Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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SARAH SCAZZI

LA CASSAZIONE

E L’INCHIESTA BIS

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

  

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

SOMMARIO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

INTRODUZIONE.

IL RICORSO ALLA CORTE DI CASSAZIONE.

LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI.

IL CARCERE UCCIDE: TUTTO MORTE E PSICOFARMACI.

GLI AVVISI DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI PER 12.

L’INEVITABILE E SCONTATA RICHIESTA DI RINVIO A GIUDIZIO.

PROCESSO A MICHELE MISSERI ED ILARIA CAVO.

PROCESSO A IVANO RUSSO.

PROCESSO A CLAUDIO RUSSO.

PROCESSO A ELENA BALDARI.

PROCESSO A ANTONIETTA GENOVINO.

PROCESSO A MAURIZIO MISSERI.

PROCESSO A ANNA LUCIA PICHIERRI.

PROCESSO A ALESSIO PISELLO.

PROCESSO A ANNA SCREDO.

PROCESSO A DORA SERRANO.

PROCESSO A GIUSEPPE SERRANO.

PROCESSO A GIUSEPPE OLIVIERI.

PROCESSO A GIOVANNI BUCCOLIERI.

LE CONDANNE SCONTATE.

LA STORIA DI SARAH E DELLE ALTRE…NOEMI E NICOLINA.

GIORNALISTI MENTITORI ED INFANGATORI.

CONCLUSIONI. BASTA GOGNA!

INTERVISTA A FRANCO COPPI.

LA CONTROSTORIA.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!     

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana

di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Ballata ti l'Aitrana

di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

INTRODUZIONE.

IL TANATURISMO. L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL TURISMO DELL’ORRORE, scrive Antonella Serecchia il 9 agosto 2018 su "Thevision.com. È sabato 14 gennaio e all’isola del Giglio c’è la classica temperatura invernale. La stazione meteo di Monte Argentario registra 5 gradi di minima, 10 di massima. Non il gelo siberiano, ma nemmeno una temperatura che invoglia alla balneazione o a lunghe passeggiate. Eppure, alla biglietteria di Porto Santo Stefano vengono staccati 1081 biglietti per il traghetto che porta all’isola toscana. Il sabato precedente erano stati appena 131. È agghiacciante pensare che questo peculiare incremento del flusso turistico non sia dovuto a un evento culturale, un concerto o una manifestazione, bensì a una tragedia. È il 14 gennaio 2012, il sabato successivo al naufragio della Costa Concordia. Soccorritori e giornalisti, si potrebbe pensare. Certamente ci sono anche quelli. Ma tra loro ci sono anche moltissimi turisti, accorsi per ammirare la gigantesca nave che giace su un fianco, adagiata sulla costa. Poche ore prima, quello che ora sembra un ammasso di ferraglia, solcava il mare carica di 5mila passeggeri. 32 di loro hanno perso la vita in seguito a quello che è stato il naufragio più discusso dai tempi del Titanic, esattamente cento anni dopo. Ma è proprio questa una delle tante, presunte coincidenze, che hanno contribuito a trasformare lo scoglio di fronte al relitto della Concordia in un’attrazione. Laddove, poche ore prima, decine di persone perdevano la vita, ora altre scattano foto ricordo. Questa forma di voyerismo della tragedia non rappresenta il caso isolato di qualche mitomane o appassionato delle teorie del complotto, ma si tratta di un vero e proprio fenomeno: il turismo nero, “Il piccolo, sporco segreto del settore turistico.”

Secondo lo studioso Philip Stone, per tanaturismo (dal greco, thanatos, morte) si intende “L’atto di viaggiare e visitare luoghi associati alla morte, alla sofferenza o a ciò che è apparentemente macabro.” Ne esistono svariate sfaccettature, che vanno dall’assistere a ricostruzioni di guerre, omicidi o massacri, visitare i luoghi in cui sono avvenuti, fino alla voglia di presenziare personalmente a una pubblica esecuzione. Secondo l’ampia letteratura del genere, il partecipante medio può essere guidato dalla voglia di approfondimento di tipo storico e sociale, dalla volontà di rendere omaggio alle vittime o da una curiosità ossessiva. Si può discutere dell’opportunità di alcuni casi limite, come la decisione di riprodurre, come in una giostra di Gardaland, i suoni dei bombardamenti come dovevano averli sentiti i romani rifugiati nel Bunker di villa Torlonia, durante la seconda guerra mondiale. Ma quanto si tratta di episodi come quello della Concordia, si tratta semplicemente di una forma di morbosità che con lo studio e la conoscenza non ha nulla a che vedere.

A dimostrarlo sono diversi casi. Avetrana è una cittadina in provincia di Taranto, il cui interesse culturale o paesaggistico non è mai stato particolarmente rilevante. Eppure, nel 2010 si è riempita di ficcanaso che volevano piantare la loro personale bandierina nel luoghi dell’omicidio della quindicenne Sarah Scazzi. Il pozzo dove è stato ritrovato il corpo, la villetta dello zio costituitosi come assassino – c’è addirittura chi citofona per chiedere un autografo a Michele Misseri –diventano così dei luoghi d’interesse per quelli che vengono definiti turisti dell’orrore, ma che in realtà incarnano solo la volontà di ficcanasare in vicende che i media hanno amplificato in maniera eccessiva, trasformandole in mangime per guardoni. Nel 2014, a dodici anni dall’omicidio di Cogne, La Stampa riportava ancora di visitatori che si erano recati in gita nel paesino valdostano per vedere dal vivo la villetta del delitto. La stessa immagine si ritrova in tempi ancor più recenti, qualche chilometro più a sud, a Perugia, di fronte all’abitazione di Meredith Kercher. Nessuna motivazione turistico-culturale può celarsi dietro una decisione di questo tipo.

L’attrazione del genere umano verso ciò che è ignoto, proibito o cruento, non è una cosa nuova. I romani hanno costruito un impero sul motto panem et circenses – laddove con giochi circensi si intendeva il massacro di schiavi, galeotti, cristiani e prigionieri di guerra sotto gli occhi affascinati e divertiti di centinaia di persone. Nel Diciottesimo secolo, durante la rivoluzione francese, le donne delle classi più agiate si posizionavano in prima fila a sferruzzare a maglia in occasione delle esecuzioni capitali, alzando lo sguardo soltanto di rado per gridare “A morte!” Per quanto possa sembrare un’abitudine malsana appartenente a epoche ormai lontane, tutt’oggi nei civilissimi Stati Uniti d’America, esiste la figura del testimone volontario, che assiste all’uccisione del detenuto pur non avendo alcuna relazione personale o professionale con il caso, ma solo per “assicurare che la tanto agognata giustizia venga compiuta.”

Nonostante le radici antiche della curiosità umana verso la sofferenza e la morte (perlopiù altrui), secondo gli studiosi il fenomeno del tanaturismo sarebbe strettamente connesso alla nostra epoca. Malcom Foley e John Lennon, gli accademici che hanno per primi coniato il termine dark tourism, sostengono che esso si posiziona a metà tra “gli atti inumani della storia recente” e “le rappresentazioni che di questi ne hanno dato i film e la stampa.” I turisti del nero sarebbero quindi guidati dalla voglia di andare oltre la rappresentazione fornita dai media, nel tentativo di sperimentare in prima persona emozioni forti, autentiche, dalle quali creare, in senso durkheimiano, nuovi precetti morali in una società altrimenti priva di capisaldi. Dove c’è domanda, il mercato creerà un’offerta: i turisti interessati alla spettacolarizzazione del dolore, più che alla sua comprensione, trovano facilmente chi li aiuterà a trovare attrazioni di loro interesse. Sono diversi i pacchetti studiati appositamente per riprodurre, davanti agli occhi dei turisti, i teatrini che si aspettano di vedere. E così scopri di poter visitare “i luoghi famosi degli omicidi di mafia” lungo il tragitto che ti porterà verso un “tradizionale pranzo siciliano” (il tutto organizzato da un’agenzia di viaggi con sede a Londra); o di poter apprendere la storia della mafia (che spesso è concepita come equivalente Storia della Sicilia) in cinque ore di tour guidato attraverso i luoghi celebri delle scene de Il Padrino, famoso documento storico che con la finzione cinematografica non ha nulla a che vedere. C’è poi un’agenzia di viaggi di Boston, Stati Uniti, che per la modica cifra di 4mila dollari organizza un tour guidato che comprende un ospite del tutto eccezionale: Angelo Provenzano, figlio del Boss Bernardo. I suoi racconti ai turisti d’oltreoceano comprendono le difficoltà che ha dovuto attraversare nella sua vita da figlio di uno dei peggiori carnefici di Cosa nostra – che comunque lui non rinnega, anzi, gli riconosce delle “attenuanti.” È piuttosto raccapricciante leggere le testimonianze degli americani che vi hanno partecipato, commossi dalla storia da Libro cuore di Angelo Provenzano, scosso “dall’impossibilità di condurre una vita normale.” Non sembra invece che vengano altrettanto approfondite le sofferenze di chi ha combattuto la mafia, ed è morto per questo, ma è evidente che lo scopo dell’agenzia non è fare divulgazione storico-culturale. Certamente, queste vittime non sono da imputare ai figli di Provenzano, ma forse avrebbero il suo stesso diritto di essere menzionate in un tour che parla di mafia.

Se da un lato ci sono dei guardoni che provano piacere nell’assistere alle tragedie altrui, dall’altro ci sono degli sprovveduti che pensano pure di tornare a casa più acculturati e degli opportunisti che glielo fanno credere, lucrandoci sopra. Se quando si tratta di omicidi e fatti di cronaca, il peggio che può accadere è insultare la memoria della vittima e della sua famiglia – oltre che il buon gusto – quando si tratta di temi complessi come la mafia è la storia di un intero Paese a venire ridotta a un bene materiale da commercializzare, piuttosto che un contenuto da approfondire. Come si chiede Nando dalla Chiesa sul suo blog: “Per quanto tempo la memoria delle vittime di mafia, il dolore dei loro familiari, il sangue versato negli anni, dovranno essere impunemente irrisi e svillaneggiati da una miriade di attività commerciali e turistiche che hanno trasformato il nome e l’immagine della mafia in un marchio felice per vendere beni e servizi?”

I turisti che, in visita in Sicilia, faranno colazione nel bar dove è stato girato Il Padrino e scatteranno fotografie con la caricatura di un mafioso, con coppola e lupara, non torneranno a casa più arricchiti. Così come la Sicilia – e l’Italia intera – non trarranno alcun beneficio dalla diffusione di una storia ridotta a macchietta, vissuta come il prodotto tipico più rappresentativo spesso esportato all’estero, come fosse un brand. Nell’epoca contemporanea, qualsiasi fenomeno – e così anche il turismo, che sia nero o tradizionale – tende ad andare incontro a due processi: la spettacolarizzazione e la commercializzazione. Ma anche in un mondo in cui tutto è bene di consumo o teatrino per spettatori curiosi, ci sono alcune cose che sarebbe meglio rimanessero materia di approfondimento, più che d’intrattenimento.

Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Processo ai Misseri. Quando la Giustizia non convince, ma la televisione sì.

Una farsa dove i media sono la pubblica accusa ed i loro spettatori sono i giudici popolari. La difesa è un optional assente. Intervista al dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, autore avetranese che sulla vicenda ha scritto tre libri: sulla scomparsa, il ritrovamento, gli arresti ed il processo di primo grado; sull’appello; sui giudizi penali ai testimoni non conformi alla linea accusatoria.

Dr. Antonio Giangrande lei su quali basi può essere ritenuto un relatore attendibile della vicenda?

«Sono di Avetrana ed ho esercitato la professione forense nel foro di Taranto, finchè me lo hanno permesso, non essendo conforme, quindi conosco i luoghi e le persone al di là dell’aspetto processuale specifico. Nella mia peculiare situazione ho raccolto in testi ed in video tutto il materiale attinente la vicenda».

E quale idea si è fatto?

«Nonostante abbia consultato tutti gli atti processuali ed extraprocessuali difensivi ed accusatori, le sentenze, finanche quella definitiva, mi lasciano il dubbio, oltre che l’amaro in bocca».

L’amaro in bocca?

«Sì. Perché gli studenti che vogliono presentare una tesi scolastica o universitaria sulla vicenda di Sarah Scazzi, spesso mi chiedono il materiale video della requisitoria dell’accusa, non essendo interessati minimamente alle arringhe della difesa. Dico loro che tutto il materiale accusatorio e difensivo da me raccolto può essere consultato anche in testi e gratuitamente. Questi, pur non conoscendo la posizione della difesa delle parti in causa, mi rispondono: “Grazie, ma la vicenda mi è già ben chiara.” Capite? È chiara una vicenda sol perché si è seguita mediaticamente tramite i portavoce dei PM, o perché si è visionata la requisitoria accusatoria. Questo è per la vicenda di Sarah Scazzi, come lo è per tutti i grandi processi mediatici».

Lei che conosce tutto il materiale probatoria, cosa, invece, ha da aggiungere per completezza di informazione?

«Gli elementi giudiziari principali su cui basare un giudizio di logica sono:

Arma del delitto. Non vi è certezza. La difesa dice corda. L’accusa dice cintura.

Orario del delitto. Vi è contraddizione. L’orario incerto e non provato dell’accusa è prima delle 14.00 di quel giovedì 26 agosto 2010, basato su testimoni che si son contraddetti (il vicino, la coppietta, i genitori di Sarah e la badante) ed il consulente contestato; l’orario certo della difesa è circa le 14.30, provato da un testimone attendibile.

Movente del delitto. Non vi è certezza. Passionale da parte di Sabrina, per l’accusa, però senza riscontro o conferme degli amici ascoltati. Sessuale da parte di Michele, per la difesa, con il riscontro dei precedenti di Misseri con la cognata. 

Gli elementi spuri. Il fantomatico furgone visto da Massari ed il fantastico sogno del fioraio Buccolieri. Il furgone non prova né l’omicidio, né il rapimento. Il Sogno non prova l’omicidio, ma solo il coinvolgimento di Cosima Serrano nell’eventuale rapimento di Sarah. Sogno che non è stato mai indicato come realtà. Solo la Pisanò ed i pubblici ministeri hanno ritenuto che quel sogno fosse realtà, nonostante vi sia stata immediata ritrattazione o puntualizzazione del Buccolieri, il cui procedimento penale per false dichiarazioni al Pubblico Ministero, sicuramente morirà di prescrizione, non arrivando a definire una verità assoluta sull’eventuale abbaglio accusatorio o sulla falsità della ritrattazione. Per aver sostenuto che era sogno molti parenti ed amici del Buccolieri sono finiti sotto la scure giudiziaria. Per questo non si capisce l’incaponimento di questi a sostenere una versione che l’accusa ritiene falsa, se effettivamente falsa non sia.

Le confessioni di rei ritenuti innocenti. Cosima ha sempre sostenuto la sua estraneità all’omicidio ed al fantomatico rapimento onirico. Oltre modo nessuno mai l'ha tirata in ballo. Nessun testimone, nè il marito loquace. Anche per mancanza di tempo, ribadita da un testimone, perchè rientrata alle 13.30 circa dal lavoro in campagna. Sabrina ha sempre negato il suo coinvolgimento al delitto, confermate dagli sms alle Spagnoletti, e la sua gelosia per Ivano, confermando il suo affetto per Sarah. Michele ha confessato il delitto, con riscontro di fatti, facendo trovare prima il cellulare, poi il corpo e palesando la sua colpa nella prima telefonata genuina intercettata tra lui e la figlia Sabrina durante il suo arresto nella caserma di Taranto, in seguito del quale ha fatto ritrovare il corpo. Ha deviato sulla sua versione solo quando non era presente coscientemente a causa dei farmaci somministrati ed indotto dal carabiniere presente all’audizione, ovvero quando è stato indotto dal suo avvocato difensore, Daniele Galoppa, consigliato a Michele dal pubblico ministero Pietro Argentino, componente dell’accusa, ed indotto dalla consulente Roberta Bruzzone. Così come dichiarato dallo stesso Misseri. Bruzzone che nel processo ha rivestito le vesti di consulente di Michele Misseri, testimone dell’accusa e persona offesa (logicamente astiosa) nei confronti di Michele.

Testimoni fondamentali dell’accusa. L’unica super testimone: Anna Pisanò, sedicente amica di Sabrina Misseri. La sua testimonianza collide con tutte le altre versioni degli amici e parenti di Sabrina che sono stati ascoltati nel processo. Sarah la mattina dell’omicidio era felice? Per la Pisanò no, per gli altri sì. Sabrina era gelosa di Sarah per Ivano Russo? Per la Pisanò sì, per gli altri, no. Dopo la scomparsa vi sono elementi colpevolizzanti per Sabrina? Per la Pisanò, sì, per gli altri, no. Chi ha parlato per prima del sogno? La Pisanò che sospettava una relazione sentimentale tra sua figlia Vanessa e il fioraio, suo datore di lavoro. La Pisanò ha detto di tutto su tutto, anche contraddicendosi, come per la questione del sogno. La Pisanò, testimone e detective allo stesso modo ed allo stesso tempo. La Pisanò, con cui Sabrina non si confidava perché non la riteneva amica, in quanto considerata “pettegola”, si arrogava il merito di sapere tutto su Sabrina stessa. Franco Coppi, l’avv. di Sabrina, ebbe a dire nell’arringa di primo grado: “Sabrina ammette di essere colpevole. Sabrina con la casa invasa dai giornalisti ammette la sua responsabilità …con chi? Con la più pettegola delle donne di Avetrana, Con la Pisanò!”»

In sintesi ha raccontato i processi. Cosa ne deduce?

«Se già io che ho studiato, cercato, approfondito tutti gli elementi del processo. Ho conosciuto tutti i fatti exatraprocessuali che ne hanno minato la credibilità. Se già io conosco tutto ciò e ho dei dubbi sull’esito processuale, come fanno gli sbarbatelli che poco conoscono l’argomento a dire: “ho le idee chiare”?»

Si farà un docufiction sulla vicenda da parte di Mediaset…

«Già. Ma non sono io il consulente della regia o degli autori. Sicuramente si saranno avvalsi di qualcuno più autorevole ed attendibile di me… senza stereotipi, pregiudizi e superficialità. Sicuramente la redazione di Quarto Grado fornirà il suo apporto. Sicuramente si farà riferimento al fatto, come spesso dichiarato impunemente in quella trasmissione, che Avetrana è un paese omertoso…sol perché non sono stati tutti pettegoli…».

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Gli impresentabili e la deriva forcaiola.

Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…

La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!

L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.

Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.

Questo perché: chi si loda, si sbroda!

Le liste di proscrizione sono i tentativi di eliminare gli avversari politici, tramite la gogna mediatica, appellandosi all'arma della legalità e della onestà. Arma brandita da mani improprie. Ed in Italia tutte le mani sono improprie, per il sol fatto di essere italiani.

Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto.

"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". (art. 49 della costituzione italiana). Alle amministrative del 31 maggio 2015 gli elettori saranno aiutati dalla commissione parlamentare antimafia che ha presentato una lista di impresentabili, spiega Piero Sansonetti. Cioè un elenco di candidati che pur in possesso di tutti i diritti civili e politici, e quindi legittimati a presentarsi alle elezioni, sono giudicate moralmente non adatte dai saggi guidati da Rosy Bindi. Le liste di proscrizione furono inventate a Roma, un’ottantina di anni prima di Cristo dal dittatore Silla, che in questo modo ottenne l’esilio di tutti i suoi avversari politici. L’esperimento venne ripetuto con successo 40 anni dopo da Antonio e Ottaviano, dopo la morte di Cesare, e quella volta tra i proscritti ci fu anche Cicerone. Che fu torturato e decapitato. Stavolta per fortuna la proscrizione sarà realizzata senza violenze, e questo, bisogna dirlo, è un grosso passo avanti. La commissione naturalmente non ha il potere – se Dio vuole – di cancellare i candidati, visto che i candidati sono legalmente inattaccabili. Si limita a una sorta di blando pubblico linciaggio. Un appello ai cittadini: «Non votate questi farabutti».

Ed i primi nomi spifferati ai giornali sono pugliesi.

Ma chi sono i 4 candidati impresentabili pugliesi, quelli che, in base al codice etico dei loro partiti o dei partiti al cui candidato sono collegati non avrebbero potuto presentare la loro candidatura?

Attenzione! Siamo di fronte al diritto di tutti i candidati ad essere considerati persone perbene fino all’ultimo grado di giudizio.

Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile, secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali.

Il primo è l’imprenditore Fabio Ladisa della lista «Popolari con Emiliano» che appoggia il candidato del Pd ed ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. La Commissione precisa che «è stato rinviato a giudizio per furto aggravato, tentata estorsione (e altro), commessi nel 2011, con udienza fissata per il 3.12.2015». Imputato, non condannato.

Con Schittulli c'è Enzo Palmisano, medico, accusato per voto di scambio (anche se poi il procedimento era andato prescritto). Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

Con Schittulli c'è Massimiliano Oggiano, commercialista, della lista «Oltre» (per lui accuse attinenti al 416 bis e al voto di scambio con metodo mafioso, è stato assolto in primo grado e pende appello, la cui udienza è fissata per il 3 giugno 2015). Assolto, quindi innocente.

Giovanni Copertino, ufficiale del corpo Forestale in congedo, accusato di voto di scambio (anche se poi era stato tutto prescritto, contro tale sentenza pende la fase di appello ), consigliere regionale Udc è in lista invece con Poli-Bortone. Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

C’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale. Vittima, anch'egli di una legge sclerotica voluta dai manettari. Legge che ha colpito proprio loro, i forcaioli, appunto Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, e Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e già dell’IDV di Antonio Di Pietro. Sospesi per legge, ma coperti temporaneamente dal Tar. Tar sfiduciato dalla Cassazione che riconosce il potere al Tribunale.

Con le liste di proscrizione si ha un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità, spiega Mattia su “Butta”. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione. Non una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone degli impresentabili qualcuno macchiato del reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, non ci sarebbero state elezioni...

Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi.

Forse non si percepisce la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, ossia una istituzione che avrebbe ben altro da fare, come cercare la mafia nell’antimafia, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni.

In questo modo avremo come impresentabili tutti quelli indicati da Filippo Facci.

1) Quelli condannati in giudicato;

2) No, quelli condannati in Appello;

3) No, quelli condannati in primo grado;

4) Basta che siano rinviati a giudizio;

5) Basta che siano indagati;

6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione;

7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza);

8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile;

9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale;

10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario;

11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano;

12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra";

13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili;

14) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali;

15) Sono i voltagabbana;

16) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Come Me. E così sia.

Sciacalli ed omertà. L’ennesima vile aggressione ad Avetrana. Da Sarah Scazzi a Salvatore Detommaso.

Ne scrive il dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Ad Avetrana, alle 5.30 di mattina del 27 marzo 2016, dì di Pasqua, il 63enne disoccupato ed incensurato Salvatore Detommaso esce di casa da via Magenta (via per Manduria - Salice Salentino) ed in sella alla sua bicicletta si dirige lungo via Roma (via per Nardò) che si interseca alla sua via. A quell'ora va a prendere il caffè presso il solito bar. Lungo il tragitto ne approfitta per comprare le sigarette dalla macchinetta automatica posta lungo la via. Sua intenzione è poi andare a raccogliere gli asparagi in campagna. Da casa al suo bar ci sono da percorrere poche centinaia di metri. Un vita da cavamonte (estrattore di blocchi di tufo per l’edilizia) lo porta a svegliarsi all’alba. Un’abitudine. Alle 5,45 il fratello Leonardo Detommaso esce anche lui da casa. Stessa abitudine da manovale. Lungo la strada incontra uno spazzino che gli comunica che più avanti c’è suo fratello ferito. In effetti vicino al bar c’è suo fratello che presso la fontana pubblica cerca di lavarsi la testa sanguinante. Non c’è alcuno strumento contundente, né la vittima ragguaglia suo fratello da questo interpellato sulle modalità dell’accaduto: se sia caduto, se sia stato investito o se sia stato aggredito con mazze, bottiglie o spranghe di ferro. Per questa ipotesi, tantomeno, lui stesso non riferisce i nomi dei presunti assalitori. Lui che era cosciente. Tanto cosciente che da solo si è riavviato per tornarsene a casa, nei pressi della quale è stato poi prelevato dall’ambulanza, chiamata da chi era accorso nei primi momenti dell'accaduto. Cosciente è rimasto nei due giorni successivi e nulla ha riferito di utile alle indagini. La mattina di Pasqua non c’è gente che va a lavorare, solo eventuali ragazzi che rincasano da pub o discoteche. Gente anche non del posto: di passaggio. Ora troppo tarda per vedere in giro ladri a cui dare le colpe. In quel frangente la via, man mano, si è riempita di curiosi. L’unico che era presente nell’immediatezza ha raccontato ai carabinieri quello che ha visto e ricordato, così desunto dai quotidiani ben informati dagli inquirenti.

Bene. Un fatto di cronaca come tanti e come in altre parti d’Italia.

Sì, ma qui siamo ad Avetrana: il paese degli omertosi, così come definito da Mariano Buccoliero, il Pubblico Ministero del delitto di Sarah Scazzi. Allora ecco che scatta la speculazione mediatica e politica.

La vittima Salvatore Detommaso inizialmente è stato trasportato all’ospedale Giannuzzi di Manduria. Poi, data la grave emorragia cerebrale riportata, è stato in seguito trasferito nel reparto di neurochirurgia del Santissima Annunziata di Taranto. Solo dopo due giorni dal ricovero, una volta finite le feste, nonostante strazianti sofferenze e lancinanti dolori, si è provveduto a stabilizzare il paziente e ad operarlo alla testa, per poi ricoverarlo nel reparto di rianimazione. Ciò dovuto all’aggravamento della sua condizione clinica, in riferimento anche ad un peggioramento di natura cardiaca. Di questo, però, del comportamento dei sanitari, nessuno ne parla. Nemmeno quelli che sparlano di omertà. Ed a proposito di omertà ad Avetrana, il 2 aprile 2016 si organizza una fiaccolata per la legalità e per invogliare chi sa, a parlare. E’ stata messa in piedi, anche, una raccolta di fondi per sostenere la famiglia della vittima che versa in condizioni economiche preoccupanti. Ma ancora una volta nessuno, però, difende Avetrana dall’ennesima aggressione gratuita e ingiustificata. Tantomeno i politicanti locali. Anzi è proprio il vicesindaco, Alessandro Scarciglia ad esortare il "chi sa, parli".

«Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti». Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. Lo stesso Dinoi continua con la solita litania anche il 29 marzo 2016: «Il bruttissimo episodio è ora materia degli investigatori dell’Arma che stanno incontrando difficoltà a raccogliere testimonianze dei presenti. Sino a ieri il maresciallo Fabrizio Viva che comanda la stazione di Avetrana ha sentito diverse persone che erano presenti nelle vicinanze, ma nessuno di loro ha detto di ricordare o di aver visto niente. Un atteggiamento omertoso che ha spinto gli amministratori pubblici e il parroco a lanciare appelli a parlare (di questo parliamo a parte). I militari hanno già ritirato le registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei punti commerciali della zona, ma nessuna di loro era puntata sulla zona dell’aggressione. Un testimone che avrebbe visto tutto, avrebbe detto di aver visto delle persone fuggire a bordo di una piccola utilitaria di colore scuro di cui non ricorda la marca. Ancora poco per dare un nome e un significato a tanta violenza.» A quell'ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia.

Chi fa la professione di giornalista dovrebbe sapere che i curiosi, accorsi in massa, non possono essere definiti testimoni. Non si può parlare di omertà se la stessa vittima non ha potuto fornire notizie utili alle indagini, né tanto meno si può parlare di indagini. Le indagini vengono svolte alla notizia di reato e, a quanto pare, al momento del fatto il reato palesato (lesioni) era perseguibile per querela, che non vi è stata. E comunque l’indagine fatta bene, anche successivamente attivata per querela o denuncia per fatto più grave, i responsabili li trova.

Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale.

Nazareno Dinoi, amico dei magistrati di Taranto e direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi e non me ne spiego l'astio. Gli amministratori locali e la loro opposizione, poi, non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.

«La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più - scriveva già il 29 luglio 2015 il nostro Dinoi - Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.»

Tra gli altri anche il programma Mediaset Rete 4 “Quarto Grado" di Gianluigi Nuzzi ci ricasca a fare informazione spazzatura, vomitando, con i suoi invitati, liquame sulla comunità avetranese. Soggetti non nuovi a queste nefandezze.

Nel caso dell'omicidio di Sarah Scazzi, trattato molto spesso da “Quarto Grado” su “Rete 4” di Mediaset la redazione (guidata da Siria Magri) si è attestata su una linea prevalentemente conforme agli indirizzi investigativi della pubblica accusa, cioè della Procura della Repubblica di Taranto. Tanto che i suoi ospiti, quando sono lì a titolo di esperti (pseudo esperti di cosa?) o, addirittura, a rappresentare le parti civili, pare abbiano un feeling esclusivo con chi accusa, senza soluzione di continuità e senza paura di smentita. A confermare questo assioma è la puntata del 15 maggio 2015 di “Quarto Grado”, condotto da Gianluigi Nuzzi ed Alessandra Viero e curato da Siria Magri.

A riprova della linea giustizialista del programma, lo stesso conduttore è impegnato a far passare Ivano come bugiardo, mentre il parterre è stato composto da:

Alessandro Meluzzi, notoriamente critico nei confronti dei magistrati che si sono occupati del processo, ma che sul caso trattato è stato stranamente silente o volutamente non interpellato;

Claudio Scazzi, fratello di Sarah;

Nicodemo Gentile, legale di parte civile della Mamma Concetta Serrano Spagnolo Scazzi.

Solita tiritera dalle parti private nel loro interesse e cautela di Claudio nel parlare di omertà in presenza di cose che effettivamente non si sanno.

Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».

Vada per i condannati; vada per gli imputati; vada per gli indagati; ma tutto il paese cosa c’entra?

Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «Io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»

Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?

Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenere egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «...però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»

Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo! Tutto ciò detto di fronte a milioni di spettatori creduloni.

Si noti bene: nessun ospite è stato invitato per rappresentare le esigenze della difesa delle persone accusate o condannate o addirittura estranee ai fatti contestati.

Ma i nostri prodi si ripetono. Quarto grado 1 aprile 2016. Questo è il conduttore imparziale, Gianluigi Nuzzi: «Oltre 10 persone (su oltre 8mila ndr) accusate di aver intralciato le indagini, tra reticenze e sogni e quant’altro. Qui abbiamo una proiezione di paese fatte di una maglia di complicità…».

Ospite fisso del programma è ancora Carmelo Abbate, giornalista di Panorama: «Io penso che la gente di Avetrana andrebbe riportata a scuola a studiare daccapo l’educazione civica. Questa è gente omertosa, parliamoci chiaro. Questa è gente omertosa. Forse hanno ragione i giudici quando dicono che “tutti sapevano quello che è successo, molti sapevano quello che è successo a Sarah, ma nessuno ha aperto bocca. Ricordiamoci che l’unica testimone che si presenta spontaneamente a fare dichiarazioni è Anna Pisanò. Tutte le altre persone vengono in qualche modo braccate, costrette a raccontare qualcosa. Tutte le altre non vanno spontaneamente. Cinque giorni fa, la mattina di Pasqua, ad Avetrana, prima mattinata, davanti ad un bar un uomo, una brava persona di 62 anni è stato aggredito selvaggiamente. In queste ore lotta tra la vita e la morte. Quest’uomo è stato aggredito davanti ad un bar. Decine e decine di persone ascoltate dai carabinieri “non so”, “non ricordo”, “non ho visto”. Ci sono appelli del sindaco “chi lo sa, per favore, dica qualcosa”. Ci sono appelli del sacerdote. Appelli pubblici “per favore parlate. Per favore non siate omertosi”. Il risultato è che non dicono nulla. E quest’uomo sta morendo».

Per il resto è ancora ospite Grazia Longo, cronista de “La Stampa”: «Il teatro dell’orrore non ha mai fine in questo paese».

Ma vaffanculo ai giornalisti da strapazzo. Questa imprecazione non è riferita in particolare a quelli citati, ma a tutti coloro che tra tutti i fatti di cronaca di cui si sono occupati, solo ad Avetrana hanno trasfigurato i criminali in tutta la loro comunità.

Prendete lezione ed esempio dall’ex Generale Luciano Garofano: «Ma io ho avuto sempre forti dubbi su quella che è la conclusione dell’autorità giudiziaria. Per altro, scusatemi, io sono molto rispettoso, ma non credo che sia un bello spettacolo che le motivazioni escano dopo 11 mesi (primo grado) e dopo otto mesi (appello). Significa che noi non vogliamo contribuire ad un paese in cui il processo sia giusto ed in cui le persone si possano anche difendere. E non credo a tantissimi degli elementi a partire dal movente. Perché questo è un movente assolutamente inconsistente. Peraltro con il prof. Picozzi ci siamo occupati di questo caso. E anche nell’incidente probatorio, che fu considerato il trionfo della prova, effettivamente ci rendemmo conto che c’era qualche cosa che non funzionava. Tra le tante cose, ma voi ve lo immaginate un papà che è pronto a coprire immediatamente un omicidio che non ha motivo d’essere. Già pronto, confeziona quel corpo, lo porta via. Insomma, per non parlare poi di altri particolari che riguardano le intercettazioni. Il punto in cui avrebbero telefonato e non telefonato. Una mamma che rincorre Sarah, per riprenderla, così poi che l’hanno acchiappata, scusate il termine, possono finalmente portarla a casa ed eliminarla? Io credo che ci siano ancora molti dubbi e spero che la Giustizia, come sempre trionfi con puntualità.»

Il Prof. Massimo Picozzi conferma: «I dubbi li condivido con il generale Garofano che ho sentito di questo famoso incidente probatorio, in cui Michele Misseri raccontò un po' tutta la vicenda. Ricordiamo poi, molta della credibilità, pochissima, che poi lo zio Michele, come lo abbiamo imparato a conoscerlo, si è portato appresso, derivò anche dal fatto che lui disse “io ho ucciso questa poveretta. E' stata uccisa con una corda, anziché con una cintura". Ti assicuro, l’interrogatorio di Michele Misseri fu il più suggestivo possibile. Lui continuava a dire, ad insistere sul fatto che sulla scena ci fosse una corda. Gli si diceva “ma è proprio una corda? E' proprio sicuro? Noi sappiamo diversamente. Non è una cinta per caso?” Alla fine, alla quindicesima insistenza, lui cambiò versione».

Ed a proposito di credibilità.

7 Ottobre 2010 - La criminologa Bruzzone: "Misseri un pedofilo assassino". Ma poi cambia diagnosi!

Esattamente il 7 ottobre 2010 sul Tgla7, la dottoressa Bruzzone diceva, a proposito del Misseri: «Non credo francamente che questa vicenda sia nata quarantadue giorni fa. Non penso che il 26 agosto sia l'unico momento in cui questa persona soggetto ha avuto un interesse sessuale per un minore. Parliamo di un pedofilo assassino e questo tipo di soggetti difficilmente a quell'età ha il proprio ingresso nella vita criminale per cui purtroppo c'è da indagare in maniera molto più allargata nella vita di quest'uomo e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti...» Allorché la giornalista chiedeva alla dottoressa Bruzzone se secondo lei il Misseri avesse avuto dei complici, lei rispondeva testualmente che non lo riteneva proprio veritiero: «Penso che sia assolutamente probabile che questa persona abbia commesso tutto da sola. Non ci vedo nulla di impossibile per una persona soltanto... Ha fatto quello che ha fatto, ha abusato del corpo di questa giovane, poi ha atteso un tempo secondo me ragionevole tanto per muoversi probabilmente magari con il favore della notte, e portare poi il corpo là dove è stato ritrovato, celato in maniera estremamente accurata e difficilmente ritrovabile se non su indicazione dell'assassino, come poi effettivamente avvenuto.» Quando poi le è stato chiesto che pena meritava quest'uomo, ha risposto senza esitare: «In questo caso l'ergastolo penso sia impossibile non comminarlo... c'è piena consapevolezza, c'è lucidità... probabilmente sentiremo parlare ....forse un tentativo di stabilire una sorta di seminfermità, ma in questo caso ripeto è assolutamente escludibile sulla base di ciò che è stato fatto da quest'uomo sia durante la fase omicidiaria, sia nella fase successiva di occultamento del cadavere e ahimè nella fase che ha riguardato come sembra anche la fase della violenza sessuale...» A questo punto la giornalista chiedeva come difendersi da questi soggetti, visto che a dire della Bruzzone uno come il Misseri doveva essere già conosciuto come pedofilo. E a questo punto la Bruzzone è stata quanto mai categorica: «Denunciando! Facendo emergere il tutto! facendosi consigliare da professionisti, andando ai Centri Antiviolenza... Telefono Rosa.... Io collaboro con loro da anni e sono assolutamente un interlocutore preziosissimo per questi tipi di casi...». Immaginiamo cosa sarebbe successo se Sabina Misseri si fosse recata a Telefono Rosa e avesse denunciato che da mesi sapeva che il padre molestava Sarah e lei...Che giustizia avremmo avuto, ascoltando oggi le parole della criminologa dottoressa Bruzzone, che dice il contrario di tutto quanto affermato prima?

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana al Luogotenente Fabrizio VIVA, scrive il 27/05/2017 “Manduria Oggi”. E’ comandante della stazione Carabinieri di Avetrana da oltre venticinque anni. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, con decreto in data 10 ottobre 2016, ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana al Luogotenente Fabrizio VIVA, comandante della stazione Carabinieri di Avetrana, da oltre venticinque anni. Il presidente della Repubblica, Sergio MATTARELLA, ha conferito l’onorificenza di Cavaliere al Luogotenente – Ragioniere Fabrizio VIVA, comandante della stazione Carabinieri di Avetrana da oltre venticinque anni. Si tratta dell’ennesimo prestigioso riconoscimento ricevuto dal carabiniere di origini Galatinesi, 55 anni, per ultimo l’encomio solenne per aver fornito determinante contributo a complessa indagine che consentiva di identificare e trarre in arresto gli autori dell’efferato omicidio della minore (Sarah Scazzi). Fra i tanti riconoscimenti ricordiamo:

23.04.1997 Elogio concesso dall’Amministrazione comunale di Avetrana con la seguente motivazione: Il Sindaco Avv. Giovanni SCARCIGLIA e il Consiglio Municipale della Città di Avetrana sicuri di rappresentare i sentimenti di stima e gratitudine della popolazione di questo centro hanno l’onore di conferire il riconoscimento dell’elogio al Maresciallo Capo Fabrizio VIVA, Comandante la Stazione dei Carabinieri di Avetrana, per la conduzione del reparto retto, responsabile, nutrita da alto senso del dovere e non comune attaccamento alle istituzioni, capace di assicurare, costantemente il mantenimento sereno dell’ordine e della sicurezza pubblica, nonchè di garantire l’esecuzione di operazioni di polizia giudiziaria di raro valore, rivolte agli ambienti criminali più radicati e pericolosi di questo territorio, i cui esponenti, grazie all’opera dei Carabinieri, spronati e sapientemente guidati dal loro Maresciallo Comandante, sono stati assicurati alla giustizia. Quanto nel presente è titolo ufficiale di un tributo quotidianamente e pubblicamente riconosciuto dalla popolazione di Avetrana al Maresciallo Fabrizio Viva.

· 12.12.1997 Encomio semplice concesso dal Comando Regione Carabinieri Puglia con la seguente motivazione: “Comandante di stazione distaccata, in occasione di incendio sviluppatosi in abitazione privata, con generoso altruismo e grande coraggio non esitava ad introdursi, unitamente ad altro militare dipendente, nei locali invasi dal fuoco e dal fumo, traendo in salvo un minore di anni 15 sorpreso nel sonno e ormai privo di sensi. Si prodigava poi unitamente ad alcuni volenterosi nel circoscrivere le fiamme e portava all’esterno tre bombole di gas surriscaldate, scongiurando così più gravi conseguenze. Nell’occorso rimaneva lievemente ferito. Avetrana 15.06.1997”.

30.09.1998 conferita cittadinanza onoraria da parte dell’Amministrazione Comunale di Avetrana con la seguente motivazione: Il Sindaco Dr. Luigi CONTE e il Consiglio Comunale di Avetrana, sicuri di rappresentare i sentimenti di stima e gratitudine della popolazione di questo centro, hanno l’onore di conferire la Cittadinanza Onoraria al Maresciallo Capo Fabrizio VIVA e altro militare della Stazione dei Carabinieri di Avetrana, per essersi distinti nell’espletamento del loro dovere con interventi coraggiosi e determinanti in diverse situazioni verificatesi nel corso dell’ultimo anno culminate il 15.06.1998 per aver sventato la rapina all’Ufficio Postale di Avetrana ed essere stati coinvolti, insieme ai civili, in un conflitto a fuoco, episodio, questo, che ha avuto ampia rilevanza nella cronaca nazionale, televisione e stampa, per la particolare ferocia dei banditi. Gli altri interventi particolarmente significativi si sono verificati nel giugno 1997 allorquando sventavano un’altra rapina all’Ufficio Postale con la cattura dei banditi e salvavano dalle fiamme della sua abitazione un ragazzo dimostrando alto senso di altruismo e coraggio.

29.03.1999 Encomio Solenne, concesso dal Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, con la seguente motivazione: “Comandante di stazione, affrontava con ferma determinazione, unitamente a militare dipendente, tre malviventi in flagrante tentativo di rapina a mano armata ad ufficio postale e li costringeva a desistere dall’intento criminoso e a darsi alla fuga, replicando con ferma azione di fuoco ai colpi esplosi dai malfattori, che ferivano gravemente il commilitone e quattro passanti. Chiaro esempio di elette virtù civiche e non comune senso del dovere. – 15 giugno 1998 Avetrana (Ta).”

11.05.2000 concessa medaglia d’argento a valor civile dal Ministro dell’Interno con la seguente motivazione: “Comandante di stazione, affrontava con ferma determinazione, unitamente a militare dipendente, tre malviventi in flagrante tentativo di rapina a mano armata ad ufficio postale e li costringeva a desistere dall’intento criminoso e a darsi alla fuga, replicando con ferma azione di fuoco ai colpi esplosi dai malfattori, che ferivano gravemente il commilitone e quattro passanti. Chiaro esempio di elette virtù civiche e non comune senso del dovere. – 15 giugno 1998 Avetrana (Ta).” 

07.04.2003 concessa medaglia militare di bronzo al merito di lungo Comando   da   parte del Ministero della Difesa – Direzione Generale per il Personale Militare- .

27.07.2005 concessa la croce d’oro per anzianità di servizio militare da parte del Ministero della Difesa – Direzione Generale per il Personale Militare III Reparto;

23.07.2010 concesso il nastrino di merito, di lungo comando, in argento (15 anni) da parte del Comandante della Legione Carabinieri di Bari;

11.10.2011 concesso il nastrino di merito, di lungo comando, in oro (20 anni) da parte del Comandante della Legione Carabinieri di Bari;

24.09.2011, conferimento attenzione di merito, da parte dell’Amministrazione Comunale, per l’impegno profuso a servizio dei cittadini salvaguardandone la crescita pedagogica della comunità;

26.01.2012 concessa medaglia d’oro Mauriziana al merito di dieci lustri di carriera militare, ad attestazione del lungo e meritevole servizio nelle Forze Armate, dal Presidente della Repubblica su proposta del Ministro della Difesa.

12.06.2012, concesso dalla Parrocchia Sacro cuore di Avetrana, con l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, Il Patrocinio della Regione Puglia, della Provincia di Taranto e del Comune di Avetrana un premio alla solidarietà denominato “Giglio D’oro” con la seguente motivazione: Luogotenente Fabrizio VIVA, che da ormai un ventennio serve questa nostra comunità avetranese come garante dell’ordine pubblico, testimoniando senso del dovere, spirito di abnegazione e riconosciute virtù umane.

27.09.2013, Encomio Solenne, concesso dal Comando Interregionale Carabinieri “Ogaden” con la seguente motivazione: “Comandante di Stazione distaccata operante in territorio particolarmente sensibile sotto il profilo dell’ordine e della sicurezza pubblica, evidenziando elevatissime qualità professionali, non comune intuito investigativo e altissimo senso del dovere, forniva determinante contributo a complessa indagine che consentiva di identificare e trarre in arresto gli autori dell’efferato omicidio di una minore (Sarah Scazzi). L’’operazione riscuoteva il pubblico unanime plauso, esaltando il prestigio e l’immagine dell’Istituzione”.

Carabinieri: a Lizzanello un nuovo comandante. Indagò sul caso Sarah Scazzi. Il maresciallo maggiore Arnaldo Coccolo è stato 19 anni in servizio ad Avetrana. Saluto al suo arrivo dal sindaco Fulvio Pedone, scrive l'1 giugno 2018 Lecce Prima. Il maresciallo maggiore Arnaldo Cocciolo, 49 anni, originario della provincia di Lecce, è il nuovo comandante della stazione dei carabinieri di Lizzanello. Il suo nome è noto anche nelle cronache nazionali, perché proviene dalla stazione di Avetrana, il paese in provincia di Taranto, quasi al confine territoriale con quella di Lecce, dove, purtroppo, ha trovato una morde orribile la giovane Sarah Scazzi. Proprio Cocciolo, che ad Avetrana ha prestato servizio per ben diciannove anni, è stato fra coloro che hanno indagato su quel caso del quale ancora oggi si parla, anche perché nell’ottobre scorso è diventata definitiva la sentenza a carico di Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Prima di Avetrana, dove si è distinto anche in operazioni a contrasto di spaccio di sostanze stupefacenti, furti e rapine, il maresciallo Cocciolo ha prestato servizio nel Nucleo operativo della compagnia di Venosa (Potenza) e in diversi altri reparti della provincia lucana. Sposato e padre di una figlia, è laureato in giurisprudenza e scienze politiche, vanta un ampio bagaglio professionale, grazie all’esperienza maturata in circa trent’anni nell’Arma. Il maresciallo, dunque, assume in queste ore l’incarico di comandante della stazione di Lizzanello, consapevole dell’impegno che dovrà assolvere con coscienza, dedizione ed imparzialità, nell’interesse collettivo e secondo i principi dei carabinieri, cioè servire i cittadini nel pieno rispetto della legalità e delle istituzioni. Nel suo primo giorno di servizio è stato salutato dal sindaco Fulvio Pedone.

Intanto, quello che ad Avetrana non si era riusciti a smascherare...

Scazzi, arrestato a Bergamo l'ex portavoce della famiglia. Con le accuse di circonvenzione di incapace e millantato credito, è stato arrestato don Leo Scanderberg, ex portavoce della famiglia Scazzi, scrive Anita Sciarra, Venerdì 19/05/2017, su "Il Giornale". Pantaleo Valentino Castriota, in arte don Leo Scanderberg, il sedicente sacerdote portavoce della famiglia Scazzi subito dopo l'omicidio di Sarah, è stato arrestato con le accuse di circonvenzione di incapace e millantato credito. Tra le vittime dell'uomo, che vantava false conoscenze in alte sfere, c'è un anziano che nel 2013 aveva perso figlia e nipotina in un caso di omicidio-suicidio. Figlia che era sposata con il nipote dell’ex ministro Calderoli. L'arresto, è stato eseguito dalla Guardia di Finanza di Bergamo, su richiesta del pm Gianluigi Vettori. Nell'inchiesta è coinvolto anche un finanziere, che avrebbe agevolato l’attività del falso sacerdote di Castriota, fornendogli informazioni sensibili e riservate. Nei confronti del militare, il gip Federica Gaudino ha disposto l’obbligo di firma, con l'accusa di accesso abusivo alle banche dati. Il falso sacerdote nega ogni accusa. Secondo quanto è emerso dall'inchiesta, tra le sue molteplici vittime c'è il nonno che nel 2013 ha figlia e nipotina in un caso di omicidio-suicidio. Convinto che il duplice delitto fosse "opera di terzi", dopo l’archiviazione del fascicolo sul caso, da parte della magistratura bergamasca, l'anziano era caduto in una profonda crisi. Si era, così, avvicinato a una sensitiva, ritenuta in grado di stabilire contatti medianici con figlia e nipotina, che gli aveva presentato don Leo. Approfittando della vittima e dopo avergli fatto credere che dietro la tragedia che aveva colpito la sua famiglia ci fosse "un complotto di matrice politica ordito dai servizi segreti preordinato a insabbiare il caso giudiziario", scrivono le Fiamme Gialle, avrebbe estorto all'uomo molto denaro, necessario per far fronte a spese per indagini e trasferte di funzionari di polizia e magistrati inesistenti. A intascare tutti questi soldi sarebbe stato invece Castriota.

Arrestato a Bergamo l’ex portavoce della famiglia di Sarah Scazzi: si spacciava per religioso. Un uomo di 44 anni è stato arrestato a Bergamo dalle Fiamme gialle con le accuse di circonvenzione di incapace e millantato credito. Spacciandosi per religioso avvicinava persone con problemi psicologici inducendole a versare soldi per opere caritatevoli o per aiutarle con i loro problemi. L’uomo, che si faceva chiamare “Don Leo Scanderberg”, era stato il portavoce della famiglia di Sarah Scazzi subito dopo il tragico omicidio della ragazza ad Avetrana, scrive il 19 maggio 2017 Francesco Loiacono su "Fan Page". Circonvenzione di incapace e millantato credito. Questi i reati di cui è accusato P.V.C., 44enne pugliese arrestato a Bergamo dalle Fiamme gialle. L'uomo, che si spacciava per religioso e si faceva chiamare "Don Leo Scanderberg", era già noto alle cronache: era stato il portavoce della famiglia di Sarah Scazzi subito dopo il tragico omicidio della ragazza ad Avetrana. A conclusione di una complessa e articolata attività investigativa la guardia di finanza di Bergamo ha scoperto che l'uomo, continuando a spacciarsi per religioso, avvicinava persone spesso afflitte da seri problemi di natura psicologica, inducendole a versare somme di denaro per non meglio precisate opere caritatevoli o per favorirne l’ingresso nel mondo del lavoro, in virtù delle sue millantate conoscenze nelle alte sfere del Vaticano o dello Stato. In alcuni casi il finto religioso avrebbe anche officiato celebrazioni eucaristiche in abiti talari presso abitazioni private. Durante le funzioni religiose avrebbe chiesto e ottenuto somme di denaro destinate a suo dire per assistere persone in difficoltà economica o per sostenere progetti assistenziali in Paesi africani: ma i soldi invece finivano nelle sue tasche per soddisfare i bisogni e i vizi del finto religioso. Tra le vittime del 44enne figura anche un anziano che nel 2013 aveva perso figlia e nipotina in un caso di omicidio-suicidio. Denunciato anche un finanziere: passava informazioni riservate. Nel corso delle indagini, coordinate dal sostituto procuratore presso la procura della Repubblica di Bergamo, Gianluigi Dettori, è stato anche denunciato un ispettore della guardia di finanza in servizio in Toscana: avrebbe effettuato accessi abusivi alle banche dati delle Fiamme gialle per ottenere informazioni da comunicare all'arrestato, utili per perseguire le sue condotte illecite. Il finanziere è attualmente sottoposto alla misura cautelare dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Il 44enne finto religioso, invece, è in carcere a Bergamo in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare emessa dal giudice per le indagini preliminari di Bergamo Federica Gaudino.

IL RICORSO ALLA CORTE DI CASSAZIONE.

Omicidio di Sarah Scazzi, la Cassazione: "Sabrina fredda calcolatrice, no a sconti di pena". Le motivazioni della sentenza di conferma delle condanne: la quindicenne morì strangolata dalla cugina e dalla zia in “concorso sinergico”. Entrambe poi misero in atto un depistaggio, scrive l'11 ottobre 2017 “La Repubblica”. Sabrina Misseri - condannata all'ergastolo con la madre Cosima Serrano per l'omicidio della cugina Sarah Scazzi - non merita sconti di pena per le "modalità commissive del delitto" e per la "fredda pianificazione d'una strategia finalizzata, attraverso comportamenti spregiudicati, obliqui e fuorvianti, al conseguimento dell'impunità". Lo sottolinea la Cassazione nei motivi di conferma delle condanne. Sabrina "strumentalizzando i media" deviò le investigazioni come "astuto e freddo motore propulsivo" verso "piste fasulle". A fronte di questi comportamenti, scrivono i supremi giudici nelle quasi 200 pagine di motivazioni depositate oggi e relative all'udienza svoltasi lo scorso 21 febbraio, Sabrina non ha "meritevolezza" per la concessione delle attenuanti generiche richieste dai suoi difensori. Lo sconto di pena è stato negato dalla Cassazione anche per Cosima Serrano dato che, essendo una adulta matura, invece di intervenire a placare "l'aspro contrasto sorto" tra Sabina e Sarah, "si era resa direttamente protagonista del sequestro della giovane nipote partecipando, poi, materialmente alla fase commissiva del delitto". Sarah - ricorda la Suprema Corte - venne strangolata da Sabrina e Cosima con "concorso sinergico" tra le due: l'una ponendo "in essere la specifica azione di soffocamento da dietro della vittima" e l'altra inibendole "ogni tentativo di difendersi e ogni chance di fuga". Anche Cosima, aveva messo in atto "una serie di depistaggi per conseguire l'impunità per sé e sua figlia Sabrina". Tutti questi comportamenti rendono "impossibili" gli sconti di pena.

Omicidio Sarah Scazzi, "Sabrina astuta e fredda pianificatrice". Le motivazioni della Cassazione, che ha confermato l'ergastolo, senza attenuanti, per la cugina della vittima e la madre di lei, scrive l'11 ottobre 2017 "Il Quotidiano.net". In Cassazione vengono rigettati i ricorsi degli imputati e confermate le condanne che diventano definitive. Ergastolo per Sabrina e Cosima, 8 anni per Michele Misseri. Ridotta di 1 anno la pena a Carmine Misseri, Confermate in via definitiva le condanne per favoreggiamento personale nei confronti di Vito Russo junior, ex legale di Sabrina Misseri e di Giuseppe Nigro, ai quali in appello erano stati inflitti un anno e 4 mesi di reclusione. A oltre sette anni dall'omicidio di Sarah Scazzi, e a sette mesi dalla sentenza definitiva della Cassazione che condanna all'ergastolo Sabrina Misseri e Cosima Serrano, vengono rese note le motivazioni della sentenza. Quasi duecento pagine per spiegare quel delitto, che tanto impressionò l'opinione pubblica, e anche per precisare perché né Sabrina né la madre meritano sconti di pena o attenuanti. La quindicenne Sarah, ricordiamolo, scomparve da Avetrana il 26 agosto del 2010 e fu ritrovata morta circa un mese dopo.

NO ATTENUANTI - In particolare, sottolineano i supremi giudici, Sabrina Misseri "rese interviste, strumentalizzando i media, e deviò le investigazioni, ponendosi, in fase immediatamente successiva al delitto, come astuto e freddo motore propulsivo delle stesse in direzione di piste fasulle". La Corte, analizzando il motivo di ricorso con cui l'imputata chiedeva le fossero concesse le attenuanti generiche, evidenzia come "una serie di dati scrutinati e posti a fondamento della decisione" qualificano "le modalità commissive del delitto ed evidenziano la fredda pianificazione di una strategia finalizzata, attraverso comportamenti spregiudicati, obliqui e fuorvianti, al conseguimento dell'impunità". Anche per Cosima Serrano, la Corte ha ritenuto corretta la mancata concessione delle attenuanti generiche: "si è considerata l'età della Serrano e la possibilità che essa avesse di intervenire per calmare l'aspro contrasto sorto tra le ragazze - si legge nella sentenza - mentre al contrario l'imputata si era resa direttamente protagonista del sequestro della giovane nipote partecipando poi materialmente alla fase commissiva del delitto". A tale condotta, poi, "era seguita una serie di depistaggi e comportamenti tesi a conseguire l'impunità per sé e per la figlia Sabrina", conclude la Cassazione.

IL DELITTO -  Ecco dunque la verità giuridica: a uccidere Sarah Scazzi sono state la zia Cosima Serrano e la cugina Sabrina Misseri. "Il delitto doveva ascriversi a due persone - scrive la Suprema Corte - da identificare nelle imputate" e "l'omicidio era stato consumato mediante strangolamento", attraverso una "struttura nastriforme", quale una "cintura". Sul corpo della vittima, non sono stati rinvenuti "segni di lotta o legati al tentativo di allentamento della cintura stretta al collo, come reazione istintiva al soffocamento che si stava compiendo", scrivono i supremi giudici, ricordando gli esiti di autopsia e perizie, e la "vittima non aveva opposto alcuna resistenza". Lo strangolamento, dunque, "non poteva essere quindi opera di un unico soggetto - si legge nella sentenza depositata oggi - ma doveva essere avvenuto per effetto del concorso sinergico di due persone, l'una che aveva posto in essere la specifica azione di soffocamento da dietro alla vittima, e l'altra che le aveva inibito ogni tentativo di difendersi e, altresì, ogni chance di fuga". Le "uniche due persone presenti in casa", rileva la Cassazione, erano Sabrina Misseri e Cosima Serrano.

LO ZIO MICHELE - Quanto alle dichiarazioni di Michele Misseri sull'omicidio della nipote Sarah Scazzi, sono state "oscillanti e prive di costanza" e "condizionate dall'obiettivo di coprire e sollevare da responsabilità la figlia" Sabrina. Ecco quindi come la Cassazione affronta la questione delle confessioni dell'imputato, condannato a 8 anni di reclusione per soppressione di cadavere, che più volte si è autoaccusato dell'omicidio.

Omicidio Scazzi, nessuno sconto a Sabrina «fredda pianificatrice», scrive l'11 Ottobre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno”. Sul delitto di Avetrana, uno dei più atroci omicidi ai danni di una ragazzina, Sarah Scazzi, strangolata da cugina e zia, Sabrina Misseri e Cosima Serrano, in una feroce mattanza familiare, - e il cui cadavere fu calato nel pozzo dallo zio Michele - arrivano le parole della Cassazione che dopo aver confermato gli ergastoli alle due assassine, lo scorso 21 febbraio, oggi spiega nelle motivazioni del verdetto che non ci saranno sconti di pena perchè è stato un delitto pianificato con corollario di orchestrati depistaggi. Sabrina Misseri, di 22 anni quando uccise la cuginetta quindicenne, non merita riduzioni di pena per le «modalità commissive del delitto», avvenuto nel tarantino il 26 agosto 2010, e per la «fredda pianificazione d’una strategia finalizzata, attraverso comportamenti spregiudicati, obliqui e fuorvianti, al conseguimento dell’impunità», sottolinea la Suprema Corte. Sabrina, inoltre, «strumentalizzando i media" deviò le investigazioni come «astuto e freddo motore propulsivo», dirigendole verso «piste fasulle». Il corpo di Sarah, graziosa e minuta adolescente, un fuscello al cospetto delle sue carnefici, fu trovato in un pozzo cisterna nella campagna di Avetrana soltanto il sei ottobre, dopo 42 giorni dalla sua scomparsa, quando Michele tormentato dal "rimorso» e dall’immagine della nipote che in sogno gli diceva di sentire tanto freddo, si decise a dire la verità accusando moglie e figlia. Ritrattò così l’iniziale assunzione di colpa alla quale era stato costretto da Cosima e Sabrina che lo avevano prima «compulsato al silenzio», quando tutti cercavano Sarah, e poi spinto a dire che era lui ad aver ucciso la nipote e a molestarla abitualmente. La Cassazione ricorda che Michele non venne creduto perchè fornì impossibili versioni del delitto e sul diario di Sarah non c'era un rigo su presunte molestie. Scrivono i supremi giudici nelle quasi 200 pagine della loro sentenza, che Sabrina non ha «meritevolezza» per ottenere le attenuanti generiche richieste dai suoi difensori, tra i quali l'avvocato Franco Coppi tenace assertore dell’innocenza della giovane. Sconto di pena negato dalla Cassazione anche a Cosima perchè, essendo una donna matura, invece di intervenire a placare «l'aspro contrasto sorto» tra Sabina e Sarah, «si era resa direttamente protagonista del sequestro della giovane nipote partecipando, poi, materialmente al delitto». Sarah - ricorda il verdetto - venne strangolata da cugina e zia con "concorso sinergico": l’una ponendo «in essere la specifica azione di soffocamento da dietro della vittima», stretta al collo da una specie di cintura, e l’altra inibendole «ogni tentativo di difendersi e ogni chance di fuga». Cosima ha detto bugie «per conseguire l’impunità": «impossibile» darle sconti. Quanto al movente di tanta efferatezza, gli ermellini fanno riferimento «al sentimento anomalo, vicino all’ossessione» che Sabrina aveva per il coetaneo Ivano Russo il quale aveva rifiutato «un rapporto sessuale» con la Misseri. L’episodio, venuto a conoscenza della cerchia di amici, era stato anche riferito da Sarah a sua madre e a suo fratello. C'erano quindi degli «ambiti pericolosi - scrive la Cassazione - che rischiavano di essere attinti dalle propalazioni di Sarah, legati alla 'moralità' della Misseri e che si sarebbero potuti riflettere negativamente sulla rispettabilità della famiglia in un centro piccolo come Avetrana». Non c'è insomma solo la "gelosia» di Sabrina verso Sarah - con la quale Ivano intratteneva «rapporti cordiali» - ma anche il timore per il diffondersi di una cattiva reputazione nella «congerie di sentimenti» che armarono i propositi omicidi di madre e figlia.

Intanto…Orrore al cimitero con la bara aperta e il cadavere fuori, scrive Nazareno Dinoi sabato 04 novembre 2017 su "La Voce di Manduria. Scene di puro orrore ieri mattina nel cimitero di Avetrana per la profanazione di una tomba con l’apertura della bara e…Scene di puro orrore ieri mattina nel cimitero di Avetrana per la profanazione di una tomba con l’apertura della bara e l’oltraggio della salma che vi era contenuta. Ad accorgersene sono stati alcuni visitatori i quali, infastiditi dal cattivo odore, hanno chiamato il custode che ha poi dato l’allarme. Sul posto, oltre agli amministratori comunali si sono recati i carabinieri della locale stazione. I militari hanno già avviato le indagini per risalire all’autore dell’insano gesto. Su richiesta delle forze dell’ordine, il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, ha emesso un’ordinanza di chiusura del cimitero per l’intera giornata di ieri. I profanatori che hanno agito di notte, hanno scavalcato il muro di cinta ed hanno preso di mira la lapide di una signora di Avetrana morta di tumore sette anni fa. Evidentemente la scelta non è stata casuale perché il loculo si trovava nel piano più altro della colombaia. Con una scala e degli attrezzi hanno frantumato la lastra di marmo che chiudeva la cella ed hanno tirato giù la bara aprendola. Infine hanno rimosso la copertura di zinco ed hanno estratto il cadavere che hanno adagiato per terra vicino alla cassa. Nel pomeriggio di ieri i carabinieri hanno fatto un sopralluogo per dei rilievi tecnici e fotografici prima di dare il via alla risepoltura della salma sistemata al suo posto sigillato provvisoriamente con dei tuti e cemento. Al momento non si conoscono altri particolari se non che qualche giorno fa la stessa tomba aveva subito dei danneggiamenti attribuiti, allora, ad atti vandalici. Si pensa quindi ad una possibile ritorsione nei confronti della famiglia della povera donna di professione contadina. I carabinieri hanno raccolto la testimonianza di alcuni cittadini presenti al ritrovamento ed hanno interrogato il marito e la figlia della defunta. Assoluto riserbo dalle fonti investigative come anche dagli ambienti politici del comune. Il sindaco Minò, evidentemente infastidito dall’inevitabile clamore per l’ennesimo fatto di cronaca che colpisce la sua comunità, preferisce tenere la bocca chiusa dicendosi addirittura all’oscuro di tutto.

“Latrina di merda, hai firmato la tua condanna”: Grazia racconta le minacce ricevute dal suo ex. La puntata di ‘Chi l’ha visto?’, trasmessa mercoledì 22 novembre, ha lasciato spazio alla storia di Grazia Prisciano. La donna, originaria di Avetrana, ha raccontato in lacrime le minacce che avrebbe ricevuto dall’ex compagno Cosimo Parato, scrive il 22 novembre 2017 Daniela Seclì su "Fan Page". La puntata di "Chi l'ha visto?", trasmessa mercoledì 22 novembre, ha dato spazio alla testimonianza di Grazia Prisciano. La donna, originaria di Avetrana, ha raccontato in lacrime le minacce e le violenze che avrebbe subito per mano del suo ex compagno Cosimo Parato. Federica Sciarelli ha trasmesso l'audio dei messaggi che l'uomo avrebbe inviato alla sua ex.

La storia di Grazia Prisciano. Grazia Prisciano, originaria di Avetrana, è separata. Conosce Cosimo Parato e se ne innamora. "Lui il primo anno era una persona meravigliosa, mi dava attenzioni. Era una persona normale": ha raccontato la donna ai microfoni della trasmissione di Rai3. Solo più tardi, Grazia ha scoperto che l'uomo era sposato: "Gli ho chiesto una spiegazione e come mai vivesse con la moglie visto che mi diceva tutt'altro. Ho voluto troncare la situazione, cosa che lui non ha accettato".

Le presunte violenze subite da Grazia. La Prisciano si ricostruisce pian piano una vita ma Cosimo non lo accetta. Secondo quanto dichiara Grazia, ci sarebbero stati anche episodi di violenza fisica: "Entrò in casa come una furia, mi prese per la gola e mi stava per strangolare, ho potuto solo dire Dio mio, aiutami". Inoltre, sostiene che l'uomo abbia confessato di averla drogata "per paura di perderla".

I messaggi intimidatori che Cosimo avrebbe inviato a Grazia. La trasmissione ‘Chi l'ha visto?' ha trasmesso l'audio dei messaggi che Cosimo avrebbe inviato a Grazia Prisciano. Nelle registrazioni si sente: "Latrina di merda, ti devo distruggere, latrina di merda ti devo distruggere./ Latrina rispondi, latrina rispondi./ Latrina di merda non mi rispondi? Stasera la condanna tua hai firmato./ Conviene che ti uccidi subito, ti eviti tante sofferenze./ Devi bruciare all'inferno./ Me la prenderò con la cosa più cara che ha e piangerà per tutta la vita".

L'incendio e lo sfregio alla bara della madre di Grazia. Negli ultimi tempi, Grazia Prisciano è stata vittima di diversi gesti intimidatori. Il 21 ottobre scorso la sua auto è andata in fiamme. Il fratello della donna ha raccontato: "Quella notte il mio cane che dormiva con me ha avuto un modo di ringhiare particolare, ci siamo svegliati di colpo e siamo corsi alla finestra. Abbiamo visto le fiamme che avvolgevano la macchina". Grazia ha aggiunto in lacrime: "Non si poteva uscire fuori perché eravamo incastrati dalle fiamme, aveva preso fuoco tutto". Cosimo aveva un alibi, era ricoverato in ospedale. Il 2 novembre scorso, poi, nel cimitero di Avetrana, la bara della madre di Grazia è stata tirata fuori dal loculo ed è stata aperta. Il fratello della Prisciano ha concluso: "A me non risulta che io abbia dei problemi con altre persone. Né mia sorella, né mio padre, né altri. Non riceviamo minacce se non da quella persona. […] Lui non si fermerà, lui non si fermerà".

Salma profanata al cimitero di Avetrana, l'accusa: "è stato il mio ex compagno che mi minaccia". Sarebbe stato un uomo di Torre Santa Susanna l’autore dell’orrida profanazione di un cadavere avvenuta nel cimitero di Avetrana nella notte ..., scrive il 23 novembre 2017 "La Voce di Manduria". Sarebbe stato un uomo di Torre Santa Susanna l’autore dell’orrida profanazione di un cadavere avvenuta nel cimitero di Avetrana nella notte tra il 2 e 3 novembre. Ad accusarlo, nel corso della puntata andata in onda ieri sera della trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?”, è la figlia della donna morta (Francesca M. Caliandro), Grazia Prisciano, di Avetrana, ex compagna del presunto autore del macabro gesto che ha sconvolto tutti. Solo o con l’aiuto di un complice, il presunto profanatore, si sarebbe introdotto nel camposanto di Avetrana e aiutandosi con una scala avrebbe divelto il marmo del loculo, estratto la bara e scaraventata a terra; avrebbe poi aperto il coperchio, rimosso la lamina di zinco scoprendo completamente la salma morta sette anni prima. L’efferato gesto, ha spiegato la donna che lo accusa, sarebbe stato anticipato con messaggi sul telefonino. Secondo la donna, intervistata dall’inviato della conduttrice della trasmissione, Federica Sciarelli, il torrese che la stalkerizza da quando lei ha deciso di interrompere il rapporto, si sarebbe macchiato di altri atti di violenza nei confronti della sua famiglia: il furto della sua macchina fatta poi ritrovare, l’incendio dell’auto del fratello e l’uccisione di un maialino che teneva in giardino.

Sull’inquietante episodio del cimitero e sugli altri attentati ai danni della famiglia Prisciano, indagano i carabinieri di Avetrana e Manduria a cui la donna ha presentato numerose denunce perché si sente minacciata e teme per la sua vita e quella dei suoi familiari. Grazia Prisciano è separata ed ha una figlia piccola che vive con lei nella casa paterna con il padre e un fratello.

Grazia Prisciano, la donna di Avetrana minacciata dal compagno, scrive il 22 novembre 2017 Morgan K. Barraco su "Tutto tv". Chi l’ha visto affronta nella sua puntata del 22 novembre il caso di Grazia Prisciano, la donna di Avetrana che ha avuto il coraggio di ribellarsi al compagno violento. La storia di Grazia inizia con un grande amore, come avviene spesso in situazioni del genere. La donna tuttavia scopre in seguito che il cuore di Cosimo Parato non è libero e che è sposato: per questo decide di lasciarlo. L’uomo però inizia a minacciarla, assicurandole di poterle fare del male. Anche per questo Grazia Prisciano decide di ritornare con lui. Le vessazioni e le violenze tuttavia continuano, spesso anche di fronte alle figlie della donna. Secondo quanto riporta Chi l’ha visto, Grazia trova il coraggio di informare il fratello, che decide di parlare con Cosimo Parato. Inizia però ad avere paura di muoversi e di mangiare, soprattutto perché l’ex compagno le ha lasciato intendere di averla avvelenata per paura di perderla. Le riferisce inoltre di averla seguita spesso e le invia continui messaggi con cui le fa credere di essere fuori dalla sua abitazione. Nel frattempo le lascia numerosi messaggi in segreteria, in cui minaccia di farle del male in ogni modo. Riferisce inoltre ad una collega che non si fermerà e che colpirà Grazia negli affetti più cari. Dopo essere riuscita a sfuggire ad un’aggressione, per la quale Cosimo Parato ha esibito però un alibi di ferro, succede un fatto inquietante. Qualcuno infatti estrae la tomba della madre di Grazia Prisciano ed apre la bara in cui si trova il corpo della donna. In seguito, viene recapitato a casa della donna un maialino mutilato a cui sono stati asportati gli occhi. Secondo la protagonista si trova di un tentativo di incuterle timore e di farle capire di stare zitta. Alle telecamere di Chi l’ha visto, il fratello di Grazia ha manifestato il timore che l’ex compagno della donna possa alla fine riuscire ad ucciderla.

Grazia Prisciano denuncia Cosimo Parato per stalking: “Ho amici in caserma, la pagherai”, scrive la redazione di "Blitz Quotidiano" il 7 dicembre 2017.  “Ho amici in caserma, la pagherai”. E’ solo una delle minacce che Cosimo Parato avrebbe intimato a Grazia Prisciano, madre single e sua ex amante, divenuta oggetto delle sue persecuzioni. L’incredibile storia di stalking è ambientata ad Avetrana, il paesino in provincia di Taranto già noto alle cronache per la tragedia di Sarah Scazzi. Lì vive Grazia Prisciano, insieme alle sue figlie e al fratello, Salvatore. La relazione tra Grazia e Cosimo era nata come una qualunque storia d’amore. Lui era gentile e premuroso, lei innamorata fino al giorno in cui ha scoperto che in realtà l’uomo che stava frequentando era in realtà sposato. Grazia decide di troncare ogni rapporto, ma lui non si arrende e comincia a perseguitarla. L’uomo, originario di Torre Santa Susanna (Brindisi), comincia a subissarla di chiamate e messaggi. La implora di tornare con lui. Lei cede e riallaccia i rapporti, ma qualcosa è cambiato. Quell’uomo che già le aveva mentito, comincia a mostrarsi sempre più violento, anche in presenza delle figlie della donna. Interviene anche il fratello di Grazia, Salvatore, che affronta Cosimo e gli chiede di lasciare in pace la sorella. Ma ottiene l’effetto contrario. A quel punto seguono mesi di misteriose aggressioni: l’auto del fratello viene rubata e incendiata, a quella del padre vengono manomessi i freni e infine, l’episodio più inquietante, quando la tomba della madre di Grazia viene profanata. Anche il maialino che viveva nel giardino di Grazia viene ucciso e lasciato dinanzi alla porta di casa, con gli occhi cavati. La donna denuncia ogni singolo episodio ma ogni volta il suo ex ha un alibi di ferro. Nessuno interviene. E’ a quel punto che Grazia Prisciano decide di rivolgersi alla redazione di Chi l’ha visto? Intervistata da Federica Sciarelli la donna mostra i messaggi di insulti e le minacce del suo stalker. “Latrina, rispondi, hai firmato la tua condanna…” . E ancora, ad uno dei suoi familiari l’uomo confessa: “Ogni santissimo momento sta là dentro (in caserma, ndr.), ma tu credi che là dentro non conosco nessuno? Che non mi dicono niente? Tutto so io. Ho amici perfino là… pagherà per queste cose”. Ma ancora una volta, dopo la denuncia a Chi l’ha visto? i comportamenti dello stalker si amplificano. Passa all’attacco delle figlie e pubblica su WhatsApp il numero della figlia maggiore di Grazia scrivendo che “è disponibile a prostituirsi”. Negli ultimi messaggi l’uomo informa Grazia che “il momento è vicino”. Intende ucciderla? A Chi l’ha visto? la donna racconta di vivere ormai barricata in casa con le figlie e il fratello a farle da guardia del corpo. Ha piazzato tre telecamere di sorveglianza e sta sveglio la notte per proteggerla. Possibile che le autorità non intervengano?

Grazia denuncia lo stalker ai carabinieri, lui: “In caserma mi dicono tutto, la pagherai”. Grazia Prisciano, madre single di Avetrana, ha denunciato più volte i comportamenti persecutori del suo ex. Oggi, nonostante le innumerevoli denunce ai carabinieri, il suo stalker è libero mentre la donna vive una vita da reclusa con le due figlie, scrive il 7 dicembre 2017 Angela Marino su "FanPage". Avetrana, il piccolo comune in provincia di Taranto finito nelle prime notizie dei Tg per l'omicidio di Sarah Scazzi, torna nelle pagine di cronaca per un'altra storia di violenza. È il caso di Grazia Prisciano, madre single finita nel mirino di uno stalker e, nonostante le innumerevoli denunce, ancora in pericolo. La storia di Grazia e di Cosimo Parato, l'uomo che ha denunciato, inizia come una normale relazione tra due persone adulte. Al principio della loro frequentazione, l'uomo, originario di Torre Santa Susanna (Brindisi), si mostra gentile e premuroso, ma le cose cambiano quando Grazia scopre che in realtà Cosimo è sposato e decide di troncare i rapporti. È allora che la rabbia di Cosimo prende forma con vessazioni e minacce: la prega di tornare con lui, insistendo con le telefonate e messaggi ossessivi e incessanti.

L'inizio della persecuzione. Schiacciata dalla paura e dalle pressione, la donna accetta di riprendere la relazione, ma di fronte alle violenze continuate – che vanno in scena anche in presenza delle figlie – decide di dire definitivamente basta. A questo punto entra in scena il fratello di Grazia, Salvatore, al quale la donna ha confidato di essere invischiata in una storia pericolosa. L'uomo affronta Cosimo per chiedergli di lasciare in pace la sorella e le nipoti, ottenendo l'unico effetto di finire anche lui nel mirino dei suoi comportamenti persecutori.

Profanata la tomba della madre. Nel giro di pochi mesi Grazia subisce un aggressione, il furto e l'incendio dell'auto di suo fratello e la manomissione dei freni di quella del papà. L'episodio più inquietante, però, avviene a ottobre del 2017, quando qualcuno profana la tomba della madre di Grazia e forza la bara in cui si trova il corpo. Come se non bastasse, il maialino che la donna allevava in giardino viene ucciso e il cadavere fatto trovare con gli occhi cavati. Ogni singolo episodio viene denunciato, ma l'uomo sembra avere sempre un alibi di ferro.

Lo stalker: "ho amici in caserma". Le segnalazioni ai carabinieri, tuttavia, non passano inosservate ai suoi occhi, tanto che in uno dei messaggi inviati alle persone vicine a Grazia (che ha bloccato la sua utenza telefonica) dice: Ogni santissimo momento sta là dentro (in caserma, ndr.), ma tu credi che là dentro non conosco nessuno? Che non mi dicono niente? Tutto so io. Ho amici perfino là… pagherà per queste cose". Anche se fosse una millanteria, il riferimento ad amicizie in caserma che gli garantiscono protezione, non è certo rassicurante per Grazia e la sua famiglia che si rivolgono alla redazione di Chi l'ha visto? per chiedere aiuto. Il programma di Federica Sciarelli “adotta” il caso, facendo ascoltare in trasmissione i messaggi di insulti (“Latrina, rispondi, hai firmato la tua condanna…”) e minacce nel tentativo di inibire lo stalker. Anche questa volta l'effetto sortito è quello di amplificare i comportamenti vessatori. Parato assedia Grazia con telefonate e messaggi, prendendo di mira anche le figlie. A questo proposito pubblica su WhatsApp il numero della figlia maggiore scrivendo che è ‘disponibile a prostituirsi'. Ignara, la ragazzina riceve telefonate di molestie.

Una vita da prigioniera. Negli ultimi messaggi, Cosimo Parato annuncia che “quell’attimo sta per arrivare”. Il riferimento al femminicidio è chiaro. Oggi Grazia vive blindata in casa con le figlie, dove si è trasferito anche suo fratello Salvatore, che dopo le molteplici minacce di “arrivare sotto casa” da parte dello stalker, ha piazzato ben tre telecamere di controllo. Ai giornalisti di ‘Chi l'ha visto?' ha confessato di rimanere sveglio la notte per proteggere la sua famiglia. Un compito che forse dovrebbe condividere con le autorità.

Attentato di Brindisi, confermata la condanna di Parato per la truffa del gasolio a Vantaggiato. La sentenza in primo grado arrivò un mese prima dell'esplosione provocata dall'imprenditore di Copertino, scrive l'8 marzo 2014 "La Repubblica". Un'ingiustizia che Giovanni Vantaggiato volle punire con l'attentato che ha sconvolto l'Italia intera, disse per una sentenza troppo morbida nei confronti dell'uomo che lo aveva truffato. Ora quella sentenza nei confronti di Parato, anche lui vittima delle bombe dell'imprenditore di Copertino reo confesso per l'esplosione che costò la vita alla 16enne Melissa Bassi, è stata sostanzialmente confermata con il pronunciamento in appello. Tre gli imputati nel processo sul raggiro da 343mila euro nella vendita di gasolio agricolo che provocò lo stato di "frustrazione" di Vantaggiato, che piazzò e fece esplodere una bomba davanti alla scuola Morvillo Falcone di Brindisi il 19 maggio 2012. I giudici della Corte d'appello di Lecce hanno inflitto un anno e otto mesi di reclusione a Cosimo Parato, bersaglio il 24 febbraio 2008 di un attentato dinamitardo che lo ridusse in fin di vita e che fu poi confessato da Vantaggiato; 5 mesi di reclusione per due fratelli di Parato, che rispondono di reati relativi alla violazione di norme sul commercio di carburante. I giudici di secondo grado hanno accolto le richieste del pg Nicola D'Amato e, considerata la prescrizione di alcuni reati di falso, hanno sostanzialmente confermato il verdetto di primo grado per appropriazione indebita al termine del quale Parato era stato condannato a 2 anni e 2 mesi di reclusione. Parte civile nel processo a carico di Parato è la Marchello Sas, la ditta di carburanti intestata alla moglie dell'imprenditore di Copertino. La sentenza di primo grado fu emessa dal Tribunale di Brindisi il 19 aprile 2012, un mese prima della strage di Brindisi per cui Giovanni Vantaggiato è stato condannato alla pena dell'ergastolo con il riconoscimento dell'aggravante della finalità terroristica. Confessando la strage della scuola, Vantaggiato dichiarò agli inquirenti di aver ritenuto inadeguata la pena inflitta a Parato.

Bomba Morvillo: Parato, accuse in tv. La conferma di quanto è stato ribadito più volte riguardo le indagini imperniate sulla figura di Giovanni Vantaggiato, la si ritrova oggi nelle parole dell'uomo di Torre Santa Susanna, Cosimo Parato, che il 68enne di Copertino, reo confesso della strage di Brindisi, voleva morto e tentò di uccidere nel 2008 realizzando e poi azionando una bici – bomba che lo ridusse in fin di vita. Ebbene, Parato ha rilasciato un’intervista all’inviato della trasmissione televisiva “Quarto Grado” che va in onda questa sera su Rete 4 e ha ripetuto quel che probabilmente disse agli inquirenti agli inizi di luglio e che fu raccontato da BrindisiReport.it e dalla stampa nazionale, scrive Vito Caccia il 14 settembre 2012 su "Brindisi Report". La conferma di quanto è stato ribadito più volte riguardo le indagini imperniate sulla figura di Giovanni Vantaggiato, la si ritrova oggi nelle parole dell'uomo di Torre Santa Susanna, Cosimo Parato, che il 68enne di Copertino, reo confesso della strage di Brindisi, voleva morto e tentò di uccidere nel 2008 realizzando e poi azionando una bici – bomba che lo ridusse in fin di vita. Ebbene, Parato ha rilasciato un’intervista all’inviato della trasmissione televisiva “Quarto Grado” che va in onda questa sera su Rete 4 e ha ripetuto quel che probabilmente disse agli inquirenti agli inizi di luglio e che fu raccontato da BrindisiReport.it e dalla stampa nazionale. “Non può aver fatto tutto da solo, qualcuno lo accompagnava a fare i sopralluoghi. Io l’ho sempre visto in giro con la moglie. Per l'attentato alla scuola credo che qualcuno abbia condiviso con lui questo atto”. E’ questa la sintesi del teorema della vittima numero uno, ex socio in affari di Vantaggiato, a quanto pare una vera e propria “ossessione” per Vanni. Parato parla principalmente dell’attentato di cui è stato vittima, quello che lo ha privato per sempre della completa funzionalità del proprio corpo, provocandogli lesioni gravissime e menomazioni permanenti. Ma non solo. “Circa una settimana dopo l'attentato alla scuola Morvillo Falcone di Brindisi – ripete anche in tv - i miei familiari hanno visto Vantaggiato nella scala della mia abitazione: forse voleva colpirmi di nuovo. Sicuramente aveva qualcosa in mente”. Si apre così l'intervista, che prosegue poi: “Vantaggiato ed io, in sostanza, andavamo a consegnare il gasolio; invece di scaricare 5mila litri, se ne scaricavano 3mila. Il resto lo vendeva a persone senza fattura. Dicono che Vantaggiato ce l'avesse con me per un ammanco di soldi, ma erano poche migliaia di euro. Credo, invece, che non volesse che io parlassi di tutto quello che combinava. Mi ha pedinato e faceva dei sopralluoghi insieme alla moglie in auto. Io li avevo anche visti e avevo fatto denuncia già all'epoca”. “Dopo l'attentato ai miei danni - spiega Parato – ho indirizzato gli inquirenti a seguire la pista di Vantaggiato, ma non mi hanno creduto perché dicevano che facevo parte della criminalità organizzata, non era per niente vero. Non avevo credibilità. Se mi avessero creduto, una ragazza sarebbe viva e le altre non avrebbero quei segni”. Fa poi riferimento anche alla strage (per la Dda un atto terroristico) compiuta il 19 maggio scorso, quattro anni dopo il tentato omicidio di Torre, davanti alla scuola Morvillo Falcone di Brindisi, lì dove ora c’è un banco vuoto, quello di Melissa Bassi, 16enne di Mesagne, dilaniata dalla deflagrazione di tre bombole riempite con miscela esplodente la cui composizione è oggetto di perizie tecniche di tipo balistico. “Vantaggiato è un tipo taciturno, sembra una persona veramente tranquilla e normale. Un giorno mi ha raccontato che confezionava bombe per pescare: le faceva da solo e diceva che non ci voleva niente a farle. Si vedeva che aveva esperienza in queste cose, ma non credo che abbia potuto aver fatto tutto da solo. Forse la fabbricazione sì, ma per gli appostamenti si è sicuramente fatto accompagnare da qualcuno. Per l'attentato alla scuola credo che qualcuno abbia condiviso con lui questo atto. Forse per il trasporto. Quando pedinava me non era mai da solo, stava sempre in compagnia della moglie. Non credo sia stato un atto dimostrativo, perché ha aspettato che si avvicinasse una ragazza prima di schiacciare il telecomando. Un atto dimostrativo non viene fatto così”. Una studentessa morta, nove ferite. Fu questo il bilancio di un sabato orribile per Brindisi, un sabato di paura, di inquietudine, di disorientamento per tutti, perfino per gli inquirenti che, in un primo momento, non seppero qualificare il fatto. Mafia, Sacra corona, terrorismo. Bastò poco per capire che non si trattava di un atto eversivo e che non andavano scomodati i massimi sistemi della criminalità organizzata o di sodalizi di matrice insurrezionalista, nonostante l’istituto professionale di via Galanti fosse intitolato alla moglie di Giovani Falcone, proprio a Francesca Laura Morvillo. Qualche giorno dopo fu la procura di Brindisi a convocare una conferenza stampa e a fornire ai giornalisti una chiave di lettura che si è poi rivelata del tutto esatta: “E’ il gesto isolato di un uomo che ce l’ha con il mondo”, disse il procuratore Marco Dinapoli. Nella notte fra il 6 e il 7 giugno, dopo che l’inchiesta fu presa in mano dalla Dda, con Cataldo Motta e i sostituti Guglielmo Cataldi e Milto De Nozza, si appurò che era proprio così, come era parso sin da subito visionando i filmati del chiosco vicino alla scuola: un uomo col telecomando, che, chissà perché, voleva combinare un disastro. Cosimo Parato, l’ex socio di Vantaggiato, è stato ascoltato agli inizi di luglio dalla procura di Brindisi nell’ambito dell’inchiesta sull’attentato ai suoi danni. Era il 24 febbraio del 2008: c’era già una denuncia querela formulata nei suoi confronti dalla famiglia Vantaggiato e un’altra fu formulata dalla moglie una settimana dopo, quando ormai era chiaro che la vittima non sarebbe morta. Saltò in aria la bicicletta con l’ordigno, realizzato esattamente come quello poi posizionato davanti ai cancelli della scuola di Brindisi, proprio mentre il bersaglio prescelto le transitava accanto. Parato finì in ospedale, in gravi condizioni. Poi parlò, ma non fu creduto. Cosimo Parato ha incontrato la stampa una sola volta, il 20 giugno, nello studio del suo avvocato, Raffaele Missere, due giorni dopo la seconda confessione di Vantaggiato che annuì, dinanzi ai magistrati, confermando di essere il responsabile di quei vecchi fatti, ritornati d’attualità il 19 aprile 2012, con una sentenza di condanna per truffa pronunciata dal Tribunale di Brindisi proprio a carico di Parato. Insomma, i rapporti fra i due erano deteriorati da tempo. E l’episodio di quattro anni fa è stato citato dal 68enne di Copertino, proprio il “bombarolo”, per spiegare la furia stragista dei tempi recentissimi. E’ il movente dichiarato, la frustrazione per la truffa da 343mila euro che Vantaggiato sosteneva di aver subito e che secondo lui non fu adeguatamente sanzionata. Ma, lasciando nel cassetto qualsiasi tipo di opinione, c’è un dato di fatto che va assolutamente registrato: Parato già una volta, quando era il diretto protagonista dei fatti, non fu tenuto in debita considerazione, per lo meno non lo furono le sue dichiarazioni. Oggi è tornato a parlare. Con gli inquirenti. Con la stampa. Ha una sua verità, ha potuto citare retroscena e dettagli che potrebbero essere determinanti per spiegare anche i tanti perché insoluti che caratterizzano ancora la tragedia di Brindisi. Sarebbe impensabile chiudere le indagini senza aver accertato se quel che dice Parato, la “causa di tutti i mali” di Vantaggiato, ha un riscontro o meno nella realtà. Per Parato, quell’uomo con cui si occupava di forniture di gasolio, un business condotto a suo dire oltre i limiti della legalità da entrambi, non ha agito da solo e non ha compiuto un atto dimostrativo nel 2008, così come nel 2012, davanti alla Morvillo. E’ una tesi di parte. Ma che ha da essere verificata, perché, continuiamo a ripeterlo, c’è ancora più di qualcosa che non quadra. Ed è qualcosa di determinante per la formazione della prova del futuro processo che, si sa già, sarà celebrato con rito ordinario.

AVETRANA: SIAMO TUTTI IN LIBERTÀ VIGILATA, scrive Claudio Romiti il 23 febbraio 2017 su "L’Opinione". Debbo confessare che, nonostante la grande pressione colpevolista esercita fin dai primi giorni dai media nazionali, mi aspettavo dalla Suprema Corte di Cassazione un giudizio ben diverso rispetto alla conferma dell’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, ritenute definitivamente colpevoli dell’omicidio di Sarah Scazzi. In questo senso non posso che condividere in toto l’amara affermazione dell’avvocato Roberto Borgogno, legale della signora Serrano, intervistato per “La Stampa” dall’ottima Maria Corbi: “C’è un colpevole e ci sono due innocenti che stanno scontando la pena al posto suo. È stato commesso un evidente errore giudiziario”. Già, proprio un errore giudiziario che, pur nel rispetto formale che uno Stato di diritto pretende nei confronti di ogni sentenza, per come è maturato scuote le coscienze e lascia nella mente di chi pensa che il garantismo non sia un optional la sensazione che in questo disgraziato Paese siamo un po’ tutti colpevoli in libertà vigilata. Soprattutto se consideriamo che la cosiddetta prova regina su cui si è basato il castelletto accusatorio della Procura di Taranto è il famoso sogno del fioraio Giovanni Buccolieri. Un sogno il quale, come ha rimarcato la stessa Corbi nel corso della trasmissione televisiva “La vita in diretta” (contrapposta ad una imbarazzante Filomena Rorro, tra le prime a gettare la croce sulle due condannate), è stato preso come oro colato dai vari giudici e, come accaduto nei confronti di altre testimonianze che non collimavano con il teorema accusatorio, ha dato luogo a un procedimento penale per falsa testimonianza, ancora in corso, nei confronti del medesimo sognatore, quest’ultimo fermamente intenzionato a ribadire la sua versione onirica. Ma a rendere ancor più inquietante la tragica vicenda, principalmente per chi ha seguito il caso senza i paraocchi di un teatrino mediatico-giudiziario a dir poco vergognoso, vi è la surreale condizione di Michele Misseri, marito di Cosima Serrano e padre di Sabrina Misseri, fin da subito reo confesso e, a mio parere personale, unico autore di un delitto d’impeto a sfondo sessuale che sembra particolarmente cristallino nei suoi drammatici contorni. Ciononostante il Misseri, pur continuando a proclamare con costanza e ostinazione la sua piena responsabilità nel delitto, non è stato creduto neppure dalla Cassazione. Un caso quasi unico nella nostra giurisprudenza. Ha invece prevalso una ricostruzione dei fatti la quale, al di là della evidente mancanza di riscontri oggettivi - soprattutto dopo la successiva incriminazione di Cosima Serrano, dipinta fin dall’inizio dalla stampa colpevolista come una sorta di manipolatrice criminale - appare piuttosto in conflitto con la logica e il buon senso. Ma tant’è, al pari del proverbiale Martin che per un punto perse la cappa, in Italia si può finire all’ergastolo, perdendo a vita la libertà, per un sogno. Spero vivamente di essere smentito nel tempo a venire, tuttavia nutro la forte impressione che più una accusa (in particolare quelle sfruttate dai media per ragioni di audience) poggia su basi fragili, e più risulta impossibile invertirne un verdetto finale di condanna che sembra già segnato fin dai primi momenti. E se la libera informazione, anziché fare le bucce alla pubblica accusa, ossia la parte più forte in qualunque procedimento penale, diviene il collettore per le peggiori inclinazioni colpevoliste presenti nella popolazione, anticipando di fatto il giudizio finale, quest’ultima offre un pessimo servizio alla collettività. In merito all’incredibile vicenda di Avetrana, in cui hanno dominato chiacchiere, pettegolezzi e forzature di ogni genere, siamo in pochi a rilevare e mettere nero su bianco le enormi criticità di una duplice condanna capitale definitiva, e questo dovrebbe farci quanto meno riflettere.

Io che ho conosciuto Misseri e ho raccontato il delitto di Avetrana, vi dico i miei dubbi, scrive il 21/02/2017 Simone Toscano su "L'huffingtonpost.it". La notte dell'arresto di Sabrina Misseri io c'ero. Ero lì ad Avetrana, in via Deledda, per la diretta di Quarto Grado. Li ricordo bene quei momenti, con Sabrina portata in caserma a Taranto e noi a pochi passi dalla villetta in cui si era barricata la madre, Cosima Serrano. L'auto dei carabinieri continuava a passare, come fosse una ronda, sollevando ogni volta nei cronisti il dubbio: "stanno venendo a prendere anche lei?". Passarono alcuni mesi prima dell'arresto, il 26 maggio del 2011. Quella sera non c'ero, ma conosco a memoria quelle immagini, viste decine di volte, analizzate nelle facce, nelle frasi urlate. Potrei dire uno per uno chi erano, quelli che quella sera correvano dietro alla volante urlando "assassina", fischiando, inveendo. Tra loro anche qualcuno di quei testimoni su cui la Procura ha basato la propria teoria accusatoria. C'ero invece nel famoso "Incidente probatorio". Un termine che per gli addetti ai lavori è il pane quotidiano ma che invece - me ne accorsi in quell'occasione - chi di mestiere fa tutt'altro ovviamente non conosce. Cosa vuol dire "incidente", mi chiedevano in tanti? E io giù a ripetere la solita spiegazione da bar, per cui "è una parentesi che si apre e si chiude, serve a cristallizzare una dichiarazione". Mi sono sempre chiesto: possibile che quando a Michele Misseri è stato chiesto "facciamo l'incidente", lui abbia capito che davvero dovesse cristallizzare le sue accuse? Oppure no, al contrario, possibile invece che un uomo dalla bassa scolarizzazione e i cui strumenti culturali non erano particolarmente coltivati, possa aver capito che aveva l'occasione giusta per dire che "si era trattato di un incidente"? Michele Misseri l'ho intervistato più volte. Una intervista su tutte credo che non la dimenticherò mai: era la sera del 25 agosto del 2011, mancavano poche ore a un anniversario triste e amaro. Mi trovavo ad Avetrana per realizzare un servizio - ancora per Quarto Grado - sul paese un anno dopo. Nulla di morboso, un pezzo "sociologico", con le facce di quel fazzoletto di terra ai margini del Salento e con le testimonianze dei protagonisti. Passando davanti alla porta dell'ormai famoso garage, quello in cui Michele Misseri racconta di aver tolto la vita alla nipote, ci accorgiamo che è aperta. Ci fermiamo e io chiamo il "signor Misseri?". Una secchiata d'acqua ci sfiora, poi la porta sbatte. Passa un minuto e un'altra secchiata arriva sulla strada, andando anche questa a vuoto. Decido quindi di mettermi sotto la tettoia del cancello, al riparo, e inizio a parlare immaginando che Michele sia dentro. Me ne accorgo solo perché lo sento piangere: non vuole parlare e io rispetto la sua decisione, ma prima di andare decido di dirgli di cuore quello che sento. E cioè che "io non so cosa sia realmente successo, ma credo che lei abbia sbagliato a non spendere mai una parola per quella ragazza (...) E credo che sia stata una mancanza di rispetto nei confronti di Sarah e della sua famiglia quella di fare come prima dichiarazione, appena uscito dal carcere, una descrizione minuziosa del modo in cui l'avrebbe uccisa e calata nel pozzo". Mi sembrava mostruoso e gliel'ho detto, smettendo i panni del giornalista che chiede un intervista, ma che piuttosto si toglie un sassolino dalla scarpa. Michele a quel punto si fa vivo, decide di parlare, "non è vero che io a Sarah non ci penso e che le manco di rispetto", mi dice. "Ti faccio vedere una cosa che non conosce nessuno". Mi apre la porta, mi fa cenno di seguirlo. Per ora le telecamere restano fuori, poi entreranno. Entriamo nel garage, nel presunto luogo del delitto: è buio e non si vede nulla se non fosse per una fioca luce in fondo, alcuni metri sotto terra, finita la rampa in discesa. D'improvviso chiude la porta e io ho paura. Ho paura. Come un pugile dilettante metto - al buio, non mi vede - i pugni davanti a me e gli dico "non faccia scherzi eh". Non ne fa, mi prende per un braccio e mi accompagna fino alla fine del garage, esattamente nel punto dove dice di aver ucciso Sarah, e mi mostra qualcosa che ancora oggi mi fa venire i brividi solo a pensarci: con del legno ha costruito una sorta di edicola sacra, un altarino alla nipote. Dentro ci sono foto ritagliate dai giornali "e per fare luce guarda cosa ho fatto, ho preso un caricabatterie del cellulare e l'ho collegato alla lampadina". Io rimango senza parole. Dopo un'ora di colloquio iniziamo una delle interviste più difficili di sempre, in cui una serie infinita di volte gli chiedo "ma lei si rende conto che è quasi blasfema come cosa?" e "cosa crede che una madre dovrebbe pensare di lei?". Di blasfemo in quell'altarino Michele non vedeva nulla. Continuava a piangere e a ripetermi di "quel calore alla testa, che non c'ho visto più", in quel primo pomeriggio del 26 agosto di un anno prima. Possibile che sia quest'uomo sicuramente dalla psicologia labile l'autore del delitto? Dopo i nostri incontri l'ho pensato, lo ammetto, e la stessa cosa la sostiene una criminologa - Anna Maria Casale - che con lui ha parlato molto a lungo, fino a stilare un ampio profilo psicologico finita tra le carte del processo. Prima non avevo dubbi sulla sua colpevolezza, ma da quel momento ho iniziato a leggere i faldoni dell'inchiesta in altro modo, sotto un altro punto di vista, ripulito dall'onda emotiva e colpevolista. Le ho passate in rassegna, quelle migliaia di pagine, senza riuscire a trovare la pistola fumante e i "tre indizi che fanno una prova", facendo difficoltà a immaginare una madre di famiglia che litiga con la nipote per difendere una figlia gelosa, poi la insegue quando quella scappa, la tira per un braccio e la riporta a casa per ucciderla. Come è possibile togliere la vita a una ragazza, che è quasi un'altra figlia per te, per un dolo d'impeto? E davvero è possibile che nessuno in quella via si sia accorto di nulla? È invece plausibile che ci sia stato un incidente, magari proprio tra le due ragazze ma senza la compartecipazione della madre, e che i tre abbiano provato a mettere a tacere tutto in maniera goffa senza riuscirci, insomma provando - come disse Michele in una intercettazione ambientale proprio con Cosima - "a fare i furbacchioni" senza esserne capaci? Oppure c'era altro, un "segreto inconfessabile" mai emerso finora, come movente di un omicidio tanto spietato? Un dato certo è che sulla Procura di Taranto si sia riversata una pressione mediatica che quell'ufficio non era forse in grado di sostenere. E che le indagini siano state viziate proprio dal comportamento di Michele Misseri, in un circolo vizioso da cui è difficile venire fuori. Mi continua a risuonare per la testa, anche ora che c'è finalmente una verità processuale certa - la solita domanda: nel dubbio è meglio avere due innocenti in carcere o due colpevoli in libertà? Evidentemente per i giudici della Cassazione quel dubbio non esisteva.

