio "Basile"). Poco ci manca che scendano in campo addirittura i vari Vespa, Sposini, Sottile, Vinci, Sciarelli, D'Urso, Giletti, ecc. Dopo aver scarnificato Sarah, ora si vuole disossare i Misseri. Al programma di Paola Perego su Rai 1 del 19 novembre 2010 alla domanda, “ma chi li paga tutti questi avvocati e consulenti”, Giancarlo Magalli rispose: «Sono loro pronti a pagare per essere là, anziché essere pagati, per la grande pubblicità che si fanno». Ma non finisce qui. Qualcuno vuole rimuovere dall'incarico l'avvocato di Michele Misseri Daniele Galoppa di Grottaglie. A riferirlo è lo stesso legale, intervistato il 20 ottobre 2010 da "Chi l'ha visto?" in onda su Rai 3 e su altri programmi tv. Gli sono stati chiesti i motivi per cui ci sarebbe questa pressione e l'avvocato Galoppa spiega che un motivo e nel fatto che "il caso ha una ribalta nazionale e internazionale", aggiungendo "però mi è stato riferito che il mio ruolo, come viene condotto da me, potrebbe dare fastidio a qualcuno". A chi quindi può dar fastidio Daniele Galoppa e soprattutto, perché? Cosa non si fa per apparire, si arriva anche a “fare le scarpe ad un collega” che svolge bene il suo lavoro e senza timore reverenziale di colleganza. Dai e dai Michele Misseri dalle 12 del 30 novembre 2010 ha due avvocati di fiducia: Daniele Galoppa, che dal 7 ottobre lo assiste come legale d’ufficio, e Francesco De Cristofaro. Il colpo di scena è giunto dopo che in mattinata alla cancelleria del giudice per le indagini preliminari Martino Rosati era arrivata una comunicazione da parte dell’avvocato Francesco De Cristofaro, del foro di Roma, che ufficializzava la sua nomina quale legale di Michele Misseri, così come chiestogli dalla figlia Valentina Misseri. È possibile, infatti, per il prossimo congiunto di un indagato assistito da un legale d’ufficio, la nomina di un avvocato di fiducia che prende il posto di quello scelto tramite il call center degli avvocati. Una opportunità che la figlia Valentina ha voluto sfruttare probabilmente per regolare i conti con Daniele Galoppa con il quale da tempo era in rotta e con il quale ha avuto una discussione molto accesa, stando ad alcune indiscrezioni, il venerdì sera precedente, a Roma, all’esterno dello studio della trasmissione televisiva «Quarto Grado», che si è occupata dell’omicidio di Avetrana, per il quale sono rinchiusi nel carcere di Taranto Michele Misseri e l’altra sua figlia Sabrina. Michele Misseri ha però colto tutti in contropiede, andando all’ufficio matricola e nominando quali avvocati di fiducia sia Daniele Galoppa che Francesco De Cristofaro. L’avvocato di Grottaglie ha saputo dai giornalisti che era stato affiancato da un altro legale, un fatto che a quanto pare non ha concordato con nessuno e che non lo vedrebbe d’accordo. Per questo motivo su un programma RAI del 1 dicembre Galoppa ha specificato che non demorde, né abbandona, ma avverte che il collega dovrà difendere gli interessi o di Michele Misseri o degli altri componenti la famiglia. In caso contrario sarà in conflitto d’interessi e dovrà adottare gli atti più opportuni. E poi, nonostante fosse in preda alla disperazione, che annebbia la razionalità, e fosse consapevole, che nelle situazioni di clamore mediatico tutti avrebbero approfittato per essere illuminati dai media per conseguire notorietà, la famiglia Scazzi il 21 settembre si è affidata agli avvocati Walter Biscotti e Nicodemo Gentile.