Sarah Scazzi, dopo un anno mancano le motivazioni. Basta il "sentire popolare" a giustificare le condanne? Scrive Luca D'Auria il 7 agosto 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Cosima Serrano e la figlia Sabrina sono state condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi; anche in appello. A pochi sembrerà strano. Io non so dare il mio parere perché non ho letto alcun atto della vicenda. So delle accuse e delle autoaccuse. Ma questo non vuole dire nulla. Posso dire questo: il sociologo ed antropologo Durkheim diceva che il delitto è una ferita nella società ed il ruolo del giudice e del diritto penale è quello di curare questa ferita, come il medico fa con la malattia. Già con questa affermazione si può aprire una discussione assai complessa e profonda: il giudice risponde alle regole di diritto oppure alle esigenze della collettività? La necessità del rispetto delle regole giuridiche spesso può confliggere con il naturale bisogno che la società ha di “tirare il fiato” rispetto ad un delitto che ne ha scosso le fondamenta. Sono interessi contrastanti e, spesso, drammaticamente confliggenti. Ricordo la mia esperienza a Madrid quando assistevo il presunto organizzatore della strage di Al Quaeda alla stazione di Atocha: la gente della capitale spagnola voleva vendicare i fatti; i giudici si trovarono a dover decidere anche nei confronti di accusati contro i quali le prove erano a dire poco dubbie. L’accusa chiese contro il mio cliente quarantasettemila anni di carcere; venne assolto. Prevalse il diritto. Forse l’opinione pubblica fu soddisfatta dalla condanna di tutti gli altri. La fotografia di quei giorni, che porto nel mio cervello, è quella di noi avvocati difensori scortati dai tank dell’esercito spagnolo. Stasera ho acceso la televisione e mi sono trovato Cosima Serrano che, durante l’udienza, in un reportage trasmesso da Quarto Grado, chiede alla Corte di essere assolta, augurandosi che i giudici non stabiliscano la colpevolezza sulla base di quello che il “sentire popolare” vuole. In maniera forte paragona il processo in cui è coinvolta a quello contro Gesù Cristo, affermando che Gesù è stato condannato perché il popolo lo ha voluto, al di là delle prove. Ed oggi, quella contro il Messia, è considerata da tutti come una condanna ingiusta. L’affondo è forte, anzi fortissimo. Ripeto: non conosco gli atti. Quindi non posso dire se la condanna di primo e secondo grado, per l’omicidio di Avetrana, sia giusta o sbagliata. Ho solo qualche dubbio sulla ingiustizia (storica e giuridica) verso la condanna a Gesù: si è dichiarato figlio di Dio dinanzi al Sinedrio e cioè alla massima autorità dell’epoca per la tutela della fede ebraica e Re dei romani dinanzi al Proconsole di Roma; e questi delitti erano puniti con la pena di morte. Quanto al messaggio morale e di amore da Lui trasmesso è la storia a dare la risposta: è immortale. Ma per tornare sulla terra e ad Avetrana: la trasmissione dell’amico Nuzzi ha evidenziato un aspetto ben più importante, rispetto al quale non contano i concetti di responsabilità giuridica, morale o altro verso gli accusati: è trascorso un anno dalla condanna di primo grado per poter leggere le motivazioni e, ad un anno dalla sentenza di secondo grado, non sono ancora depositate e quindi conoscibili le motivazioni del giudice d’appello. Questo è immorale sia che si consideri il processo penale come una questione di diritto, sia che lo si consideri un ristoro per la società colpita e dilaniata dal delitto. La giustizia di una sentenza e la sua eticità non è valutabile solamente rispetto al merito dell’accusa ma anche e specialmente con riferimento alla modalità con la quale la decisione viene presa.

Massoneria e politica? Non sono incompatibili. Il “caso Lecce”. Lecce 14 giugno 2010 (La Gazzetta del Mezzogiorno.it). “E’ una guerra di intolleranza che per un massone è inammissibile “. Antonio Tamborrino, ex maestro venerabile della Loggia “Liberi e coscienti”, la più antica, che fa riferimento al Grande Oriente d’Italia, di cui oggi è maestro, prende posizione nella controversia sulle Logge, nata nell’ambito del dibattito politico a livello nazionale, che sta avendo riflessi anche in ambito provinciale. Il caso leccese riguarda lo “stop” che avrebbe dato lo stesso Pierferdinando Casini all’ingresso di Franco De Iaco (difensore di Cosima Serrano) e del suo nuovo soggetto politico “Unione per il Salento”, nel Partito della Nazione. Non è un mistero, infatti, l’adesione di De Iaco al Grand’Oriente d’Italia-Piazza del Gesù. Egli stesso ha tenuto a precisare che non esiste alcuna contraddizione nè conflittualità tra l’impegno politico e l’adesione alla massoneria, mondi che restano separati. Ma intanto, nella “guerra” interna all’Udc, l’onorevole Lorenzo Ria è uscito allo scoperto, facendo sapere che “nel partito non può esserci tutto ed il contrario di tutto”, scatenando la reazione del portavoce provinciale dell’Udc Gigi De Leo, il quale ha bacchettato Ria a muso duro. Per Tamborrino, già presidente dell’Ordine nazionale dei Dottori commercialisti, personalità politica di lunga data, l’adesione alla massoneria come elemento discriminante “è solo un alibi”, una questione che viene tirata fuori ad arte ogni qual volta non si trovano altri argomenti validi. “L’ho sperimentato sulla mia persona – confessa Tamborrino – Quando la politica ha inteso fermarmi o scoraggiarmi è stata tirata in ballo la mia adesione alla Loggia. Eppure – continua – la militanza politica è un “falso problema” che non influisce e non determina alcunchè nell’attività di quelli che sono i valori della massoneria. Fermo restando che, nei templi è assolutamente vietato parlare di politica e di religione”. Ma non c’è assolutamente alcun divieto di praticare la politica. “Molti esponenti politici, nazionali e locali, aderiscono alla massoneria – fa sapere Tamborrino – così come svolgono altre attività”. Ma sui nomi è top secret. “Non perchè ci sia alcun segreto – specifica il maestro – ma perchè nella massoneria è sacro il diritto alla privacy e il rispetto della privacy”. Vale a dire che ciascuno può fare riferimento alla personale esperienza nelle Logge ma non può indicare il nome di altri aderenti. Però c’è chi osserva che la segretezza non sarebbe una prescrizione ma una scelta dei singoli aderenti alla massoneria, molti dei quali sono personaggi pubblici o ricoprono ruoli di rilievo e, pertanto, preferiscono rimanere nell’anonimato. D’altra parte, gli elenchi massonici sono depositati presso la Procura della Repubblica. E vale la pena ricordare che fu proprio l’ex procuratore Alessandro Stasi a disporre il sequestro degli elenchi degli aderenti, nell’ambito di un’inchiesta, tra il 1981 ed il 1982, sugli eventuali addentellati tra la massoneria, la politica e la gestione della cosa pubblica. A proposito del rapporto massoneria-politica, Tamborrino ricorda il pensiero di Salvador Allende, aderente alla Gran Loggia del Cile. “Gli chiesero cosa avrebbe fatto nel caso in cui la politica fosse risultata d’intralcio alla pratica della massoneria – ricorda Tamborrino – Allende rispose che avrebbe abbandonato l’attività politica. Quindi, gli fu chiesto cosa avrebbe deciso se fosse stata la massoneria a collidere con il ruolo politico. Rispose, analogamente, che avrebbe abbandonato la politica. Questo, ovviamente, solo nel caso in cui ci fossero princìpi di contrasto”. Che, precisa, generalmente non ci sono.

Giustizia, promosso Argentino sarà il procuratore di Matera, scrive il 27 Luglio 2017 Mimmo Mazza su "La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il dottor Pietro Argentino è il nuovo procuratore capo di Matera. Lo ha deciso il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, votando sulla proposta formulata dalla commissione incarichi direttivi dell'organo di autogoverno della magistratura che aveva indicato per tale nomina il magistrato originario di Torricella, procuratore aggiunto a Taranto dal 2009. Argentino ha ottenuto 11 voti, superando la concorrenza degli due candidati Elisa Pugliese (Dna) e Lorenzo Lerario (Procura generale Taranto). Con Argentino nominato procuratore capo, a copertura di un posto vacante da ormai oltre un anno e otto mesi, la città lucana può contare su un magistrato di alto livello, con al passato inchieste e processi di assoluto spessore. Magistrato dal 13 maggio del 1980, Argentino fino al 1987 ha prestato servizio al tribunale di Lecce, con funzioni di giudice civile e penale. Nel 1987 fu trasferito alla pretura di Taranto, ove si è occupato della sezione civile prima e poi di quella penale. Con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, ha svolto prima le funzioni di gip presso la pretura circondariale e dopo contemporaneamente le funzioni di pretore penale e di pretore presso le sedi distaccate di Manduria e San Giorgio Jonico. Nel gennaio del 1994 è stato trasferito alla Procura di Taranto della quale è diventato procuratore aggiunto l'8 maggio del 2009. Dal 1992 svolge le funzioni di presidente di sezione della commissione tributaria provinciale. Nel corso del suo lavoro alla Procura di Taranto ha svolto importanti e delicate inchieste contro la criminalità organizzata in stretta collaborazione con la Direzione Antimafia di Lecce, tanto da essere per lungo tempo destinatario di misure di tutela deliberate dal comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica. Recentemente Argentino si è occupato della indagini sul delitto di Sarah Scazzi, la 15enne scomparsa ad Avetrana, e dell'inchiesta «Ambiente svenduto» sulle emissioni dell'Ilva. «Sono contento e lusingato» dice Argentino alla Gazzetta. L’insediamento alla guida della Procura di Matera si svolgerà tra settembre e ottobre. «La nomina da parte del Csm di Pietro Argentino, nuovo procuratore capo della Procura di Matera, mi riempie di soddisfazione. Argentino è persona competente e capace» dice il consigliere regionale Giuseppe Turco. «Sono inoltre convinto di interpretare in questo momento la soddisfazione dell’intera comunità di Torricella, suo paese d’origine, e di tutta la comunità tarantina. A lui - conclude Turco - vanno i miei più sentiti auguri di buon lavoro».

Quando proporsi alle vittime ed ai media e lisciare il pelo ai magistrati è sinonimo di successo.

Sulle tracce di Maria Chindamo.  Tra i familiari ora torna la speranza, scrive Pino Brosio il 30/10/2017 su "La Gazzetta del Sud". Il legale dell’associazione “Penelope”: «Messi in campo i migliori investigatori» d «Nel caso relativo alla scomparsa di Maria Chindamo gli inquirenti non brancolano nel buio. Hanno idee molto chiare ed elementi concreti nelle loro mani. La sensazione è che il cerchio si possa chiudere da un momento all’altro». A parlare è l’avv. Nicodemo Gentile, presidente dell’associazione nazionale “Penelope” della Toscana, che da qualche giorno s’è schierata al fianco della famiglia dell’imprenditrice scomparsa. Noto per aver trattato, da legale di fiducia, alcuni dei casi di cronaca più importanti degli ultimi anni (Sarah Scazzi, Rudy Guede, Salvatore Parolisi, ecc.), pochi giorni fa, assieme a Vincenzo, fratello di Maria, ha incontrato negli uffici della Procura di Vibo Valentia il sostituto procuratore Concettina Iannazzo, titolare delle indagini. Un faccia a faccia sereno e costruttivo che ha generato fiducia e speranza aprendo il campo a linee di ottimismo sino ad oggi mai registrate. «Da penalista – afferma Gentile – dopo i tanti casi trattati, devo dire che l’incontro con la dottoressa Iannazzo, ben coordinata dal procuratore Bruno Giordano, ci ha fatto percepire sensazioni del tutto positive. Ci sono in campo le migliori intelligence investigative, ci sono già tasselli importanti. Il mosaico si sta completando». La scomparsa di Maria Chindamo, in sostanza, non pare destinata, a scivolare nell’oblìo, anzi «a breve – prosegue Gentile – potrebbero arrivare le risposte attese». Il legale perugino, che nel caso dell’imprenditrice di Laureana di Borrello, va ad affiancare il legale di fiducia Giovanna Cusumano del Foro di Reggio Calabria, ritiene che nel caso Chindamo gli «indizi chiari siano tanti e che gli inquirenti si stiano muovendo lungo una pista precisa». In ogni caso «ci sono piaciute molto – sottolinea – la tenacia e la determinazione della dottoressa Iannazzo per cui la nostra fiducia nel suo operato e in quello delle forze dell’ordine è totale». C’è, poi, un altro aspetto che impressiona positivamente l’avv. Gentile: la forza e la bontà d’animo di tutti i familiari di Maria. «Vincenzo è il fratello coraggio – rimarca – perché sta dedicando la sua vita a questa vicenda alimentando due pensieri: lottare quotidianamente per capire e difendere la sua famiglia. Lui ci mette la faccia, sa di correre rischi, ma non indietreggia di un centimetro. È il simbolo della Calabria perbene. È il vento del cambiamento. L’omicidio di Maria ha trascinato la Calabria sul fondo; Vincenzo, col suo esempio, ci sta dicendo che questa è l’occasione per affrancare il territorio da dinamiche terribili». E, in verità, Vincenzo segue il suo percorso senza incertezze. L’incontro con gli inquirenti nella Procura di Vibo ha sprigionato in lui nuove energie. È convinto che «data la pericolosità sociale di quanto successo, la Procura non solo sia impegnata nella ricerca della verità, ma insegua anche l’obiettivo di riscattare questa società e dare giustizia a tutto il territorio. Ci sono – sostiene – segni importanti della presenza dello Stato che, in presenza di rischi per la popolazione, risponde in maniera forte». Tra l’altro, le indagini sulla scomparsa di Maria Chindamo vengono da sempre condotte, per competenza, dalla Procura di Vibo. Pur essendo cambiati i capi dell’ufficio la continuità dell’operato è stata sempre mantenuta e garantita dalla dott.ssa Concettina Iannazzo titolare delle indagini sin dal primo momento. Nei giorni scorsi, comunque, a seguito delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Giuseppe Dimasi, originario di Laureana di Borrello, s’è appreso che ad indagare c’è pure la Dda di Reggio Calabria guidata dal procuratore Federico Caero De Raho. A distanza di oltre sedici mesi dalla scomparsa di Maria, dunque, la ricerca della verità anziché perdere forza riprende vigore, allarga il campo d’azione, trova nuovi protagonisti e nuovi afati. Anche questo è segnale di cambiamento.

Giustizia, i Perry Mason dell’Umbria: i grandi casi mediatici visti e raccontati dagli avvocati. L'avvocato Valter Biscotti si è occupato della difesa di Rudy Guede, di Salvatore Parolisi, dei familiari di Sarah Scazzi e dei processi alle vecchie e nuove Br: "Mi fermano in giro per l'Italia e mi chiedono di salutare mamma Concetta", scrive Umberto Maiorca il 19 ottobre 2016 su “La Notizia Quotidiana”. La toga sulle spalle, a discutere davanti ai giudici di Corte d’assise, e poi davanti ad una selva di microfoni e telecamere. Una scena che l’avvocato Valter Biscotti ha vissuto molte volte, sia come difensore dell’imputato sia come rappresentante legale della parte offesa.

Da studente universitario ad avvocato “mediatico”, come hai iniziato?

«Sono avvocato da 28 anni e mi sono diviso sempre tra diritto industriale, dai tempi dell’università, e penale. Ricordo che iniziai con un paio di processi con due maestri come Stelio Zaganelli e Fabio Dean. Poi arrivò l’occasione di partecipare al processo Pecorelli, con la difesa di Calò. Sono stati cinque anni molto intensi, una settimana al mese di udienza, una sorta di master universitario sul campo con professionisti del calibro di Coppi, Naso, Oliviero, Taormina e magistrati come Cardella, Cannevale e Orzella».

Nel tempo sono arrivati altri processi importanti.

«Ho iniziato ad occuparmi di casi di omicidio, come quello di un ragazzo che aveva ucciso la madre o di un anziano che aveva assassinato la moglie. Entrambi furono assolti per incapacità. Il grande salto nel mondo dei media è arrivato con la difesa di Rudy e il processo Mez. Anche se qualche anno prima avevo iniziato ad occuparmi del delitto del soprintendente Emanuele Petri da parte delle nuove Br e avevo partecipato anche al procedimento per l’omicidio di Massimo D’Antona. Si è trattato dei primi delitti delle Br dopo tanti anni durante i quali si riteneva di aver sgominato i terroristi. Assisto ancora oggi i familiari degli uomini della scorta di Aldo Moro, trucidati in via Fani. Sono stato anche difensore di parte civile per la strage di piazza della Loggia. Tutti casi impegnativi che hanno avuto grande risalto su giornali e televisioni. Il processo a Rudy guede, però, è stato un evento mondiale e molto impegnativo. Ricordo che in occasione dell’udienza del riesame avevano montato delle torri per poter trasmettere i servizi. I giornalisti che hanno seguito il caso penso che siano stati, almeno presenti una volta, oltre 200».

Quale rapporto tra giustizia e media, tra avvocati e giornalisti?

«Devi essere capace di trattare con la stampa, perché i media hanno una rilevanza enorme nel processo, soprattutto quando si tratta di un procedimenti indiziario. In certi casi la sovraesposizione mediatica del caso può danneggiare lo svolgimento del processo e le parti coinvolte. L’avvocato, quindi, visto che è chiamato in gioco, deve giocare, nel rispetto delle regole professionali, ma deve saper usare il circo mediatico anche per bilanciare i vari elementi dell’inchiesta giudiziaria. Il “no comment” davanti ai giornalisti è un danno per il cliente. L’avvocato deve saper reagire alle notizie che provengono dalla controparte del difensore dell’imputato. La disparità di potere è rilevante, quindi a volte, bisogna impressionare l’opinione pubblica. Purtroppo mi è capitato che un magistrato si sia lasciato impressionare e abbia avuto paura di prendere decisioni conformi alle risultanze processuali».

Verità processuale e verità dei fatti, le sentenze rispecchiano l’evento?

«No. Alcuni esempi? Il caso Parolisi. È ingiusto perché le risultanze processuali non rispecchiano il tenore delle sentenze. Il caso Rudy lascia ancora tanti dubbi e ombre su quanto sia avvenuto in via della Pergola. Il caso di Sarah Scazzi è stato molto importante e seguito, forse il più mediatico, con ogni canale e ogni trasmissione che ogni settimana dedicava uno spazio. Eppure di omicidi simili ce ne sono stati tanti e ce ne sono in Italia. Dalla sentenza sappiamo tante cose, ma non emerge la verità piena, come è avvenuto l’omicidio, la dinamica resta un mistero».

Troppa visibilità danneggia il lavoro dell’avvocato?

«In casi come quelli nominati occorrono nervi saldi e e una serie di collaboratori per tutti i fronti e per controllare ogni aspetto del procedimento. Bisogna scegliere i migliori consulenti. E bisogna saper rispondere a tutti. Qualche anno fa c’erano solo “Un giorno in pretura” e “Chi l’ha visto?”, adesso ci sono almeno cinque programmi nazionali e decine di siti che fanno cronaca nera. La visibilità porta anche ad essere fermato da estranei nei posti più impensati in giro per l’Italia, tipo in autogrill, e mi dicono: Salutami Parolisi, oppure dì a Concetta, la mamma di Sarah Scazzi, che le sono vicino».

Taranto, parroco “tassista” inquisito in vasto giro di prostituzione. Nelle intercettazioni risulterebbe evidente il ruolo svolto da padre Calabrese, il quale aveva un rapporto diretto sia con le giovani prostitute che con la “maitresse” che si occupava della loro gestione, scrive Federico Garau, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale".  Gravissime accuse nei confronti di padre Saverio Calabrese, sacerdote della parrocchia di Monteparano (Taranto). L’uomo risulta coinvolto in un’inchiesta nella quale gli inquirenti tentano di far luce su un vasto e ben organizzato giro di prostituzione che vede come protagoniste alcune ragazze originarie dell’est Europa. Le indagini hanno portato all’incriminazione di diversi connazionali delle giovani, che si occupavano della gestione degli affari, ma anche di alcuni italiani che avrebbero dato il loro appoggio in cambio di denaro. Questi ultimi, tra cui lo stesso padre Calabrese, avevano il compito di condurre le giovani nei luoghi in cui si prostituivano e di occuparsi delle loro necessità primarie. Il parroco di Monteparano, già conosciuto per aver ricevuto la confessione in carcere di Michele Misseri in merito al delitto di Avetrana, si trova ora agli arresti domiciliari per il reato di favoreggiamento alla prostituzione. Come riportato dal quotidiano “Libero”, la posizione di padre Calabrese, soprannominato “il tassista”, è ben nota al tribunale di Taranto. Il parroco, come si legge nell’ordinanza emessa dal giudice, “frequentemente accompagnava (le ragazze) sul luogo del meretricio fornendo assistenza, anche portando ivi cibo”. Innegabile, per gli inquirenti, il filo diretto mantenuto fra lui e la “maitresse” delle giovani prostitute. A dar conferma in tal senso le intercettazioni telefoniche effettuate nei confronti di Nadia Radu, in arte “Smeranda”, 31enne romena considerata un fondamentale punto di riferimento per l’organizzazione criminale. “Non me la sento ancora di uscire cucciolotta, ma se avete bisogno domattina poi esco, non c' è problema”. Queste le parole riferite alla donna da padre Calabrese nell’ottobre del 2017, che inchioderebbero il religioso alle sue responsabilità di “tassista”. In attesa del processo, il parroco è stato sospeso dai suoi incarichi pastorali. Al momento risultano 12 indagati, tra stranieri ed italiani, che sono inquisiti per i reati di associazione a delinquere, sfruttamento, agevolazione e favoreggiamento della prostituzione ed infine estorsione. 

Il difensore del fioraio Buccolieri. «Raggirò i suoi clienti»: sotto processo l'avvocato ex sindaco, scrive Nazareno Di Noi Lunedì 24 Ottobre 2016 su “Il Quotidiano Di Puglia”. Avrebbe truffato il suo cliente facendosi consegnare la somma di quasi 200mila euro che sarebbe servita al liquidatore dell’assicurazione il quale era all’oscuro di tutto. Per questo l’avvocato di Avetrana Giovanni Scarciglia, già sindaco del suo Comune, è stato invitato a comparire il prossimo 7 dicembre davanti al giudice monocratico del tribunale di Taranto per rispondere dei reati di truffa aggravata e appropriazione indebita. Nei suoi confronti il pubblico ministero Filomena Di Tursi ha emesso un decreto di citazione in giudizio che salta la fase dell'udienza preliminare facendo a meno del controllo circa la fondatezza dell'accusa. Persone lese della presunta truffa sono due avetranesi, Antonio Minò, importatore di animali da macello con la moglie Maria Teresa Carrozzo, involontari protagonisti di una intricata e tristissima storia che parte dalla morte del proprio figlio Leonardo Luigi Minò, vittima di un incidente mortale della strada quando era ancora minorenne avvenuto il 19 settembre del 2000 ad Ancona. Il ragazzo viaggiava a bordo di un auto guidata da un suo zio di 23 anni, deceduto anche lui nell’incidente. Due lutti terribili che sconvolsero la famiglia Minò e l’intera comunità avetranese. I rilievi e le indagini della polizia stradale che si conclusero riconoscendo la non responsabilità della giovane vittima diedero il via alle pratiche risarcitorie a danno dell’assicurazione del mezzo. Fu allora che la famiglia Minò si rivolse al noto professionista il quale accettò di buon grado il compito di trattare il giusto compenso con la compagnia assicuratrice Unipol Sai. Il contenzioso si concluse con il riconoscimento a favore dei Minò della somma complessiva di 700mila euro suddivisa tra padre (280mila euro), madre (300mila) e sorella della vittima (120mila euro). L’avvocato Scarciglia, secondo quanto scrive la pm Di Tursi nella citazione a giudizio, «mediante raggiri ed artifici» fece credere al capofamiglia, suo assistito, che la somma concordata di 700mila euro «era condizionata alla dazione illecita della somma in contanti di 200.000 euro in favore del liquidatore Luca Coeli» (di Unipol Sai, ndr). Dalle indagini condotte, sarebbe emersa l’estraneità del liquidatore che, scrive il magistrato inquirente, era «in realtà del tutto ignaro della vicenda». L’avvocato imputato, sostiene l’accusa, avrebbe dunque «indotto in errore lo stesso Minò circa la necessità di corrispondere tale ingente somma». Tutto questo quanto l’assicurazione aveva già saldato il conto consegnando la somma pattuita nelle mani dell’avvocato, in parte con bonifico bancario in favore dell’assistito e in parte con assegni circolari non trasferibili intestati alla mamma e alla sorella della vittima. «Il predetto difensore – scrive il pm -, si procurava un ingiusto profitto consistito nel farsi consegnare in varie tranche da Minò la somma complessiva di 191.000 euro asserendo falsamente di doverla riversare al liquidatore». Lo stesso deve inoltre rispondere di appropriazione indebita perché, sostiene sempre il pm, «con abuso delle proprie relazioni di legale di fiducia, nell’ambito della pratica di risarcimento dei danni al fine di procurarsi un ingiusto profitto, si appropriava di tre assegni circolari dell’importo di 50.000 euro ciascuno emessi a favore della moglie e della figlia» del suo assistito. A difendere l’avvocato Scarciglia sarà il suo collega Raffaele Errico.

Taranto, arrestate 27 persone per mafia: coinvolti anche i sindaci di Avetrana ed Erchie. “Appalti, estorsioni e riciclaggio”. Secondo gli investigatori, il clan avrebbe creato un clima di intimidazione nei confronti di numerosi imprenditori locali che venivano così "soggiogati al sistema mafioso". Arrestati anche Antonio Minò e Giuseppe Margheriti, rispettivamente alla guida dei comuni di Avetrana ed Erchie. Un ex consigliere comunale di Manduria è accusato di scambio elettorale politico-mafioso, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 4 luglio 2017. Avevano creato un clima di intimidazione tra gli imprenditori locali, teso ad aggiudicarsi appalti pubblici, a imporre estorsioni e all’imposizione delle proprie ditte nella movimentazione terra. E avevano agganci “in alto”, fino ai vertici di due amministrazioni comunali, sospettano gli inquirenti, che questa mattina hanno eseguito 27 arresti (venti in carcere, 7 ai domiciliari) tra le province di Taranto e Brindisi nei confronti di un presunto sodalizio criminale di stampo mafioso.

Tra le persone coinvolte ci sono i primi cittadini di Avetrana ed Erchie, Antonio Minò e Giuseppe Margheriti. Oltre al vice-sindaco del paese nel Brindisino, Domenico Margheriti, e di un ex consigliere comunale di Manduria, sempre in provincia di Taranto, accusato di scambio elettorale politico-mafioso. Minò è indagato per concorso esterno ed è stato rinchiuso in carcere, mentre Margheriti si trova ai domiciliari. I 27 sono ritenuti responsabili, a vario titolo e in concorso tra loro, di associazione di tipo mafioso, voto di scambio, estorsione, corruzione, rapina, riciclaggio, lesioni personali, danneggiamento, detenzione illegale di armi da fuoco e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Il presunto clan, secondo la polizia di Taranto e la Dda di Lecce, voleva strutturarsi in un “centro di potere” che avesse la capacità di intrattenere rapporti con le realtà istituzionali del territorio e con la società civile, grazie all’infiltrazione nel tessuto economico-imprenditoriale locale. Secondo gli investigatori, il clan avrebbe creato un clima di intimidazione nei confronti di numerosi imprenditori locali che venivano così soggiogati al sistema mafioso. Sono 57 in tutto gli indagati nell’inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Lecce conclusa oggi con l’arresto in carcere di 20 persone e 7 ai domiciliari che devono rispondere a vario titolo di associazione mafiosa, associazione mafiosa esterna, traffico di droga, estorsioni ed altri reati.

In carcere sono finiti: Giuseppe Buccoliero, Antonio Campeggio, Francesco D’Amore, Luciano Carpentiere, Davide Blasi, Agostino De Pasquale, Daniele Lorusso, Giampiero Mazza, Vito Mazza, Cosimo Merola, Fabrizio Monte, Cataldo Panariti, Cosimo Damiano Pichierri, Massimiliano Rossano, Oronzo Soloperto, Cosimo Storino, Leonardo Trombacca, Antonio Minò, Pasquale Pedone, Riccardo De Santis.

Ai domiciliari: Nicola Dimonopoli, Domenico Margheriti, Giuseppe Margheriti, Gianluca Mazza, Erminio Vitillio, Marco Monaco, Giorgio Pitardi.

Le mani della mala sul 118, la Fiera Pessima e l’eolico, scrive il 4 luglio 2017 “La Voce di Manduria. Emergono i primi particolari dall’inchiesta della polizia e dell’antimafia di Lecce che coinvolge 44 persone tra indagati a piede libero e arrestati in carcere e ai domiciliari, in gran parte provenienti dai comuni di Manduria, Avetrana, Erchie. Tra i reati contestati figurano il traffico di droga, estorsione e giro di tangenti. Si ipotizzano reati per il controllo della Fiera Pessima e del servizio ambulanze del 118, ma anche appalti milionari sull’eolico. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, è accusato di aver concorso con esponenti della malavita organizzata per il controllo e la gestione del servizio ambulanze del 118 imponendo ad altre associazioni l’assunzione di alcuni esponenti della mala. Per la Fiera pessima si ipotizzano tentate estorsioni all’imprenditore che l’aveva gestita nel 2013 (si parla di una mazzetta, non consegnata, di 15 mila euro). Il sindaco di Erchie, Giuseppe Margheriti, è indagato nell’ambito dei lavori di appalto dell’eolico affidato all’impresa Pedone di Manduria. Il consigliere comunale e medico del pronto soccorso, Nicola Dimonopoli è invece accusato di voto di scambio. Avrebbe fatto favori di natura sanitaria con pregiudicati del posto in cambio di appoggi alle ultime elezioni amministrative.

Mafia, 27 arresti, coinvolti anche i sindaci di Avetrana ed Erchie, scrive Giacomo Rizzo, su “La Gazzetta del Mezzogiorno" il 4 luglio 2017. Ha svelato un presunto intreccio tra mafia e politica l’inchiesta della Squadra Mobile di Taranto, coordinata dalla Dda di Lecce, sfociata oggi nell’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 27 indagati, due dei quali sfuggiti alla cattura. Gli inquirenti ritengono di aver disarticolato un’associazione di tipo mafioso, considerata frangia della Sacra Corona Unita, strutturata in tre gruppi collegati tra loro, che operavano nel versante orientale della provincia di Taranto e nei comuni limitrofi del Brindisino e del Leccese. Sono cinque i politici raggiunti da misura cautelare: in carcere il sindaco di Avetrana Antonio Minò (eletto nel 2016, a capo della Lista civica «Per Avetrana»), ai domiciliari invece il sindaco di Erchie (Brindisi) Giuseppe Margheriti (eletto nel 2015 per il terzo mandato con una coalizione di centrodestra), l’ex vice sindaco Domenico Margheriti, l’ex consigliere comunale di Manduria Nicola Dimonopoli (fu eletto nel 2013 con la lita civica «Proposta per Manduria») e l’ex assessore comunale allo Sport di Manduria, Massimiliano Rossano.  Il presunto clan, secondo gli inquirenti, oltre ad occuparsi del traffico di droga e delle estorsioni, mirava a strutturarsi in «centro di potere» in grado di relazionarsi con le realtà istituzionali e con la società civile attraverso la sua capacità di infiltrarsi nel tessuto economico-imprenditoriale locale. Delle 27 ordinanze emesse dal gip del tribunale di Lecce Cinzia Vergine su richiesta del sostituto procuratore della Dda Alessio Coccioli, 20 prevedono la custodia in carcere e 7 ai domiciliari. Sessanta in tutto gli indagati. Sono indicati come organizzatori e promotori Antonio Campeggio, Francesco D’Amore (del gruppo che operava a Manduria e San Giorgio Jonico), Giuseppe Buccoliero (referente nel Comune di Sava), Gianpiero e Vito Mazza (sempre per la zona di Manduria). Tra gli episodi contestati spicca la tentata estorsione ai danni dei vincitori (nel 2012) dell’appalto di realizzazione della 272ma “Fiera pessima” di Manduria, ai quali fu chiesta una tangente di 30mila euro, con la giustificazione, da parte di Antonio Campeggio, di dover «accontentare persone di Bari, di Taranto e di Mesagne». Una parte sostanziosa dell’ordinanza del gip Vergine è dedicata al ruolo dei politici. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa non per la sua carica istituzionale ma in qualità di presidente dell’Associazione «Avetrana Soccorso» del 118. Secondo l’accusa, avrebbe fornito consapevolmente e volontariamente un contributo importante al rafforzamento del giro di affari del clan, mettendosi a disposizione di Antonio Campeggio e Francesco D’Amore. Il sindaco di Erchie Giuseppe Margheriti e l’ex vice sindaco Domenico Margheriti rispondono di corruzione aggravata, per aver ottenuto, a titolo di tangente, - secondo gli investigatori - il pagamento di 80mila euro, oltre alla promessa di ulteriori dazioni di danaro, dietro l’impegno ad agevolare l'assegnazione di futuri appalti di opere pubbliche: in particolare i lavori di completamento delle infrastrutture primarie della zona Pip per un importo complessivo di oltre un milione di euro alla ditta Tecnoscavi srl dell’imprenditore Pasquale Pedone e la realizzazione di un parco eolico in zona Tre Torri Montugne-Cicirella.  All’ex consigliere comunale di Manduria, Nicola Dimonopoli, che si è dimesso pochi giorni fa, è contestato il voto di scambio politico mafioso. Infine, l’ipotesi di corruzione è contestata all’ex assessore comunale di Manduria Massimiliano Raso, il quale si sarebbe interessato, dietro la promessa di pagamento di 1500 euro da parte del legale rappresentante di una società sportiva, per garantire l’affidamento diretto dei lavori di messa a norma della pista di pattinaggio del Centro Sportivo Polivalente di Manduria. (Giacomo Rizzo, ANSA) 

Mafia pugliese. Operazione della Polizia, 27 arrestati, scrive "Il Corriere del giorno" il 5 luglio 2017. Gli uomini dalla Squadra Mobile di Taranto Polizia di Taranto, affiancati dai colleghi dello S.C.O. il  Servizio Centrale Operativo, delle Squadre Mobili di Lecce, Foggia, Brindisi, L’ Aquila ed Alessandria, e del Reparto Prevenzione Crimine di Lecce, col supporto del Reparto Volo e di unità cinofile di Bari,  hanno eseguito  all’alba di oggi  20 ordinanze di custodia cautelare in carcere e 7 ai arresti domiciliari,  provvedimenti restrittivi disposti dal gip del tribunale di Lecce dr.ssa Cinzia Vergine su richiesta del sostituto procuratore dr. Alessio Coccioli della Direzione Distrettuale Antimafia, nell’ambito di un’operazione che ha visti impegnati circa 200 poliziotti, le unità cinofile ed un elicottero del Reparto Volo di Bari, eseguita  nei confronti di un sodalizio criminale di stampo mafioso . Nell’inchiesta risultano indagate complessivamente 60 persone. Un importante contributo è derivato dalle attività d’intercettazione, i cui contenuti sono risultati nella maggior parte dei casi facilmente intellegibili, a dimostrazione dell’arroganza criminale dei soggetti intercettati, che parlavano apertamente della azioni criminali già compiute e rivelavano la loro appartenenza al clan, in uno scambio di opinioni col quale si voleva allo stesso tempo infondere il potere mafioso e capacità di assoggettamento verso i componenti delle altre articolazioni. Fra le ipotesi contestate vi è anche quella di riciclaggio, avendo taluni indagati (fra i quali Riccardo De Santis, attinto da misura) acquistato dal clan “D’Amore-Campeggio”, pur conoscendone la provenienza delittuosa, migliaia di capi di abbigliamento per un valore di 150mila euro da pagare in denaro contante, ostacolando l’identificazione della stessa merce, occupandosi poi del suo smistamento, commercializzazione, trasferimento e sostituzione, il tutto in nero e senza fatture. Legata a tali condotte è pure l’intestazione fittizia a terze persone di società riconducibili al De Santis.

Fra i 27 arrestati compaiono anche amministratori ed esponenti politici locali fra i quali il sindaco di Avetrana, indagato per concorso esterno, Antonio Minò (a sinistra nella foto) infermiere professionale ed ex presidente dell’associazione Avetrana Soccorso, ed un’ex assessore comunale allo Sport di Manduria, Massimiliano Rossano il quale avrebbe anche ricevuto una tangente per i lavori alla pista di pattinaggio, indagato per scambio elettorale politico-mafioso (entrami comuni della provincia di Taranto ). Minò all’ epoca dei fatti (2013) era presidente dell’ Associazione Avetrana Soccorso del 118 provincia Jonica, ha fornito consapevolmente e volontariamente un contributo importante al rafforzamento del giro di affari, del prestigio e della fama criminale dell’ articolazione rappresentata dal citato clan, mettendosi a completa disposizione degli indagati  Antonio Campeggio e Francesco D’Amore, nonché degli altri esponenti della medesima articolazione, agevolando l’ imposizione dell’assunzione del secondo, in qualità di autista, presso la postazione di San Giorgio Jonico, ai danni del presidente dell’ associazione Croce Verde Faggiano, ovvero provvedendo lui stesso all’ assunzione di altri sodali indicatigli dal Campeggio. Le tre diramazioni del clan mafioso agivano prevalentemente nel triangolo della provincia tarantina, fra Manduria, San Giorgio e Sava, e sono qualificabili come frange della Sacra Corona Unita. Grazie a intestazioni fittizie, secondo l’accusa il clan è riuscito anche a vincere gare d’appalto per il servizio di 118 in diversi comuni, reinvestendo circa 150mila euro di fondi pubblici in bar e ristoranti.

Ai domiciliari è finito Nicola Dimonopoli, un medico ex consigliere comunale di Manduria, il quale era stato eletto nel 2013 con la lista civica “Proposta per Manduria”, dimessosi lo scorso 30.06.2017 poco prima dell’arresto , il quale come si evince dall’ordinanza, per ottenere voti alle amministrative del 2013 si era rivolto al clan con cui  ha stretto un patto di scambio politico-mafioso garantendo denaro e prestazioni mediche (una prognosi gonfiata in occasione di un sinistro stradale), arrivando persino a fare pressioni e minacciare gli altri consiglieri inducendoli a eleggerlo presidente del consiglio comunale. L’organizzazione mafiosa ha altresì procurato voti ad esponenti politici ad essa vicini, nell’ aspettativa di ricevere in cambio favori e appalti pubblici, in particolare in occasione della competizione elettorale comunale di Manduria, per la elezione diretta ·del sindaco e del consiglio comunale, tenutasi nel Maggio – Giugno del 2013. A fronte della promessa di ottenere l’appoggio elettorale, con procacciamento di voti raccolti mediante l’esercizio della forza di intimidazione dell’associazione, il candidato Nicola Dimonopoli (destinatario della misura degli arresti domiciliari) aveva assunto impegno nei confronti del Campeggio capo della propria articolazione mafiosa a versargli cospicue somme denaro con cadenza mensile. Da qui la contestazione del reato (scambio politico mafioso) di cui all’ art. 416 ter c.p. .nei confronti del Dimonopoli, che all’ epoca dei fatti svolgeva servizio al pronto soccorso dell’ ospedale M. Giannuzzi di Manduria, risulta aver concesso prestazioni mediche facendo ottenere, sempre su richiesta di Antonio Campeggio, giorni di prognosi a persone a costui vicine e coinvolte in incidenti stradali, ed ottenendo in cambio un intervento da parte del primo nei confronti di coloro che, di seguito all’elezione, non volevano sostenerlo per la carica alla presidenza del consiglio del comune di Manduria.

Agli arresti domiciliari sono finiti anche Giuseppe Margheriti, sindaco di Erchie, comune della provincia di Brindisi, e l’ex vicesindaco ed attuale consigliere comunale Domenico Margheriti, accusati entrambi di corruzione aggravata per aver incassato una tangente da 80mila euro per pilotare un appalto per i lavori di completamento delle infrastrutture primarie della zona Pip del valore di un milione di euro per lavori da eseguire  nella zona industriale alla ditta Tecnoscavi srl dell’imprenditore Pasquale Pedone e la realizzazione di un parco eolico in zona Tre Torri Montugne-Cicirella. Il sindaco di Erchie viene accusato anche di aver mandato segnalazioni false alla Regione Puglia ed emesso un’ordinanza per bloccare un cantiere eolico in cambio della promessa di una percentuale sul subappalto che una ditta vicina al clan voleva ottenere per i lavori di movimento terra nel cantiere. Il clan mafioso smantellato era diretto da Antonio Campeggio (noto come Tonino scippatore), Antonio Buccoliero (noto come Peppolino capone) e Francesco D’Amore, secondo gli inquirenti, cercava di strutturarsi  in un “centro di potere”, in occasione delle amministrative di maggio 2013 a Manduria procurando voti, capace di infiltrarsi  nelle istituzioni e con la società civile grazie alla capacità di inserirsi negli affari economico-imprenditoriale locali, puntava a ricevere appalti in lavori pubblici e servizi del 118 creando un clima di intimidazione nei confronti di numerosi imprenditori locali che venivano in tal modo sottomessi al sistema mafioso, che così si insinuava nell’aggiudicazione di appalti pubblici alle estorsioni, dall’imposizione nelle attività di «movimento terra» al riciclaggio. Campeggio, Buccoliero e D’amore avevano già un ruolo direttivo in seno alla frangia manduriana della Sacra Corona Unita, ed in particolare di affiancamento al Cinieri Massimo, alias Massimino molletta, durante la contrapposizione, alla fine degli anni ’80 e primi anni ’90, del gruppo da quest’ultimo capeggiato alla cosca di Stranieri Vincenzo (elemento di vertice della SCU). Periodo in cui si registrarono delle vere e proprie lotte armate per il controllo delle attività illecite sul territorio, culminate anche in omicidi o tentati omicidi di esponenti di vertice, sino alla scalata al vertice del Cinieri ed alla costituzione del sodalizio mafioso denominato “Sacra Corona Libera”, operante nelle province di Brindisi e Taranto. Negli anni, a seguito della riconciliazione tra il vecchio padrino ed il Cinieri, Antonio Campeggio è divenuto il soggetto sul quale il clan Stranieri decideva di puntare. Gli arrestati vengono ritenuti dalla Direzione Distrettuale Antimafia, responsabili, a vario titolo e in concorso tra loro, di associazione di tipo mafioso, scambio politico elettorale-mafioso, estorsione, corruzione, rapina, riciclaggio, lesioni personali, danneggiamento, detenzione illegale di armi da fuoco e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti.  In carcere il sindaco di Avetrana, Antonio Minò. Il primo cittadino è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa per aver favorito assunzioni al 118 imposte dal clan. Molteplici gli episodi accertati di estorsione. Tra le quali una ad un cantiere da 10 milioni di euro che lavorava alla realizzazione della nuova rete di acqua potabile per i comuni di Leporano e Pulsano, ma anche quella perpetrata nel 2010 ai danni degli organizzatori della Fiera Pessima di Manduria, che vennero costretti a pagare un pizzo di 30mila euro per non avere problemi e ritorsioni dal clan mafiosi.

Questi i destinatari della custodia cautelare in carcere:

BIASI Davide, anni 39, nato a Taranto;

BUCCOLIERO Giuseppe, anni 48, nato a Sava (TA), attualmente detenuto presso il carcere di Sulmona;

CAMPEGGIO Antonio, anni 47, nato a Manduria (TA);

CARPENTIERE Luciano, anni 51, nato a Brindisi;

D’AMORE Francesco, anni 49, nato a San Giorgio Jonico (TA);

DE PASQUALE Agostino, anni 58, nato a Manduria (TA);

DE SANTIS Riccardo, anni 49, nato a Taranto;

LORUSSO Daniele, anni 38, nato a Taranto;

MAZZA Gianpiero, anni 36, nato a Manduria (TA) attualmente detenuto presso il carcere di Taranto;

MAZZA Vito, anni 40, nato a Manduria (TA);

MINO’ Antonio, anni 57, nato a Manduria (TA);

MONTE Fabrizio, anni 48 nato a Latiano (BR);

PANARITI Cataldo, anni 38, nato a Manduria (TA);

PICHIERRI Cosimo Damiano, anni 53, nato a Sava (TA);

ROSSANO Massimiliano, anni 46, nato a Bologna;

SOLOPERTO Oronzo, anni 36, nato a Manduria (TA);

TROMBACCA Leonardo, anni 37, nato a Manduria (TA);

PEDONE Pasquale, anni 63, nato a Manduria (TA);

Questi i destinatari della misura degli arresti domiciliari:

DIMONOPOLI Nicola, anni 52, nato a Manduria (TA);

MARGHERITI Domenico, anni 58, nato a Erchie (BR);

MARGHERITI Giuseppe Antonio Salvatore, anni 46 nato a Brindisi;

MAZZA Gianluca, anni 23, nato a Manduria (TA);

MONACO Marco, anni 24, nato a Mesagne (BR);

PITARDI Giorgio, anni 26, nato a Melpignano (LE).

Blitz antimafia. La piovra manduriana nel potere economico e politico, scrive Nazareno Dinoi il 5 luglio 2017 su "La Voce di Manduria". Nomi di spicco anche tra le vittime del gruppo criminale oggetto di richiesta estorsive per assicurarsi la protezione: l’imprenditore ex patron del Taranto calcio, Gigi Blasi; Franco Spina dell’omonima impresa di impiantistica industriale. Esponenti della malavita organizzata tra potere economico e politico in un intreccio quasi asfissiante che mirava a controllare l’economia e le risorse pubbliche del territorio. La «piovra messapica» come non era stata mai presentata prima, ha sconvolto la tranquilla comunità manduriana sbattuta in prima pagina e nelle notizie d’apertura dei telegiornali per fatti che lasciano a bocca aperta. Sono quasi tutti nomi di spicco e di peso, sia criminale che politico, quelli finiti nelle 592 pagine di un’informativa dai contenuti per certi aspetti inquietanti. Dal sindaco di Avetrana, Antonio Minò, all’ex presidente del Consiglio e consigliere comunale dimissionario di Manduria, Nicola Dimonopoli, passando per l’ex assessore al Turismo e spettacolo, Massimiliano Rossano con ombre che si allungano su alte cariche pubbliche della stessa città Messapica i cui nomi vengono solo citati nell’inchiesta perchè i «risvolti penali a loro carico sono risultati esigui» e pertanto risparmiati da ogni provvedimento nemmeno da indagati. Dal girone dei politici, sono due i personaggi che più di tutti hanno provocato sgomento e incredulità in questo versante della provincia jonica: quelli del sindaco di Avetrana Minò e del consigliere Dimonopoli. Il primo è stato coinvolto non in qualità di politico ma in quanto imprenditore. Fondatore e patron di un’associazione per l’assistenza e il soccorso di infermi convenzionata con la Asl che gli ha affidato la gestione della postazione del 118 di Manduria, su di lui pesa l'accusa di concorso esterno di associazione mafiosa e per questo è stato rinchiuso nel carcere di Taranto. Il dottore Dimonopoli, medico in servizio al pronto soccorso di Manduria, ai domiciliari, è accusato di scambio elettorale politico-mafioso. Associazione mafiosa per Rossano ritenuto invece organico al presunto clan capeggiato da Antonio Campeggio, entrambi in carcere. Il sindaco Minò, secondo l’accusa, avrebbe fornito «consapevolmente e volontariamente» un contributo importante al rafforzamento, dell'articolazione del sodalizio del «padrino» Campeggio, «mettendosi a completa disposizione agevolando l'imposizione dell'assunzione di un componente del clan, in qualità di autista, nella postazione del 118 di San Giorgio Jonico, obbligando per questo il presidente l'associazione Croce Verde Faggiano. Sempre secondo la procura antimafia che lo indaga, il primo cittadino avrebbe provvedendo lui stesso all'assunzione, nella sua associazione «Avetrana soccorso» di altri membri della stessa organizzazione mafiosa. Ad incastrare Minò ci sono diverse intercettazioni telefoniche e ambientali mentre prende accordi diretti con il presunto capoclan Campeggio. Di diversa natura il coinvolgimento dell’ex consigliere Dimonopoli (da quattro giorni dimissionario per divergenze politiche con il resto del gruppo di minoranza), il quale avrebbe chiesto e ottenuto appoggi elettorali ad esponenti della malavita in cambio di favori legati alla sua attività professionale come certificazioni mediche con giorni di prognosi. Più complessa la posizione dell’ex assessore Rossano che deve rispondere di accuse ben più pesanti. Secondo gli inquirenti, il dipendente Asl (anche lui impiegato al pronto soccorso del Giannuzzi), farebbe parte dell’organizzazione mafiosa del «padrino» manduriano. Inoltre, nel periodo in cui ha ricoperto la carica assessorile, avrebbe favorito una ditta locale con la promessa di una tangente di 1.400 euro. Molto più grave la terza accusa: avrebbe costretto l’impresa che gestiva l’edizione della Fiera Pessima manduriana del 2012 ad assumere il controllo sulla guardiania della campionaria. La «piovra», spiegano gli investigatori nelle loro indagini, investiva il denaro sporco accumulato con il traffico di sostanze stupefacenti, rilevando aziende sane. Tra queste, i cui nomi compaiono nel fascicolo, i ristoranti balneari di Campomarino, Don Piccio e Bikini. L’investimento della mala non risparmiava il business del 118. Per questo è stato arrestato l’imprenditore Leonardo Trombacca, nome storico nel campo delle pompe funebri, affidatario di una convenzione con la Asl per la gestione della postazione 118 di Avetrana. Per la procura una parte dei guadagni finivano nelle casse del sodalizio criminale guidato da Campeggio. L’associazione, di fatto controllata da Trombacca, era stata intestata fittiziamente ad uno dei suoi dipendenti che risulta per questo indagato. Nomi di spicco anche tra le vittime del gruppo criminale oggetto di richiesta estorsive per assicurarsi la protezione: l’imprenditore ex patron del Taranto calcio, Gigi Blasi; Franco Spina dell’omonima impresa di impiantistica industriale, Giuseppe Caforio, titolare dell’azienda di serramenti. Dalle indagini è emerso che nessuno di loro ha ceduto al pizzo.

Mafia e politica, la difesa di Minò e Dimonopoli, scrive Nazareno Dinoi il 7 luglio 2017 su "La Voce di Manduria". A parte qualche indagato minore che ha voluto fare delle dichiarazioni spontanee, tutti gli altri si sono avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande del gip. Tra le lacrime di alcuni e i silenzi di altri, si è conclusa ieri la prima delicata fase degli interrogatori di garanzia delle persone raggiunte martedì mattina dai provvedimenti di custodia cautelare, in carcere e ai domiciliari, emessi dal Tribunale di Lecce su richiesta della Direzione distrettuale antimafia che indaga su presunte contaminazioni della sacra corona unita nel tessuto imprenditoriale e politico dei comuni di Manduria, Avetrana e Erchie. Il più drammatico confronto con il gip Pompeo Carriere, delegato con rogatoria dalla giudice Cinzia Vergine che ha disposto le misure, è stato sicuramente quello con il sindaco di Avetrana, Antonio Minò, finito in carcere con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il primo cittadino, coinvolto nell’inchiesta non nel suo ruolo istituzionale ma come presidente di un’associazione di volontariato, «Avetrana Soccorso», convenzionata con la Asl di Taranto per la gestione della postazione 118 di Manduria, ha dichiarato tra le lacrime la propria innocenza dicendosi quindi estraneo a qualsiasi collusione con gli ambienti della malavita. In merito alla sua presunta pressione esercitata nei confronti del presidente di un’altra associazione di San Giorgio per l’assunzione di un esponente del clan di Antonio Campeggio, ritenuto a capo dell’organizzazione mafiosa, Minò avrebbe giustificato tale circostanza come un atto di solidarietà su cui si fonderebbe l’associazione di cui è presidente. Nel corso dell’interrogatorio non sarebbero mancati momenti di profondo sconforto da parte del politico che in più occasioni è stato costretto a fermarsi perché impossibilitato ad andare avanti. Parlando poi con uno dei suoi avvocati, Mario De Marco, che è anche componente della giunta, il sindaco si è raccomandato per il buon andamento dell’amministrazione invitando il vicesindaco Alessandro Scarciglia, che lo sostituisce, a fare di tutto per non far sentire la sua mancanza e per difendere l’ente nel migliore dei modi. Anche l’ex presidente del Consiglio comunale di Manduria, Nicola Dimonopoli, che deve rispondere di scambio elettorale politico – mafioso, ha preferito rispondere alle domande del gip sottraendosi anche lui da ogni accusa. L’ex consigliere, medico alle dipendenze della Asl di Taranto, avrebbe negato qualsiasi accordo con elementi della malavita ai quali non avrebbe chiesto appoggi dicendosi certo di conoscere quasi tutti i suoi elettori. A parte qualche indagato minore che ha voluto fare delle dichiarazioni spontanee, tutti gli altri si sono avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande del gip. Una mossa, questa, spiegata probabilmente dalla necessità, per gli avvocati, di prendere visione degli atti in mano alla procura antimafia prima di imbastire una linea di difesa. Tutto il folto collegio difensivo composto dai penalisti Nicola Marseglia, Mario De Marco, Franz Pesare, Armando Pasanisi, Lorenzo Bullo, Mimmo Micera, Gaetano Vitale, Luigina Brunetti, Antonio Liagi ed altri, sono già al lavoro per il ricorso al Tribunale del riesame al quale chiedere intanto la revoca delle misure imposte ai propri assistiti. Desterebbero preoccupazioni infine le condizioni di salute dell’ex assessore manduriano, Massimiliano Rossano, anche lui in carcere con l’accusa di associazione mafiosa, sottoposto più volte a visita medica. Rossano che è operatore socio sanitario in servizio al pronto soccorso dell’ospedale Marianna Giannuzzi di Manduria, è sospettato di essere parte attiva dell’organizzazione mafiosa capeggiata da Antonio Campeggio, detto “Tonino scippatore”.

Inchiesta Dia, parlano gli indagati. Minò: rifarò il sindaco - Dimonopoli: basta con la politica, scrive Nazareno Dinoi il 27 luglio 2017 su "La Voce di Manduria". Nella decisione dei giudici del riesame ha avuto un buon risultato anche l’imprenditore manduriano Pietro Pedone, detenuto in carcere, che da ieri, difeso dall’avvocato Lorenzo Bullo, si è trasferito ai domiciliari. Il sindaco di Avetrana, Antonio Minò e l’ex presidente del Consiglio comunale di Manduria, Nicola Dimonopoli, sono tornati liberi. Ieri il Tribunale del Riesame di Lecce ha accolto le richieste dei rispettivi avvocati, Nicola Marseglia del primo e Franz Pesare e Armando Pasanisi il secondo. Il primo cittadino di Avetrana ha lasciato il carcere di Taranto dove era rinchiuso dal 4 luglio, mentre Dimonopoli può lasciare il proprio domicilio dove era ristretto. Il sindaco è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa mentre Dimonopoli di voto di scambio. Minò ha fatto rientro a casa nel tardo pomeriggio di ieri accolto da una folla di parenti e cittadini in festa. Lui, visibilmente commosso e provato, ha abbracciato tutti prima di chiudersi in casa con i parenti e i suoi più stretti collaboratori. Ed ha trovato il tempo per rilasciare delle dichiarazioni. «Non ho mai dubitato e non dubiterò mai della giustizia, il mio – dice Minò - lo considero un incidente di percorso che, sono sicuro, sarà risolto definitivamente». Pronto a rimettersi in gioco, il primo cittadino non vede l’ora di riprendere la sua attività politica. «Già da lunedì – racconta – sarò nel mio ufficio in municipio e riprenderò le redini del mio comune con più energie di prima». Poi l’appello rivolto agli organi d’informazione. «Voi fate il vostro dovere e lo comprendo, ma adesso tocca a voi darmi quello che merito, la mia figura ha bisogno di positività e in questo confido in voi». Infine i ringraziamenti. «Alla mia famiglia prima di tutto che mi è stata molto vicina in questi terribili giorni, e poi a tutti gli amici e agli amministratori anche di opposizione che hanno compreso. Un ringraziamento particolare - conclude il sindaco –, al mio avvocato Marseglia che si è dimostrato un uomo e un professionista all’altezza della situazione».

Uno degli avvocati di Antonio Minò, Mario De Marco, così commenta: “La decisione del Tribunale di riesame oltre a dare grande sollievo al Sindaco ed alla sua famiglia conferma la debolezza di indagini molto sommarie svolte con metodo inquisitorio ma soprattutto allontana anche il mero accostamento tra la comunità avetranese ed ogni forma di attività criminale”. Altrettanto sollevato ma di umore differente si è presentato invece l’ex presidente del consiglio, il manduriano Dimonopoli che di politica non ne vuole più sapere. «Con questa storia ho chiuso completamente con la politica; ho capito ora più che mai quanto sia sporca; adesso – conclude Dimonopoli che è medico ospedaliero – devo concentrarmi a riconquistare la fiducia delle persone che mi stimano e dei miei pazienti». Naturalmente sia Minò che Dimonopoli restano indagati a piede libero e rischiano comunque il processo.

Nella decisione dei giudici del riesame ha avuto un buon risultato anche l’imprenditore manduriano Pietro Pedone, detenuto in carcere, che da ieri, difeso dall’avvocato Lorenzo Bullo, si è trasferito ai domiciliari nonostante le pesanti accuse di corruzione in associazione mafiosa di cui è accusato e i suoi numerosi precedenti penali. Confermate invece le misure detentive per i manduriani Luciano Carpentiere e Vito Mazza. Resta ai domiciliari anche il sindaco di Erchie, Giuseppe Margheriti mentre è libero l’ex suo vicesindaco, Domenico Margheriti. Il collegio difensivo di ieri era composto dagli avvocati Armando Pasanisi, Franz Pesare, Lorenzo Bullo, Nicola Marseglia, Raffaele Missere, Fabrizio Lamanna e Michele Iaia.

I giudici riesaminano il sindaco Minò: "non ci fu estorsione". Questo il risultato del secondo Riesame, celebrato dal tribunale di Lecce, che sancisce l’insussistenza dei “gravi indizi di colpevolezza” a suo carico, scrive mercoledì 07 marzo 2018 Lino Campicelli su Quotidiano di Taranto, riportato da "la Voce di Manduria". Antonio Minò, sindaco di Avetrana coinvolto nell’inchiesta antimafia sui presunti intrecci fra criminalità organizzata e politica, non andava arrestato. E soprattutto non era da incriminare. Questo il risultato del secondo Riesame, celebrato dal tribunale di Lecce, che sancisce l’insussistenza dei “gravi indizi di colpevolezza” a suo carico, relativamente all’episodio legato al tentativo di far assumere all’interno dell’associazione “Croce verde Faggiano” un uomo raccomandato dal boss Antonio Campeggio. Il Riesame, in accoglimento dei rilievi dell’avvocato Nicola Marseglia, ha fatto un passo indietro. Questa volta in ossequio alle indicazioni fornite di recente dai supremi giudici. Come si ricorderà, il 25 gennaio scorso, la Corte di Cassazione aveva annullato la decisione adottata in precedenza dal Riesame secondo cui, per il tentativo di estorsione contestato a Minò, vi sarebbero stati i gravi indizi di colpevolezza ma non “le esigenze cautelari”. In pratica, i giudici salentini avevano confermato la sussistenza dei gravi indizi. La Cassazione, però, aveva annullato con rinvio quell’ordinanza, non condividendone le motivazioni. E aveva dato mandato al collegio di “rivisitare” quel giudizio. Ieri, il Riesame ha esaminato il caso alla luce delle argomentazioni difensive ed ha concluso anche per l’insussistenza dei gravi indizi. In pratica, la condotta di Minò non si sarebbe tradotta in nulla di penalmente rilevante. Se tutto ciò si aggiunge al fatto che già in quella circostanza il Riesame aveva autonomamente annullato l’ordinanza degli arresti domiciliari a carico di Minò, in riferimento alla presunta accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, si comprende come il procedimento, che sfocia davanti al gup di Lecce a partire dal 20 marzo prossimo, dovrà fare i conti, proprio nel caso del sindaco di Avetrana, con la decisione del Riesame. Ovviamente, il giudizio del Riesame non ha carattere vincolante. Tuttavia, se l’ulteriore ordinanza emessa ha costituito una sorta di adesione convinta agli orientamenti proposti dai supremi giudici, il risultato che ne è scaturito non può non avere un riflesso sulla valutazione complessiva. Tanto più che a carico di Minò era stata già esclusa, in origine, e su decisione del tribunale del Riesame (peraltro presieduto dal dottor Silvio Maria Piccinno, lo stesso presidente che ha guidato ieri il collegio) la presunta condotta attuata per favorire l’associazione mafiosa. Sul punto, infatti, il Riesame sostenne all’epoca che «non può ritenersi realizzato dal Minò quel concreto e sostanziale contributo al rafforzamento del sodalizio di stampo mafioso».

Amministratori pubblici di Avetrana. Ogni partigiano si scelga il migliore. Anche tra quelli che sfoderano una finta verginità o un presunta superiorità morale.

Ad Avetrana Il difensore del fioraio Buccolieri. «Raggirò i suoi clienti»: sotto processo l'avvocato ex sindaco, scrive Nazareno Di Noi Lunedì 24 Ottobre 2016 su “Il Quotidiano Di Puglia”. Avrebbe truffato il suo cliente facendosi consegnare la somma di quasi 200mila euro che sarebbe servita al liquidatore dell’assicurazione il quale era all’oscuro di tutto. Per questo l’avvocato di Avetrana Giovanni Scarciglia, già sindaco del suo Comune, è stato invitato a comparire il prossimo 7 dicembre davanti al giudice monocratico del tribunale di Taranto per rispondere dei reati di truffa aggravata e appropriazione indebita. Nei suoi confronti il pubblico ministero Filomena Di Tursi ha emesso un decreto di citazione in giudizio che salta la fase dell'udienza preliminare facendo a meno del controllo circa la fondatezza dell'accusa. Persone lese della presunta truffa sono due avetranesi, Antonio Minò, importatore di animali da macello con la moglie Maria Teresa Carrozzo, involontari protagonisti di una intricata e tristissima storia che parte dalla morte del proprio figlio Leonardo Luigi Minò, vittima di un incidente mortale della strada quando era ancora minorenne avvenuto il 19 settembre del 2000 ad Ancona. Il ragazzo viaggiava a bordo di un auto guidata da un suo zio di 23 anni, deceduto anche lui nell’incidente. Due lutti terribili che sconvolsero la famiglia Minò e l’intera comunità avetranese. I rilievi e le indagini della polizia stradale che si conclusero riconoscendo la non responsabilità della giovane vittima diedero il via alle pratiche risarcitorie a danno dell’assicurazione del mezzo. Fu allora che la famiglia Minò si rivolse al noto professionista il quale accettò di buon grado il compito di trattare il giusto compenso con la compagnia assicuratrice Unipol Sai. Il contenzioso si concluse con il riconoscimento a favore dei Minò della somma complessiva di 700mila euro suddivisa tra padre (280mila euro), madre (300mila) e sorella della vittima (120mila euro). L’avvocato Scarciglia, secondo quanto scrive la pm Di Tursi nella citazione a giudizio, «mediante raggiri ed artifici» fece credere al capofamiglia, suo assistito, che la somma concordata di 700mila euro «era condizionata alla dazione illecita della somma in contanti di 200.000 euro in favore del liquidatore Luca Coeli» (di Unipol Sai, ndr). Dalle indagini condotte, sarebbe emersa l’estraneità del liquidatore che, scrive il magistrato inquirente, era «in realtà del tutto ignaro della vicenda». L’avvocato imputato, sostiene l’accusa, avrebbe dunque «indotto in errore lo stesso Minò circa la necessità di corrispondere tale ingente somma». Tutto questo quanto l’assicurazione aveva già saldato il conto consegnando la somma pattuita nelle mani dell’avvocato, in parte con bonifico bancario in favore dell’assistito e in parte con assegni circolari non trasferibili intestati alla mamma e alla sorella della vittima. «Il predetto difensore – scrive il pm -, si procurava un ingiusto profitto consistito nel farsi consegnare in varie tranche da Minò la somma complessiva di 191.000 euro asserendo falsamente di doverla riversare al liquidatore». Lo stesso deve inoltre rispondere di appropriazione indebita perché, sostiene sempre il pm, «con abuso delle proprie relazioni di legale di fiducia, nell’ambito della pratica di risarcimento dei danni al fine di procurarsi un ingiusto profitto, si appropriava di tre assegni circolari dell’importo di 50.000 euro ciascuno emessi a favore della moglie e della figlia» del suo assistito. A difendere l’avvocato Scarciglia sarà il suo collega Raffaele Errico.

In questo caso i giornalisti stanno molto attenti a non riportare i nomi.

Otto avetranesi condannati ad un'ammenda di 1.225 euro per aver manifestato contro l'ubicazione del depuratore lungo la strada provinciale “Tarantina”, all'altezza del bivio per il Chidro, scrive il 06/04/2018 "Manduria Oggi. Per sette di loro la pena è sospesa per 7 anni. Condannati ad un’ammenda di 1.225 euro per aver manifestato contro l’ubicazione del depuratore lungo la strada provinciale “Tarantina”, all’altezza del bivio per il Chidro. E’ la condanna inflitta a otto avetranesi, colpevoli di aver violato, secondo quanto riportato dal decreto penale di condanna del giudice per le indagini preliminari Benedetto Ruberto, il Regio Decreto numero 773 del 18 giugno 1931, contenuto nel testo unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza. In altre parole, avrebbero manifestato, bloccando il transito degli autoveicoli, senza aver ricevuto il preventivo assenso da parte degli organi preposti a garantire la sicurezza nelle manifestazioni pubbliche. Per sette di loro, però, la pena pecuniaria, diminuita al di sotto del minimo edittale, è sospesa per due anni, a termini e condizioni di legge. Pena che diventerebbe esecutiva qualora uno o più soggetti sanzionati dovessero commettere nuovamente il reato. Ad uno degli otto avetranesi condannati, invece, la pena non è stata sospesa. Probabilmente avrà dei precedenti. Alcuni dei sanzionati, ascoltati ieri sera, hanno annunciato che, non appena sarà loro notificato il decreto di condanna, impugneranno l’atto. In tal senso, hanno quindici giorni di tempo per proporre opposizione, a partire dalla data di notifica dell’atto. Come è noto, nella primavera scorsa a più riprese gli ambientalisti di Avetrana (in particolar modo) e quelli di Manduria (in numero ridotto), si mobilitarono per cercare di impedire l’apertura del cantiere per la costruzione del depuratore consortile. In un paio di circostanze, gli agenti della Polizia di Stato verbalizzarono le generalità di alcuni manifestanti, facendo notare che non era stata concessa alcuna autorizzazione a manifestare in quell’area, bloccando peraltro il traffico automobilistico. Fra gli otto condannati, anche un attuale amministratore (Alessandro Scarciglia? nda) e un ex amministratore (Luigi Conte? nda).

Protestarono contro il depuratore a Urmo, condannati otto manifestanti. Il decreto è stato emesso dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto dottor Benedetto Ruberto. Il gip ha condannato i manifestanti all’ ammenda di 1225 euro, concedendo la sospensione della pena a sette...scrive Lino Campicelli su Quotidiano di Puglia mercoledì 04 aprile 2018 riportato da "la Voce di Manduria". Decreto penale di condanna per gli otto avetranesi che l’8 marzo dell’anno scorso manifestarono nella zona di Specchiarica, marina di Manduria, dove l’Acquedotto pugliese installò il cantiere per realizzare il depuratore consortile dei due comuni di Manduria e Sava. Il decreto è stato emesso dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Taranto dottor Benedetto Ruberto. Il gip ha condannato i manifestanti all’ ammenda di 1225 euro, concedendo la sospensione della pena a sette degli otto coinvolti. Si è chiuso così il caso giudiziario legato alla partecipazione ad una manifestazione che non fu autorizzata. La stessa si tradusse nella identificazione dei protagonisti da parte degli uomini della Digos. Proprio quegli otto, infatti, furono identificati dalla Divisione di investigazioni generali e furono poi chiamati, alcuni giorni dopo, a presentarsi nel commissariato di polizia di Manduria per “comunicazioni”. Come si ricorderà, al momento della loro identificazione, gli operai dell’Aqp non erano ancora arrivati per delimitare il futuro cantiere, per cui la contestazione a carico dei partecipanti fu, appunto, quella della manifestazione non autorizzata. La stessa cosa, peraltro, che rischiarono successivamente i partecipanti ad un altro sitin inscenato nella stessa zona, su invito del «Comitato per la difesa del territorio e del mare». In quella circostanza, per disguidi di natura tecnica, fu spiegato dagli organizzatori ai numerosi partecipanti che l’autorizzazione non era stata presentata in tempo. Pertanto, tutti furono invitati a lasciare il punto d’ingresso del cantiere dove si erano assiepati, per spostarsi all’ in- terno di un vicino uliveto dove il leader del comitato, Pino Scarciglia, aveva improvvisato un comizio. Quell’avvertimento doveroso era giunto proprio in considerazione delle contestazioni operate dalla polizia l’8 marzo precedente. Nonostante quella manifestazione si fosse tradotta in proteste assolutamente pacifiche e ricche solo di slogan non offensivi, restava il fatto che non fosse stata autorizzata. Non è un caso, a questo proposito, che nei confronti degli otto destinatari del decreto penale di condanna sia stato contestata la violazione dell’articolo 18 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che sanzione appunto i promotori di una riunione pubblica che non abbia avuto il placet del questore. Per la cronaca, questa disposizione non si applica solo nel caso di riunioni elettorali. Quella in contrada Specchiarica, però, non fu affatto una riunione elettorale. Rappresentò, al contrario, lo sconcerto dei cittadini nei confronti di una realizzazione di cui, in ogni caso, non si aveva ancora del tutto contezza ed era ancora ricca di punti interrogativi. Il timore maggiore, come è noto, era legato all’ ipotesi de- gli scarichi in mare che avrebbero danneggiato per sempre la purezza delle acque locali. Scarichi che, a distanza di un anno da quella manifestazione, dovrebbero essere stati definitivamente banditi dal progetto definitivo.

Proteste a Urmo, denunciato anche Scarciglia e Di Lauro: solidarietà e silenzi, scrive sabato 24 giugno 2017 Nazareno Dinoi su "la Voce di Manduria". E’ salito a dieci il numero dei manifestanti denunciati dalla polizia per avere preso parte, lunedì 19 giugno, alla protesta pacifica che ha respinto le ruspe dal cantiere del depuratore previsto in zona Urmo-Specchiarica. Oltre alle tre mamme coraggio, Claudia Indrizzi, Alfonsina Costantini e Emilia Tarantini, all’assessora al Turismo, Claudia Scredo e all’ex sindaco di Avetrana, Luigi Conte, ieri l’invito a comparire è arrivato ad altri tre avetranesi tra cui il vicesindaco Alessandro Scarciglia. Unico manduriano raggiunto dall’avviso a comparire, l’avvocato Francesco Di Lauro, esponente dell’associazione Azzurro Jonio. I dieci devo rispondere del reato di violenza privata aggravata, dovranno ora nominarsi un legale per affrontare l’indagine che li riguarderà. Le donne si faranno difendere dall’avvocatessa Anna Macina che ieri ha accompagnato le sue assistite nel breve incontro avuto con il commissario Francesco Correre. Silenzio, intanto, da parte dell’amministrazione manduriana e dai politici con cariche di governo o istituzionali. Gli unici ad esprimere solidarietà, da questo fronte, sono i Verdi. «La Federazione dei Verdi di Manduria – si legge in una nota - esprime piena solidarietà ai sei manifestanti (solo dopo si saprà degli altri quattro, ndr), denunciati per avere, nella giornata del 19 giugno, impedito ai mezzi della ditta Putignano di accedere al cantiere del costruendo depuratore in contrada Urmo. I reati loro contestati sono di notevole gravità e contemplano anche la violenza privata. Non si può certo dire che le forze dell’ordine abbiano avuto la mano leggera – affermano i Verdi -, e dispiace constatare che, ancora una volta, cittadini, ambientalisti, mamme, tutti di specchiata onestà, debbano vedersi trattati come delinquenti solo perché, dopo aver tentato con ogni mezzo legale, possibile e immaginabile, di opporsi ad un intervento devastante, sono dovuti ricorrere ad un sit-in, per altro assolutamente pacifico, come estremo atto di difesa del proprio territorio». Ad Avetrana, invece, si parla e si prendono posizioni. Secco il commento del vicesindaco Scarciglia, destinatario ieri pomeriggio di una seconda denuncia (la prima l’aveva presa nel corso del precedente sit-in di marzo). «Chi protesta ad Urmo Belsito – dice - non è un appartenente a gruppi di black block o no global. Sono padri di famiglia, madri con al seguito i propri figli, gente anziana, amministratori di piccoli comuni che sicuramente non hanno una forza elettorale importante, ma è gente che ama, crede e rispetta il proprio territorio». L’ex sindaco Conte se la prende con i politici assenti, alludendo in questo alle forze politiche di Manduria del tutto lontani da quanto sta accadendo «Questa storia – scrive Conte - mi sta insegnando che da una parte ci sono le donne e mamme con il loro meraviglioso esempio di forza, coraggio, limpidezza, dignità e passione sincera, poi ci sono i politici e politicanti con il loro mesto esempio di ambiguità, pavidità, codardia, evanescenza, accondiscendenza e vergogna che su questa importante lotta sono spariti del tutto».

Depuratore e polemiche: mamme coraggio ed ex sindaco, oggi tutti al commissariato di polizia, scrive Nazareno Dinoi su "Il Quotidiano di Puglia" Sabato 24 Giugno 2017.  Mentre per questa mattina alle 10,30 è prevista la convocazione in polizia dei sei manifestanti denunciati per aver preso parte al blocco del cantiere a Urmo-Specchiarica dove è previsto il depuratore di Manduria-Sava, il presidente del Consiglio comunale di Avetrana, Francesco Saracino, sta predisponendo i permessi per un nuovo sit-in di protesta per lunedì e martedì prossimi. A quanto pare, però, il vice questore aggiunto, Francesco Correra, dirigente del commissariato di Manduria, non ha dato ancora l’assenso chiedendo delle garanzie che l’amministratore avetranese non ha potuto dare. Il commissario vorrebbe concedere il nulla osta a condizione di circoscrivere la zona dove stazioneranno i manifestanti escludendo a priori sia le strade che le piazzone dell’incrocio sulla litoranea interna «Tarantina» che dà accesso all’uliveto, futura sede del depuratore consortile. Sempre ieri, intanto, il movimento politico di opposizione «Avetrana Riparte», ha diffuso un comunicato in cui si esprime solidarietà nei confronti dei propri rappresentanti, l’ex sindaco Luigi Conte e il giovane Silvio Mammano, tra i convocati di questa mattina dalla polizia. La stessa nota solidarizza anche con le mamme coraggio, Alfonsina Costantini, Claudia Indrizzi e Emilia Tarantini, componenti del comitato «Donne e mamme di Avetrana», anche loro denunciate per la manifestazione dello scorso 19 giugno quando l’opposizione di un centinaio di avetranesi con qualche manduriano riuscì a mandare indietro le ruspe dell’impresa Putignano di Noci, aggiudicataria dell’appalto per la realizzazione dell’opera. Il consigliere Conte ha diffuso così su Facebook la notizia dell’invito a presentarsi alla polizia. «Depuratore-mostro; sabato prossimo alle 10,15 sono stato invitato a comparire presso il commissariato di Manduria per affari di giustizia che mi riguardano il merito alla protesta contro la realizzazione del depuratore-mostro. Ritengo questo invito giusto e doveroso – aggiunge l’ex sindaco di centrosinistra - ed auspico che la polizia sulla scorta di un esposto e di una richiesta di accesso agli atti già di propria conoscenza, possa avere la stessa cura nell’invitare i vertici dell’Acquedotto pugliese e i responsabili regionali per chiedere chiarimenti in merito alle procedure seguite e alle autorizzazioni a monte dell’avvio dei lavori».Proprio di questo ha parlato ieri in un intervento Anna Macina, l’avvocatessa che ha perfezionato l’esposto alle procure della Repubblica di Taranto e Brindisi e la domanda di accesso agli atti presentata al comune di Manduria. «In merito al depuratore – scrive - ricordo che si è ancora in attesa di leggere autorizzazioni, valutazioni di impatto ambientale che consentano l’inizio dei lavori con variante! Su una cosa siamo tutti d’accordo – conclude l’avvocatessa Macina -, siamo fuori tempo massimo! La politica è fuori tempo massimo, quella che non ha teso l’orecchio, che non ha ascoltato e non ha dato voce ai territori. La politica “buona” si muova e si arrenda – conclude - perché i manifestanti non sono affetti da alcuna sindrome, sanno perfettamente cos’è un depuratore, lo vogliono ma lontane dalle coste, e la vera notizia è che non si arrenderanno». 

Depuratore: le denunce ai manifestanti e i commenti, scrive il 24 giugno 2017 Ciak Social. Alcuni partecipanti alla manifestazione in zona Urmo del 19 giugno, sono stati denunciati per organizzazione di manifestazione non autorizzata e violenza privata. Oggi sono stati convocati negli uffici del commissariato di polizia di Manduria per l’identificazione e la notifica dell’atto.  

Ad essere denunciate da parte dell’AQ sono alcune attiviste del comitato “Donne e mamme di Avetrana”: Alfonsina Costantini, Claudia Indrizzi, Emilia Tarantini; il consigliere comunale del gruppo “Avetrana Riparte” Luigi Conte; l’assessore al turismo del comune di Avetrana Claudia Scredo e Silvio Mammano.

Di ritorno oggi dal commissariato, Luigi Conte scrive su Facebook: “Appena tornato dal commissariato di Manduria con tanta serenità e con la consapevolezza di lottare per una causa giusta. Questa storia mi sta insegnando che da una parte ci sono le donne e mamme con il loro meraviglioso esempio di forza, coraggio, limpidezza, dignità e passione sincera, poi ci sono i politici e politicanti con il loro mesto esempio di ambiguità, pavidità, codardia, evanescenza, accondiscendenza e vergogna che su questa importante lotta sono spariti del tutto! Care Donne e Mamme continuiamo a lottare…qualche piccolo risultato è già stato ottenuto ma non bisogna mollare! Conoscervi e lottare con voi è stato per me un privilegio ed un grande onore”.

Altro grande attivista della lotta contro lo scarico a mare prima e la localizzazione del depuratore ad Urmo poi, è Alessandro Scarciglia che commenta: “Oggi sono state denunciate sei persone che si aggiungono a chi, come il sottoscritto, fu già denunciato a marzo. Le ipotesi di reato variano: dall’organizzazione di manifestazione non autorizzata alla violenza privata. Leggo (non posso ricordare perché ero troppo piccolo) che nei primi anni ’80, i nostri genitori ci portavano per strada al fine di bloccare i mezzi che qualche prezzolato politico aveva inviato ad Avetrana per costruire la centrale nucleare. La forza di quelle persone e la presenza di quei bambini fece in modo di far tornare indietro, verso il mittente, le ruspe. La politica (o meglio, parte di essa) si svegliò solo dopo la grande rivoluzione popolare. Nel caso odierno del depuratore, invece, dopo le grandi proteste popolari, molti politici di ogni livello (parlamentari, regionali e comunali) sono scomparsi. Oggi, trovare politici che si oppongono ai poteri forti è diventato veramente raro. Chi protesta ad Urmo Belsito non è un appartenente a gruppi di black block o no global. Sono padri di famiglia, madri con al seguito i propri figli, gente anziana, amministratori di piccoli comuni che sicuramente non hanno una forza elettorale importante, professionisti di ogni genere. In poche parole, chi protesta oggi ad Urmo Belsito, è gente che ama, crede e rispetta il proprio territorio. Perché, ognuno nel suo piccolo, lo ha costruito con le proprie mani, con il proprio sudore e i sacrifici imposti alla propria famiglia. Qualcuno cerca di intimorire le mamme dicendo loro che rischiano una denuncia al tribunale dei minori se continuano a portare i propri figli sul luogo della protesta. MA questo “qualcuno” non comprende che la più grande condanna che potrebbero subire queste mamme e questi padri è quella che fra dieci o venti anni il proprio figlio possa dire “mamma, papà, perché avete permesso di distruggere il nostro territorio pur di salvaguardare gli interessi di pochi?”. Chi protesta se ne frega se qualche tecnico (divenuto mezzo politico) insiste a mettere delle enormi vasche (che loro intellettuali chiamano buffer) in mezzo alle case di Specchiarica. Chi protesta se ne frega di qualche amministratore o di qualche politico che non ha le palle di decidere. Chi protesta se ne frega anche di quelle associazioni (o pseudo tali) che credono di fare la rivoluzione sulla stampa ma che al momento di bloccare i mezzi non ci sono mai. Chi protesta oggi ad Urmo se ne frega del potere di AQP e dei suoi scagnozzi. Chi protesta ad Urmo Belsito oggi, difende il suo domani e, sicuramente, anche il futuro di chi oggi preferisce essere accomodante dei potenti”.

Ed ancora su Luigi Conte

Sindaco contro ex sindaco, Longo querela Conte per la questione del Crap di Avetrana. ​La contrastata storia della Crap di Avetrana, la comunità riabilitativa per pazienti psichiatrici autori di reati che non prevedono la detenzione, finirà nei tribunali, scrive martedì 3 aprile 2018 "La Voce di Manduria". La contrastata storia della Crap di Avetrana, la comunità riabilitativa per pazienti psichiatrici autori di reati che non prevedono la detenzione, finirà nei tribunali. Il sindaco di Maruggio, Alfredo Longo, ha querelato il consigliere comunale di opposizione ed ex sindaco di Avetrana, Luigi Conte, per delle affermazioni di quest’ultimo riguardanti un presunto coinvolgimento diretto del primo cittadino maruggese nella gestione della struttura di prossima apertura. Ne danno notizia in un comunicato stampa gli esponenti del “Comitato No-Crap” e del “Comitato per la tutela del territorio associato a Italia Nostra” (che si battono contro il depuratore a Urmo), entrambi di Avetrana. Nel documento in questione, gli autori esprimono “piena solidarietà al proprio socio dottor Luigi Conte che nelle sue funzioni di consigliere comunale – si legge -, ha avanzato critiche e rilievi sulla scelta amministrativa di far nascere una Crap dedicata a pazienti psichiatrici autori di reato, scelta che ha generato perplessità e preoccupazioni in gran parte della popolazione”. Il centro di recupero che molti avetranesi non vogliono, tra questi i partiti di minoranza nel consiglio comunale, è una “comunità assistenziale psichiatrica dedicata a soggetti che necessitano di interventi terapeutici ad alta intensità riabilitativa di lungo periodo con valutazione di rischio alto o moderato di comportamenti violenti (Così la definizione che ne dà la Regione Puglia nell’apposito atto costitutivo). Secondo i comitati avetranesi, le affermazioni di Conte, che Longo vuole censurare con la denuncia, non sono altro che “un pensiero critico sulle insufficienti garanzie di sicurezza del servizio e della struttura individuata come sede della Crap all’interno del contesto cittadino, sulla scarsa chiarezza dell’iter amministrativo seguito, sui ruoli e sulle responsabilità assunte dagli amministratori comunali, nel normale esercizio di dialettica politica democratica certamente è stato espresso dal consigliere Conte così come da altri consiglieri e da varie personalità che hanno voluto partecipare al dibattito pubblico che si è sviluppato di conseguenza”. L’incontro pubblico cui si fa riferimento nel comunicato, nel corso del quale il consigliere Conte avrebbe pronunciato le parole che non sono piaciute al sindaco di Maruggio, è quello organizzato dall’amministrazione comunale avetranese il 12 ottobre del 2017 con la presenza, appunto, del sindaco Longo (che intervenne in quel dibattito) e della società che gestirà il Crap, la “Sol Levante”. “Quel pensiero critico – conclude il comunicato stampa dei Comitati - rappresenta il sentire di tanti cittadini, a partire da tutti i componenti del comitato No Crap e meriterebbe il rispetto da parte di tutti coloro che amano la trasparenza e il libero svolgimento del dialogo democratico.”

Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica; Leonardo Laserra Ingrosso, Tenente Colonnello, maestro della Banda della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi, professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice presidente della Camera di Commercio di Taranto. San Giorgio Jonico, inaugurata nuova piattaforma distribuzione Supercentro il 30-03-2019. Settemila metri quadri di copertura, più della metà destinati al deposito merci fresche in cella frigorifero, il resto per uffici e futura destinazione di cash and charry. Servizio di Francesco Persiani del tgnorba. Intervista a Leonardo Giangrande, Supercentro Distribuzione e presidente Confcommercio.

Fact-checking. L’ intervista in ginocchio della Gazzetta del Mezzogiorno a Giangrande (Confcommercio Taranto), scrive il 13 febbraio 2018 "Il Corriere del Giorno". In un momento in cui si discute molto di “fake news”, resta da chiedersi: chi controlla le “fake news” giornalistiche, cioè scritte dai giornalisti? Ed ancora una volta scopriamo le “BALLE” scritte dalla Gazzetta del Mezzogiorno. Qualche controllo dovrebbe farlo l’Ordine dei Giornalisti regionale territorialmente competente, ma si sa che quello in Puglia ha altro da fare. Povera informazione! Un attento lettore ci ha segnalato una straripante colossale “sviolinata” pseudo giornalistica appesa il 21 maggio 2017 sull’edizione tarantina della Gazzetta del Mezzogiorno dal titolo “L’ascesa del re dei supermercati” a firma del collaboratore Arturo Guastella, dedicata a Leonardo Giangrande presidente della Confcommercio Taranto, imprenditore “legato” ad un giornalista della Gazzetta per motivi di parentele ed affari societari collegati, di cui nell’articolo in questione non viene data alcuna informazione ai lettori.

La Gazzetta del Mezzogiorno così scriveva su Giangrande nell’edizione di Taranto il 31 maggio 2017: “La lungimiranza. Di “materia grigia ne ha avuto a sufficienza per creare un vero impero economico, con qualcosa come 40 supermercati di proprietà” aggiungendo “quest’uomo dal viso gentile e dal fisico asciutto di “materia grigia” ne ha avuto a sufficienza per creare un impero economico, con qualcosa come quaranta supermercati di proprietà, cinque “cash and carry” con forniture dirette per altri duecento supermercati di tutta la Puglia, dando lavoro a circa seicento persone, di cui una quindicina di laureati in Economia e Commercio, per un fatturato annuo che supera i 150 milioni di euro”. Così non è.  Infatti i supermercati di proprietà sono soltanto 30 (e non 40!) e le forniture dirette sono per 180 punti di vendita affiliati (e non oltre 200!). Inoltre che la Gazzetta del Mezzogiorno non dice, è che la società in questione (Supercentro s.p.a.) di cui Giangrande è socio titolare di una quota azionaria del 10,99%, ha anche un indebitamento di Euro 47.418.308 !!!

Poichè di Leonardo Giangrande il CORRIERE DEL GIORNO se n’era già occupato in passato, siamo andati a fare un pò di ricerche sulla banca dati “Telemaco” (pubblica) delle Camere di Commercio, per verificare quanto scriveva la Gazzetta del Mezzogiorno, ed abbiamo verificato e scoperto “le balle” che ancora una volta la redazione tarantina del quotidiano barese-siculo propina ai suoi lettori, che diminuiscono sempre di più di giorno in giorno. Siamo quindi partiti dalla scheda persona di Leonardo Giangrande, che della società (la Supercentro s.p.a. n.d.r. )  che ha un fatturato annuo che supera i 150 milioni di euro, in realtà  detiene appena il 10,99 delle quote societarie per un importo di appena 53.153 euro su un capitale sociale di 483.600 euro. Abbiamo quindi verificato per cercare di capire e documentare ai nostri lettori come abbia fatto il giornalista…della Gazzetta del Mezzogiorno ad accreditare Leonardo Giangrande di “materia grigia” al punto tale di aver “creato un impero economico”!

La società SUPERCENTRO gestisce prevalentemente supermercati in franchising della catena veneta PAM, dichiarando 119 dipendenti nel bilancio 31.12.2016 con un fatturato di 133.869.159 euro, con un indebitamento bancario di Euro 15.530.884, a fronte di una massa di debiti per Euro 47.418.308 ed un utile di appena 597.618 euro secondo quanto si evince dall’ultimo bilancio depositato alla data del 31.12.2016. Ma le “balle” cioè le “fake news”, come vengono chiamate adesso, della Gazzetta del Mezzogiorno su Leonardo Giangrande, non sono finite...

Infatti Giangrande ha un’altra società la FRATELLI GIANGRANDE s.r.l. con sede ad Avetrana di cui detiene il 35% delle quote societarie, controllata insieme al fratello Pietro (35% delle quote) che è l’amministratore unico della società attiva dal 2014, che svolge come attività prevalente la gestione di supermercati, dichiarando al 31.12.2016 (ultimo dato disponibile) soltanto 14 addetti e 5 soci, e non dichiara alcuna altra unità locale!

Nel maggio 2016 sempre in società con il fratello Pietro, Leonardo Giangrande ha costituito una nuova società, la AGRICOLA GOLD s.r.l. sempre con sede ad Avetrana (Taranto) che dichiara di non avere alcun dipendente, ma solo 4 soci in tutto.

Le attività di gestione di supermercati esercitata direttamente da Leonardo Giangrande, sotto il controllo azionario del socio unico, cioè la Supercentro s.p.a., è la SUPERGEST.DUE srl di cui Giangrande è amministratore unico che gestisce dei punti vendita in Martina Franca (TA) – Via Fighera; Martina Franca (TA) – Via Guglielmi; San Giorgio Jonico (TA); Leverano (LE); Torricella (TA); Aradeo (LE) e Nardò (LE). Nei primi mesi del 2016 è stato inoltre aperto un nuovo punto vendita in Taranto, Via Umbria), società questa dove le cose non vanno molto bene.  Infatti il bilancio di esercizio chiuso al 31/12/2016 presenta una perdita di euro 350.997,87, al netto delle imposte dell’esercizio e degli accantonamenti. Altrettanto dicasi per un’altra società la GROS MARK srl  di cui Leonardo Giangrande è amministratore unico, società appartenente al Gruppo Supercentro che esercita la direzione e coordinamento tramite la Società Supercentro S.p.A., che  opera nel settore del commercio al dettaglio di prodotti alimentari e non alimentari ed è proprietaria di cinque punti vendita siti rispettivamente in Lizzano (TA), Noicattaro (BA), San Marzano di San Giuseppe (TA), Bari e Matino (LE), con soli 16 dipendenti., dove le cose non vanno sicuramente molto bene. Infatti il bilancio dell’esercizio chiuso al 31/12/2016, segnala una perdita dell’esercizio di euro 495.618,97! Leonardo Giangrande è anche amministratore unico della D.G.M. srl, anche questa società appartenente al Gruppo Supercentro che esercita la direzione e coordinamento tramite la società Supercentro S.p.A.. che ha chiuso il proprio ultimo bilancio di esercizio al 31/12/2016; che presenta anche questo delle perdite di euro 127.281,15 che sono state ripianate mediante utilizzo della riserva straordinaria per euro 13.314,60 e con versamento soci per la differenza, pari a euro 113.966,55.

Quello che non è stato possibile verificare è l’istruzione di Leonardo Giangrande, il quale omette da diversi anni di depositare il suo curriculum vitae (che nel suo caso sarebbe un obbligo di Legge) persino alla Camera di Commercio di Taranto di cui è stato eletto consigliere in quota Confcommercio. Sarà forse simile a quella di suo fratello Pietro Giangrande che nell’articolo della Gazzetta del Mezzogiorno, viene indicato come “studente in Medicina”, mentre invece da una nostra ricerca effettuata abbiamo scoperto che candidatosi a suo tempo con una lista civica, era in possesso solo di licenza di scuola media superiore?  Anche il codice fiscale riportato sulle visure camerali, infatti coincide con quello della sua data di nascita. In un momento in cui si discute molto di “fake news”, resta da chiedersi: chi controlla le “fake news” giornalistiche, cioè scritte dai giornalisti? Dovrebbe farlo l’Ordine dei Giornalisti regionale territorialmente competente, ma si sa che quello in Puglia ha altro da fare. Povera informazione!

P.S. E’ forse un caso fortuito, una coincidenza che Paolo Michele Macripò Presidente della Supercentro spa. sia parente della moglie (Sabrina Brescia) del giornalista Mimmo Mazza, vicecaposervizio della redazione di Taranto della Gazzetta del Mezzogiorno ? I latini dicevano: Cogito ergo sum (trad. “dubito quindi esisto“). E spesso avevano ragione. Queste di seguito sono la visura camerale ed il bilancio al 31.12.2016 della capogruppo SUPERCENTRO s.p.a.