Dove ci sono le telecamere, subito dopo appaiono loro. I casi più seguiti dai media sono roba loro. Non è accaparramento illecito di clientela. Sia mai. Non è come per gli avvocati tarantini Vito Russo ed Emilia Velletri. Per loro, sì, che si son mossi Procura e Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto. Inoltre i legali degli Scazzi collaborano in modo “simbiotico e significativo” sia con i giornalisti, sia con i magistrati. Gli avvocati di Perugia Walter Biscotti e Nicodemo Gentile rappresentano anche Salvatore Parolisi come persona offesa nell'indagine sull'omicidio della moglie Melania Rea. Anche in questo caso non mancano di soffermarsi su un fatto: stabilire la loro verità. Gli avvocati Gentile e Biscotti hanno spiegato che con la loro nomina intendono "contribuire all'accertamento della verità". «Abbiamo incontrato il pm Umberto Monti - ha detto Biscotti, avvicinato dai cronisti ad Ascoli Piceno - offrendo massima collaborazione. La volontà di Parolisi è essere considerato parte offesa in questa vicenda, collaborando con gli investigatori, come ha già fatto finora». Intanto si è proceduto nei confronti di Parolisi come se si trattasse del vero responsabile. Sia da parte della stampa, sia da parte della procura, che pur procedendo alla perquisizione in casa di Parolisi, a questo non gli è stato indicato di nominare un legale. L'irresistibile ascesa dei due avvocati perugini alla fama nazionale. Si tratta di Valter Biscotti e Nicodemo Gentile che hanno ricevuto l'incarico di difendere Winston Manuel Reves, 41enne domestico di origine filippina che ha ammesso di aver ucciso la contessa Alberica Filo Della Torre. Un delitto che ha trovato soluzione, grazie a nuove tecniche di laboratorio, a quasi 20 anni di distanza. La contessa, infatti, fu uccisa, nella camera da letto della sua splendida villa situata all'interno del parco dell'Olgiata, a Roma, il 10 luglio 1991. Sarà un processo importante per la coppia di avvocati perugini, l'ultimo di una serie che li ha visti protagonisti. Hanno assistito la famiglia di Emanuele Petri, l'agente della Polfer, assassinato il 2 marzo 2003, sul treno Roma-Firenze, dal brigatista Mario Galesi. Hanno poi difeso Rudy Guede nel processo per il delitto di Meredith Kercher. Assistono la famiglia Scazzi dopo il delitto di Sarah, il cui corpo senza vita fu ritrovato nelle campagne intorno ad Avetrana, il 6 ottobre 2010. Infine, i due penalisti, difendono la famiglia di Brenda, il trans brasiliano trovato morto, asfissiato, nella sua modesta abitazione romana, il 20 novembre 2009. Brenda era testimone eccellente nel caso che portò alle dimissioni il governatore del Lazio, Piero Marrazzo. Infine, il solo Biscotti è stato nominato difensore di Sara Tommasi, la starlette ternana comparsa tra le ragazze che avrebbero frequentato le feste di Arcore nella villa di Silvio Berlusconi. Attaccare Sabrina Misseri considerandola responsabile del delitto di Sarah Scazzi, o definire la madre, Cosima Serrano, come fortino da espugnare, riferendosi al fatto non provato che il delitto fosse stato commesso in casa con l’apporto di tutta la famiglia, non sono il solo exploit diffamatorio del duo perugino. Sapete cosa dissero Biscotti e Gentile al processo in cui difendevano Rudy Guede? Vi riporto il passaggio di un articolo de “Il Corriere della Sera” del 25 ottobre 2008. «Chi era Meredith Kercher? Non era certo una ragazza estremamente riservata e che non si faceva avvicinare da nessuno, anzi, amava bere, assumeva delle droghe (cannabis) quando si trovava in compagnia. Aveva inoltre una vita sessuale piena, a trecentosessanta gradi, e provava attrazione non solo per il proprio fidanzato italiano».