La Confcommercio di Taranto a caccia di “sponsors” politici…e “bluff” elettorali! Scrive il 18 aprile 2015 "Il Corriere del Giorno". Grandi manovre dietro le quinte della Confcommercio di Taranto, associazione molto “chiacchierata” e discussa in città, non soltanto per la nota inimicizia nei confronti del nostro quotidiano online che non riceve alcuna comunicazione ufficiale sulle loro attività, alcun invito alle conferenze stampa e soprattutto non si lascia “apparecchiare” e rifocillare…nelle cenette private della loro addetta stampa. Ma tutto ciò non ci preoccupa assolutamente perchè abbiamo qualche informatore persino nella loro Giunta, che ci racconta tristemente le difficoltà economiche e gestionali in cui versano le casse dell’Associazione. E basta vedere i dati sulle tristi chiusure dei commercianti di Taranto per capire come questa associazione non abbia saputo affrontare la crisi e supportare i propri associati. Oltre 1.000 commercianti hanno purtroppo calato definitivamente le serrande dei propri negozi (con oltre il 300% in meno rispetto all’anno precedente). L’attuale presidente della Confcommercio in scadenza di mandato, Leonardo Giangrande da Avetrana, un piccolo comune di circa 7.000 abitanti in provincia di Taranto, di professione risulta essere “socio-azionista” di minoranza (circa l’11%)   in una società che gestisce supermercati in franchising a Taranto e provincia, e che dagli ultimi bilanci sembra non passarsela molto bene.  Il Giangrande dopo aver avuto un parente attivo nel centrodestra, e cioè suo fratello Pietro Giangrande, anch’egli commerciante, eletto nel 2011 nella Lista Civica “L’impegno Continua” e che ci risulta in possesso della Licenza di Scuola Media Superiore (o Titolo Equivalente), era a suo tempo “vicino” alle posizioni politiche dell’on. Pietro Franzoso (Forza Italia) deceduto qualche anno fa. Trovare un suo Curriculum Vitae è pressochè impossibile (sarà forse perchè imbarazzante?)  non avendolo mai inviato alla Camera di Commercio di Taranto, nonostante sia un obbligo previsto dalla Legge sull’ Amministrazione Trasparente e la Corruzione. Adesso Giangrande  è alla ricerca di nuove sponde e “sponsors” politici sia per se stesso che per la Confcommercio, ma con scarsi risultati…Molto “furbescamente” il candidato Governatore alla Regione Puglia,  Michele Emiliano ha preferito incontrare i rappresentanti della  Confcommercio di Taranto, “privatamente” senza esporsi in manifestazioni pubbliche come invece ha recentemente fatto peraltro con pochissima affluenza come si evince dalle fotografie, il martinese Donato Pentassuglia, assessore regionale alla sanità uscente (è da meno di un anno n.d.r. ), un politicante del Partito Democratico proveniente dall’ “area” CISL , e notoriamente molto legato al suo “mentore” politico Gianni Florido l’ex-presidente della Provincia di Taranto,  con cui Pentassuglia è unito non solo nelle comuni origini politiche ma entrambi sono coinvolti come “imputati” nel processo “Ilva Ambiente Svenduto “attualmente in corso dinnanzi al Tribunale di Taranto. All’incontro tenutosi giovedì pomeriggio nella saletta della Confcommercio erano annunciati e presenti il presidente provinciale l’ “avetranese”  Leonardo Giangrande a caccia di visibilità ed attivismo elettorale in vista delle elezioni per il rinnovo della sua carica che dovrebbero svolgersi nel giro di un paio di mesi , l’ incolpevole dr. Michele Conversano l’ ottimo direttore del Dipartimento Prevenzione dell’ ASL di Taranto  e l’assessore regionale alla Sanità  uscente Donato Pentassuglia, il quale ha dimostrato in questa occasione non solo di essere poco informato in casa Pd ( il candidato Governatore Michele Emiliano ha già annunciato pubblicamente che in caso di elezione, terrà per se la delega alla Sanità n.d.r. ) ma ha dimostrato di essere anche molto poco informato sulla Confcommercio di Taranto. Leggete cosa ha detto Pentassuglia in Confcommercio: “Tutte le iniziative che ho messo in campo in questi miei otto mesi di attività sono volte a creare un’azione di confronto ma anche sinergica tra le istituzioni con un coordinamento vero tra tutti gli attori della filiera. Abbiamo bisogno – ha aggiunto – di conoscere e condividere la qualità di quello che mangiamo ponendo l’attenzione sugli alimenti e sulla loro somministrazione al fine di creare un patto istituzionale per garantire la salute dei cittadini. Abbiamo bisogno di lavorare in questa direzione e Confcommercio, con la sua ramificazione e la sua attività, lavora con noi perché questo venga affermato”. E concludendo ha fatto la gaffe più bella della campagna elettorale dicendo: “Purtroppo – ha concluso Pentassuglia – registriamo ancora i “furbi” che hanno delle celle frigorifere con prodotti normali e poi al di là delle celle si trovano locali con prodotti scaduti”. Evidentemente all’ assessore deve essere sfuggito qualcosa che oltre 150mila lettori attraverso i socialnetworks ed il nostro quotidiano online hanno potuto leggere lo scorso 1 ottobre 2014 quando in un articolo dal titolo eloquente “Predicano bene ma razzolano male…ecco chi è il ristorante multato da Nas ed Asl sulla litoranea jonica” raccontavamo che proprio “il personale del Dipartimento di Prevenzione dell’ ASL di Taranto in collaborazione con i Carabinieri nel NAS Nucleo Anti Sofisticazione di Taranto, durante i normali continui controlli a tutela della salute pubblica, per il rispetto dei requisiti delle strutture ed igienici dei ristoranti, cucine e prodotti alimentari, hanno scoperto a Marina di Pulsano un deposito alimentare “abusivo” (cioè mai comunicato e verificato dall’ ASL)  utilizzato dal noto ristorante “IL GRILLO”, a carico del quale sono state comminate pesanti sanzioni per le gravi violazioni in materia di sicurezza alimentare e sequestrati circa 250 chilogrammi di alimentari scaduti o in pessime condizioni rinvenuti nel deposito abusivo“. A dire il vero, la scorsa estate furono non pochi i ristoranti di Taranto e provincia ad essere sanzionati e denunciati per motivi di igiene, ma nel caso del ristorante il GRILLO di Marina di Pulsano (Taranto) qualcuno in Confcommercio, auto-smentendo i suoi editti verbali di facile-finto di moralismo un tanto al chilo… deve aver dimenticato qualcosa! E cioè che il proprietario del Ristorante IL GRILLO è Giampiero Laterza, che è un consigliere della Confcommercio di Taranto, presidente della Fipe – Ristoratori e Pizzerie della provincia di Taranto, che nonostante tutto ciò è rimasto beatamente seduto sulla sua sedia-incarico. Ecco cari lettori, chi sono realmente le persone che in campagna elettorale vendono “fumo” ai cittadini, ai consumatori ed agli associati di Confcommercio, spacciando i loro interessi personali come “attivismo” a favore della collettività. Ascoltate un consiglio: pensate bene a quanto avete letto, prima di andare a votare. Taranto e la sua provincia così facendo, purtroppo, non migliorerà. Figuriamo cambiare! A questo punto ci piace ricordare il titolo di un bellissimo film di Lino Banfi, passato alla storia… “Vieni avanti cretino!”. In questo caso avremmo un pò in imbarazzo a dedicarlo a qualcuno. Quindi lasciamo a voi la scelta. Non è difficile…

Tutta la verità sul processo per la nomina del segretario generale della Camera di Commercio di Taranto, scrive il 7 marzo 2016 Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". Era esattamente un anno fa quando Leonardo Giangrande l’attuale presidente della Confcommercio di Taranto, associazione sempre più in crisi, per numero di iscritti e soprattutto per la diminuita rappresentatività e calente credibilità nell’economia jonica, affiancato dall’ avv .Egidio  Albanese,  tenne una conferenza stampa “accusatoria” , alla luce dell’assoluzione nel processo di 1° grado relativo alla nomina contestata e turbolenta di Segretario Generale della Camera di Commercio di Taranto . Giangrande all’atto della sentenza di assoluzione del processo di 1° grado, in una poco strategica trionfale… conferenza stampa, affermò con poca oculatezza e competenza giuridica che “si evince facilmente l’infondatezza di tutto il processo che è frutto delle logorroiche accuse mosse dal signor Falcone che ha trasmesso denunce ed esposti contenenti illazioni e pettegolezzi” dimenticando che in realtà per il pubblico ministero e per il Gip, cioè il Giudice per le Indagini Preliminari che lo avevano mandato sotto processo, non si trattava evidentemente soltanto di pettegolezzi…Infatti solo e soltanto questo quotidiano,  a suo tempo, nel desolante panorama di un giornalismo “prezzolato” ed accondiscendente dove i “cappucci” non mancano… fece presente che si trattava soltanto di una sentenza di 1° grado del Tribunale di Taranto, e  scrivevamo (leggi QUI ) “lo ricordiamo per dovere di cronaca e rispetto ai nostri lettori, al momento non è definitiva in quanto non è ancora passata in giudicato“. Eravamo quindi stati facili profeti nello scrivere che “gioire manifestando rancori, accusando gli assenti è a dir poco una mancanza di tatto, e strategia processuale-difensiva. Ma dato il personaggio non ci meravigliamo”. Per un anno abbiamo provato ad avere la sentenza, gli atti processuali, i verbali delle udienze, chiedendole direttamente od indirettamente ai vari imputati, e cioè Riccardo Caracuta, Leonardo Giangrande, Paolo Nigro, Luigi Sportelli (recentemente riconfermato alla presidenza della Camera di Commercio), Tommaso Valentino (attuale dirigente delle cancellerie del Tribunale di Taranto) ma inutilmente. E tutto questo ci ha insospettito non poco. Lecito chiedersi: ma perchè nessuno di loro ha interesse a pubblicare quella sentenza se sono stati assolti? A distanza di un anno fa, lo abbiamo capito, grazie anche alle parole molto chiare del Procuratore Generale della Repubblica dr.ssa Pina Montanaro, contenute nel suo ricorso in appello, in cui ha impugnato la sentenza di 1° grado, scrivendo che “la decisione emessa dal Tribunale è manifestamente e radicalmente errata e va riformata in toto.“ Negli ambienti del Palazzo di Giustizia jonico,  ci si aspettava che il ricorso venisse presentato dal pubblico ministero del procedimento di 1° grado , e cioè dalla dr. ssa Filomena Di Tursi, la quale al termine della sua arringa aveva chiesto una sentenza di condanna nei confronti degli imputati a “8 mesi per ciascuno degli imputati, riconosciute le attenuanti generiche“. Ma così non è stato. Qualche “maligno” ha ipotizzato che nella sua decisione di non appellarsi, potrebbe aver pesato la presenza una sorta di conflitto d’interessi “familiare”, in quanto suo marito, il commercialista tarantino Raffaele Amodio (di cui ci siamo già occupati), ricopriva e ricopre ancora oggi delle cariche in società di cui la Camera di Commercio di Taranto è importante azionista. “Cogito ergo sum” (trad. “Dubito quindi esisto”) dicevano i nostri padri latini. Chiaramente un dubbio non può e non deve costituire un’accusa, e noi vogliamo assolutamente credere nella piena rettitudine e totale buona fede della dr.ssa Di Tursi che altrimenti non avrebbe chiesto una condanna per tutti! I 5 imputati nel procedimento di 1° grado era stato chiamati in causa in quanto, secondo il pubblico ministero “favorivano il candidato Tommaso Valentino, in concorso con questi, in particolare nella fase preliminare della valutazione dei curricula professionali attribuivano al Valentino, laureatosi con il voto finale di 97, il punteggio di “8“, superiore a quello di “7” attribuito al candidato Mele (che aveva riportato come voto di laurea di 106) ed identico a quello attribuito al candidato Maggio, laureatosi con il voto di 105. Così consentendo al detto Valentino di accedere alla fase successiva del colloquio – dalla quale sarebbe stato escluso in caso di corretta attribuzione del punteggio – ed agendo al fine di procurargli intenzionalmente ingiusto vantaggio patrimoniale consistente nell’attribuzione dell’incarico, conseguente al colloquio al cui esito veniva attribuito il punteggio più elevato con collocazione al primo posto della graduatoria”. Quello che Giangrande definiva “logorroiche accuse mosse dal signor Falcone che ha trasmesso denunce ed esposti contenenti illazioni e pettegolezzi”, in realtà, come racconta la sentenza di 1° grado, altro non erano che “gravi anomalie relative all’ammissione di Valentino alla fase orale a causa dell’attribuzione anomala del punteggio concernente la valutazione dei titoli di studio”, affermazioni queste rese dal teste dr. Roberto Falcone nell’udienza del 29 settembre 2014. Ma Falcone non era stato il solo ad accorgersi di quanto accaduto “illegittimamente”. Lo racconta e conferma, persino la sentenza di 1° grado, che riferisce che “le stesse incongruenze venivano segnalate da Buonfrate Patrizia, responsabile del procedimento, la quale nel corso della procedura e, specificamente dopo la conclusione dei lavori della commissione, si premurava di redigere in data 20/09/2011 una nota nella quale ripercorreva pedissequamente le fasi della procedura e manifestava che la stessa “non era immune da criticità oggettive“” che rappresentava quanto accaduto, tanto da consigliare l’annullamento in autotutela dell’intero concorso. Annullamento che intervenne nella seduta camerale del 07/10/2011. “Criticità queste – recita la sentenza di 1° grado – che venivano manifestate dal teste Sanesi (attuale vicesegretario generale della CCIAA di Taranto- n.d.r.), Vinciguerra e De Giorgio (che successivamente è diventato il segretario generale – n.d.r.). Infatti nel ripercorrere i fatti, leggendola bene, la sentenza conferma espressamente che le illegalità erano avvenute, sostenendo che “appare evidente che vi è stata una manifesta violazione di Legge nell’attribuzione di un punteggio che evidentemente non poteva spettare al candidato che aveva il volto di laurea più basso”. A leggere tutto ciò, il lettore potrebbe giustamente chiedersi “ma allora perchè li hanno assolti?”. La lettura della sentenza completa, che solo il CORRIERE DEL GIORNO, come sempre vi offre in “ESCLUSIVA”, si basa su un discutibile concetto e cioè che “quanto detto piuttosto induce a credere che non si è trattato di una disegno teso a favorire il candidato Valentino a discapito degli altri, quanto piuttosto ad un mero errore, poi emendato dai successivi avvenimenti”. E’ stato proprio il disaccordo giuridico con questa teoria processuale che ha indotto il Procuratore Generale della Repubblica dr.ssa Pina Montanaro ad impugnare la sentenza di 1° grado, depositando lo scorso 27 gennaio 2016 il proprio ricorso in appello. Notizia questa che ha trovato “spazio” ed ospitalità esclusivamente su questo quotidiano online che state leggendo. I giornali e giornaletti locali, stampati ed online infatti, si sono ben guardati dal pubblicare ed approfondire la questione. Loro preferiscono ospitare le dichiarazioni e comunicati stampa dei vari “amici/clienti” e girarsi dall’altra parte. E poi si lamentano. che a Taranto l’informazione anno dopo anno muore lentamente come l’economia locale. “La decisione emessa dal Tribunale è manifestamente e radicalmente errata e va pertanto riformata “in toto“” è la principale motivazione del ricorso in appello del Procuratore Generale,  sostenendo che l’assoluzione degli imputati Riccardo Caracuta, Leonardo Giangrande, Paolo Nigro, Luigi Sportelli “è da considerarsi priva di qualsiasi fondamento sia in diritto che in fatto” , adducendo principi giuridici enunciati in ben due sentenze della Suprema Corte di Cassazione (la più recente, è la n. 36179 del 15/04/2014) sulla base delle quali “l’ipotesi del “mero errore“, come proposta dal Giudice di I grado, appare veramente carente e comunque non esaustiva“, aggiungendo che “se di mero errore si fosse trattato – a fronte dell’evidente macroscopica dell’abuso – al primo cenno si sarebbe proceduto alla revoca, che invece è intervenuta solo dopo l’atto formale del responsabile del procedimento“. Ma l’atto d’accusa contenuto nell’appello della Procura Generale della Repubblica è abbastanza “forte”, con delle accuse abbastanza pesanti: “Si è omesso, infatti, di tenere conto della “preparazione culturale” e quello dell’esperienza e conoscenza dei sistemi di pianificazione strategica dovevano comunque essere corroborati da documentazione ed il Valentino, con ogni verosimiglianza non era in possesso di documentazione idonea per aspirare ad un punteggio più elevato, in ordine ai medesimi parametri“. La “stoccata” finale del Procuratore Generale Montanaro è condensata nelle ultime tre righe della sua impugnazione, laddove scrive: “Vi è, da ultimo, da annotare che il Valentino, come dichiarato dalla dr. Buonfrate, non era persona del tutto “estranea” in quanto lo stesso aveva partecipato alla fase della selezione dei bandi di concorso, benchè il fac-simile da lui proposti non fosse stato, poi, prescelto”. La parola adesso alla Corte di Appello. In questo anno di attesa… dopo la sentenza di 1° grado, abbiamo incontrato il dr. Tommaso Valentino, con cui abbiamo parlato e registrato la sua versione dei fatti, e con il Presidente della Camera di Commercio Luigi Sportelli. Entrambi ci hanno fornito le loro versioni, ed avevano promesso di fornirci i documenti processuali, i verbali d’udienza, ma alla fine hanno preferito non fornirceli. Un loro diritto, sia chiaro. Leonardo Giangrande Presidente della Confcommercio di Taranto, invece si è limitato alle sue solite ripetute annunciate denunce nei miei/nostri confronti, che però dopo un anno a questa parte non hanno mai scaturito nulla. Neanche una semplice elezione di domicilio. Non a caso Giangrande non ha mai avuto il coraggio di accettare un’intervista video-filmata che gli abbiamo richiesto “pubblicamente” e che avremmo pubblicato integralmente. Probabilmente non gli stiamo più simpatici, dopo averci telefonato (inutilmente) per una vicenda giudiziaria di un suo associato. O forse preferisce farsi intervistare da qualche “pennivendolo” in ginocchio, da ricompensare con qualche centinaio di euro. Molto più facile, vero? Adesso sarà bene che Giangrande si faccia spiegare da qualche “giurista”, e non da qualche avvocato a libro paga, come mai le sue denunce contro di noi, dopo oltre un anno, non sortiscono alcun effetto. Neanche una semplice necessaria elezione di domicilio. Anche perchè il nostro quotidiano online ha sede a Roma, città dove per fortuna la Procura non è facilmente condizionabile.  Nel frattempo, permetteteci di spiegarlo noi, ai nostri lettori: non abbiamo mai diffamato nessuno, ma solo e soltanto semplicemente pubblicato notizie e raccontato fatti, lasciando sempre parlare i documenti a conferma di quanto abbiamo scritto. P.S. A proposito…. non abbiamo ancora finito di occuparci degli “affarucci” dei furbetti della Confcommercio tarantina. Molto presto ne leggerete delle belle!

Sabato 27 aprile Liceo De Sanctis Galilei: Eine Einfache Italienische Geschichte. Incontro con l’imprendintore Arturo Prisco, scrive La Voce di Maruggio il 20 Aprile 2019.  Una semplice storia italiana. ARTURO PRISCO, 75 anni, avetranese di nascita, brillante imprenditore ed ambasciatore del “Made in Italy” in Germania, premiato a Monaco con il prestigioso Münchner Phönix Preis, incontra i ragazzi del Liceo De Sanctis Galilei, per dialogare con loro di cultura economica ed educazione all’imprenditorialità. A moderare l’incontro il giornalista Fernando Filomena direttore responsabile de La Voce di Maruggio. Non tutti conoscono (si fa per dire) questo elegante e gentile signore, nato ad Avetrana 75 anni fa, che lasciò la cittadina jonica quando era ancora un bambino. Tuttavia nel mondo Arturo Prisco è conosciuto come il “Re delle stoffe”. E’ uno degli imprenditori più importanti in Germania. Tra i suoi numerosi clienti si annovera l’élite della moda, dello stile, dell’arte, della letteratura e del teatro: Ugo Boss, Giorgio Armani, Versace, Ermenegildo Zegna, Louis Vuitton, Luxottica, Alitalia, Maserati, BMW. Nominato Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana nel giugno del 2009 dal Presidente della Repubblica Italiana, il “nostro” conterraneo in Germania ha fatto tanto. Oltre ad aver creato un suo marchio di moda, Prisco è stato il primo imprenditore a ricostruire un intero quartiere della città di Dresda, raso al suolo dai bombardamenti americani durante la seconda guerra mondiale. Ha restituito dignità, bellezza ed eleganza al centro storico realizzando negozi, uffici e un hotel di gran lusso “Quartier an der Frauenkirche” (QF). A Dresda esiste persino un “passaggio” a lui dedicato, appunto il Prisco Passage. Arturo Prisco ama definirisi molto semplicemente un “comunicatore”: «Mi piace parlare e fare domande, questo mi ha aperto tante porte». Adesso lui le porte le apre a chiunque lo desideri. La sua bellissima villa stile Liberty, ubicata dinanzi al Prinzregententheater, è attualmente un luogo per giovani artisti. La scorso dicembre, scelto tra 39 candidati, ha ricevuto il «Münchner Phönix Preis» 2018, un riconoscimento che la città di Monaco assegna a cinque stranieri che si sono particolarmente distinti per gli eccezionali risultati economici e l’impegno sociale verso i migranti.

MARESCIALLO PRISCIANO: CONTINUA L'ACCANIMENTO PERSECUTORIO DEL COMANDO GENERALE DELL' Arma dei Carabinieri e del Ministero della Difesa nei miei confronti. Ora basta, però! 

Dalla pagina facebook di Riccardo Prisciano il post del 10 marzo 2019.

È giunto il tempo che tutta #Italia sappia come stanno davvero le cose: le questioni politiche alla base del mio #congedo INCOSTITUZIONALE erano soltanto una scusa... la verità è che ho la colpa di aver videoripreso e denunciato un'estorsione gravissima perpetrata a mio danno da parte di militari dell'Arma su spinta di un Avvocato "che conta nell'Arma" (cit.).

Ho vissuto e sto vivendo, in maniera analoga, ciò che è accaduto (e sta continuando ad accadere) al Carabiniere Riccardo Casamassima per il caso Cucchi: chi denuncia reati commessi da superiori nell'Arma è lasciato solo, umiliato, perseguitato ed infine cacciato. Una cricca di DELINQUENTI pronta a tutto pur di coprire le maleffate del superiore o di difendere gli INTERESSI PRIVATI di quell'Avvocato "che conta nell'Arma". "Lasciati soli", come accade a chi denuncia reati mafiosi all'interno di una società omertosa, così accade a chi ha la forza di denunciare quando a commettere un reato è chi veste la tua stessa divisa, magari con ruoli apicali. Ma allora qual è la differenza? Il silenzio del Ministro Elisabetta Trenta fa rabbrividire. Si rifiuta di ricevermi. Ministro vorrei soltanto farle vedere il video di questa ESTORSIONE, null'altro! Spesso, purtroppo, una simile "cricca associativa" non si trova dinanzi un militare come il sottoscritto (con il proprio carattere forte e la sua famiglia sempre pronta a sostenerlo) ed ECCO SPIEGATO IL COSÌ ALTO NUMERO DI SUICIDI NELL'ARMA dei Carabinieri. Per certe "cricche", il suicidio di un #militare "conviene" e poi per "archiviare la pratica" basta andare sulla stampa a dichiarare "non si conoscono i motivi del gesto"...State tranquilli - ma già lo sapete - mai sceglierò quella via: il desiderio di vedervi pagare per i vostri #crimini è troppo forte...UNA "CRICCA ASSOCIATIVA" che come una #piovra si trova all'interno dell'Arma, per 5 anni ha rovinato la mia esistenza e quella dei miei cari... e non per stupide scuse politiche! Ora è giunto il momento che tutta #Italia conosca i nomi ed i cognomi di chi, FACENDO GLI INTERESSI dell'Avvocato "che conta nell'Arma", infanga ogni giorno la MIA divisa. Sappiate che d'ora in poi, chi dirà di non sapere, in realtà mente sapendo di mentire. Da Taranto a Varese, passando per Roma, Nuoro e la Toscanatutta: con registrazioni e filmati di quello che avete detto e fatto, ora non si fanno più sconti a nessuno. E non dimentichiamoci di Palermo, Basilicata e Triveneto!

Il Tar reintegra il maresciallo che ironizzava sulla Boldrini. FdI: “Fatelo lavorare”, scrive lunedì 4 febbraio 2019 Giovanni Pasero su Secolo d’Italia. “Il Tar del Lazio ha reintegrato il maresciallo dei Carabinieri Riccardo Prisciano: ora, nell’assoluto rispetto del prestigio dell’Arma, ci auguriamo che venga recepita la sentenza senza fare ricorso”. E’ quanto dichiara il deputato di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone. “Il maresciallo scrittore – prosegue – aveva rivolto alcune critiche libero dal servizio e per questo era stato congedato a seguito della notifica dell’avvio di un procedimento disciplinare per “islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata””. “Ora – conclude Mollicone – ci auguriamo che intervenga anche il ministro Trenta affinché si concluda questa vicenda e il maresciallo possa tornare in servizio a servire il Paese e a esprimere liberamente le sue idee”. Il maresciallo Prisciano, autore del libro “Nazislamismo” (Ed. Solfanelli), la cui presentazione è stata curata da Magdi C. Allam. Il maresciallo dell’Arma racconta in questi termini, la sua vicenda: «Ho subito tre procedimenti disciplinari di rigore, svariate denunce presso la Procura Militare (procedimenti terminati tutti con archiviazione od assoluzione), trasferimenti ad 800km dalla mia famiglia, visite psicologiche e psichiatriche alle quali ovviamente sono risultato perfettamente idoneo al servizio militare: non contento di tutte queste angherie fattemi subire, il Comando Generale dell’Arma mi ha posto in congedo “per non meritevolezza” proprio a causa delle mie idee politiche sovraniste, patriottiche, anti-Islam, anti-aborto, contrarie alla pratica dell’utero in affitto ed alle adozioni di bambini a coppie omosessuali. Tra le accuse – scrive ancora Prisciano – anche quella di aver commentato in maniera troppo “ironica” sulla mia pagina Facebook le scelte politiche del Presidente della Camera Laura Boldrini, dell’allora Ministro dell’Interno Angelino Alfano, dell’allora Premier Matteo Renzi, nonché dell’ex Capo dello Stato Giorgio Napolitano». L’auspicio di tutti è che questa guerra contro un servitore dello Stato venga finalmente terminata e che il maresciallo Prisciano possa tornare a compiere il suo dovere di cittadino e di militare.

Il TAR reintegra il Maresciallo congedato dall’Arma per le sue idee anti islam. “Licenziamento non motivato”, scrive il 04/02/2019 Infodifesa. Il caso del Maresciallo dei carabinieri Riccardo Prisciano iniziò nel 2015 quando gli venne notificato l’avvio di un procedimento disciplinare per “islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata” sino ad essere definitivamente posto in Congedo dall’Amministrazione. Tutta colpa di un libro. Il suo libro, “Nazislamismo” con presentazione di Magdi Cristiano Allam. Un saggio, estensione della tesi di laurea, in cui dimostra l’incostituzionalità giuridica dell’Islam. Ma il Maresciallo Prisciano non demorde e propone ricorso al Tar Lazio che con la sentenza che vi proponiamo di seguito in stralcio ha dato ragione al ricorrente. “Il ricorrente, già maresciallo dell’Arma, non è stato ammesso al servizio permanente. In particolare l’amministrazione rilevava che : “che il complessivo quadro di situazione emergente dall’esame della documentazione caratteristica e matricolare del Maresciallo Prisciano, riferita al periodo quadriennale di ferma volontaria, ha evidenziato un rendimento assolutamente insoddisfacente del militare per: carenti qualità morali, militari e di carattere; minore affidabilità sul piano professionale, da cui è scaturito un profitto valutato per due volte con giudizio equivalente a “inferiore alla media”, emesso da diverse scale gerarchiche; che il Maresciallo Prisciano ha palesato una marcata refrattarietà alla disciplina militare, con gravissime carenze sostanziatesi negli ultimi due anni in quattro sanzioni di corpo, di cui ben tre “consegne di rigore”, irrogate da differenti Comandanti”.

Secondo il Tar Lazio la disciplina normativa che presidia l’ammissione al servizio permanente (artt. 948 del D.L. 15 marzo 2010, n.66) recita: “Al termine della ferma volontaria, i carabinieri che conservano l’idoneità psico-fisica al servizio incondizionato e sono meritevoli per qualità morali e culturali, buona condotta, attitudini e rendimento, di continuare a prestare servizio nell’Arma dei carabinieri, sono ammessi, salvo esplicita rinuncia, in servizio permanente …”. Si tratta di previsioni normative a contenuto aperto, la cui puntuale determinazione è rimessa alla stessa Arma. In altre parole il significato concreto di: qualità morali, buona condotta e rendimento, invero necessitano di una conseguente e puntuale precisazione motivazionale, sia con riferimento ai principi costituzionali della pari dignità sociale tra i cittadini, del riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, del diritto al lavoro, che per consentire l’eventuale scrutinio del giudice amministrativo. Si tratta di diritti essenziali e non comprimibili della persona, il cui pregiudizio necessita una adeguata, congrua e documentata motivazione tale che, nel bilanciamento degli opposti interessi, sia evidenziata, in modo oggettivo ed inconfutabile, la prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato, motivazione che, in ogni caso, deve essere declinata con i principi di ragionevolezza e proporzionalità così come introdotti anche dalla giurisprudenza comunitaria. Ritiene il Collegio che una lettura costituzionalmente orientata delle citate norme, in uno con i riferiti principi di proporzionalità e ragionevolezza, non può essere limitata ad una mera elencazione delle asserite mancanze disciplinari, atteso che l’irrogazione di tali sanzioni costituiscono un sintomo della mancanza dei requisiti richiesti dalla norma, sintomo che, però, deve essere supportato da un concreto disvalore del comportamento contestato, la cui valenza negativa può essere ricavata dalla completa lettura del comportamento del militare. In altre parole è necessario che la p.a. dimostri, attraverso una documentata prospettazione, le ragioni per cui l’interessato non è più ritenuto meritevole di far parte del consesso militare. Si tratta, pertanto, di un giudizio ponderato e non sintetico (diversamente il legislatore avrebbe previsto il mero dato numerico delle sanzioni riportate), in cui deve essere valutata l’intera esperienza professionale e privata del militare, in cui i rilievi sintomatici negativi e positivi devono essere adeguatamente soppesati nell’ambito di un compiuto processo motivazionale che non può essere certamente limitato alla enumerazione delle sanzioni irrogate, ovvero a meri e stereotipati giudizi negativi. Nel caso di specie, infatti risulta che una prima sanzione di rigore è stata irrogata in relazione ad una denuncia avanzata nei confronti del ricorrente, il cui fatto presupposto è stato, poi, archiviato dalla giustizia militare. Le altre due sanzioni di rigore risultano, invece, connesse a manifestazioni del pensiero espresso dal ricorrente in modo da non comportare alcuna reazione penale. Tale evenienze fattuali devono essere necessariamente considerate dall’amministrazione indipendentemente e a prescindere dalla reazione giudiziaria non attivata dal ricorrente, proprio perché nel giudizio e nel conseguente provvedimento, la p.a. deve sempre far prevalere, allorquando si tratta di giudizi personali, la sostanza sulla forma. Allora, le sanzioni disciplinari su cui, anche, si fonda il provvedimento espulsivo, se esattamente valutate nell’attuale contesto costituzionale, certamente, di per sé, non giustificano il grave provvedimento espulsivo, alla luce proprio del necessario bilanciamento degli interessi, anche costituzionali, che la questione coinvolge, atteso che la sintetica motivazione adottata dalla p.a. non dà modo al collegio di verificare la ragionevolezza e la proporzionalità della misura adottata. In altre parole la p.a. è chiamata ad adottare un provvedimento discrezionale che, in quanto tale deve essere adeguatamente motivato, tanto più che la misura pregiudica essenziali e fondamentali diritti costituzionali del ricorrente e la p.a. non può limitarsi ad una mera applicazione automatica delle norme riportate sulla base di evenienze meramente formali. Infine, non può essere sottovalutato il fatto che il giudice ordinario ha assolto il ricorrente dal reato previsto e punito dall’art. 572 c.p. perché il fatto non sussiste, condannando, di contro, l’ex coniuge a mesi otto di reclusione. Tale evenienza risulta sintomatica della singolare condizione vissuta dal ricorrente e non può essere omessa dalla p.a. nella motivazione del giudizio finale. Per ultimo, e la circostanza non è stata smentita dalla difesa erariale, l’arresto (maggio 2016) da parte del ricorrente, di un malvivente che aveva aggredito un anziano, convalidato dall’A.G.. Ebbene, neppure tale episodio risulta introdotto nella motivazione escludente. Si tratta, cioè, di un significativo aspetto professionale del ricorrente che la p.a. non ha considerato nella complessiva valutazione dello stesso ai fini dell’adozione della misura contestata. Pertanto – secondo il TAR Lazio – il provvedimento risulta non adeguatamente motivato e deve essere annullato. 

Chi è Riccardo Prisciano, maresciallo carabinieri anti Islam, scrive Silvia Cirocchi il 9 marzo 2016 su Blitz Quotidiano. Prisciano, maresciallo dei carabinieri che considera l’Islam incostituzionale. Maresciallo Prisciano, vi dico io chi è. In queste ore sui social network si sente solo parlare di lui: il Maresciallo Riccardo Prisciano. Ma chi è questo uomo? Ve lo dico io visto che ho auto modo di conoscerlo collaborando con lui allo stesso quotidiano online (i cui articoli gli vengono ora contestati) fino a quando la censura dei “taglialingua” gli ha tappato la bocca. Riccardo Prisciano non è un “semplice” Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri; onore alla categoria, ma intendo dire che, nella sua vita, Riccardo è anche tante altre cose. Laureato in Scienze Giuridiche presso l’Università di Roma Tor Vergata, da sempre impegnato culturalmente ed artisticamente, ha pubblicato la raccolta di poesie “Insonnia” ed il poema biblico “L’Arcangelo crociato”, Prisciano è in primis un uomo che ha sempre combattuto per tutto nella sua vita; odia il compromesso e l’ipocrisia perbenista: per lui esiste solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, “vie di mezzo” non possono esistere. Basta leggere i suoi articoli per saggiarne la preparazione culturale, giuridica e filosofica. Riccardo Prisciano è uomo d’azione; azione che si estrinseca attraverso la penna, la parola ed i fatti … e per questo è stato punito e trasferito in Sardegna a ben 800 km dalla propria figlioletta. Il Maresciallo Prisciano aveva argomentato le proprie tesi giuridiche circa l’incostituzionalità dell’Islam e circa l’impossibilità di credere nell’esistenza di un islam moderato, nonché aveva espresso su Facebook la propria contrarietà circa le unioni omosessuali e le adozioni gay. Il tutto libero dal servizio e mai qualificandosi come carabiniere. Ebbene, in un processo, nonostante l’assenza del Prisciano e di un suo difensore, il maresciallo veniva condannato a 7 giorni di consegna di rigore e trasferito. Non è finita: i nuovi Comandanti (della Sardegna) instaurano un ennesimo procedimento disciplinare nei confronti del Maresciallo Prisciano per condotte successive al 06 agosto 2015 (data del processo-condanna fiorentino) sempre per “islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata”. Quest’ultimo procedimento disciplinare è ancora più assurdo del primo: si contesta all’ispettore il fatto di aver scritto, sempre libero dal servizio, articoli, in cui si parlava di aborto, teoria gender, immigrazione e sovranità statale. Addirittura, si contesta il prossimo libro del Maresciallo Prisciano – lo si contesta prima della pubblicazione, prima di leggerlo quindi. Il Mar. Prisciano pubblicherà a breve un saggio giuridico, il cui titolo è “Nazislamismo” e l’editore è Solfanelli. Come si evince dagli atti, gli Ufficiali dell’Arma scrivono che “benché si tratti di un saggio giuridico, scaturito dalla stessa tesi di Laurea in Scienze Giuridiche del Mar. Prisciano, non è opportuno che si parli in tali termini dell’Islam”. Sarà un caso che tutta la storia gira attorno alla Toscana, ed a Firenze in particolare? A noi non sembra un caso, visto che il Maresciallo Prisciano in entrambi i procedimenti si è visto accusare “di aver leso e vilipeso l’immagine del Presidente del Consiglio dei Ministri, del Presidente della Repubblica, del Ministro dell’Interno e della Presidenta Boldrini.

"Io, carabiniere anti islam, congedato per mie idee". Maresciallo scrittore che si è espresso contro l'islam viene congedato dall'Arma. Il caso di Prisciano, che ora attende l'espressione del Tar, scrive Francesco Boezi, Sabato 16/09/2017, su Il Giornale. Il maresciallo Riccardo Prisciano è stato congedato. Durante luglio del 2015, gli era stato notificato l'avvio di un procedimento disciplinare per "islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata". Sentito da Il Giornale.it, il maresciallo ha dichiarato in merito alla sua vicenda: "Sono stato congedato per aver espresso idee di destra, libero dal servizio e nella normale dialettica democratica, riguardanti l'incostituzionalità dell'islam, la mia contrarietà ai matrimonio omosessuali, all'adozione di bambini da parte di persone dello stesso sesso, alla pratica dell'utero in affitto, all'attuale legge sull'aborto e per aver espresso perplessità sull'operato politico di Boldrini, Alfano, Renzi e Napolitano". "In due anni - aggiunge Prisciano - sono stato umiliato in ogni modo: sanzioni disciplinari, denunce (poi ovviamente archiviate), visite psicologiche, trasferimenti ad 800km dalla mia famiglia, note caratteristiche umilianti e financo il congedo per "non meritevolezza". Secondo quanto riferito dal maresciallo, prima del congedo ci sarebbero stati tre procedimenti disciplinari: 7 giorni di consegna con rigore e il trasferimento d'autorità in Sardegna, un provvedimento derivante dalla pubblicazione del suo libro "Nazislamismo", infine una denuncia da parte dei suoi superiori presso la Procura Militare di Roma per "insubordinazione con ingiuria" e "diffamazione militare aggravata". Queste ultime accuse sarebbero state archiviate. Il maresciallo sostiene di aver subito questi provvedimenti a causa delle sue prese di posizione. L'inizio della vicenda, infatti, risale a quando Prisciano, in qualità di scrittore, partecipò ad un convegno sulla "incostituzionalità dell'islam". Il 12 ottobre 2017 il Tar del Lazio dovrebbe esprimersi sul congedo. Il Consiglio di Stato, secondo un documento inviatoci da Prisciano, aveva ribaltato le sospensive precedentemente concesse dal Tar. Il maresciallo dichiara di essere in congedo da dieci mesi, di non percepire stipendio e di avere una figlia di 6 anni e un altro figlio in arrivo.

Scrive un libro critico sull’Islam e lo “licenziano”, scrive il 15/06/2018 Il Giornale off. Stava facendo uno sciopero della fame da tre giorni. Per tre giorni è rimasto a gambe incrociate davanti alla sede del Ministero della Difesa. Lui è Riccardo Prisciano, maresciallo dei Carabinieri, la cui storia i lettori di OFF conoscono: nel 2015 gli viene notificato l’avvio di un procedimento disciplinare per “islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata”. Tutta colpa di un libro. Il suo libro, “Nazislamismo” (Ed. Solfanelli), con presentazione di Magdi Cristiano Allam. Un saggio, estensione della tesi di laurea, in cui dimostra l’incostituzionalità giuridica dell’Islam. «Ho subito tre procedimenti disciplinari di rigore, svariate denunce presso la Procura Militare […] in congedo a causa delle mie idee politiche sovraniste, patriottiche, anti-Islam, anti-aborto, contrarie alla pratica dell’utero in affitto ed alle adozioni di bambini a coppie omosessuali». Un ricorso al T.A.R. di Roma ha censurato i comportamenti dell’Amministrazione. Riccardo Prisciano vuole tornare a servire la Patria nell’Arma e per questa ragione da tre giorni è in sciopero della fame, davanti al Ministero della Difesa e ora davanti alla sede del Viminale. Leggiamo dalla sua Pagina Facebook: In Italia, non si può congedare un servitore dello Stato solo per aver scritto un libro che a qualcuno non è piaciuto. Sono qui per essere ricevuto dal Ministro della Difesa per far rispettare un’ordinanza del TAR ormai passata in giudicato. Anche i militari hanno dei diritti costituzionali. Alle ore 13.51 di venerdì 15 giugno 2018 il Viminale ha preso in carico la pratica. Oggi, giovedì 21 giugno, sappiamo che Federico Mollicone (Responsabile nazionale del Settore Comunicazione di Fratelli d’Italia e dirigente romano nella Costituente di Roma) sta preparando un’interrogazione parlamentare unitamente a Gianni Tonelli (deputato della Lega, segretario generale del Sindacato Autonomo di Polizia) e al sottosegretario alla Difesa Raffaele Volpi per affrontare il caso a livello istituzionale. E intanto la presa in carico del caso si estende a livello governativo: anche il Sottosegretario alla Difesa Angelo Tofalo (M5S) si sta interessando per risolvere il problema.

A proposito di omertà e censura…puoi parlar male di Avetrana, ma mai parlar male dell’Islam.

L’opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

L’Italia delle libertà mancate, dell’omertà e della censura. Tra Mafia e Terrorismo Islamico, certamente nessuno deve dimenticare il terrorismo di Stato: le morti per l'ingiustizia, come per la sanità, o per la povertà e l'emarginazione. Ma di tutto questo non se ne deve parlare. Si deve parlare sempre e comunque solo di Avetrana omertosa.

“Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti”. Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. Lo stesso Dinoi continua con la solita litania anche il 29 marzo 2016: “Il bruttissimo episodio è ora materia degli investigatori dell’Arma che stanno incontrando difficoltà a raccogliere testimonianze dei presenti. Sino a ieri il maresciallo Fabrizio Viva che comanda la stazione di Avetrana ha sentito diverse persone che erano presenti nelle vicinanze, ma nessuno di loro ha detto di ricordare o di aver visto niente. Un atteggiamento omertoso che ha spinto gli amministratori pubblici e il parroco a lanciare appelli a parlare (di questo parliamo a parte). I militari hanno già ritirato le registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei punti commerciali della zona, ma nessuna di loro era puntata sulla zona dell’aggressione. Un testimone che avrebbe visto tutto, avrebbe detto di aver visto delle persone fuggire a bordo di una piccola utilitaria di colore scuro di cui non ricorda la marca. Ancora poco per dare un nome e un significato a tanta violenza.” A quell'ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia.

Chi fa la professione di giornalista dovrebbe sapere che i curiosi, accorsi in massa, non possono essere definiti testimoni. Non si può parlare di omertà se la stessa vittima non ha potuto fornire notizie utili alle indagini, né tanto meno si può parlare di indagini. Le indagini vengono svolte alla notizia di reato e, a quanto pare, al momento del fatto il reato palesato (lesioni) era perseguibile per querela che non vi è stata. E comunque l’indagine fatta bene, anche successivamente attivata per querela o denuncia per fatto più grave, i responsabili li trova.

Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale.

D’altro canto bisogna ricordare a questo signore, come a tutt'Italia, che gli Avetranesi parlano e non hanno paura di nessuno, nonostante le ritorsioni. Da ricordare che il sottoscritto è un avetranese doc, e non può certo essere tacciato di omertà, visto quello che scrive, tanto che alcuni magistrati questa prolificità non gliela perdonano affatto. Ma esiste un altro avetranese che paga il suo non essere omertoso: Riccardo Prisciano, tanto da essere perseguitato per le sue idee espresse contro Islam e gay.

Certo è che l'islam è una religione, ma anche una setta: non esiste il giusto o sbagliato, il bene o il male. Vale solo «o con me o contro di me». E chi è contro è un infedele. Ma questo vale, a ragion del vero, anche per il comunismo. Il comunismo è anch’esso una religione-setta. Ecco perché a sinistra se ne dolgono quando dell’Islam o dei gay se ne parla male.

È contro l'islam e i gay, il maresciallo rischia il posto di lavoro. Ha partecipato a una conferenza in qualità di scrittore e relatore sull’"incostituzionalità dell’Islam". Dopo essere stato condannato per "islamofobia, xenofobia, omofobia", ora il Maresciallo Prisciano rischia di perdere il posto per un saggio giuridico, scriveva Gabriele Bertocchi, Lunedì 07/03/2016, su “Il Giornale”. Riccardo Prisciano è un maresciallo dei carabinieri, a luglio gli viene notificato l'avvio di un procedimento disciplinare per "islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l’apoliticità della Forza Armata". Come racconta Infodifesa, solo un mese dopo, mentre si trova in Puglia per un congedo parentale dovuto alle gravi condizioni della figlia, lo raggiunge l'avviso in cui si specifica che la data in cui avverrà il processo disciplinare. La notifica viene recapitata solo con due giorni d'anticipo, non consentendo così a Prisciano di essere presente alla sentenza che lo condanna a sette giorni di consegna di rigore. Motivo di questo procedimento nei confronti del maresciallo è la sua posizione nei confronti dell'islam. Più precisamente li viene contestata la partecipazione a una conferenza, in cui Prisciano ha preso parte in qualità di scrittore e relatore, sull’"incostituzionalità dell’Islam". Un impegno preso e svolto mentre era libero dal servizio. Come se non bastasse, ora è stato è stato avviato un nuovo procedimento disciplinare, con le stesse accuse, per diversi articoli scritti da Prisciano, pubblicati su un quotidiano online, che trattano argomenti come aborto, teoria gender, immigrazione e sovranità statale. Nel fascicolo vengono allegati anche post e stati di Facebook del carabiniere ritraenti il patriota cecoslovacco Jan Palach e frasi del filosofo Ernst Junger. Inoltre viene anche contestata la prossima pubblicazione del maresciallo di un saggio giuridico intitolato "Nazislamismo", con prefazione di Magdi Allam. Il volume non è ancora andato in stampa. Se dovesse essere nuovamente punito, Prisciano rischia di perdere il posto di lavoro.

Carabiniere-scrittore contesta l'islam. Punito con sette giorni di consegna. Vietato criticare, maresciallo accusato di islamofobia, scrive Domenico Ferrara, Sabato 26/03/2016, su “Il Giornale”. Vietato criticare l'islam. Guai a scriverne e a esporre la propria opinione in pubblico. Mentre l'Europa è sconquassata dallo jihadismo, in Italia ci si preoccupa di mettere all'indice un carabiniere colpevole di aver studiato e analizzato magari con troppa animosità il problema del terrorismo e dei flussi migratori. Per questo motivo, Riccardo Prisciano, maresciallo pugliese 25enne, è stato sottoposto a procedimento disciplinare e punito con sette giorni di rigore. Il 23 maggio 2015, il militare partecipa in qualità di scrittore a un convegno a Pisa organizzato da un movimento politico. Già, perché Prisciano, oltre a essere un carabiniere, è anche uno scrittore, laureato in scienze giuridiche della sicurezza all'Università di Tor Vergata a Roma con una tesi dal titolo «Multiculturalismo e islam, problemi e soluzioni». Esprime le proprie idee in veste di libero cittadino e non di carabiniere. Parla dell'integralismo dell'Islam, sostiene che non esistano musulmani moderati, afferma la necessità di interrompere i flussi migratori tra le coste del nord Africa e l'Italia. Apriti cielo. Il 25 giugno viene avviato il procedimento disciplinare e si richiede una visita medico-psicologica. Il 6 agosto, mentre era in Puglia in congedo parentale per problemi familiari, si svolge il processo in sua assenza. Risultato? L'Arma decide di punirlo, non solo per la partecipazione al convegno, ma anche per una serie di post su Facebook in cui esternava posizioni critiche in materia di islam e immigrazione. Sette giorni di rigore «per islamofobia, xenofobia, omofobia, violazioni dei doveri attinenti al grado ed al giuramento prestato e per aver inficiato l'apoliticità della Forza Armata». Inoltre a Prisciano vengono contestati altri addebiti per post sui social. In caso di ulteriore condanna, non potrebbe entrare in servizio permanente.

Ma non è la prima volta che cala la scure della censura.

Islam, il giovane scrittore Riccardo Prisciano censurato da Facebook, scrive “Imola Oggi” il 20 gennaio 2015. Il giovane poeta e scrittore Riccardo Prisciano, censurato da Facebook, non ci sta! È l’ennesimo atto di censura quello che Riccardo Prisciano, autore della raccolta di poesie “INSONNIA” e del poema biblico “L’Arcangelo crociato”, riceve da Facebook: ma questa volta non ci sta! La pagina pubblica Facebook del giovane autore è stata bloccata (dallo stesso sito) fino al 1° febbraio 2015, ma le motivazioni ancora non sembrano chiare …La storia ha dell’incredibile: dopo la macabra strage consumatasi a Parigi qualche giorno fa, ad opera di terroristi islamici, il poeta Prisciano ha pubblicato sulla sua pagina facebook alcuni commenti, correlati da apposite immagini, che hanno scatenato l’ira dei sostenitori del melting-pot. La scintilla che ha fatto scatenare la raffica di segnalazioni a Facebook, sembrerebbe essere un post in cui il giovane scrittore, citando preventivamente Oriana Fallaci, ha scritto “La paura di camminare a schiena dritta è, oggi, la vera causa del declino della millenaria società cristiana europea. Ricordare le proprie radici è il principale dovere di ogni europeo (cristiano e non)”. In conclusione l’autore, conscio dell’inesistenza di un Islam moderato, afferma ancora una volta: “se per un Cristiano è doveroso seguire il messaggio d’amore del Messia, per il musulmano è doveroso seguire il messaggio di morte di Maometto”. Immediate le condivisioni del post ma anche, di contro, le segnalazioni a Facebook. L’intento dei segnalatori sembrerebbe essere quello di bloccare, almeno per un po’, il giovane autore che, quotidianamente, sveglia le coscienze attraverso la sua pagina. MA RICCARDO PRISCIANO NON CI STA! Ed ecco che con l’ultimo post spiega i motivi giuridici ed etico-legali, secondo i quali, “L’Islam non è Costituzionale!”; una vera e propria scintilla che presto scatenerà chissà quali reazioni.

Facebook ha riservato lo stesso trattamento all’avv. Mirko Giangrande, chiudendogli la sua pagina “Azione Liberale”.

Riccardo Prisciano: l’Islam come il nazismo, scrive Gian Giacomo William Faillace su “Milano Post” del 14 giugno 2015. Riccardo Prisciano, scrittore politicamente scorretto, vicino a posizioni ideologiche patriottiche e sovraniste, ha esordito con “Insonnia”, una raccolta di poesie romantico-decadentiste e successivamente con il poema biblico “L’Arcangelo crociato” in cui narra, con stile dantesco a metrica libera, le vicende dell’Arcangelo Uriel. Politicamente impegnato, Riccardo Prisciano, è in procinto di pubblicare il suo terzo libro: con la prefazione del noto giornalista Magdi Allam, con cui Prisciano intrattiene ottimi rapporti amichevoli, sarà un saggio di diritto in cui tratterà l’incostituzionalità dell’Islam. Con parole semplici effettuerà dei parallelismi tra la fede musulmana e l’ideologia nazista, sfociando nella proposta di un disegno di legge che annoveri il reato di apologia dell’Islam. Partendo dal tema della “tolleranza” sul quale molti filosofi hanno scritto e disquisito, Prisciano prende in esame la citazione del filosofo austriaco, naturalizzato britannico, Karl Raimund Popper il quale trattò innumerevoli volte, in seno alla sua teoria di “società aperta” le problematiche inerenti alla tolleranza arrivando a sostenere che “La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi” oltre ad asserire che “Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti”. A queste teorie fecero eco anche lo scrittore tedesco Thomas Mann il quale sostenne che “La tolleranza diventa un crimine quando si applica al male” ed il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler il quale sostenne che “Il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità”; un tema molto attuale soprattutto nella moderna “società” europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose. Persino Voltaire, uno dei maggiori Lumi del Settecento, nel suo “Trattato sulla tolleranza” pur cercando di aprire la società ad una sorta di pluralità di religioni, e perché no, ad una pluralità di dottrine politiche, col suo grido “Esacrez l’infame” (Schiacciate l’infame) incita quell’umanità illuminata a lottare con tutte le forze della propria ragione e della propria morale contro il fanatismo intollerante tipico della religione confessionale qualsiasi essa sia, incita ogni uomo di buona volontà a lottare per la tolleranza e la giustizia. Pertanto, alla domanda “Cosa intende per apologia dell’Islam” Prisciano, prontamente risponde:” In considerazione di ciò che sostenne l’Ayatollah Khomeini, ossia che l’Islam è politica altrimenti non è Islam, dobbiamo trovare gli strumenti idonei per trattare questa dottrina violenta in quanto l’Islam non può essere considerata una religione, nel senso “occidentale” del termine. Un Islam che punta al potere deve essere arginato secondo quello che Popper definiva come un dovere della democrazia. Quindi ecco il reato di apologia, in Italia, con la legge Scelba, previsto per il Fascismo. Con tale legge si tutela la manifestazione privata ma non pubblica di alcune correnti di pensiero. Nel mio prossimo libro citerò questo paragone facendo dei parallelismi tra l’ideologia nazista e la dottrina islamica; parlando di apologia non voglio mettere al bando l’Islam: ognuno in privato potrà essere fedele alla sua fede vietando però le sue manifestazioni pubbliche”.

Lo scrittore Riccardo Prisciano sfida Khalid Chaouki: - “Io sono pronto" …”, scrive Riccardo Ghezzi, il 11 agosto 2015.

Riccardo Prisciano, il tuo prossimo libro in uscita ad ottobre paragona l’Islam al Nazismo. Puoi spiegarci in breve di cosa si tratta?

«Quando si parla di terrorismo islamico, non si parla di “antico folklore”; è, piuttosto, qualcosa di concreto e spaventosamente vicino, come hanno dimostrato numerosi fatti di cronaca, anche in Italia. Non è comprensibile, altresì, come, proprio le frange anticlericali che, da sempre, si sono battute contro la Chiesa Cattolica (incriminando, quasi, le religioni di “incatenare” l’uomo) siano, ora, così rispettose e tolleranti verso comportamenti barbari e sanguinari, predicati in nome dell’Islam. Incredibilmente, la stessa pubblica opinione, che si discosta dall’osteggiare ideologie violente e razziste, non si rende conto di quanto, l’Islam, in certi suoi aspetti, non si discosti molto da queste dottrine».

Perché allora questa difformità di trattamento?

«Anche lo scrittore tedesco Thomas Mann sosteneva che “la tolleranza diventa un crimine quando si applica al male”, addirittura il giurista statunitense Joseph Halevi Horowitz Weiler sostenne che “il messaggio di tolleranza verso l’altro non deve essere tradotto in un messaggio di intolleranza verso la propria identità”; un tema molto attuale soprattutto nella moderna “società” europea, ed italica in prevalenza, in cui in nome della tolleranza verso la teocrazia islamica si tende ad odiare le proprie origini culturali, storiche e religiose. Tale totalitarismo, ammantato da pretesti religiosi ed etici e che, dietro una parvenza di spiritualità, trasudano un’alcova ideologica tra le più intolleranti del mondo, è di gran lunga peggiore di qualunque totalitarismo politico. L’Islam è anche, e forse soprattutto, un’ideologia, come ci tenne a precisare l’Ayatollah Khomeini, uno dei più autorevoli pensatori musulmani: “L’Islam o è politica, o non è nulla!” L’Islam è un’ideologia politica che, ancora oggi, si serve della religione come strumento di potere; o, se volessimo intenderla come religione, non possiamo non rilevare che tale religione, sfruttando la spiritualità umana, si pone il preciso obiettivo d’espandere il proprio potere politico. Se, giustamente, intendessimo l’Islam come una dottrina politica, e non già come una mera fede religiosa, sarebbe doveroso chiedersi per quanto ancora si potrà permettere che, nella civile e democratica Europa, si predichi l’odio religioso, l’intolleranza e la disuguaglianza tra i sessi o tra gli appartenenti a diverse religioni, senza andare a vietare le organizzazioni islamiche, che si ispirano ad una dottrina di gran lunga più totalitaria e intollerante del Nazismo stesso. Non a caso Al-Husayni fu l’assoluto protagonista della nascita del moderno fondamentalismo islamico e della lotta armata (’intifadah) contro gli ebrei, condotta oggi da numerose organizzazioni terroristiche islamiche. Egli fu un visionario crudele che in nome del nazionalismo arabo e dell’antisemitismo strinse un’alleanza tattica con il nazismo, in forza della quale 100.000 musulmani combatterono come volontari nelle divisioni tedesche. Fu tra i più accesi sostenitori della Soluzione Finale, si macchiò direttamente di atti feroci quale il sabotaggio dei negoziati tra i nazisti e gli Alleati, per la liberazione di prigionieri tedeschi in cambio della fuga verso la Palestina di 4000 bambini ebrei, destinati alle camere a gas. Dopo la guerra, scampato a Norimberga, al-Husayni si divise tra l’Egitto, dove rinsaldò i rapporti con Sayyid Qutb e Hasan al-Bannah, rispettivamente il teorico e il fondatore dei Fratelli musulmani, e Beirut, dove pose sotto la sua ala protettiva un giovane che negli anni successivi diventerà un protagonista della politica mediorientale: Yasir ‘Arafat».

La prefazione sarà curata da Magdi Allam. Come è avvenuto l’incontro con lui?

«La Stima che mi avvicina al grande Magdi Cristiano Allam è profonda. Il nostro incontro “fatale” è stato lo scorso 7 giugno 2015, in quel di Milano, durante un incontro-dibattito politico-culturale organizzato dal Fronte Nazionale per l’Italia (il nuovo partito “nato dal basso” che, democraticamente, sta andando a colmare quel vuoto elettorale equiparabile, a detta dei sondaggi, al 60% degli aventi diritto). È stato “amore a prima vista”: l’unità d’intenti e d’ideali è stata tale che, già dopo pochi minuti, Magdi mi aveva già assicurato la prefazione per il mio prossimo saggio».

Nel saggio, definisci l’Islam “Incostituzionale”. È una dichiarazione forte, ma da quali elementi normativi è suffragata questa tua affermazione?

«Oggi, assistiamo sovente ad una visione della Costituzione italiana, come nominata a sostegno della laicità dello Stato, incredibilmente, però, questo accade solo in funzione anticristiana. L’Islam è anticostituzionale perché predica concetti ed ideologie contrari ai principi costituzionali fondamentali, in tema di rispetto per la vita ed uguaglianza tra le persone (anticostituzionalità sostanziale); nonché per la mancanza d’Intesa tra Stato italiano ed Islam (anticostituzionalità normativa). Ecco alcuni esempi pratici, puramente a titolo esemplificativo, di altri articoli (oltre all’ormai noto art.8) della Costituzione che, più nello specifico, sono in netto contrasto con l’Islam:

– Art. 2 Cost: “… i diritti inviolabili dell’uomo …”, che sono totalmente diversi nella religione islamica, tanto da aver creato una propria carta, la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, proclamata il sabato 19 settembre 1981 presso l’UNESCO a Parigi.

– Art. 3 Cost: “pari dignità sociale … senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione”; nel Corano, invece, è sancita la superiorità dell’uomo sulla donna e del musulmano sul non-musulmano.

– Art. 13 Cost: “La libertà personale è inviolabile, può essere limitata solo con atto motivato dell’Autorità Giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge . …” ; nella Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo, invece, la libertà individuale viene subordinata alla shari’a.

– Art. 27 Cost: “Non è ammessa la pena di morte …” ; nell’Islam, invece, è imposta per apostati, adulteri ed omosessuali; tale imposizione, mai messa in discussione da nessun organo dirigente islamico, è confermata da tutte e quattro le scuole coraniche e, pertanto, attendibile;

– Art. 29 co. 2 Cost: “Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”;

– Art. 30 co. 1 Cost: “il dovere-diritto di entrambi i coniugi di educare i figli..”;

– Art. 30 co. 3 Cost: “per la tutela dei figli naturali”.

Oltre al contrasto con dette norme fondamentali della Costituzione, vi è un altro duplice problema, certamente, non meno rilevante, riguardante la legittimità e la gerarchia delle fonti, in quanto la Shari’a funge da “legge” per i mussulmani, a prescindere dalla loro nazionalità».

Riccardo Prisciano contestato a Avetrana. Il suo Nazislamismo non piace a…, scrive il 10 luglio 2016 Silvia Cirocchi su “Blitz Quotidiano”. Scontro per fortuna solo verbale fra il maresciallo dei carabinieri Riccardo Prisciano, sostenitore della tesi che l’Islam è anticostituzionale e un gruppo di giovani che contestavano le sue tesi e il suo ultimo libro, “Nazislamismo”. Il vivace confronto è avvenuto nel corso della presentazione di “Nazislamismo” a Avetrana, città in provincia di Taranto diventata nota in Italia per il delitto e la morte misteriosa di Sarah Scazzi. La serata era intitolata “Estate d’autore, fra parole, poesie e pensieri”, organizzata da una associazione locale; tre in tutto erano i libri di cui si discuteva. Il pubblico era foltissimo visto l’interesse, com’è chiaro, per l’argomento trattato: l’islam. La tesi dominante del libro di Riccardo Prisciano è: inconciliabilità tra Occidente e mondo mussulmano, non scindibilità fra politica e religione islamica, inesistenza di un islam moderato. Al termine della presentazione, però, Prisciano è stato attaccato ed offeso da estremisti locali, filoislamici e, si presume, di “sinistra”; Prisciano ha reagito con molto autocontrollo e, grazie all’aplomb di Prisciano, i toni accesi si sono avuti esclusivamente a senso unico. I contestatori non apprezzavano l’opera di Prisciano, definendola “volgare e razzista”, pur dichiarando di non averla “mai letta ed [essere] intenzionati a non volerla leggere”. Pregiudizi, insomma; come hanno affermato gli stessi contestatori, dichiarando di avere dei “pregiudizi” nei confronti dello scrittore anti-islam. E, rivolgendosi agli organizzatori dell’evento culturale, si sono proclamati “delusi dalla serata”. Tra le gravi accuse rivolte allo scrittore Prisciano, quella di “essere la causa, insieme a Salvini e Giorgia Meloni, dell’omicidio di Fermo”. I toni erano diventati talmente accesi che, per evitare che si passasse dagli insulti a modi più diretti, il vicesindaco di Avetrana è intervenuto, smorzando le proteste ed elogiando il coraggio del Dott. Prisciano, che continua a dire che l’Islam è incostituzionale.

Al termine della presentazione, un gruppo di dissidenti, estremisti filo islamici, hanno iniziato a contestare e protestare, criticando l’opera di Prisciano, senza neppure conoscerne il contenuto e soprattutto senza volerli conoscere, scrive Giovanna Rispoli su “News 24 oggi”. Un duro attacco dai toni estremamente volgari ed offensivi, come abitudine di questi gruppi disagiati sociali. Volano parole pesanti ed offensive, oltre ogni limite, ma l’aggressione verbale è a senso unico. Infatti il Dr. Prisciano ha reagito in completo autocontrollo, facendo innervosire ancor di più i contestatori. Purtroppo queste volgarità ed offese erano talmente pesanti, che molti partecipanti si sono allontanati indignandosi. Gli estremisti di sinistra, non apprezzano l’opera, la reputano offensiva, volgare e razzista, ma assurdità della cosa, dichiarano apertamente: “Non conosciamo quest’opera e non abbiamo intenzione di conoscerla, i nostri occhi mai leggeranno queste righe di propaganda razzista”. Parole che dimostrano senza ombra di dubbio quali siano le facoltà dei contestatori, aggrappati ad ideali pre-confezionati, senza utilizzare il minimo di materia grigia.

Pier Francesco Galati, uno dei contestatori, insieme al padre Franco Galati già giorni prima, sulla sua pagina facebook, aveva prima citato e poi dichiarato: «“Odio gli indifferenti...credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti...” - Antonio Gramsci - non mi vergogno a dire che se verrà data la possibilità di presentare libri che incitano alla violenza e all'odio razziale, episodi come quello di Fermo saranno sempre più frequenti...Perciò ribadisco la mia rabbia e la mia delusione per il fatto che un libro, intitolato "Nazislamismo" venga presentato nel mio paese. Educhiamo alla multietnicità, all'uguaglianza, al rispetto e a credere che nonostante tutto possa esserci un mondo migliore e più giusto...Come diceva il buon Vittorio Arrigoni: “Restiamo UMANI...”» Ed a seguire i soli commenti dei soliti ignoranti…Altra considerazione è riportata sulla pagina facebook di Milvia Renna, madre e moglie dei contestatori: «CONSIDERAZIONI IN MERITO ALLA PRESENTAZIONE DEL LIBRO "NAZISLAMISMO". Credo sia doveroso a questo punto, visti i commenti astiosi su fb e gli articoli pretestuosi, fare alcune considerazioni personali sulla presentazione del libro ''nazislamismo''. In democrazia ognuno può scrivere e pubblicare ciò che vuole, ma credo che un libro che criminalizza un intero popolo, un'intera civiltà e un intero credo vada in direzione opposta a quelli che sono i valori della solidarietà, della pace e della convivenza tra gli uomini ed è questo il messaggio che è stato lanciato in maniera corretta agli organizzatori della serata, da chi è intervenuto per esprimere la propria opinione. Come insegnante non capisco come un'associazione culturale che più volte ha chiesto la collaborazione della SCUOLA per diffondere i valori del ''rispetto'' abbia pensato di presentare un libro che col suo messaggio, andava in direzione completamente differente...e lo dimostrano i toni volutamente accesi e i commenti di chi non era neanche presente alla serata, nel giudicare la spontanea obiezione di chi crede nei valori dell'umanità e della comunione tra i popoli ..Qualcuno obietterà che in democrazia tutto è possibile...ma credo che per il suo contenuto, un libro simile andasse presentato in altre sedi e non in una serata culturale, offerta all'intera comunità di cui fanno parte da anni cittadini di religione islamica. In un articolo apparso in rete, leggo di aggressioni verbali all'autore ...di accuse di razzismo...E' stato solo affermato che messaggi simili...possono acuire i sentimenti di avversione per un popolo, in un determinato e delicato contesto storico come quello che si sta vivendo oggi...Leggo che è stato addirittura reso necessario l'intervento del vicesindaco per smorzare i toni della protesta..., preciso che gli interventi sono stati fatti da un giovane studente e da un serio professionista, a differenza di ciò che è scritto...Ma quali toni avrebbe dovuto placare il vicesindaco? Ho solo ascoltato la sua condivisione ai contenuti espressi nel libro...che poteva pure fare da esponente, però, politico di un partito...ma quella sera lui rappresentava l'Istituzione...e sorge spontaneo chiedermi se le parole, espresse in occasioni di manifestazioni scolastiche organizzate all'insegna della solidarietà tra i popoli fossero davvero autentiche ...Non condividere un'idea o come essa venga presentata non significa ''aggredire''...Nessuno lo ha fatto, nè lo ha mai fatto!!! E mi rammarica aver sentito dire alla fine della serata, dallo stesso autore di aver raggiunto il suo obiettivo, cioè: quello di INDIGNARE. Forse sarebbe opportuno che l'organizzatore della serata facesse chiarezza, nel rispetto della verità!!! Ciò che leggo in questi giorni mi convince sempre più, che spesso volutamente, si scelgono le strade della non condivisione pacifica, della polemica a tutti i costi, dell'odio e soprattutto della distorsione della realtà... e come educatrice provo solo una grande delusione...e una grande amarezza...»

Intanto, sul suo profilo facebook, domenica Prisciano ha pubblicato: Splendida serata ieri sera ad Avetrana (TA), per la presentazione di “Nazislamismo”. Ringrazio gli organizzatori, le Autorità locali intervenute, il folto pubblico presente, ma soprattutto ringrazio quegli estremisti di sinistra che mi hanno offeso e calunniato: hanno confermato ancor di più che noi siamo dalla parte giusta, quella della Libertà. E per Essa sempre ci batteremo. #noinonindietreggiamo.

Oriana Fallaci, ex partigiana, ha combattuto l’Islam esattamente come combatteva il nazifascismo. Eppure, dalla sinistra è stata considerata una “traditrice”. Come si può spiegare l’antifascismo abbinato al filoislamismo della sinistra?

«La grande Oriana, che nel saggio in questione chiude con le sue citazioni ogni capitolo, è quasi da ringraziare per le grandi verità che tramandò a noi (oggi come ieri) poveri buonisti. Mi trovo perfettamente d’accordo con la Fallaci (e con i grandi autori citati poco fa): bisogna svegliarsi e rendersi conto che la nostra utopia (o quella di qualcuno …) ci farà ritrovare molto presto in una guerra dove non saremo padroni a casa nostra. La tolleranza è la base della democrazia; tuttavia, essa non deve mai tradursi nel buonismo relativista radical-chic, tipico della Sinistra Italiana di oggi. Aristotele diceva che “l’apatia e la tolleranza sono le ultime virtù di una società morente”. L’integrazione va bene, purché sia tale, ma ad oggi mi sembra che questa volontà non si sia mai palesata. “Integrazione” vuol dire adattarsi alle regole del Paese ospitante. Pericle (il “Padre della Democrazia”) se fosse vissuto ai nostri giorni si sarebbe sentito chiamare “razzista”, “xenofobo”, “omofobo” finanche “islamofobo”. La Sinistra italiana, tanto brava a sventolar bandiere rosse in piazza a difesa della libertà, non è capace di capire che l’Islam ne è oggi la più grande minaccia. Questo discorso è da farsi nei confronti dei “militanti” della Sinistra italiana; per i vertici, ci sono ben altri interessi dietro … ma questo è un altro discorso».

Esiste un pericolo terrorismo in Italia, oltre che in Europa?

«Ovvio! I numerosi arresti, le iscrizioni nel registro degli indagati nelle varie Procure italiane, nonché i bigliettini dell’Isis che girano sornioni e spaventosi su facebook, parlano chiaro. Smettiamola di dire “io conosco tizio che è mussulmano ed è una bravissima persona”: non si può (e non si deve) ragionare sulle eccezioni, soprattutto dinanzi a simili pericoli. Se ancora qualcuno si ostina a dire che non tutti i mussulmani sono terroristi, certamente dovranno darmi atto che, quantomeno, tutti i terroristi sono islamici».

Sarebbe pronto e disponibile ad un dibattito con Khalid Chaouki del PD?

Io sì … non so lui, semmai!»

Ed ancora Rita Rinaldi, soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora. Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.

Marina Erroi, 15enne di Avetrana, si aggiudica un contratto discografico con la MM Line Production Records, scrive il 17 gennaio 2018 La voce di Maruggio. Il 14 gennaio scorso si è svolta, presso la discoteca Odissea a Spresiano in Veneto, la finale della seconda edizione del RISING VOICE ARTIST l’ambizioso progetto ideato dall’esperienza e le capacità artistiche della Project Manager Maria Totaro in collaborazione di grandi autori e artisti del mondo discografico nazionale. La giuria composta da Umberto Labozzetta, esperto di strategie, comunicazione aziendali, dalla Project Manager Maria Totaro, da Antony & Vittorio Conte cantanti e autori premiati e dalla cantante Giada Pilloni reduce del successo di Amici edizione 2017.

Maria Totaro di Avetrana, sposata con l’avetranese Luigi Conte, con cui ha avuto i figli Anthony & Vittorio Conte.

Progetto Emergenti nel mondo della musica, Maria Totaro si racconta “ho Maruggio nel cuore”, scrive Fernando Filomena il 19 febbraio 2017 su La Voce di Maruggio. Si chiama Maria Totaro, cresciuta a Maruggio nei vicoli del centro storico, i genitori emigrati alla fine degli anni ’60 in Germania poi trasferiti nella vicina Avetrana. Maria Totaro nota nel mondo artistico come Talent Scout e produttrice discografica della nota casa di produzione MM LINE PRODUCTION RECORDS. Abbiamo raggiunto Maria Totaro, che si è raccontata esponendo questa bella realtà e raccontandoci brevemente del suo legame con Maruggio.

D. Buongiorno Maria, ci puoi raccontare brevemente la tua infanzia trascorsa a Maruggio?

R.  I miei genitori giovanissimi emigrarono in Germania, dopo pochi mesi dalla mia nascita furono costretti a prendere una decisione. Lavoravano tutto il giorno ed erano costretti a tenermi in un asilo nido. Poco dopo decisero che i miei nonni e i miei zii si sarebbero presi cura di me.

D. Cosa ricordi in particolare?

R. I vecchi vicoli di Maruggio furono la mia casa tra il profumo delle reti di mare, io nipote di un pescatore e figlia di tante mamme. La povertà era la mia ricchezza perché la povertà ti dà il coraggio di voler raggiungere dei sogni.

D. Come mai questa passione per la musica.

R. La musica era il mio sogno che si spezzò con la scomparsa di mio cugino/fratello cresciuti insieme, Emanuele De Pace, scomparso a soli 23 anni… fu un grande dolore per me.

Abbandonai il paese, a 15 anni, dopo la sua morte tenendo nel cuore “Le Stelle del Sud”.

Giurai a me stessa che avrei portato io avanti il suo sogno…, ed eccomi qui obbiettivo quasi raggiunto, a lui e per lui… per il “mio” Emanuele e per la sua bellissima voce.

D. Emozionante quello che ci hai raccontato, quanto ti manca Maruggio?

R. – Tanto tantissimo, ho Maruggio nel cuore, a breve gireremo un video in quei vicoli raccontando in una canzone inedita scritta dal mio artista, il cantautore Vittorio Conte e dal suo produttore Piero Calabrese scomparso nove mesi fa. Il testo lo ha scritto lui. Piero è stato produttore di Marco Mengoni, Alex Baroni e Giorgia. Sarà un regalo per Maruggio, vorrei coinvolgere il paese.

Grazie Maria, arrivederci nella nostra Maruggio. 

Cos’è MM LINE. Maria spiega, la mia non è soltanto un’etichetta, ma soprattutto una accademia ad alta formazione per lo spettacolo. “Noi cresciamo i nostri allievi”. La MM LINE si avvale della grande esperienza e creatività di grandi e famosi professionisti del settore, fondata dalla produttrice discografica Maria Totaro dai suoi figli, artisti, compositori, autori e produttori artistici, Anthony e Vittorio Conte.

Insieme hanno dato vita ad un grande progetto, il “Song Lab Italy”. Il campus MM LINE ogni mese ospita nella bellissima sede nel trevigiano 20 artisti. I ragazzi vengono oltre ad essere seguiti nella scrittura dei pezzi, vengono seguiti anche vocalmente da Fulvio Tomaino, noto Vocal coach, corista RAI e Direttore circuito scuole “La Voce”. Una volta all’anno la MM LINE tiene un grande incontro discografico dove Maria Totaro ospita i dirigenti delle più importanti Major discografiche e direttori artistici delle radio più importanti al livello nazionale. Nel Master Discografico, nel mese di maggio, a fine anno accademico, tutti gli allievi vengono ascoltati dalle major discografiche e dagli A&R della Radiofonia Italiana. Gli allievi, attraverso un percorso formativo di laboratori incentrati sul “Song Writing” per la scrittura della musica e del testo e i laboratori di “Stile e Tecnica Vocale” arrivano a concretizzare un progetto proprio e autentico, fatto di grande personalità. La MM LINE prepara ogni artista al campo di battaglia che è il settore discografico, quindi diciamo che questa realtà è una specie di esercito militare che istruisce e prepara i ragazzi ad un tipo di lavoro e settore che non hanno mai affrontato in vita loro Grandi risultati già da quest’anno con la nascita di preziosissimi inediti, scritti dai ragazzi da soli e più mani, nel segno del grande senso collaborativo necessario in ogni progetto musicale. Maria Totaro, manager della MMLINEPRODUCTION, main brain di tutto il concept artistico, ne decide la scelta, la realizzazione e l’uscita, avvalendosi della struttura promozionale della sua stessa società e di un pool esterno di collaboratori, per la miglior diffusione su tutte le piattaforme digitali, comunicazione stampa e web. Inoltre i ragazzi più pronti firmano un contratto discografico è iniziano un percorso di produzione con la MM LINE PRODUCTION RECORDS che sotto la supervisione e la parte esecutiva della loro produttrice iniziano a fare i primi passi nella discografia. Attualmente Thomas, uno degli artisti firmati sotto produzione discografica dalla MMLINE è nel programma di AMICI di Maria De Filippi. Fernando Filomena

Talenti di Avetrana nel panorama discografico nazionale. I due cantautori avetranesi si sono affidati per la produzione di questo primo singolo al produttore, compositore e polistrumentista Leo Ferrara, anche lui di Avetrana, scrive giovedì 03 agosto 2017 La Voce di Manduria. In veste di autori hanno già portato a casa un disco d’oro grazie ai brani composti per Thomas di Amici, ora Anthony e Vittorio Conte entrambi di Avetrana, debuttano con il loro primo singolo intitolato “Faccio senza di te” in uscita il 28 luglio con distribuzione Warner Music Italia. I due cantautori avetranesi si sono affidati per la produzione di questo primo singolo al produttore, compositore e polistrumentista Leo Ferrara, anche lui di Avetrana, che dopo innumerevoli collaborazioni con importanti artisti all’estero, ha deciso con entusiasmo di mettere a disposizione la sua indiscussa professionalità in questo progetto.

Ecco come descrivono la canzone. “Faccio senza di te è un brano ibrido che unisce il pop ad alcune sfumature della musica rap. Nella canzone si nascondono dei messaggi che raccontano tra parole e immagini i viaggi mentali che un semplice essere umano, quando sta soffrendo per amore, riesce a compiere arrivando al punto di riuscire a distorcere la realtà dividendosi in tre parti: quella artistica, che può dare il via alle nostre paure ed illusioni, quella distratta ed offuscata dalle sensazioni positive e, infine, quella frustrata e consapevole che a volte è troppo tardi per scappare o reagire alla tentazioni”. Faccio senza di teesce con distribuzione Warner Music Italia e sotto la supervisione del produttore esecutivo del progetto, Maria Totaro originaria di Avetrana per MM Line Production

Anthony & Vittorio Conte: “Foglie Di Un Tempo” è il nuovo singolo e video, scrive il 7 aprile 2018 La Voce di Maruggio".  Dalla metà di marzo 2018 è in rotazione radiofonica “FOGLIE DI UN TEMPO” (MM LineProduction Records / Universal Music Italia), nuovo singolo dei cantautori ANTHONY & VITTORIO CONTE estratto dall’album d’esordio in uscita in primavera. “FOGLIE DI UN TEMPO”, scritto e composto interamente dagli stessi Anthony e Vittorio Conte, è un brano che attraverso un testo indiretto e non esplicito affronta una tematica particolarmente delicata: la violenza sui minori. I due autori raccontano infatti, ispirandosi ad una storia realmente accaduta ad una persona a loro cara, di un doloroso passato che nonostante lo scorrere del tempo non può essere dimenticato ma riaffiora quotidianamente, frammento dopo frammento. Il brano, prodotto e arrangiato da Alex Trecarichi, si caratterizza per una sonorità pop coinvolgente. «“Foglie di un tempo” è un brano tratto da una storia vera – raccontano Anthony e Vittorio Conte – abbiamo voluto parlare di un argomento controverso e delicato, come la violenza sui minori. Il nostro intento è stato quello di raccontare questa storia in maniera piuttosto particolare, ovvero attraverso due prospettive differenti: quella del carnefice e quella della vittima. Per chi subisce inevitabilmente il passato riemerge quotidianamente, si rimane intrappolati in un limbo. Anche quando pensi di aver superato quel momento, questo si ripresenta, attraverso i ricordi, facendoti rivivere tutto come un Déjà vu». Anthony e Vittorio Conte sono due fratelli, rispettivamente nati a Manduria (TA) e a Bordighera (IM), classe 1993 e1990 da genitori originari di Avetrana Dopo la pubblicazione di due album da parte di Vittorio, dai titoli “Sogno e realtà” (2008) e “Sono solo briciole” (2012), da circa due anni i fratelli Conte hanno deciso di formare un duo. Inizialmente per il progetto sono stati seguiti dal noto produttore discografico Piero Calabrese (produttore di artisti del calibro di Marco Mengoni, Giorgia, Alex Baroni). Oltre ad essere autori e compositori dei propri testi, Anthony e Vittorio hanno rispettivamente scritto e composto brani per altri artisti già conosciuti nel panorama discografico italiano, come ad esempio Thomas per l’album “Oggi più che mai” (distribuito da Warner Music Italy), pubblicato lo scorso maggio del 2017, disco d’oro in meno di due settimane e vincitore del Premio Lunezia. Il 28 luglio 2017 hanno pubblicato il loro primo singolo insieme, “Faccio senza di te”, brano distribuito da Warner Music Italy e che ha ottenuto in pochi giorni un numero piuttosto elevato di visualizzazioni. Attualmente Anthony e Vittorio Conte, seguiti dal produttore esecutivo e manager Maria Totaro dell’etichetta discografica MM LineProduction Records, stanno lavorando al loro album d’esordio, distribuito da Universal Music Italia, che da aprile è disponibile nei negozi tradizionali, in digital download e su tutte le piattaforme streaming.

Area Sanremo 2018: tra i finalisti Anthony & Vittorio Conte, con origini di Maruggio e Avetrana, scrive il 2 novembre 2018 "La Voce di Maruggio". Sono stati resi noti i finalisti di Area Sanremo 2018 Tim. I 225 artisti che saranno ascoltati l’8, 9 e 10 novembre prossimo dalla commissione artistica composta dal Presidente di Commissione Antonio Vandoni (Direttore artistico musicale di Radio Italia), Maestro Enzo Campagnoli (Direttore D’orchestra), Sergio Cerruti (Presidente dell’AFI), Michele Torpedine (Produttore), Gianni Testa (produttore discografico), Monia Russo (Cantante) e Maurillo Giordana (Dj radiofonico) nel ruolo di supplente. Il compito della commissione di Area Sanremo Tim sarà ora quello di individuare i 24 artisti da sottoporre al giudizio della Commissione Artistica del Festival di Sanremo che sceglierà chi entrerà nel cast di Sanremo Giovani 2019. Tra i concorrenti due volti e voci a noi familiari sono quelli dei fratelli Anthony & Vittorio Conte con sangue maruggese e avetranese. I due artisti presenteranno un brano indiretto ma profondo, dedicato ad un giovane maruggese scomparso in un incidente in moto molti anni fa, Emanuele De Pace, che aveva fondato un gruppo musicale “Le Stelle del Sud”. Il testo al momento è top secret, per motivi di regolamento non può essere reso noto. La primavera scorsa hanno inciso un disco Foglie di un tempo scritto e composto interamente dai fratelli Conte che, colpiti da una storia realmente accaduta ad una persona a loro molto cara, decidono di affrontare il tema delicato della violenza sui minori da un doppio punto di vista… quello della vittima e quello del carnefice. Quello che ne viene fuori è un testo indiretto, non esplicito, che mette al centro le sensazioni e i disagi che una violenza di questo tipo lascia su chi ne è vittima, un dolore che il tempo non può curare ma che quotidianamente riaffiora nella mente di chi questa violenza l’ha subita. “Foglie di un tempo è un brano tratto da una storia vera. Abbiamo voluto parlare di un argomento controverso e delicato, come la violenza sui minori. Il nostro intento è stato quello di raccontare questa storia in maniera piuttosto particolare, ovvero attraverso due prospettive differenti: quella del carnefice e quella della vittima. Per chi subisce inevitabilmente il passato riemerge quotidianamente, si rimane intrappolati in un limbo. Anche quando pensi di aver superato quel momento, questo si ripresenta, attraverso i ricordi, facendoti rivivere tutto come un Déjà vu. Per la realizzazione del video di “Foglie di un tempo” ci siamo lasciati ispirare dalle nostre sensazioni e dall’istinto per poter dar vita attraverso le immagini a tutto quello che le nostre menti avevano immaginato”.

Un colonnello della Guardia di Finanza giudicherà i giovani per Sanremo: è di Avetrana. Selezionerà la rosa dei 24 vincitori da sottoporre al giudizio della commissione Rai per l’ingresso ufficiale nel cast di Sanremo Giovani che quest’anno sarà affidato a Pippo Baudo e Fabio Rovazzi, scrive Nazareno Dinoi giovedì 08 novembre 2018 su La Voce di Manduria. E’ di Avetrana uno dei componenti della commissione da cui dipenderà il futuro artistico di tantissimi giovani cantanti che, provenienti da tutta Italia, aspirano a calcare il grande palco di Sanremo. Il colonnello Leonardo Laserra Ingrosso, direttore della banda musicale della Guardia di Finanza, farà parte della giuria di esperti che nel prossimo weekend selezionerà 225 finalisti di «Area Sanremo», il talent riservato alle giovani proposte con il sogno di partecipare al più importante festival della canzone italiana. Da oggi 8 novembre sino a sabato 10 compreso, l’ufficiale delle Fiamme Gialle occuperà la cattedra dei selezionatori assieme a Antonio Vandoni (direttore artistico musicale di Radio Italia), Enzo Campagnoli (direttore d’orchestra), Sergio Cerruti (presidente dell’Afi), Monia Russo (cantante), Gianni Testa (produttore discografico) e Maurilio Giordana (DJ radiofonico). I sei giurati selezioneranno la rosa dei 24 vincitori da sottoporre al giudizio della commissione Rai per l’ingresso ufficiale nel cast di Sanremo Giovani che quest’anno sarà affidato a Pippo Baudo e Fabio Rovazzi. A volere la presenza del colonnello avetranese nella città dei fiori, è stato direttamente il presidente della Fondazione Orchestra Sinfonica di Sanremo, Maurizio Caridi, che gli ha scritto personalmente una lettera. «Avendo urgente bisogno di una figura di comprovata capacità ed esperienza nel settore artistico musicale – si legge – e avendo Lei già in passato partecipato con notevole soddisfazione alle commissioni del concorso, avrei piacere di averLa come componente della stessa per la nostra importante fase finale». Il militare che vive a Roma ma che non ha mai sciolto i legami con la sua terra dove torna ogni volta che l’intensa attività istituzionale e artistica glielo consente, è un veterano delle selezioni. E’ stato giurato di importanti concorsi nazionali e internazionali tra i quali il Concorso Internazionale di Composizioni Originali per Banda di Novi Ligure e, dal 2004 al 2007, ha fatto parte della commissione di selezione dei candidati provenienti dall’Accademia della Canzone per lo stesso Festival di Sanremo. Nato ad Avetrana 55 anni fa, il colonnello Leonardo Laserra Ingrosso ha compiuto gli studi musicali contemporaneamente a quelli universitari diplomandosi in Musica Corale e Direzione di Coro presso il Conservatorio “Gioacchino Rossini” di Pesaro, in Composizione presso il Conservatorio “Niccolò Piccinni” di Bari, in Strumentazione per Banda e Direzione d’Orchestra presso il Conservatorio “Alfredo Casella” dell’Aquila. Dal 1991 al 1996 è stato docente di Composizione al Liceo Musicale “Giovanni Paisiello” di Taranto. Vincitore del Concorso Nazionale per l’insegnamento di Armonia e Contrappunto nei Conservatori di Musica di Stato, nel 2002 è diventato Maestro Direttore della Banda Musicale della Guardia di Finanza.

Avetranesi nel mondo: Maestro, Tenente Colonnello Leonardo Laserra Ingrosso, scrive il 21 maggio 2017 "La Voce di Maruggio". Leonardo Laserra Ingrosso, nato ad Avetrana, in provincia di Taranto, ha compiuto gli studi musicali contemporaneamente a quelli universitari, diplomandosi in Musica Corale e Direzione di Coro presso il Conservatorio “Gioacchino Rossini” di Pesaro, in Composizione presso il Conservatorio “Niccolò Piccinni” di Bari, in Strumentazione per Banda e Direzione d’Orchestra presso il Conservatorio “Alfredo Casella” dell’Aquila. Dal 1991 al 1996 è stato docente di Composizione al Liceo Musicale “Giovanni Paisiello” di Taranto e si è esibito più volte come direttore e pianista accompagnatore in formazioni musicali di vario tipo. Vincitore del Concorso Nazionale per l’insegnamento di Armonia e Contrappunto nei Conservatori di Musica di Stato, nel 2002 diventa Maestro Direttore della Banda Musicale della Guardia di Finanza. È regolarmente invitato come giurato a importanti concorsi nazionali e internazionali, tra cui il Concorso Internazionale di Composizioni Originali per Banda di Novi Ligure, e dal 2004 al 2007 ha fatto parte della commissione di selezione dei candidati provenienti dall’Accademia della Canzone per il Festival di Sanremo. Nel luglio 2006 ha eseguito una serie di concerti negli Stati Uniti come direttore ospite della Atlantic Brass Band del New Jersey. La Banda Musicale della Guardia di Finanza nasce ufficialmente nel 1926, riunendo in un’unica compagine strumentale le diverse fanfare che fin dal 1883 erano state istituite presso molti reparti del Corpo. Attualmente è un complesso artistico stabile composto da 102 elementi, provenienti dai diversi conservatori italiani e accuratamente selezionati tramite concorso nazionale. Durante la sua lunga e intensa attività concertistica, la Banda si è esibita presso le più prestigiose istituzioni musicali italiane, quali l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, la Scala di Milano, il San Carlo di Napoli, il Teatro dell’Opera di Roma, il Massimo di Palermo e la Fenice di Venezia. Storici i concerti che per anni ha tenuto nella basilica di Massenzio a Roma. Nel 2007 e nel 2008 le sue esibizioni sono state inserite nel cartellone del Festival verdiano di Parma. La Banda del Corpo ha più volte collaborato con alcune delle più affermate orchestre sinfoniche italiane e internazionali, come quella della RAI di Roma, quella del Maggio Musicale Fiorentino – con la quale nel 1991 si è esibita in mondovisione in un concerto diretto da Zubin Metha – e quella del Festival dei 2Mondi di Spoleto, con la quale, assieme al Coro di Washington, ha partecipato nel 1993 al concerto di chiusura del Festival – anch’esso trasmesso in mondovisione – sotto la direzione di Steven Mercurio. La Banda ha effettuato numerose e fortunate tournée all’estero, in Germania, Lussemburgo, Svizzera, Belgio e Francia. Nel 2001, 2002 e 2007 è stata invitata a New York in occasione delle celebrazioni per il Columbus Day, durante le quali, nel 2002, ha tenuto un applauditissimo concerto a Ground Zero, luogo simbolo della coscienza nazionale americana, nel quale fino ad allora si era esibita la sola Boston Symphony Orchestra. Nel novembre 2005 ha raccolto uno straordinario successo ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, tenendo un concerto alla presenza delle più alte cariche dello Stato emiratino. Le doti di fusione, la qualità del suono e la sensibilità interpretativa rendono il Complesso uno dei più prestigiosi a livello internazionale e gli assicurano il costante successo di pubblico e di critica. Il suo vasto repertorio, comprendente brani originali e trascrizioni, spazia dalla musica antica a quella contemporanea e può considerarsi tra i più significativi e completi in materia. Dal 16 Aprile 2002, la Banda Musicale della Guardia di Finanza è diretta dal Maestro, Tenente Colonnello Leonardo Laserra Ingrosso.

Avetranesi nel Mondo: Leonardo Nigro, attore sempre più ricercato dai registi italiani ed esteri, scrive Salvatore Cosma il 19 maggio 2017 su La Voce di Maruggio. Un talento avetranese tra i personaggi del cinema italiano ed estero. E’ uno dei più ricercati attori della generazione più giovane. Leonardo Nigro, figlio di genitori immigrati a Zurigo, nato 43 anni fa ad Avetrana, paese che porta nel cuore, al quale sono legati i suoi ricordi più cari della sua infanzia, dove ci ritorna appena gli impegni di lavoro glielo consentono. “Ho la doppia cittadinanza italo-svizzera, – ci racconta l’attore – i miei sono emigrati da Avetrana negli anni sessanta a Zurigo, mia madre per il parto tornò ad Avetrana dove tra l’altro c’era mia sorella che viveva con i miei nonni. Dopo sei mesi – continua Leonardo – ci siamo trasferiti in Svizzera, dove ci aspettava mio padre che faceva il muratore”. Mi sento italiano anche se sono cresciuto in Svizzera.” La sua passione per il “mestiere” di attore nasce alla Missione Cattolica Italiana di Zurigo, ancora piccolo all’età di cinque anni, ha iniziato a recitare imparando i testi con l’aiuto della mamma. Dopo la maturità ha frequentato le scuole di recitazione a Berlino per cinque anni e nel 2005 è rientrato a Zurigo.  “Quando mi propongono un nuovo personaggio, – racconta l’artista – credo che la base di tutto sia la sceneggiatura: se leggendola ho delle immagini ben precise di come dovrò recitarlo significa che sono sulla strada giusta.” L’attore ha calcato le scene teatrali di Basilea, Berlino, Amburgo e Dresda. Ha interpretato ruoli importanti, in sceneggiati televisivi e opere cinematografiche sia in lingua tedesca che italiana. Ha anche rivestito il ruolo di Antonio da giovane, personaggio interpretato da Lino Banfi, nel film Italo-tedesco “Maria, ihm schmeckt’s nicht!” (Indovina chi sposa mia figlia!), commedia del 2009 diretta da Neele Vollmar e mandata in onda su Rete 4 di Mediaset lo scorso giugno. Ultimo, nel personaggio di Fantinari nel film-commedia di Antonio Morabito “Rimetti a noi i nostri debiti” al fianco di Claudio Santamaria, Marco Giallini, Jerzy Stuhr, Flonja Kodheli, Agnieszka Zulewska. Leonardo che ha ricevuto diversi premi tra cui “il Salento Award” nel 2012, per lui che si definisce salentino doc è un importante riconoscimento dato dalla sua Terra natale. Al suo attivo una importante nomination nel 2016 al Swiss Film Award 2016: «Miglior attore non protagonista».  Per il suo ruolo di padre disoccupato in ORO VERDE, Leonardo Nigro ha vinto il Premio del film della televisione svizzera Swissperform come miglior attore non protagonista. “Leonardo Nigro esplora in modo convincente ma anche pieno di humour la difficile situazione di un padre di famiglia divorziato e disoccupato che si arrabatta come può per soddisfare tutti.” Nel 2009 è Igor in “Sinestesia” di Erik Bernasconi, per la cui interpretazione riceve numerosi riconoscimenti. Leonardo Nigro vanta esperienze cinematografiche anche in Italia con i “Big” del nostro cinema tra cui Lino Banfi, Alessio Boni, Marco Giallini e Claudio Santamaria, ma siamo convinti che presto lo vedremo alle prese con nuovi personaggi con l’orgoglio fiero e la passione della terra natia: Avetrana.

Avvocato di Avetrana è Maria Pia Scarciglia, figlia di Giuseppe (Pino) Scarciglia, noto attivista socialista locale e noto come consigliere ed assessore comunale, oltre che promotore del comitato no depuratore Ulmo.

Giovedì 12 Maggio 2016 dal palco del Primo Maggio a Taranto Maria Pia Scarciglia, presidente di Antigone Puglia, è intervenuta parlando di carceri (e non solo). Lei che ne conosce bene l’aspetto sociale, avendo subite dolorose traversie.

Centro sociale perquisito. Due arresti, scrive Venerdì, 26/05/2006 da Bologna Il Giornale. Due arresti e quattro denunce, insieme al sequestro di diverse sostanze stupefacenti: hashish, marijuana, ecstasy e altre droghe sintetiche. È questo il bilancio delle perquisizioni effettuate ieri dai carabinieri di Bologna, e disposte dal pm Paolo Giovagnoli, nelle due sedi Livello 57, il centro sociale che organizza la Street Rave Parade: la parata antiproibizionista al centro delle polemiche che dovrebbe svolgersi a Bologna il primo luglio. In manette sono finiti il 30enne Sebastien Gianoglio, francese ma domiciliato a Bologna, trovato «in possesso di 10 pastiglie di ecstasy e di munizionamento per armi da guerra e comuni da sparo» e la 32enne Maria Pia Scarciglia, patrocinatore legale nata a Taranto ma residente a Bologna, «trovata in possesso di circa 514 grammi di hashish».  Sequestrati inoltre 14 personal computer, «tuttora all'esame degli inquirenti». Denunciate, inoltre, altre quattro persone, trovate in possesso di sostanze stupefacenti. Il blitz era scattato in mattinata dopo che le indagini condotte nei mesi scorsi avevano portato alla luce «l'illecita diffusione, lo spaccio e l'uso di droghe all'interno dei locali del Livello 57», vendute «in occasione di spettacoli, feste e raduni ad avventori occasionali ed abituali». In questi giorni, tra il centro sociale e l'amministrazione comunale, è in corso un duro braccio di ferro proprio sulla parata antiproibizionista del primo luglio, che il sindaco di Bologna Sergio Cofferati vorrebbe «stanziale» per evitare danni alla città e lamentele dei cittadini.

Droga in centro sociale, giovane condannata a 2 anni e 8 mesi, scrive il 6 giugno 2006 Romagnaoggi. Nel corso di un blitz dei carabinieri nel centro sociale Livello 57 di Bologna aveva cercato di disfarsi di tre panetti di hashish per un totale di 514 grammi. Oggi la praticante legale Maria Pia Scarciglia, la ragazza di 32 anni di Manduria (Taranto) arrestata dai carabinieri del Reparto operativo di Bologna lo scorso 25 maggio, e' stata condannata a 2 anni e 8 mesi di reclusione dal giudice monocratico di Bologna, Stefano Marinelli. Il pm d'udienza Paolo Giovagnoli aveva chiesto 6 anni, ma la pena (da scontare ai domiciliari) si e' ridotta sia per la scelta del rito abbreviato che per le attenuanti generiche concesse alla ragazza difesa dall'avvocato Rossano Parasido che nell'udienza del 26 maggio scorso aveva chiesto la scarcerazione e in subordine i domiciliari. In quel caso il processo era stato rinviato a oggi perchè il legale aveva chiesto i termini a difesa. In carcere con l'accusa di detenzione di droga ai fini di spaccio erano finiti Sebastien Gianoglio, nato a Tolosa (Francia), 31 anni, ma domiciliato a Bologna nei locali del centro sociale, già noto alle forze dell'ordine. Lui era stato trovato con 10 pastiglie di ecstasy e con munizionamento per armi da guerra e comuni da sparo, reato per il quale era stato denunciato. Al processo del giorno dopo era stato scarcerato, ma con l'obbligo di andare via da Bologna perchè gli era stato notificato il foglio di via obbligatorio. In totale, nel corso del blitz, erano stati recuperati complessivamente 514 grammi circa di hashish; 14 pastiglie di ecstasy; 6 piantine di marijuana; 35 pastiglie di ''subutex'', 2 grammi di cocaina e altri piccoli quantitativi di hashish e marijuana. Sequestrati inoltre un frigorifero opportunamente modificato (lampade ad incandescenza, ventilatori e timer) per fare da mini serra per la coltivazione di marijuana; materiale per il confezionamento di stupefacente; munizionamento da guerra; 14 computer ora all'esame degli inquirenti.

Solidarietà per la Scarciglia e per il Centro Sociale Livello 57!!! Scrive il 24 novembre 2006 Buco1996. Lo scorso 25 luglio, come molti ricorderanno in prossimità della street-parade antiproibizionista a Bologna, il centro sociale Livello 57 fu chiuso dopo un’irruzione da parte delle forze dell’ordine. Il tutto, proprio in una città governata dall’Unione, dove molti sono stati i contrasti sui temi della sicurezza e della legalità. Ancora oggi è aperta la vicenda di Maria Pia Scarciglia, la legale del Livello 57 condannata, il 30 maggio, a 2 anni e 8 mesi per detenzione di stupefacenti in seguito all’irruzione al centro sociale avvenuta il 25 luglio. Adesso Maria Pia è agli arresti domiciliari e la scarcerazione è stata negata perché, secondo il giudice, Maria Pia non era spinta da ragioni contingenti ma “convinzioni ideologiche legate all’antiproibizionismo delle droghe leggere”, un vero e proprio reato d’opinione. Il 17 gennaio 2007 ci sarà l’appello, ma nei prossimi giorni il giudice della corte d’appello dovrebbe decidere se trasformare i domiciliari in carcere regolare, perché Maria Pia è stata trovata fuori casa, mentre stava telefonando, 30 minuti prima dell’ora stabilita da un permesso regolarmente concesso dal giudice. Nel frattempo il centro sociale Livello 57 rimane chiuso, più volte il pm Paolo Giovagnoli ha negato l’autorizzazione a rientrare, solo il 23 ottobre scorso è stato concesso, ai ragazzi, di prendere alcuni oggetti personali e quest’ultimi hanno notato diversi segni di vandalismo avvenuti in seguito all’irruzione, ciò a dimostrazione che non sono le occupazioni che creano degrado ma, la polizia. Lo stabile, adesso, è stato assegnato al comune, nonostante Sergio Cofferati (autore di questo “piano”) abbia assicurato di non voler interferire, prima della fine delle indagini e dei processi, nei mesi scorsi, intanto, ha fatto arrivare la richiesta del comune di pagare l’affitto…Se il buon giorno si vede dal mattino, allora c’è da preoccuparsi.

Droga al Livello, avvocatessa assolta, scrive Luigi Spezia il 18 gennaio 2007 su "La Repubblica". Per nove mesi tagliata fuori dal mondo, dalle amicizie, dalla professione e ieri assolta dalla Corte d' Appello. Maria Pia Scarciglia, praticante legale, ha festeggiato «la fine di un incubo. Credo di essere stata una delle primissime persone a subire gli effetti della legge Fini-Giovanardi, che noi contestiamo. Una legge sbagliata che ho subìto sulla mia pelle, sono stata una vittima prediletta». Maria Pia, una bella ragazza alta e bionda, era stata arrestata il 25 maggio scorso, dieci ore dopo il blitz dei carabinieri al Livello 57, il centro sociale bolognese antiproibizionista depositario del marchio della «Street rave parade». Un' assoluzione - spiegano gli avvocati Marcello Petrelli e Rossano Parasido - per non aver commesso il fatto, con il 530 secondo comma, la vecchia insufficienza di prove. In primo grado era stata condannata con il rito abbreviato a due anni e otto mesi, ma il pm Poalo Giovagnoli ne aveva chiesti quattro. Al processo di appello, invece, è stato addirittura il sostituto procuratore generale Mauro Monti a chiedere l'assoluzione, perché le prove appaiono contradditorie. «Ringrazio il dottor Monti - dice una entusiasta Maria Pia - mi ha fatto un bellissimo regalo insieme ai giudici che mi hanno assolto. Sono felicissima, posso finalmente tornare a vivere, riprendere la mia professione, continuare a occuparmi di riduzione del danno in tema di stupefacenti. Credo che accetterò di lavorare per Forum Droghe, che si occupa di difesa dei diritti dei consumatori». Per il Livello 57 «è crollato il teorema del delirio». Maria Pia Scarciglia era accusata di aver gettato dalla finestra della sede del Livello mezzo chilo di hascisc, che un cane antidroga ha trovato sotto un'automobile. Era stato un maresciallo a testimoniare contro di lei. «Ha anche detto di avermi vista, dopo essere scesa fuori, nascondere la droga ancora meglio sotto l'auto. Io la chiamo "suggestione investigativa": si è stabilito infatti che dalla posizione in cui si trovava non poteva vedere i miei piedi. Ma se mi aveva visto così bene, perché mi hanno arrestata solo dopo dieci ore?». La contradditorietà delle prove contro la legale del Livello la spiega l'avvocato Petrelli: «Da un lato il progetto dei carabinieri era quello di aspettare ad eseguire l'arresto per vedere chi sarebbe ritornato a prendere quella droga gettata da qualcuno durante il blitz, mentre da un altro viene detto che il ritrovamento dell'hascisc è stato casuale, eseguito da un cane antidroga. Appare una ricostruzione decisa a posteriori, in caserma». Il Tribunale, presieduto dal giudice Salvatore Guarino, ha dato ragione alla difesa e Maria Pia è tornata libera dopo i nove mesi di arresti a Manduria, provincia di Taranto, con il permesso di lavorare in un negozio di ottica. «Sei mesi dopo la condanna - racconta - ho fatto ricorso al Tribunale del Riesame per tornare libera. Hanno respinto la mia richiesta affermando che, siccome sono una antiproibizionista, ero pericolosa, potevo reiterare il reato. Una decisione che mi ha fatto più dispiacere della condanna di primo grado, perché avevo fiducia in questo Tribunale». La praticante legale, che per il Livello ha curato anche la stesura della convenzione con il Comune, dice di essere ancora «incazzata dura» per la sua sventura giudiziaria, costretta a chiudersi in casa dei genitori in un paese «dove tutti hanno saputo». Riconferma che tornerà a lavorare per il Livello, per le sue scelte antiproibizioniste e di "riduzione del danno", «che per me significa anzitutto l'affermazione che le sostanze stupefacenti sono nocive». Sull' inchiesta che riguarda tutto il centro sociale, dice solo: «Non ho potuto vedere le carte, ma le accuse mi sembrano un po' vaghe. Se in una festa ragazzi si drogano, è colpa dei gestori?. Vedremo come finisce la storia».

A BOLOGNA LA RIVINCITA DELLA GIUSTIZIA. Scrive il 31 gennaio 2007 Fuoriluogo. La vicenda del Livello 57 a Bologna si è dipanata lungo tutto il 2006 come un intreccio perverso tra vari piani convergenti, quello mediatico, quello politico e quello giudiziario. Questo pasticciaccio brutto di via Stalingrado è stato costruito con l’utilizzo spregiudicato delle norme più repressive della legge sulle droghe, dall’uso degli infiltrati come agenti provocatori all’esaltazione dell’art. 79 del dpr. 309/90 riveduto e aggravato dalla legge Fini-Giovanardi che punisce l’agevolazione all’uso di sostanze stupefacenti in un locale pubblico o un circolo privato con la reclusione da tre a dieci anni. Dalla magistratura “progressista” di Bologna e dal mondo della politica e degli intellettuali ci si sarebbe aspettati la denuncia e la contestazione della legge più proibizionista d’Europa. Invece, non solo si è assistito a un silenzio assordante e imbarazzante, ma addirittura se ne è fatto un implicito elogio. Il clima da inquisizione non si è fermato alla chiusura di un punto di aggregazione giovanile caratterizzato da una costante e riconosciuta azione per interventi di politica di riduzione del danno verso i giovani consumatori di sostanze stupefacenti, ma si è dispiegato in vari atti della magistratura. Nello scorso settembre in una conferenza stampa di Forum Droghe e dell’Mdma, denunciammo le aberranti tesi ideologiche espresse dal tribunale di Sorveglianza nelle motivazioni del rigetto di una istanza di sostituzione della misura degli arresti domiciliari per un’imputata con una meno afflittiva: si teorizzava la necessità di produrre effetti deterrenti «a maggior ragione su persona che abbia agito non già sotto la spinta di ragioni contingenti ma per convinzioni ideologiche legate all’antiproibizionismo delle droghe leggere» (sic!). Quella persona era Maria Pia Scarciglia, praticante legale e collaboratrice di Fuoriluogo proprio per fornire assistenza e informazione a tanti giovani perseguitati dalla legge. La condanna a due anni e otto mesi per spaccio presunto in primo grado nel maggio scorso è stata ribaltata in appello. Chi era presente il 17 gennaio nel Palazzo di Giustizia di Bologna ha vissuto una giornata indimenticabile. Si è capito il significato profondo dell’invocazione piena di speranza e fiducia «ci sarà un giudice a Berlino». È un bene che la costruzione del castello accusatorio sia stata superata proprio grazie alla netta presa di posizione del sostituto procuratore generale Mario Monti, il quale ha sostenuto che nel processo penale non ci si può fondare sul pregiudizio. I dubbi sulla ricostruzione del fatto, le contraddizioni e le incongruenze messe in luce dalla difesa hanno portato a una sentenza che ha ristabilito la fiducia nella giustizia. Speriamo che questa decisione faccia riflettere i troppi cultori di teoremi fuori tempo. È comunque assai triste che esponenti di Magistratura Democratica siano additati come forcaioli. Prima che alcuni mozzorecchi del diritto facciano altri guasti ci aspettiamo che Giovanni Palombarini, citiamo lui per tutti, prenda la parola per fermare i guasti culturali dell’intolleranza.

Vivere in un carcere: il doppio dramma della condizione delle donne detenute. Antigone è l'associazione che si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. La delegazione leccese ha effettuato, dopo un anno a mezzo, una visita a Borgo San Nicola: migliorato il dato sul sovraffollamento. Intervista alla responsabile, scrive Gabriele De Giorgi il 6 maggio 2014 su Lecce Prima. I detenuti, a Lecce come in tutte le carceri italiane, vivono una condizione che più volte, da osservatori indipendenti ma anche dagli organismi di vigilanza dell’Unione Europea, è stata definita disumana e degradante. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ancora una settimana addietro chiedeva alle istituzioni di fare il punto della situazione. L’Italia ha tempo fino al 27 maggio per presentare alla Corte di giustizia di Strasburgo le soluzioni individuate per migliorare il sistema detentivo. LeccePrima ha intervistato Maria Pia Scarciglia, responsabile per Lecce e Taranto dell’associazione Antigone – per i diritti e le garanzie nel sistema penale – che opera su tutto il territorio nazionale e membro dell'Osservatorio sulle condizioni delle carceri. Una delegazione ha infatti effettuato nelle scorse settimane una visita a Borgo San Nicola, diretta da Antonio Fullone.

Qual è il bilancio dell’ultima visita al penitenziario?

«L’Osservatorio di Antigone aveva effettuato l’ultima visita nella casa circondariale di Lecce nel settembre 2012 ed aveva trovato una situazione molto critica sul piano della vivibilità visto che i detenuti all’epoca erano circa 1290. Il sovraffollamento li costringeva a stare in tre in una cella di soli 10,5 metri quadrati.  Oggi invece i detenuti presenti a Borgo San Nicola sono sotto i 1123 di cui 1038 uomini e 85 donne e nelle celle ci sono al massimo due persone, in alcune anche una. Inoltre abbiamo potuto notare che la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sulle cosiddette celle aperte è stata prontamente applicata quasi in tutte le sezioni del carcere leccese, fatta eccezione per il circuito dell’alta sicurezza. Devo dire che l’attività dell’osservatorio quest’anno si sta concentrando molto sulla applicazione della predetta circolare, un provvedimento che sollecita tutti gli istituti di pena a non circoscrivere i detenuti in una gabbia chiusa, ma consente libertà di movimento all’interno del padiglione. A Lecce le celle sono aperte in alcune sezioni dalle ore 08.40 alle ore 11.45 dalle ore 13.00 alle 14.50 dalle 15.00 alle 18.10. Questo accade in tutto il blocco R1 e nella sezione dei dimittendi e di transito. Il sistema appena descritto incide positivamente sulla vita del detenuto e dell’intera struttura detentiva che al di là delle iniziali resistenze, in particolare da parte degli agenti, si sta abituando gradualmente a questa piccola rivoluzione. I detenuti grazie a questo regime hanno maggiore libertà di movimento, perché possono circolare nei corridoi e passare il tempo in delle stanze definite di socialità. A nostro parere occorrerebbe lavorare di più proprio sugli spazi comuni, luoghi dove i detenuti possono riunirsi per parlare o fare attività ma che allo stato, sono poco sfruttati e privi di modalità di vera interazione. Il carcere di Lecce non ha all’interno delle sezioni un luogo deputato al consumo di cibo che viene somministrato dalla mensa interna e consumato dentro le celle. Questo impedisce ai detenuti di socializzare e condividere un momento importante della giornata quale è il pranzo o la cena. Altra proposta è quella di creare all’interno di ogni sezione una cucina spazio fondamentale dove favorire socialità, ma anche creatività soprattutto se pensiamo alle donne».

La cancellazione della Fini-Giovanardi, in che misura può incidere sul sovraffollamento?

«I detenuti presenti nelle carceri italiane per violazione della legge sulla droga erano a fine 2012 25mila 269, il 38,46 per cento del totale. Il dato che più impressionava era quello dei denunciati per cannabis, pari a circa il 42 per cento. Ora abbiamo stimato che saranno oltre 20mila i detenuti interessati dall’abrogazione della legge Fini, in particolare quelli condannati per le droghe leggere: coloro che lo sono stati in maniera definitiva possono chiedere alla Procura un incidente di esecuzione. Si tratterà di uno sconto di pena notevole considerato che la nuova legge ne prevede una, in regime di detenzione, da 2 a 6 anni per cannabis. Nulla a che fare insomma con le pene draconiane previste dalle legge Fini Giovanardi: dai 6 a 20 anni di reclusione per tutte le sostanze. Finalmente è stato posto uno stop a quella scellerata e criminogena legge che era la Fini Giovanardi colpevole di avere fatto salire vertiginosamente il numero dei consumatori detenuti che per pochi grammi finivano nel circuito carcerario anche se incensurati».

Altra zavorra è quella dei tempi giudiziari. Quanti sono a Lecce i detenuti in attesa di giudizio?

«Dai dati a nostra disposizione 197 sono i giudicabili, 138 gli appellanti e 127 i ricorrenti».

Una delle criticità riguarda la condizione femminile in carcere. Com’è la situazione a Lecce?

«Le donne al momento della visita erano 85 di cui 16 straniere. La sezione femminile a Lecce è piuttosto piccola, perché l’istituto era stato pensato solo per gli uomini.  Le celle sono aperte quasi tutto il giorno e non appena termineranno di installare le telecamere gli orari di apertura saranno uguali alla sezione a trattamento avanzato. La giornata è scandita da orari e da attività. Nella sezione femminile vi è la scuola primaria e la scuola secondaria. Al momento sono attivi i seguenti corsi: Street art e il progetto Orti Verticali. Vi è poi la sartoria dove lavorano appena 7 donne. Il problema della formazione al lavoro è serio e i recenti tagli alla spesa dell’amministrazione penitenziaria pesano non poco se si pensa che tra gli obiettivi della pena detentiva vi è il reinserimento sociale della persona detenuta. La donna per natura ha un modo differente di vivere la reclusione e basta visitare un reparto maschile ed uno femminile per capirne le differenze. Il carcere non è per le donne e questo sistema carcerario ancora meno. La donna detenuta nella maggior parte dei casi è moglie e madre. I sensi di colpa delle madri detenute non hanno eguali e il distacco dai figli è uno degli aspetti più drammatici della detenzione femminile che nemmeno la legge Finocchiaro è riuscita realmente a risolvere. Oggi la norma dice che le madri detenute possono tenere il figlio con sé fino al compimento dei 3anni».

Ma cosa significa per un bambino separarsi dalla propria madre al superamento di tale età?

«Da qui si dovrebbe ragionare e pensare a soluzioni e circuiti differenti per coloro che, se non possono andare agli arresti domiciliari devono essere collocate in luoghi a custodia attenuata, insieme al proprio bimbo.  Gli studi ci dicono che la donna si ritrova in carcere il più delle volte a causa del suo compagno, ma al contrario degli uomini, che fuori riescono dopotutto a mantenere un legame con moglie e famiglia, la donna è stigmatizzata e spesso abbandonata dal marito e dalla famiglia che non le perdona la violazione del patto sociale a cui lei era stretta».

Diverse volte è stata rimarcata la quasi totale assenza di attività formative e di reinserimento sociale. Sono stati fatti dei passi in avanti?

«La casa circondariale di Lecce sta lavorando molto sul trattamento e il fatto che in un istituto di pena operano diverse associazioni, non può che essere positivo. Sono diversi i corsi e le attività ludico culturali all’interno così come le iniziative organizzate dalla direzione per accorciare la distanza tra il carcere e la società civile. Resta però un punto dolente che è il lavoro, troppo pochi i detenuti e le detenute che svolgono per conto dell’amministrazione o per ditte esterne attività lavorativa rispetto ai numeri della detenzione».

Una parte dell’opinione pubblica ragiona spesso con la “pancia” e vede le battaglie per la condizione carceraria con insofferenza. Cosa si sente di dire a queste persone?

«Il problema è che l’opinione pubblica è stata sin troppo isterizzata dalla classe politica sulla questione sicurezza e legalità. Se pensiamo che al governo abbiamo avuto un partito razzista come la Lega che non ha perso occasione di puntare il dito contro i rom, i neri, gli stranieri, i drogati o gli omosessuali, possiamo certamente comprendere, perché quando si parla di detenuti la gente ragiona con la pancia. La nostra società è stata avvolta negli ultimi venti anni da una cappa di ignoranza e intolleranza che ha portato leggi nefaste e abominevoli anche sul piano giuridico, come la legge sull’ immigrazione, sulla droga e gli innumerevoli ‘pacchetti sicurezza’. Una società, la nostra che non è cresciuta come avrebbe dovuto con politiche dal volto più umano e capaci di proteggere le fasce più deboli. Ma al contrario è stata nutrita dal mal costume, dalla furbizia e dall’ arroganza.  Ecco dove sta il problema ed ecco, perché oggi si predilige sempre di più lo strumento penale simbolo per eccellenza di controllo e selezione, abdicando così a politiche sociali il cui compito è quello di rimuovere le diseguaglianze e promuovere il bene comune».

Bimba di due anni vive in carcere con la mamma, scrive Francesca Pastore Giovedì 21 Giugno 2018 su Il Quotidiano di Puglia. La chiameremo Azzurra - un nome di fantasia –, ha soltanto due anni e due mesi e la mattina scorge il sole tra le sbarre gialle e fredde della casa circondariale di Lecce. Ci sono tanti giocattoli intorno a lei, quelli non mancano di certo, c’è anche la sua mamma, ma le manca la libertà. La libertà di poter correre in giardino appena sveglia, di giocare con i suoi fratelli o fare una passeggiata con il suo papà. Azzurra “sta scontando” insieme a chi l’ha messa al mondo una pena detentiva. Ma è solo una bambina e ha il diritto di addormentarsi guardando le stelle, andare a scuola, praticare sport. Ha diritto ad essere felice. Da circa quattro mesi Borgo San Nicola è diventata la sua casa, lontane lei e mamma da Foggia, luogo di residenza e dove si trovano anche papà e i fratellini. La denuncia della situazione in cui vive Azzurra e la richiesta di trovare una soluzione consona per lei e la sua mamma, giunge dall’associazione Antigone Puglia, in prima linea per i diritti e le garanzie nel sistema penale con lo scopo di promuovere elaborazioni e dibattiti sulla realtà carceraria in Italia. Sono parole dettate dall’impegno e dall’indignazione quelle della presidente dell’associazione, l’avvocata Maria Pia Scarciglia. «Nel corso di una delle nostre visite in carcere, svoltasi lo scorso 5 giugno, abbiamo incontrato una donna Rom con una figlia di anni 2 e mesi 2. Questa detenuta – spiega la responsabile di Antigone - è stata trasferita dal carcere di Foggia a quello di Lecce, nonostante a Foggia viva il marito e gli altri 5 figli minori». Per Maria Pia Scarciglia «non è concepibile tutto questo, è contro i principi dell’ordinamento penitenziario». Dal carcere di Lecce intanto già la direttrice, Rita Russo, ha da tempo sollecitato nelle sedi opportune, chiedendo che la giovane donna venga trasferita immediatamente, ma ancora non ha ricevuto risposta. «Sono trascorsi 4 mesi – continua Scarciglia - e madre e bambina si trovano nella sezione Alta Sicurezza, non per tipologia di reato, ma perché il circuito in questione è meno problematico rispetto a quello delle detenute comuni. Abbiamo lasciato il carcere di Lecce qualche giorno fa – prosegue la presidente di Antigone - con l’immagine di questa bambina di 2 anni e poco più seduta nel suo passeggino nella cella dove è allocata sua madre. La sconfitta della società rispetto al tema delle carceri è anche questa. Anche solo un bambino dietro le sbarre è una resa dello Stato di diritto», conclude l’avvocata. Intanto qualche dato emerso dalla visita di Antigone nella casa circondariale leccese: al momento i detenuti erano 1.006 (68 donne e 165 stranieri), a fronte di una capienza di 610 posti. Si registra una maggiore presenza di detenuti stranieri, in particolare albanesi, rumeni e qualche russo. Alcuni dei detenuti sono sotto osservazione per radicalizzazione: 2 detenuti ad un livello alto. L’istituto si presenta molto curato e con ampi ha spazi, nonostante siano assenti aree verdi per i detenuti e le loro famiglie. Le celle ospitano due detenuti, salvo nel reparto di osservazione psichiatrica dove sono uno per cella. Il nuovo reparto di Osservazione psichiatrica vanta 20 posti ma al momento sono presenti 10 pazienti. Poco il lavoro per i detenuti e poche le aziende del territorio che decidono di assumere detenuti in misura alternativa. I tagli all’assegnazione dei fondi non ha permesso alla direzione di garantire il numero dei lavorando dell’anno precedente. A Lecce i detenuti che lavorano sono 253, di cui solo 10 per datore esterno.

Incredibile quello che hanno deciso per Sabrina Misseri, scrive domenica 16 ottobre 2016 Antonio Russo su “Diretta News”. Nei mesi scorsi si era paventata più di una volta l’ipotesi di scarcerazione per Sabrina Misseri. Proprio in questi giorni, infatti, scadeva il termine ultimo per presentare la definitiva sentenza, che per ora non è arrivata. Molti quindi avevano preventivato che gli avvocati della ragazza si sarebbero appellati all’articolo 303 del codice di procedura penale, che prescrive la cessazione della custodia cautelare dopo sei anni, in assenza appunto di una definitiva sentenza. La ragazza era stata arrestata nel 2010 con l’accusa di avere ucciso la cugina Sarah Scazzi in concorso con la madre, Cosima Serrano. I difensori di Sabrina però, almeno per ora, hanno deciso di non presentare alcuna istanza di scarcerazione. In realtà, per quanto concerne i termini per l’utilizzo dell’articolo 303 c’è molta confusione, molti, infatti, ritengono che visti i due provvedimenti di sospensione della durata di sei mesi cadauno, in realtà sinora siano passati solo cinque anni e non sei. Gli avvocati della Misseri hanno quindi deciso di non addentrarsi in “guerre” probabilmente perse in partenza. Anche perché, l’ufficio che avrebbe dovuto revocare quelle sospensioni dei termini, sarebbe dovuto essere lo stesso che le aveva applicate. Per quanto riguarda, invece, Cosima Serrano, anche per lei, per ora si è scelta la linea del silenzio, anche se nel suo caso c’è un periodo di detenzione più breve rispetto alla figlia (è stata arrestata il 26 maggio 2011).

Sabrina e l’inutile speranza di lasciare il carcere, scrive Nazareno Dinoi sabato 15 ottobre 2016 su “La Voce di Manduria”. Sabrina Misseri resta in carcere. I suoi avvocati, il professore romano Franco Coppi e il penalista del foro di Taranto, Nicola Marseglia, non hanno più presentato l’istanza per tentare l’applicazione dell’articolo 303 del codice di procedura penale che fissa in sei anni il limite massimo della custodia cautelare in assenza di sentenza definitiva.  Un termine, questo, che scadeva proprio oggi (la detenuta è stata arrestata il 15 agosto del 2010 con l’accusa di avere ucciso la cugina Sarah Scazzi in concorso con sua madre Cosima Serrano), se durante i due lunghi e complessi gradi di giudizio non fossero intervenute due provvedimenti di sospensione dei termini, ognuno dei quali della durata di sei mesi. Un dato di fatto controverso oggetto di discussione sui giornali e nei dibattiti televisivi della passata estate che aveva fatto convincere i legali a tentare la carta della scadenza dei termini facendo leva sul principio costituzionale della rieducazione della pena resa impossibile, in questo caso, proprio dalla presenza di una pena per niente ancora certa. Un terreno irto di spine che alla fine ha dissuaso la difesa a giocarsi questa carta che offriva scarsissime se non nulle possibilità di vincita. Anche perché l’ufficio che avrebbe dovuto revocare quelle sospensioni dei termini, sarebbe dovuto essere lo stesso che le aveva fatte applicate. La stessa controversia non si pone invece per sua madre Cosima Serrano, anche lei ristretta in regime preventivo ma con meno anni dietro le sbarre (il suo arresto è avvenuto il 26 maggio del 2011). Scartata tale suggestiva ipotesi (che per la verità aveva creato dei sussulti da una parte all’altra della platea di giustizialisti e innocentisti), non resta che giocarsi la più concreata, ma pur sempre piena di incognite carta della Cassazione che in queste ore sta ricevendo le istanze di ricorso di tutti gli imputati del lungo processo Scazzi. I quaranta giorni dalla pubblicazione delle motivazioni, infatti, scadono per tutti tra oggi e martedì prossimo, dipenda da quando hanno ricevuto la notifica del deposito. Sei imputati, in tutto, tra cui Sabrina con la madre Cosima Serrano, ad entrambe l’appello ha dato il massimo della pena ritenendole le esecutrici materiali del delitto; Michele Misseri, madre e marito delle due imputate principali, che deve difendersi dall’accusa di soppressione  di cadavere e da una pena ad otto anni di carcere; per lo stesso reato, sempre in appello, ha avuto una pena di 5 anni e 11 mesi di carcere (6 anni in primo grado) un fratello di zio Michele, Carmine Misseri; un anno e quattro mesi a Vito Russo Junior, ex legale di Sabrina Misseri  che in primo grado era stato condannato a due anni per favoreggiamento personale; infine un anno e 4 mesi per Giuseppe Nigro che deve rispondere di favoreggiamento. Naturalmente l’attenzione maggiore dell’opinione pubblica e degli ambienti della giustizia e dell’avvocatura, è tutta riservata alle due imputate principali, le uniche ancora in carcere con il rischio di rimanerci a vita. Due donne, mamma e figlia, con la terribile accusa di avere ucciso, strangolandola, la loro parente di quindici anni che investono oramai tutto sulla corte suprema di Roma. «Sabrina Misseri è serena e sembra quasi convinta che i giudici di Roma le daranno finalmente giustizia», è il commento di uno dei suoi avvocati, Marseglia appunto che con il professore Coppia ha lavorato sulle circa 250 pagine che compongono il ricorso alla Cassazione. Secondo le ipotesi più favorevoli alla difesa di Sabrina Misseri, la sentenza definitiva dovrebbe vedere la luce entro la prossima primavera.

Omicidio di Sarah Scazzi: ricorso in Cassazione contro le condanne di Sabrina, Cosima e Michele, scrive “Il Quotidiano di Puglia" Mercoledì 26 Ottobre 2016. Scatta il ricorso in Cassazione per l’omicidio di Sarah Scazzi, la ragazzina strangolata il 26 agosto del 2016 nella villa degli zii di via Deledda, in Avetrana. I legali di Sabrina Misseri, Cosima Serrano, entrambe condannate all’ergastolo per l’omicidio, e di Michele Misseri, condannato per occultamento e distruzione di cadavere, hanno infatti depositato il ricorso che la cancelleria dell’assise d’appello invierà a Roma. Il caso passerà ora al vaglio dei supremi giudici, che dovranno esaminare la legittimità, o meno, dei temi di diritto affrontati dalla Corte di secondo grado. Insieme con loro hanno presentato appello anche gli altri imputati, attraverso i rispettivi legali. È ovvio, però, che seppur la valutazione complessiva degli “Ermellini” riguarderà tutte le posizioni, l’attesa e l’interesse maggiori riguardano i destini degli imputati principali. Come è noto, Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano sono già state condannate in primo e in secondo grado all’ergastolo per l’omicidio della ragazzina. Entrambe hanno sempre dichiarato di essere estranee all’omicidio. Pur condannato a sua volta, in libertà continua a rimanere Michele Misseri, marito e padre delle due imputate. Lui, invece, ha continuato a urlare al mondo di aver aggredito e ucciso la nipote in quel maledetto 26 agosto di sei anni fa. E di aver deciso di nascondere il corpo della ragazzina nel pozzo di contrada Mosca. Proprio lui, dopo oltre quaranta giorni di indagini squarciò il velo di omertà. Ammise di aver ucciso Sarah e accompagnò gli inquirenti nelle campagne di Avetrana, consentendo di recuperare il corpo. Quella sua confessione doveva essere l’ultimo capitolo del giallo che aveva appassionato e commosso l’Italia. Invece aveva rappresentato l’inizio di una vera e propria odissea giudiziaria. Alle sue verità i giudici non hanno mai creduto. Pochi giorni dopo la sua confessione, infatti, si giunse all’arresto della figlia Sabrina. Prima accusata di concorso nell’omicidio con il papà. Successivamente, attraverso l’ennesimo colpo di scena maturato nel corso delle indagini, in complicità con la madre Cosima. Era il 15 ottobre del 2010 quando Sabrina varcò la soglia del carcere di Taranto, dove sette mesi dopo sarebbe stata raggiunta dalla madre. Con il deposito delle motivazioni della sentenza, giunte a distanza di circa un anno dalla sentenza, la difesa ha potuto approntare il ricorso in Cassazione. La vicenda giudiziaria, probabilmente prima di Natale, giungerà così all’ultimo approdo.

Omicidio Sarah Scazzi: in Cassazione le speranze di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, scrive "News Puglia" il 26 Ottobre 2016. Depositato il ricorso in Cassazione degli avvocati di Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, entrambe condannate all'ergastolo per l'omicidio della loro parente Sarah Scazzi. Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, condannate per l'omicidio di Sarah Scazzi, hanno affidato al ricorso in Cassazione presentato dai loro avvocati le residuali speranze di tornare il libertà. Loro, nonostante si siano dichiarate sempre innocenti, sono state condannate all'ergastolo sia in primo che in secondo grado di giudizio. I loro legali hanno depositato il ricorso che la Cancelleria dell’Assise d’appello invierà a Roma. Si azzardano previsioni ma solo sulla data di conclusione di questa vicenda giudiziaria: entro Natale. Sabrina Misseri aveva chiesto nel frattempo di essere trasferita in convento per dedicarsi alla meditazione mistica ma i giudici hanno respinto l'istanza: deve restare in carcere. Ed in carcere è rinchiusa: lei e la madre sono in una cella della casa circondariale di Taranto. Per loro c'è un destino segnato: prigione a vita. Così ha deciso anche la Corte d'Appello di Taranto nella sentenza pronunciata il 23 luglio 2015. Per conoscere le motivazioni di quella condanna è stato necessario attendere quasi 13 mesi e senza le motivazioni gli avvocati delle imputate non potevano procedere con il ricorso in Corte di Cassazione. Ecco perché uno dei difensori di Sabrina Misseri, l'avvocato Franco Coppi, ha commentato i ritardi come grave lesione dei diritti della difesa. Per accertare i motivi di quei ritardi il ministro di Grazia e Giustizia, Andrea Orlando, ha inviato i suoi ispettori ministeriali a Taranto. Con ulteriori slittamenti dei tempi Sabrina Misseri, forse, sarebbe stata addirittura scarcerata per decorrenza dei termini. La motivazione della sentenza però era tutt'altro che semplice, anche considerando soltanto il numero delle pagine prodotte: 1277 suddivise in 16 paragrafi, di cui 11 dedicati alla ricostruzione del delitto di Avetrana. In quel paese del Tarantino, il 26 agosto 2010, fu uccisa l'allora quindicenne Sarah Scazzi, cugina di Sabrina. Per i giudici che hanno esaminato il caso, non ci sono dubbi, ad ammazzare furono Sabrina Misseri e sua madre. E' in libertà, invece, anche se condannato per occultamento di cadavere, il padre di Sabrina, Michele Misseri. Eppure lui, nonostante abbia cambiato più volte versione, è l'unico ad aver confessato di aver ucciso Sarah. Gli inquirenti e i giudici non gli hanno creduto. Ora il caso passa al vaglio dei supremi giudici. Sono loro che dovranno esaminare la legittimità dei temi di diritto affrontati dalla Corte di secondo grado.

Richiesta di rinvio a giudizio per Mimmo Mazza sindacalista-giornalista della Gazzetta del Mezzogiorno, scrive “Il Corriere del Giorno” il 17 novembre 2016. La richiesta di processo della Procura di Bari anche a carico del direttore responsabile Giuseppe De Tommaso. Udienza preliminare dinnanzi al Tribunale di bari fissata per il 27 febbraio 2017. L’attuale procuratore aggiunto della Procura di Bari dr. Roberto Rossi a destra nella foto , per anni nel pool dei magistrati baresi impegnato in indagini sulla pubblica amministrazione, poi membro del Csm e attualmente inquirente della Dda di Bari, ha chiesto il rinvio a giudizio nei confronti del giornalista sindacalista Cosimo (ma noto a tutti come Mimmo)  Mazza, originario di San Marzano di San Giuseppe (TA) vice capo servizio della redazione tarantina della Gazzetta del Mezzogiorno, insieme al suo direttore responsabile Giuseppe De Tommaso per aver offeso la reputazione dell’ Avv. Emilia Velletri del Foro di Taranto con la pubblicazione in data 16 maggio 2011 di un articolo sul quotidiano regionale che versa in una profonda crisi editoriale, ed i cui giornalisti lavorano da oltre un anno grazie agli ammortizzatori sociali dei contratti di solidarietà, a causa del crollo vertiginoso di copie vendute in edicola. Mazza e De Tommaso dovranno rispondere dei reati degli art. 57 e 595 (2° e 3° comma)  per avere offeso l’avvocatessa tarantina Emilia Velletri con un articolo a firma del Mazza, nel quale veniva indicata come “indagata per favoreggiamento” nell’ambito del procedimento penale relativo all’omicidio di Sarah Scazzi ed in particolare scrive il procuratore aggiunto Rossi “.…Subito dopo la scomparsa di Sarah, Antonella creò sempre su Facebook, una pagina che poi diventerà Gruppo per Cercare Sarah Scazzi, che in breve tempo raggiunse i 45.000 iscritti. Ne entrano a far parte subito, fra gli altri, Sabrina Misseri, Alessio Pisello (che per un certo periodo sarà anche amministratore del Gruppo), Mariangela Spagnoletti (testimone chiave contro Sabrina Misseri) e anche curiosamente Emilia Velletri ( a sinistra nella foto – difensore di Sabrina dal 15 ottobre, giorno del suo arresto, fino al marzo scorso quando lasciò il mandato in quanto a sua volta indagata per favoreggiamento), oltre ad amiche di Sarah e Sabrina)….” circostanza non vera, atteso che la stessa (cioè l’ Avv. Velletri n.d.r)  non è mai stata indagata per favoreggiamento nel processo che vede parte offesa Sarah Scazzi.” Resta da chiedersi se Mazza e De Tommaso avranno il coraggio, la forza e soprattutto la dignità professionale in caso di rinvio a processo di rinunciare all’imminente prescrizione del reato. Per Mazza infatti non sarebbe la prima volta che si salva da una condanna in primo grado da “prescritto”….in Appello. Ne dubitiamo fortemente. In questa vicenda,  notiamo il vergognoso silenzio dei suoi “compagnucci” del sindacato regionale come Bepi Martellotta e di quello nazionale Raffaele Lorusso che si “stracciarono”…le vesti di dosso gridando allo scandalo con vergognosi comunicati stampa (di cui risponderanno in sede penale, civile  deontologica) contro il nostro direttore Antonello de Gennaro, accusato senza alcun reale giustificazione, per delle farneticanti accuse di “stalking” nei confronti del Mazza, come acclarato e sentenziato dal Gip dr.ssa Gilli, dal Giudice Petrangelo del Tribunale del Riesame di Taranto e dalla Va Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione che ha ridicolizzato, quest’ultima, il ricorso dei Pm Cannarile e Lopalco della Procura di Taranto depositato a suo tempo contro la decisione del Tribunale de Riesame di Taranto,  ritenendo il ricorso delle pm tarantine “inammissibile totalmente“. 

Sarah e le altre: vittime dimenticate. Il 10 gennaio 2012 fa si apriva il processo per l’omicidio di Avetrana, scrive Selene Pascarella su "Taranto Buonasera" il 11 gennaio 2017. Dieci gennaio 2012. Inizia tra ali di folla il processo per la morte di Sarah Scazzi. Dopo mesi di colpi di scena il caso Avetrana passa dall’agone mediatico a un’aula di tribunale. Intorno alla Corte d’Assise di Taranto i cronisti scalpitano lungo un immaginario red carpet. In attesa dei protagonisti intervistano i curiosi venuti ad assistere. «Perché è qui, signora?» domanda la giornalista del grande quotidiano nazionale alla massaia bionda con l’acconciatura della domenica. «Non per curiosità» si difende lei, che conosce le regole del bon ton giustizialista, «quella è una cosa brutta, diciamo che voglio vedere in faccia questa gente». Questa gente è il clan Misseri al completo: Michele, lo zio orco (reo confesso non creduto), Cosima, la sfinge di Avetrana e Sabrina, la cugina invidiosa. Su tutti loro la giudice “onoraria” ha già la sua opinione: «Sono colpevoli» per questo è in prima fila a guardarli passare. «E poi anche per la bambina, certo…». Dieci gennaio 2017. Quello di Avetrana era anche il giallo di Sarah, ormai appartiene a Michele, Sabrina e Cosima. Sarah è il fantasma biondo che incidentalmente ha permesso agli orchi di via Deledda di emergere nell’affollato teatro della nera nazionale. Due processi, due ergastoli per la zia e la cugina della vittima, più il filone bis dell’inchiesta che raggruppa, in una fiction gemella, i comprimari che ancora il pubblico segue con passione, dal bell’Ivano, pizzaiolo conteso, alla cognata del fiorista-sognatore, passando per una piccola folla di congiunti omertosi. Un quarto d’ora di attenzione mediatico-giudiziaria non viene negato a nessuno. Ma le certezze sulle ultime ore di vita di Sarah sono ridotte all’osso. Inseguita in strada dopo una lite e condotta a forza nella casa dei Misseri, la quindicenne trova la morte per strangolamento. Autrici materiali sia Cosima che Sabrina («una la tratteneva e l’altra la strangolava», nella versione dell’accusa), arma del delitto una cintura mai ritrovata. A scatenare l’omicidio la gelosia di Sabrina per l’amicizia di Sarah con Ivano e un vago «autonomo risentimento» per Cosima. Indistinte le fasi successive al delitto. Nebulose le modalità del trasporto del corpo di Sarah nel pozzo dove è stato ritrovato, troppo martoriato per offrire certezze al medico legale. Sarah ha subito una violenza sessuale, da viva o da morta, come ha sostenuto Michele Misseri? Si è difesa fino all’ultimo dalle sue aguzzine? Non lo sappiamo, non lo sapremo mai. La formula così televisiva del cadavere della vittima che “parla” agli inquirenti ad Avetrana si è dimostrata inefficace. Mute restano le spoglie di Sarah, quasi consapevoli che nessuno sia disposto ad ascoltarle. Più che la storia dell’adolescente uccisa, la ricostruzione della sua morte, fatto freddo e brutale, contano i retroscena morbosi sulle sue presunte assassine. I fattoidi bollenti riguardo agli strusciamenti in Panda tra Sabrina e Ivano o i malumori tra le sorelle Serrano su eredità contese vociferati dai compaesani. Raccolti dai media, approdati in dibattimento. Che li ha promossi elementi di una verità de relato, affidata a testimoni di seconda mano, prodotta da una macchina della giustizia passata, nell’indifferenza generale, dal processo della condotta delittuosa a quello della personalità del delinquente. Riducendo la vittima a fattore incidentale e la vittimologia ad attività accessoria. Una differenza non da poco che ad Avetrana ha prodotto un effetto perverso. Più che accertare cosa sia davvero accaduto alla Scazzi due sentenze scolpiscono nel granito il profiling psico-criminologico delle imputate. Di Cosima e Sabrina conosciamo ogni sfumatura caratteriale: le miserie personali, le invidie, le aspirazioni che le hanno rese colpevoli perfette agli occhi dei media. Protagoniste in grado di proiettare sulla vittima un cono d’ombra. Non abbiamo prove inconfutabili per affermare ciò che hanno o non hanno fatto a Sarah, però sono tantissimi gli indizi che accertano chi sono queste donne e cosa rappresentasse la vittima per loro. Ma chi era Sarah, invece? La quindicenne inquieta e annoiata delle prime fasi dell’inchiesta, quando ancora si pensava a una fuga o a un rapimento da parte di una persona incontrata su internet? La ragazzina irretita dallo zio di cui si fidava? O la donna-bambina al centro di un triangolo amoroso con Sabrina e Ivano, di dieci anni più grandi? L’icona dell’angelo biondo che ci è ormai familiare è una figurina vuota, dove la storia della Scazzi finisce sullo sfondo. Evoca una pietas che non regge il passo con i sentimenti che sono in grado di suscitare i suoi parenti serpenti: disgusto, orrore, rabbia, desiderio di vendetta. Ma dimenticare la vittima ha il suo prezzo. Lo abbiamo visto a Garlasco, dove rinunciare a capire chi fosse Chiara Poggi ha spinato la strada a un’inchiesta a senso unico, incentrata sulla personalità ambigua del fidanzato Alberto al punto da silenziare altri possibili indagati. Che oggi ritornano con clamore e sorpresa. È successo a Perugia, con la spasmodica ricerca di puntelli alla pista della diade assassina, costituita dal Amanda e Raffaele, destinata a sgretolarsi di fronte all’assenza di elementi di prova. Mentre il destino processuale del terzo uomo, Rudy Guede, appare tutto da riscrivere. Meredith, Chiara e Sarah, grandi assenti dei gialli di cui dovrebbero essere protagoniste. Scacciate in un angolo da processi, mediatici e reali, dove la vittima, unica cosa certa, non crea suspense, non è funzionale alla narrazione a effetto. Perciò il suo posto è preso dal cattivo di turno, che ha sempre una storia migliore da raccontare.

Delitto di Avetrana: a febbraio Cassazione per Sabrina Misseri e la madre Cosima. La cugina e la zia di Sarah Scazzi stanno scontando la pena dell’ergastolo inflitta per l’omicidio della congiunta avvenuto nell’agosto del 2010, scrive Maria Corbi l'11/01/2017 su "La Stampa". Il 20 febbraio la prima sezione della Cassazione deciderà il destino di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima condannate all’ergastolo (sentenza conforme in primo grado e in appello) per l’omicidio di Sarah Scazzi.  Oggi la comunicazione della data agli avvocati delle due donne. Franco Coppi, difensore, di Sabrina insieme a Nicola Marseglia spera «che adesso possa essere fatta giustizia». «E’ un caso che mi tormenta - ha spiegato più volte in questi anni, perché ho la certezza che una ragazza innocente sia in galera».  Una carcerazione preventiva che dura ormai da più di sei anni. Nel ricorso in Cassazione il professor Coppi rileva come la sentenza di appello «abbia proceduto a ricostruzioni dei fatti attraverso esasperate analisi di tempi e di orari ottenuti attraverso palesi forzature di dati probatori acquisiti al processo (possiamo fin da ora ricordare le acrobazie della sentenza intorno all’orario di uscita di casa di Sarah Scazzi il 26 agosto 2010 e quelle, correlative, in merito agli avvistamenti della giovane da parte di questo o quel testimone)». E anche che «nel contrasto di due possibili letture dei fatti, abbia sempre privilegiato quella contraria a Sabrina Misseri, nonostante la Corte di Cassazione, nella sentenza 17 maggio 2011, avendo già rilevato l’adozione di siffatto criterio nei provvedimenti cautelari, avesse avvertito che avrebbe dovuto essere seguito il criterio opposto». Un ricorso che analizza una condanna basata essenzialmente sul racconto di un sogno dove il sognatore non è stato ascoltato in aula. Il fioraio di Avetrana, Giovanni Buccolieri, raccontò alla commessa del suo negozio di avere sognato Cosima e Sabrina che rapivano Sarah trascinandola in auto dopo averla inseguita. La commessa lo ha raccontato alla mamma, Anna Pisanò, e questa lo ha raccontato a un carabiniere. Così Buccolieri ha dovuto spiegarsi in caserma. «Il sogno devo raccontare?», «Si». Ma nel verbale quel sogno diventa realtà e quando lui chiede che sia specificato che di sogno si trattava scatta l’imputazione per false dichiarazioni al Pm. E nonostante a Buccolieri bastasse cambiare versione e dire che il sogno era realtà per cavarsi di impaccio, non lo ha mai fatto. «Non voglio andare all’ inferno per aver fatto condannare due innocenti», ha sempre ripetuto. La cosa bizzarra è che si è potuto sottrarre al processo. Quindi in un processo dove il sogno è protagonista il sognatore non c’è. Ma ci sono stati suoi amici e parenti accusati di false dichiarazioni quando hanno ripetuto che loro hanno sempre saputo che si trattava di un sogno e non di realtà. E in appello Prudenzano e Colazzo, rispettivamente suocera e cognato del fioraio, condannati in primo grado per favoreggiamento, sono stati assolti. Dunque il sogno era tale? E allora dovrebbe, per logica, cadere anche la colpevolezza di Sabrina e Cosima almeno nella parte del rapimento. E anche se i giudici pensano che i due possono essere stati ingannati dal fioraio, come mai allora non si è sentita la necessità di ascoltare il sognatore visto che in ballo ci sono due ergastoli, ossia due sentenze alla morte civile? Ma sono tante le cose che non tornano in questa storia. 5 persone vengono coinvolte in un delitto senza che nessuno abbia la minima esitazione. Nei tabulati telefonici c’è, secondo la difesa, la prova dell’innocenza di Sabrina ma per i giudici lo scambio di sms tra Sabrina e Sarah nei momenti appena precedenti al delitto sono un depistaggio. Quindi Sabrina, che aveva appena ucciso la cuginetta avrebbe provato a farsi un alibi scrivendosi sms dal cellulare di Sarah. Comportamento assurdo, secondo la difesa, per una ragazza che fino a quel giorno non aveva fatto del male a nessuno. Il medico legale che visitò Michele Misseri in carcere parlò di unghiature sulle braccia di Misseri come se avesse avuto una colluttazione con Sarah. Poi quando l’uomo ritratta e accusa la figlia quelle unghiature diventano sfregi provocati dal lavoro nei campi. E poi c’è lui, Michele Misseri, che anche ieri ha continuato a ripetere di essere lui è solo lui il colpevole. «Non avrei mai difeso Sabrina se fosse stata lei. Le sarei rimasto vicino ma non mi sarei mai preso la colpa». Quando Michele Misseri trova il cellulare di Sarah chiama le figlie, che erano a casa, ad Avetrana. E dalla descrizione del telefonino è Sabrina a riconoscerlo, a dire che è di Sarah e a chiamare subito i carabinieri in modo che potessero prenderlo in custodia e analizzarlo. Perché avrebbe dovuto farlo sapendo che sarebbe stato usato contro di lei? Il professor Coppi nel ricorso rileva anche come la sentenza contestata «non abbia approfondito, ripetendo l’errore della sentenza di primo grado, temi indicati dalle sentenze pronunziate dalla Corte di Cassazione in sede cautelare (per ben due volte la Corte di Cassazione aveva annullato i provvedimenti cautelari emessi nei confronti di Sabrina Misseri per mancanza di sufficienti indizi di colpevolezza) senza offrire motivazione alcuna sulle ragioni di tali omissioni». E adesso l’ultima parola sul delitto di Avetrana la diranno proprio i giudici della prima sezione della Cassazione.

Delitto di Avetrana: decisione della Corte Cassazione a febbraio per Sabrina Misseri e sua madre Cosima, scrive "Il Corriere del Giorno" il 12 gennaio 2017. La zia e la cugina e di Sarah Scazzi sono in carcere scontando la pena dell’ergastolo ricevuta per l’omicidio avvenuto nell’agosto del 2010. E’ arrivata 48ore fa la comunicazione della data agli avvocati Franco Coppi che insieme a Nicola Marseglia, difendono di Sabrina i quali si augurano e confidano che finalmente “adesso possa essere fatta giustizia” dopo una carcerazione preventiva che dura ormai da più di sei anni. “E’ un caso che mi tormenta – ha spiegato più volte il prof. Coppi in questi anni – perché ho la certezza che una ragazza innocente sia in galera”. Il professor Coppi rileva nel suo ricorso alla Suprema Corte di Cassazione  come la sentenza di appello “abbia proceduto a ricostruzioni dei fatti attraverso esasperate analisi di tempi e di orari ottenuti attraverso palesi forzature di dati probatori acquisiti al processo (possiamo fin da ora ricordare le acrobazie della sentenza intorno all’orario di uscita di casa di Sarah Scazzi il 26 agosto 2010 e quelle, correlative, in merito agli avvistamenti della giovane da parte di questo o quel testimone”. Ed anche che “nel contrasto di due possibili letture dei fatti, abbia sempre privilegiato quella contraria a Sabrina Misseri, nonostante la Corte di Cassazione, nella sentenza 17 maggio 2011, avendo già rilevato l’adozione di siffatto criterio nei provvedimenti cautelari, avesse avvertito che avrebbe dovuto essere seguito il criterio opposto”. “Un ricorso che analizza una condanna basata essenzialmente sul racconto di un sogno” dove il sognatore – come scrive la collega Maria Corbi sul quotidiano LA STAMPA – non è stato ascoltato in aula. Il fioraio di Avetrana, Giovanni Buccolieri, raccontò alla commessa del suo negozio di avere sognato Cosima e Sabrina che rapivano Sarah trascinandola in auto dopo averla inseguita. La commessa lo ha raccontato alla mamma, Anna Pisanò, che a sua volta lo ha riferito ad un carabiniere. Così Buccolieri ha dovuto spiegarsi in caserma. «Il sogno devo raccontare?», «Si». Ma nel verbale quel sogno diventa realtà e quando lui chiede che sia specificato che di sogno si trattava scatta l’imputazione per false dichiarazioni al Pm. Un processo quello di Avetrana, tormentato da colpi di scena, testimoni sospettati di false dichiarazioni, giudici popolari ricusati, sognatori, terminato nei due primi gradi di giudizi con condanne pesantissime per le due donne: fine pena mai. E 1630 pagine di motivi in primo grado. “Troppe”, sostiene Franco Coppi, “il giudice che è convinto della colpevolezza dell’imputato e di dover infliggere l’ergastolo dovrebbe avere delle idee così chiare e avere in mente dei punti di riferimento così solidi e così lucidi da non avere bisogno di un’enciclopedia per rappresentare le ragioni del suo convincimento”. Coppi prende spunto dal caso Misseri per far notare che oggi in Italia il principio del dubbio pro reo “purtroppo non passa nel cuore di chi lo dovrebbe applicare. E a volte viene il sospetto che nel dubbio si preferisca condannare piuttosto che assolvere”. Buccolieri nonostante gli bastasse semplicemente cambiare versione ed affermare che il sogno era realtà una scusa per cavarsi di impaccio, non lo ha mai fatto ed invece ha sempre dichiarato “Non voglio andare all’ inferno per aver fatto condannare due innocenti”. Incredibilmente è proprio che si è potuto sfilare dal processo. Un processo in cui il sogno assume le vesti del protagonista, ma manca il sognatore! Vi sono stati suoi amici e parenti accusati di false dichiarazioni quando hanno ripetuto che loro hanno sempre saputo che si trattava di un sogno e non di realtà. Nel processo di appello Prudenzano e Colazzo, rispettivamente suocera e cognato del fioraio, sono stati assolti, dopo essere stati condannati in precedenza in quello primo grado per favoreggiamento. Quindi giustamente scrive la collega Corbi, “il sogno era tale?” Per logica conseguentemente dovrebbe cadere e venire meno anche la colpevolezza di Sabrina e Cosima, almeno nella parte del rapimento di Sarah Scazzi. E anche se i giudici pensano che i due possono essere stati ingannati dal fioraio, legittimo e doveroso chiedersi: come mai allora non si è sentita la necessità di ascoltare il sognatore visto che in ballo ci sono due ergastoli? Che sono due sentenze di morte civile? Ma come ben noto, in questa triste vicenda giudiziaria, sono tante le cose che non quadrano. Non avendo seguito nelle varie fasi il processo (questo giornale non usciva) abbiamo quindi ritenuto di affidarci alle corrette cronache di  Maria Corbi una collega e cara amica che conosciamo e stimiamo da tanti anni, preferendo evitare di ascoltare i giornalisti tarantini, che in realtà nel corso di questa lunga vicenda giudiziaria, altro non desideravano che farsi intervistare ingiacchettati dalle telecamere delle tv nazionali, o pagarsi il viaggio a Roma, pur di essere presenti in trasmissione, chiaramente postando sui socialnetwork il ridicolo annuncio “Oggi sarò in tv a….“. Protagonismo (in) degno. 5 persone vengono coinvolte in un delitto senza che nessuno abbia la minima esitazione. Nei tabulati telefonici c’è, secondo la difesa, la prova dell’innocenza di Sabrina ma per i giudici lo scambio di sms tra Sabrina e Sarah nei momenti appena precedenti al delitto sono un depistaggio. Quindi Sabrina, che aveva appena ucciso la cuginetta avrebbe provato a farsi un alibi scrivendosi sms dal cellulare di Sarah. Comportamento assurdo, secondo la difesa, per una ragazza che fino a quel giorno non aveva fatto del male a nessuno. Il medico legale che visitò Michele Misseri in carcere parlò di unghiature sulle braccia di Misseri come se avesse avuto avuto una colluttazione con Sarah. Poi quando l’uomo ritratta e accusa la figlia quelle unghiature diventano “sfregi provocati dal lavoro nei campi”. E poi c’è lui, Michele Misseri, che anche ieri ha continuato a ripetere di essere lui è solo lui il colpevole. “Non avrei mai difeso Sabrina se fosse stata lei. Le sarei rimasto vicino ma non mi sarei mai preso la colpa”. Quando Michele Misseri trova il cellulare di Sarah chiama le figlie, che erano a casa, ad Avetrana. E dalla descrizione del telefonino è Sabrina a riconoscerlo, a dire che è di Sarah e a chiamare subito i Carabinieri in modo che potessero prenderlo in custodia e analizzarlo. Perché avrebbe dovuto farlo sapendo che sarebbe stato usato contro di lei? Una riflessione giusta che qualche magistrato fa fatica, o meglio, non vuole ascoltare. Il professor Coppi nel ricorso rileva anche come la sentenza contestata “non abbia approfondito, ripetendo l’errore della sentenza di primo grado, temi indicati dalle sentenze pronunziate dalla Corte di Cassazione in sede cautelare (per ben due volte la Corte di Cassazione aveva annullato i provvedimenti cautelari emessi nei confronti di Sabrina Misseri per mancanza di sufficienti indizi di colpevolezza) senza offrire motivazione alcuna sulle ragioni di tali omissioni”. E adesso l’ultima parola sul delitto di Avetrana la diranno proprio i giudici della prima sezione della Cassazione. Che sicuramente non cercano le riprese ed inquadrature delle telecamere televisive, ed i cui giudici non indossano il vestito della domenica….

Omicidio Scazzi, Valentina Misseri: “A uccidere Sarah è stato mio padre”. Mentre per il 20 febbraio si attende la sentenza della Cassazione, torna a parlare Valentina Misseri per ribadire l'innocenza di sua madre e sua sorella: “A uccidere Sarah - afferma - è stato mio padre", scrive il 15 febbraio 2017 "TRNews". A pochi giorni dalla sentenza della Cassazione sull’omicidio di Sarah Scazzi, torna a parlare Valentina Misseri, la sorella di Sabrina, condannata all’ergastolo assieme alla mamma Cosima, per la morte della 15enne di Avetrana, strangolata, denudata e gettata in un pozzo nell’agosto del 2010. Rilevando il contenuto di alcune lettere, in un’intervista rilasciata per la rivista Oggi, Valentina ribadisce che sua madre e sua sorella sono innocenti: “A uccidere Sarah -afferma- è stato mio padre”. E poi ci sono quelle lettere, scritte proprio da Sabrina, che risalgono a prima della conclusione del processo d’appello, in cui si legge: “Non sono più la Sabrina di prima - scrive -, tanti lati del mio carattere si sono modificati. Alzarsi ogni mattina con l’ansia di affrontare la giornata... sono diventata ancora più fifona e piena di tormenti. In questa situazione ho mille paure, è impossibile trovare un po’ di pace. Ho scoperto che la verità viene sempre a galla ma dopo morta, non sempre da viva”. “Ultimamente – si legge ancora – sogno il pubblico ministero che mi corre dietro con il coltello. Non ce la faccio più, sono stanca”. Righe, accuse e supposizioni che ancora oggi non danno una certezza su cosa davvero è accaduto sette anni fa, quel pomeriggio del 26 agosto, quando Sarah convinta di dover andare al mare con la cugina, non fece più ritorno a casa. Scomparve nel nulla per poi essere ritrovata cadavere nella notte tra il 6-7 ottobre in un pozzo. Ora tutto è in mano ai legali e ai giudici. Il 20 febbraio si tornerà in Tribunale per ascoltare la sentenza della Cassazione.

Caso Scazzi, lunedì Cassazione decide per conferma ergastolo. Studio Coppi per Sabrina e Cosima, a zio Michele difesa d’ufficio, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 18 febbraio 2017. Il delitto di Avetrana, uno dei più torbidi omicidi avvenuto negli ultimi anni nei confronti di una vittima minorenne, approda lunedì prossimo in Cassazione, davanti alla Prima sezione penale che dedicherà a questo crimine avvenuto in provincia di Taranto il 26 agosto 2010, e circondato da omertà e false testimonianze, l’intera udienza con un collegio ad hoc che esaminerà i ricorsi dei sei imputati. Particolare attenzione sarà dedicata alla posizione di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, condannate all’ergastolo in primo e secondo grado con l’accusa di aver strangolato e ucciso l’adolescente Sarah Scazzi, minuta e graziosa ragazzina di quindici anni, cugina e nipote delle due donne. Per loro scende in campo, al gran completo, lo studio del professor Franco Coppi, il penalista famoso per i tanti processi importanti affrontati, che da anni cerca di sostenere l'innocenza di Sabrina - 22 anni all’epoca del fatto - e di sottrarla al carcere a vita indicando nel padre Michele Misseri il reo confesso. Il ruolo di capro espiatorio, questo ex emigrato in Germania sottomesso alla moglie, lo ha giocato tante volte, con diverse versioni e ritrattazioni, a partire dalla confessione che il 6 ottobre 2010 fece ritrovare il corpo di Sarah, oltraggiato ancor più dalla lunga permanenza nell’acqua di un pozzo e recuperato dai sommozzatori. E anche in queste ore, in una intervista a 'Quarto Grado-La domenicà, ha ribadito di aver ucciso lui Sarah (...ricordo quando ho preso la corda, ma non ricordo quando l'ho stretta..."), facendo sapere di sentirsi disperato per l'innocenza di Cosima e Sabrina ("fossero colpevoli, almeno... condannare due innocenti è facile, facilissimo..."). In ogni caso per Misseri, davanti alla Cassazione, non ci sarà a difenderlo dalla condanna a otto anni per soppressione di cadavere e soprattutto ad evitare un ribaltamento delle colpe, nessun avvocato di grido ma solo un legale nominato d’ufficio. Sabrina sarà difesa personalmente da Coppi e Nicola Marseglia, Cosima da Luigi Rella e Roberto Borgogno, il braccio destro di Coppi. Carmine Misseri, fratello di Michele, condannato a cinque anni e undici mesi per soppressione di cadavere sarà difeso dalla figlia di Coppi, Francesca. Meno gravi le responsabilità di Vito Russo, l’ex legale di Sabrina Misseri condannato a un anno e quattro mesi in appello (due anni in primo grado), e di Giuseppe Nigro condannato fin dal primo grado alla stessa pena, entrambi per favoreggiamento. Russo sarà difeso da Gianluca Pierotto, Nigro da Pasquale Laurentiis. Il delitto avvenne nella villetta della famiglia Misseri, e la sera stessa il corpo esanime di Sarah venne gettato in un pozzo di campagna dallo zio Michele. Movente dell’omicidio sarebbe stata la gelosia di Sabrina per la cugina così carina, a causa di un ragazzo del paese, Ivano Russo, mentre Cosima non sopportava la nipote per altri motivi. Il caso di Avetrana è stato fagocitato dai media tanto che questo paese di ottomila anime, prima sconosciuto, è diventato una macabra meta turistica, e addirittura Concetta Serrano, madre di Sarah, apprese in diretta del ritrovamento del corpo della figlia mentre partecipava a 'Chi l’ha vistò e si trovava ospite nella villetta delle due omicide che fingevano pena e dolore. Per quanto riguarda il clima omertoso che ha circondato le indagini e il processo, lo scorso gennaio dodici persone sono state rinviate a giudizio nel processo bis. Tra loro anche Ivano Russo e ziò Michele che deve rispondere di autocalunnia. Il collegio della Cassazione sarà presieduto da Arturo Cortese e composto da Antonio Cairo (relatore), Toni Adek Novik, il magistrato anticamorra Raffaello Magi e Alessandro Centonze. Per la Procura, ci sarà il Pg Fulvio Baldi, magistrato severo spesso impegnato nei casi di violenze sui minori: dirà se merita conferma la sentenza di 1.277 pagine emessa dalla Corte di Assise il 27 luglio 2015 e depositata con 13 mesi dopo con un ritardo tale che il Guardasigilli Andrea Orlando mandò gli ispettori.

Omicidio Sarah Scazzi, oggi la sentenza della Cassazione La zia Cosima Serrano e la cugina Sabrina Misseri condannate all'ergastolo in primo grado e in appello, scrive Rai News il 21 febbraio 2017. Il difensore: è stato Michele Misseri a ucciderla. E' stato Michele Misseri, accusatore prima di sua figlia poi di se stesso, o sono state Sabrina e Cosima ad uccidere Sarah Scazzi quel pomeriggio di agosto del 2010? "Delle due l'una", scandisce l'avvocato Franco Coppi nell'aula della prima sezione penale della Cassazione, la cui decisione arriverà oggi: la difesa delle due donne, condannate in appello a Taranto il 27 luglio 2015 all'ergastolo, gioca la carta del reo confesso a piede libero per smontare 6 anni di processo. Il sostituto pg Fulvio Baldi poco prima aveva sostenuto la colpevolezza delle due imputate al di là di ogni ragionevole dubbio. "Sono convinto della ricostruzione colpevolista della sentenza d'appello", basata su elementi certi; i giudici tarantini, ha detto il rappresentante dell'accusa, "hanno fatto a meno" delle dichiarazioni e dei ripensamenti del contadino di Avetrana. "Sabrina - è la ricostruzione del movente secondo il magistrato - era in uno stato di agitazione e nervosa frustrazione, accusava Sarah di aver contribuito alla fine della storia con Ivano Russo, di aver rivelato dettagli della sua condotta sessuale gettando discredito su di lei e sulla sua famiglia. La madre solidarizza, con un atteggiamento da madre del Sud. Ne nasce una discussione in cui Sarah risponde da 15enne, scappa via, ma riescono a raggiungerla per darle la lezione che merita, una lezione evidentemente assassina. Poi danno ordine a Michele Misseri di disfarsi del corpo". Sabrina, afferma il pg, ha "il necessario cinismo", "il tipo di azione commessa è nelle sue corde". Quanto a Cosima, è mossa da una "partecipazione emotiva credibile alla vita della figlia": "il movente c'è ed è addirittura più consapevole di quello di Sabrina".    Secondo la difesa delle due donne, rappresentata da Coppi e da Roberto Borgogno, si tratta di un "errore giudiziario", come "spesso capita quando i processi si celebrano sotto gli occhi dell'opinione pubblica". Ma, è la tesi difensiva, è stato zio Michele ad uccidere Sarah e il movente e il più banale e spregevole, quello sessuale. "Era un uomo molesto", ha detto Coppi, in garage quel pomeriggio del 26 agosto provò a toccare la nipote, "Sarah percepisce l'atto come molestia e minaccia di rivelarlo a Sabrina. Ecco perché la prende per il collo e la strangola in due secondi". Secondo il legale, "non è affatto vero che la prova della colpevolezza di Sabrina", come sostenuto dall'accusa, "prescinda dalla colpevolezza di Michele Misseri. La prova della colpevolezza esclusiva di Michele Misseri è la prova dell'innocenza di Sabrina".     L'udienza, partita a rilento con la lunga relazione, durata tre ore e mezzo del giudice relatore Antonio Cairo, si protrae per ore. Slittano al pomeriggio la requisitoria del pg e le arringhe di parte civile e dei difensori degli imputati. Sei: oltre a Sabrina e Cosima, Michele e Carmine Misseri, condannati in appello per la soppressione del cadavere. E Vito Russo e Giuseppe Nigro, accusati di favoreggiamento. Per tutti la richiesta dell'accusa è di confermare le condanne.

Sarah Scazzi, la Cassazione decide. La diretta. Il pg chiede di confermare l'ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano. In aula padre e fratello della vittima, scrive il 20 febbraio 2017 "Quotidiano.net". E' attesa per oggi la parola fine, a livello giudiziario, sull'omicidio di Sarah Scazzi. Dovrebbe arrivare in serata, infatti, il verdetto della Cassazione sul delitto di Avetrana, uno degli omicidi più torbidi avvenuto negli ultimi anni nei confronti di una vittima minorenne. In primo e secondo grado Sabrina Misseri, la cugina della vittima, e Cosima Serrano, la madre di Sabrina, sono stata condannate all'ergastolo con l'accusa di aver strangolato e ucciso la 15enne Sarah Scazzi. Era il 26 agosto 2010, il crimine fu circondato da omertà e false testimonianze. 

DALL'AULA -  L'udienza davanti alla Prima sezione penale  è iniziata stamattina intorno alle 10 e 30. In aula sono presenti, tra il pubblico, anche il papà e il fratello della vittima, Claudio Scazzi. La relazione del giudice si è conclusa dopo oltre tre ore. Dopo una breve sospensione, il sostituto procuratore Fulvio Baldi ha chiesto di confermare la condanna all'ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Per l'accusa sono da rigettare i ricorsi di tutti gli imputati. 

IL PG - "Non è un processo per affermare la responsabilità di Michele Misseri per omicidio", ma per confermare la colpevolezza di Cosima e Sabrina. Questa la premessa di Baldi nella requisitoria. "Visti i continui ripensamenti di Michele, le corti hanno fatto a meno delle sue dichiarazioni". Tratteggiando le figure delle due donne, il pg ha affermato che Sabrina aveva "il necessario cinismo", "il tipo di azione commessa è nelle sue corde" e "non stupisce" che abbia inviato messaggi al telefono di Sarah "per procurarsi un alibi". Quanto a Cosima, il magistrato ne ha rilevato la "partecipazione emotiva credibile alla vita della figlia", tipica della madre del Sud, "compresa la vergogna" per le dicerie di cui Sabrina sarebbe stata oggetto e un "malinteso senso dell'onore". Baldi sostiene quindi che "il movente c'è ed è addirittura più consapevole di quello di Sabrina". Con sullo sfondo tali stati d'animo sarebbe maturato quello che le sentenza d'appello ha definito un omicidio d'impeto e poi l'ordine a Michele Misseri di sopprimere il cadavere.

I RICORSI - La Cassazione dedica un collegio ad hoc al processo: sul tavolo i ricorsi dei sei imputati. Oltre a Cosima e Sabrina, difese dallo studio del famoso penalista Franco Coppi, la Cassazione deve esprimersi su Carmine Misseri, fratello di Michele, condannato a cinque anni e undici mesi per soppressione di cadavere (a difenderlo la figlia di Coppi, Francesca). Meno gravi le responsabilità di Vito Russo, l'ex legale di Sabrina Misseri condannato a un anno e quattro mesi in appello (due anni in primo grado), e di Giuseppe Nigro condannato fin dal primo grado alla stessa pena, entrambi per favoreggiamento. Russo sarà difeso da Gianluca Pierotto, Nigro da Pasquale Laurentiis.

LA VICENDA - Il delitto avvenne nella villetta della famiglia Misseri, e la sera stessa il corpo esanime di Sarah venne gettato in un pozzo di campagna dallo zio Michele. Movente dell'omicidio sarebbe stata la gelosia di Sabrina per la cugina così carina, a causa di un ragazzo del paese, Ivano Russo, mentre Cosima non sopportava la nipote per altri motivi. La difesa delle due donne condannate per l'omicidio indica in Michele Misseri, padre e marito delle imputate, nonché zio di Sarah Scazzi, il colpevole del delitto. Fu lui stesso, il 6 ottobre 2010, a confessare l'efferato omicidio, facendo anche ritrovare il corpo di Sarah, oltraggiato ancor più dalla lunga permanenza nell'acqua di un pozzo e recuperato dai sommozzatori. Confessione ribadita da Zio Miché anche in queste ore, in una intervista a Quarto Grado-La domenica. "...ricordo quando ho preso la corda, ma non ricordo quando l'ho stretta...", ha detto Misseri che ha fatto sapere di sentirsi disperato per l'innocenza di Cosima e Sabrina. ("Fossero colpevoli, almeno... condannare due innocenti è facile, facilissimo..."). A difendere Misseri, condannato in 8 anni per soppressione di cadavere, non ci sarà nessun legale di grido ma un avvocato nominato d'ufficio.

IL CASO - Il delitto di Avetrana ha ricevuto un'esposizione mediatica unica nel suo genere. L'opinione pubblica fu scossa da alcune tappe della vicenda, una su tutte il momento in cui Concetta Serrano, madre di Sarah, apprese in diretta del ritrovamento del corpo della figlia mentre partecipava a Chi l'ha visto e si trovava ospite nella villetta di Sabrina e Cosima che, stando a quanto stabilito finora dai processi, avrebbero finto pena e dolore. Per quanto riguarda il clima omertoso che ha circondato le indagini e il processo, lo scorso gennaio dodici persone sono state rinviate a giudizio nel processo bis. Tra loro anche Ivano Russo e lo stesso Michele Misseri che deve rispondere di autocalunnia.

LA FAMIGLIA -  Sono "fiduciosi" i legali della madre di Sarah Scazzi. "Perché, grazie alla sentenza ben motivata della Corte d'Assise d'Appello di Taranto, ci sono tutti i presupposti perché questa tristissima vicenda si chiuda nel modo giusto", dice Valter Biscotti, avvocato con Nicodemo Gentile di Concetta Serrano Spagnolo. Alla Vita in Diretta parla anche Claudio, fratello di Sarah: "Abbiamo sempre avuto fiducia nella magistratura, le prove c'erano e ci sono. Noi crediamo che dopo due condanne si dovrebbe arrivare allo stesso esito nel terzo grado". E aggiunge: "Non c'è nulla da chiarire o di insoluto, non ci dev'essere alcun dubbio".

Sarah Scazzi, pg Cassazione: “Confermare l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano”. In primo e secondo grado le due imputate erano state condannate al fine pena mai. Tratteggiando le figure delle due donne, il pg ha affermato che Sabrina aveva "il necessario cinismo", quanto a Cosima, il magistrato ne ha rilevato la "partecipazione emotiva credibile alla vita della figlia", tipica della madre del Sud, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 20 febbraio 2017. Sono da confermare secondo la Procura generale della Cassazione i due ergastoli inflitti a Sabrina Misseri e Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. Questa la richiesta del sostituto pg Fulvio Baldi al termine della sua requisitoria davanti alla Prima sezione penale della Cassazione. L’accusa ha chiesto il rigetto dei ricorsi di tutti gli imputati, anche di Michele e Carmine Misseri per la soppressione del cadavere. “Forse è stata eccessiva l’affermazione del pubblico ministero nel processo di primo grado secondo il quale il giorno dell’omicidio di Sarah ad Avetrana ‘Nostro Signore si è distratto’. Non si distragga oggi il collegio giudicante. Consegnate alla piccola e sfortunata Sarah il riposo eterno che merita – ha detto Baldi nella requisitoria al processo in Cassazione per l’omicidio di Avetrana – Non è un processo per affermare la responsabilità di Michele Misseri per omicidio”, ma per confermare la colpevolezza di Cosima e Sabrina “visti i continui ripensamenti di Michele, le corti hanno fatto a meno delle sue dichiarazioni”. Tratteggiando le figure delle due donne, il pg ha affermato che Sabrina aveva “il necessario cinismo”, “il tipo di azione commessa è nelle sue corde” e “non stupisce” che abbia inviato messaggi al telefono di Sarah “per procurarsi un alibi“. Quanto a Cosima, il magistrato ne ha rilevato la “partecipazione emotiva credibile alla vita della figlia”, tipica della madre del Sud, “compresa la vergogna” per le dicerie di cui Sabrina sarebbe stata oggetto e un “malinteso senso dell’onore”, per il pg “il movente c’è ed è addirittura più consapevole di quello di Sabrina”. Il delitto di Avetrana (Taranto) porta la data del 26 agosto 2010 quando la quindicenne Sarah Scazzi sparisce nel nulla nel tragitto tra la sua casa e quella della famiglia Misseri. La cugina Sabrina Misseri e la zia materna Cosima Serrano, madre e figlia, condannate all’ergastolo in primo e secondo grado con l’accusa di aver strangolato e ucciso quell’adolescente minuta e graziosa, si sono sempre dichiarate innocente. Le motivazioni della sentenza di appello di 1.277 pagine sono state depositate a 13 mesi dal verdetto. Per loro è sceso in campo, al gran completo, lo studio del professor Franco Coppi, il penalista famoso per i tanti processi importanti affrontati, che da anni cerca di sostenere l’innocenza di Sabrina – 22 anni all’epoca del fatto – e di sottrarla al carcere a vita indicando nel padre Michele Misseri il reo confesso. Il ruolo di capro espiatorio, questo ex emigrato in Germania sottomesso alla moglie, lo ha giocato tante volte, con diverse versioni e ritrattazioni, a partire dalla confessione che il 6 ottobre 2010 fece ritrovare il corpo di Sarah in un pozzo e recuperato dai sommozzatori. E anche nei giorni scorsi in alcune interviste ha ribadito di aver ucciso lui la ragazzina. Secondo l’accusa l’omicidio avvenne nella villetta della famiglia Misseri e la sera stessa il cadavere di Sarah venne gettato in un pozzo di campagna dallo zio Michele. Movente dell’omicidio sarebbe stata la gelosia di Sabrina per la cugina così carina, a causa di un ragazzo del paese, Ivano Russo, mentre Cosima non sopportava la nipote per altri motivi. Il caso di Avetrana è stato fagocitato dai media tanto che questo paese di ottomila anime, prima sconosciuto, è diventato una macabra meta turistica, e addirittura Concetta Serrano, madre di Sarah, apprese in diretta del ritrovamento del corpo della figlia mentre partecipava a “Chi l’ha visto” e si trovava ospite nella villetta delle due omicide che fingevano pena e dolore. Per quanto riguarda il clima omertoso che ha circondato le indagini e il processo, lo scorso gennaio dodici persone sono state rinviate a giudizio nel processo bis. Tra loro anche Ivano Russo e zio Michele che deve rispondere di autocalunnia. “È una vicenda umana più che processuale che parte da un dilemma: a uccidere Sarah è stato Michele oppure Sabrina e Cosima? Delle due l’una”. Il professor Franco Coppi, avvocato di Sabrina Misseri, nella sua arringa, ha puntato sul movente sessuale che, ancorché non ammesso da Michele, è a suo avviso evidente dal suo racconto: “Era un uomo molesto, Sarah percepisce l’atto come molestia e minaccia di rivelarlo a Sabrina. Ecco perché la prende per il collo e la strangola in due secondi”. Secondo il difensore “non è affatto vero che la prova della colpevolezza di Sabrina”, come sostenuto dall’accusa, “prescinda dalla colpevolezza di Michele Misseri. La prova della colpevolezza esclusiva di Michele Misseri è la prova dell’innocenza di Sabrina”.

Omicidio di Sarah Scazzi, il sostituto pg della Cassazione: «Sabrina cinica e anche Cosima aveva il movente. Gli ergastoli vanno confermati». «Sono convinto della ricostruzione colpevolista della sentenza d'appello». Lo ha detto il sostituto procuratore generale della Cassazione Fulvio Baldi nella requisitoria davanti alla Prima sezione penale della Cassazione con cui ha chiesto la conferma degli ergastoli a Sabrina Misseri e Cosima Serrano per l'omicidio di Sarah Scazzi, decisi dalla Corte d'appello di Taranto il 27 luglio 2015, e della condanna a 8 anni di Misseri per soppressione di cadavere. «Sabrina - è la ricostruzione del movente secondo il pg - era in uno stato di agitazione e nervosa frustrazione, accusava Sarah di aver contribuito alla fine della storia con Ivano Russo, di aver rivelato dettagli della sua condotta sessuale gettando discredito su di lei e sulla sua famiglia. La madre solidarizza, con un atteggiamento da madre del sud. Ne nasce una discussione in cui Sarah risponde da 15enne, scappa via, ma riescono a raggiungerla per darle la lezione che merita, una lezione evidentemente assassina. Poi danno ordine a Misseri di disfarsi del corpo». «Non è un processo per affermare la responsabilità di Michele Misseri per omicidio», ma per confermare la colpevolezza di Cosima e Sabrina: «visti i continui ripensamenti di Michele, le corti hanno fatto a meno delle sue dichiarazioni». Questa è stata la premessa del sostituto pg Baldi, nella sua requisitoria. Tratteggiando le figure delle due donne, il pg ha affermato che Sabrina aveva «il necessario cinismo», «il tipo di azione commessa è nelle sue corde» e «non stupisce» che abbia inviato messaggi al telefono di Sarah «per procurarsi un alibi». Quanto a Cosima, il magistrato ne ha rilevato la «partecipazione emotiva credibile alla vita della figlia», tipica della madre del Sud, «compresa la vergogna» per le dicerie di cui Sabrina sarebbe stata oggetto e un «malinteso senso dell'onore»: «il movente c'è ed è addirittura più consapevole di quello di Sabrina». Con sullo sfondo tali stati d'animo sarebbe maturato quello che la sentenza d'appello ha definito un omicidio d'impeto e poi l'ordine a Michele Misseri di sopprimere il cadavere. «Del tutto destituita di fondamento è la pretesa di riqualificare il reato da soppressione di cadavere ad occultamento» con conseguente sconto di pena, ha poi continuato il sostituto procuratore generale della Cassazione nella sua requisitoria, chiedendo la conferma della condanna a otto anni inflitta in appello a Michele Misseri per aver celato il corpo della nipote Sarah Scazzi. Ricostruendo l'accaduto il magistrato ha sottolineato che il cadavere «è stato calato in un luogo impervio, una pozza piena d'acqua che ne avrebbe facilitato il deperimento», a dimostrazione della volontà originaria di celare e distruggere per sempre il cadavere, salvo poi ripensarci e farlo ritrovare. Complementare a questo disegno, secondo la Procura generale della Cassazione, è stata l'azione di aver bruciato i vestiti della 15enne. Il pg ha sottolineato che per questo è ben motivato il diniego da parte della Corte tarantina di negare le attenuanti generiche. L'udienza, questa mattina, si era aperta con la lunga relazione del giudice Antonio Cairo, durata circa tre ore e trenta, nella quale ha ripercorso le fasi di merito e i motivi di ricorso. Nel pomeriggio il processo davanti alla Prima sezione penale è ripreso con la requisitoria del sostituto pg Fulvio Baldi. Poi la parola è passata agli avvocati di parte civile e ai difensori degli imputati.

“Sarah l’ho uccisa da solo”. Lo zio spera nella Cassazione. Delitto di Avetrana, oggi la sentenza della Suprema corte. Michele Misseri: “Mia moglie e mia figlia sono innocenti”, scrive Maria Corbi il 20/02/2017 su "La Stampa". «Sono stato io e spero che finalmente la Cassazione capisca che solo questa è la verità. Come devo dirlo? Ho ucciso io Sarah. Sabrina e Cosima non c’entrano niente. Non mi sarei mai preso la colpa al posto loro». Michele Misseri dalla sua villetta di Avetrana, al telefono, si accusa ancora, alla vigilia del processo in Cassazione (oggi) che dovrà confermare o meno le due condanne all’ergastolo per sua moglie e sua figlia. Un reo confesso a piede libero (nonostante la condanna a 8 anni per occultamento) e due donne che si dichiarano innocenti in carcere da anni (sei Sabrina e cinque Cosima). E nel ricorso dei difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, alla confessione di Misseri sono dedicate molte pagine. Essa, infatti, rilevano i legali, «era assistita da puntuali riscontri. Misseri aveva rivelato il luogo dell’occultamento del cadavere, aveva condotto gli inquirenti al pozzo in contrada Mosca, aveva indicato il luogo ove si era fermato per denudare il cadavere e dove aveva bruciato i vestiti di Sarah». Ma non solo, perchè, Misseri, ha sempre dichiarato di non aver avuto il coraggio di costituirsi, ma di aver tentato in tutti i modi di far confluire su di sé i sospetti per l’omicidio». E proprio per questa ragione egli aveva posizionato in varie occasioni il cellulare di Sarah, del quale era rimasto in possesso, in luoghi dove sarebbe stato facile trovarlo. E pochi giorni prima dell’interrogatorio in cui confessò fece finta di aver trovato il telefono di Sarah» «La sua confessione, quindi, corrisponde puntualmente alla condotta da lui tenuta dal momento dell’uccisione della nipotina e appare assolutamente credibile», rilevano i difensori. Mentre la ritrattazione, scrivono Coppi e Marseglia, è evidentemente falsa. Infatti nell’incidente probatorio Michele Misseri, per sostenere la nuova versione ha inventato «la storiella del “giuoco del cavalluccio” nel corso del quale Sarah, che recitava la parte del destriero, sarebbe scivolata rimanendo strozzata dalle briglie». L’accusa formulata nei confronti della figlia «non è costante, precisa, coerente», continuano Coppi e Marseglia. «In un primo momento Sabrina avrebbe semplicemente scoperto il delitto commesso dal padre», in un secondo momento avrebbe condotto la cugina in garage dove il padre avrebbe dovuto impartirle una lezione affinchè non parlasse delle avances sessuali ricevute dallo zio; «in altro momento ancora Sabrina avrebbe bloccato Sarah mentre il padre le stringeva la gola». Per arrivare alla versione di Sabrina che uccide e poi chiede al padre di aiutarla a sbarazzarsi del cadavere. Detto questo la sentenza di appello, come già quella di primo grado, sostiene che la responsabilità di Sabrina non discende dalle accuse del padre, ma risulta da prove indipendenti. Prova regina? Un sogno, dove il sognatore non è stato ascoltato in aula e ancora ieri si disperava «per essere il responsabile della condanna di due innocenti». Il fioraio di Avetrana, Giovanni Buccolieri, raccontò alla commessa del suo negozio di avere sognato Cosima e Sabrina che rapivano Sarah trascinandola in auto dopo averla inseguita. Un sogno che in un verbale divenne realtà.  

I giudici della Suprema Corte di Cassazione sono chiamati anche a pronunciarsi sulla condanna a 8 anni inflitta a Michele Misseri per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove. Sabrina e Cosima, madre e figlia, rispettivamente zia e cugina di Sarah, sono state ritenute invece responsabili dell’uccisione della quindicenne, strangolata forse per ragioni di gelosia o di vecchi rancori familiari, scrive “Il Corriere del Giorno”. Potrebbe arrivare oggi la parola fine, dopo quasi 7 anni, sul delitto di Avetrana: la prima sezione penale della Cassazione è chiamata a decidere se confermare o meno la sentenza di condanna all’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, accusate di aver ucciso nell’agosto 2010 la quindicenne Sarah Scazzi, cugina e nipote delle due, trovata senza vita in una cisterna d’acqua nelle campagne circostanti Avetrana, in provincia di Taranto. Questo è un estratto della confessione di Michele Misseri, il quale continua a professarsi colpevole, nonostante il processo abbia preso una piega diversa. I giudici della Suprema Corte di Cassazione sono chiamati anche a pronunciarsi sulla condanna a 8 anni inflitta a Michele Misseri per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove. Mentre Sabrina e Cosima, madre e figlia, rispettivamente zia e cugina di Sarah, sono state ritenute invece responsabili dell’uccisione della quindicenne, strangolata forse per ragioni di gelosia o di vecchi rancori familiari. Secondo la Procura generale della Cassazione i due ergastoli inflitti a Sabrina Misseri e Cosima Serrano per l’omicidio sono da confermare. Questa la richiesta formulata questa mattina del sostituto pg Fulvio Baldi al termine della sua requisitoria davanti alla Prima sezione penale della Cassazione. L’accusa ha chiesto il rigetto dei ricorsi di tutti gli imputati, anche di Michele e Carmine Misseri per la soppressione del cadavere. Sul delitto di Avetrana è tornato a parlare Michele Misseri.  Nel programma televisivo “Quarto Grado – La domenica”,  in onda ieri su Retequattro,  con un’intervista esclusiva  in un concentrato di  mezze ammissioni, confessioni e ritrattazioni. “Zio Michele” si è definitivamente autoaccusato del delitto, non venendo però sinora ritenuto credibile dai giudici. Nell’intervista ancora una volta ha sostenuto di aver ucciso lui Sarah dicendo “...ricordo quando ho preso la corda, ma non ricordo quando l’ho stretta…”, dicendo “fossero colpevoli, almeno… condannare due innocenti è facile, facilissimo...” esternando la propria disperazione per l’innocenza di Cosima e Sabrina. Misseri è convinto che Sarah lo abbia perdonato ed ha detto: “Sono uno che non si sfoga, ma quel giorno sono esploso e purtroppo è incappata quella poveretta: se fosse stata mia figlia penso che avrei fatto lo stesso”. Misseri ha quindi ribadito, che Sabrina e Cosima sono in carcere da innocenti ed ha concluso: “Io vivo come fossi con loro: gli scrivo tutte le settimane, ma non mi rispondono perché stanno soffrendo”. Il professor Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri   insieme all’ Avv. Nicola Marseglia spera “che adesso possa essere fatta giustizia. E’ un caso che mi tormenta – ha spiegato in una recente intervista alla collega Maria Corbi del quotidiano LA STAMPA – perché ho la certezza che una ragazza innocente sia in galera”. Carcerazione “preventiva” questa che dura ormai da più di sei anni. Il professor Coppi nel suo ricorso in Cassazione ha eccepito come la sentenza di appello “abbia proceduto a ricostruzioni dei fatti attraverso esasperate analisi di tempi e di orari ottenuti attraverso palesi forzature di dati probatori acquisiti al processo (possiamo fin da ora ricordare le acrobazie della sentenza intorno all’orario di uscita di casa di Sarah Scazzi il 26 agosto 2010 e quelle, correlative, in merito agli avvistamenti della giovane da parte di questo o quel testimone”. Evidenziando anche che “nel contrasto di due possibili letture dei fatti, abbia sempre privilegiato quella contraria a Sabrina Misseri, nonostante la Corte di Cassazione, nella sentenza 17 maggio 2011, avendo già rilevato l’adozione di siffatto criterio nei provvedimenti cautelari, avesse avvertito che avrebbe dovuto essere seguito il criterio opposto”. “Un caso che divide, che ha messo a dura prova il sistema garantista della nostra giustizia” scrive oggi la Corbi su LA STAMPA – “Dove è scomparso il ragionevole dubbio. Un processo mediatico disgustoso dove è stato permesso a tutti di intervenire con toni barbari, anche a chi, troppi, non hanno mai letto una pagina di questo sterminato processo”. Compresi i soliti noti “scribacchini” locali che passavano le carte processuali in nome e per conto di qualche magistrato alle tv nazionali, e poi da perfetti “cafoncelli” di paese mettevano giacca e cravatta per farsi ospitare in tv, in alcuni casi pagandosi persino le spese di viaggio! Per poi pubblicare su Facebook l’avviso: oggi sarò in TV. E la chiamano informazione….

La Cassazione conferma: ergastolo per Cosima e Sabrina. Michele Misseri torna in carcere. Quando poco dopo le 16 i carabinieri entrano nella villetta di Avetrana a notificargli l’ordine di carcerazione, per scontare la pena per la soppressione del cadavere della nipotina, Michele Misseri si dispera ancora. «Due innocenti sono in carcere», ripete ormai da anni. Eppure Sabrina e Cosima, sua figlia e sua moglie, che lui stesso ha inizialmente additato, e a cui ora chiede «perdono», in tutti i gradi di giudizio sono state ritenute colpevoli. Tutti i giudici davanti ai quali il caso è passato non hanno avuto dubbi: hanno ucciso loro Sarah Scazzi, e sconteranno l'ergastolo. La difesa delle due donne, rappresentata dal principe del foro Franco Coppi e dal suo braccio destro, Roberto Borgogno, ha provato, senza riuscire, a insinuare nel collegio della Cassazione il dubbio, secondo i legali una certezza, che sia stato il contadino di Avetrana a uccidere quella ragazzina dai capelli biondi, che per 42 giorni la madre Concetta ha cercato invano. E per il più bieco dei motivi. «Il movente è sessuale», aveva scandito Coppi in aula e l’assassino è un reo confesso, zio Michele. Il verdetto finale è arrivato dopo una notte di attesa, la più lunga per le due donne rinchiuse in carcere a Taranto. Mentre il presidente della prima sezione penale della Cassazione, Arturo Cortese, legge il dispositivo della sentenza («annullamento senza rinvio...») il dubbio sembra materializzarsi. Non è, però, un’assoluzione secca, per la quale quella sarebbe stata la formula di rito. E’ solo un piccolissimo sconto, di qualche settimana, di isolamento diurno. L’ergastolo è confermato. Così come è confermata la pena di Michele Misseri, che non è dunque l’assassino, ma colui che ha cercato di far sparire il corpo, con l’aiuto di suo fratello Carmine, per coprire il delitto, salvo poi pentirsi e farlo ritrovare. E’ stato un omicidio d’impeto, come riconosciuto dai giudici di Taranto di primo e secondo grado, che hanno condiviso la ricostruzione della procura. Frutto, come è scritto nella sentenza d’appello della gelosia di Sabrina per la cugina, e di un «autonomo risentimento» da parte di Cosima. Sarah Scazzi il pomeriggio del 26 agosto di sei anni fa, si recò nella villetta dei Misseri, in via Deledda, ebbe una prima lite con Sabrina e Cosima, poi cercò di fuggire ma fu raggiunta in strada e riportata in casa, dove fu strangolata e uccisa dalle due donne; quindi il corpo fu portato nel garage e poi trasportato in auto nel pozzo-cisterna di contrada Mosca, come ha ricostruito anche ieri l’accusa in Cassazione, rappresentata dal sostituto pg Fulvio Baldi. Con le motivazione, che la suprema corte depositerà presumibilmente solo tra qualche mese (in appello i giudici hanno impiegato oltre un anno) si conosceranno i punti fermi del giudizio di legittimità. Ai giudici e agli inquirenti va il ringraziamento della famiglia Scazzi. «Sarah ha ricevuto giustizia», dice il fratello travolto dalle telecamere sulle scale del Palazzaccio, «grazie a chi ha lavorato per anni, persone fortemente motivate». Ora Concetta, rimasta a casa ad aspettare la sentenza che inchioda la sorella e la nipote, «potrà trovare pace», come dice l'avvocato di parte civile, Walter Biscotti. Cosima e Sabrina, secondo l’avvocato Borgogno, «sono due sventurate, combatteremo fino alla fine perché è una battaglia per la giustizia: è un enorme errore giudiziario. Rimaniamo convinti - ha detto - che c'è un colpevole, Michele Misseri, e due innocenti che stanno scontando la pena al suo posto». Il processo per il delitto nella villetta degli orrori si chiude con altre tre condanne: quella a Carmine Misseri a 4 anni e 11 mesi (per lui sconto di pena di un anno), Vito Russo junior e Giuseppe Nigro, entrambi condannati a un anno e quattro mesi per favoreggiamento personale. (Melania Di Giacomo, ANSA 21 febbraio 2017 pubblicato su “La Gazzetta del Mezzogiorno).

Sarah Scazzi, confermato l'ergastolo per Sabrina e Cosima. Arrestato anche Michele Misseri. La condanna definitiva della Cassazione per la cugina e la zia della 15enne uccisa ad Avetrana. Il fratello di Sarah: "Ha trovato giustizia". Ma lo zio continua ad accusarsi dell'omicidio: "Chiedo scusa a mia moglie e mia figlia", scrive il 21 febbraio 2017 "La Repubblica". Sono state Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano a uccidere Sarah Scazzi nell'agosto del 2010 ad Avetrana. A sancirlo sono stati i giudici della prima sezione penale della Cassazione che hanno confermato tutte le pene decise in appello. Ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, otto anni di reclusione per Michele Misseri, ritenuto colpevole di soppressione di cadavere. Pena ridotta a 4 anni e 11 mesi per Carmine Misseri, accusato di aver aiutato il fratello Michele. Confermate, infine, le pene per Vito Russo junior e Giuseppe Nigro, entrambi condannati a un anno e quattro mesi per favoreggiamento personale. Per effetto di questa sentenza l'uomo, che si autoaccusa di essere l'unico responsabile del delitto, è stato prelevato dalla sua abitazione dai carabinieri che lo hanno portato in carcere. "Io sono sereno per me, ma non per le altre cose: due innocenti sono in carcere". Così, in una telefonata mandata in onda dal Tg2, Michele Misseri ha commentato la sentenza, tornando ad accusarsi dell'omicidio. "Perdono, vi chiedo perdono per gli errori che ho fatto", ha detto rivolgendosi alla figlia Sabrina e alla moglie Cosima Serrano. "E' un errore giudiziario", ha aggiunto, "ma secondo me" la vicenda "non è finita. Vedremo...". L'avvocato di Michele Misseri, Luca Latanza, ha detto che l'uomo, prima di essere arrestato, stava scrivendo una lettera a Sarah per chiedere perdono. Nell'ordine di carcerazione c'è "il divieto assoluto di vedersi con i familiari - ha precisato l'avvocato - a meno che non si chieda l'autorizzazione in casi particolari al magistrato di sorveglianza". “Sarah ha ricevuto giustizia”, ha commentato il fratello Claudio che ha informato della sentenza la mamma Concetta che ha preferito seguire da Avetrana l’esito del processo. "Oggi si chiude questa dolorosissima pagina giudiziaria. La famiglia ha bisogno di trovare pace". Lo ha detto l'avvocato Walter Biscotti, legale di parte civile nel processo per la morte di Sarah Scazzi. "Voglio ricordare - ha detto l'avvocato - i 40 giorni in cui una madre disperata ha girato le televisioni per ripetere gli appelli per la figlia scomparsa. Concetta ha avuto un ruolo determinante in questa vicenda". Biscotti ha quindi ringraziato la procura di Taranto, che ha avuto coraggio nel proseguire sulla sua strada, nonostante le confessioni di Michele Misseri: "Noi siamo convinti, come la procura, che Michele Misseri non ha commesso l'omicidio". L'avvocato di Cosima Serrano, Roberto Borgogno, annuncia il ricorso alla Corte europea: "Riteniamo che ci siano state delle violazioni di principi fondamentali, in particolare il principio del contraddittorio e la possibilità per la difesa di esaminare i testimoni che sono stati fondamentali per l'accusa".

Sarah Scazzi, Avetrana sette anni dopo: "Nessuna targa per lei, meglio dimenticare". In provincia di Taranto nessuno commenta l'ultimo atto del processo. La madre di Sarah si è chiusa in preghiera, zio Michele conduce la vita di sempre. Il vicesindaco: "Il paese vuole rimuovere ciò che è accaduto", scrive Vittorio Ricapito il 21 febbraio 2017 su "La Repubblica". Riflettori e telecamere si riaccendono su Avetrana per il verdetto della Cassazione anche se il paese, poco meno di 7mila abitanti, sembra voler dimenticare l'omicidio della quindicenne Sarah Scazzi, nell'estate di sette anni fa. Molti neanche sanno che è il giorno dell'ultimo grado del processo e per strada nessuno ha voglia di parlare del giallo che per mesi ha tenuto l'Italia col fiato sospeso. Ad Avetrana non c'è un giardino, un'aula, una targa, per ricordare la studentessa strangolata. Solo al cimitero c'è ancora un po' di via vai, soprattutto di forestieri che vengono a portare fiori sulla sua tomba, dire una preghiera. Concetta Serrano, la mamma di Sarah, per evitare i curiosi ci va al mattino presto e porta fiori freschi sulla tomba costruita da suo marito Giacomo. "Anche lui quando è ad Avetrana ci viene tutti i giorni e resta in silenzio a guardare la foto sulla lapide" racconta una conoscente. E mentre Giacomo e Claudio, il fratello di Sarah, sono andati a Roma per seguire l'udienza, Concetta ha preferito attendere il verdetto con le amiche più fidate a pochi chilometri da Avetrana. "Cita il Deuteronomio, ha una fede incrollabile nella giustizia divina più che in quella del processo. Prega e il suo credo religioso (è testimone di Geova) le dà la ferma convinzione che Sarah tornerà" raccontano le persone a lei vicine. Sono passati sette anni dall'omicidio di Sarah. I suoi compagni di scuola sono maggiorenni da qualche anno. Le amiche del cuore, Francesca e Maria, preferiscono non parlare coi giornalisti. "Sarah era una ragazzina molto fragile e timida che diventava rossa quando parlava e abbassava lo sguardo se rimproverata", racconta Maurizio Schirone, suo ex docente. "Proposi di dare il suo nome all'istituto professionale ma non se ne fece niente, anzi mi accusarono di aver contribuito alla sovraesposizione mediatica". Michele Misseri aspetta la sentenza nella villa di via Deledda con la borsa pronta per il carcere. Il suo quotidiano è fatto di piccoli lavoretti di giardinaggio e potature. Una cognata gli fa da mangiare. Di tanto in tanto si fa vedere in giro per il paese ma ha il divieto di uscire di casa dalle 21 alle 6. "L'ho visto in tv che dice di essersi costruito in casa la sua prigione ma qui se ne va in giro liberamente, mangia dai parenti alle feste, partecipa alle processioni e si fa vedere in chiesa senza che nessuno lo contesti. Non capisco perché sia libero dopo quello che ha fatto. Speriamo che quella povera bambina possa avere finalmente pace" dice una donna davanti all'edicola del paese, "ma non lo scrivere sul giornale" si affretta ad aggiungere. "Forse fa pena perché ci rendiamo conto che si accusa nel disperato tentativo di evitare la condanna a moglie e figlia", replica un'altra. "Io ho l'impressione che il paese voglia dimenticarsi di questa storia" commenta il vicesindaco Alessandro Scarciglia. "Se ne parla sempre meno, c'è come un velo di vergogna. Dopo sette anni devo ammettere che siamo stati tutti travolti dalla portata mediatica di questo caso. Avetrana è un paesino tranquillo in cui non era mai successo nulla del genere e non eravamo preparati. Oggi posso dire che probabilmente non siamo stati del tutto capaci di gestirla. Ci siamo trovati improvvisamente invasi da troupe televisive italiane ed estere. Il sindaco firmò un'ordinanza per allontanare da via Deledda furgoni e telecamere e fermare il reality. Per mesi, anzi per anni, abbiamo assistito a un macabro turismo dell'orrore nei luoghi del delitto". Il Comune di Avetrana ha chiesto 300mila euro ai Misseri per il danno di immagine.