Gli avvocati Biscotti e Gentile si sono offerti alla famiglia Scazzi (a dire degli avvocati, gratuitamente) e si avvarranno della consulenza dell’ex comandante del Ris di Parma, l'ex generale Luciano Garofano. «Vogliamo essere di supporto alla Procura – ha spiegato Gentile – abbiamo incontrato il sostituto procuratore Mariano Buccoliero (dirige l’inchiesta sulla scomparsa della minore) depositando le nostre nomine. E' stato un colloquio molto cordiale. Poi abbiamo trascorso gran parte della giornata con la famiglia Scazzi, con la mamma e il papà di Sara e anche alcuni famigliari. Coll'ex gen. Garofano (ex comandante Ris di Parma) abbiamo ripercorso il tratto di strada che Sara avrebbe dovuto compiere fino a casa della cugina e fatto una prima ricognizione della zona. Penso che torneremo a breve in Puglia». Da notare che Rudy Guede è stato condannato nonostante si proclamasse innocente e che i suoi legali per forza di cose in quel processo erano antagonisti giudiziari proprio con i Ris di Parma. Da notare che in merito alla vicenda di Meredith Kercher sulla stampa di tutto il mondo e negli atti di difesa di Amanda Knox e di Raffaele Sollecito si parla di errori madornali commessi proprio dal Ris di Parma. Da notare che Wikipedia e vari organi di stampa riportano che l’ex generale Luciano Garofano dal 1995 fino al 2009 è comandante del RIS di Parma (Reparto Carabinieri Investigazioni Scientifiche), chiamato sulla scena di molti casi giudiziari avvenuti negli ultimi decenni nel nord Italia (strage di Erba, il serial killer Bilancia, caso Cogne-Franzoni, ecc.). Presenzialista in tv come esperto di indagini scientifiche, Garofano nel novembre 2009 viene coinvolto in un'indagine della Procura di Parma, che lo vede indagato per peculato e truffa ai danni dello Stato, un'indagine avviata in seguito all'esposto dell'avvocato Carlo Taormina. Garofano ha negato di essersi dimesso dall’Arma dei Carabinieri a causa di queste indagini. Oggi ci troviamo di fronte a degli avversari che si alleano in un caso senza utilità economica. Da notare che l'ex Generale Garofano precedentemente in interviste tv ha reso opinioni, in cui sposava la tesi dell’allontanamento volontario di Sarah. Inoltre, successivamente, si ha la notizia secondo cui la nota criminologa, Roberta Bruzzone, assumerà l’incarico di consulente per Michele Misseri. Partecipando alla trasmissione Open di Telerama del 30 ottobre 2010, la nota specialista (spesso ospite di trasmissioni tv nazionali) ha dichiarato che svolgerà l’incarico a titolo gratuito. Anche lei, come tutti gli altri!! E che dire di Cosima Serrano, madre di Sabrina e Valentina e moglie di Michele Misseri. Cosima è da sempre diffamata, senza tutela della sua immagine, pur non essendo indagata. Additata dai media e sospettata dagli inquirenti come protagonista e regista occulta della vicenda che attiene la morte di Sarah Scazzi. E dire che anche lei ha un avvocato, che la difende: Francesco De Jaco del Foro di Lecce. Sciacallaggio per sciacallaggio, perché non si verifica se e quanto sono pagati i presenzialisti delle tv nazionali (familiari, loro avvocati e consulenti, pseudo esperti salottieri pagati a gettone nei salotti televisivi, che smentiscono sè stessi a secondo l'evolversi delle circostanze e che con piroette verbali tendono a dimostrare tesi basate su pregiudizi e luoghi comuni) per arricchirsi sui poveri resti di Sarah e chi ha dato il diario di Sarah per essere pubblicato. Sarei curioso di sapere se e quanto sono genuine le dichiarazioni rese in tv dai protagonisti prezzolati della tragedia, che si sta rivelando una farsa. Naturalmente nessuno pensa bene, nel loro interesse e non in quello di Sarah, di contestare il modo e i tempi di svolgimento delle indagini. Per esempio: se si trattava di scomparsa di una minore, perchè nell'immediatezza della sparizione non si è aperto direttamente il fascicolo per sequestro di persona, con l'ausilio di strumenti adeguati di indagine come le intercettazioni ambientali e telefoniche, perquisizioni, accertamenti tecnici su computer e cellulari, controlli in tutti i campi Rom in Italia, controllo alle frontiere e sedi di imbarco, affinchè la ragazza