Michele Misseri in carcere: la fine della storia dello "zio" di Avetrana. Condannato a 8 anni per la soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi, è galera per l'uomo che puntava al "tutti colpevoli nessun colpevole", scrive Carmelo Abbate il 21 febbraio 2017 su Panorama. La Corte di Cassazione ha confermato il quadro probatorio sul caso Avetrana. Il processo per l'omicidio di Sarah Scazzi è ufficialmente concluso: condanna all'ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, 8 anni di reclusione per Michele Misseri accusato di soppressione di cadavere. Zio Michele finalmente potrà andare in carcere, come ha sempre chiesto. Certo sperava che le porte si aprissero per lui e contemporaneamente si chiudessero per la figlia e la moglie. Ma non è andata proprio così. O forse zio Michele puntava al "tutti colpevoli nessun colpevole". Qualche dubbio è legittimo. Non fosse altro perché mentre continuava a ripetere di essere stato lui a uccidere Sarah, mentre tramite il suo avvocato presentava ricorso contro la sentenza di secondo grado che lo condannava a 8 anni per soppressione di cadavere. Chiedeva l'assoluzione sostenendo che non aveva soppresso il cadavere ma che l'aveva occultato, reato che prevede una pena inferiore. Dunque siamo di fronte a un uomo che si accusa di meritare l'ergastolo per quello che ha fatto, che vuol pagare per il grave delitto, ma che si appella contro una pena tutto sommato ridicola rispetto all’atroce delitto che dice di aver commesso. I giudici della Cassazione non gli hanno creduto, e soprattutto non hanno creduto all'avvocato Fausto Coppi, altro vero grande sconfitto di questa brutta vicenda, quando chiedeva a tutti un autentico atto di fede. Per Coppi, Michele Misseri era credibile quando affermava di aver ammazzato la nipote, mentre non era credibile quando negava di averlo fatto per una improvvisa vampata alla testa. Lo zio Michele voleva andare in galera ma non ne voleva sapere di marchiarsi dell'infame movente sessuale che gli apparecchiava l'avvocato Coppi. Tanto che durante una intercettazione ambientale in carcere con la moglie Cosima che lo incalza e insiste sul fatto che lui abbia violentato la nipote, Misseri alla fine sbotta: "se proprio lo devo dire, allora lo dico". Certo non era facile credere a un assassino che non soltanto non sapeva perché aveva ucciso la nipote Sarah, ma neppure con che cosa l'aveva uccisa. Zio Michele aveva fatto ritrovare il cadavere della ragazza, il suo telefono, ma guardo caso non l'arma del delitto. Prima dice di averla ammazzata con la corda, poi con la cintura dei pantaloni. Chissà...Tolta ogni credibilità a zio Michele, l'indagine non si apriva su un territorio sterminato, ma su uno spazio angusto, quello di casa Misseri, dove c'erano solo Sabrina e Cosima, e dove è morta la piccola Sarah. Su questo non ci può essere dubbio, come afferma la stessa Cosima in una intercettazione con la figlia Valentina: "Il fatto è Valentì… il fatto che è successo a casa nostra, è stato a casa nostra, tutto è contro di noi per quella cosa". 

Omicidio Sarah Scazzi: La Cassazione conferma le condanne di ergastolo per Sabrina e Cosima, scrive il 21 febbraio 2017, il Corriere del Giorno", primo organo di stampa in Italia a dare la notizia. Confermata la condanna a Sabrina e Cosima, ed a Michele e Carmine Misseri, già condannati in appello per la soppressione del cadavere di Sarah Scazzi. Confermata la sentenza anche nei confronti Vito Russo e Giuseppe Nigro, accusati di favoreggiamento. h. 10:09 La prima sezione delle Suprema Corte di Cassazione ha confermato questa mattina, la sentenza di condanna a Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, annullando l’aggravante (art. 112 C.P.) del numero di persone in concorso per la soppressione del cadavere di Sarah e riducendo l’isolamento diurno per Cosima e Sabrina. Presenti in aula il papà e il fratello della quindicenne Sarah Scazzi uccisa ad Avetrana il 26 agosto 2010. Confermata la condanna a otto anni per Michele Misseri, e ritoccato al ribasso di un anno la pena per Carmine Misseri, il fratello di “zio Michele” riducendola a 4 anni e 11 mesi per soppressione del cadavere di Sarah Scazzi, morta ad Avetrana il 26 agosto 2010. Confermata la sentenza anche nei confronti di Vito Russo e Giuseppe Nigro, accusati di favoreggiamento. L’udienza, partita ieri a rilento con la lunga relazione, durata tre ore e mezzo del giudice relatore Antonio Cairo, si era protratta per tutto il pomeriggio con la requisitoria del pg e le arringhe di parte civile e dei difensori degli imputati. Cosima e Sabrina. Secondo l’avvocato Roberto Borgogno, difensore di Cosima Serrano condannata all’ergastolo assieme alla figlia Sabrina dalla Cassazione “sono due sventurate, combatteremo fino alla fine perché è una battaglia per la giustizia: è un enorme errore giudiziario”. Ed aggiunto. “rimaniamo convinti  che c’è un colpevole, Michele Misseri, e due innocenti che stanno scontando la pena al suo posto”.

I protagonisti:

Sarah Scazzi: la vittima;

Sabrina Misseri: cugina di Sarah, condannata all’ergastolo;

Cosima Serrano: mamma di Sabrina, condannata all’ergastolo;

Michele Misseri: marito di Cosima e papà di Sabrina, condannato a otto anni.

Accolta la richiesta del sostituto procuratore generale Fulvio Baldi che aveva sostenuto la colpevolezza delle due imputate al di là di ogni ragionevole dubbio. “Sono convinto della ricostruzione colpevolista della sentenza d’appello”, basata su elementi certi; i giudici tarantini, ha detto il rappresentante dell’accusa, “hanno fatto a meno” delle dichiarazioni e dei ripensamenti del contadino di Avetrana. “Sabrina – è la ricostruzione del movente secondo il magistrato – era in uno stato di agitazione e nervosa frustrazione, accusava Sarah di aver contribuito alla fine della storia con Ivano Russo, di aver rivelato dettagli della sua condotta sessuale gettando discredito su di lei e sulla sua famiglia. La madre solidarizza, con un atteggiamento da ‘madre del Sud’. Ne nasce una discussione in cui Sarah risponde da 15enne, scappa via, ma riescono a raggiungerla per darle la lezione che merita, una lezione evidentemente assassina. Poi danno ordine a Michele Misseri di disfarsi del corpo”. Quanto a zio Michele, “del tutto destituita di fondamento è la pretesa di riqualificare il reato da soppressione di cadavere ad occultamento» con conseguente sconto di pena secondo il sostituto procuratore generale, che ricostruendo l’accaduto ha sottolineato come il cadavere sia «stato calato in un luogo impervio, una pozza piena d’acqua che ne avrebbe facilitato il deperimento“, a dimostrazione della volontà originaria di celare e distruggere per sempre il cadavere, salvo poi ripensarci e farlo ritrovare. Complementare a questo disegno, secondo la Procura generale della Cassazione, è stata l’azione di aver bruciato i vestiti della 15enne. A seguito di questa sentenza definitiva l’uomo, che si autoaccusava di essere l’unico responsabile del delitto, deve tornare in carcere dove ha trascorso diversi mesi di detenzione dal 6 ottobre del 2010, la sera in cui fece ritrovare agli inquirenti il corpo della nipote 15enne in un pozzo nelle campagne di Avetrana, in provincia di Taranto, alla tarda primavera del 2011, quando venne scarcerato perché nel frattempo aveva chiamato in correità la figlia Sabrina. “Io sono sereno per me, ma non per le le altre cose: due innocenti sono in carcere”. Sono state queste le prime parole di Michele Misseri a commento della sentenza della prima sezione penale della Corte di Cassazione, attendendo nella sua villetta di Avetrana (Taranto) l’arrivo dei Carabinieri che dovranno portarlo presso il carcere di Taranto. Alla moglie e alla figlia, Misseri ha poi chiesto “perdono, vi chiedo perdono per gli errori che ho fatto. E’ un errore giudiziario”, ha aggiunto, “ma secondo me” la vicenda “non è finita. Vedremo…”.

“zio Michele”: 7 versioni in 7 mesi. Michele Misseri in questi lunghi sei anni di processi ha continuamente ritrattato e cambiato ripetutamente versione. In tutto ha fornito agli inquirenti almeno 7 versioni nei primi 7 mesi.

1. Michele sostiene di aver tentato di sedurre Sarah, che respinge le avances. Infuriato, l’uomo la aggredisce alle spalle e la strangola con una corda. Poi carica il corpo nel bagagliaio della propria auto e una volta giunto in aperta campagna stupra la nipote morta. Carica di nuovo il cadavere in macchina, riparte e lo nasconde nel pozzo.

2. Sarah provoca Michele toccandolo ai fianchi. E lui la strangolata non appena la nipote si gira di spalle.

3. Sarah arriva a casa di Sabrina dove la cugina e suo padre la attendono per darle una lezione ed evitare che la ragazza diffonda voci in giro sulle avances dello zio. Mentre Sabrina tiene per le braccia la cugina, Michele avvolge una corda intorno al collo di Sarah e la strangola. Poi nasconde il cadavere gettandolo nel pozzo.

4. Nel pieno di una lite Sabrina trascina Sarah nel garage. La discussione degenera e Sabrina strangola la cugina con una cintura trovata in garage. La ragazza sale a casa e informa il padre Michele, che sta dormendo. L’uomo carica il cadavere in auto, va in campagna, ne abusa sessualmente e lo getta nel pozzo. Intanto arrivano i risultati dell’esame autoptico sul corpo di Sarah che non evidenziano alcun segno di violenza sessuale.

5. Misseri conferma la versione precedente, escluso l’abuso sessuale.

6. Misseri scrive due lettere alle figlie, in cui scagiona Sabrina e si scusa per averla accusata dell’omicidio.

7. In una lettera inviata al suo avvocato Michele Misseri si autoaccusa del delitto scagionando ancora la figlia Sabrina. Sostiene di aver strangolato Sarah con una corda nel garage di casa durante un raptus scaturito dal fatto che non riusciva a far partire il suo trattore. Sarah, cadendo a terra, avrebbe urtato la testa contro un compressore.

Ad aprile 2013 la corte d’Assise di Taranto aveva condannato Cosima e Sabrina all’ergastolo, verdetto confermato il 27 luglio 2015 dalla Corte d’Appello, con una sentenza in 1.277 pagine, depositata solo diversi mesi dopo.

Cosa c’entra la mamma di Sabrina? Cosima Serrano viene arrestata il 26 maggio 2011, con l’accusa di concorso in omicidio e sequestro di persona. A incastrarla è prima il suo cellulare e poi la testimonianza del fioraio di Avetrana, Giovanni Buccolieri che dichiara di aver visto quel 26 agosto del 2010, le due donne strattonare Sarah e costringerla a salire in macchina intorno alle 14.30. Buccolieri poi sostenne di essersi confuso e che il fatto in realtà sarebbe stato un suo sogno. I giudici considerano le sue parole attendibili e compatibili con la ricostruzione dei fatti.

Il movente della gelosia. Per gli inquirenti il movente che ha guidato le mani di Sabrina è la gelosia nei confronti di Ivano Russo, un cuoco di Avetrana del quale Sabrina – secondo la tesi della Procura di Taranto – sarebbe stata innamorata. Le due ragazze avevano conosciuto Ivano alcuni mesi prima ed era nata un’amicizia. Per Sabrina qualcosa in più e la ragazza, non ricambiata, confidava alla cugina le proprie pene d’amore. Sarah, da parte sua, sembrava intenzionata ad attirare l’attenzione di Ivano, facendo ingelosire la cugina. La rottura definita era arrivata intorno al 16 agosto, dopo un rapporto incompleto tra Sabrina e Ivano in macchina. La ragazza aveva raccontato a Sarah la vicenda e la 15enne lo aveva confidato al fratello Claudio, che a sua volta ne aveva parlato con Ivano. Da qui la decisione del giovane cuoco di deciso di troncare qualsiasi rapporto con Sabrina, che avrebbe iniziato a covare rancore nei confronti della cugina.

I familiari di Sarah Scazzi. Si chiude oggi questa dolorosissima pagina giudiziaria. “Sarah ha ricevuto giustizia” ha commentato Claudio Scazzi il fratello della vittima con una sentenza “equilibrata, giunta dopo un lavoro durato tanti anni, di persone fortemente motivate. Il paese deve ringraziare chi ha lavorato a questo caso. In Italia la giustizia c’è” ed ha quindi informato telefonicamente della decisione della Cassazione la mamma Concetta che ha preferito seguire l’esito del processo restando ad Avetrana “. “Mamma – ha aggiunto il fratello di Sarah Scazzi – condivide questo pensiero, anche lei si è sempre affidata alla Procura”. “Adesso la famiglia Scazzi ha bisogno di trovare pace”. Ha detto l’avvocato Walter Biscotti, legale di parte civile nel processo. “Voglio ricordare – ha aggiunto l’avvocato – i 40 giorni in cui una madre disperata ha girato le televisioni per ripetere gli appelli per la figlia scomparsa. Concetta ha avuto un ruolo determinante in questa vicenda”. L’avvocato Biscotti ha quindi ringraziato i magistrati di Taranto, che ha avuto coraggio nel proseguire sulla sua strada, nonostante le confessioni di Michele Misseri: “Noi siamo convinti, come la procura, che Michele Misseri non ha commesso l’omicidio”.

Valentina Misseri: “Una sentenza per accontentare la richiesta dell’opinione pubblica”. “Ora ho un obiettivo: salvare mia madre e mia sorella”, scrive Maria Corbi il 22/02/2017 su "La Stampa". Valentina è l’unica della famiglia Misseri a non essere in carcere. «Solo perché quel maledetto 26 agosto non ero ad Avetrana...», dice con le guance bagnate di lacrime. «E’ una condanna che deve fare male a tutti perché due innocenti sono in galera. Prima che tocchi a te non pensi agli errori giudiziari». 

Dicono però che tu difendi tua madre e tua sorella sacrificando tuo padre Michele.  

«Non avrei mai permesso che mio padre scontasse una colpa non sua. Mio padre fino a quel 26 agosto è stato un bravo padre. E nonostante quello che ha fatto gli voglio ancora bene perché capisco che ha dei problemi». 

Vuoi dire che è incapace di intendere e di volere?  

«Una perizia psichiatrica andava fatta. Qualche mese prima della morte di Sarah papà aveva iniziato ad essere più aggressivo, instabile. E infatti mia sorella nei messaggi con Ivano, che risalgono a qualche mese prima, spiega che papà era diventato violento, si arrabbiava facilmente e aveva tentato di uccidere nostra madre».

Quando lo hai sentito ieri cosa ti ha detto? 

«Mi ha detto: “Hanno fatto quello che hanno voluto”». 

Cioè?  

«Hanno accontentato l’opinione pubblica. Basta farsi un giro sui social per capirlo: ci sono messaggi violenti, aggressivi verso di me, verso il professor Coppi e chiunque dica che mamma e Sabrina sono innocenti». 

Le sentenze si rispettano.  

«Io non la rispetto, prima di tutto perché non è stata fatta giustizia per Sarah. Poi, perché mi hanno ucciso una sorella e una madre. E altri innocenti sono andati in carcere. Invidio mio cugino Mimino che è morto e non soffrirà più. Sono sicura che il tumore gli è venuto per essere stato accusato ingiustamente di avere aiutato mio padre a nascondere il cadavere di mia cugina. E mi dispiace anche per zio Carmine, condannato per lo stesso motivo senza aver fatto niente».  

Quando hai sentito Sabrina?  

«Domenica scorsa. Era fiduciosa, aveva recuperato un filo di speranza. È entrata in carcere a 21 anni, 7 anni fa, e non ha fatto niente. Ho paura che possa impazzire o fare una sciocchezza. Ha bisogno di uno psichiatra che la sostenga, spero che in carcere ci pensino». 

Il professor Coppi ha detto che andranno avanti, non si arrendono.  

«Il professor Coppi è l’unica cosa positiva che è capitata a mia sorella in questi anni. È una persona generosa, oltre che un grandissimo avvocato e noi gli siamo grati, perché non è da tutto mettersi accanto a persone umili, semplici e su cui l’opinione pubblica si è accanita». 

Tu non concedi interviste in tv, perché?  

«Non voglio essere riconosciuta, anche la mia vita è stata stravolta da questa vicenda, non ho superato dei colloqui di lavoro, quando cammino per strada sono additata e insultata. Voglio essere dimenticata. Oggi la mia vita ha un unico scopo: salvare dall’ingiustizia mia sorella e mia madre». 

Sfogo di Valentina: ingiustizia è fatta «Accontentata l’opinione pubblica». La figlia e sorella delle due donne rimaste all’ergastolo parla di «innocenti in galera». E poi su Michele Misseri: «Fino al giorno del delitto di Sarah è stato un bravo padre», scrive Michele Pennetti il 22 febbraio 2017 su "Il Corriere del Mezzogiorno". Uno sfogo in piena regola. Parole contro il chiasso social scatenatosi dopo la conferma da parte della Corte di Cassazione dell’ergastolo per la mamma Cosima e la sorella Sabrina. Dichiarazioni contraddittorie su papà Michele, che continua a ritenere l’autore materiale del delitto della cugina Sarah Scazzi. «È una condanna che deve fare male a tutti perché due innocenti sono in galera. Prima che tocchi a te non pensi agli errori giudiziari». A dirlo è Valentina Misseri, figlia e sorella delle due donne condannate per l’omicidio della cugina Sarah Scazzi, che commenta il giudizio definitivo sul delitto del 26 agosto 2010. «Hanno accontentato l’opinione pubblica - afferma Valentina - basta farsi un giro sui social per capirlo: ci sono messaggi violenti, aggressivi verso di me, verso il professor Coppi e chiunque dica che mamma e Sabrina sono innocenti». Del padre Michele, che si autoaccusa dell’omicidio, sostiene che «fino a quel 26 agosto è stato un bravo padre. E nonostante quello che ha fatto gli voglio ancora bene perché capisco che ha dei problemi». Sempre secondo Valentina Misseri «una perizia psichiatrica andava fatta». Ecco perché: «Qualche mese prima della morte di Sarah papà aveva iniziato ad essere più aggressivo, instabile. E infatti mia sorella nei messaggi con Ivano, che risalgono a qualche mese prima, spiega che papà era diventato violento, si arrabbiava facilmente e aveva tentato di uccidere nostra madre». Valentina dice che anche la sua «vita è stata stravolta da questa vicenda, non ho superato dei colloqui di lavoro, quando cammino per strada sono additata e insultata. Voglio essere dimenticata. Oggi la mia vita ha un unico scopo: salvare dall’ingiustizia mia sorella e mia madre».

Delitto di Avetrana, ergastolo per Sabrina e Cosima, scrive il 21 Febbraio 2017 "Il Dubbio". La Prima sezione penale della Cassazione conferma la sentenza per l’omicidio della 15enne Sarah Scazzi avvenuto il 26 agosto 2010. La difesa: “Un grave errore giudiziario”. La Cassazione scrive la parola fine sul caso di Sarah Scazzi, a sette anni dall’omicidio della quindicenne di Avetrana, uno dei delitti che più hanno impressionato l’opinione pubblica italiana negli ultimi anni, confermando in via definitiva la sentenza di ergastolo per Cosima Serrano e Sabrina Misseri rispettivamente madre e figlia, ritenute responsabili dell’omicidio della quindicenne avvenuto il 26 agosto 2010. Lo ha stabilito la Prima sezione penale della Cassazione, che ha letto il dispositivo della sua sentenza. I giudici hanno annullato solo un’aggravante, relativa al concorso in soppressione di cadavere e ridotto il periodo di isolamento diurno stabilito in appello. «Cosima e Sabrina sono due sventurate, combatteremo fino alla fine perché è una battaglia per la giustizia: è un enorme errore giudiziario —ha commentato l’avvocato Roberto Borgogno, difensore di Cosima Serrano —, rimaniamo convinti che c’è un colpevole, Michele Misseri, e due innocenti che stanno scontando la pena al suo posto». Sabrina Misseri e Cosima Serrano sono dunque condannate come responsabili dell’omicidio volontario della loro cugina e nipote, trovata senza vita in una cisterna d’acqua nelle campagne circostanti Avetrana. Sarah Scazzi, figlia della sorella di Cosima Serrano, scomparve il 26 agosto 2010: per lei quella della zia, sposata con Michele Misseri e madre della sue cugine Sabrina e Valentina, era una seconda famiglia, con la quale trascorreva gran parte del tempo. Il giorno della scomparsa, Sarah aveva un appuntamento per andare al mare con un’amica, ma non si presentò. Dopo oltre un mese di ricerche, fu lo zio Michele a rivelare quanto accaduto: affermò il 6 ottobre di essere stato lui ad uccidere l’adolescente, e a nasconderne il cadavere in un pozzo. Una versione dei fatti che cambia già pochi giorni dopo, con il primo colpo di scena: l’uomo chiama in causa stavolta la figlia Sabrina. Per la verità Michele Misseri, nel corso del processo, è più volte tornato ad autoaccusarsi, ma, secondo gli inquirenti, il suo è stato sempre solo un tentativo di proteggere moglie e figlia da una pesante condanna. Una condanna al carcere a vita, quella che la Corte d’assise di Taranto prima e la Corte d’assise d’appello poi hanno inflitto alle due donne, che si sono sempre proclamate innocenti. Utilizzando spregiudicatamente i mass media (celebri i loro blitz in noti programmi tv, con tanto di sms inviati ai giornalisti per dare la loro versione). Per nascondere, hanno sostenuto i giudici di primo e secondo grado, una verità agghiacciante: lo stretto rapporto tra Sarah e Sabrina, cugine inseparabili, si era fatto via via più conflittuale. La più piccola, Sarah, era più carina, e Sabrina vedeva in lei una pericolosa rivale per possibili fidanzamenti. La gelosia, un litigio, e l’atroce complicità di mamma Cosima, che la tiene mentre Sabrina impazzita di rabbia la strangola. È poi zio Michele a caricare il corpo e gettarlo nella cisterna.

Avetrana e il giornalismo feroce che travolge anche le vittime, scrive Angela Azzaro il 22 Febbraio 2017, su "Il Dubbio". L’omicidio di Sarah Scazzi ha segnato un ulteriore passaggio del processo mediatico: la messa in scena di un dolore dove l’apparire in televisione e sui giornali è più importante dello stesso dolore. La prima sezione penale della Cassazione ha confermato la sentenza d’Appello: la condanna all’ergastolo per Sabrina Misseri e per la madre Cosima Serrano, ritenute colpevoli di aver ucciso nel 2010 Sarah Scazzi, rispettivamente cugina e nipote delle due donne. La Cassazione ha anche confermato la condanna ad otto anni di reclusione per Michele Misseri, ritenuto colpevole per soppressione di cadavere. “Zio Michele” continua invece a dichiararsi colpevole: «Due innocenti sono in prigione». Ma il caso di Avetrana, oltre ad essere un intricato caso giudiziario, è anche la storia di un processo mediatico in cui il giornalismo ha scritto una brutta pagina di indifferenza davanti al dolore. Questa volta non vale la pena partire né dall’inizio di questa brutta storia, né dalla fine: la conferma della condanna all’ergastolo per Sabrina Misseri e per la madre Cosima Serrano da parte della prima sezione penale della Cassazione, per avere ucciso nel 2010 Sarah Scazzi, rispettivamente la cugina e la nipote delle due donne. Partiamo da circa metà della storia, quando il cadavere della quindicenne viene ritrovato in un campo di Avetrana, un paesino pugliese in provincia di Taranto. Sarah è sparita da più di un mese, un pomeriggio assolato e deserto di agosto. Doveva andare al mare, è stata invece uccisa. Ma per tutto quel tempo gli investigatori, la famiglia, il paese l’hanno cercata. Fino all’ 8 ottobre, quando Michele Misseri, lo zio di Sarah e il padre della cugina Sabrina, non confessa di averla uccisa e porta gli inquirenti dove si trova il cadavere. Quel giorno accade qualcosa di unico, di nuovo, di terribile. La madre della ragazzina, Concetta Serrano, sorella della madre di Sabrina, è collegata in diretta con Chi l’ha visto? . E lì perché chiede di sapere dove è finita la figlia, spera ancora che qualcuno le possa fornire delle notizie utili, spera che la figlia sia viva. Spera e basta. Ma la sua speranza, la speranza di una madre, sta per infrangersi in diretta tv. Federica Sciarelli, che legge sulle agenzie la notizia del ritrovamento del cadavere di Sarah, invece di spegnere il collegamento, fa una cosa di indubbio gusto: dice alla madre che la figlia è morta, glielo dice davanti a migliaia di spettatori. Glielo dice con la telecamera puntata in faccia, per scrutare il suo dolore. Chi si ricorda l’episodio, forse ricorderà anche l’espressione di quel volto, di quel dolore, il dolore di una madre che ha appena perso la figlia quindicenne. È un volto pietrificato, un volto che da umano diventa roccia, diventa un muro contro cui va a sbattere l’informazione, l’etica, l’umanità. Più volte parlando di televisione si è usata l’espressione “morte in diretta”, titolo anche del bellissimo film del francese Bertrand Tavernier. Nel caso della madre di Sarah, accade qualcosa di più, qualcosa di diverso: è la notizia della morte in diretta. È un passaggio ulteriore del processo mediatico in cui non solo la sentenza viene elaborata negli studi televisivi, ma in cui la notizia – anche quando è così drammatica come la morte di un caro viene comunicata davanti alle luci di una telecamera. Fin da subito, anche per il ruolo avuto dai diretti protagonisti, il caso di Avetrana diventa un evento mediatico. Il piccolo paesino pugliese viene invaso dalle telecamere e dopo il ritrovamento del cadavere di Sarah si organizzano le gite per andare a vedere i luoghi in cui è avvenuto l’omicidio. Secondo il pm le cose sarebbero andate così. Sarah quel giorno doveva andare al mare con Sabrina e un’altra amica, arrivata a casa della cugina avrebbe litigato con lei a causa di un ragazzo, Ivano Russo, con cui Sabrina, allora ventiduenne, aveva avuto una storia. La vittima sarebbe andata via arrabbiata, ma sarebbe stata poi raggiunta in macchina dalla cugina e dalla zia Cosima che l’avrebbero riportata nella loro casa e poi uccisa. Non avrebbe dovuto dire cose scabrose, che riguardavano la famiglia Misseri. È a questo punto che entra in scena, non solo nella ricostruzione del pm, lo zio Michele, marito di Cosima, che si preoccupa di occultare il cadavere con l’aiuto del fratello Carmine e di un nipote, morto qualche anno fa. Quello che poi nell’immaginario è diventato lo “zio Michele”, prima si autoaccusa di aver ucciso Sarah, poi parla di concorso con la figlia Sabrina, poi accusa solo lei, poi ed anche la versione attuale dice di essere lui l’unico assassino. L’altro ieri, davanti alla probabilità che la Cassazione confermasse la condanna per la moglie e la figlia all’ergastolo e per lui a 8 anni per occultamento di cadavere, ha detto: «Io per me sono tranquillo. Ma ci sono due innocenti in galera». Anche il difensore di Sabrina, l’avvocato Franco Coppi, sostiene la colpevolezza di zio Michele. Ciò che è certo, in questa brutta storia, è il quadro terrificante che viene fuori della famiglia Misseri e di una provincia italiana che stimolata dai riflettori ha dato il peggio di sé. Anche questo è il processo mediatico: la messa in scena di una collettività dove l’apparire in televisione e sui giornali è più importante del dolore. Ma il dolore resta. Resta per un ragazzina che non c’è più e per una madre che non ha potuto urlare la sua disperazione gelata da quelle luci televisive, che spesso più che rivelare nascondono la verità giudiziaria, ma ancora prima la umanità.

Omicidio Sarah Scazzi, Sabrina Misseri in lacrime dopo l'ergastolo, scrive Giovanna Tedde su "it.blastingnews.com" il 22 febbraio 2017. La giovane sarà allontanata dalla madre, con cui per sei anni ha condiviso la cella nel carcere di Taranto. Un pianto disperato, quello di Sabrina Misseri dopo aver appreso la sentenza di Cassazione: resterà in carcere, condannata all'ergastolo in via definitiva per aver ucciso Sarah Scazzi. Come lei, Cosima Serrano, sua madre, condividerà la stessa pena detentiva ma non la stessa cella, come avvenuto per 6 anni di detenzione. Le due donne saranno presto separate, probabilmente il trasferimento riguarderà Sabrina, il cui legale ha dichiarato essere in uno stato di profondo sconforto. Intanto, come annunciato in seguito alla lettura della sentenza, i legali dei Misseri potrebbero percorrere la strada del ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Parla di una giovane donna "a pezzi" il legale di Sabrina Misseri, Nicola Marseglia. Uno stato di grande prostrazione avrebbe invaso la ragazza dopo la lettura della sentenza definitiva. Sconforto incrementato anche dalla notizia di un allontanamento da sua madre. Sabrina era riuscita a superare i 6 anni di carcere grazie alla presenza di Cosima nella stessa cella, l'unico trait d'union tra lei e la normalità. "Era distrutta. Ha pianto soltanto" ha dichiarato l'avvocato, che ha incontrato Sabrina in queste ore. Sin dalle prime battute successive al verdetto della Cassazione, il pool difensivo dei Misseri ha avanzato l'ipotesi di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Tale decisione sarebbe motivata dalla presunta violazione di alcuni princìpi fondamentali, tra cui quello del contraddittorio e, non ultimo, il principio per cui la difesa può esaminare i testimoni chiave per l'accusa. I legali di Cosima Serrano hanno spesso criticato la presunta deformazione nel giudizio di merito ascrivibile all'influenza della stampa e dell'opinione pubblica sui giudici popolari, soprattutto in rapporto alle ricostruzioni del caso. L'eccessiva trattazione mediatica della vicenda avrebbe irreparabilmente inficiato la bontà di una sentenza scevra di suggestioni e interpretazioni fallaci. 

Omicidio Scazzi, Sabrina Misseri in lacrime dopo l'ergastolo: ora sarà separata dalla madre. La cugina di Sarah, condannata in Cassazione per omicidio, ha ricevuto in carcere la visita del suo avvocato che racconta: "L'ho trovata a pezzi". L'ipotesi di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo, scrive il 22 febbraio 2017 "La Repubblica". Sabrina Misseri, condannata all'ergastolo dalla Corte di Cassazione per l'omicidio della cugina Sarah Scazzi, uccisa ad Avetrana il 26 agosto del 2010, ha ricevuto la visita nel carcere di Taranto di uno dei suoi difensori, l'avvocato Nicola Marseglia. "L'ho trovata a pezzi, senza infingimenti. Era distrutta, ha pianto soltanto", dice Marseglia. "Abbiamo parlato un pochino, è preoccupata perché probabilmente dovrà essere trasferita e comunque separata dalla madre. Anche da quel punto di vista non ho potuto essere particolarmente consolatorio". La condanna è diventata definitiva e quindi il trattamento carcerario è diverso da quello che riguarda i detenuti in attesa di giudizio. Si prospetta quindi anche una separazione dolorosa dalla madre Cosima Serrano, anche lei condannata all'ergastolo e con la quale ha condiviso la cella del penitenziario da maggio del 2011, quando la zia di Sarah venne arrestata. Sabrina era stata arrestata a metà ottobre 2010. E' possibile che una delle due donne rimanga a Taranto e l'altra venga trasferita. "Facciamo appello a chi ha qualcosa da dire di smetterla con questo gioco al massacro e di mettersi una mano alla coscienza. Noi sappiamo che nel momento in cui la prova in questo processo è stata acquisita quella prova in buona parte era pure inquinata", dice Marseglia confermando che si studierà la possibilità di un ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo. "Magari ci vorranno anche anni. Dovranno emergere nuovi elementi di prova che non conosciamo. Tante persone che hanno taciuto - rimarca - se vogliono, forse, finalmente possono parlare di fronte a un fatto così enorme e cioè la morte di una ragazzina di 15 anni e il carcere per una giovane. Secondo la giustizia è un'assassina ma se per un milionesimo di possibilità non lo è, forse sarebbe il caso di mettersi una mano alla coscienza". "Queste cose - aggiunge - le ho dette nelle sedi proprie: la Corte d'assise, la Corte d'appello e la Cassazione. Le ho dette a Sabrina con delicatezza anche per darle l'idea che si è chiuso il sipario ma non è detto che non ci possa essere qualche novità. Le sentenze in questa vicenda sono state tutte di segno uguale - conclude l'avvocato Marseglia - quindi bisogna avere il buonsenso di rispettare una decisione difforme rispetto alle nostre aspettative. Però noi siamo stati sempre convinti di quello che abbiamo detto e sostenuto: non sarei del tutto sorpreso, quindi, se potesse esserci qualche novità importante".

Avetrana: siamo tutti in libertà vigilata, scrive Claudio Romiti su “L’Opinione" il 23 febbraio 2017. Debbo confessare che, nonostante la grande pressione colpevolista esercita fin dai primi giorni dai media nazionali, mi aspettavo dalla Suprema Corte di Cassazione un giudizio ben diverso rispetto alla conferma dell’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, ritenute definitivamente colpevoli dell’omicidio di Sarah Scazzi. In questo senso non posso che condividere in toto l’amara affermazione dell’avvocato Roberto Borgogno, legale della signora Serrano, intervistato per “La Stampa” dall’ottima Maria Corbi: “C’è un colpevole e ci sono due innocenti che stanno scontando la pena al posto suo. È stato commesso un evidente errore giudiziario”. Già, proprio un errore giudiziario che, pur nel rispetto formale che uno Stato di diritto pretende nei confronti di ogni sentenza, per come è maturato scuote le coscienze e lascia nella mente di chi pensa che il garantismo non sia un optional la sensazione che in questo disgraziato Paese siamo un po’ tutti colpevoli in libertà vigilata. Soprattutto se consideriamo che la cosiddetta prova regina su cui si è basato il castelletto accusatorio della Procura di Taranto è il famoso sogno del fioraio Giovanni Buccolieri. Un sogno il quale, come ha rimarcato la stessa Corbi nel corso della trasmissione televisiva “La vita in diretta” (contrapposta ad una imbarazzante Filomena Rorro, tra le prime a gettare la croce sulle due condannate), è stato preso come oro colato dai vari giudici e, come accaduto nei confronti di altre testimonianze che non collimavano con il teorema accusatorio, ha dato luogo a un procedimento penale per falsa testimonianza, ancora in corso, nei confronti del medesimo sognatore, quest’ultimo fermamente intenzionato a ribadire la sua versione onirica. Ma a rendere ancor più inquietante la tragica vicenda, principalmente per chi ha seguito il caso senza i paraocchi di un teatrino mediatico-giudiziario a dir poco vergognoso, vi è la surreale condizione di Michele Misseri, marito di Cosima Serrano e padre di Sabrina Misseri, fin da subito reo confesso e, a mio parere personale, unico autore di un delitto d’impeto a sfondo sessuale che sembra particolarmente cristallino nei suoi drammatici contorni. Ciononostante il Misseri, pur continuando a proclamare con costanza e ostinazione la sua piena responsabilità nel delitto, non è stato creduto neppure dalla Cassazione. Un caso quasi unico nella nostra giurisprudenza. Ha invece prevalso una ricostruzione dei fatti la quale, al di là della evidente mancanza di riscontri oggettivi - soprattutto dopo la successiva incriminazione di Cosima Serrano, dipinta fin dall’inizio dalla stampa colpevolista come una sorta di manipolatrice criminale - appare piuttosto in conflitto con la logica e il buon senso. Ma tant’è, al pari del proverbiale Martin che per un punto perse la cappa, in Italia si può finire all’ergastolo, perdendo a vita la libertà, per un sogno. Spero vivamente di essere smentito nel tempo a venire, tuttavia nutro la forte impressione che più una accusa (in particolare quelle sfruttate dai media per ragioni di audience) poggia su basi fragili, e più risulta impossibile invertirne un verdetto finale di condanna che sembra già segnato fin dai primi momenti. E se la libera informazione, anziché fare le bucce alla pubblica accusa, ossia la parte più forte in qualunque procedimento penale, diviene il collettore per le peggiori inclinazioni colpevoliste presenti nella popolazione, anticipando di fatto il giudizio finale, quest’ultima offre un pessimo servizio alla collettività. In merito all’incredibile vicenda di Avetrana, in cui hanno dominato chiacchiere, pettegolezzi e forzature di ogni genere, siamo in pochi a rilevare e mettere nero su bianco le enormi criticità di una duplice condanna capitale definitiva, e questo dovrebbe farci quanto meno riflettere.

Delitto di Avetrana, dalla scomparsa di Sarah Scazzi all’ultima sentenza: i volti e le tappe.

Attesa per il verdetto della Cassazione a sei anni e mezzo dall’assassinio della 15enne. In primo e secondo grado sono state condannate all’ergastolo Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia della vittima. Allo «zio Michele» sono stati inflitti 8 anni per soppressione di cadavere, scrive Angela Geraci il 20 febbraio su "Il Corriere della Sera".

1. 26 agosto del 2010. Sarah, studentessa al secondo anno dell'istituto alberghiero, esce di casa nel pomeriggio per andare a casa della cugina Sabrina e recarsi con lei al mare. Ma sparisce nel nulla e, poche ore dopo, la madre ne denuncia la scomparsa. La scomparsa in un pomeriggio di agosto. Sarah Scazzi sparisce nell’arco di 12 minuti mentre percorre 600 metri nel cuore del suo paese, Avetrana (Taranto). In pieno giorno. A quell’ora, le 14.30 di un giovedì di fine agosto, le strade sono deserte e cotte dal sole. La ragazza ha 15 anni, studia all’istituto alberghiero ed è uscita di casa per andare dalla cugina Sabrina Misseri con cui deve andare al mare. Sabrina sogna di fare l’estetista, ha 22 anni e nonostante la differenza di età è molto legata a Sarah tanto da portarla anche fuori la sera insieme ai suoi amici più grandi. La ragazzina passa molto tempo nella villetta di via Grazia Deledda dove Sabrina vive con i genitori Cosima e Michele. Qualcuno la vede lungo la breve strada tra le due abitazioni, cammina spedita e indossa gli auricolari, non immagina che quelli sono gli ultimi istanti della sua vita. Passano i minuti e Sarah non arriva all’appuntamento: Sabrina cerca di chiamarla sul cellulare ma risulta staccato. Allora dà l’allarme perché «l’hanno certamente rapita», dice «agitata» all’amica Mariangela Spagnoletti che doveva andare in spiaggia con loro. È il 26 agosto del 2010.

2. 29 settembre 2010. Michele Misseri, zio della ragazzina, porta agli inquirenti il telefono semibruciato della vittima, che dice di aver ritrovato in un campo poco distante dalla sua abitazione. 40 giorni di ricerche e il cellulare nell’uliveto. La mamma di Sarah, Concetta Serrano, fa la denuncia di scomparsa la sera stessa. Da subito telecamere e giornali iniziano a seguire attentamente la storia della ragazzina esile e bionda sparita incredibilmente nel nulla. All’inizio si punta sulla pista del rapimento a scopo di riscatto ma presto appare chiaro che le condizioni economiche della famiglia non sono tali da giustificare uno scenario del genere. Sarah vive con la madre ad Avetrana mentre il padre Giacomo fa il muratore a Milano, dove sta anche il fratello maggiore della 15enne, Claudio. Gli inquirenti prendono in esame anche la possibilità di un allontanamento volontario, sebbene sia difficile che una ragazzina se ne vada via in tenuta da mare e senza un soldo. L’ha aiutata qualcuno? È possibile che nessuno abbia visto o sentito nulla? Mentre vanno avanti le ricerche in paese e nelle campagne che lo circondano, si moltiplicano i falsi avvistamenti di Sarah. I parenti della ragazza sono sempre in tv a fare appelli, soprattutto Sabrina che con un fazzoletto appallottolato in mano racconta tra le lacrime davanti alle telecamere il suo rapporto con la cuginetta. Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, i genitori di Sarah, rivolgono un appello al Quirinale per intensificare le ricerche della figlia. È il 7 settembre 2010. Tutto cambia il 29 settembre, quando Sarah è scomparsa da trentatrè giorni: lo zio Michele, padre di Sabrina, trova in un uliveto il telefonino della nipote. Era senza batteria e scheda Sim, bruciacchiato, in un podere ad alcuni chilometri di distanza da Avetrana. Le televisioni si avventano sull’uomo, un anziano contadino che era emigrato in Germania e poi è tornato nel suo paese. Con un cappellino calato in testa, singhiozzando, l’uomo racconta di essere andato in campagna per recuperare un cacciavite dimenticato e di aver visto il cellulare a cui erano legati un lucchettino e un ciondolo a forma di lattina. «Il cuore me lo diceva che era di Sarah», dice prima di fare una strana precisazione: «È stato proprio un caso che lo abbia trovato io e ho detto ai carabinieri di non dire nulla a nessuno per evitare che la gente potesse pensare “Proprio lo zio lo doveva trovare!”. Ma la notizia è circolata lo stesso».

3. 6 ottobre 2010. Le confessioni dello «zio mostro». Dopo un interrogatorio durato ore, Misseri confessa l'omicidio della nipote e mostra agli investigatori il luogo dove giace il corpo. Da quel momento, l'uomo cambia versione più volte fino a quando, a metà ottobre 2010 ammette il coinvolgimento della figlia Sabrina. Zio Michele resiste cinque giorni agli interrogatori, poi il 6 ottobre 2010 crolla: «Ho ucciso io Sarah». L’uomo racconta di averla strangolata nel suo garage in una sorta di «raptus». Poi aggiunge un particolare che lascia tutti sbigottiti: quando la ragazzina era già morta, lui avrebbe abusato sessualmente del suo corpo prima di gettarlo, senza vestiti, in un pozzo. L’indignazione degli italiani è grande, compaiono striscioni contro «l’orco» negli stadi e ad Avetrana. Michele Misseri accompagna gli inquirenti nelle campagne intorno al paese e fa ritrovare il cadavere di Sarah, gonfio e irriconoscibile. In quel momento la mamma della ragazzina è collegata con la trasmissione «Chi l’ha visto?» e tra mille imbarazzi viene avvisata del ritrovamento in diretta. Ma Michele, portato subito in carcere, cambia presto versione. Qualche giorno dopo, il 15 ottobre, chiama in causa a sorpresa sua figlia Sabrina sostenendo che lei ha trattenuto Sarah mentre lui la strangolava in garage. Intanto l’autopsia lo smentisce a proposito della violenza su Sarah: sul corpo non ci sono tracce di abusi, Michele ha detto un’abominevole bugia. L’uomo però non ha ancora finito di «correggere» la sua confessione: in un’ulteriore versione, cristallizzata in un incidente probatorio il 19 novembre 2010, attribuisce tutta la responsabilità alla figlia, sostenendo di avere visto Sarah quando era già morta e di essersi occupato solo di nascondere il corpo. Mai, in tutte le sue ricostruzioni, fa riferimento al ruolo della moglie Cosima di cui appare succube. Sabrina viene arrestata.

4. Il movente, Ivano e la gelosia. Michele, accusando la figlia, fornisce anche il movente del delitto: la gelosia. Sabrina e Sarah si erano infatti invaghite dello stesso ragazzo, Ivano Russo, e per lui avevano litigato il 25 agosto, la sera prima del delitto. Vengono analizzati gli sms scambiati tra i giovani, si entra nelle memorie dei telefonini a caccia di foto, si raccolgono le voci di amici e conoscenti. Salta fuori che Sabrina e Ivano avevano avuto una relazione che poi si era interrotta bruscamente per volere di lui. Anche il 26enne viene sentito più volte dagli inquirenti, mentre la stampa gli dà la caccia: «Voi giornalisti mi perseguitate, addirittura i paparazzi mi vengono dietro, vorrei chiedere di lasciarmi in pace. C’è un limite a tutto», si sfoga in un’intervista al Corriere del Mezzogiorno. «Sarah per me era una tenera amica poco più di una bambina e non sapevo quali fossero i suoi sentimenti sul mio conto: questa è stata la mia unica colpa», sostiene Ivano. Durante il processo poi racconterà: «Il giorno del delitto o il giorno dopo Sabrina mi mandò un sms dicendo che aveva trovato un diario di Sarah in cui diceva che aveva un debole per me. Mi disse che non lo consegnava di comune accordo con la madre di Sarah perché temeva che mi indagassero. Io non risposi e poi ho cancellato questo messaggio perché mi spaventai. Forse sarebbe stato meglio consegnarlo, forse ho sbagliato e avrei dovuto dirlo». Oggi Ivano è indagato nell’inchiesta bis (insieme a sua madre, suo fratello e una ex fidanzata) per false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza alla Corte d’assise.

5. Un delitto «di famiglia». Nella brutta storia di Sarah entrano altri personaggi, tutti legati a lei da vincoli di parentela. Il 23 febbraio 2011 vengono arrestati anche Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello e nipote di Michele: sono accusati di concorso in soppressione di cadavere. Hanno, cioè, aiutato «zio Michele» a disfarsi del corpo di Sarah. Per questo il 20 aprile 2013 vengono condannati in primo grado a 6 anni di reclusione. L’anno successivo Cosimo, 46 anni, muore dopo una lunga malattia.

6. Il paese, il fioraio e la «sfinge» Cosima. Sullo sfondo della vicenda, con il passare dei giorni, acquista sempre più peso il paese di Avetrana, immerso a lungo in un silenzio omertoso: le persone non parlano, appaiono intimorite. Al punto da riferire circostanze e poi ritrattare tutto con motivazioni grottesche. È il caso del fioraio Giovanni Buccolieri che prima dice di aver visto Cosima e la figlia Sabrina rincorrere per strada Sarah e costringerla a salire sulla loro auto, poi - dopo poche ore - spiega al magistrato che si è confuso: «Era un sogno». Verrà accusato di false dichiarazioni al pm. Il 26 maggio 2011 Cosima - donna di polso e di poche parole, il volto dai lineamenti pietrificati - viene arrestata e raggiunge Sabrina in carcere. L’accusa è quella di concorso in omicidio e sequestro di persona. Tra lei e la sorella minore Concetta, la mamma di Sarah, da tempo non c’erano buoni rapporti. Quattro giorni più tardi torna invece in libertà il marito Michele, accusato a questo punto soltanto di soppressione di cadavere. In pochi giorni, comunque, l’intera famiglia Misseri è andata in frantumi. L’unica non toccata dalle indagini è Valentina, la sorella maggiore di Sabrina che vive lontano da Avetrana, a Roma, con il marito. «Mia madre e mia sorella non c’entrano assolutamente niente con questa storia - commenta a caldo - il problema è che si è parlato troppo».

7. La ricostruzione dell’omicidio. Secondo l’accusa Sarah litiga con Sabrina appena arrivata alla villetta dei Misseri, il 26 agosto. Dopo il litigio la 15enne esce con l’intenzione di tornare a casa sua ma viene raggiunta in auto dalla cugina e dalla zia che la riportano indietro con la forza. E la uccidono strangolandola con una cintura. Poi il corpo viene portato in garage e fatto successivamente sparire da Michele con l’aiuto del fratello e del nipote. L’analisi delle celle telefoniche parla chiaro a proposito dei movimenti delle imputate. Il delitto secondo i pm è stato «l’apice di una situazione di tensione mista ad ira» perché «Se Cosima è uscita e ha preso l’auto per riprenderla vuol dire che era necessario impedire che Sarah tornasse a casa e raccontasse le ragioni del litigio e di tutto ciò che era accaduto in casa Misseri. Qualcosa di grave, legato allo stato di tensione tra le due cugine». Dalla lettura di alcuni sms tra Sabrina e Ivano emerge infatti un «contesto scabroso che avrebbe caratterizzato la comitiva di cui faceva parte anche Sarah, dove i discorsi a sfondo sessuale sarebbero stati un’abitudine e dove compare persino uno “spogliarello” maschile con “paghetta” per lo spettacolo offerto. Un contesto - sostiene l’accusa - che se fosse stato svelato anche dalla stessa Sarah alla madre avrebbe danneggiato irrimediabilmente l’immagine della famiglia Misseri in un piccolo centro di provincia quale Avetrana: quel 26 agosto, in quella casa, è mancata la pietà umana e ha prevalso l’istinto di conservazione». Insomma, Sarah è stata uccisa e gettata in un pozzo per paura del giudizio del paese sui comportamenti di un gruppo di ragazzi.

8. Le sentenze di primo e secondo grado. Durante il processo di primo grado Michele Misseri torna ad addossarsi la responsabilità del delitto ma nessuno gli crede più. A iniziare dal suo legale che si dimette subito dopo le dichiarazioni rese in aula del contadino di Avetrana. Il 20 aprile 2013 Sabrina e Cosima, che stanno nella stessa cella, vengono condannate all’ergastolo. Il pubblico che assiste alla lettura della sentenza applaude, la ragazza piange disperata, la madre non muove un muscolo facciale e dice alla figlia: «perché piangi? Tanto lo sapevamo». A Michele vengono inflitti 8 anni, per i due complici che l’hanno aiutato a nascondere il corpo di Sarah la pena è di 6 anni. Poco più di due anni dopo, il 27 luglio 2015, i giudici d’appello confermano le condanne. In quella occasione Cosima esce dal suo silenzio e prende la parola in aula: «Sono passati duemila anni e Gesù venne condannato dal popolo: come allora tutti vogliono che siamo condannate - dice - Oggi tutti i giorni vengono condannati degli innocenti». Anche Sabrina, in lacrime, chiede di parlare: «Non ce la faccio se penso che secondo voi io avrei potuto uccidere Sarah! Io non l’ho uccisa».

Le date.

26 agosto del 2010. Sarah, studentessa al secondo anno dell'istituto alberghiero, esce di casa nel pomeriggio per andare a casa della cugina Sabrina e recarsi con lei al mare. Ma sparisce nel nulla e, poche ore dopo, la madre ne denuncia la scomparsa.

29 settembre 2010. Michele Misseri, zio della ragazzina, porta agli inquirenti il telefono semibruciato della vittima, che dice di aver ritrovato in un campo poco distante dalla sua abitazione. 40 giorni di ricerche e il cellulare nell’uliveto.

6 ottobre 2010. Le confessioni dello «zio mostro». Dopo un interrogatorio durato ore, Misseri confessa l'omicidio della nipote e mostra agli investigatori il luogo dove giace il corpo. Da quel momento, l'uomo cambia versione più volte fino a quando, a metà ottobre 2010 ammette il coinvolgimento della figlia Sabrina. Zio Michele resiste cinque giorni agli interrogatori, poi il 6 ottobre 2010 crolla: «Ho ucciso io Sarah».

15 ottobre 2010. Michele Misseri chiama in correità nel delitto la figlia Sabrina, che finisce in cella.

5 novembre 2010. Michele Misseri accusa esplicitamente la figlia Sabrina di aver ucciso Sarah.

19 novembre 2010. Nell’incidente probatorio Michele Misseri conferma le accuse del 5 novembre nei confronti della figlia. 

Dicembre 2010. Michele Misseri cambia ancora versione, dal carcere scrive di essere lui l'assassino e di aver fatto tutto da solo, anche la soppressione del cadavere.

26 maggio 2011. Viene arrestata Cosima Serrano, madre di Sabrina. L'accusa è di concorso in omicidio e sequestro di persona. Il provvedimento viene anche notificato a Sabrina, già in cella.

23 febbraio 2011. I carabinieri accusano Carmine Misseri e Cosimo Cosma, il fratello e il nipote di Michele Misseri, di concorso in soppressione di cadavere. Scarcerati a marzo dal Tribunale del Riesame.

10 marzo 2011. Il Tribunale del Riesame scarcera Carmine Misseri e Cosimo Cosma.

26 maggio 2011. Viene arrestata Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri e madre di Sabrina. E’ accusata di concorso in omicidio e sequestro di persona. Analogo provvedimento viene notificato a Sabrina in carcere.

30 maggio 2011. Alle 19 viene scarcerato Michele Misseri, su richiesta della Procura di Taranto. Dopo 236 giorni di detenzione lo zio di Sarah Scazzi torna libero. Per lui l'accusa resta solo quella di soppressione di cadavere.

1 luglio 2011. Si concludono le indagini preliminari con l'incriminazione di 15 persone per reati che vanno dal concorso in omicidio alla soppressione di cadavere, sequestro di persona, furto, false dichiarazioni al Pm, soppressione di documenti, infedele patrocinio, favoreggiamento e intralcio alla giustizia. 29 agosto 2011: Udienza preliminare con nove rinvii a giudizio, tre assoluzioni e un proscioglimento.

29 agosto 2011. Dinanzi al gup comincia l’udienza preliminare, che si chiuderà con nove rinvii a giudizio, tre assoluzioni e un proscioglimento.

10 gennaio 2012. Si apre il processo davanti alla Corte d'assise di Taranto. I principali imputati sono Sabrina Misseri, con l'accusa di omicidio volontario, la madre Cosima, con l'accusa di concorso in omicidio e il padre Michele, con l'accusa di soppressione di cadavere. Il comune di Avetrana si è costituito parte civile. Nella foto Concetta Spagnolo Scazzi, madre di Sarah.

20 aprile 2013. Dopo cinque giorni di Camera di consiglio, la Corte di Assise emette la sentenza: ergastolo per Cosima e Sabrina (omicidio, sequestro di persona e soppressione di cadavere), otto anni per soppressione di cadavere per Michele Misseri, sei anni a Carmine Misseri (fratello di Michele) e Cosimo Cosma (nipote di Michele Misseri, morirà il 7 aprile 2014), due anni all’ex legale di Sabrina, Vito Russo Junior, per favoreggiamento. Condannati per favoreggiamento a pene comprese tra un anno e un anno e quattro mesi altri quattro imputati. La Corte d'assise di Taranto condanna all'ergastolo Sabrina Misseri e Cosima Serrano per l'omicidio di Sarah Scazzi. A Michele Misseri 8 anni per concorso in soppressione di cadavere. Per lo stesso reato vengono inflitti 6 anni ciascuno a Carmine Misseri e a Cosimo Cosma (morirà il 7 aprile 2014). Anche l'ex difensore di Sabrina, Vito Russo Junior, viene condannato, a due anni di reclusione in questo caso, per intralcio alla giustizia.

14 novembre 2014. Dinanzi alla sezione distaccata di Taranto della Corte di assise di appello di Lecce, inizia il processo di secondo grado. Durerà otto mesi.

27 luglio 2015. La corte d'assise d'appello di Taranto ha confermato le condanne. Ridotte per gli altri imputati. La Corte d’assise d’appello di Taranto conferma la condanna all’ergastolo per Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri e a otto anni per Michele Misseri per concorso in soppressione di cadavere. Confermata anche la pena ad un anno e quattro mesi per Giuseppe Nigro, imputato per favoreggiamento personale. I giudici riducono la pena (a un anno e quattro mesi) per l’avv.Vito Russo Junior e (a cinque anni e 11 mesi) per Carmine Misseri.

21 febbraio 2017 - La Cassazione conferma l’ergastolo per Cosima e Sabrina e la condanna per Michele Misseri a otto anni per concorso in soppressione di cadavere. Con la condanna definitiva scattano le manette per Misseri, attualmente ancora a piede libero.

Michele Misseri, fino alla fine, al telefono con Maria Corbi, ribadisce di essere stato lui ad uccidere la Piccola Sarah, e che questa versione è stata la stessa dall’inizio alla fine della vicenda giudiziaria, salvo un piccolo lasso di tempo in cui è stato indotto da altri ad accusare la figli Sabrina (dalla Roberta Bruzzone e dall’avv. Daniele Galoppa) con la prospettiva di cavarsela con poco, lui e sua figlia.

Le ultime lettere di zio Michele. Analisi comunicazionale delle dichiarazioni finali del reo bugiardo più famoso d’Italia, scrive Selene Pascarella il 2 marzo 2 marzo 2017 su "Taranto Buona Sera". Taranto Buona Sera” La Cassazione ha messo la parola fine al giallo di Avetrana. Sabrina Misseri e Cosima Serrano sconteranno una condanna definitiva all’ergastolo. Michele Misseri varca la porta del carcere continuando a ribadire la propria colpevolezza, in un rovesciamento del luogo comune. Là dove tutti i condannati di fresco gridano la propria innocenza, Michele, in una telefonata al Tg2 subito dopo la sentenza, parla di «errore giudiziario» proprio perché non è stato riconosciuto il suo ruolo nell’omicidio di Sarah Scazzi. Del resto, ha dichiarato il procuratore generale nella sua requisitoria, «l’ultimo grado di giudizio non serviva a verificare la posizione di Michele Misseri nell’omicidio». «Visti i continui ripensamenti di Michele – ha argomentato il pg - le corti hanno fatto a meno delle sue dichiarazioni». Eppure in un’inchiesta caratterizzata da testimoni recalcitranti, come il fioraio sognatore, e imputate che non hanno ammesso qualsivoglia forma di responsabilità, le parole di Michele Misseri sono state l’unica costante anche nella loro contraddittorietà. Da reo confesso, grande accusatore e poi difensore della figlia, insomma, Michele è l’unico che ha sempre sentito il bisogno di parlare dell’omicidio di Sarah. L’ha fatto anche nell’ultimo giorno da libero, in attesa di essere accompagnato in carcere. Le aule di tribunale hanno assolto il loro compito, ma come osservatori possiamo scegliere di non fare a meno delle ultime dichiarazioni del famigerato Zio Michele da Avetrana, sposando il punto di osservazione di una branca della criminologia moderna che va sotto il nome di analisi comunicazionale forense. Una pratica resa famosa in tv dallo scopritore di bugiardi protagonista del telefilm Lie to me, che in realtà non si occupa di sottoporre la gente a un poligrafo immaginario, stabilendo chi mente e chi no. Bensì analizza in maniera oggettiva la comunicazione verbale ed extraverbale di testimoni, sospetti autori di reato, persone informate dei fatti, per trarne il massimo di informazioni possibili. Nel caso in questione non c’è stata occasione di osservare Misseri mentre pronunciava la sua ultima lettera prima del carcere, studiando la mimica del corpo e del volto, alla ricerca di comunicazioni involontarie, magari contrastanti con quelle espresse dalle parole. Potrebbe, però, non essere un male. C’è qualcosa nella fisicità del contadino di Avetrana che ha il potere di delegittimare la portata delle parole che pronuncia, soprattutto quando hanno a che fare con le donne della sua vita, Cosima e Sabrina, e la nipote che ha trovato la morte tra le pareti della sua casa, Sarah. Il solo palesarsi del suo volto fa scattare in chi ascolta il pregiudizio, perché Misseri è ormai, sia per i colpevolisti che per gli innocentisti, l’icona del voltagabbanismo giudiziario. Concentrarsi sulla sua voce nuda, filtrata dall’apparecchio telefonico, soppesandone il volume, le intonazioni e il ritmo, può aiutare a eliminare il rumore di fondo associato all’immagine mediatica del personaggio. Ascoltiamo, cosa ha da dire un uomo condannato a otto anni di carcere per la soppressione del cadavere della nipote quindicenne. «Sono sereno» annuncia alla giornalista che lo interpella, «sto aspettando che mi vengono a prendere».

Fin qui la dichiarazione preparata a tavolino, probabilmente su suggerimento del legale. Il tono è pacato, il volume trattenuto per paura di dire troppo o troppo poco. All’improvviso il registro cambia. «Non sono sereno per n’altra cosa» aggiunge Misseri con foga, per poi fare una pausa quasi da attore nel proseguire del discorso, «perché ci sono due innocenti in carcere». «Anzi tre innocenti» si corregge, «contando mio fratello Carmine». Parole semplici, nel consueto italianese (mix di lingua italiana e inflessione avetranese) ma del tutto prive di rassegnazione. Si dice sereno Misseri, ma dal modo con cui allude al destino dei suoi congiunti colpiti da un’ingiustizia trapela una sorta di forza provocatoria che potrebbe indicare una reale indignazione. L’aumentare del volume, spontaneo e involontario, tradisce rabbia. Forse la frase di circostanza preparata per la stampa ha subito un cambiamento dell’ultimo minuto. Misseri si è fatto scivolare via la maschera indossata per l’agone mediatico. C’è un momento di cedimento emotivo quando la reporter gli chiede di dire qualcosa a moglie e figlia: «Chiedo perdono per gli errori che ho fatto» ammette, sottolineando le parole con un verso di scoramento che stride con la frase successiva. «Non mi hanno creduto» declama con un aumento di volume palesemente voluto ed enfatizzato con un verso – «eeeeh» – che ha un’intonazione artefatta. Michele rimette la maschera mediatica, sembra rivolgersi al pubblico televisivo e tramite esso a Sabrina e Cosima, trasforma la sua responsabilità nel riflesso di un errore altrui. Lui ha sbagliato a mentire accusando sua figlia ma ha sbagliato di più chi gli ha creduto o non ha creduto che mentisse. La voce ritorna composta, senza aggiunte a effetto, quando ribadisce che «questo è un errore giudiziario» ma ha un guizzo nel momento in cui azzarda «secondo me ancora non è finita», quasi stesse portando avanti un monologo interiore e non un’intervista. Sta per arrivare l’ennesima verità shock di Michele? La reporter non si fa scappare l’occasione e chiede particolari, ma Misseri si sottrae passando alla prima persona plurale «andremo ancora avanti», taglia corto come se la questione non dipendesse in alcun modo da lui. «Vediamo» conclude abbassando il volume, indicatore della volontà di cambiare argomento in fretta. Azione affidata ancora una volta a una dichiarazione di prammatica, pronunciata con intonazione monocorde, nonostante il contenuto ad alto tasso emotivo: «Chiedo perdono soprattutto a Sarah che non ha avuto giustizia». La telefonata si conclude così, l’analisi comunicazionale non può dimostrare con certezza se Michele sia bugiardo o sincero, ma fa emergere la sua convinzione che ci siano ancora elementi in grado di cambiare, se non la verità giudiziaria, quella fattuale sulla morte di Sarah. Forse è solo l’autoillusione di chi non vuole accettare una dura realtà, o forse, come qualcuno ha sempre pensato, tanto ancora ci sarebbe da dire sulle ultime ore di Sarah Scazzi. Se davvero il giallo di Avetrana non è finito e ci sono verità nascoste il depositario non può che esserne proprio Michele Misseri, il colpevole e il testimone meno credibile e meno creduto di questa lunga e triste vicenda giudiziaria. Se così dovesse essere potremo davvero fare a meno delle sue dichiarazioni?

Sarah Scazzi, Michele Misseri fratello: “Lo uccido”, lo sfogo di Carmine dopo l’arresto, scrive sabato 25/02/2017 Michela Becciu il Breaking News su Urban Post. Omicidio Sarah Scazzi ultime notizie: è emersa ieri 24 febbraio durante la diretta di Quarto Grado la reale motivazione per la quale subito dopo l’arresto, i fratelli Michele e Carmine Misseri non sono finiti nella stessa cella. Si era detto inizialmente, infatti, che “per una situazione tra loro difficile da gestire” si era preferito separare i due uomini. Le cose in realtà starebbero molto peggio: pare che subito dopo l’arrivo presso il carcere di Taranto, fatte le foto segnaletiche come da prassi, Carmine Misseri – condannato a 4 anni e 11 mesi di carcere per concorso in soppressione di cadavere – abbia detto esplicitamente alle guardie carcerarie: “Vi chiedo di non farmi nemmeno incontrare mio fratello, non voglio vederlo altrimenti lo ammazzo”. Michele Misseri, invece, sembra aver ritrovato la tanto agognata serenità in carcere: il contadino di Avetrana, che pur non essendo mai stato creduto dai magistrati ha continuato negli anni ad assumersi la responsabilità dell’omicidio della nipote, chiedeva da tempo la detenzione. Nei prossimi giorni, si è inoltre appreso, tutti i 4 membri (anche Sabrina Misseri e Cosima serrano) della famiglia Misseri potrebbero essere trasferiti in altri penitenziari.

La madre di Sarah Scazzi: “Come faccio a capire perché mia sorella ha ucciso mia figlia?”. Un estratto dell'intervista che questa sera andrà in onda a Quarto Grado, realizzata dalla giornalista Alessandra Borgia, scrive il 3 marzo "Fan Page". Quarto Grado proporrà in esclusiva un'intervista a Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, la tredicenne uccisa ad Avetrana nel 2010. La donna ha risosto alle domande di Alessandra Borgia, facendo riferimento alla condanna ad ergastolo inflitta dalla Suprema Corte a Cosima Serrano e Sabrina Misseri, rispettivamente zia e cugina della vittima, e agli otto anni di reclusione allo zio Michele Misseri, accusato di soppressione di cadavere e inquinamento delle prove. Le parti salienti dell'intervista descrivono una donna afflitta dal suo dolore, oltre che sola in senso familiare, essendo Cosima sua sorella. La donna racconta in parte i fatti di quella giornata, ricostruendo le ultime ore di vita di Sarah: "È entrata nella sua cameretta e si è chiusa. Poi, dopo un po’, è uscita e ha detto: “Mamma… vedi che dobbiamo andare al mare con Sabrina”. Ore dopo è venuta Sabrina a dirmi: “Zia, Sarah non è venuta. Dovevamo andare al mare”. E io: “Come? Se mi ha detto che veniva a casa tua, com’è che non è venuta?”. E lì ho pensato: “Sarà successo qualcosa” e ho detto a mio marito: “Prendiamo la macchina, vediamo se per caso la vediamo in giro. Quando ho visto che di lei non c’era traccia ho detto: “Andiamo in caserma perché qui la cosa incomincia a preoccuparmi”. Ricordo un particolare: quel giorno, quando ho denunciato il fatto che Sarah non si trovava, venne anche mia sorella Cosima. Lei, arrabbiata, affermò: “Questa sera quando torna, se torna, le devi tirare uno schiaffone, perché l’ha fatta veramente grossa”. Con il senno di poi ho pensato: ma se non torna più che schiaffone le devo tirare?» Concetta Serrano è sconcertata per la condanna della sorella e la nipote: "Già aver perduto Sarah in quel modo è stato uno strazio. Poi sapere che sono stati loro, i miei parenti, a fare questo… il dolore è aumentato, è diventato più forte, chi poteva mai immaginare che fossero stati loro? […] Oltre a Sarah ho perso anche loro due. Adesso ci ritroviamo ad affrontare un futuro da soli, in termini familiari. Loro da soli, lì. Io da sola, qui… perché altri familiari mi hanno abbandonata… saremo tutti soli". La donna invia anche un messaggio alla sorella:

Se vuole ritrovare la tranquillità, di mettere la coscienza a posto. Di dire la verità, anche se le costa tanto. Le è costato l’ergastolo, però la coscienza non l’ha ancora sistemata […] E neanche Sabrina. La domanda finale che Concetta pone a se stessa è un interrogativo al quale difficilmente si può dare risposta: "Posso immaginare tante cose. Come faccio a capire perché l’hanno uccisa? Lo sanno solo loro".

Concetta: «Quella mattina dovevamo imbiancare casa. Sarah si è svegliata e verso le 8:30/9:00 è andata da sua cugina Sabrina. Verso le 13:00/13:30 è tornata a casa».

Giornalista: «E ha raccontato qualcosa quando è tornata a casa?»

C: «È entrata nella sua cameretta e si è chiusa. Poi, dopo un po’, è uscita e ha detto: “Mamma… vedi che dobbiamo andare al mare con Sabrina”. Ore dopo è venuta Sabrina a dirmi: “Zia, Sarah non è venuta. Dovevamo andare al mare”. E io: “Come? Se mi ha detto che veniva a casa tua, com’è che non è venuta?”. E lì ho pensato: “Sarà successo qualcosa” e ho detto a mio marito: “Prendiamo la macchina, vediamo se per caso la vediamo in giro. Quando ho visto che di lei non c’era traccia ho detto: “Andiamo in caserma perché qui la cosa incomincia a preoccuparmi”. Ricordo un particolare: quel giorno, quando ho denunciato il fatto che Sarah non si trovava, venne anche mia sorella Cosima. Lei, arrabbiata, affermò: “Questa sera quando torna, se torna, le devi tirare uno schiaffone, perché l’ha fatta veramente grossa”. Con il senno di poi ho pensato: ma se non torna più che schiaffone le devo tirare?»

G: «Cosa ha provato quando ha saputo che tutta la famiglia Misseri, e quindi anche sua sorella e sua nipote, erano coinvolti nell’omicidio di sua figlia?»

C: «Già aver perduto Sarah in quel modo è stato uno strazio. Poi sapere che sono stati loro, i miei parenti, a fare questo… il dolore è aumentato, è diventato più forte, chi poteva mai immaginare che fossero stati loro?»

G: «Adesso abbiamo una certezza: ad uccidere Sarah sono state Sabrina e Cosima».

C: «Oltre a Sarah ho perso anche loro due. Adesso ci ritroviamo ad affrontare un futuro da soli, in termini familiari. Loro da soli, lì. Io da sola, qui… perché altri familiari mi hanno abbandonata… saremo tutti soli».

G: «Se oggi lei potesse consigliare qualcosa a sua sorella, cosa consiglierebbe?»

C: «Se vuole ritrovare la tranquillità, di mettere la coscienza a posto. Di dire la verità, anche se le costa tanto. Le è costato l’ergastolo, però la coscienza non l’ha ancora sistemata».

G: «E neanche Sabrina».

C: «E neanche Sabrina».

G: «Perché è accaduto?»

C: «Posso immaginare tante cose. Come faccio a capire perché l’hanno uccisa?»

G: «Lo sanno solo loro».

C: «Eh, infatti..»

G: «Ci sono stati dei momenti, in questi sette lunghi anni, in cui ha pensato che Sabrina e Cosima non c’entrassero con l’omicidio di sua figlia?»

C: «Lo vorrei pensare, però dalle intercettazioni, dai testimoni, tutto quello che è emerso… come faccio a non aver dubbi?»

G: «E invece, per quanto riguarda Michele, ha mai pensato a un movente sessuale?»

C: «Ma nella maniera più assoluta! Perché Michele è la persona è più puritana di questo mondo».

G: «Quindi non ha mai avuto dubbi su Michele?»

C: «Sotto questo aspetto, no».

G: «Comunque è responsabile?»

C: «Sì, di quello che ha fatto sì».

G: «Cosa le manca di Sarah?»

C: «Tutto. La sua allegria, la sua spensieratezza. Era schietta, diretta. Forse, proprio per questo motivo qualcuno, ha voluto toglierle la vita».

La terribile vicenda relativa all’omicidio di Sarah Scazzi non può dirsi ancora definitivamente conclusa. Sebbene infatti la Corte di Cassazione abbia confermato gli ergastoli per Sabrina Misseri e Cosima Serrano e le condanne per gli altri imputati tra cui Michele Misseri, la parola ‘fine’ su questa atroce storia non può essere ancora pronunciata. Il prossimo 3 aprile avrà inizio il processo a dodici persone – tra cui Ivano Russo e Michele Misseri – indagate nell’ambito dell’inchiesta Scazzi bis e rinviate a giudizio perché accusate a vario titolo di avere rilasciato false attestazioni ai magistrati. Ivano Russo, reputato nei tre gradi di giudizio il ‘movente del delitto’ in quanto conteso tra Sabrina e Sarah, entrambe invaghite di lui – secondo la Procura sarebbe stato reticente e avrebbe sminuito l’entità del suo rapporto con Sabrina per tutelarla. A tal riguardo, in vista dell’imminente processo, UrbanPost ha intervistato l’avvocato Francesco Mancini, che insieme al collega Alfredo Russo difende Ivano Russo. Ecco come ha risposto alle nostre domande:

Qual è stato il commento di Ivano Russo alla sentenza della Cassazione che ha confermato i due ergastoli? Lui crede nella innocenza di Sabrina Misseri? 

“Naturalmente con Ivano mi sono ritrovato a fare il punto su questa sentenza che, come tutte le sentenze, va rispettata perché se con la Corte di Cassazione gli ergastoli sono stati confermati per la terza volta, sicuramente ci saranno tutti i motivi a supporto di questa sentenza, dura, sì, e che sicuramente rende giustizia alla piccola Sarah. Ivano è sicuramente più interessato a difendersi dall’ingiusto processo a suo carico e ai suoi familiari quale appunto quello della falsa testimonianza, perché lui si tiene lontano dal giudicare la colpevolezza o meno di Sabrina. Certamente oggi il rapporto con Sabrina è nettamente differente da quello che era tra i due un tempo, e certamente anche Ivano ha nutrito dei dubbi sul fatto che questa famiglia (tutti e tre, Sabrina, Cosima e Michele Misseri ndr) sia implicata nel delitto: Sarah entra viva in quella casa e sicuramente ne esce morta”.

Da quando Sabrina è stata arrestata, Ivano ha mai avuto contatti con lei? È mai andato a trovarla in carcere?

“Assolutamente no. In questi anni Ivano ha dato sempre la massima disponibilità alla signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi ndr); ha lanciato 2-3 appelli in questi anni. Non ha capito perché la signora Concetta non li abbia accolti ma rispetta il suo atteggiamento. Ha sempre rinnovato piena disponibilità perché anche Ivano, così come i familiari della piccola Sarah, vuole che per lei sia fatta giustizia”.

A proposito del rapporto tra il suo assistito e Sabrina: Ivano è accusato di essere stato reticente con i magistrati e di avere in qualche modo sminuito l’intensità del rapporto che aveva con Sabrina all’epoca dei fatti. Ivano ha quindi omesso qualcosa oppure ha già raccontato tutta la sua verità a giudici e inquirenti? 

“Posso tranquillamente confermare che ha raccontato tutto, non ci sono scoop nascosti o altro. Purtroppo Ivano ha pagato a caro prezzo lo scotto per essere una persona riservata, e possiamo ribadirlo con chiarezza che in questa brutta vicenda Ivano è l’unico che non ha cavalcato l’onda della clamore mediatico – come invece hanno fatto altri in maniera poco edificante – e ha pagato a caro prezzo il non aver voluto, nelle prime fasi delle indagini e nel processo, soffermarsi sull’incontro di carattere sessuale che c’era stato tra i due (lui e Sabrina ndr). Perché mi chiederà lei: beh, sia lui che Sabrina vengono da un piccolo paese, che è Avetrana, dove per una donna soprattutto, più che per un uomo, prestarsi così ad un incontro sessuale fugace deponeva a sfavore della ragazza, della sua reputazione, quindi Ivano si è reso colpevole di aver taciuto solo all’inizio questa vicenda, l’incontro sessuale tra i due. Ma dopo non c’è stato altro”. 

Quindi, come ha stabilito anche la Cassazione, il ‘rifiuto’ di Ivano ha innescato il movente dell’omicidio? Sarah ha pagato per aver reso pubblica in paese questa vicenda così intima ed umiliante riguardante la cugina?

“Questo purtroppo non è dato saperlo con certezza né a me né ad Ivano. Sicuramente la Corte ha dato un certo valore a questo episodio, e guardi questa è una domanda davvero difficile e non so darle una risposta, perché effettivamente non sappiamo con certezza cosa sia accaduto quel giorno quando Sarah è entrata in quella casa …”.

Secondo le indiscrezioni Ivano il 26 agosto 2010 sarebbe stato nella villetta dei Misseri intorno alle 14 ed avrebbe assistito alla furiosa lite tra le due cugine, per poi dileguarsi poco prima che Sarah venisse uccisa. È vero?

“Assolutamente no. Purtroppo non sappiamo come ma si tratta solo di una notizia di carattere giornalistico perché a livello processuale è stato fugato ogni dubbio sulla presenza di Ivano in quella casa: si è appurato che Ivano a quell’ora si trovava a casa sua. Ci sono i tabulati telefonici che attestano questo”.

Quindi Ivano quella mattina non ha mai visto le due ragazze litigare? 

“Smentisco categoricamente, no. Ivano quel giorno certamente non ha incontrato né la piccola Sarah né tanto meno Sabrina”.

Ivano come giustifica le intercettazioni ambientali in cui cerca di indirizzare e pilotare la madre sulle cose da dire ai magistrati prima di essere sentita come persona informata sui fatti?

“Guardi non lo ha fatto di certo per paura o per nascondere o smentire qualcosa … il problema è che la madre non ricordava di preciso cosa fosse accaduto quel giorno. Ivano cercava semplicemente di ragguagliare e solleticare la memoria della madre che aveva fatto confusione con i vari episodi. Elena Baldari è una signora di 60 anni e per la prima volta si è trovata catapultata in un procedimento giudiziario che è più grande di lei, e logicamente in buona fede ha cercato quanto meno – anche sbagliando – di tutelare il figlio ma non di nascondere qualcosa alla Giustizia”.

Ivano Russo quindi si presenterà in aula e ripeterà ai giudici quanto già dichiarato nei due processi sull’omicidio di Sarah Scazzi? Non ci sono delle novità, delle nuove dichiarazioni?

“No, no. Assolutamente no. Noi eravamo fiduciosi che già nella fase delle indagini preliminari questa vicenda potesse essere – almeno nei confronti di Ivano, di suo fratello, di sua cognata e di sua madre – potesse trovare la via dell’archiviazione ma purtroppo questo non è stato possibile. Certamente non facciamo una colpa al Gip perché in questo procedimento è bene che si faccia chiarezza fino in fondo. Ivano porterà avanti la linea seguita da subito, ripetendo di aver detto tutto ciò che sa; chiariremo ciò che forse in primo grado è stato male interpretato tra ciò che è stato detto in fase di indagine e ciò che è stato riportato al processo in Corte d’Assise. Cercheremo di rendere più chiara la posizione di Ivano”.

LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI.

Confessione falsa estorta. Quando l’interrogato è costretto a confessare. Tecniche di interrogatorio consapevolmente torturanti. Manipolare, distorcere le parole, convincere che la confessione è una liberazione. Spingere un uomo a confessare il falso.

Come estorcere una confessione. HOW TO FORCE A CONFESSION:

Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto. MENTAL EXHAUSTION. La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza.

La promessa di una via d’uscita. THE PROMISE OF ESCAPE. Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia.

Offrire una ricompensa. OFFER A REWARD. Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo.

Suggerire le parole per la confessione. FORCING LANGUAGE

Estorcere le informazioni: interrogatori e torture, scrive Roberto Colella, Giornalista di Guerra e Ricercatore presso l'Isag, su "L'huffingtonpost.it" l'11/12/2014. Nel marzo 2002 veniva catturato Abu Zubeydah, nato in Arabia Saudita da genitori palestinesi. L'arresto di Abu Zubeydah era legato all'attentato alle Torri Gemelle dell'11 settembre. Drogato dall'Fbi, rivelò le connessioni segrete tra i vertici di Al Qaeda, alcuni principi reali sauditi ed alti ufficiali pakistani, dei quali fornì i telefoni personali sperando di essere liberato. Da allora Abu Zubeydah venne preso in carico dalla Cia e trasportato in una base segreta in Thailandia per poi essere trasferito a Guantanamo solo nell'estate del 2006. Quella di sottoporre i terroristi a droghe allucinogene è soltanto una delle tecniche adottate per torturare i prigionieri. Oggi fanno rabbrividire i dati inerenti il "Rapporto sulla Tortura" preparato dalla Commissione intelligence del Senato Usa. Cinque prigionieri islamici sono stati soggetti ad alimentazione rettale, tra cui il cospiratore della Uss Cole, Abd al-Rahim al-Nashir, così come Majid Khan, amico e consigliere di uno dei responsabili dell'11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed. Il prigioniero Majid Khan ha ricevuto per via rettale il suo pasto: un purè di humus, pasta al sugo, noci e uvetta. Khalid Mohammed è stato invece sottoposto al processo di "reidratazione, senza che ve ne fosse una reale necessità". Già in precedenza molti dei terroristi detenuti a Guantanamo avevano subito una delle torture più dure ed espressamente vietata dalla Cia nel 2006: il waterboarding. Tra questi lo stesso Abu Zubaydah, che ha subito la pratica almeno 83 volte e Khalid Sheikh Mohammed, che l'ha provata per ben 183 volte. Gli effetti fisici di un waterboarding possono comprendere sofferenza e danno polmonare, danno neurologico causato dalla mancanza di ossigeno e, in alcuni casi, fratture causate delle cinghie utilizzate per immobilizzare la vittima. Gli effetti psicologici possono durare a lungo. Un uso prolungato del waterboarding può condurre anche alla morte. La tecnica prevede che la persona sia legata ad un'asse inclinata, con i piedi in alto e la testa in basso. Coloro che svolgono l'interrogatorio bloccano le braccia e le gambe alla persona in modo che non possa assolutamente muoversi, e le coprono la faccia. In alcune descrizioni, la persona è imbavagliata e qualche tipo di tessuto ne copre il naso e la bocca; in altre, la faccia è avvolta nel cellophane. A questo punto, colui che svolge l'interrogatorio a più riprese vuota dell'acqua sulla faccia della persona. A seconda del tipo di preparazione, l'acqua può entrare effettivamente nelle vie aeree oppure no; l'esperienza fisica di trovarsi sotto un'onda d'acqua sembra essere secondaria rispetto all'effetto psicologico. La mente crede di stare per affogare. Eppure nelle scuole americane dell'Fbi si prediligono e si insegnano altre tecniche di interrogatorio sui prigionieri, soprattutto basate su metodi non coercitivi e sul tranello psicologico. Tra queste il Knowelwdge bluff: chi interroga comunica dettagli con il finto atteggiamento di saperne molto di più, facendo credere all'interrogato di avere delle notizie, da altre fonti, che in realtà non si hanno. Fidex line-up: indicazione del sospettato come colpevole da parte di finti testimoni. Riverse line-up: l'interrogato viene falsamente accusato da parte di simulati testimoni di un reato molto più grave di quello di cui è sospettato. Bluff on a split pair: mettere in mano all'indagato una finta confessione dattiloscritta del complice, che lo accusa della responsabilità del reato commesso. Infine il famoso dilemma del prigioniero: se gli imputati sono due, metterli uno contro l'altro, facendo credere a ciascuno che l'altro ha confessato, accusandolo di correità, e sfruttando quindi la reciproca mancanza di fiducia. Il punto è che l'interesse degli organi militari americani è incentrato sull'informazione da estorcere piuttosto che sul rispetto dei diritti umani. Chi è sotto tortura spesso si limita a dire ciò che l'interrogatore si aspetta per porre fine alla sua sofferenza. L'interrogatore spesso è un militare che non ha conoscenze appropriate. Il ricorso alla tortura è spesso improduttivo e inaffidabile, ma ciò nonostante l'esercito continua ad utilizzarla. A molti sembra che la tortura sia un insieme di tecniche relegate ad un lontano passato. Ottenere una confessione senza i metodi di indagine moderni, come DNA, poligrafo e analisi della scena di un delitto ha contribuito a realizzare macchinosi e dolorosi metodi di tortura in passato, creando anche un'immagine del genere umano che nulla ha di edificante. Al giorno d'oggi sembra che il mondo civilizzato non abbia più bisogno di metodi così crudeli. La scienza è un fondamentale supporto per le indagini: abbiamo satelliti in grado di spiare le mosse del nemico, analisi chimiche che ci forniscono l'esatta identità di un criminale, tecniche sofisticate per ottenere una confessione veritiera senza sottoporre l'indagato ad una serie di pratiche che ben poco hanno di umano. Tuttavia la tortura è ancora oggi largamente impiegata, soprattutto in ambito militare. Quando sentiamo parlare di "waterboarding" o di "bombardamento sensoriale" sui prigionieri di guerra non stiamo facendo altro che dare nomi sofisticati a metodologie che non sono per nulla umane, ma rappresentano in tutto e per tutto tecniche di tortura. Durante il SERE, acronimo che sta per "Survival, Evasion, Resistance and Escape", i soldati americani ed inglesi vengono addestrati a ricorrere a "pratiche non ortodosse" per ottenere delle confessioni dai prigionieri. Le tecniche insegnate al SERE per molti sono soltanto un insieme di metodi per estorcere confessioni; il fine giustifica i mezzi. Per altri invece violano in tutto e per tutto la Convenzione di Ginevra, rendendole a tutti gli effetti metodi di tortura.

Una guida pratica ai metodi di tortura è codificata nel KUBARK (KUBARK Counterintelligence Interrogation), un manuale sulle tecniche di interrogatorio utilizzato dalla CIA. Tenuto segreto dal 1963 fino al 1997, la NSA lo ha reso di pubblico dominio dopo il Freedom of Information act, assieme ad un altro manuale, lo Human Resource Exploitation Manual, basato sul KUBARK.

Quali sono questi metodi? I più comuni sono i seguenti:

ISOLAMENTO. L'isolamento si è dimostrato un ottimo metodo di tortura per "spezzare" un essere umano. Sperimentato in molte carceri, l'isolamento si rivela spesso un'ottima arma per ridurre all'impotenza individui sociali, lasciandoli soli con loro stessi per periodi di tempo più o meno lunghi. Il KUBARK riporta l'esperienza di molti esploratori polari, i quali hanno riportato come l'isolamento sia un fattore di estremo stress per l'individuo, e che in molti casi sia stato la causa scatenante di attacchi di panico e di fobie. I sintomi primari dell'isolamento sono la superstizione, l'amore estremo per altri esseri viventi, percepire oggetti inanimati come vivi, e allucinazioni.

DOLORE. Il dolore è la più antica forma di tortura conosciuta. Molte persone sottovalutano la soglia del dolore che sono in grado di sostenere, ed una volta giunti al punto di rottura faranno di tutto per terminare l'agonia. La soglia del dolore può innalzarsi per motivi psicologici, come forti motivazioni, ma è pressochè identica per tutti gli esseri umani. Il KUBARK tuttavia specifica come il dolore non sia uno dei metodi di tortura migliori: proprio le motivazioni psicologiche dell'individuo sarebbero il punto debole di questa tecnica. Può inoltre fornire false confessioni nel caso il dolore fosse troppo intenso o prolungato nel tempo.

DEPRIVAZIONE DEL SONNO. Ci sono una marea di studi scientifici sulla deprivazione del sonno e sugli espetti devastanti che può avere sulla psiche umana. Il sonno è un elemento che contribuisce alla nostra stabilità mentale, e privare un individuo del riposo non fa altro che portarlo al punto di rottura, indurre allucinazioni multi-sensoriali e psicosi di diversa natura. Il KUBARK prevede che, dopo un periodo di tortura attraverso la deprivazione del sonno, il prigioniero venga fatto riposare, per poi procedere con l'interrogatorio. Il solo timore di poter tornare in uno stato di deprivazione del sonno è sufficiente a far parlare quasi chiunque. Menachem Begin, ex Primo Ministro israeliano, è stato prigioniero del KGB, ed ha subito questo genere di tortura. Parlando della sua esperienza riferisce: "Nella mente del prigioniero interrogato, inizia ad esserci confusione. Il suo spirito è stanco morto, le gambe sono instabili, ed ha un solo desiderio: dormire...Chiunque abbia sperimentato questa tortura sa che nemmeno la fame e la sete sono paragonabili a questo". Per fornire un esempio chiarificatore di cosa possa comportare la deprivazione del sonno, la Graduate Medical School di Singapore ha condotto un esperimento per verificare come la precezione visiva di un soggetto deprivato di sonno possa alterarsi. Il cervello viene alterato nella sua capacità di dare un senso a ciò che viene percepito attraverso la vista, può addirittura creare false memorie frutto di esperienze allucinatorie o di errate percezioni sensoriali, fino a condurre alla pazzia.

DEPRIVAZIONE SENSORIALE. La deprivazione sensoriale consiste nel privare un prigioniero di ogni stimolo proveniente dai sensi principali, isolandolo completamente dal mondo esterno. Come già scritto in un altro post riguardo alla deprivazione sensoriale, sono necessari solo 15 minuti per iniziare a sperimentare allucinazioni, attacchi di panico, paranoia. Poche ore di deprivazione sensoriale equivalgono a mesi di prigionia in una cella ordinaria...Alla Mcgill University, nel National Institute of Mental Health, sono stati condotti alcuni esperimenti sulla deprivazione sensoriale, dimostrando come questa tecnica di tortura possa alterare in brevissimo tempo la psiche di un individuo rendendolo estremamente più malleabile.

UMILIAZIONE SESSUALE. L'umiliazione sessuale si basa sulle credenze ed i punti di vista del prigioniero, e varia in base al sesso. Per esempio, una persona cattolica potrebbe essere un forte oppositore dell'omosessualità, per cui si punta a renderlo vittima di abusi orientati verso quel tipo di sfera sessuale. Il prigioniero può essere costretto ad indossare biancheria femminile, a travestirsi da donna, o fare lap dance di fronte all' interrogatore, in una serie di abusi psicologici, e talvolta fisici, che lo portano al punto di rottura. Un esempio classico di umiliazione sessuale è quello di Fahim Ansari, accusato della strage di Mumbai, che ha subito torture a sfondo sessuale da un agente donna dell'FBI riportando lesioni sui genitali e su altre parti del corpo. Altri casi di umiliazione sessuale sono avvenuti nel carcere di Abu Ghraib, con stupri, scariche elettriche ed sevizie a sfondo sessuale di ogni tipo.

FREDDO ESTREMO. Metodo di tortura che pare essere il preferito dal governo cinese, e sul quale ci sono numerose sperimentazioni passate su cavie umane compiute da menti malate come Shiro Ishii o Mengele. Il prigioniero viene bagnato con acqua fredda e lasciato all'esterno, o in una cella non riscaldata priva di vetri sulle finestre. Altri sono costretti a correre nella neve indossando soltanto la biancheria; altri ancora invece devono dormire per terra in celle non riscaldate, in pieno inverno. Lascio a voi immaginare se il metodo funziona o meno.

FOBIE E MINACCE. Il primo metodo di tortura sfrutta le fobie del prigioniero per spezzarne l'animo. C'è chi ad esempio ha la fobia per i ragni: in questo caso, può venir lasciato per ore in una stanza piena di ragni, per poi essere interrogato. Il timore di tornare in quella cella farà in modo che il prigioniero sia più calmo e risponda a tutte le domande che gli verranno poste. Ci sono inoltre le minacce: in individui con una bassa soglia del dolore, la minaccia di provocare dolore è insopportabile, a volte meno tollerabile ed efficace del dolore stesso. Per una strategia di tortura efficace, il KUBARK suggerisce di approfondire la psiche del prigioniero per fare leva efficacemente sulle sue paure più profonde, e per scoprire la soglia del dolore oltre la quale non possa più resistere.

WATER BOARDING. Il governo americano di recente ha confermato l'utilizzo del water boarding come strumento per ottenere delle confessioni. Sostanzialmente si tratta di un "affogamento controllato": si prende il prigioniero, e gli si versa acqua sul viso, simulando un annegamento. Alcuni agenti della CIA si sono sottoposti volontariamente al water boarding per provare l'esperienza, non riuscendo a resistere per più di 14 secondi.

La giornalista Julia Leyton ha descritto nei dettagli il metodo: "Il water boarding viene eseguito ponendo una persona su un tavolo inclinato, con la testa nel punto più basso ed i piedi in cima. L'interrogatore lega le braccia e le gambe del prigioniero in modo che non possa muoversi, e gli copre la faccia, alcune volte con del tessuto, altre con del cellophane. Poi si comincia a far cadere acqua sul viso del prigioniero; indipendentemente dal metodo, l'acqua entra o non entra nel naso e nella bocca del prigioniero. Ma l'esperienza fisica di essere sotto ondate di acqua sembra essere secondaria a quella psicologica. La mente del prigioniero crede che di essere realmente sul punto di affogare".