non fosse stata portata all’estero. Nessuno promuove verifica sullo svolgimento delle indagini, affinchè queste siano svolte da persone competenti alla specificità del reato e non da chi è delegato giornalmente a fare multe in violazione al codice della strada. Nessuno pensa bene di accertare chi ha consegnato il diario di Sarah a "Panorama", su cui si sono stati basati stereotipi e pregiudizi sulla ragazza e la sua famiglia, violando la loro privacy, e perchè gli inquirenti l'abbiano fatto. Diario consegnato dai famigliari ai carabinieri di Avetrana e per forza di cose segretato e custodito come atto probatorio. Nessuno pensa bene di constatare se ci si sia avvalsi delle riprese dei satelliti militari italiani o stranieri in servizio di sorveglianza ed intercettazione a tutela delle strutture militari nazionali e straniere nella città di Taranto, distanti 40 KM. Un numero incredibile di persone sparisce ogni giorno nel nulla, soprattutto giovanissimi. Molti di loro si trovano, di altri non se ne sa più niente. E’ come se si fossero volatilizzati, spariti. Nel mondo spariscono ogni anno molte migliaia di persone. Ogni anno in Italia sono dichiarati scomparsi oltre 2000 minori. Alcuni di loro tornano a casa da soli, altri vengono ritrovati dalle forze dell'ordine, altri ancora non hanno mai fatto ritorno. Secondo le cifre del Ministero dell'Interno, solo nel 1996, sono stati dichiarati scomparsi 2391 minori. Di questi, 1912 hanno riabbracciato le loro famiglie. Al marzo '98 i minori dichiarati scomparsi erano 1419, di cui 796 sono stati rintracciati dalle forze dell'ordine. Che fine fanno i tanti di cui si perderà ogni traccia? Per farsi una pallida idea di quanto è grave il fenomeno basti sapere che, nel 1997, “Il Giornale” (15 Marzo 1997) titolava un lungo pezzo: “Dal ’90 quadruplicati i ragazzi spariti”. Oggi sono molti di più, senza contare la sparizione non denunciata degli invisibili, ossia chi è illegalmente in Italia e non denuncia per paura di espulsione. Un calcolo, anche approssimativo, è impossibile. Il quotidiano, tra l’altro, denunciava: “Cresce il numero dei giovani, soprattutto tra i 15 e i 18 anni, che svaniscono nel nulla. Le piste: droga, sette religiose, voglia d’avventura e mercato degli schiavi” e, come vedremo, altro ancora. Se molti di questi giovani vengono ritrovati, di altri non se ne saprà più nulla. Alcuni di loro finiscono nella rete della prostituzione, della pornografia, della pedofilia, altri nel sottobosco criminale dei devoti di Satana. Il giornale “La Stampa” (8/2/87) riporta la notizia di una setta satanica che reclutava bambini. Bambini scomparsi, violenze sessuali su di essi e pedofilia a livello mondiale puntano tutti verso il coinvolgimento di una rete organizzata di criminali di alto livello che controllano di nascosto il sistema legale. Senza dimenticare il racket delle asportazioni degli organi umani da organismi sani e controllati commissionati da persone facoltose che non amano aspettare. Vi è, addirittura, anche un mercato di “pezzi di ricambio” umani. Vengono inviati ai possibili clienti veri e propri cataloghi di organi, che dovrebbero servire o come feticci umani per riti satanici o, in altri casi, per corroborare il traffico internazionale clandestino dei trapianti. “Centinaia di minorenni, maschi e femmine, spariscono ogni anno. Molti finiscono all’estero, nel mercato delle adozioni clandestine. Molti finiscono nel circuito della pedofilia e della pornografia” (“Visto”, 8/11/1996). Così ha denunciato la parlamentare Rosario Godoy de Osejo, fondatrice di un “Comitato per i bambini scomparsi” e prosegue: “Ho il sospetto che la ragione della scomparsa possa essere il prelievo di giovani e sani organi da vendere nei paesi ricchi. Se le cose stanno così, è facile capire che fine fanno questi bambini una volta ‘esportati’ “. Fatti allucinanti. Non è, infatti, neppure una “leggenda urbana” quella del supermarket degli organi di giovani cadaveri, ma una realtà agghiacciante. La “Gazzetta del Sud” di Venerdì 25 Agosto 1995, al proposito, scriveva: “L’Onu ha denunciato, in forma ufficiale, il traffico di bambini che si svolge, con queste finalità, in alcuni paesi. (…).

Il business sulla pelle di Sarah. Difatti da “La Repubblica” del 28 ottobre 2010, che contiene l’inchiesta testuale, video e audio, così come altri organi d’informazione, si viene a sapere che c'è il consulente giudiziario che chiede ottomila euro per le fotografie del garage dell'orrore. L'avvocato che ne pretende qualche migliaio per essere ospite in televisione. C'è anche l'ex portavoce delle famiglie Scazzi e Misseri che racconta di cifre a quattro zeri pagate per avere interviste, diari e video in esclusiva. Sul business nato attorno all'omicidio di Sarah Scazzi ci sono soprattutto tre inchieste. Il Garante per la privacy, Francesco Pizzetti, ha chiesto (dopo un esposto del Codacons) spiegazioni a Rai, Rti Mediaset, Sky e Telecom sulla diffusione dei verbali e dei file audio degli interrogatori dei protagonisti del giallo. Il procuratore di Taranto, Franco Sebastio, ha invece aperto un fascicolo per fuga di notizie e ricettazione di atti giudiziari. L'Ordine degli avvocati, infine, ascolterà i tre legali coinvolti della vicenda cercando di capire, se davvero siano stati violati i principi deontologici nella gestione di questo caso. E proprio da un avvocato, Daniele Galloppa, difensore di Michele Misseri, parte un'inchiesta di RepubblicaTv sul mercato nato ad Avetrana. «Sì - confessa Galoppa ripreso con un telecamera nascosta - mi sono fatto pagare per andare in televisione. Qual è il problema? Lo fanno tutti, non capisco perché non dovrei farlo anche io: alcune trasmissioni pagano, è vero, ma bisogna saperci fare». Per lui nessun problema di deontologia professionale. «Io sono un professionista - ribatte Galloppa, che dovrà rispondere all'Ordine del comportamento tenuto con la stampa, insieme con i colleghi Vito Russo ed Emilia Velletri - e quella in fin dei conti è una prestazione. Per stare in tv perdo ore di lavoro: se vengo chiamato come ospite esperto, posso essere pagato. Sono tranquillo». Galloppa non dice quanto incassa, anche se nell'ambiente si parla di cifre intorno ai tremila euro. Certo non si può dire che non ami la televisione: l'avvocato è presenza fissa di Quarto Grado (Rete 4, è ospite il 10, il 15 e il 22 ottobre), ma ha partecipato anche a l'Arena di Domenica in, Matrix,  Mattino cinque, la Vita in diretta. Un po' meno tranquillo sarà probabilmente il consulente tecnico dell'avvocato Russo: l'uomo, un ingegnere nominato per ricostruire il luogo del delitto, ha chiesto (all'insaputa degli avvocati, giurano loro) prima diecimila e poi ottomila euro all'inviato del Tg2, Valerio Cataldi per le foto del garage dell'orrore. Il giornalista ha registrato tutto e poi ha mandato in onda il servizio. Le stesse, tra l'altro, andate in onda in esclusiva qualche ora prima in un programma Mediaset. «Anche Cosima e Sabrina sono state lautamente compensate», si difende, accusando, l'avvocato Galoppa. E una conferma in questo senso arriva da un altro personaggio assai controverso, Valentino Castriota. Per 15 giorni, dopo la scomparsa di Sarah, funge da portavoce della famiglia. Poi viene allontanato proprio da Sabrina Misseri, con l'accusa di essere un «disturbatore televisivo», modello Paolini. É Castriota però a convincere i calciatori del Lecce a scendere in campo con una maglietta per Sarah, su richiesta della famiglia. É Castriota che organizza la fiaccolata in paese. «Di offerte di denaro per interviste o materiale video esclusivo ne arrivavano tutti i giorni - racconta oggi - per il filmato del viaggio a Roma di Sarah e Sabrina sono arrivate proposte da quattromila euro, per i diari cifre superiori a diecimila euro. Quando non erano soldi, erano promesse di costosi regali». Claudio, il fratello di Sarah, ha richieste invece più genuine, tenere. «Quando - racconta - ho partecipato a "La vita in diretta" (ndr, poche ore dopo il ritrovamento del cadavere di sua sorella), ho chiesto come compenso di parlare con un esperto di satelliti per capire se era possibile individuare una foto di via Deledda nel momento un cui Sarah è sparita. Per un'altra intervista ho preteso un esperto di telefonia che mi ha spiegato il funzionamento delle celle. Ora voglio costruire una casa di ricovero per cani ad Avetrana, in memoria di Sarah: ecco, se volete un'intervista mi dovete aiutare in questo». Così spiega Claudio, mentre a pochi metri da casa sua qualcuno ha scritto su un muro: "Avetrana non è Hollywood". Ecco come si spiega l’interesse degli avvocati che si offrono gratis ad assistere le vittime di casi di interesse mediatico. Peccato che ad essere sentiti dal Consiglio dell’Ordine sono solo gli avvocati di Taranto.