La “scienza dell’interrogatorio”. A volte l’interrogatorio è più devastante per chi lo effettua che per chi lo subisce. La notte del 22 dicembre 1961 il capo della stazione CIA a Helsinki, Franz Friberg, sentì suonare il campanello di casa. Insonnolito, andò ad aprire e si trovò di fronte uno sconosciuto; un uomo basso e massiccio, che in un inglese marcato da un vistoso accento russo gli disse di essere il maggiore Anatoly Klimov, dell’Ufficio Archivi del KGB: chiedeva asilo politico, in cambio avrebbe rivelato segreti della massima importanza. Inizialmente Friberg, come dichiarerà più tardi ad una commissione del Senato americano, pensò di avere a che fare con un pazzo o un provocatore e fu tentato di sbattergli la porta in faccia; invece, dopo avergli posto qualche domanda lo fece trasferire in una base americana nei pressi di Francoforte; lì, acclarata la sua identità, fu immediatamente trasportato negli Stati Uniti per essere interrogato dai migliori cervelli della CIA. Fu l’inizio della fine. Le circostanziate dichiarazioni di Klimov, infatti, permisero, sì, di smantellare quattro reti spionistiche che i sovietici avevano installato negli Stati Uniti e nei paesi della NATO ma delineavano un quadro agghiacciante: alcuni alti dirigenti dei servizi segreti occidentali, della stessa CIA, erano, in realtà “talpe”, agenti segreti dei sovietici. Chi erano? Klimov dichiarava di non saperlo; l’unica cosa che aveva appreso, spulciando frettolosamente qualche pratica segretissima finita negli archivi del KGB, era che i russi avevano favorito le loro carriere, ad esempio, consegnando ad essi alcune spie sovietiche. Un atroce dubbio si insinuò allora nella CIA: Klimov era veramente sincero o era una “polpetta avvelenata” lanciata dal KGB per distruggere la coesione dei servizi segreti occidentali? Per ben tre mesi il militare russo fu sottoposto alle più svariate tecniche di interrogatorio per acclarare questo enigma che, comunque, è rimasto tale; intanto l’ombra di un paranoico sospetto – che trasformava rivalità burocratiche in insinuazioni o, addirittura, in accuse di tradimento – paralizzava le attività della CIA e di altri servizi segreti occidentali. Stimati funzionari con anni di servizio alle spalle furono costretti al licenziamento e qualcuno tra questi andò a lamentarsi con i giornalisti. Lo scandalo partorì una commissione parlamentare di inchiesta che, se non è riuscita ad appurare la verità sul “caso Klimov”, (solo nel 1993 si è scoperto che Aldrich Ames, il dirigente della CIA che soprintendeva agli interrogatori di Klimov, era al soldo del KGB), almeno ha fatto conoscere all’opinione pubblica la, fino ad allora segreta, “scienza dell’interrogatorio”, codificata in un documento della CIA recentemente declassificato: il Kubark Counterintelligence Interrogation. I tentativi di trovare un modo “scientifico” per ottenere una piena confessione, comunque, risalgono, almeno al 1840 quando un clinico francese, Moreau de Tours, riferì che, durante il dormiveglia provocato da alcune sostanze, il paziente parla in modo, più o meno, incontrolla­to e può rivelare così i suoi altrimenti inconfessabili segreti. Questa considerazione determinò l’uso del protossido di azoto, del cloroformio, e dell’hashish, negli interrogatori che venivano condotti da poliziotti alla Sûreté di Parigi e da “alienisti” (antesignani dei moderni psichiatri) quali Magnan e Babinski. Nel 1931 Henry House battezza come “siero della verità” la scopolamina, una sostanza contenuta in alcuni vegetali, (quali la nostrana Mandragora Mandragora autumnalis o, ancora di più, in un arbusto, lo Hyoscyamus niger); analogo titolo si conquistano altre sostanze quali la mescalina, (prodotta dal fungo Peyotl cactacea), e barbiturici di sintesi quali Amital, Pentothal, Nembu­thal, Evipan… Negli anni “60 l’LSD (dietilammide dell’acido lisergico) suscita gli entusiasmi di alcuni ricercatori; primo tra tutti il dottor Donald Ewen Cameron, consulente della CIA e direttore del tenebroso “Progetto Mkultra” finalizzato a scoprire infallibili metodi per ottenere una completa confessione e le tecniche di “lavaggio del cervello” che si ipotizzava fossero state impiegate da farmacologi e psichiatri dell’Est per trasformare, ad esempio, ex prigionieri americani della guerra di Corea rientrati in patria in risoluti pacifisti. Dopo dieci anni di fallimentari esperimenti, il Progetto Mkultra fu chiuso. L’unico risultato sono state cinquanta persone con il sistema nervoso gravemente compromesso dalle altissime dosi di LSD somministrate da Cameron; nel 1988, dopo un processo durato quindici anni, sono state risarcite dal governo americano con 750.000 dollari a testa. Messo da parte l’inaffidabile LSD, alla metà degli anni 80 le speranze di ottenere il “siero della verità” si appuntano su alcune sostanze ottenute dalla metilendiossimetamfetamina (MDMA) che, a sua volta, discende da una molecola, l’MDA, brevettata in Germania nel 1914 e destinata come “droga di battaglia” per le truppe del Kaiser. Fino al 1990 l’MDMA, ideata dal neurochimico Alexander Shulgin, veniva impiegata in psichiatria nel tentativo di indurre maggiore capacità di autoanalisi poi il suo uso è stato proibito e da allora, questa droga, prodotta clandestinamente in innumerevoli laboratori e unita a intrugli vari, viene spacciata come “Ecstasy” tra il “popolo delle discoteche”. Ma “funzionano” davvero i sieri della verità? Secondo due psicologi americani, David Orne e James Gottschelck, il loro effetto, al di là dell’abbassamento della soglia di vigilanza, è sostanzialmente psicologico in quanto inducono nel soggetto che le ingerisce, e che si trova sotto stress per l’interrogatorio, una sorta di “alibi” per cedere. Esperimenti effettuati con placebo (una innocua pillola zuccherata spacciata per un potentissimo siero della verità) hanno, infatti, in molti casi indotto il soggetto a credere di essere stato drogato e a raccontare tutto senza alcun rimorso o paura di biasimo. Ma se la “verità” non la si può estorcere, perché non tentare, almeno, di segnalare le bugie? Già nel 1895 Cesare Lombroso per scoprire nelle “palpitazioni” la “prova” delle menzogne dell’interrogato usava un apparecchio di sua invenzione, l’idrosismografo, nel quale la mano dell’interrogato, immersa in un recipiente pieno di acqua, trasmetteva il ritmo del polso e le variazioni della pressione sanguigna ad un tubo di gomma e, quindi, ad un ago ricoperto di nerofumo che tracciava una striscia di carta. Negli anni seguenti si scoprì che in una persona sottoposta ad uno stress, come quello che si determinerebbe quando dice una bugia, si verifica quello che allora era chiamato “riflesso psico-galvanico” (e cioè, una variazione nella resistenza della pelle al passaggio di elettricità) e una variazione del ritmo respiratorio. L’americano Leonard Keeler costruì, quindi, nel 1939, un dispositivo che registrava simultaneamente la cadenza del polso, la pressione sanguigna, il ritmo respiratorio e il riflesso psico-galvanico, battezzandolo poligrafo o “Lie Detector” (rivelatore di bugie). In realtà il responso del poligrafo, che si limita a registrare improvvisi “turbamenti”, dipende dalla scelta e dall’opportuna distribuzione delle domande e dalla interpretazione che si da del tracciato. Per di più, l’interrogato durante la prova, può ingannare la macchina, ad esempio infliggendosi dolore, controllando la respirazione, contraendo impercettibilmente i muscoli delle braccia e delle gambe…Per vanificare quest’ultimo espediente Walter Reid negli anni “80 accessoriò il poligrafo con due cuscini pneumatici sistemati sotto gli avambracci e sotto le cosce dell’interrogato che registrano le pur minime contrazioni muscolari. È solo uno dei tanti stratagemmi messi a punto dai tecnici del Lie Detector che oggi si avvale di innumerevoli sensori collegati a potenti computer. Nonostante ciò, nel febbraio di quest’anno, la Corte Federale degli Stati Uniti ha stabilito che questa macchina non può essere impiegata in un procedimento penale, nemmeno come ultima carta in mano all’imputato per dimostrare la propria innocenza. Ovviamente, la decisione ha scatenato un mare di polemiche anche perché proprio in quei giorni un ministro israeliano è stato costretto alle dimissioni dalle accuse di molestie sessuali, accertate dal Lie Detector, di una sua segretaria. Intanto un’altra “macchina della verità” si affaccia sulla scena; il FACS (Facial Action Coding System) che analizza la contrazione dei muscoli facciali coinvolti nell’espressione delle differenti emozioni. Gli ideatori della macchina, Paul Ekman e Vincent Friesen, dopo aver esaminato quasi cinquemila videoregistrazioni di diverse espressioni, hanno costruito un data base che contempla ogni contrazione muscolare della faccia, la sua durata, l’intensità… Nascerebbe da qui la capacità della macchina di distinguere la “sincerità” di una persona. L’ “autentico” sorriso, ad esempio, prevede la contrazione dei muscoli gran zigomatici, che fanno sollevare gli angoli della bocca, e dei muscoli orbicolari che fanno restringere le orbite oculari. Se il sorriso non è autentico, invece, si avrebbe una differente contrazione dei muscoli e, quindi, una asimmetria tra la parte sinistra e destra del volto. Va da sé che anche il FACS può essere ingannato da un soggetto che si “immedesima” perfettamente nella parte che sta recitando o da fattori culturali, sociali ed emozionali ancora oggi impossibili da valutare automaticamente. Nonostante ciò, il FACS sta acquistando una crescente popolarità e uno dei suoi principali sostenitori, Paul Ekman, docente di psicologia alla University of California, promette che l’applicazione di nuovi microprocessori e software porteranno l’affidabilità del FACS al 99 per cento tra appena cinque anni. Prospettive meno esaltanti, invece, per il PSE Psycological Stress Evaluation, una altra “macchina della verità” che secondo i suoi ideatori – Allan Bell, Charles McQuinston, Bill Ford – sarebbe in grado di evidenziare i livelli – emozionale, cognitivo e fisiologico – della voce umana analizzando i differenti valori di modulazione di frequenza determinati dalla variazione dell’afflusso sanguigno alle corde vocali. Nasce da qui un software, venduto anche in Italia, che promette di distinguere tra affermazioni “vere”, “false” o “manipolate”. Questo fino al maggio 1999, fin a quando, cioè, l’Autorità garante della Concorrenza e del Mercato non ha condannato la società produttrice del software per pubblicità ingannevole. Messi da parte sieri e macchine, per ottenere la verità si può tentare con, l’ipnosi che effettivamente, se il soggetto collabora, riesce a fare emergere qualcosa dal buio della mente. Il caso più famoso è certamente l’interrogatorio sotto ipnosi di Trevor Rees-Jones, – unico superstite nell’incidente automobilistico nel quale, il 31 agosto 1977, morì la principessa Diana – dal quale, comunque, non si è appreso nulla di rilevante ai fini dell’indagine. Non così per un analogo interrogatorio al quale è stato sottoposto nel 1998 un cittadino di Gerusalemme che, sopravvissuto ad una autobomba, è riuscito sotto ipnosi a ricordare il viso di uno degli attentatori. Ma, al di là di sieri, macchine, ipnosi. Quali sono le tecniche per spingere una persona a confessare? Intanto la tortura che, ancora oggi, viene, più o meno istituzionalmente, praticata nella maggior parte dei paesi. Infliggere dolore per ottenere una confessione è una pratica antichissima che ha avuto una vertiginosa escalation quando, agli inizi del secolo, si è scoperto che l’applicazione di elettrodi in alcune zone del corpo rendeva rapido e meno stressante il lavoro per il carnefice. Si è passati poi alla somministrazione di anfetamine per rendere l’interrogato più sensibile alla tortura e all’ “assistenza” di un medico per valutare (ad esempio misurando il rilascio nell’organismo dell’oppiode endogeno ß-endorfina o di dopamina) il livello di dolore raggiunto dall’interrogato e la ulteriore “soglia” di sofferenza raggiungibile. Comunque ancora oggi, poco si sa di questi studi e non a caso nel manuale della CIA “Kubark Counterintelligence Interrogation” numerosi paragrafi dedicati alle tecniche di “interrogatorio coercitivo di fonti resistenti” sono stati censurati nella versione resa pubblica. Ma occupiamoci ora di tecniche di interrogatorio meno efferate. Un metodo antichissimo e che, in America negli anni “20, è stato battezzato come tecnica “Mutt­ and Jeff”, consiste nell’alternare un interrogante brutale, rabbioso, dominatore, in visibile contrasto con un interrogante cordiale e calmo al quale l’interrogato finirà per affidarsi e confidarsi. Ma questi sono sistemi “artigianali”. La vera “scienza dell’interrogatorio” nasce in Occidente negli anni 50 con il rientro negli Stati Uniti di prigionieri di guerra sottoposti ad interrogatori dai nord coreani. Da una ricerca su 759 militari, condotta dallo psicologo, Howard Hinkle, la CIA ricavò una serie di direttive che codificheranno gli interrogatori degli innumerevoli profughi riversatisi in Occidente, soprattutto a seguito delle repressioni susseguitesi alla rivolta di Budapest, nel 1956 e alla “primavera di Praga” nel 1968. Secondo queste direttive l’interrogatorio deve essere preceduto da uno screening effettuato da un intervistatore, eventualmente coadiuvato da un Lie Detector, finalizzato ad acquisire informazioni sulla vita familiare e quindi sulla personalità del soggetto che saranno poi utilizzate dall’interrogatore. Il lavoro di quest’ultimo comincia predisponendo la stanza dell’interrogatorio. Secondo le disposizioni della CIA, questa non dovrebbe avere elementi di distrazione come un telefono che può squillare, quadri o pareti dipinte con colori vivaci; la presenza o meno di una scrivania deve dipendere non dalla comodità dell’interrogante ma, piuttosto, dalla prevista reazione del soggetto ad apparenze di superiorità e ufficialità. Se si prevede un “interrogatorio di tipo non coercitivo con una fonte cooperativa” l’interrogato dovrà avere a disposizione una poltrona imbottita; se si tratta, invece, di una “fonte resistente” una luce puntata sulla sua faccia può risultare utile. In quest’ultimo caso l’interrogato dovrebbe avere già subito un trattamento finalizzato a porlo in condizioni di assoluta dipendenza dall’onnipotente interrogante che potrà avergli concesso o meno il diritto di dormire, mangiare, lavarsi, cambiarsi d’abito; e questo per provocare nell’interrogato una regressione allo stato infantile. A questo punto comincia l’interrogatorio vero e proprio che dovrà essere calibrato sul “tipo” di soggetto precedentemente classificato dall’intervistatore. A tal proposito la CIA ha classificato nove “tipi psicoemozionali” il loro presumibile “stato infantile” e le metodologie per interrogarli. Addentriamoci brevemente in qualcuno di questi “tipi”:

l. Il tipo ordinato‑ostinato. Sobrio, ordinato, freddo, spesso molto intellettuale, si considera superiore agli altri. Di solito è stato un “ribelle” durante la fanciullezza, facendo l’esatto contrario di ciò che gli veniva ordinato dai genitori; da adul­to odia ogni autorità anche se, spesso riesce a mascherare la sua indole. Può confessare facilmente e rapida­mente sotto interrogatorio anche atti che non ha commesso, per distogliere l’interrogante dallo scoprire qualcosa di si­gnificativo. L’interrogante non dovrà apparire come un’autorità utilizzando, ad esempio, minacce o pugni sul tavolo ma dovrà essere cordiale, ad esempio interessandosi ad eventuali hobby coltivati da questo tipo (solitamente colleziona monete o altri oggetti). È utile che l’interrogante e la stanza del­l’interrogatorio appaiano straordinariamente lindi.

2. Il tipo ottimista. Di solito, è stato il membro più giovane di una famiglia numerosa o è nato da una donna di mezza età. Questo tipo reagisce ad una sfida rifugiandosi nella convinzione che “tutto andrà bene”, convinto di dipende­re non già dalle sue azioni ma da un destino propizio. Tende a cercare promesse mettendo l’in­terrogante nel ruolo di protettore e di solutore di problemi. Sotto interrogatorio, solitamente, si confida davanti ad un approccio gentile, paterno. Se resi­ste, deve essere trattato con la tecnica “Mutt­ and Jeff”.

3. Il tipo avido, esigente. Ha spesso sofferto di una precoce privazione di affetto o di sicurezza che lo porta, da adulto, a cercare un sostituto dei genitori. La sua devozione si trasferisce facilmente quando sente che lo sponsor che ha scelto lo ha abbandonato. Può essere soggetto a gravi e improvvise depressioni e rivolgere verso se stesso il suo desiderio di ven­detta arrivando fino al suicidio. L’interrogante che tratta con questo tipo deve fare atten­zione a non respingerlo e tener conto che le sue richieste, spesso esorbitanti, non esprimono tanto una necessità specifica quanto il bisogno di sicurezza.

4. Il tipo ansioso, egocentrico. Timoroso, nonostante faccia di tutto per nasconderlo, spesso è un te­merario per vanità e portato a vantarsi; quasi sempre, mente per sete di complimenti e lodi. L’interrogante, dovrà assecondare la sua esigenza di fare buona impressione e non dovrà mai ignorare o ridicolizzare le sue vanterie, o tagliar corto sulle sue divagazioni. Gli interrogati ansiosi ed egocentrici che nascondono dei fatti significativi, come contatti con servizi nemici, possono divulgarli se indotti a ritenere che la verità non sarà usata per danneggiarli e se l’interrogante sottolinea la stupidità dell’avversario nell’in­viare una persona cosi intrepida in una missione così mal preparata.

5. Il tipo con complesso di colpa o incapace di successo. Apparten­gono a questa categoria i giocatori “coatti” che trovano sostanzialmente piacere nel perdere, masochisti che con­fessano crimini non commessi o che commettono davvero crimini per poi poterli con­fessare ed essere puniti È difficile interrogare questo tipo di persona in quanto egli può “confessare”, ad esempio, un’attività clandestina ostile nella quale non è mai stato coinvolto oppure può restare ostinatamente silenzioso o provocare l’interrogante per “godersi” poi la punizione. In alcuni casi, se punite in qualche modo, le persone con forti comples­si di colpa possono smettere di resistere e cooperare, grazie al senso di gratificazione indotto dalla punizione. Articolo di Francesco Santoianni. La “scienza dell’interrogatorio”. Pubblicato su Newton luglio 2000.

L’interrogatorio e l’intervista giudiziaria. Il 29 gennaio 2016, nell'ambito del Master in Analisi Comportamentale e Scienze Applicate alle Investigazioni, all'Intelligence e all'Homeland Security (ACSAII-HS) che si tiene a Roma presso l'Università degli studi Link Campus University, diretto dalla Dottoressa Paola Giannetakis, ha avuto luogo un interessante incontro con il Professor Ray Bull in tema di comportamento e interrogatorio. Aspetti di particolare interesse per l'acquisizione di informazioni attendibili sia in ambito investigativo che di intelligence operativa. Nel percorso del Master infatti si esplorano ed acquisiscono in maniera pratica e operativa competenze spendibili utili agli operatori delle Forze dell'ordine, agli operatori di intelligence e ad altre figure professionali che necessitano dei corretti approcci allo studio del comportamento per ottenere i migliori risultati. Ray Bull è professore di Criminologia Investigativa presso la University of Derby e professore Emerito di Psicologia Forense presso la University of Leicester, in Inghilterra. Il docente ha nell'occasione illustrato agli studenti in aula gli studi effettuati e gli approfondimenti esperiti sui processi psicologici di una persona che viene sottoposta ad interrogatorio, proponendo quindi le linee guida per una corretta conduzione dell'intervista giudiziaria. Nel gennaio del 1998 la Corte Suprema di Londra aveva assegnato 200 mila sterline ad un uomo come risarcimento per aver patito, nel 1987, arresto, interrogatorio e successivi anni di prigione. Secondo il giornale Daily "un uomo innocente aveva trascorso cinque anni infernali in prigione dopo essere stato percosso da un detective ed obbligato a firmare una confessione". Si era trattato di una 'vetusta modalità' di conduzione di interrogatori, fondata su 'oppressione, intimidazione e coercizione' e giustificata dall'erroneo convincimento che 'un sospettato generalmente non confessa sua sponte, ma a seguito di pressione fisica e psicologica da parte della polizia giudiziaria. I primi cambiamenti, ha spiegato il prof. Ray Bull, si sono avvertiti nel Regno Unito verso la metà degli anni '80, dopo che la Corte d'Appello di Londra aveva dichiarato non attendibili le confessioni estorte con atteggiamenti coercitivi degli operatori di polizia. Le prime ricerche al riguardo sono state pubblicate nel 1992, grazie allo studio commissionato a Baldwin dall'Ufficio Centrale di Inghilterra e del Galles. Baldwin analizzò i contenuti di interviste giudiziarie registrate dopo il 1986 scoprendo che 1/3 dei sospettati aveva ammesso di essere colpevole all'inizio del colloquio, forse a causa della strategia dei detective di rivelare al sospettato quanto la polizia aveva già acquisito contro di lui. Nuovi approfondimenti evidenziarono come solo 20 su 600 sospettati aveva modificato la propria posizione durante l'interrogatorio, mentre la maggior parte degli intervistati aveva confermato la propria iniziale versione indifferentemente dal modo in cui era stato condotto il colloquio. Ulteriori studi effettuati da Moston, Stephenson e Williamson riferirono che nella maggior parte delle interviste giudiziarie gli investigatori non si erano adoperati per ottenere più informazioni possibili dai sospettati. Il Governo si rese conto che la Polizia non era abile nel condurre un interrogatorio e decise di preparare i detective con corsi di formazione diretti a fornire loro una migliore preparazione. Nuove tecniche furono sviluppate da 12 esperti detective con il contributo di psicologi (tra questi il Prof. Ray Bull) e su queste basi nacque il modello PEACE, acronimo (dall'inglese) di Planning and Preparation, Engage and Explain, Account, Clarify and Closure, Evaluation. La collaborazione tra detective e psicologi sviluppatasi nel 1992 consentì di delineare i principi fondamentali dell'intervista giudiziaria: obiettivo dell'interrogatorio non è la ricerca della confessione, ma la ricerca della verità, intesa come la reale versione dei fatti; l'interrogatorio deve essere condotto da personale con una mente aperta; le informazioni ottenute dal sospettato devono essere sempre riscontrate con le informazioni acquisite precedentemente dalla Polizia.

Il modello PEACE prevede un contesto rilassato e sereno, caratterizzato da un reciproco rispetto tra le parti, distante dagli ambienti rigidi ed intimidatori del passato. Le analisi svolte nel 2005 da O'Connor e Carson, entrambi detective esperti, rivelarono che negli Stati Uniti d'America ciò che in particolare porta ad una confessione è il rispetto mostrato dagli intervistatori nei confronti degli intervistati, ipotesi confermata dalle ricerche svolte in Australia e in Svezia. La relazione che si instaura tra le parti durante l'interrogatorio produce reazioni che possono portare l'indagato ad ammettere o negare il reato. Nel 2010 Bull e Walsh, analizzando 142 interviste giudiziarie registrate, si resero conto che il sospettato aveva fornito maggiori informazioni nelle fasi in cui il detective aveva utilizzato il metodo PEACE. Gli studiosi individuarono le qualità che un buon investigatore deve possedere e valorizzare nella fase di acquisizione delle informazioni: capacità di incoraggiare il sospettato a fornire informazioni, capacità di sviluppare argomenti, capacità di porre domande appropriate ed aperte, mente aperta, capacità di ascoltare in modo attivo. L'interrogatorio produce ottimi riscontri se il rapporto tra le parti continua ad essere sereno e, nel caso in cui il risultato tardasse ad arrivare, l'investigatore deve tollerare il silenzio e mostrarsi preoccupato per la posizione del sospettato. Alison e colleghi esaminarono 288 ore di interviste registrate in Inghilterra con 29 sospettati, allo scopo di sperimentare il metodo PEACE negli interrogatori di terroristi o presunti tali. Questo modello di interviste giudiziarie prevede nuove abilità, tra le quali una buona capacità comunicativa, empatia, flessibilità, apertura di mente. Il colloquio, definito 'motivazionale', è caratterizzato da un rapporto collaborativo tra le parti, durante il quale è fondamentale per il detective mantenere un comportamento coerente. Goodman e colleghi, analizzando gli interrogatori di persone sospettate di avere informazioni relative a fatti terroristici, scoprirono che i detenuti erano stati più inclini a fornire informazioni utili in risposta a strategie psicologiche più sofisticate che la coercizione e che le confessioni erano risultate più complete in risposta a strategie non coercitive. Di fronte a gravi crimini, fondamentale era stata l'empatia, intesa come capacità di porsi nella situazione di un'altra persona e di comprendere le sue intenzioni e i suoi pensieri. Laddove l'empatia non significa comprensione, ma strumento strategico di lettura del pensiero e capacità di pianificare le azioni successive. Ed allora come è possibile comprendere se il sospettato mente? Secondo le linee guida descritte da diversi studi pubblicati, chi mente è solito alterare la propria espressione facciale, non comunica con l'interlocutore guardandolo negli occhi, muove in maniera costante mani e piedi, gesticola continuamente e tende a cambiare spesso posizione del corpo. Tale comportamento, in realtà, sebbene indichi nervosismo, non indica menzogna in maniera evidente, poichè il medesimo stato emotivo può caratterizzare persone innocenti e farle sembrare colpevoli, mentre, viceversa, una persona colpevole può mostrarsi serena e dare l'impressione di essere innocente. Sembra allora difficile capire se un sospettato mente, bisogna studiare il comportamento. Dalla confluenza di questa analisi, così come dalla capacità di interpretare i segnali multi fattoriali, si ottiene un tracciamento preciso di come procedere per ottenere le informazioni di cui si ha bisogno. Questo è uno dei training specifici che si fa nell'ambito di questo Master. Di Giulia Vasale Scientific Crime Analysis working group. Il contenuto e’ stato pubblicato da Link Campus University in data 12 febbraio 2016. La fonte è unica responsabile dei contenuti. Distribuito da Public, inalterato e non modificato, in data 12 febbraio 2016. 

"Io torturato per confessare ma ero innocente". Pasquale Virgilio fu accusato di omicidio, a salvarlo una lettera del papà dell'ex sindaco Pisapia, scrive Luca Fazzo, Venerdì 26/05/2017, su "Il Giornale". Doveva essere una rievocazione - a metà tra la fiction e la didattica, dedicata ai giovani avvocati milanesi - di uno dei processi che hanno fatto la storia della giustizia sotto la Madonnina. Invece mercoledì, la serata organizzata dalla Camera penale cittadina è iniziata da poco, si alza dalla platea un signore smilzo con la camicia rosa e dice: «Buonasera, sono Pasquale Virgilio». Fu lui, cinquant'anni fa, il protagonista di quel caso. Fa irruzione in carne, ossa, ricordi e rabbia - una rabbia lucida ed indomita - nel convegno. Ed è uno choc. Perché non si limita a raccontare di come venne accusato ingiustamente. Racconta, nei dettagli e con crudezza, come venne torturato. Non nello scantinato di una caserma di periferia ma all'interno del tribunale di Milano, il tempio laico al cui ingresso sta scritto Iustitia. Di Giandomenico Pisapia, il grande professore che col suo intervento lo salvò dall'ergastolo, parla con freddezza: «Perché hanno creduto a lui e non a me? E gli altri, quelli che non hanno un Pisapia a salvarli, come fanno?». Nel suo racconto, la giustizia di quegli anni è un tunnel degli orrori. Orrori che si compiono a pochi metri dagli uffici dei giudici; davanti alle loro conseguenze, i giudici chiudono gli occhi. «I carabinieri - racconta Virgilio - mi vennero a prendere a casa e mi portarono a palazzo di giustizia. Prima sotto, poi sopra»: cioè negli uffici del quarto piano, che ora sono occupati dalla Procura della Repubblica. Virgilio era in divisa, perché stava facendo la naja. «Mi fecero sdraiare sui tavoli, mi tolsero gli anfibi e i calzettoni, poi presero le scope e iniziarono a colpirmi sotto le piante dei piedi. Picchiavano così forte che anche in carcere per molto tempo non riuscivo a camminare». Le botte avevano un obiettivo: farlo «cantare», confessare di essere lui l'assassino del benzinaio di piazzale Lotto. Ma Virgilio, che non era una mammola («vivevo di espedienti», definisce laconicamente la sua vita di allora) non confessa, per il semplice motivo che è innocente. Allora arriva il grado successivo: «I flash delle macchine fotografiche erano grandi e grossi, si ricaricavano con le batterie. Allora prendono i fili e me li legano, diciamo, nelle parti delicate». E iniziano le scosse. Virgilio avrà urlato. Ma nessuno, a Palazzo di giustizia, sembra sentire le sue urla. Però non confessa. E alla corrente si aggiungono i sacchetti con cui viene colpito ripetutamente. «Stavano attenti a colpire nei posti giusti». Poi forse sbagliano, e gli spaccano le gengive e i denti. E lui niente. Alla fine gli fanno firmare il verbale di interrogatorio. In seguito, tra il testo e la sua firma, aggiungono due righe con la confessione. Quando il pm Pasquale Carcasio, qualche giorno dopo, lo interroga, i segni delle botte sono inequivocabili. «Ma lui mi disse: eh, sarà caduto dalle scale....». Il trattamento riservato a Virgilio risale ad un'altra epoca, in cui i primi interrogatori potevano svolgersi senza avvocato: ma il suo racconto arriva nel pieno dell'iter parlamentare, segnato da rigidità ed estremismi contrapposti, della legge sulla tortura; e costringe a fare domande - che restano senza risposta - su quali coperture fossero necessarie perché violenze del genere accadessero impunemente. Tanto che se si chiede a Virgilio perché non sporse denuncia, alza il sopracciglio brizzolato: «Sì, così mi prendevo anche una condanna per calunnia».

Le confessioni di rei ritenuti innocenti. Cosima Serrano ha sempre sostenuto la sua estraneità all’omicidio ed al fantomatico rapimento onirico. Oltre modo nessuno mai l'ha tirata in ballo. Nessun testimone, nè il marito loquace. Anche per mancanza di tempo, ribadita da un testimone, perchè rientrata alle 13.30 circa dal lavoro in campagna. Sabrina Misseri ha sempre negato il suo coinvolgimento al delitto, confermate dagli sms alle Spagnoletti, e la sua gelosia per Ivano, confermando il suo affetto per Sarah. Michele Misseri ha confessato il delitto, con riscontro di fatti, facendo trovare prima il cellulare, poi il corpo e palesando la sua colpa nella prima telefonata genuina intercettata tra lui e la figlia Sabrina durante il suo arresto nella caserma di Taranto, in seguito del quale ha fatto ritrovare il corpo. Ha deviato sulla sua versione solo quando non era presente coscientemente a causa dei psicofarmaci somministrati ed indotto dal carabiniere presente all’audizione, ovvero quando è stato indotto dal suo avvocato difensore, Daniele Galoppa, consigliato a Michele dal pubblico ministero Pietro Argentino, componente dell’accusa, ed indotto dalla consulente Roberta Bruzzone. Così come dichiarato dallo stesso Misseri. Bruzzone che nel processo ha rivestito le vesti di consulente di Michele Misseri, testimone dell’accusa e persona offesa (logicamente astiosa) nei confronti di Michele.

IL CARCERE UCCIDE: TUTTO MORTE E PSICOFARMACI.

Morire di carcere. Il sovraffollamento non fa che aumentare, mentre calano le forze di polizia penitenziaria. Una bomba a orologeria, come documentato da "L'Espresso", sempre sul punto di esplodere.

Anno 2000, 61 suicidi su 165 morti. 2001, 69 su 177. 2002, 52 su 160. 2003, 57 su 157. 2004, 52 su 156. 2005, 57 su 172. 2006, 50 su 134. 2007, 45 su 123. 2008, 46 su 142. 2009, 72 su 177. 2010, 66 su 184. 2011, 66 su 186. 2012, 60 su 154. 2013, 49 su 153. 2014, 44 su 132. 2015, 43 su 122. 2016, 45 su 115. 2017, 19 su 39. Totale 952 su 2.660.

Aggiornamento al 18 maggio 2017. Fonte: Centro Studi di Ristretti Orizzonti. Sul sito web dell'associazione i dati aggiornati giorno per giorno

Meno delitti, più detenuti: il paradosso della sicurezza, scrive Damiano Aliprandi il 26 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Calano furti, rapine e omicidi, ma le carceri sono piene. Il 13esimo rapporto dell’Associazione Antigone sullo stato delle nostre prigioni è un grido d’allarme: dal sovraffollamento cronico all’abuso della custodia cautelare. Il carcere ritorna protagonista: aumenta il numero dei detenuti, nonostante la diminuzione dei reati. È quello che emerge dal tredicesimo rapporto dell’associazione Antigone intitolato “Torna il carcere”. I numeri sono chiari: negli ultimi 6 mesi si è passati da 54.912 presenze a 56.436. Il rapporto dell’associazione Antigone, presieduta da Patrizio Gonnella e dalla coordinatrice Susanna Marietti, sulle condizioni di detenzione è stato presentato ieri mattina a Roma con il Capo del Dap, Santi Consolo, e il Garante Nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma. Secondo gli ultimi dati forniti dall’Istat, infatti, si registra il 10,6% in meno di rapine (cioè furti aggravati dalla violenza o dalla minaccia), quasi il 7% in meno dei furti, il 15% in meno di omicidi volontari e tentati omicidi, il 6% in meno di violenze sessuali il 7,4% in meno di usura). Ci si era illusi che, dopo la condanna per trattamenti inumani e degradanti della Corte Europea dei diritti dell’Uomo (sentenza Torreggiani, 2013), il carcere potesse tornare a perseguire gli obiettivi dettati dalla Costituzione. I provvedimenti che incentivavano l’utilizzo delle misure alternative, le proposte degli Stati Generali dell’Esecuzione penale, l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà aveva reso fiducioso Antigone per un positivo cambio di clima politico. E invece numeri e politiche ben fotografate dal rapporto, curato da Alessio Scandurra, Gennaro Santoro e Daniela Ronco, evidenziano passi indietro: 56.436 è il numero di persone detenute duemila persone in più in soli quattro mesi -; sono stati 45 i suicidi in carcere nel corso del 2016 – spesso avvenuti dopo la detenzione in celle di isolamento – e con 19 suicidi dall’inizio del nuovo anno; la riforma dell’ordinamento penitenziario è ferma al palo; la legge sul reato di tortura resa “monca” per le varie modifiche. E il populismo penale rischia di essere l’unica risposta all’insicurezza dei cittadini.

SOVRAFFOLLAMENTO. Nel rapporto di Antigone viene spiegato che negli ultimi 6 mesi si è passati dalle 54.912 presenze del 31 ottobre del 2016 alle 56.436 del 30 aprile 2017, con una crescita di 1.524 detenuti in un semestre. Alessio Scandurra scrive nel rapporto che si tratta di un aumento tutt’altro che trascurabile: non solo conferma una tendenza all’aumento già registrato nei mesi precedenti, ma soprattutto perché questa tendenza viene consolidata e appare in progressiva accelerazione. Nel semestre precedente, dal 30 aprile al 31 ottobre del 2016, la crescita era stata infatti di 1.187 detenuti. «Se i prossimi anni dovessero vedere una crescita della popolazione detenuta pari a quella registrata negli ultimi sei mesi – spiega Scandurra -, alla fine del 2020 saremmo già oltre i 67.000».

CUSTODIA CAUTELARE. L’Italia è il quinto paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare, scrive Gennaro Santoro nel rapporto, con una percentuale di detenuti non definitivi, al 31 dicembre 2016, pari al 34,6% rispetto ad una media europea pari al 22%. Tra le varie cause che provocano l’elevato numero di ristretti non definitivi viene identificata l’eccessiva durata del procedimento penale e la scarsa applicazione di misure meno afflittive, quale ad esempio gli arresti domiciliari (con o senza l’utilizzo del braccialetto elettronico). Tale dato, inevitabilmente comporta che la custodia cautelare rappresenti anche una anticipazione (o, spesso, una sostituzione) della pena finale. “Ciò comporta – si legge sempre nel rapporto – che la custodia cautelare svolga una funzione in parte contraria alla legge, perché si pone in contrasto con il principio di presunzione di innocenza sopra menzionato: la funzione della custodia cautelare dovrebbe infatti risiedere esclusivamente nel rispondere alle esigenze cautelari”. Antigone denuncia le conseguenze drammatiche di tale situazione che si riversano sui detenuti stessi che, in quanto non definitivi, sono destinatari di norme e prassi carcerarie deteriori rispetto a quelle dedicate ai definitivi (ad esempio, per l’accesso al lavoro), nonostante possano trascorrere in carcere numerosi anni.

STRANIERI IN CARCERE. Secondo Antigone ci crea un effetto “criminalizzazione dello straniero”, con un aumento dal 33,2% del 2015 al 34,1% di oggi. Sono, poi, 356 i detenuti su cui si concentrano i timori connessi alla radicalizzazione. 11 sono i minori detenuti con l’accusa di essere scafisti. Ma, secondo Antigone, vi è il “forte rischio” che tra loro ci siano ragazzi indicati come tali dai veri scafisti, solo perché dovevano reggere il timone o svolgere altre piccole mansioni a bordo.

MISURE ALTERNATIVE. “Sarebbe importante monitorare scrive Daniela Ronco nel rapporto di Antigone – in maniera sistematica e accurata i dati sulla recidiva nel nostro paese: le ricerche condotte, a livello nazionale o locale, dimostrano l’idea della funzione di riduzione della recidiva in caso di condanna scontata in misura alternativa anziché in carcere”. L’Ordinamento Penitenziario individua tre tipi di misure alternative: l’affidamento in prova al servizio sociale, la semi- libertà, la detenzione domiciliare. La misura più utilizzata resta l’affidamento in prova al servizio sociale, ossia quella sanzione penale che consente al condannato di espiare la pena detentiva inflitta o residua in regime di libertà assistita e controllata, sulla base di un programma di trattamento.

Quasi il 35% dei detenuti è straniero, scrive Damiano Aliprandi il 10 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Secondo i dati del Dap, 6mila sono islamici. Il mondo politico e dell’associazionismo è diviso sulla proposta del ministro dell’interno Marco Minniti di rilanciare i Centri di identificazione ed espulsione. A proposito degli immigrati, Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe) dice: «Spero e mi auguro che le dichiarazioni di intenti del Viminale sulla annunciata stretta dei migranti irregolari in Italia trovi concretezza anche per quanto concerne le ricadute sul sistema penitenziario, dove oggi abbiamo presenti oltre 18.700 detenuti stranieri». Per il Sappe, «fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d’origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia». Però i dati sugli stranieri in carcere risultano un po’ più complessi. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella ha più volte spiegato che la presenza degli stranieri in carcere è dovuta al fatto che «subiscono maggiormente i provvedimenti cautelari detentivi rispetto ai cosiddetti detenuti nazionali». Nei confronti di un immigrato irregolare è certamente più difficile trovare soluzioni cautelari diverse dalla carcerazione. Sempre Gonnella ha spiegato il motivo: «I giudici di sovente motivano i provvedimenti di carcerazione sostenendo la tesi che gli immigrati privi di permesso di soggiorno non hanno un domicilio stabile ove poter andare agli arresti domiciliari. In realtà molto spesso gli irregolari una casa o una stanza dove vivere ce l’hanno ma non possono essere indicate quale domicilio regolare essendo loro stessi in una generale condizione di irregolarità». In sostanza l’immigrato non regolare finirà più facilmente in carcere in custodia cautelare rispetto allo straniero regolare. Quindi i tassi di detenzione sono legati alla Bossi Fini, messa molto spesso in discussione da associazioni, movimenti politici e personalità che studiano il fenomeno dell’immigrazione nel nostro Paese. Secondo le più recenti stime della Fondazione Ismu (Iniziativa e studi sulla multietnicità), gli stranieri residenti in Italia che professano la religione cristiana ortodossa sono i più numerosi (oltre 1,6 milioni), seguiti dai musulmani (poco più di 1,4 milioni), e dai cattolici (poco più di un milione). Passando alle religiose minori, i buddisti stranieri sono stimati in 182.000, i cristiani evangelisti in 121.000, gli induisti in 72.000, i sikh in 17.000, i cristiano- copti sono circa 19.000. L’indagine dell’Ismu evidenzia come il panorama delle religioni professate dagli stranieri è molto variegato e sfata il pregiudizio secondo cui la maggior parte degli immigrati professa l’islam. Per quanto riguarda le incidenze percentuali i musulmani sono il 2,3% della popolazione complessiva (italiana e straniera), i cristiano- ortodossi il 2,6%, i cattolici l’1,7%. Per quanto riguarda le provenienze si stima che la maggior parte dei musulmani residenti in Italia provenga dal Marocco (424.000), seguito dall’Albania (214.000), dal Bangladesh (100.000), dal Pakistan (94.000), dalla Tunisia, (94.000) e dall’Egitto (93.000). In Lombardia vivono più immigrati cattolici è la Lombardia, con 277.000 presenze, seguita dal Lazio (152.000) e dall’Emilia Romagna (95.000). Per quanto riguarda la religione degli stranieri in carcere, la situazione rispecchia quella generale. Secondo gli ultimi dati messi a disposizione dal Dap, i detenuti presenti al 31 dicembre 2016 erano 54.653, di questi 18.958 stranieri. Coloro che si sono dichiarati di religione islamica sono circa 6000. Il presidente di Antigone Patrizio Gonnella spiega che «la radicalizzazione nei reparti dove sono reclusi detenuti sospettati di terrorismo ed appartenenze di matrice islamica, nessun operatore parla e legge l’arabo, vivendo così nell’impossibilità di capire e dialogare con queste persone. Inoltre, salvo rarissime circostanze, gli Imam non sono abilitati ad entrare negli istituti di pena italiani. Questo porta i detenuti stessi a scegliere tra loro chi debba guidare la preghiera, senza alcuna garanzia rispetto a quanto viene professato. La presenza del ministro di culto darebbe invece la possibilità di portare nel carcere un Islam aperto e democratico». Per questo motivo apprezza la decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di affidare al vicepresidente dell’Ucoii dei corsi per il personale di polizia penitenziaria. Sempre Gonnella ricorda che «la Camera ha già approvato il ddl di riforma dell’ordinamento penitenziario dove si riconosce uno spazio ad hoc per la libertà di culto e vengono previsti una serie di diritti per i detenuti stranieri. Disegno di legge attualmente al Senato che, più volte, abbiamo sollecitato per un’immediata approvazione». Il presidente di Antigone infine conclude con un auspicio: «Va evitata la segregazione che crea il rafforzamento della radicalizzazione. Va evitata la sindrome della vittimizzazione. Va evitata la stigmatizzazione degli islamici che produce violenza e ulteriore radicalizzazione. Va evitato un sistema penitenziario affidato solo ai servizi di sicurezza. Vanno previsti programmi sociali di deradicalizzazione».

Prigionieri e suicidi: così il carcere uccide. Celle sature, carenza di medici, l’aumento di casi di malasanità e l’abuso di psicofarmaci in meno di cinque mesi si sono già registrati 31 decessi. La polizia penitenziaria non riesce a impedire queste morti. E la Procura di Roma indaga per istigazione al suicidio, scrive Arianna Giunti il 24 maggio 2017 su "L'Espresso". Carmelo Mortari aveva 58 anni. Lo hanno trovato in una pozza di sangue nella sua cella di Rebibbia, reparto G9, lo scorso 25 marzo. Si è tagliato la gola ed è morto lentamente, dissanguato. Soffriva di depressione, ma nessuno se n’era accorto. Il giorno dopo a qualche chilometro di distanza Vehbija Hrustic, 30 anni, si è impiccato alla grata del bagno di Regina Coeli, dilaniato dal dolore. Gli avevano appena detto che sua figlia era morta. Sapevano che era sconvolto, ma non sono riusciti a fermarlo. Michele Daniele di anni ne aveva 41 ed era “dipendente dall’alcol”, come recita la sua cartella clinica. Secondo lo psichiatra che lo ha visitato, però, “non correva rischi suicidari”. Una settimana dopo si è ucciso nel bagno della sua cella di San Vittore impiccandosi con la cintura dell’accappatoio. In meno di cinque mesi, dall’inizio dell’anno a oggi, nelle carceri italiane sono già registrati 31 decessi fra cui 24 suicidi. Una media di cinque morti al mese. A febbraio, in particolare, si sono contati quattro suicidi in un solo giorno. Nell’anno 2016, in totale, erano centoquindici. Una strage inarrestabile e silenziosa che sembra essere la diretta conseguenza dello stato in cui versano le nostre prigioni, riprecipitate in un baratro allarmante. Il decreto “svuota carceri” voluto nel 2014 dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, infatti, ha avuto un effetto positivo ma molto breve: oggi le celle sono tornate a riempirsi a ritmo vertiginoso e contano un totale di 56.289 detenuti per 50.211 posti a disposizione, secondo gli ultimi dati disponibili del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Tanto che di recente l’Italia - ancora una volta – è stata bacchettata dal Consiglio d’Europa.  Un’emergenza fotografata anche dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone sullo stato di detenzione in Italia, che fa luce soprattutto sull’inquietante ritorno del sovraffollamento: secondo l’osservatorio, la popolazione carceraria è aumentata di 2mila unità soltanto negli ultimi quattro mesi. Però, oltre le celle sature, sono molte tante le piaghe che non accennano a guarire: la carenza di medici dietro le sbarre, l’aumento di casi di malasanità e l’abuso di psicofarmaci. Le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) - le strutture che dovrebbero accogliere i detenuti con problemi psichiatrici – sono troppo poche e troppo piene. Quindi i detenuti con patologie psichiche sono “curati” nelle celle ricorrendo a un massiccio uso di sedativi con conseguenze a volte letali. Mentre i poliziotti incaricati di sorvegliarli fanno quello che possono, ma sono troppo pochi. Capita che per un intero piano ci sia un solo agente. E’ così diventa una corsa contro il tempo. Che spesso si perde.

Sono bastati 45 minuti perché Vehbija Hrustic, detenuto di 30 anni, si infilasse al collo un cappio ricavato da un lenzuolo e si appendesse alle grate del bagno, a Regina Coeli. Era in carcere dallo scorso agosto in attesa di giudizio, ed era incensurato. Aveva una figlia, Iana, un anno appena, che soffriva di una grave patologia cardiaca congenita. Il giorno in cui sua figlia è morta all’ospedale Bambin Gesù, il 14 marzo scorso, Vehbja Hrustic lo ha saputo dallo psicologo del carcere. Raccontano che si è piegato in due dal dolore. Gli hanno permesso di andare al funerale, e da allora non ha più parlato. Si è chiuso in un silenzio ostinato e premonitore. Sapevano della sua condizione gli agenti della penitenziaria, la direzione carceraria, i magistrati di sorveglianza. Eppure nonostante l’altissimo rischio suicidario Hrustic non era sottoposto a un controllo di sorveglianza a vista. “Il detenuto è totalmente abbandonato a se stesso, demotivato dalla prematura scomparsa della figlia: tale drammatico evento potrebbe portarlo a commettere un gesto estremo”, si legge nell’istanza di scarcerazione datata 17 marzo che il legale del 30enne, Michela Renzi, aveva presentato ai giudici per chiedere che gli fossero concessi quantomeno i domiciliari. Per quindici giorni il legale si è presentata davanti al magistrato del Tribunale di sorveglianza per avvertire che la situazione stava precipitando. Una corsa contro il tempo, rimasta inascoltata. Perché il carcere, irremovibile, continuava a sostenere la sua versione: “La terapia farmacologica sta funzionando”. Gli psicofarmaci che gli facevano ingoiare più volte al giorno però non sono evidentemente serviti a nulla. “Me ne vado dalla piccola Iana”, è stata l’ultima frase che l’avvocato Renzi gli ha sentito sussurrare. E così Vehbja aspettato che calasse la notte e si è ammazzato. Oggi sul suo decesso è stata aperta un’inchiesta coordinata dal pubblico ministero romano Laura Condemi. L’accusa è pesantissima: istigazione al suicidio. “Non doveva trovarsi un carcere – spiega l’avvocato Renzi – avrebbe dovuto essere seguito in un percorso psicologico costante che potesse permettergli di superare un momento così tragico, che avrebbe annientato qualsiasi essere umano. A maggior ragione un detenuto costretto a vivere dietro le sbarre”. “Si trattava di un uomo fortemente a rischio – le fa eco il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasia – sia perché incensurato, e dunque non abituato alla vita nel carcere, sia perché prostrato da un lutto devastante, come può essere la morte di una figlia”. Ma il dato di fatto è che in carcere mancano operatori sanitari specializzati: psichiatri, psicologi e tecnici della riabilitazione psichiatrica. Secondo quanto prevede l’ordinamento giudiziario, in ogni regione devono essere garantiti appositi servizi di assistenza, attraverso l’attivazione di reparti di “Osservazione psichiatrica” per la cura dei detenuti affetti da specifiche patologie e stabilire la loro compatibilità con il regime carcerario. Il più delle volte però – come confermano i sopralluoghi dei vari garanti dei diritti delle persone private della libertà – questo si traduce in “celle lisce”, prive di qualsiasi tipo di mobilio, dove sono presenti letti di contenzione con lacci di cuoio e dove vengono immobilizzati i detenuti in preda a crisi psichiatriche. A San Vittore – nonostante l’annunciata chiusura - è ancora presente la cella numero 5, utilizzata come cella di contenzione per detenuti definiti “problematici”.

Problematico era anche Valerio Guerrieri, 22 anni, affetto da “personalità borderline” e dichiarato da una perizia psichiatrica “incline al suicidio”. Arrestato lo scorso gennaio per resistenza a pubblico ufficiale e reati minori, era stato portato alla Rems di Ceccano, nel Frusinate, per ben due volte. Ma per ben due volte si era allontanato. A febbraio lo avevano trasferito quindi a Regina Coeli, terzo piano, seconda sezione. I giudici avevano già stabilito la sua incompatibilità con il carcere, per via del suo disagio psichico, e ne avevano predisposto il trasferimento alla Rems di Subiaco, ritenuta più idonea ad accoglierlo. La struttura però era piena e così Lorenzo è rimasto in carcere in attesa che si liberasse un posto. Nessuno – a parte la sua famiglia - si era evidentemente reso conto dell’abisso di disperazione nel quale il 22enne stava precipitando giorno dopo giorno. Il pomeriggio del 24 febbraio Valerio aspetta che il suo compagno di cella si addormenti. Quindi va in bagno, fabbrica una sorta di cappio con un lenzuolo e si impicca alle grate. E’ lo stesso bagno dove ha trovato la morte Vehbja Hrustic, nello stesso identico modo. “Non doveva trovarsi in carcere, quel suicidio si poteva evitare”, dicono oggi dall’Osservatorio Antigone. “Si tratta di una sezione che conta 170 detenuti e un solo agente incaricato di sorvegliarli su quattro piani”, si sono difesi i sindacati di polizia penitenziaria. Una tragica vicenda, questa, che accende l’attenzione sulla situazione dei Rems, le strutture che dopo la chiusura degli Opg dovrebbero accogliere i detenuti afflitti da gravi patologie psichiatriche e socialmente pericolosi e indirizzarli verso percorsi riabilitativi. In tutta Italia sono attualmente 28 per un totale di 624 posti disponibili. E sono quasi sempre piene. Sul caso di Valerio Guerrieri la Procura di Roma ha ora aperto un’inchiesta per omicidio colposo. “Lo hanno imbottito di psicofarmaci”, denuncia oggi la madre attraverso il suo legale Claudia Serafini. L’abuso di psicofarmaci in carcere, infatti, come evidenziato anche da un’inchiesta dell’Espresso, è un problema che sta sfuggendo al controllo dei operatori giudiziari e dei medici che prestano servizio negli istituti di pena.  Secondo recenti stime delle associazioni a tutela dei detenuti, quasi il 50% dei detenuti fa uso di psicofarmaci o potenti sedativi che inibiscono il normale funzionamento psichico. Sono farmaci che provocano sbalzi di umore difficili da gestire, soprattutto nelle persone che hanno un passato di tossicodipendenza. Senza contare il fatto che le benzodiazepine – i sedativi più comunemente usati anche da detenuti perfettamente sani e non affetti da patologie mentali – provocano astinenza già dopo 15 giorni di assunzione. Gli psicofarmaci diventano infatti l’unica “anestesia” a disposizione dei prigionieri per riuscire a sopportare condizioni disumane e carcerazioni preventive. E così lo spaccio di medicinali nelle celle e l’uso smodato di sedativi continuano a moltiplicarsi. Con conseguenze spesso tragiche, come dimostrano recentissimi fatti di cronaca. Nel carcere di Perugia lo scorso novembre uno “speedball” di cocaina, ammoniaca e medicinali ha quasi ucciso un detenuto magrebino. Mentre lo scorso 4 aprile un potente mix di psicofarmaci e droga è stato fatale a un detenuto 33enne rinchiuso nel penitenziario di Rimini.

E poi c’è la vicenda di Andrea Cesar, 36 anni, detenuto in attesa di giudizio, trovato cadavere nella sua cella al secondo piano del carcere di Trieste la notte nel 27 aprile. Secondo gli inquirenti che stanno ancora indagando, Cesar sarebbe stato stroncato da un massiccio cocktail di psicofarmaci. Parallelamente all’inchiesta aperta in Procura, la direzione dell’istituto di pena ha aperto un’indagine interna. “Lo scambio di farmaci all’interno del penitenziario non è controllabile – ha ammesso il direttore del carcere triestino Silvia Della Bella – può capitare che qualche recluso riesca ad occultare i farmaci eludendo la sorveglianza per poi assumerli quando e come vogliono”. La notte in cui è morto il 36enne – ha spiegato il segretario provinciale della Uil Penitenziari Alessandro Penna – c’erano di turno soltanto due agenti. Uno dei due era stato mandato in ospedale per piantonare un detenuto. L’altro era rimasto a controllare un intero carcere. Da solo.

Psicofarmaci dietro le sbarre: così si annullano gli esseri umani. Mancano gli psicologi, così nelle carceri italiane il 50 per cento dei detenuti ne abusa. Con conseguenze spesso tragiche: dall'alterazione mentale al suicidio, scrive Arianna Giunti l'1 febbraio 2016. In carcere lo chiamano “il carrello della felicità”. Passa fra le celle tutte le sere distribuendo compresse colorate, gocce, flaconi e pillole. Farmaci che calmano l’ansia e procurano benessere chimico. Nelle prigioni italiane esiste un problema sotterraneo: l’abuso di psicofarmaci. Dati ufficiali però non esistono, perché la mancanza di cartelle cliniche informatizzate non permette, nel nostro Paese, di avere un quadro completo di quello che avviene nelle infermerie dei 206 istituti penitenziari. Ma si tratta di un’emergenza concreta. Come fanno emergere i sopralluoghi appena portati a termine dai Radicali nelle carceri della penisola, soprattutto del Sud Italia. E come confermano, puntuali, le associazioni a tutela dei carcerati (Osservatorio Antigone, Ristretti Orizzonti e Detenuto Ignoto) dalle quali arrivano dati poco rassicuranti: secondo le loro stime quasi il 50% delle persone dietro le sbarre – su un totale di 52.164 detenuti in base agli ultimi dati disponibili del Ministero della Giustizia - sarebbe sotto terapia da psicofarmaco. Mentre il 75% ricorrerebbe a quella che viene definita “terapia serale”: sedativi per dormire. L’abuso di psicofarmaci sarebbe l’effetto diretto di un’altra falla ormai cronicizza all’interno delle nostre prigioni: la carenza di psicologi. In poche parole, in assenza di specialisti che dovrebbero curare lo stato mentale dei detenuti con la psicoterapia, si fa uso di potenti medicinali. Con un risvolto non indifferente anche in termini di costi per il Sistema Sanitario Nazionale. E con conseguenze spesso tragiche: solo nelle ultime settimane si sono registrate due sospette overdose da farmaci. Spesso – va detto - si tratta di cure indispensabili per far fronte a disagi psichici altrimenti ingestibili. Altre volte, invece, è un abuso di terapia che annienta i prigionieri. Un “contenimento di Stato”, come lo definiscono i sindacati di polizia penitenziaria e gli operatori volontari. Che avrebbe come scopo quello di evitare situazioni esplosive: solo con l’aiuto di massicce dosi di farmaci a effetto calmante i detenuti riescono a sopportare i trattamenti degradanti negli istituti di pena in stato di fatiscenza e i lunghi periodi di carcerazione preventiva in attesa del processo. A volte le pillole vengono assunte in maniera passiva, soprattutto dagli stranieri, che non sanno neanche cosa stanno ingoiando. Più spesso invece sono loro stessi a chiederle, per anestetizzare angoscia e dolore. Però gli effetti di questa sedazione di massa, come ha accertato l’Espresso attraverso le testimonianze di medici, volontari, guardie carcerarie, detenuti ed ex detenuti, possono essere disastrosi. Gli strascichi si manifestano per anni, a volte per sempre, anche dopo essere usciti dal carcere. Rendendo il ritorno in società ancora più difficile. E poi creano più dipendenza dell’eroina. Così una volta tornati liberi spesso l’astinenza viene colmata con l’uso di droghe pesanti. Fra gli ex detenuti c’è chi racconta di aver avuto perdite di memoria - al punto di non ricordarsi più il nome del proprio figlio – e chi una volta tornato in libertà ha accusato crisi di panico e impotenza. Annullandosi come essere umano.

FELICITA’ CHIMICA. Nelle infermerie dei penitenziari è facile trovare sedativi perfettamente legali distribuiti su ricetta anche in farmacia. Ai prigionieri vengono somministrati soprattutto nei primi giorni di carcere per far fronte a quegli stati d’animo che, nel linguaggio medico della sanità penitenziaria, vengono definiti “disturbi nevrotici e reazioni di adattamento”. La disperazione è ancora più forte nei “nuovi giunti”, detenuti in attesa di giudizio che sanno o che credono di essere innocenti. E che non riescono a sopportare l’idea di subire un’ingiustizia. “I nervi spesso cedono dopo la prima notte in cella”, spiegano dall’associazione Ristretti Orizzonti, una delle più attive nel denunciare l’abisso delle carceri. Poi ci sono gli antidepressivi, come il Prozac: provocano un rapido effetto di torpore e benessere. Un’altra categoria sono gli antipsicotici e gli stabilizzatori dell’umore, come il litio. Quelli più diffusi, però, sono le benzodiazepine: farmaci utilizzati per combattere l’insonnia, l’ansia e le convulsioni. Ma che creano assuefazione dopo pochissimo tempo. Conferma a l’Espresso Matteo Papoff, psichiatra per lungo tempo in servizio al carcere Buoncammino di Cagliari e oggi al penitenziario di Uta: “La dipendenza comincia a manifestarsi già dopo 12 settimane di assunzione. Non solo nei tossicodipendenti, ma anche nelle persone perfettamente sane. Ecco perché l’uso prolungato va assolutamente evitato”. “Da un punto di vista fisico queste terapie sconvolgono i detenuti – spiega Francesco Ceraudo, per 40 anni direttore del centro clinico del carcere Don Bosco di Pisa – Quando li vedi sono inconfondibili: non riescono a mantenere la posizione eretta, trascinano i piedi, gli occhi sono persi nel vuoto, il viso diventa simile a un teschio. Risulta perso ogni sussulto di vita”. “Le carceri sono diventate fabbriche di zombie. Ed è una situazione drammatica che si vuole tacere, perché fa comodo a tutti”, è l’amara conclusione di Ceraudo.

LE SEDUTE CON LO PSICOLOGO? UN MIRAGGIO. Ma come avviene, esattamente, la somministrazione dei farmaci? Formalmente solo sotto consenso di un medico, attraverso un’autorizzazione firmata. Però uno psichiatra fisso nelle carceri non sempre è disponibile. Soprattutto di notte. La copertura medica dello specialista dovrebbe essere garantita per 38 ore a settimana in ogni struttura. Ma dopo una prima visita obbligatoria spesso gli incontri si riducono a colloqui lampo di una manciata di minuti per ogni carcerato. “Troppo poco perché possa essere diagnosticato un problema e prescritta una terapia adatta - sostiene Alessandra Naldi, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano – mentre allo stesso tempo in infermeria vengono distribuiti sedativi con grande disinvoltura. Basti sapere che a San Vittore, mentre il 30% dei detenuti assume regolarmente psicofarmaci, il 90% di loro è sottoposto a quello che viene chiamato ‘terapia serale’”. Ansiolitici per dormire. E così si arriva al paradosso che nelle carceri è più facile trovare un sedativo che un’aspirina. Come racconta a l’Espresso Giancarlo F., ex detenuto, che negli ultimi cinque anni ha girato altrettanti penitenziari del Nord Italia: “Soffro di “cefalea a grappolo”, attacchi di mal di testa che provocano dolori lancinanti. Per curarla ho bisogno di un farmaco specifico. In carcere dovevo compilare dozzine di moduli per poterlo ordinare: una burocrazia lentissima e complicata. Quasi mai riuscivo ad averlo. Mentre gli psicofarmaci erano sempre lì, pronti e disponibili”. A focalizzare uno dei nodi cruciali è Fabio Gui, del Direttivo Forum Nazionale per il diritto alla salute dei detenuti della Regione Lazio: “Nella maggior parte degli istituti manca un monitoraggio centrale e cartelle cliniche informatizzate, quindi è impossibile calcolare quanti siano gli assuntori di farmaci e, più in generale, i malati. Soprattutto, manca una cabina di regia a livello nazionale che permetta di avere un quadro completo della situazione”. La sanità nelle carceri, infatti, dal 2008 non è più competenza dell’amministrazione penitenziaria ma a carico del Servizio Sanitario Nazionale e quindi gestita a livello regionale. Fra i pochissimi censimenti a disposizione – contenuti in uno studio multicentrico sulla salute dei detenuti in Italia dell’Agenzia Regionale della Sanità della Toscana - ci sono quelli del Lazio (3.576 detenuti su un totale di 4.992 assuntori di ansiolitici, antipsicotici, ipnotici-sedativi e antidepressivi), Veneto (1.284 su 1.460), Liguria (1.366 su 1.776), Umbria (659 su 800) e la città di Salerno (52 su 90). Mentre fino a oggi le regioni virtuose che hanno introdotto la cartella clinica digitale sono solo l’Emilia Romagna (in ciascun carcere già dall’estate 2014) e la Lombardia (San Vittore, Opera, Varese, Bergamo, Sondrio, Vigevano, Busto Arsizio). Niente invece in Calabria, Basilicata, Lazio, Liguria e Marche. E pochissimi istituti a norma in Sicilia (solo Messina) e in Campania (Carinola). “I fascicoli cartacei usati attualmente dalla medicina penitenziaria sembrano risalire a un’altra era: faldoni enormi pieni di foglietti stratificati scritti con grafie spesso incomprensibili – si legge nell’ultima relazione dell’Osservatorio Antigone – che non garantiscono continuità terapeutica e che rischiano di essere fatali in situazioni critiche dove è essenziale ricostruire la storia clinica del paziente”. Significativi, poi, i report prodotti in queste settimane dai Radicali, che sottolineano una carenza cronica soprattutto di specialisti psicologi. “A livello nazionale – fanno sapere dalla Società Italiana Psicologia Penitenziaria – il monte ore per gli psicologi esterni autorizzati a prestare servizio in carcere è di 105.751 ore. Tenuto conto che i detenuti oggi sfiorano quota 51mila, il tempo annuo per ogni detenuto è di 127 minuti”. A conti fatti, 2 minuti e mezzo a settimana per ogni paziente. Tempo che ovviamente si riduce se gli ingressi di prigionieri aumentano. E così si ricorre direttamente alla terapia d’urto: medicinali.

SPACCIO IN CELLA. I numeri di chi assume abitualmente psicofarmaci, comunque, sono calcolati per difetto. Perché quando i sedativi non vengono somministrati legalmente molti detenuti riescono a procurarseli di contrabbando e li assumono in dosi raddoppiate per ottenere un effetto più potente, simile a quello dell’eroina. “In carcere esiste persino un borsino del baratto - conferma Leo Beneduci del sindacato autonomo di polizia penitenziaria Osapp – e può accadere che nei cortili durante l’ora d’aria mezza capsula di Subtex sia ceduta per due pacchetti di sigarette, mentre il Rivotril o il Tranquirit per cinque. O che si spacci il metadone”. Per evitare il traffico di farmaci gli infermieri preferiscono somministrare le sostanze in gocce o aspettano che il detenuto deglutisca la pastiglia. Ma a volte queste precauzioni non bastano: alcuni fingono di ingoiare le pillole, poi le sputano e le rivendono. Anche gli operatori fanno quello che possono per arginare il problema. Racconta un volontario di San Vittore: “Le benzodiazepine vengono consumate a ettolitri. Il sesto raggio, in particolare, è un girone infernale”.  “L’orario della terapia è un incubo – si sfoga un paramedico in servizio a Poggioreale - ogni sera è una lotta per cercare di dare meno psicofarmaci possibili e spesso finiamo per essere presi a calci perché ci rifiutiamo di somministrare quello che ci chiedono per stordirsi”. Da Sud a Nord la situazione è sempre la stessa.  Nel carcere di Bolzano lo scorso 6 gennaio è scattato l’allarme per furti di psicofarmaci trafugati dall’infermeria, che verrebbero poi ceduti a pagamento ad altri detenuti. Poche settimane prima la Procura aveva aperto un’indagine su un detenuto colto in flagrante mentre rubava compresse di Rivotril, che serve a curare gli attacchi di panico ma viene utilizzato dai tossicodipendenti come surrogato dell’eroina. Alcuni mesi fa, sempre a Bolzano, un detenuto aveva rischiato la vita dopo un’overdose di benzodiazepine.

SUICIDI E BLACKOUT. Oltre ai malesseri fisici e allo stato di narcolessia, assumere i farmaci in maniera incontrollata ha un’altra conseguenza pericolosissima: l’alterazione mentale. I detenuti passano da uno stato di euforia alla più buia depressione, con tendenze auto lesioniste. Negli ultimi cinque anni nelle carceri italiane si sono contati 747 decessi, molti dei questi per cause non chiare. I suicidi, solo dal 2011 a oggi, sono arrivati a 261. Mentre solo nel 2014 sono stati 6.919 gli atti di autolesionismo. L’ultimo suicidio risale al 23 dicembre scorso: un ex impiegato di 64 anni si è tolto la vita al Pagliarelli di Palermo, dove non esiste un reparto psichiatrico. Mentre il 5 gennaio al Marassi di Genova un detenuto di 45 anni, Giovanni C., è stato trovato agonizzante nel suo letto ed è morto poco dopo l’intervento dei sanitari. La Procura di Genova ha aperto un’inchiesta: sospetta che sia stato vittima di un’overdose da sostanze stupefacenti o psicofarmaci, ceduti da altri detenuti. A raccontare l’abuso di sedativi sono anche gli stessi carcerati. Gli effetti collaterali – spiegano - si manifestano lentamente. Fra questi ci sono le amnesie. “Un bel giorno cominci a dimenticarti cosa hai mangiato la sera prima”, racconta Gabriele F., “poi è come se il cervello avesse dei blackout sempre più frequenti. E finisce che non ti ricordi neanche più il nome di tuo figlio”. Le conseguenze degli abusi di psicofarmaci e sedativi, poi, si pagano per molto tempo. Come conferma chi ormai ha finito di scontare la propria pena e che fuori dalla galera si è trovato ad affrontare nuovi incubi: malesseri, depressione, fobie. Paura degli spazi aperti o, semplicemente, di attraversare la strada. “Prima sono iniziati i tremori alle mani, tanto che non riuscivo neppure a guidare”, racconta a l’Espresso Salvatore B., 45 anni, ex detenuto, “poi ho cominciato ad avere le allucinazioni, la tachicardia. Mentre a volte di punto in bianco mi addormentavo. Ovunque. Riprendere la vita quotidiana, affrontare colloqui di lavoro o anche solo ritornare ad avere un’intimità con mia moglie è stato impossibile”.

SOLUZIONI: PSICOTERAPIA E LAVORO. Non tutti i penitenziari, però, vivono questa realtà nera. Alcune regioni come Umbria e Sardegna si sono sforzate di migliorare la situazione carceraria attraverso dipartimenti di salute mentale con medici attivi 24 ore al giorno e gruppi sperimentali di psicoterapia. Mentre nelle carceri di Bollate e Rebibbia già da anni si pratica la “Mindfulness”, una pratica di meditazione molto diffusa anche all’estero. E i risultati sono stati ottimi. “Costa molto meno dei farmaci e non ha effetti collaterali”, conferma Gherardo Amadei, psichiatra e docente all’Università Bicocca di Milano. Un’altra soluzione pratica arriva dalle cooperative: il lavoro in carcere. Se, infatti, l’uso di psicofarmaci è altissimo nelle case circondariali, che ospitano chi è in attesa di giudizio o chi ha una condanna breve da scontare, si abbassa notevolmente nelle case di reclusione dove sono accolti i carcerati condannati in via definitiva. E che – come prevede l’ordinamento giudiziario – lavorano. “Tenere occupate le mani e la testa, sentirsi utili, è fondamentale per non impazzire - spiegano ancora da Ristretti Orizzonti - il lavoro dovrebbe essere concesso da subito”. A confermarne l’effetto benefico sono le storie dei detenuti. Come quella di Giacomo, milanese, 35 anni, una vita trascorsa a entrare e a uscire dalla cella dall’età di 14 anni. Ex tossicodipendente, era arrivato ad assumere benzodiazepine tre volte al giorno e pesava 40 chili. Oggi è uno dei giardinieri della cooperativa sociale carceraria di Bollate. E’ tornato ad avere un peso normale, sta studiando per il diploma di ragioneria e gioca a calcio. I sedativi sono soltanto un ricordo.

"In carcere psicofarmaci a pioggia: per riprendermi ci ho messo 3 anni". «E sono stato fortunato. Molti altri miei amici non ce l’hanno fatta». La denuncia di un ex detenuto, scrive Arianna Giunti l'1 gennaio 2016 su "L'Espresso". “Gli psicofarmaci, in cella, venivano somministrati a pioggia. Tre volte al giorno: mattina presto, pomeriggio e la sera prima di andare a letto. E così vedevi gente che stava anche per 24 ore sdraiata per terra. Narcotizzata. Io ci ho impiegato tre anni, una volta uscito dal carcere, per riprendermi da quella roba. E mi è andata bene. Perché ho visto gente morire”. Fabio M., 53 anni, ex detenuto romagnolo, di penitenziari ne ha visitati tre. Tutti nel centro Italia, dopo aver scontato una condanna di cinque anni. Oggi è un uomo pienamente recuperato, anche grazie all’associazione Papillon di Rimini, che da anni si dedica al difficile compito di reinserimento sociale degli ex carcerati. I ricordi di Fabio su quello che accadeva in carcere, però, sono ancora molto nitidi. In particolare quella “sedazione di Stato” di cui parlano anche medici, volontari e agenti della polizia penitenziaria. Psicofarmaci che sarebbero somministrati in dosi massicce per contenere i detenuti. Come racconta lui stesso a l’Espresso in questa intervista.

Com’è la vita in carcere?

«Dobbiamo fare prima di tutto una premessa. Chi finisce dietro le sbarre reagisce in tre modi diversi: c’è chi la prende con filosofia e inganna il tempo giocando a carte, c’è chi per sfogare la rabbia fa attività fisica fino all’esasperazione. Poi ci sono quelli che si chiudono in se stessi. Di solito si tratta di persone che entrano in carcere per la prima volta, magari in attesa di giudizio. Non mangiano, non parlano. Si imbottiscono di farmaci e passano le giornate stesi sulle barelle in infermerie sotterranee, sporche e senza luce. Simili a tombe. Noi detenuti le chiamano le buche”».

Come funziona la somministrazione di psicofarmaci in carcere?

«Per quello che ho potuto vedere con i miei occhi c’è una somministrazione a pioggia. Per molto tempo li ho assunti pure io, poi ho deciso di smettere. L’idea che mi sono fatto è che vengano dati con così tanta facilità per contenere, per tenere calmi i detenuti. Vista anche la situazione di perenne sovraffollamento: in una sola cella si potevano trovare anche undici persone».

Che tipo di farmaci vi venivano somministrati?

«Soprattutto psicofarmaci, ansiolitici e benzodiazepine».

Vi era stato detto che questi farmaci – in particolare le benzodiazepine - provocano astinenza già dopo poche settimane?

«Io ho deciso di smettere proprio per questo. Mi facevano vivere in uno stato di perenne angoscia. Mi sentivo malissimo. Appena riacquisti un momento di lucidità ti senti inadeguato, ti senti una nullità».

Ha mai assistito a spaccio di droga o di farmaci, in carcere?

«Questo è un altro problema serio. Molti detenuti si fanno consegnare le pastiglie, poi però non le assumono e le scambiano con le sigarette o con altri favori. Per evitare che avvenga questo spaccio gli operatori più scrupolosi somministrano solo farmaci liquidi in gocce e aspettano che il detenuto li deglutisca. Perché la realtà è proprio questa: i farmaci in carcere vanno a sostituire le droghe. E così diventa una sorta di “spaccio di Stato”. In carcere si crea uno stato di promiscuità tale che poi porta a far saltare tutti i valori».

In quale carcere, fra quelli che ha girato, ha assistito in particolare a questi episodi?

«Nel carcere di Rimini. Lì il problema dello spaccio era veramente forte. Per fortuna c’è un’equipe medica molto seria e attenta che cerca di arginare queste situazioni».

Lei ha mai avuto problemi di salute dopo la somministrazione di questi psicofarmaci?

«Io ci ho messo tre anni per riprendermi dall’uso di questi farmaci. E sono stato fortunato. Molti altri miei amici non ce l’hanno fatta. Molti sono morti nel sonno, in cella. Perché quei sedativi provocano le overdose, proprio come le droghe».

I problemi di salute, quindi, saltano fuori soprattutto dopo la scarcerazione. Quando i detenuti si ritrovano a interrompere la terapia…

«Esattamente. E’ uno stato di felicità chimica, sono farmaci che vanno a riempire dei vuoti che i detenuti in carcere non riescono a colmare in un’altra maniera. Però sono medicine pericolosissime. Danneggiano il corpo e la mente, e uno se ne rende conto solo una volta uscito dal carcere. La pena detentiva dovrebbe avere il fine della rieducazione. E invece è una condizione che ti porta al limite della sopportazione umana. Come una tortura»

GLI AVVISI DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI PER 12.

5 maggio 2015. Dodici gli avvisi notificati dalla Procura: reticenza e falsa testimonianza i capi d’accusa. Sono il preludio al dibattimento, essendo, spesso, i gup considerati la longa manus dei PM. Ce n’è anche per il giovane con il quale Sabrina ebbe una relazione e per lo Zio Michele, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. La Procura di Taranto ha chiuso l’inchiesta Scazzi-bis notificando 12 avvisi di conclusione delle indagini a quanti erano a conoscenza di fatti e particolari riguardanti l’omicidio della 15enne di Avetrana e hanno taciuto o detto il falso davanti a pm o alla Corte d’assise di Taranto. Anche l’inchiesta-bis è condotta dal procuratore aggiunto, Pietro Argentino e dal sostituto Mariano Buccoliero. Tra i 12 indagati c’è Ivano Russo, il giovane con il quale Sabrina Misseri aveva una relazione, accusato di false informazioni al pm e falsa testimonianza alla Corte d’assise su come trascorse il giorno dell’omicidio di Sarah, il 26 agosto 2010. Stessi reati sono addebitati alla madre del giovane, Elena Baldari, al fratello Claudio e all’allora fidanzata Antonietta Genovino. Nei confronti di Michele Misseri, zio della vittima, viene ipotizzata l’autocalunnia per essersi autoaccusato dell’assassinio pur sapendosi innocente. Gli altri indagati, a vario titolo per falsa testimonianza o false informazioni al pm, sono un nipote di Michele, Maurizio Misseri e sua madre Anna Lucia Pichierri; Alessio Pisello, amico di Ivano e Sabrina; Anna Scredo (cognata del fioraio Giovanni Buccolieri, autore del sogno sul sequestro di Sarah); Dora Serrano (sorella di Concetta e Cosima, la quale risponde anche di calunnia contro i carabinieri per essersi inventata le molestie subite da Michele Misseri quando era minorenne) e suo fratello Giuseppe (anche calunnia contro i carabinieri). Per il delitto della 15enne di Avetrana sono state condannate all’ergastolo in primo grado la zia e la cugina di Sarah, Cosima Serrano e Sabrina Misseri. Otto anni di pena sono stati inflitti a Michele Misseri accusato di aver soppresso il cadavere della nipote fatto ritrovare in un pozzo in contrada Mosca il 7 ottobre del 2010. A Taranto è in corso il processo d’appello.

Scazzi-bis, la procura notifica 12 avvisi di conclusione indagini. Tra gli indagati anche Ivano, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un processo al processo, un’altra puntata della lunga e tormentata telenovela sull’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne scomparsa ad Avetrana il 26 agosto del 2010. Mentre i periti nominati dalla corte d’assise d’appello stanno effettuando le verifiche sulle celle telefoniche per risalire all’esatta posizione dei principali imputati e della vittima il giorno del delitto, giunge al capolinea l’inchiesta-bis condotta dal procuratore aggiunto Pietro Argentino e dal sostituto Mariano Buccoliero. Sono 12 gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari fatti notificare nelle ultime ore a quanti erano a conoscenza di fatti e particolari riguardanti l’omicidio e hanno taciuto, o peggio detto il falso, dinanzi ai pubblici ministeri o alla corte d’assise. Ma non solo. Dalle carte emerge un elemento che potrebbe anche cambiare sostanzialmente quanto finora emerso nel dibattimento di primo grado - conclusosi il 20 aprile del 2013 con la condanna all’ergastolo di Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri - e in quello d’appello, prossimo alla discussione. L’elemento riguarda Ivano Russo, l’indagato di spicco nella nuova inchiesta, il giovane di Avetrana che sarebbe stato al centro della contesa tra Sabrina e Sarah. A Ivano Russo i pubblici ministeri contestano il reato di false informazioni al pubblico ministero e quello di falsa testimonianza alla corte d’assise. Tra le altre cose, Ivano ha sempre sostenuto di aver trascorso in casa la giornata del 26 agosto, almeno sino al tardo pomeriggio quando poi è andato a lavorare sulla litoranea. Da quanto risulta alla Gazzetta, agli atti dell’indagine c’è il verbale di un testimone che invece colloca Ivano Russo fuori dalla sua abitazione proprio attorno all’ora di pranzo, ovvero quando Sarah sarebbe stata uccisa. Sul punto, ovvero sulla permanenza in casa di Ivano, una contestazione specifica per falsa testimonianza e false informazioni al pubblico ministero viene formulata anche a sua madre Elena Baldari, al fratello Claudio Russo e all’allora fidanzata Antonietta Genovino. Nell’elenco degli indagati ci sono poi Maurizio Misseri, figlio di Carmine Misseri (falsa testimonianza per una telefonata fatta allo zio Michele dal padre invece che da lui); Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri (falsa testimonianza riguardo alle circostanze della visita ricevuta da Valentina Misseri il 16 ottobre del 2010, il giorno dopo l’arresto di Sabrina); l’imprenditore Giuseppe Olivieri (falsa testimonianza e calunnia nei confronti dei carabinieri per l’orario di impiego di due donne delle pulizie il giorno del delitto); Alessio Pisello, amico di Ivano e Sabrina (falsa testimonianza riguardo le circostanze dell'incontro che si svolse in una villetta di San Pietro in Bevagna tra il primo avvocati di Sabrina Misseri Vito Russo e Ivano Russo); Anna Scredo, cognata del fioraio Giovanni Buccolieri (falsa testimonianza sulla storia del sogno riguardo il sequestro di Sarah compiuto da Sabrina e Cosima); Dora Serrano, sorella di Concetta e Cosima (false informazioni al pubblico ministero, falsa testimonianza dinanzi alla corte d'assise e calunnia contro i carabinieri, per essersi inventata le molestie subite da Michele Misseri quando era minorenne) e Giuseppe Serrano, fratello di Concetta e Cosima (calunnia contro i carabinieri e falsa testimonianza per quanto detto riguardo il giorno del delitto). L’elenco si chiude con Michele Misseri nei confronti del quale viene ipotizzata l’autocalunnia perché per assicurare l'impunità alla moglie Cosima e alla figlia Sabrina Misseri si è accusato – dinanzi a pm, gip, gup e corte d'assise - dell'omicidio di Sarah sapendosi innocente.

L’INEVITABILE E SCONTATA RICHIESTA DI RINVIO A GIUDIZIO.

8 ottobre 2015. Caso Sarah Scazzi: rischiano il processo Ivano Russo e Michele Misseri, scrive Lino Campicelli su “Il Quotidiano di Puglia”. Rischia il processo "il bell’Ivano”, ma anche "zio Michele", l’agricoltore di Avetrana. Dopo la pioggia di incriminazioni a latere del processo sull’omicidio di Sarah Scazzi, definito in primo grado nell’aprile del 2013 e recentemente in secondo grado da parte dell’Assise d’appello, la procura della Repubblica ha formulato richiesta di rinvio a giudizio. Sono in tutto dodici le persone che, fra le ipotizzate false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza, erano finiti sul registro degli indagati in qualità di testimoni che in Corte d’Assise, nella causa celebrata in primo grado, avrebbero taciuto circostanze note, oppure avrebbero riferito fatti in maniera difforme dal vero. Nel nuovo procedimento avviato dalla procura della Repubblica di Taranto rivestono ora la qualità di imputati i testi che avevano reso deposizioni in udienza, e delle quali era stata richiesta la trasmissione all’ufficio del pubblico ministero «per le determinazioni di competenza». All’epoca, come è noto, la trasmissione degli atti aveva riguardato le testimonianze rese da Ivano Russo e Carlo Alessio Pisello, ma anche di Anna Scredo, Giuseppe Olivieri, Anna Lucia Pichierri e Giuseppe Serrano. Il lotto degli incriminati complessivi, però, era lievitato. Tanto che la richiesta di giudizio formulata dal sostituto procuratore della Repubblica Mariano Buccoliero e dal procuratore aggiunto Pietro Argentino coinvolge complessivamente dodici persone. Ai nomi noti, vanno infatti aggiunti quelli di Elena Baldari e Claudio Russo, rispettivamente madre e fratello di Ivano, di Maurizio Misseri, nipote di «zio Michele», di Salvatora Serrano, sorella di Cosima Serrano, e di Antonia Genovino, cognata di Ivano Russo. In ogni caso, insieme con loro nella richiesta di «processo» va ad aggiungersi Michele Misseri, che è stato chiamato in causa, però, dal sostituto procuratore della Repubblica e dall’aggiunto per il reato di autocalunnia. Le presunte false dichiarazioni al pm e, soprattutto, le false testimonianze ipotizzate dall’accusa, secondo quanto emerso già all’epoca della sentenza di primo grado, sarebbero servite a “coprire” la responsabilità di Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo per l’omicidio di Sarah insieme con la madre Cosima Serrano, oppure per coprire Cosima o per sostenere posizioni che sarebbero state smentite dall’attività investigativa. L’intento dei testimoni, sostanzialmente, sarebbe stato quello di “attutire” in larga misura anche la posizione di Sabrina. A questo proposito, le accuse più sostanziose sarebbero quelle formulate nei confronti di Ivano Russo che prima davanti ai pubblici ministeri, in fase di indagini preliminari, e poi in udienza, nel corso del processo in Corte d’assise, avrebbe omesso di fornire indicazioni importanti, nel tentativo di dissimulare l’interesse nei suoi confronti nutrito soprattutto da Sabrina Misseri. Ivano Russo, secondo la prospettazione accusatoria, avrebbe peraltro taciuto circostanze ritenute importanti che se rappresentate si sarebbero rivelate estremamente utili per le indagini attivate dai carabinieri sull’omicidio di Sarah. Per tutti gli imputati, ora, si tratterà di difendersi dalle accuse, di cui a vario titolo rispondono, al cospetto del gip del tribunale.

Scazzi, bugie ai giudici nei guai Ivano e familiari, scrive, invece, Francesco Casula, su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La procura di Taranto ha chiesto il rinvio di Ivano Russo, il giovane di Avetrana che sarebbe stato al centro della contesa tra Sarah Scazzi, la 15enne uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010, e la cugina Sabrina Misseri condannata in appello all’ergastolo insieme con la madre, Cosima Serrano, per l’omicidio della 15enne. Dopo la chiusura delle indagini, il procuratore aggiunto Pietro Argentino e il sostituto Mariano Buccoliero hanno chiesto il processo nei confronti del 32enne accusato di false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza dinanzi alla corte d’assise. Ivano, infatti, ha sempre sostenuto di aver trascorso in casa la giornata del 26 agosto, almeno sino al tardo pomeriggio quando poi è andato a lavorare sulla litoranea ma, come annunciato dalla Gazzetta, agli atti dell’indagine esiste il verbale di un testimone che invece colloca Ivano fuori dalla sua abitazione proprio attorno all’ora di pranzo, ovvero quando Sarah sarebbe stata uccisa. Ma Ivano non è l’unico che rischia di finire sotto processo: una contestazione specifica per falsa testimonianza e false informazioni al pubblico ministero viene formulata anche a sua madre Elena Baldari, al fratello Claudio Russo e all’allora fidanzata Antonietta Genovino. Sono complessivamente 12 le richieste di rinvio a giudizio presentate dai pm Argentino e Buccoliero nei confronti di quanti sarebbero stati a conoscenza di fatti e particolari riguardanti l’omicidio e avrebbero taciuto, o peggio detto il falso, dinanzi ai pubblici ministeri o alla corte d’assise. Oltre a Ivano Russo e ai suoi familiari, tra gli imputati compaiono Maurizio Misseri, figlio di Carmine Misseri (falsa testimonianza per una telefonata fatta allo zio Michele dal padre invece che da lui); Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri (falsa testimonianza riguardo alle circostanze della visita ricevuta da Valentina Misseri il 16 ottobre del 2010, il giorno dopo l’arresto di Sabrina); l’imprenditore Giuseppe Olivieri (falsa testimonianza e calunnia nei confronti dei carabinieri per l’orario di impiego di due donne delle pulizie il giorno del delitto); Alessio Pisello, amico di Ivano e Sabrina (falsa testimonianza riguardo le circostanze dell’incontro che si svolse in una villetta di San Pietro in Bevagna tra il primo avvocati di Sabrina Misseri Vito Russo e Ivano Russo); Anna Scredo, cognata del fioraio Giovanni Buccolieri (falsa testimonianza sulla storia del sogno riguardo il sequestro di Sarah compiuto da Sabrina e Cosima); Dora Serrano, sorella di Concetta e Cosima (false informazioni al pubblico ministero, falsa testimonianza dinanzi alla corte d’assise e calunnia contro i carabinieri, per essersi inventata le molestie subite da Michele Misseri quando era minorenne) e Giuseppe Serrano, fratello di Concetta e Cosima (calunnia contro i carabinieri e falsa testimonianza per quanto detto riguardo il giorno del delitto). L’elenco si chiude con Michele Misseri accusato di autocalunnia perché per assicurare salvare Cosima e Sabrina si è accusato dell’omicidio di Sarah.

Omicidio Scazzi, Michele Misseri rischia il processo bis con Ivano e altri 10 testimoni: "Troppe bugie". Michele Misseri. Lo zio della quindicenne uccisa ad Avetrana (Taranto) accusato di calunnia. Il primo giugno 2016 l'udienza preliminare: secondo i pm molti hanno mentito o nascosto particolari durante le indagini, scrive Vittorio Ricapito il 27 febbraio 2016 su “La Repubblica”. Comincerà il primo giugno 2016 l’udienza preliminare dell’inchiesta bis sul delitto di Avetrana. Rischia un altro processo, stavolta per calunnia, Michele Misseri, il contadino condannato per aver gettato il cadavere della nipote in un pozzo. La Procura di Taranto ha chiesto il rinvio a giudizio per altre 11 persone accusate di aver mentito o nascosto particolari durante le indagini e il processo di primo grado per l’omicidio di Sarah Scazzi, la quindicenne strangolata ad Avetrana il 26 agosto del 2010. Fra i presunti bugiardi c’è anche Ivano Russo, l’amico di Sarah e di sua cugina Sabrina Misseri, condannata insieme con la madre Cosima Serrano all’ergastolo in primo e secondo grado. I magistrati ritengono che la contesa di Ivano fra le due cugine sia uno degli elementi più forti alla base del delitto. Ivano Russo è accusato di false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza davanti alla corte d’assise. Per i pm è stato reticente in aula, ha mentito per coprire Sabrina, ha cercato di sminuire l’intreccio di rapporti sentimentali e sessuali con l’estetista, la gelosia ossessiva della ragazza nei suoi confronti, il crescente interesse sentimentale della cuginetta Sarah, al punto che il fratello della ragazzina Claudio lo aveva avvisato di “comportarsi bene con lei” e infine i contrasti fra le due cugine per il comune interesse sentimentale. Oltre a Ivano rischiano il processo anche sua madre, Elena Baldari, il fratello Claudio Russo e l’ex fidanzata Antonietta Genovino, accusati di aver mentito sostenendo che il 26 agosto 2010, giorno dell’omicidio, Ivano era rimasto a casa, a letto per tutto il pomeriggio. Rischia il processo per falsa testimonianza anche un altro amico di comitiva, Alessio Pisello. Michele Misseri, invece, è accusato di auto-calunnia, per essersi accusato dell’omicidio di Sarah, pur sapendosi innocente, ripetendo l’incredibile versione a pm e magistrati, fino alla corte d’assise. Menzogne e calunnie, per l’accusa, sono anche quelle di Dora Serrano, sorella di Concetta (mamma di Sarah) e Cosima Misseri, che per dipingere il cognato Michele come un mostro, in aula si sarebbe inventata di aver subìto un tentativo di molestia sessuale dal contadino. Altri imputati di falsa testimonianza sono Maurizio Misseri, nipote di Michele; Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e Anna Scredo, cognata del fioraio Giovanni Buccolieri (l’uomo che avrebbe assistito al sequestro di Sarah da parte di Cosima e Sabrina). Rischiano processo per calunnia contro i carabinieri, infine, Giuseppe Serrano, fratello di Concetta e Cosima, e l’imprenditore Giuseppe Olivieri.

Michele Misseri rischia il processo per autocalunnia: potrebbe riaprirsi il caso sulla morte di Sarah Scazzi? Scrive Edoardo Montolli il 2 marzo 2016. A giugno l’udienza preliminare di Michele Misseri per le false accuse rivolte a se stesso. Con moglie e figlia che si professano innocenti e lui che si dichiara colpevole, il nuovo processo potrebbe riaprire il caso principale? Ecco cosa accadde nel caso del Mostro di Balsorano. Il caso di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana finita in un pozzo il 26 agosto 2010, è un caso molto particolare. Non solo per la mediaticità dell’evento. Com’è noto, a far ritrovare il cadavere fu lo zio, Michele Misseri, dopo che era stato messo sotto torchio per il sorprendente ritrovamento del cellulare della nipote nel suo terreno: «È stato proprio un caso che lo abbia trovato io e ho detto ai carabinieri di non dire nulla a nessuno per evitare che la gente potesse dire “proprio lo zio lo doveva trovare”. Ma la notizia è circolata lo stesso». La sera in cui confessò, la mamma di Sarah si trovava a casa di Michele, in collegamento con Chi l’ha visto?, perché mai e poi mai avrebbe sospettato del cognato. La vicenda, all’epoca, sembra chiusa, ma non lo è. Michele piange: «È stato un raptus». Nei titoli dei quotidiani della mattina successiva si aggiungono dettagli shock: «L’ho strangolata con una cordicella mentre era di spalle e ho abusato di lei dopo che era già morta». Piange lui. E piange sua figlia Sabrina. Lo fa in tv. E glielo dice pure al telefono, subito dopo l’arresto, in una chiamata che sarà però trascritta solo nel processo d’appello: «Perché non me lo hai detto subito, papà?…tu non hai mai fatto niente di male…». Solo che Michele cambia sempre versione. Arriva a darne sette, fino a coinvolgere nel delitto sia la figlia che la moglie Cosima. Si sa come andrà: lui tornerà ad autoaccusarsi, dicendo di essere il solo colpevole, ma non sarà più creduto. E per l’omicidio verranno condannate in primo grado e in appello Cosima e Sabrina, che invece si proclamano innocenti. Un caso, quello del reoconfesso non creduto e di chi si professa innocente condannato, che in Italia ha un solo precedente. Ironia della sorte, proprio a Taranto, dove il serial killer tunisino Ben Ezzedine Sebai confessò qualcosa come 15 delitti, fornendo prove, racconti, minuziosi dettagli degli omicidi commessi, tutti compiuti tra Lucera, Taranto e Foggia tra il ’94 e il ‘97. Per uno, si scoprirà, l’anziana che pensava di aver ucciso si era invece salvata. Il problema era un altro: per alcuni dei delitti che diceva di aver commesso in provincia di Taranto, dentro erano già finite diverse persone, una delle quali si era suicidata gridandosi innocente. Ma finì che, rarità assoluta nel panorama criminale mondiale, se altrove fu condannato, nel solo processo di Taranto venne considerato colpevole per gli omicidi irrisolti di cui si autoaccusava, e mitomane per quelli nei quali il presunto colpevole (che si dichiarava innocente) era già stato condannato. Sebai è morto in carcere, suicida – anche se il suo legale Luciano Faraon è deciso a far riaprire la vicenda – e per chi sperava di essere scagionato le speranze sono definitivamente tramontate. A Sarah e Sabrina, che seguitano a protestarsi innocenti, resta invece ancora la Cassazione. Poi, se vorranno dimostrare la loro estraneità ai fatti, dovranno sostanzialmente trovare nuove prove. O un conflitto di giudicato. Possibile? Di fatto, succede questo: il primo giugno 2016 Michele Misseri dovrà presentarsi all’udienza preliminare per l’inchiesta-bis sul delitto di Avetrana. La Procura di Taranto ha chiesto infatti il rinvio a giudizio per lui e altre 11 persone accusate di aver mentito o nascosto particolari nell’inchiesta sulla morte di Sarah. Un numero di persone sconcertante. Michele deve rispondere di autocalunnia, per essersi falsamente accusato del delitto della nipote. Non si tratta di un dettaglio trascurabile, dato che ogni processo fa storia a sè. E c’è un precedente, molto simile in proposito, che fa pensare. Riguarda il caso del cosiddetto Mostro di Balsorano. La sera del 23 agosto 1990, a Case Castella, nei pressi di Balsorano, L’Aquila, scomparve nel nulla Cristina Capoccitti, 7 anni. La cercò l’intero paese. E fu ritrovata morta a duecento metri da casa, con la testa fracassata da una pietra. Tre giorni dopo, il cugino tredicenne, Mauro Perruzza, interrogato a lungo, confessò, giurando che si era trattato di un incidente: stava inseguendola, Cristina era caduta, aveva picchiato la testa su una pietra. Lui si era spaventato e l’aveva strangolata. Lo portarono alla Procura dei minori. E, a notte fonda, cambiò dinamica: «Volevo possederla». La notizia finì su tutti i giornali, con la confessione. Solo che Mauro, alla chiusura del verbale, ritrattò tutto: «è stato mio papà Michele». Diede diverse versioni: prima disse di averlo visto rientrare a casa piangendo. Poi, di averlo notato nel boschetto mentre tentava di violentare e quindi soffocare la cugina. Se cosa accadde esattamente quella notte non si sa, perché l’audio dell’interrogatorio sparì, si sa con certezza che Mauro diede in tutto 17 versioni. Da quel momento, comunque, Michele, padre di Mauro e zio di Cristina, divenne per tutti il Mostro di Balsorano. Prese l’ergastolo nonostante continuasse a gridare con forza la propria innocenza. E fu a quel punto che entrò nella vicenda il giornalista Gennaro De Stefano, che, con una personale controinchiesta, smontò su Visto e su Oggi, tutte le accuse. Un mese prima della sentenza di Cassazione arrivò a pubblicare il memoriale di Michele. Poi, venne arrestato: si scoprì in seguito che un poliziotto, successivamente condannato, gli aveva infilato della cocaina in macchina. Quando Gennaro uscì di prigione, Michele era ormai stato condannato definitivamente. Ma il cronista non si arrese. Era infatti previsto un processo satellite a Sulmona, nel quale Mauro e la moglie erano accusati di aver fatto pressioni su Mauro per convincerlo ad autoaccusarsi. E fu lì che i due vennero assolti. Nella stessa sede emerse che sulle mutande sporche del sangue di Cristina ritrovate sul tetto c’è sì un dna dei Perruzza, ma compatibile con quello di Mauro e non con quello di Michele. Sulla base di quel conflitto di giudicato Michele chiese la revisione. Tuttavia, neppure il dna, che oggi è considerato una prova regina, servirà a scagionarlo. Scriverà infatti De Stefano che i «macigni difensivi presentati alla Corte d’Appello di Campobasso, vennero cancellati così: “Non hanno il crisma della prova e quand’ anche l’avessero non scalfiscono gli elementi a carico di Michele Perruzza”». Ma la storia del “doppio processo” al Mostro di Balsorano insegna che un colpo di scena, per Cosima e Sabrina che si proclamano innocenti – ad oggi invano - è ancora possibile, forse proprio col nuovo probabile processo a Michele Misseri.

Intanto mi chiedo dopo mesi quali difficoltà ci siano nel redigere le motivazioni della sentenza di condanna inflitta a Cosima Serrano e a Sabrina Misseri. Le due donne sono in carcerazione preventiva da anni con presunzione d’innocenza. Dunque la domanda sorge spontanea: che ci fanno ancora in carcere senza le motivazioni della sentenza, che sarebbero dovute arrivare a fine ottobre 2015? Rammento altresì che le 1631 pagine redatte dal giudice Cesarina Trunfio vennero consegnate dopo undici mesi dalla lettura del dispositivo. Il rischio che l’episodio possa ripetersi è palese. Fosse mai che i magistrati tarantini, consci del ribaltamento in cassazione del loro obbrobrio, facciano scontare la pena anticipata.

1 giugno 2016. Udienza preliminare: rinviata.

1 luglio 2016. Udienza preliminare: rinviata. Caso Scazzi: al processo Ivano Russo, c'è ancora qualcosa da chiarire? Scrive Marco Della Corte il 2 luglio 2016. Abbiamo due condannate per l'omicidio della piccola Sarah Scazzi, scomparsa il 26 Agosto 2010 da Avetrana (in provincia di Taranto) e ritrovata cadavere in un pozzo alcuni mesi dopo. Sabrina Misseri e Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia materna della ragazzina, avrebbero ucciso Sarah, mentre lo zio Michele (padre e marito di Sabrina e Cosima) avrebbe "solamente" occultato il cadavere. E' stato intanto rinviato a processo Ivano Russo, il "Bello di Avetrana". Il giovane avrebbe fornito all'epoca alcune informazioni mendaci per coprire Sabrina. Le indagini continuano dunque? Sembrerebbe proprio di sì. Concetta Serrano, mamma di Sarah, ha dichiarato di non essere interessata al processo coinvolgente il Russo. Nell'ultima puntata del noto programma mediaset Quarto Grado, i conduttori Alessandra Viero e Gianluigi Nuzzi sono tornati a parlare del caso della piccola Sarah Scazzi (15 anni al momento della morte). La ragazzina scomparve inizialmente il 26 Agosto 2010 da Avetrana (in provincia di Taranto) per essere poi ritrovata cadavere alcuni mesi dopo in un pozzo. Sono state condannate per l'omicidio della giovanissima Cosima Serrano e Sabrina Misseri, rispettivamente zia e cugina di Sarah. Le due avrebbero ucciso materialmente la 15enne, mentre lo zio Michele (rispettivamente marito e padre di Cosima e Sabrina) avrebbe "solamente" occultato il corpo.  La troupe di Quarto Grado ha intervistato Ivano Russo (32 anni) considerato il"Bello di Avetrana" per la sua avvenenza.  Il giovane è stato rinviato a giudizio per aver tentato di coprire, tramite falsa testimonianza, Sabrina Misseri.  Al riguardo, Ivano ha dichiarato alle telecamere: "La giustizia farà il suo corso". C'è un segreto che tutti sapevano e non hanno detto, c'è un processo nel processo riguardo l'omicidio di Sarah Scazzi.  Un processo all'omertà ed alle bugie. L'avvocato Lorenzo Bullo, legale di Maurizio Misseri (nipote di Michele) ha affermato: "Noi difensori, fin dall'inizio abbiamo detto che questo processo è come l'alta tensione. Chi tocca i fili ne viene bruciato inevitabilmente". Dodici imputati, dodici storie ed accuse diverse. Gli indagati si sono presentati presso il Tribunale di Taranto di mattina, intorno alle ore 9:00.  Qualcuno era presente in prima persona, mentre altri sono stati rappresentati dal proprio difensore.  Un lungo elenco di indagati. Presenti anche Dora e Giuseppe Serrano, fratelli di Concetta. Dora ha raccontato di aver subito molestie da Michele Misseri quando aveva 15 anni. Secondo l'Accusa, tale affermazione sarebbe una bugia per avvalorare le colpe dell'agricoltore come pedofilo. Lui, Zio Michele, condannato per autocalunnia, non è comparso in Aula. Assenti anche la cognata ed il nipote, i quali, secondo i pm, hanno raccontato bugie per proteggere Sabrina. Come già detto, il principale imputato di questo processo bis è Ivano Russo. Il giovane è arrivato in Tribunale assieme ai famigliari. Ivano e la sua famiglia avrebbero mentito svariate volte secondo i pm. Perchè? Quale verità dovevano nascondere? Queste domande sono state fatte allo stesso Russo, il quale ha semplicemente risposto: "Quello che è stato detto è quello che è stato. Punto e basta". Il 32enne ha commentato così le presunte reticenze e bugie da parte sua e dei famigliari: "Sono accuse che sono state mosse nei miei confronti". A chi gli ha chiesto cosa ne pensa riguardo la colpevolezza di Sabrina Misseri, il giovane ha affermato: "Questo fa sempre parte della giustizia italiana, del meccanismo lunghissimo della giustizia italiana che andrà a stabilire se Sabrina è colpevole o meno". Fonte: Quarto Grado, puntata del 1 Luglio 2016.