La vicenda si chiude con alcune certezze:

che mai un dramma ha avuto tanta attenzione mediatica sin dal primo giorno;

che l’informazione, spesso, è sciacallaggio, superficialità, dilettantismo;

che, nonostante le risorse impiegate e le forze messe in campo, mai si sarebbe scoperto il responsabile di un siffatto delitto e ritrovato il corpo, se non fosse stato lo stesso autore a consegnarsi. Lo stesso procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, in conferenza stampa ha ammesso che non era a conoscenza del fatto che vi fossero 26 mila scomparsi e che i carabinieri avessero il Rac, il Reparto analisi criminologiche;

che la mamma di Sarah ha scelto di affidarsi all’assistenza e consulenza di avvocati ed associazioni che non fossero di Avetrana, pronti a sfruttare la ribalta, nonostante i suoi compaesani si siano prestati in modo disinteressato e non richiesto;

che, da parte dei protagonisti della vicenda, vi è stata troppa propensione ad apparire in tutte le occasioni, anche quando sarebbe stato meno opportuno a tutela dell'immagine di Sarah, ovvero per tempi e modi di trattazione degli eventi;

che gli scomparsi appartengono quasi sempre ad un ceto sociale umile e poco scolarizzato, ma che a torto i media uniformano con tutta la loro comunità, e che solo una mobilitazione mediatica può costringere gli inquirenti a dedicare maggiore attenzione alla vicenda, nella speranza che questi trovino il colpevole e non "un colpevole";

che spesso la massa si erge a giudice degli altri, secondo le circostanze, influenzata dai media, non pensando che gli altri sono anche loro e, comunque, con le sentenze sommarie minacciate si mettono al pari dei carnefici.