Sarah Scazzi processo bis, la risata di Ivano Russo fuori dal tribunale: “Verrà fuori quello che è”, scrive sabato 02/07/2016 Michela Becciu su "Urban Post".  Secondo rinvio dell’udienza preliminare per il processo bis sull’omicidio di Sarah Scazzi. Si tornerà in aula il prossimo mercoledì 28 settembre perché il giudice ha necessità di valutare nuove documentazioni, lo si è appreso ieri sera 1° luglio durante la diretta di Quarto Grado. Ha risposto con una cinica risata Ivano Russo – indagato insieme a Michele Misseri e altre dieci persone – alla inviata della trasmissione che ieri mattina prima che facesse ingresso in tribunale gli ha chiesto: “Vi accusano di tante bugie, come si difenderà in aula?”. Russo, glissando il quesito, ha poi commentato: “Questo lo sappiamo” (risata) … “La giustizia farà il suo corso. Quello che è stato detto è quello che c’è stato, punto e basta”. Ma non la pensa così la procura di Taranto, che accusa i dodici imputati di avere mentito agli inquirenti e depistato le indagini. Quello in oggetto sarà dunque un processo all’omertà e alle menzogne, di “parole reticenti e difformi dal vero”. Ivano Russo ieri è apparso molto sicuro di sé, e alla inviata di Quarto Grado ha detto: “Durante il processo verrà fuori quello che è”.

28 settembre 2016. Udienza preliminare: rinviata. Sarah Scazzi, zio Michele Misseri: “Per me condannano Cosima e Sabrina di nuovo”, scrive il 29 settembre 2016 la redazione di Blitz Quotidiano. “Secondo me le condannano un’altra volta”. Così Michele Misseri ha detto quasi rassegnato in un’intervista a Pomeriggio 5.  La speranza dello zio di Sarah Scazzi è che la Cassazione possa ribaltare le posizioni della figlia Sabrina Misseri e della moglie Cosima Serrano, condannate in primo e secondo grado all’ergastolo per il delitto di Avetrana. L’uomo continua a professare la sua colpevolezza: “Ho fatto tutto io, l’ho strangolata e ho occultato il cadavere”. Ma alla luce di quel che accade a Taranto, le aspettative di Zio Michele si starebbero sempre più affievolendo. “Per quale motivo dovevo incolparmi – dice Misseri a Pomeriggio 5 – se a uccidere Sarah fosse stata mia figlia? Io gli ho dato il piatto d’argento in mano ma loro non l’hanno voluto. Non mi ricordo niente da quando ho strangolato la bambina”. Ieri, 28 settembre, si è tenuta la terza udienza preliminare per discutere dell’omicidio della tredicenne, strangolata e gettata in un pozzo di contrada Mosca il 26 agosto del 2010. Udienza che però è stata rinviata al 18 novembre perché il giudice ha ascoltato solo una parte degli avvocati: a novembre ne sentirà un’altra per poi decidere se portare a processo gli imputati oppure assolverli. Tra i dodici imputati ci sono lo stesso Misseri e Ivano Russo. Lo zio di Sarah è stato raggiunto dall’inviata di Pomeriggio 5 mentre lavorava, come di consueto, nei suoi campi in totale solitudine. L’uomo ha ribadito quanto più volte annunciato ai giornali e agli inquirenti, cioè di essere lui il responsabile dell’omicidio della nipote. Assumendosene la colpa totale Michele Misseri spera di scagionare sia la moglie che la figlia: “Sabrina – ha detto – ce l’ha a morte con me, me l’hanno fatta accusare anche se era innocente. Mi odia di sicuro! Le chiedo perdono per quello che ho fatto e chiedo perdono anche a Sarah. Sono tutte innocenti, come Cosima”. “Speri che la Cassazione possa ribaltare la sentenza?”, gli domanda la giornalista. “Come stanno andando le cose non credo proprio, le condannano un’altra volta”. Misseri fa riferimento alla moglie Cosima e la figlia Sabrina che attualmente sono ancora in carcere. E ribadisce: “Io non solo voglio prendermi la colpa dell’omicidio, ma anche dell’occultamento. Ho fatto tutto da solo”.

Falsi testimoni dell’inchiesta sull’uccisione di Sarah Scazzi, il gup rinvia a gennaio, scrive venerdì 18 novembre 2016 "La Voce di Manduria". Si saprà il prossimo 11 gennaio 2017 se Ivano Russo e altre undici persone accusate di falsa testimonianza e false dichiarazioni al pm in merito al delitto di Sarah Scazzi dovranno essere processati oppure no. Questa mattina il giudice delle udienze preliminari, Vilma Gilli, che doveva decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla pubblica accusa (il procuratore aggiunto Pietro Argentino e il sostituto procuratore Mariano Buccoliero), ha rinviato la decisione a gennaio prossimo. L’imputato di maggior rilievo di questo filone investigativo, scaturito dalla grande inchiesta sull’uccisione della quindicenne di Avetrana avvenuta il 26 agosto del 2010, è Ivano Russo, amico della vittima e della cugina Sabrina Misseri (quest’ultima condannata anche in secondo grado all’ergastolo insieme alla madre Cosima Serrano), la cui estraneità nella vicenda è stata messa in discussione dalle dichiarazioni della sua ex compagna, Virginia Coppola, secondo cui il giovane all’ora del delitto non si trovava in casa come ha sempre sostenuto e come sostiene tuttora. Nell’elenco degli imputati ci sono poi Maurizio Misseri, figlio di Carmine Misseri (falsa testimonianza per una telefonata fatta allo zio Michele dal padre invece che da lui); Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri (falsa testimonianza riguardo alle circostanze della visita ricevuta da Valentina Misseri il 16 ottobre del 2010, il giorno dopo l’arresto di Sabrina); l’imprenditore Giuseppe Olivieri (falsa testimonianza e calunnia nei confronti dei carabinieri per l’orario di impiego di due donne delle pulizie il giorno del delitto); Alessio Pisello, amico di Ivano e Sabrina (falsa testimonianza riguardo le circostanze dell’incontro che si svolse in una villetta di San Pietro in Bevagna tra il primo avvocato di Sabrina Misseri, Vito Russo, e Ivano Russo); Anna Scredo, cognata del fioraio Giovanni Buccolieri (falsa testimonianza sulla storia del sogno riguardo il sequestro di Sarah compiuto da Sabrina e Cosima); Dora Serrano, sorella di Concetta e Cosima (false informazioni al pubblico ministero, falsa testimonianza dinanzi alla Corte d’assise e calunnia contro i carabinieri, per essersi inventata le molestie subite da Michele Misseri quando era minorenne) e Giuseppe Serrano, fratello di Concetta e Cosima (calunnia contro i carabinieri e falsa testimonianza per quanto detto riguardo il giorno del delitto). L’elenco si chiude con Michele Misseri nei confronti del quale viene ipotizzata l’autocalunnia perché per assicurare l’impunità alla moglie, Cosima, e alla figlia, Sabrina Misseri, si è accusato – dinanzi a pm, gip, gup e corte d’assise – dell’omicidio di Sarah sapendosi innocente.

Sarah: inchiesta depistaggi, in 12 rinviati a giudizio, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” l’11 gennaio 2017. Il gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli ha rinviato a giudizio 12 imputati accusati a vario titolo di falsa testimonianza, false informazioni al pubblico ministero, calunnia e autocalunnia nell’ambito delle indagini sull'omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto del 2010. Il processo inizierà il 3 aprile prossimo. Risponde di false informazioni al pm e falsa testimonianza alla Corte d’Assise Ivano Russo, il giovane di Avetrana che sarebbe stato conteso da Sabrina Misseri (condannata in primo e secondo grado all’ergastolo insieme a sua madre Cosima Serrano) e la cugina Sarah. Sono contestati i reati di falsa testimonianza e false informazioni al pubblico ministero anche a sua madre Elena Baldari, al fratello Claudio Russo e all’allora fidanzata Antonietta Genovino. Tra gli altri imputati c'è il padre di Sabrina, Michele Misseri, (zio di Sarah, a 8 anni di carcere per soppressione di cadavere) che risponde di autocalunnia perché si accusò dell’omicidio di Sarah. Gli altri imputati sono Maurizio Misseri, figlio di Carmine Misseri (falsa testimonianza); Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri (falsa testimonianza); l’imprenditore Giuseppe Olivieri (falsa testimonianza e calunnia nei confronti dei carabinieri); Alessio Pisello (falsa testimonianza); Anna Scredo, cognata del fioraio Giovanni Buccolieri (falsa testimonianza); Dora Serrano, sorella di Concetta e Cosima (false informazioni al pubblico ministero, falsa testimonianza dinanzi alla Corte d’assise e calunnia contro i carabinieri), e Giuseppe Serrano, altro fratello di Concetta (madre di Sarah) e Cosima (calunnia contro i carabinieri e falsa testimonianza). Il processo è stato fissato dinanzi al giudice monocratico Fulvia Misserini, che dovrà astenersi in quanto giudice a latere della Corte d’assise nel processo di primo grado per l’omicidio della 15enne di Avetrana.

PROCESSO A MICHELE MISSERI ED ILARIA CAVO.

Nuovo processo per Michele Misseri, l’agricoltore di Avetrana coinvolto nei processi per l’uccisione della nipote Sarah Scazzi, per il cui assassinio sono state condannate all’ergastolo la figlia Sabrina e la moglie Cosima Serrano (in primo grado con conferma in secondo). Il gup del Tribunale di Taranto, Valeria Ingenito, il 10 settembre 2015 ha rinviato a giudizio Michele Misseri (già condannato anche in appello a 8 anni di reclusione per soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi) con l'accusa di calunnia nei confronti della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa. La professionista è stata consulente di parte nel processo per l’omicidio mentre il legale è stato difensore dello stesso Misseri, che inizialmente confessò l’omicidio della ragazzina per poi addossare le responsabilità a sua figlia Sabrina. Insieme con Misseri, che risponderà di calunnia, sono finiti sotto processo per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista Ilaria Cavo, accusati di aver fatto da “sponda” in qualche maniera alle accuse lanciate da Misseri nei confronti dell’avvocato Daniele Galoppa e della dottoressa Roberta Bruzzone, rispettivamente ex legale ed ex consulente dello stesso Misseri. La giornalista di Mediaset Ilaria Cavo, attuale assessore alla Comunicazione e alle Politiche giovanili della Regione Liguria, avrebbe rilanciato le versioni di Misseri attraverso servizi televisivi. Il contadino di Avetrana, quando è tornato ad accusarsi dell’omicidio, ha sostenuto di essere stato in qualche modo indotto da Bruzzone e Galoppa a tirare in ballo sua figlia Sabrina (condannata in primo e secondo all’ergastolo, come sua madre Cosima Serrano). Il rinvio a giudizio, con processo fissato per l’1 dicembre 2015, è stato disposto dal gup dottoressa Valeria Ingenito. Lo stesso gup aveva a suo tempo autorizzato la citazione, come responsabili civili delle società «Rai», «Rti» per “Mediaset”, «Edizioni Universo», ed «Rcs» per il settimanale “Oggi”. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, sia la giornalista che l’opinionista-Mediaset avrebbero espresso opinioni che avrebbero fatto sorgere dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. Il primo, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa, come si ricorderà, era stata nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri. 

Calunniò la Bruzzone e Galoppa: chiesti 4 anni per "zio Michele". A giudizio anche Ilaria Cavo e un penalista romano. Quattro anni di carcere per Michele Misseri, che deve rispondere di calunnia, e il minimo della pena prevista, un anno, per i due suoi coimputati: la giornalista Ilaria Cavo e l’avvocato, Fabrizio Gallo che rispondono di diffamazione, scrive Giovedì 14 Giugno 2018 "IlQuotidianodipuglia.it". Sono queste le richieste formulate dall'accusa, affidata al pubblico ministero Mariano Buccoliero, nel processo che vede come principale imputato lo zio di Sarah Scazzi, già rinchiuso nel carcere di Lecce dove sta scontando otto anni per la soppressione del corpo della nipote Sarah Scazzi, uccisa a soli 15 anni. Il contadino di Avetrana è finito sotto processo per aver accusato il suo ex avvocato, Daniele Galoppa, e la criminologa Roberta Bruzzone, di averlo entrambi costretto ad accusare la figlia Sabrina Misseri dell’uccisione di Sarah, delitto di cui in un primo momento lo stesso Michele si era addossato ogni colpa. Gli altri due imputati, l’ex giornalista ora assessore della Regione Liguria e il penalista romano, già difensore per un breve periodo di Misseri, avrebbero messo in dubbio la correttezza di Galoppa e Bruzzone avallando la tesi secondo cui Misseri sarebbe stato effettivamente indotto ad alterare la verità dei fatti. A querelare tutti erano stati la stessa Bruzzone e Galoppa, ora parte lesa nel processo, i quali hanno già anticipato di voler intentare un’azione risarcitoria in sede civile. La nota criminologa era stata nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri. Il giudice del Tribunale di Taranto dove si svolge il processo, Elvia Di Roma, ha fissato la prossima udienza per il 3 ottobre.

Scazzi, zio Michele scrive alla mamma di Sarah: perdonami l'ho uccisa io. «Sono stato io. Tua sorella Cosima e Sabrina sono innocenti! Lo capiresti subito se le vai a trovare! Non dare retta agli avvocati bugiardi!», scrive Mimmo Mazza il 13 Giugno 2018 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Il Re è nudo, mi devi credere Concetta». Le lettere di Michele Misseri - il contadino di Avetrana rinchiuso dal 21 febbraio 2017 nel carcere di Lecce per scontare la pena definitiva a 8 anni di reclusione per l’occultamento del cadavere della nipote Sarah Scazzi - da tempo costituiscono ormai un genere letterario. «Il re è nudo» è una celebre frase della fiaba «I vestiti nuovi dell’imperatore» di Hans Christian Andersen e chissà con quanta consapevolezza Michele Misseri ha utilizzato la nota allegoria. Nella fase delle indagini preliminari, quando il tutto e il suo contrario avevano spesso livelli di probabilità equivalenti, proprio con le lettere inviate alla figlia Sabrina e alla moglie Cosima - condannate all’ergastolo per l’omicidio della 15enne - Misseri cercò di cambiare verso ad una pista investigativa che prima sposò le sue confessioni, rese nella notte buia e tumultuosa tra il 7 e l’8 ottobre del 2010 quando fece ritrovare il cadavere di Sarah in un pozzo di contrada Mosca, e poi le abbandonò, facendone rigorosamente a meno. Ora Michele Misseri ha ripreso la penna in mano per scrivere a sua cognata Concetta, la mamma di Sarah. Una lettera di una pagina, come la Gazzetta è in grado di rivelare, nella quale il contadino non solo, come ha fatto chissà quante volte e non solo per via epistolare ma anche se non soprattutto nei programmi televisivi targati Mediaset, si addossa la responsabilità di un delitto al quale secondo tre corti (assise, assise d’appello, Cassazione) non ha nemmeno assistito, ma per invitare Concetta ad andare nel carcere di Taranto a fare visita a Cosima e Sabrina che malgrado la triplice condanna all’ergastolo non perdono occasione per protestare la loro innocenza. «Cara Concetta, perdonami, perdonami, perdonami, perdonami, perdonami per quello che io ho fatto a Sarah» scrive Michele. «Sono stato io. Tua sorella Cosima e Sabrina sono innocenti! Lo capiresti subito se le vai a trovare! Non dare retta agli avvocati bugiardi!» Fatta questa premessa, non senza qualche inutile rampogna ai legali di parte civile Nicodemo Gentile e Luigi Palmieri, che altro non hanno fatto che assistere la famiglia Scazzi e allinearsi alla tesi della Procura di Taranto, Michele scantona e si butta sulla religione, cercando di colpire nel vivo la povera mamma di Sarah che non ha mai fatto mistero di essere Testimone di Geova. «Tieni presente - scrive infatti il contadino - che Geova non ama la menzogna. Non l’ama affatto. È colpa grave anche credere alla menzogna. È colpa grave anche non cercare la verità, cioè omettere di cercarla. Cara Concetta, cerca di capire dove sta la verità. Se vai a trovare Cosima lo capirà subito. Cosima e Sabrina sono innocenti. Cara Concetta, verità, verità, dove sei? Verità, verità, tu sei leggera e....vieni sempre a galla. Sabrina e Cosima sono innocenti e tutti lo sanno. Il Re è nudo, mi devi credere Concetta». La lettera è arrivata a casa Scazzi nei giorni scorsi ed è stata letta non senza sconcerto da Concetta. La mamma di Sarah in passato ha sempre detto di aspettare un gesto dalla sorella Cosima e dalla nipote Sabrina, di volere da loro una dichiarazione piena e convincente su quanto accade quel maledetto 26 agosto del 2010, il giorno in cui Sarah scomparve dopo essere arrivata a casa degli zii per andare a mare con Sabrina e iniziò una saga che non sembra volersi consegnare alla parola fine.

Delitto Avetrana, Misseri alla mamma di Sarah: Parleremo, senza telecamere, scrive “La Presse” Mercoledì 1 Giugno 2016. "La mia vita è sempre la stessa, vado avanti col rimorso. Troppi ricordi in casa, fortunatamente ci sto poco". Lo ha raccontato a Pomeriggio5 su Canale 5 Michele Misseri, padre e marito delle due donne ritenute responsabili del delitto ad Avetrana della giovane Sarah Scazzi, per il quale sono state condannate la cugina Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano. "Sabrina è una brava ragazza, voleva aiutare gli altri", ha sottolineato Misseri, e parlando poi di cosa direbbe alla madre di Sarah, Concetta, ha detto che "arriverà il momento in cui parleremo ma faccia a faccia, non con le telecamere". "Sto in casa tutto chiuso? Voglio stare come stanno loro in carcere", ha confessato l'uomo. Durante la trasmissione è intervenuto anche Ivano Russo, uno dei principali testimoni del caso, che aveva avuto una relazione con Sabrina: "Sono pronto ad affrontare il processo ma i fatti contestati sono solo di falsa testimonianza. Altre cose sono a me estranee", ha precisato, "sono disposto a incontrare Concetta per chiarimenti, sono un amico, non un nemico, e ci tengo, come lei, affinché Sarah abbia giustizia".

Sarah Scazzi. Processo a Michele Misseri. Calunnia sì o calunnia no?

Bruzzone, Galoppa ed i giudici di Taranto contro Michele Misseri. Chi si pensa che vincerà?

La risposta del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande di Avetrana, ha seguito il caso sin dall’inizio e sulla vicenda ha scritto ben tre libri e pubblicato decine di video.

Nel corso dell’udienza che si è tenuta il 15 giugno 2016 nel Tribunale di Taranto relativa al processo che vede imputato Michele Misseri accusato di calunnia nei confronti della Dott.ssa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa, è stato ascoltato soltanto l’ex legale dello zio di Avetrana, Galoppa, scrive Rossella Ricchiuti su TVMed. Entrambi sono stati accusati da Misseri di averlo indotto ad incolpare Sabrina dell’omicidio di Sarah Scazzi. La criminologa, che è stata consulente di parte nel processo per l’assassinio dell’adolescente, sarà sentita a gennaio 2017. Sono imputati per diffamazione anche la giornalista Ilaria Cavo e l’avvocato Fabrizio Gallo, ed è stato proprio quest’ultimo a richiedere il rinvio per legittimo impedimento perché si trovava a Roma ed era impossibilitato a raggiungere il Tribunale di Taranto.

Nel corso dell’udienza la difesa ha provato a chiedere una perizia psichiatrica su Michele Misseri sostenendo che, quando l’uomo aveva accusato in aula e nei programmi televisivi l’avvocato e la consulente era incapace di intendere e volere. Il giudice Di Roma ha respinto la richiesta. Il processo è quello che vede imputato Michele Misseri per le accuse rivolte alla Dott.ssa Roberta Bruzzone e all'avvocato Daniele Galoppa. La sede è il Tribunale di Taranto, aula E, scrive ancora TVMed. Lo zio di Avetrana, condannato in appello a 8 anni di reclusione per soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi, è accusato di calunnia nei confronti della criminologa e del suo ex avvocato, ormai noti volti televisivi. La Bruzzone è stata consulente di parte nel processo per l'omicidio dell'adolescente, mentre il legale è stato difensore di Misseri. Il contadino di Avetrana, che aveva subito confessato l'assassinio, aveva poi cambiato versione tirando in ballo sua figlia Sabrina, poi condannata all'ergastolo in primo e secondo grado, per poi ritrattare ed a riconfermare da sempre la prima versione. Entrambi sono stati accusati dal contadino di Avetrana proprio di averlo indotto ad incolpare Sabrina dell'omicidio di Sarah Scazzi.

Nel processo di Taranto con l’accusa di calunnia troviamo da una parte l’avvenente criminologa mediatica nazionale, Roberta Bruzzone, e Daniele Galoppa, primo difensore di Michele Misseri, che nelle dichiarazioni in tv (a pagamento come da lui sostenuto) ha sempre spronato questi a dire “la verità”. Facoltà, però, questa, propria della Procura e non della difesa. Questi negano di aver influito sulle volontà dello zio di Avetrana nell’accusare la figlia Sabrina dell’omicidio della povera Sarah Scazzi. D'altronde i giudici togati e popolari dei collegi delle Corti di Assise di primo e secondo grado di Taranto hanno creduto ai due. Di contro troviamo il semplice contadino dell’omertosa Avetrana, spalleggiato da alcuno. La sua parola contro la loro vale zero, tanto meno se la loro parola è suffragata dalle precedenti Corti. Tuttavia la logica qualche dubbio lo pone. Come è possibile che sia più credibile una versione rispetto a tante altre antitetiche e si nega che essa sia stata resa non nel pieno delle facoltà o comunque influenzate da farmaci o promesse? I farmaci o la promessa di limitare i danni alla figlia Sabrina sono validi motivi per credere alla versione di Michele Misseri e degni di nota per far venir meno il rancore di Cosima e Sabrina (moglie e figlia) nei confronti di Michele. Purtroppo, dai processi già svolti, dai giudici e dai media si è deciso che Michele è un bugiardo e Cosima e Sabrina delle assassine, ed a questo non si può rimediare, specie a Taranto che per le sole motivazioni, tra il primo grado ed il secondo, ti fanno aspettare circa due anni. Specie a Taranto dove si giudicano gli avvocati locali per essersi proposti, mentre l'omertà cala per gli avvocati forestieri non eccelsi come Franco Coppi, tanto da essere conosciuti e chiamati, e che, stranamente, sono nominati ed appaiono in tutti i processi mediatici.

Ed allora se condanna deve essere, condanna sia, evitandoci una inutile perdita di tempo e di spreco di denaro pubblico.

Sabrina Misseri da 4 anni e 7 mesi è in carcere. Intanto gli imputati aumentano e nessuno critica il fantasioso e poco logico impianto accusatorio...scrive il 12 maggio 2015 Massimo Prati sul suo blog “Arbatros. Volando Contro Vento”. Il 15 ottobre 2010 Sabrina Misseri fu arrestata e portata al carcere di Taranto. Aveva 22 anni e la procura l'accusava di aver ucciso sua cugina Sarah in base alle parole dette da suo padre - in quello stesso giorno - durante uno stranissimo interrogatorio iniziato col primo sole in cantina e finito la sera in caserma. Un interrogatorio in parte registrato in cui si nota, già alle otto di mattina, lo stato psichico debilitato dell'allora reo-confesso, come si evince dalle riprese video, e la presenza di un avvocato difensore che incita il suo cliente, prospettandogli un futuro infernale, ad assecondare i procuratori. Il Gip Martino Rosati confermò la custodia cautelare in carcere, chiesta dai dottori Argentino e Buccoliero, perché, scrisse, la ricostruzione del padre che coinvolge la figlia nel delitto è attendibile. Per la procura e per il Gip, Sabrina Misseri mise in atto un'azione cruenta che durò diverso tempo. Almeno fino a quando Sarah cadde a terra. In pratica, sugli atti scritti dal Gip, venti pagine che ricalcavano la ricostruzione della procura e la chiamata in correità, ancora oggi è scritto che "si è trattato di un'azione preordinata, probabilmente giunta ad esiti più gravi di quelli programmati... un evento scaturito da un empito improvviso... un'azione cruenta protrattasi per lungo tempo durante il quale, almeno finché Sarah non è caduta esanime al suolo, Sabrina l'ha tenuta e le ha impedito di muoversi. Secondo il giudice Rosati Sarah arrivò a casa Misseri alle 14.28, lo dimostra lo squillo fatto al cellulare della cugina, il segnale convenuto per dirle che era arrivata e non che stava uscendo. L'omicidio - sempre per il Gip Martino Rosati - è avvenuto in sette minuti: nello spazio ricavato fra gli sms inviati dal cellulare di Sabrina fra le 14.28 e le 14.35. Visto quanto affermava la procura e avvalorava il Gip coi suoi atti firmati, il 15 ottobre 2010 Michele Misseri era una persona attendibile anche quando rispondeva non capendo le domande e unendo a fatica le parole. In fondo, per capirlo basta ascoltare gli interrogatori (sia quello in cantina in cui sin dall'inizio invece di farsi mostrare il modus operandi dell'omicidio gli si chiese di dire chi l'aveva aiutato, sia quello a cui fu sottoposta Sabrina Misseri a fine settembre), non era il padre ma sua figlia che gli inquirenti da tempo volevano sulla scena dell'omicidio. E che Michele Misseri inserendola fosse diventato più che attendibile, lo dimostra il fatto che la procura neppure ordinò di perdere una mezza giornata per fare un paio di indagini prima di arrestare la ragazza (è bene ricordare che era incensurata), giusto per verificare se quanto asserito dal padre (che ad oggi neppure ricorda di averlo asserito) avesse una minima base logica. Michele Misseri quel 15 ottobre era talmente credibile che si ordinò l'arresto di sua figlia seduta stante, senza ulteriori indagini e senza tentennamenti. Ma anche oltre quella data per i procuratori rimase molto attendibile. Lo fu per altri 35 giorni, fin quando modificando versioni inseriva sempre più la figlia nella scena del crimine. L'avvocato difensore di Misseri, scelto per lui da un procuratore (come uscito a processo), parlava al suo assistito in carcere e poi chiamava in procura e tutti accorrevano... anche abbandonando i processi in corso. Tutto questo durò fino al 19 novembre, quando in un incidente probatorio - assurdo e stranamente accettato da giudici e avvocati - il contadino disse che l'omicidio l'aveva commesso Sabrina durante un gioco chiamato "del cavalluccio". Pertanto è lampante come Michele Misseri per i procuratori non fosse un bugiardo patentato quando accusava sua figlia. In quei casi, come affermò più volte il suo avvocato che in schermo disse anche di sentirsi un suo figlio putativo, era un uomo genuino che aveva imboccato un percorso spirituale (verso la redenzione) per cercare di tornare sulla retta via. Questo nonostante avesse dichiarato ai giudici che Sarah era morta per sbaglio durante un gioco. Roba da chiodi che venne accolta come manna dal cielo e restò tale fin quando un televisore fece capolino nella cella del contadino che sino a quel momento era stato isolato dal resto del mondo. Come dice lo stesso Michele Misseri, gli bastò guardare un paio di programmi televisivi "doc" per pensare: "Che strano, io all'avvocato ho sempre detto di aver ucciso Sarah da solo. E lui, dopo avermi consigliato la strada migliore da percorrerestrada che ho seguito punto per punto anche nell'incidente probatorio, si presenta nelle varie reti nazionali per dire che ancora non sto raccontando tutta la verità? E fu per quei programmi televisivi - che prima di allora gli vietavano di guardare - che iniziò a ragionare in maniera diversa da quella cui l'avevano abituato in quel mese e mezzo di isolamento. E fu per quanto ascoltò in video che iniziò a spedire lettere in cui scagionava la figlia, le chiedeva scusa e accusava "qualcuno", che ora sappiamo essere proprio il suo ex avvocato e successivamente anche la consulente che lo affiancò, di averlo pilotato e portato a cambiare la versione iniziale con la promessa che in poco tempo tutto si sarebbe risolto al meglio. Da quel momento in poi chiese spesso di essere ascoltato dalla procura (inizialmente in assenza del suo legale) ma nessuno, dopo essere corsi alla sua cella e averlo verbalizzato più volte nei mesi precedenti, volle più ascoltarlo. Tanto che pochi giorni dopo la remissione del mandato al suo avvocato, il dottor Sebastio disse che Misseri non era credibile e la sua testimonianza non serviva perché il quadro probatorio contro sua figlia era chiaro e sicuro anche senza le sue accuse. Embé, scrivendo quelle lettere si era rovinato la reputazione perché, mentre prima seguiva un percorso spirituale verso la verità (quella che pensavano i procuratori) ed era genuino, il totale rovesciamento della testimonianza lo rese un sicuro bugiardo patentato. Ciò che per la procura non era quando - dopo sette testimonianze variamente modificate in un solo mese - si tolse dalla scena del crimine per farla occupare tutta dalla figlia. Quello fu un periodo importante della storia investigativo-giudiziaria perché la procura, nonostante quanto affermato, era in affanno e senza gli "aggiustamenti" del padre non aveva neppure una piccola prova che incastrasse Sabrina Misseri (non che ne abbia trovate di vere poi). Ma i fari degli inquirenti prima della confessione del padre erano puntati sulla ragazza che una linea investigativa credeva "la vera assassina di Sarah". E l'unico che poteva inserirla nel crimine era proprio Michele Misseri che certamente era stato a contatto col cadavere. Da più parti ancora oggi c'è chi crede alla bontà delle indagini non perché la logica porti alla dimostrazione che siano state ottime indagini, ma perché, generalizzando, pensa che la procura non avesse motivo, avendo già un assassino in mano, di perder tempo e passare da un reo-confesso a un omicida diverso. Però chi lo afferma non considera le indagini precedenti a una confessione, fra l'altro giunta come un fulmine a ciel sereno, che non dava soddisfazione a una linea investigativa che invece trovava legittimazione se dimostrava che il padre buono "copriva" la figlia assassina. La linea investigativa, quindi, soddisfatta dagli aggiustamenti portati in campo in un mese e mezzo da Michele Misseri (ma solo nei verbali di interrogatorio e nell'incidente probatorio perché a chiunque lo frequentasse in carcere continuava a ripetere di aver ucciso Sarah da solo), sarebbe caduta a rotoli se si fosse verbalizzata la sua ultimissima versione. Nessuno volle ascoltarla e verbalizzarla, ma lui la mise per iscritto a dicembre 2010 - nelle lettere indirizzate alle figlie - e la confermò varie volte nel 2011. Ed era una versione già conosciuta in procura, perché in effetti il contadino tornò alla sua prima confessione eliminando tutte le modifiche inserite dal 15 ottobre al 19 novembre. In pratica, era la stessa versione accettata a braccia aperte anche dal Gip Martino Rosati (quando avallò la sua carcerazione), la stessa che il 7 ottobre fece dire al dottor Sebastio che il caso era chiuso al 95%. Comunque, da dicembre 2010 in poi - dal momento in cui si capì che Michele Misseri avrebbe rivoltato le carte in tavola - qualcosa cambiò. Giusto in tempo perché in contemporanea il padre iniziò a scrivere le prime lettere alla figlia. Lettere che non si credevano farina del suo sacco e pensando ci fosse un suggeritore occulto si perquisì la sua cella e si sequestrarono anche i più piccoli fogli di carta. Per questo motivo gli fu impedito di inviare altre missive (tutte dovevano prima essere sequestrate e lette dai controllori). E forse per questo motivo a metà gennaio gli impedirono anche di parlare ai difensori di Sabrina di quanto accaduto durante l'omicidio. Uno dei tanti diritti negati alla difesa, una roba mai vista in democrazia e forse neppure in monarchia. A chi non si accontenta dell'apparenza risulta facile fare due più due e domandarsi il motivo per cui proprio in quel periodo vennero "aggiustate" le testimonianze di chi aveva dichiarato di aver visto la ragazzina, sia in casa che per strada, in orari non compatibili con la ricostruzione che stavano realizzando i procuratori. Come risulta facile domandarsi il motivo per cui si anticipò l'orario di uscita di Sarah e l'orario del suo arrivo dai Misseri. Lo stesso orario che per mesi fu verbalizzato e messo agli atti - quale "cosa certa" - dal Gip Rosati che scrisse: "Sarah arrivò a casa Misseri alle 14.28'.26'', quando fece a Sabrina uno squillo sul cellulare come segnale per dirle che era arrivata, non che stava uscendo". E questo, anche se lo squillo può averlo fatto imboccando via Deledda e non proprio quando era di fronte al cancello della villetta, è in effetti l'orario più giusto e logico, visto che in pratica ci dice che Sarah sarebbe uscita di casa sulle 14.25 - subito dopo il messaggio inviatole da Sabrina alle 14.25.08 in cui le scriveva: "Mettiti il costume e vieni". Sarah era già pronta naturalmente, perché sapeva che se non fossero andate con Mariangela al mare sarebbe probabilmente andata comunque con Sabrina. Fu la signora Pisanò a dirlo a processo parlando di quanto accadde la mattina del 26 agosto in casa Misseri. Ma l'orario di uscita, fino a quel momento giusto, cioè le 14.25, dopo la marcia indietro del contadino venne cambiato e portato alle 13.45/13.50. In pratica, se in precedenza all'uscita delle 14.25 corrispondevano venti minuti di vuoto temporale prima del primo passaggio di Sabrina e Mariangela in casa Scazzi (che chiedevano dove fosse Sarah), con la nuova versione tutto si dilatava a dismisura e lo spazio temporale prima dell'arrivo delle due ragazze diventava di un'ora. Il Gip, che in precedenza ne aveva avallato un altro di orario, avallò anche questo senza far caso che fra i venti minuti scarsi dichiarati ad agosto, settembre, ottobre e novembre, e l'ora di assenza stabilita nei verbali firmati a dicembre e a gennaio (sia dalla madre che dal padre che dalla badante), c'era una differenza di circa quaranta minuti. Eppure ci vuol poco a chiedere a un qualsiasi genitore cosa corre fra un orario e l'altro. Ci vuol poco a scoprire che una simile differenza una madre e un padre la notano subito, che non servono molti mesi e più interrogatori per rendersi conto di quanto passa fra un'assenza di venti minuti e un'assenza di un'ora. Perché una cosa è dire "è uscita poco fa per venire da te" e un’altra è dire "è da tanto che è uscita per venire da te". Tre persone erano in casa Scazzi quel 26 di agosto... possibile che tutte e tre non si siano rese conto della differenza che passa fra venti minuti e un'ora? Possibile che abbiano trovato una nuova fresca memoria dopo quattro mesi? Ma forse la colpa fu del "fato"... "o di chi per lui". E forse fu lo stesso "fato" a decidere che per Avetrana dovesse circolare la signora Anna Pisanò. Una buona donna che occupava il suo tempo libero intrecciando pubbliche relazioni ad ampio raggio o girando per la zona con un registratore fornitole dai carabinieri autorizzati dalla procura. Una donna che fra una registrazione e l'altra si dilettava a frequentare giornalisti e programmi televisivi. Fu lei a dar per certo, non subito ma a troppi giorni di distanza dall'evento, ciò che solo lei disse di aver sentito dire a Sabrina Misseri. Fu lei che grazie a una confidenza della figlia parlò ai procuratori di un sogno, destinato poi a diventare parte basilare della nuova ricostruzione accusatoria, e di un fiorista che mai avrebbe voluto essere coinvolto per cause oniriche. Fiorista che da incensurato inesperto di interrogatori e interroganti, fu interrogato a modo scoprendosi nudo di fronte alla forza di persuasione che si è soliti usare durante le lunghe stesure dei verbali. Fiorista che quando si accorse di aver dato per vero ciò che vero non era, coraggiosamente fece marcia indietro. Ma a Taranto non tutti possono far marcia indietro, non tutti possono cambiare le carte ormai in tavola - anche se sono bianche e senza significato. E pensare che per credergli sarebbe bastato chiedersi il motivo di quella retromarcia e rendersi conto che fra la sua famiglia e la famiglia Misseri non c'era alcun tipo di rapporto o contatto. Insomma: per quale strano motivo avrebbe dovuto coprire gli autori di un sequestro, mentire di proposito, passare mille guai e far condannare i suoi parenti? Non essendoci alcun tipo di motivo sarebbe stato facile stabilire che la verità non si trovava sul primo verbale - nato dal chiacchiericcio accettato per vero da chi interrogava - ma sul successivo. Purtroppo a Taranto per alcuni vale ancora la famosa frase di Mike Buongiorno, la prima risposta è quella che conta, mentre per altri, e mi riferisco ai testimoni dell'accusa (a partire dai familiari di Sarah per arrivare al signor Petarra), vale il detto "più passano i mesi più i ricordi sono migliori". In pratica, chi ha indagato sulla morte di Sarah Scazzi ha fatto una cernita decidendo che a pari comportamento corrispondono diverse credibilità. Credibili sono diventati quelli che dal non sapere nulla, o non ricordare, sono passati al sapere tutto così da avallare la ricostruzione accusatoria. Incredibili gli altri che raccontano balle e andranno tutti a processo per falsa testimonianza. Ed ecco che ad oggi chi non ha seguito la linea accusatoria si trova o condannato o imputato. I parenti del fiorista, che sapevano di un sogno e di un sogno hanno parlato a processo, sono stati condannati in Assise, mentre chi nello stesso processo è rimasto neutro o ha parlato a favore dell'imputata, in questi giorni ha ricevuto la letterina della procura che li informa di essere nei guai e di trovarsi un avvocato. Fra i dodici nuovi imputati ci sono anche le zie di Sabrina Misseri e gli amici che vedevamo spesso in televisione: Ivano Russo e Alessio Pisello. Gli stessi che come Sabrina Misseri si son sbattuti l'anima per cercare Sarah, quelli che mentre la procura credeva che la ragazzina fosse "scappata di casa" ribadivano a gran voce di non credere a una fuga volontaria. Insomma, per i procuratori ad Avetrana ci sono persone che non la raccontano giusta. Peccato che la logica pare volerci dire che anche a Taranto c'è chi non la racconta giusta. Basta aver seguito il processo di primo grado per capirlo. Facciamo la prova del nove. Mettiamoci in posizione neutra e chiediamoci perché indagare tante persone per falsa testimonianza e non inserire nella lista anche la signora Anna Pisanò. Lei a processo raccontò una falsità enorme dicendo che il nome di chi aveva assistito al sequestro di Sarah non l'aveva fatto il giorno in cui si presentò in procura a parlarne perché ancora non lo sapeva. Disse che lo fece il giorno successivo, quando si ripresentò, perché quel giorno invece lo sapeva. Ma questa è una bugia, perché già durante l'interrogatorio aveva più volte ribadito che sua figlia il nome glielo aveva confermato tanti giorni prima mentre l'accompagnava all'aeroporto. Che senso ha avuto, dunque, la sua prima "visita onirica" in procura? Perché non ha ricevuto, come gli altri, la letterina? E perché non è stato accusato di falsa testimonianza anche il signor Petarra? Lui affermò di essere rimasto a pulire il marciapiede, quindi in strada, sino alle 15.30. Ma è pacifico che in quell'orario non fosse affatto sul marciapiede a pulire, visto che né Mariangela Spagnoletti né sua sorella lo videro quando dalle 14.45 alle 15.00 parcheggiarono per alcuni minuti, per ben tre volte, in via Verdi col muso dell'auto rivolto verso la sua casa. Quando per ben tre volte di fronte a quella stessa casa transitarono assieme a Sabrina per tornare in via Deledda. Dov'era in realtà il signor Petarra? Cosa stava facendo nell'orario in cui Sarah scomparve dopo essere passata a piedi di fronte a casa sua? Perché ha detto che i ricordi si sono rinforzati quando ha ricordato che sua moglie doveva andare a lavorare per le quattordici... quando invece chi le dava il lavoro (solo un'ora e trenta di pulizie a settimana) a processo dichiarò che la signora Petarra non aveva alcun orario da rispettare e di solito andava quando le pareva? Approfondire! Approfondire! Direbbe ai poliziotti un magistrato che conosco bene. Per cui, siccome una giustizia giusta deve essere paritaria, non solo i testimoni della difesa devono rischiare una condanna per falsa testimonianza. Tutte le persone che testimoniano il falso dovrebbero venir incriminate e condannate. Se la giustizia è uguale per tutti, la procura di Taranto deve darsi da fare e ampliare la propria vista, non osservare solo ciò che l'ha infastidita durante le indagini e il processo. Ci sono incongruenze enormi? Ed allora si indaghi su tutti e si cerchi di capire. In caso contrario bisogna ritenere che almeno una parte dei procuratori di Taranto usi il potere per come la pensa e non per come andrebbe usato. E a dire il vero ci sono prove che dimostrano come in varie occasioni si siano induriti sulla loro idea senza considerarne altre. Una su tutte, ma ce ne sono diverse, quando portarono a processo e fecero condannare Domenico Morrone (assolto dopo quasi quindici anni) e chi testimoniò in suo favore (testimonianze non false ma veritiere vista la successiva assoluzione). Guarda caso la stessa identica linea giudiziaria che si sta usando coi testimoni del processo Scazzi che non si sono schierati con la ricostruzione accusatoria. Ma se la legge è paritaria e uguale per tutti, oltre agli stessi testimoni dell'accusa indicati in precedenza anche i procuratori dovrebbero rispondere delle loro azioni e venire indagati e imputati da altre procure se le loro indagini e conclusioni si scoprissero unilaterali con una ricostruzione accusatoria palesemente sbagliata o troppo forzata. Così anche i Gip che avallano le diverse conclusioni senza verificarle, i Gup che autorizzano processi senza prove e i giudici che senza prove condannano. Sarebbe un modo nuovo di fare giustizia, ma buono a farci capire chi sia in realtà che la racconta giusta. Perché troppe versioni dimostrano che troppe cose non tornano. E per restare a Taranto c'è già da porsi la domanda: "Chi ha cambiato più volte la propria versione, risultando quindi meno credibile, Sabrina Misseri o chi la accusa?" Vediamo le versioni opposte partendo dai procuratori e dal Gip che, pur rimasti all'ombra di una stampa troppo spesso allineata, hanno cambiato più volte le carte in tavola.

Prima versione: il colpevole è il solo Michele Misseri.

Seconda versione: il colpevole è sempre il Misseri ma è stato aiutato di sua figlia Sabrina.

Terza versione: il colpevole è la sola Sabrina Misseri e il padre l'ha solo aiutata.

Quarta versione: il colpevole è la sola Sabrina Misseri, ha ucciso per sbaglio durante il gioco del cavalluccio (sempre in garage) e suo padre dormiva.

Quinta versione: il colpevole è Sabrina Misseri, ma ha ucciso in casa durante un litigio.

Sesta versione: il colpevole è Sabrina Misseri che prima di uccidere è salita sull'auto guidata da sua madre per rincorrere Sarah per le vie di Avetrana. Sua madre ha poi partecipato al crimine non impedendo il delitto.

Insomma, un bel movimento di versioni e ricostruzioni che minerebbero la credibilità di chiunque. Perché non quella della procura di Taranto? Perché non ha colpa essendosi spesso adagiata alle varie versioni di Michele Misseri? Ma che significa "non ha colpa"? Colpa ne ha per forza perché prima di legittimarle avrebbe dovuto verificarle in maniera professionale. Se Misseri avesse detto che ad uccidere Sarah era stato il sindaco di Avetrana, avrebbero arrestato il sindaco senza fare indagini o avrebbero prima cercato riscontri alle parole del contadino? Chiaramente avrebbero cercato riscontri. Ed allora perché non si son cercati anche il 15 ottobre 2010, prima di arrestare Sabrina Misseri? Meglio andare oltre e analizzare la versione di chi da quattro anni e sette mesi è in carcere e non si vuole che esca. Prima di tutto c'è da sottolineare come nel tempo non sia mai cambiata. Lei ha sempre detto di essersi stesa sul letto dei suoi genitori in attesa del messaggio dell'amica Mariangela - e sua madre ha confermato di averla trovata a riposare. Ma Cosima è coimputata, quindi la ragazza non ha alibi? No, l'alibi ce l'ha. Glielo forniscono i tabulati telefonici del pomeriggio del 26 agosto 2010 - tabulati che riportano la sequenza di sms intercorsi tra lei, Mariangela, Sarah e un'altra amica. Questa sequenza:

ore 14.23'.31" da Mariangela a Sarah "Il tempo di mettermi il costume e vengo;"

ore 14.24'.03" da Sabrina a Mariangela "Avverto Sarah?";

ore 14.24'.15" da Mariangela a Sabrina "Ok";

ore 14.25'.08" da Sabrina a Sarah "Mettiti il costume e vieni";

ore 14.28'.13" da Sabrina a Sarah "Hai letto il messaggio?";

ore 14.28'.26" Sarah effettua lo squillo sul cellulare di Sabrina;

ore 14.28'.40" da Sabrina a Mariangela "Sto tentando in bagno :)";

ore 14.31'.44" da Angela Cimino a Sabrina "Allora oggi il trattamento non si fa?";

ore 14.35'.37" da Sabrina a Angela Cimino "No, non si fa";

ore 14,39'.31" da Sabrina a Mariangela "Sono pronta".

Ora, ai tempi scritti sui tabulati aggiungiamo un altro orario: ore 14.18' sms da Francesca a Sarah. Questo sms, che non ha ricevuto risposta, per la procura dimostra che Sarah è morta prima delle 14.18. Ed allora, se è morta prima di quell'orario, per verificare quanto sia logica la ricostruzione accusatoria ammettiamo pure che il Petarra non si sia confuso, che abbia ricordato giusto e visto Sarah andare verso via Kennedy sulle 13.50. Ammettiamo quindi che Sarah sia arrivata dai Misseri prima delle 14.00 - anche se sul tabulato telefonico non risulta lo squillo che inviava di solito al momento del suo arrivo pomeridiano (e tutti sanno che se non c'era nessuno fuori lo inviava, anche suo fratello come ha chiaramente testimoniato a processo). Detto questo, abbiamo uno spazio temporale che va dai venti ai ventitré minuti. Un lasso di tempo ristretto in cui, basandosi sulla ricostruzione accusatoria, devono per forza essersi compiute svariate azioni. Proviamo a metterle in fila assecondando l'accusa, quindi senza aggiungere quei tempi logici che prevedono, prima di un simile delitto, il montare di una rabbia cieca che sfoci in un'ira incontrollata. Restiamo scarni come se durante l'omicidio non si fossero provate emozioni di alcun tipo e vediamo cosa accade ad ogni azione.

Prima: Sarah alle 13.56 arriva di fronte alla villetta dei Misseri. Per facilitare pure in questo caso la ricostruzione accusatoria - quindi per accorciare i tempi - accettiamo anche che trovi la cugina ad attenderla sulla veranda (pur se il fatto si mostra illogico visto che non l'aveva avvisata del suo arrivo) e che senza perdite di tempo con lei entri nella casa degli zii.

Seconda: Sabrina inizia subito a rinfacciare a Sarah le sue fantasie adolescenziali su Ivano (per pensare che sia così dovete abbandonare la logica e non ricordare che le due cugine erano state insieme fino a un'ora prima e che Sarah a casa sua non si era poi mostrata né preoccupata né tesa). Sulle 14.00 il tutto si inasprisce e parte una sorta di aggressione verbale pesante che dura pochi minuti ma che impaurisce Sarah come mai si era impaurita.

Terza: Sarah alle 14.05 scappa dalla casa degli zii (anche se è strano che abbia reagito in questa maniera visto che tutte le testimonianze ci dicono che quando Sabrina la sgridava lei restava in silenzio senza muoversi o reagire).

Quarta: Cosima e Sabrina alle 14.07 si infilano le scarpe al volo ed escono per salire in auto e inseguirla.

Quinta: Cosima zigzaga fra i sensi unici di Avetrana, indovina con fortuna le strade e individua la posizione raggiunta dalla nipote. Alle 14.11 la blocca e senza pensare che qualcuno possa sentirla o vederla le intima di salire in auto.

Sesta: Sarah alle 14.12 si trova in strada, sotto le finestre aperte di diverse abitazioni, vede il fiorista passare lentamente coi finestrini abbassati (come lo vedono Sabrina e Cosima) ma non urla, non fa nulla, non chiede aiuto e nonostante la paura che poco prima l'ha convinta a scappare dalla casa degli zii sale in auto per tornarvi.

Settima: Senza perdere tempo, alle 14.13 Cosima risale nuovamente sulla vettura, ancora zigzaga per Avetrana e ritorna con l'auto in via Deledda.

Ottava: Alle 14.17 le tre rientrano in casa senza che Sarah dica o faccia nulla.

Nona: Sabrina, senza avviare nessuna discussione e senza gridare, alle 14.18, incurante del messaggio che arriva sul cellulare della cugina e del fatto che il fiorista abbia visto sua madre obbligarla a salire in auto, va in camera e prende una cintura perché ha deciso di ucciderla e non gli frega nulla del testimone che può incastrarla.

Decima: Vabbè, Sarah non è morta prima dell'orario indicato dalla procura, ma andiamo avanti perché qualche limata ai tempi suddetti si può anche ipotizzare e perché potrebbe comunque morire subito dopo e restare all'interno di una logica ricostruttiva. Perciò alle 14.19 Sabrina torna in cucina, o in sala. Sarah è ancora lì con la zia e lei le stringe al collo la cintura per qualche minuto e la uccide senza che la piccola si ribelli urlando o faccia nulla per impedirglielo.

Undicesima: Sarah è a terra morta e Sabrina non ha né tremori né sensi di colpa. Alle 14.23'.31'' riceve il primo messaggio di Mariangela. Ecco, Sarah è stata uccisa nel modo pensato dall'accusa. Nessuno scrupolo o sentimento da parte di chi per anni l'ha accudita sono entrati nella scena del crimine. Solo odio puro come se i protagonisti avessero vissuto insieme ma disprezzandosi l'un l'altro. Certo, per condannare all'ergastolo una persona incensurata non basta una ricostruzione del genere che, se vagliata con logica e buonsenso, pare più cinematografica che reale. Inoltre a invalidarla c'è lo squillo successivo che alle 14.28 parte dal cellulare di Sarah. Uno squillo che lega le mani alla procura fin quando non decide di calare l'asso del "depistaggio". In pratica, tutte le azioni che seguono l'omicidio per la procura sono parte di un piano mentale elaborato da Sabrina Misseri per far credere agli inquirenti di avere un buon alibi. Continuiamo quindi l'elenco e vediamolo questo asso, queste sicure azioni di depistaggio capaci di inventare un alibi.

Dodicesima: Sabrina, senza tremori né dolori, nonostante abbia stretto una cintura al collo della cugina per diversi minuti, calma come se avesse ucciso una zanzara, è eccezionalmente veloce e in soli 32 secondi riesce sia a leggere il messaggio inviatole da Mariangela, sia a decidere di crearsi un alibi sia a scrivere e inviare un sms in cui chiedere se può avvertire Sarah. Il tutto accade dalle 14.23'.31'' alle 14.24'.03'' - in soli 32 secondi, per l'appunto.

Tredicesima: Sabrina è anche fortunata, perché Mariangela le risponde subito (se non le avesse risposto non avrebbe potuto inviare un sms al cellulare di Sarah). Ed ecco che alle 14.25'.08'' parte il primo messaggio a cui Sarah non può rispondere perché per la procura è già morta.

Quattordicesima: Il cadavere è steso sul pavimento e bisogna occultarlo. Così Sabrina scende in garage e chiede a suo padre di occuparsene. Poche parole perché non c'è tempo da perdere. Lui non fa una piega e non discute l'ordine impartitogli. Questa azione si svolge in soli tre minuti, ma pur se corta ha impedito a Sabrina di inviarsi lo squillo di conferma col cellulare della cugina. Ma lei lo squillo lo faceva sempre, per questo è obbligata ad inviare un ulteriore sms. Sono le 14.28'.13''.

Quindicesima: Il messaggio arriva al cellulare di Sarah, già nelle mani di Sabrina che in un batter d'occhio lo aziona e si invia uno squillo. Sono le 14.28'.26'' e per la procura quello squillo partito dal cellulare di Sarah è stato inviato da Sabrina Misseri per depistare le indagini.

Sedicesima: La velocità mentale di Sabrina è incredibile. Per questo non appena inviato lo squillo lancia il cellulare di Sarah a suo padre e in un lampo decide di inventarsi cosa scrivere e di scrivere un sms che ritardi l'arrivo di Mariangela. Occhio ragazzi, come direbbero quei "maghi" che ingoiano le spade in pubblico, questa magia potrebbe risultare pericolosa e vi invito a non tentarla perché non è facile pensare a cosa scrivere e dopo averlo pensato scriverlo e inviarlo tramite sms in soli 14 secondi. Infatti a Mariangela (che fortunatamente non è ancora pronta perché nel caso fosse giunta subito in via Deledda sarebbe stato il caos) il messaggio lo riceve alle 14.28'.40''.

A questo punto credo sia inutile andare avanti. Credo che per ogni persona dotata di logica sia lampante che la ricostruzione della procura sul depistaggio in grado di creare un alibi perfetto vada aldilà di ogni umana possibilità mentale e fisica. Credo che abbia ragione il dottor Coppi quando dice che l'alibi di Sabrina è inattaccabile. Credo che basterebbe anche poca logica e poco buonsenso per capire che non ci sono indizi colpevolisti, né gravi né concordanti, che si adattino a una Sabrina Misseri assassina. E soprattutto, credo che non sia giusto tenere in carcere più persone incensurate, in attesa di un verdetto definitivo, senza avere in mano vere prove. Perché ci sarebbe anche da capire il motivo per cui Cosima Serrano è in carcere... qualcuno per caso lo sa?

PERCHE’ STAMPA E TV TACCIONO SULLA BRUZZONE?

La domanda è sorta spontanea al dr Antonio Giangrande che sulla vicenda di Avetrana ha scritto il libro ed il sequel “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana, Il resoconto di un Avetranese”. Questione importante, quella sollevata da Antonio Giangrande, in quanto se fondata, mette in una luce diversa il rapporto tra la stessa dr.ssa Bruzzone e Michele Misseri, suo accusatore.

Veniamo alla notizia censurata dai media.

La criminologa Roberta Bruzzone vittima di stalking, si legge su “ net1news” dal 12 gennaio 2015. “La criminologa e psicologa Roberta Bruzzone ha denunciato il suo ex fidanzato per stalking. Proprio grazie alla sua professione, la donna si è spesso occupata di vittime di molestie e persecuzioni e mai forse avrebbe pensato di vivere tutta quell’angoscia in prima persona. Roberta Bruzzone che conduce una trasmissione sul canale tematico del digitale terrestre “real time” è ormai un volto noto essendo spesso ospite nei salotti televisivi in qualità di esperta della materia. La donna è però entrata a far parte della folta schiera di vittime di molestie. A perseguitarla, l’ex fidanzato, appartenente alle forze dell’ordine che dopo una relazione durata cinque anni, chiusasi nel 2008 ha cominciato a tormentarla. Telefonate, sms, ma anche pedinamenti e agguati veri e propri: “E’ arrivato a puntarmi una pistola alla tempia – ha confessato la criminologa – è pericoloso”. La Bruzzone ha denunciato il suo ex per ben sette volte. L’uomo ha anche diffuso calunnie sul suo conto via internet. Ora pare le cose vadano meglio.  Sulla questione ci sono degli aggiornamenti. A riferirle a Net1 News tramite raccomandata sono i legali dell’interessato, secondo cui la dottoressa Bruzzone per le sue dichiarazioni ai media è stata rinviata a giudizio per diffamazione aggravata: la prima udienza del processo è stata fissata per quest’anno. Al processo, sempre secondo quanto riferisce la raccomandata ricevuta, si costituiranno parte civile alcune associazioni a tutela delle donne.”

A quanto pare l’interessato, che sembra abbia presentato varie controquerele, si lamenta del fatto che il perseguitato è proprio lui e che ciò sia fatto per screditarlo dal punto di vista professionale, perché entrambi i soggetti svolgono la stessa professione, anche con comparsate in tv.  

Visionando l’atto pubblico si anticipa già che il processo a carico della Bruzzone avrà vita breve. Non perché non sia fondata l’accusa, la cui fondatezza non mi attiene rilevare, ma per una questione tecnica. I tempi adottati per la fissazione della prima udienza e il fatto che vi è un errore di procedura da parte del Pm (non si è rilevato il possibile reato di calunnia continuato e comunque il reato di atti persecutori, stalking, e quindi si è saltata la fase dell’udienza preliminare) mi porta a pensare che la prescrizione sarà l’ordinario esito della vicenda italica. Comunque un Decreto di Citazione a Giudizio diretto presso un Tribunale Monocratico contiene già di per se il seme del dubbio sul carattere della persona incriminata. Sospetto insinuato proprio da un magistrato e per questo credibile, salvo enunciazione di assoluzione postuma.

A me non interessa la vicenda in sé. Sarà la magistratura, senza condizionamenti, a decidere quale sia la verità. E sarà, comunque, la persona offesa dalla diffamazione in oggetto a dire la sua anche sul comportamento di alcuni organi di stampa citati in querela. Il professionista, noto perché svolge la stessa professione della Bruzzone, non cerca pubblicità, anche se, per amor di verità, è citatissimo sul blog di Roberta Bruzzone. In questa sede una cosa, però, mi preme rilevare. Dove sono tutti quei giornalisti che per la Bruzzone si stracciano le vesti, riportando a piè sospinto su tutti i media ogni sua iniziativa, mentre questa notizia del suo rinvio a giudizio non è stata ripresa da alcuno? Che ciò possa inclinare la sua credibilità e minare l’assunto per il quale Michele Misseri non abbia avuto alcun condizionamento nell’accusare la figlia Sabrina?

Oltre tutto la dr.ssa Bruzzone non ha gli stessi trattamenti di riguardo in Fori giudiziari che non siano Taranto.

A scanso di facili querele si spiega il termine “di riguardo” usato, riportandoci alle dichiarazioni del 19 marzo 2013 fatte dall’avv. di Sabrina Misseri, Franco Coppi: «Come si può definire priva di riscontri la confessione di un uomo che fa trovare il cadavere e il telefonino della vittima?», ha detto ancora Coppi. «Le motivazioni della successiva ritrattazione - ha aggiunto - rivalutano la confessione di Misseri come unica verità. La confessione del 6 ottobre 2010 spiazza i pubblici ministeri che già si erano affezionati alla pista che porta a Sabrina Misseri. Mi chiedo se quel metodo di indagine non sia contrario allo spirito del codice di procedura penale. I mutamenti di versione da parte di Michele avvengono quasi sempre dopo sospensioni di interrogatorio e su richiesta del difensore, anche con qualche aiuto involontario di quest'ultimo». Esempio, ha detto Coppi, l'interrogatorio in carcere di Michele Misseri del 5 novembre 2010, in cui l'agricoltore accusa la figlia Sabrina del delitto, e «al quale non si comprende a quale titolo partecipa la criminologa Roberta Bruzzone quale consulente di parte». «Michele è scaltro - ha aggiunto - e coglie l'occasione per accusare la figlia. C'è stata un'opera di persuasione efficace nei suoi confronti. E poi perché non dice nulla su quello che per gli inquirenti sarebbe il vero movente dell'omicidio, non dice nulla sull'arrivo di Mariangela, sulla moglie, e non basta dire, come fanno i pubblici ministeri, che lui non sapeva nulla perché non era in casa al momento del delitto».

Ecco, quindi, che a proposito dei diversi trattamenti riservati a Roberta Bruzzone si cita Savona. A Savona il tanto atteso colpo a sorpresa della parte civile non è arrivato, scrive “Il Secolo XIX”. Anzi. L’irruzione nel processo per il delitto di Stella della notissima criminologa genovese Roberta Bruzzone, è stato bloccato sul nascere dal giudice delle udienze preliminari Emilio Fois che ha respinto l’istanza del legale di Andrea Macciò, ucciso con un colpo di fucile al cuore il 13 dicembre 2013 da Claudio Tognini, di un incidente probatorio per la verifica dello stato dei luoghi dove si è consumato il dramma. L’obiettivo della parte civile sarebbe stato quello di cercare tracce ematiche nella cucina di Alessio Scardino, il proprietario del fucile che ha sparato e dell’alloggio, per arrivare ad una nuova ricostruzione dei fatti. Se il pubblico ministero Chiara Venturi non si è opposta alla richiesta, ci ha pensato il giudice a rigettarla.

 Vittima di stalking denuncia la criminologa Bruzzone. Marzia Schenetti, parte offesa a processo contro l'ex fidanzato, si è sentita diffamata da una lettera della nota criminologa ora agli atti della causa di Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Due donne contro, di cui una a dir poco famosa visto che è spesso ospite di Bruno Vespa nel suo programma televisivo “Porta a porta”. Stiamo parlando della criminologa 41enne Roberta Bruzzone che, a partire da febbraio, dovrà affrontare un processo (davanti al giudice di pace) per diffamazione, visto che è stata denunciata dall’imprenditrice toanese 48enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l’ex fidanzato Rodolfo “Rudy” Marconi che accusa di stalking. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell’udienza del 17 maggio 2013 che “esplode” questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all’Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E’ in quest’ambito che fra le due nascono delle frizioni, talmente poco edificanti da finire a carte bollate. In questo clima avvelenato “piomba” – nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking – una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo il capo d’imputazione in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano che viene definita “soggetto alquanto discutibile che ha mostrato, in una serie innumerevole di occasioni, la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze al solo scopo di danneggiare le persone verso cui nutre rancore”. Giudizi sulla Schenetti che diventano vere e proprie rasoiate: “Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato e complesso come la violenza sulle donne e sui minori, persona con problematiche personologiche incline a distorcere e mistificare la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettative di fama, successo e arricchimento personale o che, come nel caso della scrivente – rimarca la criminologa – avevano la colpa di metterla in secondo piano». Con l’ultimo deciso affondo: “Persone come la Schenetti rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza e che il Marconi è stato raggiunto da una serie di false accuse, costruite a tavolino allo scopo di poter permettere alla presunta vittima di sfruttare biecamente la sua condizione ed ottenere così visibilità mediatica”. La Schenetti, tramite l’avvocatessa Enrica Sassi, ha denunciato per diffamazione la criminologa e di recente il giudice di pace ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, fissando le date del processo. «In realtà la diffamata sono io – replica la nota criminologa – e ho denunciato la Schenetti in procura a Roma. Testimonierò nel processo e, atti alla mano, spiegherò come stanno veramente le cose. Quella lettera è il mio pensiero e ritengo di avere agito in buona fede».

La criminologa tv finisce a processo. Roberta Bruzzone imputata per diffamazione. Tra i testimoni anche il generale Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Lei: «La vera vittima sono io» di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. Dalle poltrone bianche di Bruno Vespa, alle aule del tribunale di Reggio. Roberta Bruzzone, 41 anni, la fascinosa criminologa forense, si trova ora catapultata nella prospettiva opposta: imputata per diffamazione nei confronti di una reggiana, presunta vittima di stalking. Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking, e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi, poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. Per questo è accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone — si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due donne, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Nella missiva, infatti, il personaggio tv ribadiva come la parte civile di quel processo fosse «incline a distorcere la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettavate di fama, successo e arricchimento personale». Non solo. Avrebbe anche aggiunto, nero su bianco, che i soggetti come lei «rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza». L’ipotesi di reato, dunque, è diffamazione. Il giudice di pace, mercoledì, ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, Emanuele Florindi, e ha fissato le date delle prossime udienze: 4, 11, 18 e 25 febbraio. Tra i testimoni della parte offesa, c’è poi un altro personaggio di spicco: il generale in congedo Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Ma la Bruzzone, combattiva più che mai, si difende: «Si tratta di un ricorso diretto al giudice di pace che non ha avuto nemmeno il vaglio del pm — incalza —. Lei mi accusa in maniera falsa e infondata ed è stata a sua volta querelata da me. Quella lettera era stata mandata in virtù di consulente esperta, chiamata dal suo avvocato. Da sempre porto avanti una battaglia contro le finte vittime di stalking e questo mi pare uno di quei casi». Promette, anche, che arriverà qui, a spiegare le sue ragioni: «Io verrò a Reggio e sarò sottoposta a esame, come ho richiesto: intendo dimostrare a tutti chi è questa donna: una persona a caccia di visibilità, che non ha ottenuto in altro modi». Una prima udienza davanti al giudice di pace di Reggio Emilia piena di tensioni, perché la nota criminologa 42enne Roberta Bruzzone ha subito inteso replicare per le rime all’accusa per diffamazione mossagli dall’imprenditrice toanese 49enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l'ex fidanzato Rodolfo "Rudy" Marconi che accusa di stalking, scrive Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell'udienza del 17 maggio 2013 che "esplode" questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all'Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E' in quest'ambito che fra le due nascono delle frizioni, poi "piomba" - nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking - una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo la procura in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano, da qui la denuncia ora sfociata nel processo. Ieri la criminologa ha dato battaglia solo davanti ai cronisti (verrà sentita in aula più avanti): «La Schenetti ha un problema di visibilità – dice la Bruzzone – che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile e io non mi fermerò davanti a niente, procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei. Io non credo che sia una vittima e continuerò a ripeterlo in ogni sede». L'imprenditrice – costituitesi parte civile tramite l’avvocatessa Enrica Sassi – è sta sentita in udienza: «Per me quella lettera fu una violenza tremenda, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me». Tanti i nervi scoperti e siamo solo alla prima “puntata”...

Tacchi alti, vestita di nero, trucco impeccabile e capello fluente, scrive di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. È iniziato così, non senza momenti di tensione e brusii di chi la vedeva nei corridoi, il processo per diffamazione che vede imputata Roberta Bruzzone, 42 anni, la fascinosa criminologa forense habituée delle poltrone bianche di Bruno Vespa, a Porta a Porta. Ad accusarla è una donna reggiana, presunta vittima di persecuzioni (non ne riveliamo l’identità per proteggere la sua privacy). Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi (l’imputato), poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. La Bruzzone è dunque accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone – si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi (che rappresenta la parte offesa) e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Ieri la prima udienza, davanti al giudice di pace, con la testimonianza della presunta vittima. «Quella lettera per me fu una violenza tremenda – ha detto –. Non fu altro che un insieme di diffamazioni e calunnie, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Mi sono sentita colpita da una donna che si intrometteva con violenza in un procedimento di violenza che io stessa avevo subito». E ha aggiunto: «Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me. Ci siamo sentite una volta al telefono quando è entrata nell’associazione di cui io sono presidente e la Bruzzone mi ha detto di essere stata anche lei vittima di stalking. Io invece non le ho mai parlato della mia vicenda personale. Avrei voluto, ma non ne ho avuto il tempo. Poi ci siamo viste una volta a luglio del 2012 a Sinai (in provincia di Cagliari) durante un’iniziativa contro la violenza alle donne, in cui lei ha colto l’occasione per presentare il suo libro, senza citare la nostra associazione. Al termine del convegno le abbiamo chiesto di uscirne e lei lo ha fatto il giorno dopo». La Bruzzone, però, non ci sta. E a margine dell’udienza, chiosa: «Quella donna ha un problema di visibilità che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile. Io non mi fermerò davanti a niente e procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa che dirà contro di me. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei». Tutto rimandato alla settimana prossima, per i testimoni di parte civile.

Prossimamente scopriremo che credibilità ha Roberta Bruzzone, finta vittima di stalking che presto verrà processata... e non solo perché denunciata da un ufficiale di Polizia, scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando Contro Vento”. Non ho mai amato i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure amo quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire. Per questo preferisco contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa. Come me tanti altri si formano una propria idea in maniera autonoma, senza ascoltare i vari gossippari che si mostrano in video per convenienza professionale... quando non hanno un contratto a pagamento. Ma non tutti resistono alla tentazione, per cui c'è chi questi programmi li guarda. Addirittura c'è anche chi li ascolta e si infastidisce per le parole che sente. Ad esempio, giorni fa mi hanno informato di alcune frasi pronunciate in maniera troppo leggera e spensierata nella puntata di Porta a Porta trasmessa martedì 20 gennaio 2015. A pronunciarle il magistrato Simonetta Matone. Simonetta Matone in televisione non va con la toga da magistrato. Per cui figura essere un'opinionista con molta esperienza giuridica. Lei martedì 20 gennaio, forse non pensando al dopo, ha paragonato i gruppi facebook creati a favore degli imputati ai fanatici che inneggiano e osannano i terroristi, nel caso specifico a chi ha ucciso i giornalisti di Charlie Hebdo e tanti altri francesi. Quella parte della puntata trattava l'omicidio di Loris Stival, quindi i gruppi a cui si riferiva sono certamente quelli che sostengono "Veronica Panarello". Non contenta, ha reiterato il reato verbale facendo credere ai telespettatori che chi aderisce ai gruppi innocentisti e critica le indagini, su internet scrive a vanvera e senza sapere nulla perché degli atti non ha letto neppure una riga. Probabile che non se ne sia resa conto, ma ha praticamente affermato che nessuno ha il diritto di criticare i magistrati perché questi sono "unici, bravi belli e infallibili". Ora c'è da dire che, pur essendosi ritagliata un'enorme visibilità mediatica partecipando da tanti anni al programma presentato da Bruno Vespa, nella vita privata è un magistrato che lavora al ministero di Grazia e Giustizia. E dai dati si capisce il probabile motivo per cui difende i magistrati. Ma c'è anche da dire che in questi anni trascorsi di fronte alle telecamere, lei prima di tutti ha dato giudizi senza aver letto neppure una riga, seppur cercando di restare neutrale chiarendo ogni volta il punto, sui casi di cronaca nera trattati da Porta a Porta. E fa specie che si permetta di giudicare in pubblico chi ha democraticamente il suo stesso diritto di parlare ed esternare la propria idea. La speranza è che a mente fredda abbia compreso di avere un tantino esagerato e magari chieda scusa a chi non è d'accordo col pensiero di alcuni magistrati, a chi si è sentito chiamato in causa anche se critica in maniera civile e dopo essersi informato al meglio (naturalmente non deve scuse a chi i magistrati li offende). Questo perché non tutti i magistrati sono infallibili. D'altronde le richieste di risarcimento a causa di errori giudiziari, in Italia sono quasi tremila ogni anno, stanno a dimostrare la non infallibilità della giustizia. In ogni caso, a parte la svista di cui sopra, le opinioni di Simonetta Matone si possono accettare perché ha un passato davvero encomiabile e in materia giuridica è senz'altro molto ferrata. Meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai? Su quest'ultimo punto vedremo se sarà dello stesso avviso dopo i diversi processi che la attendono da qui in avanti. Ad esempio, il 15 dicembre 2015 dovrà presentarsi al tribunale di Tivoli per rispondere del reato previsto dall'articolo 595 - comma tre - del codice penale per aver messo in atto, con più azioni consecutive, un disegno criminoso fatto di calunnie e offese atte a colpire un ufficiale di Polizia. Udienza conclusa con un decreto di citazione diretta in giudizio di fronte al giudice monocratico di Tivoli il giorno 3 ottobre 2016. Proc. N. 5860/2011 RGNT mod. 21. Infatti le accuse di stalking presentate dalla Bruzzone contro un ufficiale di Polizia col quale aveva avuto una relazione fra il 2004 e il 2005, addirittura una ventina di denunce dal 2009 al 2014, si sono rivelate tutte infondate. Mentre le interviste rilasciate sulla vicenda dalla opinionista di Porta a Porta, in cui non lesinava particolari sul comportamento malato, parole sue, di chi la perseguitava (ma ora grazie ai magistrati sappiamo che nessuno in realtà la perseguitava), sono tuttora impresse negli archivi delle testate giornalistiche nazionali (Corriere della Sera in primis), su internet e in televisione, sulle registrazioni di Porta a Porta e di Uno Mattina. Insomma, chi la fa l'aspetti - verrebbe da pensare - perché la vita a volte può riservare sorprese. E la Bruzzone di sorprese ne avrà una in più, perché, dato che è ambasciatrice di Telefono Rosa, un'associazione che aiuta le donne vittime di violenza, e viste le denunce per stalking da lei presentate e rivelatesi infondate, in tribunale si troverà di fronte anche alcune associazioni in difesa della donna che hanno deciso di costituirsi parte civile perché "l'utilizzo strumentale" della denuncia per un reato grave come lo stalking contribuisce a rendere meno credibili le donne che subiscono realmente una violenza. Ma non è l'unica bega che la Bruzzone dovrà affrontare in tribunale, visto che è indagata anche dalla Procura di Reggio Emilia per un reato simile ( così come su riportato da di Benedetta Salsi su “Il resto del Carlino” e Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. La moglie di un vero stalker, oggi ancora nei guai perché accusato di truffa da un'altra sua ex, si è sentita descrivere dalla Bruzzone quale finta vittima incline a distorcere la realtà (in pratica ha difeso lo stalker poi condannato). In questo caso le date del processo sono ancora più vicine nel tempo (le udienze sono fissate per il 4 - 11 - 18 e 25 febbraio 2015). Altra bega, che risale al 2012 e che presto verrà dipanata dai giudici, è una citazione civile che riguarda lei ed alcuni suoi collaboratori (promossa  dall’associazione Donne per la Sicurezza. Lei e loro su Facebook, con frasi razziste, (secondo quanto riporta il sito dell’associazione: “Mmmmm..   quanto costa affittare una russa per fare qualche foto e far finta di avere una vita ???? troppo divertenteeeee…” oppure   ““ ..ci vuole stomaco per stare con un pezzo di merda così anche se solo per sghei e solo per 5 minuti…STRANO MA VEROOO”),  hanno insultato per lungo tempo sia la modella di origine russa Natalia Murashkina, moglie del poliziotto che nel contempo la Bruzzone denunciava ingiustamente, sia le ragazze russe trattate come donne che si vendono a poco prezzo. Di questa vicenda si interessò alla fine del 2012 anche "La Pravda", un giornale russo letto da oltre cento milioni di persone. Senza parlare delle accuse mosse contro di lei da Michele Misseri, che afferma di essere stato convinto dalla Bruzzone ad inserire nel delitto di Sarah Scazzi la figlia Sabrina (con prospettive davvero vantaggiose), affermazioni che se provate le costerebbero una condanna rilevante e la carriera, ciò che ancora nessuno ha capito, e immagino che al tribunale di Tivoli si cercherà anche di chiarire questo punto, è il motivo per cui la Bruzzone abbia innestato un movimento di denunce rivelatesi infondate condite da interviste mediaticamente rilevanti ma alla luce dei fatti false. O tutti ce l'hanno con lei, e francamente è difficile da credere, o è lei ad avere motivi che l'hanno spinta a screditare l'ufficiale di polizia e le altre persone. Che dietro ci sia qualcosa di importante? Su questo punto troviamo il dato certo che il poliziotto da lei accusato, nel 2009 - anno delle prime denunce di stalking - aveva avviato una campagna politico-sindacale per ridurre gli sprechi della pubblica amministrazione. In pratica, aveva proposto di far acquistare i prodotti per le investigazioni scientifiche (alle forze di polizia) direttamente in America risparmiando così milioni di dollari di tasse e, soprattutto, di spese di mediazione ad aziende di import export.

Questo è l’articolo di riferimento. Csi all'italiana: paghiamo il doppio degli altri la polvere per le impronte digitali. La denuncia del sindacato di polizia: la Scientifica è costretta a risparmiare sulle indagini. La colpa è dei mediatori che fanno raddoppiare il costo delle attrezzature made in Usa, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Ci vuole preparazione scientifica, occhio addestrato, pazienza: ma l'analisi scientifica della scena di un crimine si basa anche sull'utilizzo di materiale tecnico avanzato e costoso. Chi non è rimasto allibito nel vedere in televisione la prontezza con cui i tecnici della Csi, la polizia scientifica statunitense, sfoderano ogni genere di diavolerie hit-tech? Non che le forze di polizia italiane abbiano granchè da invidiare a quelle a stelle e strisce, quanto a preparazione. Ma l'abbondanza di mezzi è una delle caratteristiche che, in questo e in altri campi, ci separa irrimediabilmente dall'America. E, secondo la denuncia del sindacato di polizia Consap, la situazione negli ultimi tempi si è ulteriormente aggravata. La carenza di mezzi è diventata cronica, al punto che spesso e volentieri - in particolare sulla scena di reati considerati «minori», come i furti in appartamento - la polizia evita di compiere tutti i rilievi necessari perchè l'ordine è quello di risparmiare su tutto: compresa la polverina necessaria a rilevare le impronte digitali. Colpa della crisi economica, sicuramente. Ma anche di una anomalia tutta italiana: la polvere per le impronte è di produzione Usa, tutte le polizie la comprano direttamente dai produttori oltreoceano, mentre la polizia italiana passa - chissà perchè - attraverso una società di mediazione. Il risultato, sostiene il Consap, è che paghiamo il prodotto il doppio degli altri. «Prodotti, come ad esempio le polveri per rilevare le impronte digitali o il famoso luminol per la ricerca del sangue umano, hanno costi abbastanza elevati e vengono prodotti da poche ditte al mondo. In particolare la Polizia di Stato e le altre forze di polizia italiane utilizzano in larga parte prodotti della Sirchie, azienda americana leader del mercato per qualità e affidabilità dei materiali commercializzati. In questo periodo di profonda crisi economica, i tagli di bilancio, oltre che a congelare gli stipendi dei poliziotti, stanno riducendo la possibilità di acquisire una quantità sufficiente di tali sostanze e di fatto i reparti specializzati di investigazioni scientifiche devono limitare il loro impiego solo ai casi più eclatanti, in pratica solo gli omicidi e qualche rapina. Sempre più spesso i cittadini che hanno subito reati definiti minori, come furti, danneggiamenti, non ricevono un intervento adeguato da parte degli investigatori che non dispongono di attrezzature sufficienti e che spesso sopperiscono, per amor proprio, con materiali acquistati di tasca loro o con mezzi di fortuna che poi spesso vengono contestati in sede di processo. La Consap, che da più di un anno sta monitorando e analizzando questo problema, ha potuto constatare che i prodotti per criminalistica non vengono acquistati dall'Amministrazione direttamente dall'azienda produttrice ma da una ditta concessionaria italiana. In pratica la Polizia di Stato paga i materiali da utilizzare sulla scena del crimine circa il doppio del loro prezzo di catalogo. Il problema è stato da tempo posto all'attenzione degli esperti di settore e di alcuni politici. E si è subito avuta la sensazione di aver toccato degli interessi economici rilevanti». Uno «spreco ingiustificato, che si ripercuote in maniera drammatica sulla sicurezza e sulla possibilità di ottenere giustizia da parte del cittadino».

E ciò che pare strano, è che la Bruzzone collabora con le aziende che controllano la maggioranza delle forniture di prodotti alle forze di polizia (la Sirchie e la Raset). C'è da chiedersi se non voglia dire nulla la sua presenza nel video pubblicitario presente sulla pagina "Chi siamo" del sito internet della Sirchie.

In seguito a questo articolo ci sono stati degli sviluppi.

"Alla dottoressa Roberta Bruzzone non piace la critica e con una strana Diffida mi inviata a pagarle 250.000 euro e a darle il nome di chi mi informa..., - scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando-Controvento”. . E' capitato anche a me. Come altri in questi anni anch'io ho ricevuto la Diffida dalla dottoressa Roberta Bruzzone. Una diffida strana in cui mi invita a pagarle - inviandoli allo studio del suo avvocato – ben 250.000 euro quale risarcimento per i gravissimi danni di immagine provocati da ciò che ho scritto in un articolo, in questo articolo, in cui, visto quanto aveva affermato a Porta a Porta, l'ho criticata. Articolo che ho completato con le notizie su una serie di processi in cui dovrà difendersi. Alla fine, dopo aver notato alcune stranezze, ho anche posto una domanda lecita che si sarebbe sciolta in acqua con una semplice e veloce risposta plausibile. Invece mi è arrivata una diffida. Strana. Ora, prima di entrare nel dettaglio e contestare pubblicamente tutte le parole del legale della Bruzzone, voglio premettere che la nostra legge è chiara e che per fare una diffida ci vogliono motivi validi. Motivi che non esistono se chi informa scrive notizie vere usando parole non offensive senza entrare nella sfera privata del personaggio di cui parla. Quindi, per quanto riguarda il diritto di cronaca si devono usare certe accortezze e ci si deve informare in maniera esaustiva. Qualcosa cambia quando chi scrive esercita il diritto di critica. Naturalmente non si può criticare un pinco pallino qualunque in un articolo destinato a più persone, specialmente se il pinco pallino a livello nazionale non lo conosce nessuno e vive e agisce in un ambiente ristretto. Al contrario, però, si può criticare quanto dice chi nel tempo è diventato un personaggio pubblico e in pubblico, o in programmi seguiti da milioni di telespettatori, esprime proprie opinioni e concetti. Concetti e opinioni che non tutti debbono per forza condividere e proprio per questo si possono criticare, perché - come ha stabilito anche il tribunale di Roma già nel 1992 - chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica. Dopo questa obbligatoria premessa, mi addentro nella diffida inviatami dal legale della dottoressa Bruzzone, avvocato Emanuele Florindi, per dimostrare quanto sia strana, assurda e priva di ogni fondamento. Il legale inizia col dire che nell'articolo ho scritto un numero impressionante di falsità. E non appena ho letto questa frase mi è spuntato un sorriso venendomi alla mente la storia del bue che chiamava cornuto l'asino. Questa la prima parte della diffida: Dott.ssa Roberta Bruzzone Vs Massimo Prati. <Gentile Sig. Prati, formulo la presente in nome e per conto della Dott.ssa Roberta Bruzzone, in relazione all'articolo da lei pubblicato su volandocontrovento.blogspot.it, per contestarne integralmente toni e contenuti. Nello specifico, non soltanto il suo articolo contiene un numero impressionante di falsità e di imprecisioni, ma risulta anche essere singolarmente contraddittorio: è davvero strano, infatti, che, mentre nelle prime righe del suo articolo Lei affermi di non amare "i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure [...] quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire", poi si presti a fare esattamente la stessa cosa mescolando artatamente giuste informazioni, velate menzogne e subdole insinuazioni volte a creare pregiudizio alla mia Assistita. Non mi risulta neppure che Lei abbia provveduto a "contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa", dato che ha proceduto a pubblicare il suo articolo basandosi su fonti unilaterali... a tal proposito, saremmo piuttosto interessati a conoscere l'identità di tali fonti, visto che sembrerebbero aver concorso con Lei ad un trattamento illecito di dati personali e di dati giudiziari il che, per un paladino dei diritti dell'imputato quale Lei si presenta, appare piuttosto singolare. Basandosi su tali "fonti" Lei ha, infatti, redatto un articolo falso, diffamatorio e gratuitamente offensivo nei confronti della mia Assistita, da Lei presentata come faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare e falsificare la realtà e collusa con le aziende che controllano le forniture di prodotti alle forze di polizia.> Alla faccia! Sarò mica malato a scrivere le cotante robacce notate dal legale...Non sono malato, non necessito di cure e quindi, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali rispondo punto per punto perché mi sono accorto che né la dottoressa né il suo avvocato paiono aver capito un articolo non diffamatorio in cui non ho assolutamente presentato Roberta Bruzzone quale persona faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare, a falsificare la realtà e collusa. E mi chiedo con quale spirito e pensiero l'abbiano letto. Partiamo dall'inizio. E' vero che non amo quelle trasmissioni in cui gli opinionisti sono chiaramente ostili alle difese e danno per certo quanto trapela dalle procure. Mi piace l'imparzialità e non credo che trasmissioni "unilaterali" siano da mandare in onda. E' vero che per scrivere sui fatti di cronaca nera non mi baso su quanto scrivono quei media e quei "gossippari" che diffondono notizie che a posteriori si rivelano inutili e tendenziose. Gli esempi sono migliaia. E' vero che le mie fonti principali sono le stesse dei giornalisti: avvocati, indagati, i loro familiari e anche periti e inquirenti. E' vero che per non lasciarmi influenzare dai pregiudizi baso i miei scritti soprattutto sugli atti ufficiali, che leggo più volte per non travisarli, e sulla logica. Mi sembra il minimo da fare quando si vuol scrivere di cronaca nera in maniera corretta e di un indagato, magari in custodia cautelare in carcere, che si dichiara innocente e rischia l'ergastolo. Detto questo, non credo sia difficile comprendere che l'inciso inserito a inizio articolo era generico e riferito ai casi di cronaca nera e non alla dottoressa Bruzzone. Infatti è quando scrivo di cronaca nera che contatto chi è parte della notizia. Quindi nessuna falsità inserita nella premessa dell'articolo, che era solo una premessa, per l'appunto, e nulla c'entra con quanto ho poi scritto sulla dottoressa che, a meno non commetta un omicidio (o non ne confessi uno già commesso) o non venga carcerata ingiustamente, al momento non è parte di alcun caso di cronaca nera. Detto anche che per scrivere di processi che devono ancora iniziare non si necessita di "fonti" particolari, se la notizia è vera, se l'udienza è fissata e se il capo d'accusa esiste che fonte serve?, mi chiedo per quale motivo dovrei divulgare le identità di chi mi informa e, soprattutto, perché dovrei farle conoscere all'avvocato Florindi. Un motivo lecito e valido non esiste. Inoltre, nessun trattamento illecito dei dati personali si può rilevare quando si parla di atti processuali non secretati riguardanti i maggiorenni (non sono io che divulga quanto è secretato dalle procure), dato che sono atti pubblici a disposizione di chiunque ne faccia richiesta. Come non esiste nessun trattamento illecito sulla privacy se si vengono a conoscere notizie sui personaggi pubblici parlando del più e del meno in un bar con un magistrato, un cancelliere o un avvocato che frequenta quel dato tribunale. Perché, vista la dimensione mediatica della dottoressa Bruzzone, vale sempre il dettame dei giudici. Loro e non io hanno stabilito che chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla propria dimensione pubblica. Per cui, pare proprio che nella premessa di falsità non ne abbia scritte. E per continuare a confutare la diffida inviatami, ci sarebbe da chiedersi da quale esternazione, presente nei quasi novecento articoli da me scritti e presenti sul blog, l'avvocato abbia capito che io sono "un paladino dei diritti dell'imputato". Mai ho scritto di essere un paladino e mai che difendo tutti gli imputati. Difendo i diritti di alcuni, questo è vero, ma lo faccio quando sono lesi in maniera per me evidente. Per cui, tanto per esemplificare e far capire meglio, critico i procuratori e i giudici quando un indagato che si dichiara innocente viene spedito in carcere ancor prima di indagini approfondite o di riscontri che provino le accuse formulate da terzi. Basti pensare a Sabrina Misseri (in custodia cautelare da quattro anni e mezzo) che nel volgere di poche ore finì in galera senza alcuna verifica sulle parole del padre - che quel 15 ottobre 2010 non era nelle migliori condizioni fisiche e mentali - e che ora è in carcere per motivi assai diversi da quelli che si sono usati per carcerarla. Forse l'avvocato Florindi neppure sa che Michele Misseri fu svegliato a notte fonda e portato ad Avetrana dalle guardie penitenziarie che lo presero in custodia quando ancora era buio pesto. Tanto che una volta giunte al paese furono costrette a "nascondersi", con l'imputato in auto, fra la vegetazione di contrada Urmo in attesa dell'arrivo dei procuratori. Questa è una notizia inedita, mai uscita sui media, e dimostra che mi informo nei modi giusti e nei luoghi giusti senza cercare lo scoop a tutti i costi. In pratica dovrebbe far capire, anche all'avvocato, che non sono uno dei tanti che copia-incolla per avere un maggior numero di entrate e guadagnare mostrando improvvisamente uno spot pubblicitario. Inoltre non scrivo articoli a favore di chiunque sia indagato, perché gli assassini veri li vorrei vedere in carcere per la vita... anche i reo-confessi se autori di delitti efferati. Per questo critico la legge che permette a chi confessa di ottenere troppi benefici e di uscire dal carcere in tempi rapidi. Ma la dottoressa Bruzzone, nonostante i processi che la attendono, non è in carcere e nemmeno ci andrà mai. Lei è libera di esternare le sue convinzioni in televisione e di andare dove vuole. Nessuno, giustamente, ha limitato la sua libertà. Quindi nessun suo diritto è da difendere. Stia pur certo l'avvocato che se venisse spedita in carcere prima ancora di essere indagata nella giusta maniera, che se contro di lei i gossippari parlassero solo in base a chi accusa, sarei io il primo a difenderla e a criticare i media per la mancanza di etica e professionalità. E ancora: in quale passaggio dell'articolo avrei descritto la dottoressa faziosa, forcaiola e quant'altro? Io, dopo aver criticato la dottoressa Simonetta Matone per aver paragonato chi scrive su facebook, nel particolare si parlava dei siti innocentisti che credono a Veronica Panarello, a chi incita i terroristi (citando Charlie Hebdo), scrissi: "meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai?" Dove sarebbero le falsità, visto che la dottoressa si contrappone chiaramente a chi cerca di difendere Veronica Panarello e lo dice apertamente al dottor Vespa, allo stesso avvocato Villardita e ai telespettatori? Se è vero, come è vero, che Veronica Panarello deve ancora subire il primo processo e si dichiara innocente, dire di fronte a milioni di persone che si hanno idee diametralmente opposte all'avvocato Villardita, quindi colpevoliste, non significa forse parlare senza imparzialità e, soprattutto, senza considerare la presunzione di innocenza? Non è forse vero che l'opinione della dottoressa è molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori? Vista la sua popolarità credo proprio che questo non si possa negare. Come non si può negare che nelle mie parole non si trovino frasi che sottintendano termini quali: "incompetente" (mai scritta e mai pensata una cosa del genere), "forcaiola" (non c'è nulla nell'articolo che porti a questo termine, visto che viene usato per situazioni molto più gravi), "razzista" (questa parola neppure se ampliamo al massimo il significato entrando sulla Treccani c'entra nulla con quanto ho scritto), "faziosa" (per essere faziosi bisogna sostenere con intransigenza e senza obiettività le proprie tesi, non limitarsi ad esprimere una opinione parlando con toni alti e molto colpevolisti). Non ho quindi scritto alcuna falsità e la mia critica ha basi più che fondate. Anche perché vale sempre la legge che dice: il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca perché nell'articolo non si parla di fatti ma si esprime un giudizio o, più genericamente, un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un'interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti. Ora qui ribadisco che alla luce di quanto ho visto e ascoltato in registrazioni di Porta a Porta, la mia critica era più che obiettiva anche se per legge non necessitava di una obiettività approfondita. Quindi, ancora una volta mi chiedo per quale motivo l'avvocato Florindi mi abbia inviato una diffida. Comunque, tanto per finire, mi addentro anche nell'ultima accusa che mi fa, quella di aver dipinto la sua assistita come una persona propensa a mistificare la realtà e collusa con le aziende che "controllano le forniture alle forze di Polizia" (e tanto per far capire come son fatto, non per altro, mi sono chiesto subito cosa stessero a significare le parole - "controllano le forniture alle forze di Polizia" - scritte dall'avvocato). Nell'articolo mi chiedevo se la dottoressa Bruzzone considererà ancora infallibili i giudici e i procuratori dopo i processi che dovrà affrontare. Specialmente perché il rigetto di tutte le denunce da lei presentate contro un dirigente dell'UGL (Polizia di Stato) la dipingono come una falsa vittima di stalking che ha approfittato della sua posizione parlando ai media di reati mai subiti. E questo sarebbe veramente grave perché contribuirebbe a rendere meno credibili le tante vere vittime di stalking. E' per queste parole che per l'avvocato l'avrei dipinta come persona propensa a mistificare la realtà? Forse l'avvocato dimentica che non sono stato io a rigettare le denunce della dottoressa, ma i magistrati che hanno valutato le indagini partite in seguito a quelle denunce. Io mi sono limitato a riportare la notizia e a far qualche considerazione. Non è quindi a me che deve fare accuse, ma a chi ha svolto le indagini e a chi le ha valutate prima di rigettarle. Comunque, proprio a causa di quei rigetti mi chiedevo il motivo per cui, a partire dal 2009 (anno in cui uscì da una associazione di criminologi di cui il dirigente dell'UGL era presidente) avesse presentato una ventina di denunce, quelle poi rigettate, nei confronti del presidente stesso. E qui mi ero fermato. Ma dato che ora ne sto scrivendo, amplio l'informazione dicendo che le denunce coinvolsero altri membri del consiglio direttivo dell'associazione di cui fino a poco tempo prima lei stessa faceva parte. E che iniziò a presentarle dopo le richieste di spiegazioni su questioni economiche che la stessa associazione le poneva. Insomma, pur senza entrare nei dettagli, nell'articolo ponevo una domanda lecita a cui si poteva rispondere in maniera chiara così che, in maniera altrettanto chiara, avrei inserito la risposta a capo articolo dando spazio a una replica. Non era così complicato da fare. Anche perché nell'articolo di cui si discute non ho calcato la mano preferendo restar fuori da vicende ben più complesse che l'avvocato di certo conosce. Ma proseguiamo con la parte della diffida in cui è scritto: Se Lei, comportandosi da interlocutore corretto e scrupoloso ci avesse contattato, avremmo potuto produrLe pagine di osservazioni atte a smentire le informazioni in Suo possesso, dimostrando, ad esempio, che l'azione civile della sig.ra Natalia Murashkina (tra l'altro neppure Russa!) è pretestuosa, infondata e priva di riscontri (ci basti qui osservare che la pagina contestata risulta creata in data successiva ai fatti)... Mi fermo un attimo per un chiarimento e per dimostrare non che l'avvocato è male informato quando afferma che Natalia Murashkina non è neppure russa, perché pur se nata fuori dai confini è a tutti gli effetti russa e lui lo sa, ma per dirgli che gli sarà molto difficile convincere un giudice che non è reato scrivere parolacce e brutte offese su una donna russa nata fuori dai confini russi, mentre lo è scriverle su una donna russa nata a Mosca. Oltretutto l'avvocato sa per certo che in Russia i passaporti distinguono la nazionalità dalla cittadinanza. Motivo per cui si può essere di nazionalità russa anche se nati occasionalmente in altra nazione. In ogni caso, non erano né l'avvocato né la dottoressa che dovevo contattare per scrivere quelle quattro righe che riguardavano la vicenda di Natalia Murashkina, visto che al massimo avrebbero potuto fare una arringa difensiva (quella va indirizzata a un giudice e non a me) e non produrmi atti giudiziari in grado di contrastare il fatto che gli insulti, per il magistrato che porta avanti la causa ci furono. E a questo proposito oggi aggiungo una postilla che avevo evitato di inserire. Una informazione che potevo dare e non ho dato. E cioè che La Pravda nel suo articolo parlò di offese scritte anche da alcuni collaboratori della dottoressa. Particolare che avevo evitato di sottolineare perché mi pare non credibile (però ho chiesto e non risulta che la Pravda abbia ricevuto alcuna diffida), ma che oggi aggiungo per far capire quanto avessi scritto in maniera soft senza appesantire situazioni che invece paiono pesanti. A processo la pagina facebook risulterà essere successiva ai fatti? Meglio per la dottoressa e peggio per la Murashkina, che quando perderà la causa criticherò aspramente per aver denunciato il falso. Qui colgo l'occasione per aggiornare in maniera migliore la notizia e dire che la causa civile intentata da Natalia Murashkina è stata rigettata per vizio di forma. Non per altro. Naturalmente verrà ripresentata in appello senza alcun vizio. E naturalmente questo non inficia il procedimento penale - che si occupa degli stessi reati e ha un iter diverso - che continua per la sua strada. Andando avanti nella diffida si legge che il processo di Reggio Emilia ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile visto che dal dibattimento stanno emergendo dati ed informazioni in grado di confermare quando affermato dalla dott.ssa Bruzzone nel corso del processo a carico del presunto stalker (a proposito, lei non sosteneva a spada tratta la presunzione di innocenza?) che non risulta ancora condannato...No avvocato, non è proprio così che sta andando. Giusto per aggiornare anche questa notizia, le confermo che il processo di Reggio Emilia - in cui la dottoressa risponde di diffamazione - nella prossima udienza, fissata a maggio, vedrà sul banco dei testimoni - citati dal pubblico ministero - sia il Generale Luciano Garofano che lo stesso dirigente dell'UGL denunciato più volte dalla sua assistita. Inoltre, sempre in quel di Reggio Emilia, a causa di quanto la dottoressa ha dichiarato ai giornalisti all'uscita dall'aula dopo le prime udienze c'è la possibilità, neppure tanto remota, che si apra un secondo processo. Vedremo presto se ho sbagliato la diagnosi. In ogni caso il processo di Reggio Emilia non ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile, come ha scritto, e il signore che chiama presunto stalker è persona nota e prima della vicenda che ha visto coinvolta la dottoressa era già stato condannato sia per truffa (condanna definitiva) che per stalking (nel 2012 il pubblico ministero nella sua arringa lo definì uno "stalker seriale" e il giudice confermò le sue parole condannandolo). Motivo per cui, in questo caso la presunzione di innocenza, per come la vedo, poco c'entra. E ancora ha scritto che il processo di Tivoli del 15 dicembre 2015 viene atteso con ansia e trepidazione della nostra Assistita visto che in quella sede avrà finalmente modo di provare, innanzi ad un Giudice la fondatezza delle sue accuse... Per quanto riguarda Tivoli, non vedo l'ora di sentire cosa dirà la sua assistita al giudice e come risponderà alle domande. Mi auguro che abbia una spiegazione plausibile e delle prove a discolpa certe che la aiutino a non subire una condanna e a dimostrare di essere una vera vittima di stalking. Così che io possa poi criticare e chiedere una condanna per lo stalker, che al momento non esiste, e per i magistrati che non l'hanno fin qui creduta. Inoltre ha anche scritto: In merito a Michele Misseri, le avremmo spiegato che attualmente questo signore è sotto processo proprio per quelle famose affermazioni...Michele Misseri, come avrà capito, lo conosco e conosco anche le accuse da lui mosse contro la sua assistita. So che il processo ha già subito dei rinvii e che a maggio è in programma l'ennesima prima udienza. Quindi nessuno sul punto mi doveva spiegare nulla perché conosco perfettamente entrambe le posizioni. Inoltre nell'articolo mi sono limitato alla considerazione che se se alla dottoressa "andrà male" la sua carriera sarà finita. Questo perché è sempre possibile, almeno in ipotesi, che un processo si possa perdere. E continua scrivendo: mentre in relazione all'accusa di collusione con le aziende che forniscono materiali alle nostre Forze di Polizia... definire questa "notizia" ridicola è decisamente utilizzare un eufemismo. Mi scusi avvocato, ma quando mai ho parlato di collusione? Fare accuse di collusione significa affermare che un determinato accordo c'è stato sicuramente. Io invece ho semplicemente messo in relazione fra loro eventi verificabili da chiunque e notando una stranezza ho posto una domanda a cui bastava dare risposta. Scrivere che la "notizia" è ridicola non è dare una risposta, è aggirare l'ostacolo che non si vuole saltare. La mia domanda, posta a un personaggio pubblico, era lecita perché la cronistoria ci dice che la relazione fra la dottoressa e il dirigente della Polizia durò pochissimo e finì nel lontano duemilacinque. Che la sua assistita continuò la collaborazione con l'associazione di criminologi per altri quattro anni, fino al duemilanove quando si interruppe in maniera non amichevole. Che il presidente della stessa associazione - intervistato da Luca Fazzo nel 2011 - denunciò le enormi spese sostenute dal ministero e spiegò quanto fosse economicamente vantaggioso acquistare il materiale per le indagini direttamente in America e non dagli intermediari. La domanda che posi nell'articolo nacque da una serie di considerazioni. Nel duemilanove la dottoressa Bruzzone fondò l'associazione culturale A.I.S.F. (Accademia Internazionale Scienze Forensi), una organizzazione "non profit" - questo è da dire - che da statuto non dà dividendi ai soci. Una associazione che tra i suoi partner allinea l'azienda che produce e vende i prodotti alla Polizia e quella che ha l'esclusiva per l'Italia di tali prodotti. A questo si aggiungono due fatti certi: sia che la dottoressa ha partecipato al video pubblicitario dell'azienda produttrice, video presente sul sito internet dell'azienda e su You Tube (se lo ha fatto per amicizia bastava scriverlo senza pensar male delle mie parole), sia che le denunce di stalking, quelle rigettate, furono presentate a partire dal 2009 contro chi dapprima le chiedeva conto del denaro speso mentre collaborava con l'associazione di criminologi e dopo si era attivato in prima persona per cercare di far acquistare i prodotti direttamente dall'America senza pagare intermediari. Avvocato, lei sa che nell'articolo non ho scritto la parola "collusione" e sono rimasto soft non inserendo tante altre domande lecite che mi frullavano per la testa. Domande che in questa risposta pubblica inserisco per farle capire quale altro modo uso per informarmi. Ad esempio, nell'articolo in questione mi limitai e non chiesi se il dottor Bruno Vespa conosce il sito della A.I.S.F. ed è al corrente che ogni volta che presenta la dottoressa Bruzzone di riflesso pubblicizza, a titolo gratuito sulla principale televisione di stato, non solo l'organizzazione "no profit" di cui la dottoressa è presidente - la A.I.S.F. - ma anche un'azienda privata. Essendo l'associazione culturale una "non profit" la pubblicità gratuita è sicuramente lecita. Perlomeno credo fosse certamente lecita fin quando l'associazione nel suo sito internet non ha riportato l'IBAN (cioè un'utenza bancaria su cui fare bonifici) di una S.A.S. (Società in Accomandita Semplice) che in teoria dovrebbe essere esterna all'associazione stessa. La S.A.S a cui mi riferisco è quella aperta dalla stessa dottoressa Bruzzone il 06 giugno 2014 (quindi dieci mesi fa) e registrata alla camera di commercio il 12 giugno 2014. Una Società in Accomandita Semplice che, come da visura camerale, ha quali soci accomandatari anche i due avvocati che figurano con nome e cognome sulla carta intestata della diffida che mi ha inviato, assieme al suo signor Florindi. Gli stessi avvocati che, come lei d'altronde, figurano nel consiglio direttivo della "associazione no profit". Ora, per quanto possa capirne e mi hanno spiegato, credo che prima di fare un simile movimento pubblicitario, cioè inserire l'IBAN di una azienda commerciale che guadagna sul proprio lavoro ai piedi di tutte le pagine elettroniche di una associazione "no profit" (che essendo "no profit" non dà dividendi ai soci), ci si sia fatti consigliare da un buon commercialista. Per cui immagino che sia del tutto legale, dato che la SAS sul proprio guadagno ci paga le tasse. Ciò che trovo strano è altro. Una stranezza, ad esempio, è che il logo della SAS sia praticamente identico, tranne per le scritte, al logo dell'associazione "no profit". Un'altra ancora più strana è che cliccando sul logo della SAS presente nelle pagine dell'associazione "no profit", si venga reindirizzati su una pagina della stessa associazione "no profit" e non sul sito della SAS. Quasi che la SAS e l'associazione "no profit" siano l'unica faccia di due società. In pratica una società che per statuto non può dividere gli utili nel suo sito ospita e pubblicizza una SAS che gli utili fra i suoi soci li può dividere. Insomma, ciò che si vede dall'esterno (magari non è così e la Rai avrà la gentilezza di spiegarcelo in maniera chiara) è che il dottor Bruno Vespa pubblicizzando l'associazione no profit finisca per pubblicizzare gratuitamente una S.A.S. - capisce cosa intendo, avvocato? Che a un occhio critico la situazione pare quantomeno ambigua e andrebbe spiegata. Come ambigua è la parte della diffida in cui scrive: Ne consegue che, non avendo lei eseguito alcun riscontro nè alcuna verifica, ha redatto un articolo ricco di falsità ponendo in essere proprio quelle condotte che, tanto severamente, ha tentato di stigmatizzare nel suo testo. Tutto ciò premesso, la dott.ssa Bruzzone, mio tramite Vi - INVITA E DIFFIDA - a rimuovere dal Suo Blog l'articolo in questione, a comunicarci immediatamente, e comunque non oltre 5 giorni dal ricevimento della presente, il nominativo (o i nominativi) di chi Le ha fornito le informazioni ivi pubblicate e di versare, per il tramite di questo Studio, la somma di euro 250.000 a titolo di risarcimento per i gravissimi danni all'immagine della mia Assistita cagionati dalla diffusione di notizie false e diffamatorie. In queste sue parole, false e intimidatorie signor avvocato, un giudice di polso potrebbe pure configurare il reato di estorsione. Specialmente perché, seppur sia stato limitato volendo risponderle con un articolo che non può essere infinito, le ho dimostrato non solo che non ho assolutamente mentito, ma anche che prima di scrivere mi informo e faccio verifiche (e ne faccio tante), cerco riscontri e quando qualcosa non mi quadra pongo domande pubbliche per non ottenere risposte di circostanza (che non servono a nulla e non aiutano i lettori a capire). Per questi motivi non ho rimosso, e non ho alcuna intenzione di rimuovere, l'articolo in questione. Per questi motivi la invito a cambiare atteggiamento e, se vorrà, a rispondere alle mie domande in maniera pacata senza cercare di intimidire chi critica la sua assistita. Fornire ai lettori notizie relative a un personaggio pubblico è cosa che si fa tutti i giorni (e se il personaggio finisce sotto processo la notizia esiste e si può dare). Inoltre tutti i personaggi pubblici, finché restano tali, ricevono critiche per quanto dicono o scrivono. Dalla piccola show girl al Presidente della Repubblica. E' la norma, dato che la democrazia permette di non appiattirsi al pensiero altrui e di esternare il proprio, anche se diverso. Per questo motivo, non essendo avvezzo a criticare un personaggio pubblico a prescindere ma avendo l'abitudine di elogiarlo o criticarlo per i vari comportamenti che pone in essere di volta in volta, così come posso essere d'accordo e apprezzare la sua assistita per quanto fa e dice su certi casi di cronaca nera (Chico Forti è uno ma ce ne sono altri), posso anche non essere d'accordo e criticarla quando a parer mio non si dimostra all'altezza del suo ruolo pubblico o fa qualcosa che mi risulta strano e incomprensibile. Una cosa deve essere chiara. Volandocontrovento è un blog indipendente che non ha editori a cui obbedire. Un blog che prima di pubblicare articoli cerca informazioni e riscontri. Un blog in cui nessuno scrive falsità (al massimo negli articoli pubblicati si possono trovare piccole inesattezze scritte in buonafede). E fin quando la democrazia lo permetterà, a nessun personaggio, sia bianco o sia nero, sia giallo o sia verde, sia rosso o sia blu, sia pubblico o che pubblico lo diventi per quindici giorni o per quindici anni a causa di una posizione politica ridicola o di una indagine criminale in voga sui media, è concessa l'immunità da critiche...”

Bruzzone contro Raffaele: «Imitazione becera e volgare». La criminologa querela l'imitatrice: «Sessualizzazione della mia persona», scrive “Il Corriere della Sera”. Una «becera e volgare sessualizzazione della mia persona». Così la criminologa Roberta Bruzzone bolla, parlando a Fanpage.it, la performance di Virginia Raffaele che l’ha imitata sabato ad «Amici». «Io non ho nessun problema contro la satira» precisa Bruzzone, «l’elemento intollerabile è giocare sull’aspetto sessuale in maniera sguaiata, becera, volgare, gratuita», lontana - precisa - da una professionista che tutto questo l’ha sempre evitato. «L’elemento che mi porta in tv ormai da oltre dieci anni - sottolinea - non è la mia avvenenza fisica ma il tipo di contenuti che tratto e l’esperienza dovuta al lavoro che svolgo». « Non siamo più nella satira, questa è diffamazione bella e buona» aggiunge, confermando la sua decisione di querelare la Raffaele. In tempi di femminicidi, mentre lottiamo contro la visione della donna-oggetto, «che questo tipo di contenuti sia proposto da una donna è ancora più sconcertante», osserva.

Selvaggia Lucarelli contro la criminologa Bruzzone: «La Raffaele è ben più simpatica e gnocca di lei», scrive “Il Messaggero”. Virginia Raffaele imita la criminologa Roberta Bruzzone, ma questa non gradisce. E nella faccenda non poteva che intromettersi Selvaggia Lucarelli. Ne è scaturito un botta e risposta che non va tanto per il sottile. «Bagascia vestita in modo improponibile», ha tuonato la Bruzzone contro l'imitatrice, "rea" di aver messo in scena «una rappresentazione becera, volgare, gratuita, sguaiata». Dopodiché in un tweet la Bruzzone ha annunciato che sarebbe passata alle vie legali. E la replica della Lucarelli non si è fatta attendere: «Leggo che la Bruzzone, in un tweet, lascia intendere di aver scomodato il suo favoloso team di legali per bastonare Virginia Raffaele che ha osato farne una parodia (divertente) ad Amici - ha scritto - Nella vita ho ricevuto un po' di querele, ma la lettera dell'avvocato della Bruzzone per un mio servizio su Sky me la ricordo bene. Spiccava. Non solo per la pretestuosità degli argomenti (era un servizio innocuo e fu l'unica tra 100 servizi a offendersi), ma perchè inviò copia al Ministero delle pari opportunità per accusarmi di sessismo». «La Raffaele - continua la Lucarelli - è ben più simpatica e gnocca di lei. (tanto il ministero delle pari opportunità è stato abolito, magari scriverà alla Boldrini)».

Vittorio Feltri contro Roberta Bruzzone: "Al suo confronto i pm sono delle mammolette", scrive “Libero Quotidiano”. Dopo le imitazioni di Virginia Raffaele, il commento di Vittorio Feltri. La criminologa diventata famosa al grande pubblico grazie a Bruno Vespa che l'ha invitata più volte a Porta a Porta, viene attaccata dal fondatore di Libero che scrive: "Si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere" Feltri l'accusa soprattutto di dare affosso all'imputato dato che è più facile che difenderlo.  "La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia".  Con una stilettata Feltri dice che in sui confronto i pubblici ministeri sono delle "mammolette". Feltri ricorda quando, durante una puntata di di Linea Gialla di Salvo Sottile si trovava accanto alla Bruzzone per comentare le vicenda giudiziaria di Raffale Sollecito che all'epoca era ancora in attesa di giudizio. Feltri riteneva che non vi fossero gli estremi per condannarlo, lei sì. La Cassazione ha dato ragione a Vittorio. Da qui la conclusione di Feltri: "Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".

“Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione”…, scrive Vittorio Feltri per “il Giornale”. "Da alcuni anni Roberta Bruzzone, criminologa dall'aspetto attraente (ciò che aiuta sempre a rendersi riconoscibili e, perché no, apprezzabili a occhi maschili e pure femminili), è personaggio televisivo tra i più noti. Il suo bel volto compare spesso in video, anzi sempre, nelle trasmissioni che trattano di morti ammazzati, assassini probabili, gialli irrisolti: temi che da qualche tempo vanno forte e hanno un seguito notevole di pubblico. A lanciare la gentile signora è stato Bruno Vespa a Porta a porta, in cui gli omicidi raccontati sono frequenti e costituiscono una sorta di rubrica fissa, come il bollettino meteorologico. Il principe dei conduttori, dopo averla invitata una prima volta, non ricordo in quale circostanza, avendone gradito gli interventi - forse anche le fattezze - non ha più smesso di convocarla per discettare di coltellate, strangolamenti, alibi e roba del genere noir. Roberta si è tenacemente costruita una fama di investigatrice spietata: ormai è ospite indispensabile in qualsiasi programma al sangue in onda su varie emittenti, tutte assai interessate a dissertare di delitti, un filone appassionante per il pubblico serale, stanco di talk show politici prodotti in serie con la fotocopiatrice. La criminologa mostra di trovarsi a proprio agio nelle discussioni, di solito vivaci, sulla colpevolezza di Tizio e di Caio; e si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere. Si sa come vanno i processi mediatici. Si dà addosso all'imputato dato che è più facile e più spettacolare che non difenderlo. Si calca la mano sugli elementi a suo carico e si sorvola su quelli a discarico. Cosicché la gente, sempre vogliosa di sentenze esemplari, si eccita e non tocca il telecomando nel timore di perdersi le fasi più sadiche del linciaggio. La natura umana fa schifo e collide con i principi basilari del diritto: chi è stato incastrato dalla cosiddetta giustizia andrebbe considerato innocente fino a prova contraria. La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia. In confronto a lei, i pubblici ministeri sono mammolette. Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione. Ciascuno ha le proprie inclinazioni e magari le asseconda con pertinacia. La criminologa, benché non sia togata, agisce con una determinazione impressionante: nei dibattiti davanti alla telecamera riesce a spiazzare chiunque, magistrati inclusi. Una notte, a Linea gialla, diretta da Salvo Sottile (bravo e preparato), ero seduto accanto a Bruzzone per esaminare la vicenda di Raffaele Sollecito, in attesa di giudizio. Personalmente ero dell'idea che il giovanotto fosse da assolvere per mancanza di prove; lei aveva un'opinione opposta alla mia. Non dico che litigammo, ma eravamo in procinto di farlo. Trascorsi alcuni mesi, la Cassazione ha dato ragione a me. Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".

Questo è quanto riportato dalla stampa con verità, attinenza ed interesse pubblico.

Chi di processi ferisce di processo perisce, scrive Alberto Dandolo per Dagospia.  A Milano non si fa altro che parlare della citazione a giudizio della platinatissima criminologa Roberta Bruzzone nell’ambito di un procedimento penale a suo carico presso il Tribunale di Tivoli. La vispa professionista deve infatti difendersi dalle accuse di un suo ex compagno, Marco Strano che l’ha trascinata in tribunale in quanto, si legge nelle carte, ne avrebbe “ripetutamente offeso la reputazione…pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori”. Nei documenti si legge che la criminologa amata da Vespa e dalla Parodi deve difendersi dall’accusa che “utilizzava altresì più volte in maniera denigratoria l’aggettivo “strano” facendo chiaro riferimento alla persona del suo ex compagno, come nei seguenti post: “in effetti mi sembra proprio strano …questo impulso diffamatorio irrefrenabile…, “questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee”; e ancora sottolineava : “è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine”; “ non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all’estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…” ( post del 23.11.2010) , lo definiva, quindi un mitomane fallito con in dotazione una calibro 9”, lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane, ed infine commentava, con riferimento alla nuova compagna straniera del querelante, che lui l’aveva affittata staccandone il cartellino ed acquistata in qualche compravendita di spose dall’est facendosi qualche foto con lei per far finta di avere una vita (post del 01-12- 2010).”

La criminologa Roberta Bruzzone querelata dall'ex compagno Marco Strano per diffamazione. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori": ecco i post "incriminati", scrive Mario Valenza il 16/09/2015 su “Il Giornale”. "Mitomane fallito con in dotazione una calibro 9". Queste e altre dure espressioni sarebbero state Roberta Bruzzone, la criminologa bionda spesso ospite nei salotti televisivi, al suo ex compagno Marco Strano su Facebook. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione - riporta Dagospia - pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori". Strano sostiene che la Bruzzone lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane e di aver acquistato la nuova compagna in qualche compravendita di spose dell'est. Giocando sul cognome del querelante, la criminologa scriveva: "questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee". In un attacco personale scriveva: "è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine", e dal punto di vista professionale affondava: " non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all'estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…". E ora i post su Facebook potrebbero sbarcare in tribunale...

Tivoli, la criminologa Roberta Bruzzone querelata dall'ex compagno Marco Strano per diffamazione, scrive “Libero Quotidiano”. "Mitomane fallito con in dotazione una calibro 9": questa e altre frasi sono state rivolte da Roberta Bruzzone, la criminologa bionda spesso ospite nei salotti televisivi, al suo ex compagno Marco Strano su Facebook. L'uomo l'ha querelata per averne "ripetutamente offeso la reputazione - riporta Dagospia - pubblicando sul social network Facebook numerosi post diffamatori". Egli sostiene che la Bruzzone lo accusava di averle deliberatamente ucciso il cane e di aver acquistato la nuova compagna in qualche compravendita di spose dell'est. Giocando sul cognome del querelante, la criminologa scriveva: "questi strani soggetti perversi hanno bisogno di ricercare donne che non si concedono…certo mi dispiace per queste donne perché se arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee". In un attacco personale scriveva: "è talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine", e dal punto di vista professionale affondava: " non ha nemmeno la laurea in psicologia o uno straccio di specializzazione…da uno che qualche tempo fa voleva comprare all'estero un titolo falso per sistemare la questione della sua assenza di titoli validi…". Come andrà a finire? 

Caso Marco Strano - Roberta Bruzzone - Bruno Vespa e milioni di inganni e sprechi ai danni della Polizia - Interrogazione "aperta" al capo della Polizia si legge sul sito internet di Polizia Nuova Forza Democratica. L'Organismo Sindacale Polizia Nuova Forza Democratica nasce con lo scopo di salvaguardare i doveri degli appartenenti alle Forze dell'Ordine e di tutelare i diritti di donne e uomini che hanno consacrato la propria vita professionale alla sicurezza di tutti i cittadini. Il legislatore, con l'approvazione della Legge 121/81, ha previsto la demilitarizzazione del Dipartimento Della Pubblica Sicurezza e il conseguente Ordinamento Civile della Polizia Di Stato, con l'obbiettivo di rendere tangibile la sinergia sociale tra cittadini e poliziotti. Il nostro Organismo P.N.F.D. condivide, con spirito di servizio, "l'animus del Legislatore" deputando proprio fondamento la collaborazione tra i tutori dell'ordine e la società civile. Il nostro statuto, non a caso, prevede l'iscrizione all'organismo P.N.F.D. sia per gli operatori della Polizia Di Stato, soci ordinari, sia per i rappresentanti del mondo del lavoro o associazioni che operano nel volontariato sociale, soci aggregati e onorari. Polizia Nuova Forza Democratica vuole essere la calcina che lega tutti i cittadini che, senza clamore, ogni giorno, con il coraggio dell'onestà compiono il proprio dovere costruendo il bene comune. Questa organizzazione sindacale intende costituirsi parte civile nei vari processi che, a partire dal prossimo dicembre, vedono imputata la c.d. "Ambasciatrice di Telefono Rosa" - Roberta Bruzzone che sarà giudicata dall'Autorità giudiziaria per aver indirizzato accuse di stalking, false e strumentali, attraverso denunce, poi archiviate, interviste televisive e sui giornali, migliaia di pagine di social networks, nei confronti di Marco Strano, funzionario di Polizia, moralmente e professionalmente incensurabile, per questo stimato a livello nazionale e internazionale e quindi lustro per la Polizia di Stato. Accuse che stanno provocando un crescente malumore tra i colleghi che ben conoscono la vicenda reale, completamente diversa da quella veicolata dai media. Le accuse di stalking si sono infatti rivelate poi assolutamente infondate, ma hanno ingiustamente gettato un'ombra sull'intera categoria degli appartenenti alla Polizia di Stato tanto che la magistratura ha approfondito - attraverso già due rinvii a giudizio di Bruzzone per diffamazione aggravata e attraverso altri procedimenti tuttora in fase di indagine per altri più gravi reati presso le Procure di Roma e di Tivoli (che riguardano anche soci e collaboratori della predetta) - come il contrasto con il collega Strano non fosse legato a vicende sentimentali, come si voleva far intendere (il collega è felicemente sposato da anni), ma molto più presumibilmente al fatto che quest'ultimo ha pubblicamente denunciato il business dei corsi di formazione. Neanche a farlo apposta, infatti, la suddetta organizza corsi attraverso il marchio AISF(Accademia Internazionale di Scienze Forensi) - marchio spesso citato anche nella trasmissione Porta a Porta condotta da Bruno Vespa - solo apparentemente no-profit in quanto strettamente collegato con la SaS CSI-Academy (di cui Roberta Bruzzone risulta socio accomandante e che propone corsi e perizie forensi a pagamento): SaS che ha un logo pressoché identico a quello dell'Associazione pubblicizzata da Bruno Vespa e con cui condivide un sito web, situazione che potrebbe trarre in inganno milioni di telespettatori. Tutto ciò a nostro avviso dovrà essere analizzato attentamente innanzitutto dal Garante per le comunicazioni, per motivi di pubblicità occulta e di concorrenza sleale. Ma soprattutto: sarà "sicuramente casuale" che la società di Roberta Bruzzone risulti partner commerciale dell'azienda statunitense SIRCHIE e della società di rappresentanza italiana RASET - leaders in Italia nella commercializzazione di prodotti per criminalistica - e che il collega Marco Strano abbia intrapreso da almeno 5 anni una battaglia politico-sindacale finalizzata alla razionalizzazione della spesa pubblica nel settore dei prodotti per investigazioni scientifiche che, se andasse in porto, porterebbe un calo di fatturato di milioni di euro nelle predette aziende a vantaggio dell'Amministrazione della PS, i cui vertici purtroppo persistono invece nello sprecarli, a discapito dell'erario oltre che riducendo le potenzialità investigativo-scientifiche. Per quanto sopra esposto, chiediamo se il Capo della Polizia sia al corrente o meno della suddetta vicenda, quali iniziative abbia intrapreso e/o intenda intraprendere affinché sia ripristinato il prestigio della categoria e fatta luce su sprechi, privilegi e abusi che ne stanno seriamente minando le fondazioni.

Roma, 11 ottobre 2015 

F.TO
Il Segretario Nazionale per l'Italia centrale e gli uffici dipartimentali - FILIPPO BERTOLAMI

Il Segretario Nazionale Generale - Rappresentante Legale - FRANCO PICARDI

Rissa legale tra criminologi, scrive Mauro Sartori su “Il Giornale di Vicenza”. Si trasferisce anche in città il duro confronto tra Roberta Bruzzone e l'ex compagno Marco Strano. L'uomo accusa di plagio l'autrice per alcuni passaggi riportati. Lei replica con denunce per stalking e chiedendo misure di sicurezza. Carabinieri a piantonare la sala, notifica di documenti legali per spiegare il terreno minato su cui si muoveva l'incontro pubblico di ieri sera, querele e minacce attraverso i social network: sono gli ingredienti della guerra in atto fra due criminologi di fama, che ieri ha vissuto un capitolo scledense. Da una parte Roberta Bruzzone, psicologa forense nota per le partecipazioni come consulente ai talk show televisivi quando si parla di omicidi; dall'altra l'ex fidanzato Marco Strano, dirigente della polizia di stato, fondatore dell'Associazione internazionale di analisi del crimine. Oggetto del contendere il libro “Chi è l'assassino - diario di una criminologa”, edito dalla Mondadori. Strano accusa Bruzzone di plagio. Nella parte introduttiva del libro ci sarebbero passaggi copiati senza autorizzazione, tanto che il dirigente della polizia avrebbe chiesto con una procedura d'urgenza il ritiro dal commercio del libro, ma non l'ha ottenuto. Ieri sera la criminologa, chiamata come esperta da Bruno Vespa per le puntate di “Porta a porta” in cui si parla dei delitti di Sarah Scazzi e Melania Rea, tanto per citare i due più conosciuti, era a palazzo Toaldi Capra, dove ha presentato proprio il libro conteso ed ha parlato anche della sua attività quale ambasciatrice di “Telefono rosa”. L'altro ieri alla libreria Ubik, che organizzava l'incontro, due avvocati dell'Alto Vicentino, come domiciliatari dei legali di Strano, hanno recapitato ai titolari copia di un'ordinanza emessa dal tribunale di Milano in cui viene rigettato il ricorso di sequestro del libro, ma lascia aperta la porta ad un eventuale risarcimento del danno patito dal poliziotto. Una mossa che in verità non ha avuto conseguenze sullo svolgimento della serata ma che ha inasprito la tensione fra le due parti, tanto che ieri Bruzzone ha twittato parlando «di due scagnozzi non identificati che denuncerò per concorso in atti persecutori» che sarebbero andati alla Ubik e, in una successiva mail diffusa, «di un ennesimo tentativo di screditarm posto in essere da un soggetto che ormai trova l'unica ragione della sua misera esistenza nel rancore nutrito nei miei confronti e nel porre in essere atti persecutori nei miei confronti di cui sono vittima da quattro anni». In pratica da quando è finita la relazione sentimentale fra i due che un tempo andavano d'amore e d'accordo. La criminologa si è sentita minacciata tanto da richiedere misure di sicurezza ai promotori, prima di entrare in sala: «L'ho denunciato per stalking e quanto accaduto a Schio mi seriverà per integrare la denuncia stessa. Purtroppo non accetta l'evidenza dei fatti - ci ha riferito ieri sera Roberta Bruzzone. - La mia è un'opera autonoma, tratta da miei incarichi documentati. Le sue accuse sono deliranti. Per me la vicenda era chiusa con il rigetto del ricorso ma non si rassegna e allora comincio ad avere timore, soprattutto se si allarga a minacciare anche gli organizzatori delle mie serate nel tentativo di boicottarle. La mia vita è cristallina, ma non posso andare avanti così».

Bruzzone porta in tribunale l'ex ris Garofano. E' guerra totale (per un affare di cuore), scrive di Giordano Tedoldi il 16 marzo 2016 su “Libero Quotidiano”. Da quando la criminologia è uscita da laboratori e aule universitarie per diventare un genere affine al "Processo del Lunedì" - con la sola differenza che nel salotto tv criminologico si dibatte se la macchie di sangue possano ricondursi all' imputato o siano solo succo di lampone - anche il criminologo, figura solitamente composta, taciturna, anche un poco sinistra, è diventato un personaggio del gossip pubblico e dello scazzo ipersensibile, insomma, siamo ufficialmente al volo degli stracci criminologici. E come ogni bella commedia prevede, c' è un protagonista maschile e uno femminile, l'un contro l'altra armati. Lei è, va da sé, Roberta Bruzzone, psicologa forense e "dark lady" dell'opinione televisiva a cadavere ancora caldo, spesso chiamata in trasmissione anche quando è più raffreddato. La dottoressa Bruzzone, che ha un caratterino in tono con la sua avvenenza diciamo così fiera, ne ha dette di cotte e di crude al suo pari grado - non in termini militari, perché quello è generale dei carabinieri benché in congedo, ma in termini di valore televisivo - vale a dire all' ex comandante del Ris Luciano Garofano, anche lui con un debole per le poltrone dei talk show, il quale ha reagito con una denuncia per diffamazione. L' antefatto era ricostruito ieri sul Secolo XIX da Marco Grasso, e, come per le persone comuni, dietro alla lite e alla convocazione davanti al giudice il prossimo 7 aprile, c' è un affare di cuore. Scrive il Secolo: «Per alcuni anni la consulente di Finale è legata sentimentalmente a un collega, Marco Strano, psicologo della polizia e presidente della International Crime Analysis Association, di cui Bruzzone è stata segretaria. Quando si lasciano volano gli stracci. Lui l'accusa di aver taroccato i titoli; lei a sua volta mette in discussione gli studi dell'uomo e lo denuncia per stalking, per le persecuzioni subite dopo la fine della relazione». Vabbè, fin qui ordinaria amministrazione di relazioni sentimentali che si sfasciano. Ma il comandante Garofano, incautamente, si schiera pubblicamente a difesa dell'ex compagno della Bruzzone. E si becca dalla collega criminologa una denuncia per diffamazione, con allegata lettera aperta al vetriolo in cui l'esordio è tutto un programma: «Dottor Garofano, porti pazienza ma mi risulta impossibile chiamarla Generale per via del profondo rispetto che nutro nei confronti dell'Arma dei Carabinieri, a cui lei, per mio sommo sollievo, non appartiene più da diversi anni (ed entrambi sappiamo bene il perché)». Ora, a onor del vero pare che il regolamento dei conti tra i due, più che sulla reputazione di un collega, verta sulla loro rivalità per il titolo di numero uno della criminologia televisiva. In questo i duellanti sono l'una il riflesso dell'altro: così alla denuncia della Bruzzone è partita quella opposta e simmetrica di Garofano per la velenosa epistola citata. E anche lui ha condito la denuncia per diffamazione con apprezzamenti alla collega: «Leggo nel suo post che invita tutti a organizzarsi per portare avanti la diffamazione nei miei confronti. Quando penso a casi come Garlasco, via Poma o al caso Sarah Scazzi (in cui il suo intervento è stato così determinante da non essere mai considerato nel processo), faccio fatica a ritenere possibile che un soggetto come lei sia ancora in circolazione». A commento di questa sapida commedia, un antico adagio latino: "simul stabunt vel simul cadent", "insieme staranno o insieme cadranno". Così passa la gloria criminologica edificata su una sequela di massacri: con un volo di stracci.

Bruzzone vs Garofano: la zuffa dei criminologi finisce in tribunale, scrive Marco Grasso il 15 marzo 2016 su “Il Secolo XIX". Si ritroveranno il prossimo 7 aprile, ma non in un salotto televisivo. La prossima puntata del duello più aspro della criminologia italiana si terrà davanti al giudice Marco Panicucci. Da un lato c’è la psicologa forense ligure Roberta Bruzzone, volto noto delle televisioni, citata a giudizio per diffamazione. Dall’altro un altro personaggio pubblico dello stesso settore, l’ex comandante dei carabinieri del RisLuciano Garofano, che si è rivolto alla magistratura dopo un post di Facebook in cui veniva definito «indegno di indossare la divisa» e «membro di un sodalizio criminale». A monte di questa guerra c’è una vicenda di cuore. Per alcuni anni la consulente di Finale è legata sentimentalmente a un collega, Marco Strano, psicologo della polizia e presidente per dieci anni della International Crime Analysis Association, di cui Bruzzone è stata segretaria. Quando si lasciano volano gli stracci. Lui l’accusa di aver taroccato i titoli (polemica che peraltro solleva una questione di cui la categoria dibatte da anni, ovvero l’assenza di un albo professionale dei criminologi); lei a sua volta mette in discussione gli studi dell’uomo e lo denuncia per stalking, per le persecuzioni subite dopo la fine della relazione. La lite tra i due ex fidanzati va avanti a colpi di denunce reciproche e messaggi di fuoco sui social network, e finisce per coinvolgere anche colleghi come Garofano: l’ex militare, oggi consulente privato, si schiera apertamente con Strano, scatenando le ire di Bruzzone, che lo denuncia per diffamazione alla Procura di Roma e gli scrive una lettera pubblica, oggetto di questa seconda causa. «Dottor Garofano - esordisce la criminologa - porti pazienza ma mi risulta impossibile chiamarla Generale per via del profondo rispetto che nutro nei confronti dell’Arma dei Carabinieri, a cui lei, per mio sommo sollievo. Non appartiene più da diversi anni (ed entrambi sappiamo bene il perché)». La replica arriva subito dopo un intervento apparso sul profilo Facebook di Marco Strano: «Leggo nel suo post che invita tutti a organizzarsi per portare avanti la diffamazione nei miei confronti in ogni sede. Quando penso a casi come Garlasco, via Poma o al caso Sarah Scazzi (in cui, per inciso, il suo intervento è stato così determinante da non essere mai considerato nel processo) faccio fatica a ritenere possibile che un soggetto come lei sia ancora in circolazione». 

La criminologa di Vespa e gli affari con la polizia. Un sindacato: “Costose forniture alla Scientifica da azienda legata alla Ong di Bruzzone. E spot a ‘Porta a Porta’”. E poi continuano le polemiche dopo il servizio di “Report” sulla Corte Costituzionale. Rassegna stampa: Il Fatto Quotidiano, pagina 15, 1 dicembre 2015, di Ferruccio Sansa. Un esposto al capo della polizia Alessandro Pansa. Poi una lettera protocollata al ministro Angelino Alfano, al presidente della Commissione parlamentare Rai Roberto Fico e al presidente Rai Monica Maggioni. Titolo: “Caso Bruzzone-Vespa”. A scrivere un gruppo di dirigenti che si raccoglie dietro la sigla Polizia Nuova Forza Democratica. Che non per la prima volta critica i massimi vertici della polizia. Oggetto: pubblicità occulta, forniture di materiale per la polizia scientifica. E convegni organizzati presso la Questura di Roma da società private. Il principale bersaglio delle critiche è la criminologa Roberta Bruzzone, una delle regine del salotto politico più famoso d’Italia: Porta a Porta. Sì, la trasmissione di Bruno Vespa viene nominata più volte. Anche per la famigerata puntata in cui ospitò i Casamonica. Non sarebbero comportamenti illeciti, fino a prova contraria. Ma la lettera, visti i nomi in gioco, sta creando polemiche negli ambienti delle forze dell’ordine e della Rai. Mentre Bruzzone smentisce e annuncia querele. Primo: il sindacato punta il dito sui costi del materiale in uso alla polizia scientifica come la polvere per il rilievo delle impronte digitali. «Sarebbe possibile – si sostiene – acquistare prodotti della medesima qualità evitando i dazi doganali sui prodotti americani con un risparmio dal 20 al 30%». Che cosa c’entrerebbe Bruzzone? Da visure effettuate dal Fattonon risulta sia socia dell’impresa importatrice. Filippo Bertolami, segretario Pnfd, aggiunge però: «Dai siti Internet della società di Bruzzone emerge che l’importatore ha una partnership con la sua fondazione. Così come, peraltro, con lo stesso programma della tv pubblica Porta a Porta». Per questo il sindacato parla di «pubblicità occulta, svolta anche con magliette e sottopancia nel corso delle trasmissioni». Il punto: «L’Accademia internazionale di scienze forensi (una Ong che fa capo a Bruzzone, ndr.), che beneficerebbe di tale pubblicità ha un sito che trasferisce ad arte sul sito della Csi Academy, società di consulenza che si occupa di perizie e di formazione. Un’impresa con un logo quasi identico a quello dell’associazione no profit». Gli stessi soggetti che organizzano, riferisce Bertolami, eventi e corsi presso i locali della Questura di Roma: «Per i poliziotti di un sindacato sono gratuiti, ma tutti gli altri devono pagare. Chiediamo se sia possibile che un locale istituzionale sia utilizzato per iniziative a fini di lucro». Il Fatto Quotidiano ha raccolto le versioni di tutti gli interessati. Pubblicità occulta nel salotto più famoso della Rai? Bruno Vespa giura: «Mi pare impossibile. Sto molto attento. Se qualcuno l’ha fatto, non accadrà più. Stiamo attentissimi». Bruzzone aggiunge: «Quella lettera riferisce un mucchio di falsità. Ho già consegnato personalmente una lettera al capo della polizia per chiarire le cose». E la fornitura per la polizia scientifica effettuata da società legate a Bruzzone? «Se i prodotti costano più che se fossero comprati in America dipende dai dazi doganali e dalla spedizione», assicura il titolare. Fonti della polizia aggiungono: «Ci sono regolari gare». Ma quegli eventi realizzati negli uffici della Questura? «Il corso è organizzato da un altro sindacato. Ma se non sarà gratuito per tutti non concederemo gli spazi».

La criminologa Bruzzone: “Da bambina smembravo bambole e ho tentato di annegare i miei fratellini”. La criminologa più famosa della tv si racconta, scrive la Redazione TPI il 22 Gennaio 2019. In televisione l’abbiamo vista spesso commentare i grandi fatti di cronaca che hanno segnato il paese, ma lei, Roberta Bruzzone, la criminologa più famosa della tv, ha un lato oscuro che non aveva mai mostrato. Ospite di Caterina Balivo, la famosa esperta di delitti imperfetti ha lasciato a bocca aperta il pubblico con aneddoti di quando era bambini. La Bruzzone ha confessato che da piccola aveva una strana propensione per il macabro: “Da bambina mi piaceva sperimentare tecniche di smembramento e decapitazione con le bambole”. Ma non è finita qui: sulla poltrona candida dello studio della Balivo, la criminologa ha confessato (è proprio il caso di dirlo) di aver tentato di uccidere i suoi fratelli, quando era bambina: “Tentai di annegarli nella vasca da bagno”. Ma per fortuna intervenne la nonna: “Mi fermò giusto in tempo. Non ero imputabile, avevo solo tre anni e mezzo. Li picchiavo, ma ero molto piccola. Io la classica bambina femminuccia tranquilla? No, non su questo pianeta.”, precisa la criminologa. Dai suoi racconti si evince che Roberta Bruzzone deve essere stata una bambina particolare. Anche a scuola, fin da piccolissima, le cose non andavano meglio che a casa: “Sono addirittura stata cacciata dalla scuola materna delle suore. Le suore raccomandarono a mia madre di non portarmi più in quella scuola”, spiega l’esperta di nera. Al di là della sua infanzia, la criminologa ha parlato anche dell’ammirazione nei confronti di Bruno Vespa: “È una persona a cui voglio molto bene, se mi chiedesse di seppellire un cadavere gli darei una mano”, dice sorridendo. Roberta Bruzzone, classe 1973, è diventata famosa all’indomani del delitto di Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010, quando rivestì il ruolo di consulente di Michele Misseri, inizialmente indicato come assassino della nipote.

Occhio per occhio dente per dente, scrive Massimo Prati su "Albatros. Volando Controvento". Una drastica soluzione per far cessare i sequestri di stato dei magistrati non professionali che se ne fregano della vita altrui. Un altro processo che neppure doveva iniziare si sta celebrando contro Massimo Bossetti nell'italica terra conosciuta nel mondo perché resa famosa da santi, poeti e navigatori. Queste le categorie più famose. Ma in Italia ci sono anche tanti eccellenti investigatori, procuratori e giudici che operando per come vuole la legge riescono a chiudere indagini scomode prima che finiscano sui media. Su quei media che pressando mischiano le carte e calando l'asso del pregiudizio aizzano il popolo e spaiano le indagini. Naturalmente le eccellenze non si fanno notare. Com'è giusto che sia restano nell'ombra, non cercano pubblicità e non accettano, specialmente prima di aver portato l'imputato a processo, di parlare coi media, italiani o stranieri, di una indagine che ancora non ha superato il vaglio dei giudici. Le persone semplici ammirano gli uomini con la divisa o con la toga. Li vedono maneggiare il potere e pensano di avere a che fare con menti superiori, con una categoria professionale e seria al cento per cento. Ma una categoria simile non esiste in nessuna parte del mondo. Come capita in qualsiasi azienda, fra migliaia di persone che lavorano nel migliore dei modi si troverà sempre una percentuale, alta o bassa che sia, che risulta meno produttiva o addirittura incapace. Logicamente l'azienda privata può migliorare in produttività se chi la dirige usa gli strumenti in suo possesso per provare a livellare i suoi dipendenti (se non ci riesce li licenzia). Basandosi su questa ovvia banalità c'è quindi da chiedersi chi diriga l'azienda Italia, in special modo il settore giustizia, visto che lo stesso discorso sulla professionalità si può fare sui giudici. Anche fra loro ce ne sono di molto validi (che sentenziano basandosi sul codice penale e sul buonsenso) e di poco validi (quelli che si affidano alle procure e a regole proprie non scritte in nessun codice penale). Che sia così non è una mia impressione, ma è un dato di fatto visto che la nostra giustizia non sta messa bene (prima di noi in classifica ci sono Gambia, Mongolia e Vietnam), visto che Strasburgo ciclicamente ci multa a causa dei processi infiniti e dei troppi anni trascorsi in carcere da chi è in attesa dei verdetti. Nessun media alza la voce e il popolo non si indigna per i tanti milioni di euro buttati al vento da una categoria privilegiata con stipendi di lusso. Forse è per questo che la pubblica opinione non ha neppure capito che in Italia i veri criminali, nonostante le indagini massicce e i tanti denari spesi, non si scoprono mai (vedi il caso del "mostro di Firenze", ma anche di Simonetta Cesaroni, Serena Mollicone, Emanuela Orlandi, Denise Pipitone, Cristina Golinucci, Angela Celentano e tantissimi altri archiviati o in odor di archiviazione). Anche i criminali stranieri sanno che i nostri processi faticano a partire e quando partono non arrivano coi tempi giusti, che troppo spesso finiscono con la prescrizione del reato, che troppo spesso sono preparati e celebrati con spirito libero e fantasioso e non con le tavole della legge. Lo sanno che in una situazione del genere difficilmente rischiano di restare per troppi anni in una cella italiana. E questo dovremmo saperlo anche noi, dato che siamo una delle nazioni che non accontentandosi di avere una propria e ben nutrita lista di organizzazioni criminali (mafia, n'drangheta, camorra e via dicendo) permette ad altre di entrare liberamente e proliferare. Criminali africani e dell'est Europa, della Cina e di ogni altro Stato che applichi pene certe e dure, si ritrovano nelle nostre città e si associano perché da noi certi crimini sono ormai una routine e per i media non paiono essere di prima fascia. Pochi sono i delinquenti che una volta arrestati da poliziotti e carabinieri restano in carcere. Alla faccia di chi ha rischiato anche la vita pur di portare di fronte a un giudice chi è di certo colpevole perché arrestato in fragranza di reato. Ma i loschi personaggi che delinquono abitualmente da noi se la cavano con una tirata d'orecchie e un foglio di via che nove volte su dieci rimane lettera morta. Quante volte ci siamo sentiti dire che l'assassino del tal dei tali era già stato arrestato e poi rilasciato con un foglio di via? Per tutti vale Ezzedine Sebai, che fu arrestato e rilasciato innumerevoli volte prima che si spostasse in Puglia dove uccise moltissime donne anziane. La nostra giustizia è particolare e nelle carceri italiane non ci restano neppure i reo confessi che ammazzano in maniera efferata e che, confessando i delitti, quasi mai vanno in cella prima del processo e dopo la condanna in galera ci stanno dai sette ai dieci anni. Non di più. Da noi, fateci caso, in carcere in attesa dei processi più seguiti dai media ci sono persone incensurate, quelle che come la maggioranza degli italiani vivono una vita semplice e che credendo nella giustizia si dichiarano innocenti perché non è giusto ammettere di aver ucciso se non si è ucciso. Persone che non avendo mai frequentato il mondo giustizia, in cui vivono investigatori procuratori e giudici, non immaginano neppure che una volta rinchiuse in cella non usciranno più perché la custodia cautelare è una bestia assatanata che ubbidisce solo alle procure e che neppure i giudici sono capaci di domare. Gli esempi al momento sono tanti. Si va da Veronica Panarello a Michele Buoninconti, da Padre Graziano a Massimo Bossetti e ad altri un po' meno mediatici. Tutte persone ancora da giudicare che si dichiarano innocenti e attendono in carcere processi e sentenze. Persone che dalle loro celle guardano la televisione e assistono impotenti ai processi sommari in cui vengono stuprate moralmente e condannate a prescindere. Ma più di loro il carcere cautelare ha colpito Amanda Knox e Raffaele Sollecito, ora assolti con sentenza definitiva, e ancora più di questi ultimi è toccato a Sabrina Misseri (ma anche a sua madre) sulla cui posizione occorre soffermarsi un attimo. La stragrande maggioranza degli italiani crede che la ragazza di Avetrana abbia ucciso sua cugina e meriti di restare in galera. Lo crede non perché ci siano prove a conferma, non perché a processo sia stata dipinta quale ragazza vendicativa capace di alzare le mani sulle rivali, ma perché l'informazione e gli opinionisti mediatici, in nome e per conto della procura, hanno spruzzato quell'enorme odore di pregiudizio che fa perdere alla mente ogni cognizione razionale. Tutti si sono sentiti, grazie all'impronta data alle notizie dai giornalai, buoni investigatori e buoni giudici e tutti ora credono che per giudicare colpevole una persona, semplice come loro ma dipinta di nero dai media, non serva leggere gli atti e ascoltare gli interrogatori ma basti l'intuito, il particolare stonato che fa pensar male ed è confermato dal tal opinionista televisivo che, dice, ha letto ogni parola. Ma non è vero che ha letto ogni parola è non così che funziona la giustizia. Se si ragionasse a questo modo tutti potremmo finire in carcere e dopo essere dipinti di nero restarvi per la vita. Per giudicare occorre avere la mente sgombra. Per imbastire un giusto processo bisogna evitare che i giudici popolari ascoltino gli opinionisti dare per certa la colpevolezza dell'imputato che ancora deve essere giudicato. I giudici togati e popolari non si scelgono ad inizio indagine ma a inizio processo. Perciò non si possono tenere all'oscuro di ciò che nel frattempo sui media "si dice" e si dà per certo. Per questo i giudici moderni, togati e popolari, quando un processo è mediatico non dovrebbero essere italiani ma stranieri. Solo così vi sarebbe la certezza di far entrare in tribunale persone che nulla sanno né del crimine in questione né di chi la procura crede colpevole. E' l'unica soluzione accettabile, dato che invece di far parlare e scrivere i giornalisti specializzati gli editori lasciano campo libero ai giornalai dello scoop. Per essere veri giornalisti, per essere idonei ad informare la pubblica opinione (quindi anche i giudici popolari) senza inserire pregiudizi, occorre saper guardare i fatti senza emotività e ragionare con la propria testa evitando di riportare, in video o sui giornali, quanto dice l'accusa senza prima averlo vagliato con logica e, se è possibile, senza prima averne parlato con la difesa. Invece il settore informazione è in confusione. Vige la regola del chi prima arriva meglio alloggia e pur di pubblicare lo scoop non si verifica nulla di quanto si scrive finendo per fare il gioco di chi sa bene che le parole fanno più male delle armi. Un giornalista degno di tal nome, dopo aver letto gli atti e ascoltato i vari testimoni interrogati nel primo processo di Taranto non potrebbe fare a meno di dire ad alta voce che non c'è uno straccio di indizio valido che faccia pensare colpevole Sabrina Misseri, che per assolverla sarebbe bastato un solo processo celebrato in un'altra città. Purtroppo non tutti hanno letto e ascoltato e purtroppo a qualcuno, che sui media ci sguazza, la condanna "fa gioco". Ma lasciamoli perdere i processi di Taranto perché troppo spesso si rivelano sbagliati (vedi Domenico Morrone e tanti altri condannati dai giudici tarantini e poi riconosciuti innocenti) e concentriamoci sulla legge italiana che vuole in custodia cautelare chi, accusato di un crimine, restando libero ha la possibilità di reiterare il reato (un serial killer dovrebbe restare in carcere, non un incensurato ancora da giudicare), di fuggire dall'Italia (un criminale sconosciuto al grande pubblico che ha amicizie a Santo Domingo dovrebbe restare in carcere, non chi per anni ha visto la sua faccia campeggiare sui media) e inquinare le prove (se ci sono indagini in corso e testimoni da interrogare è giusto che l'imputato resti in carcere, ma quando le indagini finiscono cosa può inquinare?). Queste le tre condizioni necessarie per tenere in galera chi è in attesa di processo (ne basta una valida per non liberare gli imputati). Ora dovete sapere che Sabrina Misseri è in custodia cautelare dal 15 ottobre 2010 e che il giudice Patrizia Sinisi qualche giorno fa le ha notificato un atto in cui le comunica che, non si dovesse pronunciare prima la Corte di Cassazione, magari perché alla giudice servirà più di un anno e mezzo per motivare la sua sentenza (d'altronde la sua collega tarantina Cesarina Trunfio ci mise un anno), i termini di custodia in carcere per lei scadranno nel settembre del 2017. Quindi, per la ragazza di Avetrana i giusti anni in custodia cautelare sarebbero sette, tanti quanti ne ha scontati un marito di Belluno dopo aver ucciso la moglie con venti coltellate mentre la loro bimba dormiva nella camera accanto. In pratica, l'uomo di Belluno, che certamente è un assassino dato che ha ucciso barbaramente sua moglie, dopo soli sette anni di carcere è tornato libero perché ha scontato la sua pena. Sabrina Misseri, che come altri imputati italiani è in custodia cautelare perché si è dichiarata estranea al delitto, potrebbe invece restare sequestrata per gli stessi sette anni... ma senza motivo se alla fine dell'iter processuale la Cassazione dovesse ritenerla innocente. In certi casi la giustizia italiana interpreta a suo piacimento. Bruciato il codice penale se la prende comoda, motiva a piacimento e dopo aver fatto un rapido calcolo matematico decide che tutto torna. Come se fosse normale restare chiusi in galera in attesa di essere processati per qualcosa che si dice non aver commesso. Certo è che tanti procuratori e giudici ritengono la custodia cautelare in carcere una misura giuridica normale, visto che per anni e anni chiudono in galera gli imputati che si proclamano innocenti. In carcere sono e in carcere devono restare quelle persone che l'accusa vuole colpevoli. Anche se sono incensurate, anche se non ci sono prove e gli indizi non si incastrano fra loro, anche se non sono ancora state depositate le perizie in grado di confermare, ma anche di smentire, tesi accusatorie che spesso superano la normale immaginazione. Penso a Massimo Bossetti, arrestato in maniera vergognosa mentre lavorava e infilato in galera a causa di un Dna strampalato. Penso a Michele Buoninconti, arrestato a causa di una perizia voluta dalla procura che due mesi dopo anche i tecnici dei carabinieri hanno smentito. Penso a Veronica Panarello, arrestata dopo un interrogatorio fuorilegge e chiusa in carcere in attesa di una perizia che potrebbe inchiodarla ma anche scagionarla. Penso che se per i procuratori e i giudici è normale che una ragazza resti sette anni in custodia cautelare, dovrebbe essere anche normale che chi lavora per lo Stato paghi con la stessa moneta se un domani la Cassazione decidesse, a buon ragione, di mettere davvero in pratica le motivazioni della sentenza Knox-Sollecito. Insomma, le ricostruzioni accusatorie assurde non sono idonee né a condannare né a tenere in carcere persone incensurate e chi le fa proprie, per ottenere condanne e condannare, deve assumersi le proprie responsabilità se invece della condanna arriva l'assoluzione. Arrestare e rinchiudere in carcere persone innocenti è o non è un sequestro di stato? Se un domani prossimo a venire Sabrina Misseri, Cosima Serrano, Veronica Panarello, Massimo Bossetti e gli altri ora in galera venissero scagionati per l'assurdità delle ricostruzioni accusatorie, chi ridarebbe loro la dignità stuprata dai media e gli anni trascorsi ingiustamente in cella? Chi ridarebbe la vita e la dignità persa a una ragazza diventata donna in carcere, a una madre a cui hanno ucciso un figlio e a un carpentiere a cui hanno distrutto vita e famiglia? Non c'è in natura nulla che possa ridare quanto perso. Non c'è nulla che possa riuscire a cancellare il dolore subito a causa di persone che non si sono mostrate professionali. Chi manda in carcere le persone innocenti capisce quanto dolore provoca? Forse no, forse certi magistrati dovrebbero provarlo sulla loro pelle per capirlo. Ed allora non c'è altra soluzione che mandare in carcere i procuratori e i giudici che vogliono e avallano la custodia cautelare senza avere in mano prove serie. Magari con ricostruzioni oniriche o fantasiose. Questi uomini a cui lo stato dona potere sarebbero disposti a pareggiare la situazione e a rimetterci del loro nel caso di assoluzioni in Cassazione? Sarebbero disposti a mostrarsi uomini veri e ad andare in galera se si scoprisse che non hanno lavorato in maniera professionale? Io credo di no. Credo che non rinunceranno mai ai privilegi che garantisce lo stato anche se loro per primi, sequestrando e mandando persone in carcere (senza avere alcuna certezza della colpevolezza), sputano sopra la presunzione d'innocenza e su altri diritti che la Giustizia vuole siano garantiti a chi viene indagato. Non ultimo quello di poter attendere gli esiti dei procedimenti giudiziari assieme alla propria famiglia e non in carcere. Quella della custodia cautelare ingiusta è una piaga che va debellata, non v'è dubbio, e dovrebbe essere l'informazione a inserire il dito nella ferita affinché il male continuo costringa le istituzioni a curarla. Ma quando mai lo farà? A parer mio basterebbe un anno di"occhio per occhio - dente per dente" per rimettere in carreggiata i magistrati che ne abusano. Non sarebbe una cosa assurda e visto che tantissimi procuratori e giudici sono davvero bravi e professionali, forse non sarebbe neppure difficile da far accettare a quella maggioranza dei magistrati che da tempo è stanca di essere accomunata a certe persone...

Noi non possiamo tacere. Meditazioni su giustizia e dignità della persona. Convegno Palaia (16 settembre 2015). Processi in tv: dall'indizio all'elaborazione "letteraria" del pregiudizio (passando per gli artifici della retorica). Intervento di Annamaria Cotrozzi pubblicato da EUGIUS - Unione Europea Giudici Scrittori - Non sono un'addetta ai lavori: per professione non mi occupo di diritto, ma di testi classici. Mi sono accostata alle tematiche che oggi affrontiamo per senso di dovere civico, in quanto sempre più sconcertata di fronte alla deriva inarrestabile delle gogne mediatiche e dei "processi" celebrati in tv, del tutto al di fuori sia dalle regole del diritto, sia dal rispetto della persona e dai valori dell'humanitas. Di recente, le motivazioni del verdetto di Cassazione sul caso Kercher hanno esplicitato il condizionamento che sulle indagini, e di conseguenza sull'iter giudiziario, può essere esercitato dalla pressione mediatica. Dopo tale autorevole parere, direi che la questione abbia ora il crisma dell'allarme ufficiale. Le sentenze televisive, anticipate e costruite, giorno dopo giorno, sul pregiudizio mediaticamente indotto, possono influire sull'esito dell'iter giudiziario vero e proprio, e portare alla conferma, in sede di tribunale, di condanne già da tempo date per scontate, sancite dalle opinioni degli ospiti dei programmi di cronaca, e richieste a gran voce dall'opinione pubblica che da tali opinioni è stata inevitabilmente condizionata. Fiction. Quando un caso giudiziario sale alla ribalta della cronaca ed entra nei "salotti" televisivi, si crea un circolo vizioso per cui, paradossalmente, proprio l'indizio più vago, più labile e oggettivamente meno significativo è quello potenzialmente più adatto ad essere romanzato, ad avviare un racconto d'invenzione, a fornire spunti per la fiction di intrattenimento con cui si riempiranno infiniti pomeriggi: il tutto avviene mediante una serie di procedimenti retorici che meriterebbero un'indagine specifica e dettagliata (magari anche da sviluppare in tesi di laurea). Va anche detto che lo strapotere degli opinionisti dei talk show - ognuno dei quali, odierno Minosse, "giudica e manda secondo ch'avvinghia", in base, spesso, a una conoscenza palesemente approssimativa del caso - è anche conseguenza della fine del vero giornalismo, quello d'inchiesta, a cui si è ormai sostituito il giornalismo ombra di se stesso, il giornalismo del "copia e incolla", quello che si limita a raccogliere il gossip e a entrare nella catena del tam-tam mediatico senza verificare la notizia (violando l'abbiccì delle norme del giornalismo), e che ripropone all'infinito e amplifica i presunti indizi filtrati dalle sedi giudiziarie, presentandoli come verità assodate tramite la ripetizione parossistica delle frasi fatte, capziose e e imbroglianti, alle quali il pubblico si abitua fino a farle proprie (e fino a credere di averle pensate autonomamente, come avviene con la pubblicità occulta). Evidente meccanismo di manipolazione, che uccide il senso critico. Avetrana. A mio avviso, in questi ultimi anni, tutto questo è stato rappresentato emblematicamente dal caso Scazzi, di cui mi sono occupata in modo approfondito maturando il convincimento dell'innocenza delle due imputate, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, in custodia cautelare da cinque anni e raggiunte, anche in secondo grado, entrambe dalla condanna all'ergastolo. Il poco tempo a disposizione non mi consente ovviamente di approfondire in questa sede l'analisi del delirio mediatico verificatosi intorno a questo specifico caso, né di dedicare a questo tragico fatto di cronaca, e alla sconcertante vicenda giudiziaria che ne é seguita, tutto lo spazio necessario. Mi limito quindi a riferirmi a questa vicenda allo scopo di esemplificare i suddetti procedimenti di manipolazione retorica. La tv ha dedicato a questo caso montagne di ore, un vero delirio senza precedenti: ricordo che fu la diretta televisiva no-stop della sera in cui fu ritrovato il corpo della giovane vittima a far schizzare in alto sia l'interesse per la vicenda, sia, di conseguenza, l'audience. Le immagini. Nella civiltà dell'immagine, ha preso ovviamente campo anche la retorica visiva (analoga a quella verbale). Effetti devastanti si possono ottenere anche attraverso l'uso di fotogrammi fissati ad hoc e riproposti all'infinito, a fine suggestivo, come avviene in pubblicità: Sabrina Misseri con l'espressione tormentata o che piange (e così si è dato credito al nonsense dell'espressione "lacrime di plastica"), Amanda Knox e Raffaele Sollecito che si baciano all'indomani della tragedia, Cosima Serrano che spinge il marito in garage per sottrarlo all'assalto di giornalisti e fotografi, un gesto riproposto ad arte come rappresentativo del presunto ruolo dispotico della donna, data in pasto al pubblico come la "sfinge" e la "matriarca", in linea con quanto richiesto dai ruoli e dalla trama del "romanzo a puntate" in cui la l'evento tragico si andava trasformando. Come si vede, siamo persino sotto la soglia dell'indizio, ma l'immagine trasmessa e ritrasmessa mille volte è sufficiente a scatenare l'odio popolare, e viene tradotta mentalmente: "lei è quella che ha ucciso la ragazzina e ha ordinato al marito di far sparire il corpo". L'immagine capziosa non resta inerte, ed infatti è divenuta la molla micidiale che ha portato alle grida selvagge e agli applausi vigliacchi del momento dell'arresto, offerto anche quello al pubblico come spettacolo. Una forma di antifemminismo collettivo porta a trovare normale un fatto, a mio avviso, di inaudita gravità, cioè che sulle donne coinvolte in quest tragiche vicende si esprimano giudizi persino in riferimento al loro grado di avvenenza fisica (!), e anche in ciò si pensi di trovare riscontri per gli indizi di colpevolezza (Sabrina gelosa perché non abbastanza bella, Amanda troppo bella e perciò manipolatrice, e altre sciocchezze del genere: sciocchezze, certo, ma dalle devastanti conseguenze). I trucchi della retorica. Sul piano del linguaggio e dei messaggi verbali, la formidabile cassa di risonanza televisiva riesce a mettere in circolazione assiomi fatti passare per verità provate, slogan la cui vacuità è mascherata da deduzione logica: "allora si è uccisa da sola" (frase che circola nel web in riferimento a tutti i casi di cronaca divenuti famosi), "sono stati gli extraterrestri"; più grave ancora l'ipocrisia ricattatoria con cui il colpevolismo acritico e viscerale si accaparra la difesa della vittima tramite frasi del tipo: "io sono dalla parte della vittima" (donde il paralogismo: se difendi gli indagati o imputati, vuol dire che tu non sei dalla parte della vittima) , "se fosse stata tua figlia?". Falsi sillogismi. Si sono usati, nel caso di Avetrana, per dare consistenza al presunto movente della gelosia: per crearli si diffondono notizie inesatte (la storia, falsa, dei diari di Sarah che Sabrina avrebbe nascosto), si insiste sull'aspetto fisico dell'imputata (era grassa, la cugina era magra, dunque l'invidia e la gelosia sono possibili, dunque ha ucciso per gelosia). Passaggio successivo sono le domande rivolte agli "esperti": secondo lei si può uccidere per gelosia?" "Sì, certo che si può" (lo sappiamo tutti che si può, non occorrono gli "esperti"): ergo Sabrina ha ucciso per gelosia (esempio ricorrente di falso sillogismo in questa vicenda). Il lessico. A farci caso, si riscontra la passione dei media per le espressioni verbali dure, violente, quasi sadiche: incastrare, inchiodare, torchiare. C'è sempre, in agguato, lo scoop riguardo a "prove" che incastrerebbero l'imputato di turno (poi si scopre, il più delle volte, che si tratta in realtà soltanto di parvenze di indizi, o di elementi irrilevanti interpretati come tali). Il sensazionalismo, comunque, si manifesta soprattutto nell'abuso del termine "supertestimone", ormai irrimediabilmente inflazionato, e riferito in genere ad autori e autrici di banali "rivelazioni" da gossip paesano. Va aggiunto il "Vergogna"!, il grido preferito di giustizialisti e giustizieri, quello urlato dalla folla inferocita accorsa a godersi gli arresti, o davanti ai tribunali in caso di assoluzione, dovunque nel web. L'uso perverso della retorica, soprattutto da parte di giornalisti e operatori televisivi, consiste anche nell' illuminare il segmento che interessa oscurando ciò che andrebbe a favore dell'imputato: è un procedimento, del resto, canonizzato nei trattati di oratoria (le Controversiae di Seneca il Vecchio ce ne rappresentano l'uso concreto e abituale nelle esercitazioni delle antiche scuole di retorica); la retorica, si sa, procede anche per omissioni: e così, per esempio, della questione orari, dirimente nel caso di Avetrana, in tv non si parla quasi mai, e mai con precisione: la retrocessione forzata degli orari, in base a testimonianze – malcerte - di mesi dopo, è il vero scandalo di questa vicenda giudiziaria. Naturalmente si parla invece moltissimo, all'interno di affrettate analisi psicologistiche da due soldi, di atteggiamenti ritenuti strani e sospetti, reazioni emotive, espressioni facciali, presunta eccessiva agitazione, presunta eccessiva calma delle persone imputate. Sì, per paradosso sia l'agitazione, sia la calma si prestano a essere interpretate come indizi di colpevolezza: altro espediente – di bassa lega, sia chiaro – della retorica televisiva. Le condanne a furor di popolo: cominciano dagli sms forcaioli letti in trasmissione. A tutto questo bisogna opporsi, con le armi della civiltà e della ragione, altrimenti secoli di progresso nel diritto saranno spazzati via dallo strapotere mediatico, dalla grancassa televisiva, dalle urla maleducate con cui, in quei "salotti", viene non di rado impedito e interrotto anche il più timido tentativo di approfondimento: un'inciviltà (travestita da voglia di giustizia), che, tra l'altro, alimenta nel pubblico un modo di ragionare e di esprimersi primitivo, rozzo e persino violento (si pensi al dilagante "gettate le chiavi": perché allora non anche inchiodare la porta, “chiavar l’uscio di sotto”, come si fece col conte Ugolino?). Che cosa può fare, per esempio, la scuola? Con una tv così diseducativa, con programmi che uccidono sia il senso critico che il senso di umanità, a mio avviso deve fare quello che è da sempre il suo compito: insegnare a pensare, favorire l'autonomia del giudizio, lo smascheramento del trucco retorico, la demolizione del pregiudizio alimentato ad arte, il riconoscimento dei meccanismi di manipolazione e degli espedienti "pubblicitari" a cui prima ho fatto riferimento. Ci si può anche aiutare con la letteratura, dove tutto è già stato detto: Per esempio, sarebbe importante far riflettere i giovani sul fatto che il linciaggio mediatico è la versione moderna del procedimento, analiticamente descritto da Manzoni, della caccia agli untori; si potrebbe proporre la lettura del capolavoro di Dacia Maraini, "La lunga vita di Marianna Ucria", con la descrizione della folla che accorre a gustarsi una barbara esecuzione di piazza; si potrebbe anche ricordare loro che il percorso allucinante, da incubo, di un innocente che finisce in arresto e sotto processo ce lo ha già raccontato Kafka. Per concludere: ma perché accade tutto questo? Perché mai è così facile, da parte dei media, alimentare (irresponsabilmente, visto che chi detiene il megafono televisivo avrebbe l'obbligo della massima prudenza) il colpevolismo acritico e viscerale, e addirittura l'odio, il linciaggio verbale che potrebbe persino diventare linciaggio fisico, se gli imputati finissero nelle mani della folla (come si vede, ripeto, dagli applausi, gli insulti e gli sputi agli arresti)? Anche qui il mondo antico ci può suggerire delle risposte: forse per lo stesso motivo antropologico, per le medesime pulsioni che facevano accorrere il popolo agli spettacoli di sangue dell'arena (utile rileggere l'epistola 7 di Seneca), e forse anche per il medesimo istinto e intento autopurificatorio, anch'esso di notevole interesse antropologico, per cui una città proiettava sul malcapitato di turno (il pharmakòs, una vittima sacrificale predestinata), tutti i mali che voleva stornare da sé: versione mitigata e divenuta quasi simbolica, secondo alcuni, di un precedente uso dei sacrifici umani. L'espulsione violenta del poveretto dalla comunità, attuata con umilianti gesti di maltrattamento rituale, aveva una funzione espiatoria di chiara valenza apotropaica. Forse illustrare tutto questo alle generazioni che cerchiamo di educare non guasterebbe.

Calunnia contro Bruzzone e Galoppa, Misseri torna in aula, scrive il Quotidiano di Puglia l'8 giugno 2017. Michele Misseri è tornato ieri mattina in un’aula del Tribunale. Lo zio di Sarah Scazzi si è presentato all’udienza del processo che lo vede imputato per calunnia ai danni della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa. Il processo, infatti, ieri ha vissuto una nuova tappa con i riflettori puntati sulla mattina del 15 ottobre del 2010. Quel giorno Misseri consegnò alle indagini sul delitto di Avetrana un altro colpo di scena. Una settimana prima aveva ammesso di essere l’assassino di Sarah. Ma quella mattina, dopo un sopralluogo nel suo garage, tirò sulla scena del delitto, per la prima volta, la figlia Sabrina Misseri. Una versione che zio Michele ha successivamente ritrattato accusando la criminologa e il suo ex difensore, che lo hanno denunciato e si sono costituiti arte civile in giudizio. Ieri il giudice ha acquisito la deposizione di uno degli infermieri del carcere di Taranto che ha testimoniato sulla terapia a cui Misseri era sottoposto in carcere e sulla mancata assunzione di farmaci. Sul punto, nella prossima udienza del 5 luglio, testimonierà anche un ufficiale della polizia penitenziaria. Oltre a Misseri a giudizio, per diffamazione, ci sono anche l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista Ilaria Cavo. I due professionisti sono accusati di aver fatto da “sponda” in qualche maniera alle accuse lanciate da Misseri contro l’avvocato Galoppa e la criminologa Bruzzone.

Difesa di Ilaria Cavo e di RTI valuta azioni legali dopo dichiarazioni dell'avvocato Gallo. Caso Misseri, processo per diffamazione: la difesa di Ilaria Cavo e di RTI pronta a valutare natura diffamatoria delle dichiarazioni dell'avvocato Fabrizio Gallo, scrive il 5 luglio 2017 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Poco più di un anno fa, nel giugno 2016, presso il Tribunale di Taranto ha preso il via il processo che vede imputato Michele Misseri con l'accusa di calunnia nei confronti della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa. Entrambi furono accusati da Misseri di essere stato da loro indotto a dare la colpa del delitto della nipote Sarah Scazzi alla figlia Sabrina Misseri. La criminologa è stata consulente di parte nel processo per l'omicidio della 15enne di Avetrana, mentre Galoppa fu l'ex avvocato difensore di Michele. Oltre a Misseri risultavano imputati per diffamazione anche la giornalista Mediaset Ilaria Cavo e l’avvocato Fabrizio Gallo. Nell'udienza del 15 giugno dello scorso anno, come ricorda Affariitaliani.it, la difesa aveva provato a chiedere la perizia psichiatrica su Michele Misseri, sostenendo che quando il contadino accusò in aula e in alcuni programmi tv l'avvocato Galoppa e la criminologa Bruzzone, in realtà fosse incapace di intendere e di volere. Richiesta che tuttavia vide la bocciatura del giudice Di Roma. Nella giornata di oggi, a prendere la parola in aula nell'ambito del medesimo procedimento in corso davanti al Tribunale di Taranto è stato l'avvocato Fabrizio Gallo, coimputato del reato di diffamazione aggravata ai danni dell'avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Bruzzone. A tal proposito, con un comunicato ufficiale di Cologno Monzese, proprio in merito alle dichiarazioni rese nel corso dell'udienza la difesa di Ilaria Cavo e di RTI ha fatto sapere che si riserva di "valutare la natura diffamatoria e/o calunniosa delle affermazioni proferite oggi in aula, senza trascurare nessuna iniziativa giudiziaria", al fine di tutelare l’immagine della stessa Cavo e le testate del Gruppo Mediaset.

Taranto, Gilletti depone come testimone al processo per calunnia contro lo zio di Sarah Scazzi. Il conduttore televisivo ascoltato su richiesta della difesa ed ha riferito su dichiarazioni rilasciate da Michele Misseri nel corso della trasmissione l'Arena, scrive il 7 marzo 2018 "La Repubblica". Il giornalista e conduttore televisivo Massimo Giletti è stato ascoltato come testimone dal Tribunale di Taranto nel processo in cui sono imputati Michele Misseri, l'ex giornalista Mediaset Ilaria Cavo (ora assessore della Regione Liguria) e l'avvocato romano Fabrizio Gallo. Il contadino di Avetrana, già condannato a 8 anni per soppressione di cadavere nel processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, risponde di calunnia; Cavo di diffamazione ai danni della criminologa Roberta Bruzzone e dell'avvocato Daniele Galoppa, ex difensore dello stesso Misseri, mentre l'avvocato Gallo risponde di diffamazione. Giletti è stato ascoltato su richiesta della difesa ed ha riferito su dichiarazioni rilasciate da Misseri nel corso della trasmissione l'Arena. Secondo l'accusa, Michele Misseri avrebbe calunniato il suo ex difensore e la criminologa, affermando di essere stato da loro spinto a incolpare la figlia Sabrina, indagata in seguito alle sue dichiarazioni e poi condannata con sentenza definitiva all'ergastolo per omicidio insieme alla madre Cosima Serrano. Nei confronti della ex giornalista Mediaset l'accusa è quella di aver rilanciato, attraverso la televisione, le accuse del contadino di Avetrana. Il processo è stato aggiornato al 4 aprile prossimo, quando sarà ascoltato l'avvocato Francesco De Cristofaro, ex legale di Misseri. Per il 30 maggio è stata fissata la requisitoria e la discussione delle parti civile. Il 13 giugno arringhe, camera di consiglio e sentenza.

Accuse false a Galloppa e Bruzzone: condanna a tre anni per "zio Michele", scrive Mercoledì 7 Novembre 2018 Il Quotidiano di Puglia. Tre anni di reclusione per una serie di indicazioni non veritiere, che hanno configurato i reati di diffamazione e calunnia ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Buzzone: è la condanna inflitta a "Zio Michele", ovvero l'agricoltore di Avetrana Michele Misseri, zio di Sarah Scazzi (difeso dall’avvocato Ennio Blasi). Insieme con Misseri erano sott’accusa per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista televisiva Ilaria Cavo. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, avrebbero espresso opinioni che si sarebbero estrinsecate in dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. L’avvocato Galoppa, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa era stata poi nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri, che aveva fatto intendere che i due l’avessero convinto ad accusare la figlia Sabrina (condannata all’ergastolo insieme con la madre Cosima Serrano). Secondo la procura della Repubblica, sia l’avvocato Gallo che la giornalista, in modi e attraverso interventi differenti, avrebbero avallato la tesi secondo cui Misseri sarebbe stato effettivamente indotto dai due professionisti ad alterare la verità dei fatti. Gallo è stato condannato a una multa di 800 euro. Assolta dall’accusa Ilaria Cavo.

Avetrana, Ilaria Cavo assolta dall'accusa di diffamazione: il fatto non sussiste, scrive mercoledì 7 novembre 2018 Primocanale.it. La giornalista di Mediaset e oggi assessore alla cultura, istruzione e formazione della Regione Liguria Ilaria Cavo è stata assolta con formula piena (perché il fatto non sussiste) dal reato di diffamazione aggravata nell'ambito del cosiddetto processo "Avetrana bis" che ha visto imputato per calunnia e autocalunnia Michele Misseri, condannato oggi a tre anni. L'accusa nei confronti di Cavo era quella di aver diffamato la psicologa forense Roberta Bruzzone e l'avvocato Daniele Galoppa per una frase pronunciata durante una puntata della trasmissione televisiva Pomeriggio 5. Cavo, assistita dall'avvocato Salvatore Pino del foro di Milano, si era sottoposta a interrogatorio presso il tribunale di Taranto. "Ero certa della correttezza del mio intervento e della serietà del lavoro da cronista svolto sul caso di Avetrana - ha detto stasera Cavo -. La assoluzione di oggi è piena e è il riconoscimento di tutto questo. Si chiude così, con una sentenza netta, il procedimento nei miei confronti nato da una denuncia dell'ex avvocato di Michele Misseri, Daniele Galoppa, e della criminologia Roberta Bruzzone. Risale a quando, come giornalista di Mediaset, seguivo il caso di Avetrana. Avevano provato a mettere in dubbio la correttezza. Dopo due anni il riconoscimento di serietà e professionalità. Un grazie all'avvocato Salvatore Pino che mi ha seguito e dato poco fa la notizia".

PROCESSO A IVANO RUSSO.

Omicidio Sarah Scazzi, Ivano Russo depistò le indagini? Ecco i particolari shock contro di lui, scrive l'1 giugno 2018 Elisabetta Francinella su Velvet. L’ex fidanzata di Ivano Russo, Virginia Coppola, ha rivelato nel processo per false dichiarazioni ai giudici e falsa testimonianza nell’omicidio di Sarah Scazzi, alcuni particolari sconvolgenti sull’ex compagno legati al giorno del delitto. Si riaccendono i riflettori su Ivano Russo, l’amico di Sabrina Misseri e Sarah Scazzi, centro focale, secondo la Procura che ha ricostruito l’omicidio della 15enne di Avetrana, delle liti tra le due cugine. L’ex compagna del giovane, accusato insieme ad altre 12 persone, tra amici e parenti della vittima, di aver depistato le indagini sull’omicidio, ha testimoniato in aula rivelando: “Ivano mi confessò di essere uscito il pomeriggio in cui scomparve Sarah Scazzi. Agli inquirenti aveva detto che era a casa. Ha mentito! La vide mentre litigava con Sabrina”. A riportare le dichiarazioni shock di Virginia Coppola è il settimanale Giallo, diretto da Andrea Biavardi, ancora in edicola. Secondo la ricostruzione della Procura a spingere la cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima Serrano, entrambe condannate in via definitiva all’ergastolo, a commettere l’omicidio di Sarah è stato proprio il rapporto con Ivano Russo, corteggiato all’epoca dei fatti dalla cugina della vittima. A smentire l’alibi fornito al tempo da Ivano, oltre alla testimonianza dell’ex compagna e madre di suo figlio, vi sono anche una serie di sms che Sabrina gli avrebbe inviato poco prima dell’omicidio. Il giovane all’epoca dei fatti dichiarò di aver scoperto della scomparsa di Sarah Scazzi soltanto alle ore 17 di quel terribile giorno, giustificandosi che quei messaggi di Sabrina non li aveva letti prima di una certa ora perché aveva scordato il cellulare nella macchina. Stando quanto sostenuto da Virginia Coppola, riportato dal noto settimanale, Ivano, secondo quanto riferito dall’allora fidanzata del fratello del giovane, era uscito intorno alle ore 13.45 per comprare le sigarette ed era rientrato arrabbiato una ventina di minuti dopo. A confermare le parole della fidanzata del fratello fu stesso Ivano Russo che alla compagna ammise la verità: “Ivano non ha dato conferma immediatamente. Era scontroso quando si parlava di quell’argomento, ma in un secondo momento… lui mi ha detto di sì”. Addirittura Ivano si sarebbe anche spinto oltre, confessandole di averle viste litigare. Molte sono le domande che sorgono spontanee, come dove ha visto discutere Sarah e Sabrina? Ma soprattutto, sono attendibili le parole della compagna, oppure sono mosse da un senso di vendetta visto il loro rapporto finito male? A confermare però le parole di Virginia Coppola, stando quanto riportato dal settimanale Giallo, vi sarebbe un’altra testimonianza, secondo la quale Ivano era nella villetta dei Misseri e si sarebbe allontanato con la sua macchina alle 14. Il Russo era quindi con Sabrina e Sarah poco prima dell’efferato delitto? Il giovane continua a smentire ogni accusa, cercando di difendersi dalle testimonianze.

Delitto Avetrana, testimonianza-shock della ex di Ivano Russo: “Ha mentito, mentre Sarah Scazzi veniva uccisa non era a casa”. Ivano Russo, il ragazzo per cui Sabrina Misseri aveva un'infatuazione e che sarebbe stato la causa scatenante del delitto, ha sempre sostenuto di essere rimasto a casa nel pomeriggio dell'omicidio, scrive il 24 maggio 2018 TPI “Mentre Sarah veniva uccisa, Ivano non era a casa”. A poco più di un anno dalla sentenza della Cassazione che ha condannato all’ergastolo Sabrina Misseri e Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi, c’è un nuovo colpo di scena nel delitto di Avetrana. In un procedimento costola, incentrato sulle presunte false testimonianze di alcune delle persone che hanno deposto durante il processo principale, la ex fidanzata di Ivano Russo ha smentito quanto raccontato da quest’ultimo in dibattimento. “Quel giorno so che Ivano è uscito di casa”, è quanto dichiarato da Virginia Coppola. Ivano Russo, personaggio chiave del processo sulla morte di Sarah Scazzi, aveva sempre affermato di essere rimasto a casa nel pomeriggio di quel 26 agosto 2010. Secondo la Coppola, invece, sarebbe stata la fidanzata di Claudio Russo, fratello di Ivano, a riferirle che quel pomeriggio lo stesso Ivano era uscito di casa per almeno 20 minuti, tra le 13.45 e le 14.05, per andare a comprare delle cartine per le sigarette. Si tratta proprio dell’orario in cui, secondo la ricostruzione della procura accolta dalle sentenze, Sarah Scazzi sarebbe stata uccisa in casa Misseri. I magistrati vogliono però vagliare con attenzione le dichiarazioni della Coppola, a causa dei rapporti molto burrascosi intercorsi durante e dopo la relazione tra lei e Ivano Russo. Sono infatti pendenti una serie di denunce reciproche che risalgono al periodo del loro fidanzamento. Proprio per questo, la stessa procura sospetta che questa testimonianza possa essere una forma di ripicca della Coppola nei confronti di Russo. Quest’ultimo, come detto, ha sempre affermato di essere rimasto a casa nel pomeriggio del 26 agosto 2010, una ricostruzione confermata anche dai suoi genitori. Ma non è tutto: Virginia Coppola, in aula, ha anche riferito di aver appreso che Ivano Russo, il giorno del delitto, aveva incontrato Sarah Scazzi, contrariamente a quanto dichiarato dallo stesso Ivano a inquirenti e procura. La circostanza sarebbe stata riferita da Russo direttamente alla Coppola, che però, in aula, ha affermato di non sapere se questo presunto incontro sia avvenuto nella mattinata o poco prima del delitto. L’ipotesi della procura, che è stata mantenuta per tutta la durata del processo, è che il movente dell’omicidio di Sarah Scazzi sia stato la gelosia di Sabrina nei confronti della cugina. Sabrina era infatti innamorata di Ivano Russo, fino a esserne praticamente ossessionata, come testimoniato da alcune sue amiche in aula. Un episodio in particolare avrebbe avviato la spirale che ha poi portato all’omicidio. Ivano Russo avrebbe “umiliato” Sabrina Misseri appartandosi con lei ma rifiutandosi di consumare un rapporto sessuale completo. Il fatto era arrivato anche alle orecchie di Sarah, che tra le altre cose era spesso “coccolata” affettuosamente da Ivano Russo suscitando la gelosia della cugina. Una tensione che, secondo i pubblici ministeri, si sarebbe acuita di giorno in giorno fino a diventare la causa scatenante del delitto. Sabrina, durante il processo, ha sempre cercato di minimizzare la sua infatuazione per Ivano Russo, ma è stata smentita non solo dalle testimonianza delle amiche, ma anche da un’impressionante mole di messaggi inviati allo stesso Ivano, dai quali traspariva con evidenza la sua ossessione per il ragazzo.

Caso Sarah Scazzi, news a Quarto Grado: 8 menzogne attribuite a Ivano Russo, scrive venerdì 03/06/2016 Michela Becciu su “Urban Post”. Non c’è un movente. Ad oggi, mentre ci si avvia all’inizio del processo nell’ambito dell’inchiesta Scazzi bis, ancora non si conosce il movente dell’omicidio della 15enne di Avetrana, avvenuto il 26 agosto 2010. Si è aperta facendo il punto sul caso la puntata odierna di Quarto Grado. Dodici persone finite sotto i riflettori e rinviate a giudizio perché accusate di falsa testimonianza al Gip, tra loro Ivano Russo, colui il quale per la procura di Taranto titolare delle indagini sarebbe stato l’oggetto del contendere tra Sabrina Misseri e la vittima, la cugina Sarah Scazzi, appunto. Otto le menzogne attribuite dalla magistratura inquirente al ragazzo, tra queste l’aver ridimensionato la travolgente infatuazione che Sabrina Misseri nutriva nei suoi confronti, l’aver dichiarato nel processo di primo grado di non essersi accorto che la piccola Sarah avesse una cotta per lui, allo scopo di depistare le indagini, secondo l’accusa. Non solo, Ivano avrebbe taciuto e negato in sede di processo il faccia a faccia tra le due cugine avvenuto 5 giorni prima che avvenisse il delitto: l’oggetto della loro discussione un rapporto sessuale solo accennato tra Ivano e Sabrina, interrotto e seguito di un rifiuto del ragazzo, tenuto segreto dai due e reso pubblico in paese da Sarah. Fatto, questo, che avrebbe mandato su tutte le furie Sabrina Misseri. Ivano Russo è da anni protagonista di una battaglia legale fatta di denunce incrociate con la ex fidanzata Virginia Coppola, madre di suo figlio. Per le legge lui è il movente ‘inconsapevole’ del delitto di Sarah Scazzi. Avrebbe mentito ai pm secondo la procura di Taranto, ed ora potrebbe essere rinviato a giudizio per questo. “Sono in realtà uscito per comprare le sigarette”, confidò all’allora fidanzata in merito all’ora del delitto, contraddicendosi rispetto a quanto dichiarato ai magistrati, ovvero che quel pomeriggio non uscì di casa perché stava dormendo. Nel 2014 Virginia Coppola rese dichiarazioni spontanee agli inquirenti, aggiungendo che Ivano, sempre in riferimento a quanto accaduto prima del delitto, parlando di Sarah e Sabrina le disse: “Quelle stavano litigando”. Un tentativo di depistare le indagini? Si domandano i magistrati e si sono domandati stasera in studio gli ospiti di Gianluigi Nuzzi.

Caso Sarah Scazzi, Ivano Russo a processo: le sue parole fuori dal tribunale, scrive Michela Becciu, mercoledì 01/06/2016 su “Urban Post”. Rinviata al 1° luglio 2016 l’udienza preliminare in cui si discuterà della richiesta di rinvio a giudizio di 12 imputati nell’ambito dell’inchiesta Sarah Scazzi bis, tra cui Michele Misseri e Ivano Russo. Il giovane è stato intercettato fuori dal tribunale dai microfoni di Pomeriggio 5, ed ha risposto a diverse domande della giornalista che gli chiedeva un commento sul processo che presto potrebbe vederlo tra gli imputati: “Io sono pronto ad affrontare questo processo. Riguardo ai fatti contestati (false dichiarazioni al Gip e al pubblico ufficiale ndr) ho letto davvero tutto suoi giornali, addirittura che potrebbe esserci un mio coinvolgimento nell’omicidio della piccola Sarah, ma non è vero niente”. Riguardo alla testimonianza della ex fidanzata, Virginia Coppola, che con le sue dichiarazioni ha fatto vacillare il suo alibi per il giorno del delitto, Ivano Russo ha puntualizzato: “Non mi aspettavo tutto questo clamore mediatico attorno alla mia vita privata, e tornando a quello che ha dichiarato la mia ex compagna voglio precisare che risale ad un periodo molto delicato della mia vita, perché stavamo discutendo sull’affidamento di nostro figlio …”, quasi a lasciare intendere che le accuse della donna nei suoi riguardi sarebbero state dettate da rancori personali. Un pensiero, poi, Ivano lo ha rivolto a Concetta Serrano, mamma della povera Sarah: “L’ho sempre detto e lo ripeto: sono pronto ad incontrarla, disposto da sempre a parlare con lei, anche solo per un abbraccio. Come lei voglio che per Sarah sia fatta giustizia, io non sono un nemico”.

Sarah Scazzi, Ivano Russo era a casa Misseri? La ex dice…, scrive "Blitz Quotidiano" il 18 aprile 2016.  Ivano Russo era a casa Misseri il giorno che sparì Sarah Scazzi? E’ l’ultima ipotesi investigativa a cui sta lavorando la magistratura che indaga sulla morte della ragazzina di Avetrana. Condannate Sabrina Misseri e la madre Cosima, ma che ruolo ha avuto quel giorno Ivano, il ragazzo amato da entrambe e forse motivo di liti furenti tra le ragazze? Scrive Urban Post: Varie testimonianze seppur tardive, in primis quella della ex compagna di Ivano e madre di suo figlio, con la quale ora è ai ferri corti, avrebbero inoltre permesso di appurare che all’ora di pranzo di quel giorno maledetto, in casa Misseri (luogo del delitto) con Sabrina e Sarah ci fosse anche Ivano Russo. Presunto testimone della lite furiosa tra cugine, Russo si sarebbe poi defilato: un testimone ha infatti riferito di aver visto un’auto simile alla sua ripartire dalla villetta di via Deledda ad Avetrana proprio alle 14, fascia oraria del delitto. Ivano Russo avrebbe dunque mentito. Perché? C’è forse qualcos’altro che sa e non ha detto? Di questo dovrà rendere conto qualora venisse processato, e dal nuovo dibattimento potrebbe emergere una nuova verità sul delitto Scazzi, un nuovo scenario del delitto.

Ivano Russo, dunque, a proposito di quel giorno ha sempre detto di essere rimasto a casa e di non aver avuto a disposizione il cellulare, dimenticato in auto e recuperato solo dopo ore. Ebbene due testimoni dicono altro ora. Ecco cosa racconta Dgmag: La vicenda sull’omicidio della giovane Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana nel Tarantino alla fine dell’estate del 2010, torna alla ribalta con le dichiarazioni rilasciate qualche giorno fa da Ivano Russo, un cuoco amico della vittima e di sua cugina Sabrina Misseri, invaghita di lui (lei ora è in carcere con condanna di ergastolo insieme a sua madre Cosima mentre Michele, suo padre, è condannato ad otto anni per l’occultamento in un pozzo del corpo di Sarah). Il giovane Ivano avrebbe infatti reso falsa testimonianza nell’inchiesta: sarebbe crollato il suo alibi per l’ora di pranzo, momento in cui le indagini collocano il delitto di Sarah. Indagati per lo stesso reato, come lui, anche altre 10 persone fra cui i famigliari del giovane che avrebbero coperto Ivano quando, anziché essere in casa sua come affermava, secondo le prime ricostruzioni e altre testimonianze a confronto – avrebbe invece assistito ad una sorta di processo a Sarah, ad opera di Sabrina e sua madre Cosima, su presunte rivelazioni che avrebbe fatto la vittima in paese. Col sospetto che fosse stata lei infatti a rivelare a tutti un imbarazzante episodio hot fra la cugina Sabrina ed Ivano, la giovane Scazzi sarebbe stata al centro di una furiosa litigata fra le donne, tale da divenire per lei fatale, a cui pare sarebbe stato presente anche il supertestimone Ivano. La ricostruzione dello scenario clou che le indagini stanno studiando riporta l’attenzione su Sabrina, al centro del movente, ossia dello scandalo rivelato – e chi avrebbe occultato il cadavere ed avere altre responsabilità, Michele Misseri, ora indagato per autocalunnia. Dal prossimo primo giugno, giorno dell’udienza, l’intreccio dei segreti di famiglia, dei sospetti e delle tante bugie dei nomi coinvolti potrebbe dipanarsi almeno in parte e far luce su chi e come realmente spezzò la giovane vita di Sarah Scazzi.

La vita in diretta, delitto di Avetrana: Ivano Russo parla di Sarah Scazzi, scrive Patrizia Gariffo il 15 ottobre 2015 su “La nostra TV". La vita in diretta: Ivano Russo richiesto rinvio a giudizio. Nella puntata di ieri de La vita in diretta è andata in onda una piccola anteprima dell’intervista che Ivano Russo, coinvolto nel caso del tragico omicidio di Sarah Scazzi, ha concesso in esclusiva al programma condotto da Marco Liorni e Cristina Parodi. L’intervista arriva a pochi giorni dalla richiesta di rinvio a giudizio che il Tribunale di Taranto ha chiesto per dodici persone compreso il giovane, che oggi ha 32 anni e che secondo l’accusa sarebbe stato il ragazzo conteso tra Sarah e Sabrina Misseri e, quindi, motivo scatenante per cui quest’ultima e sua madre Cosima avrebbero ucciso la quindicenne di Avetrana, di cui erano cugina e zia. Omicidio per cui entrambe sono state condannate all’ergastolo anche in appello. Ivano Russo che, secondo i pubblici ministeri avrebbe taciuto o addirittura mentito su fatti importanti relativi all’assassinio, nella piccola anticipazione de La vita in diretta di ieri ha parlato con molta dolcezza di Sarah Scazzi. Ne ha ricordato la voce da bambina e la timidezza, che la faceva parlare poco ma che riusciva sempre a strappare un sorriso a tutti. La vita in diretta: Ivano Russo si difende. Oggi Ivano Russo, a distanza di cinque anni dall’omicidio di Avetrana, ai microfoni di Barbara Ergas, dice di sentirsi in colpa per essere stato l’oggetto del desiderio di Sabrina con cui ribadisce, ancora una volta, di non aver mai avuto una relazione. A chi, poi, l’accusa che quel pomeriggio non sarebbe stato a casa, come ha dichiarato in tribunale, conferma ancora una volta la sua versione. Ivano Russo continua a sostenere che la sua ex fidanzata mente, quando sostiene, riferendo le parole della fidanzata del fratello del ragazzo, che il giovane avrebbe visto le due cugine litigare durante quel tragico pomeriggio in cui la ragazzina è stata uccisa. E, invece, si sbaglierebbe un altro testimone che avrebbe visto una auto dello stesso colore di quella di Ivano, in giro per il paese in un orario compatibile con quello dell’assassinio di Sarah Scazzi. Il ragazzo, quindi, nonostante la richiesta di rinvio a giudizio, continua sostenere di non essere uscito da casa quel pomeriggio. Fa un piccolo richiamo anche a Concetta, la madre di Sarah, che non è mai andata da lui a chiedere spiegazioni, pur avendo detto più volte che, forse, se lui fosse stato presente quel pomeriggio, avrebbe potuto salvare sua figlia. Infine a La vita in diretta Ivano parla con molta tenerezza dei diari di Sarah, nelle cui pagine la ragazzina scriveva di provare dell’affetto per lui. Un affetto innocente che anche lui provava.

«Quel maledetto 26 agosto di cinque anni fa, era di giovedì, non ha solo cancellato la vita della povera Sarah, ma ha cambiato tutto il corso della mia vita e quella di altri». A ricordare così quel pomeriggio di fine agosto del 2010 in una intervista a Nazareno Dinoi sul Corriere del Mezzogiorno del 26 agosto 2015 è Ivano Russo, uno dei personaggi più controversi e coinvolti nella triste vicenda di Avetrana. Quel giorno una ragazzina di quindici anni, assolutamente sconosciuta se non ai suoi amici e ai pochi familiari, percorse gli ultimi settecento metri della sua, sino allora, anonima e breve vita. In un altrettanto anonimo paesino al confine delle tre province di Taranto, Brindisi e Lecce. Era diretta a casa degli zii, i Misseri, altra famiglia ignorata da tutti. Quel giorno, a quell’ora, un altro destino si stava compiendo, quello di Ivano, il bello di Avetrana di cui, per i magistrati, si erano invaghite sia la piccola Sarah che Sabrina Misseri, cugina della vittima e, secondo due sentenze, la sua assassina.

Ivano Russo, cosa ricordi di quel 26 agosto di cinque anni fa?

«Ho bruttissimi ricordi di quel giorno. Lo ricordo inizialmente come uno dei tanti. Avevo finito di mangiare, mi ero ritirato nella mia stanza, sdraiato sul letto e mi aspettavo le solite cose. Avrei dormito, svegliato, uscito pe rincontrare gli amici e trascorrere un’altra serata con loro. Invece le cose non andarono proprio così».

E cosa accadde? Cosa ricorda?

«Accadde che scomparve una mia carissima amica, la più piccola e più coccolata del gruppo, una bambina a cui tutti volevamo bene. Da quel giorno la mia vita non è stata più la stessa. Da quel giorno sono stato il sospettato numero uno. Sono stato travolto da un terremoto che mi ha cambiato e ha cambiato la mia famiglia. Ho perso la spensieratezza dei miei anni, ho un’ex compagna che mi accusa di cose terribili. E ho un figlio di due anni e mezzo, che ho avuto da lei e che non mi posso godere».

A proposito delle accuse che le rivolge la sua ex compagna, Virginia Coppola. Dice che lei quel giorno ha visto Sarah e Sabrina che stavano litigando. Sono accuse terribili.

«Sono menzogne per distruggermi. Il giorno in cui abbiamo litigato lei mi ha gridato in faccia che mi avrebbe rovinato la vita e ha mantenuto la promessa. Tra noi è scoppiata una guerra in Tribunale per l’affidamento di nostro figlio; Virginia mi ha riservato un colpo basso di cui non l’avrei mai ritenuta capace. È andata dai magistrati raccontando una serie di bugie che mi hanno trascinato nella disgrazia».

E di Sabrina cosa pensa ora che è stata condannata all’ergastolo da due tribunali?

«Nella sua famiglia si sono dette molte bugie. Dopo quello che è successo chiedo a Sabrina di liberare la sua coscienza e se come ritengono i giudici ha davvero commesso un tragico errore e si è macchiata di questo delitto, le chiedo di liberarsi di quel tremendo fardello e di dire tutta la verità: solo così restituirà la pace alla povera Sarah».

Racconto shock: «Ivano ha visto Sarah e Sabrina litigare», scrive Nazareno Dinoi sul Corriere del Mezzogiorno – Corriere della Sera. «Sabrina e Sarah quel pomeriggio stavano litigando». Lo avrebbe confidato Ivano Russo alla sua ex fidanzata, Virginia Coppola, che alla fine di un tormentato rapporto con il giovane dal quale ha avuto un figlio, ha deciso di raccontare una sua verità tenuta nascosta per quattro anni. Quella verità che i pubblici ministeri hanno sempre cercato senza mai trovare riscontri certi. «Il 26 agosto del 2010 – racconta la donna nelle sue dichiarazioni spontanee rilasciate a gennaio scorso al pm Mariano Buccoliero -, Ivano è uscito da casa intorno alle 13,50 per andare a comprare le sigarette ed è rientrato nervoso, intorno alle 14,45, sbattendo il telefonino sul tavolo della cucina». Quel giorno, esattamente intorno a quell’ora, la piccola Sarah veniva strangolata in casa Misseri. L’uscita di Ivano e l’irrequietezza al suo rientro dopo quasi un’ora di assenza, è una circostanza che la testimone dice di aver appreso, frequentando successivamente la casa dei Russo, da un’altra persona di famiglia che dovrà confermare o meno l’accaduto. Il motivo dell’agitazione dell’allora ventiseienne che ha sempre negato di essersi spostato da casa il giorno dell’omicidio, se non dopo le 17,30, lo spiega Virginia Coppola riferendo una confidenza avuta proprio da Ivano quando stavano già insieme. «Alla mia richiesta se avesse visto la bambina, cioè Sarah (sempre il pomeriggio del delitto, ndr), Ivano mi disse vagamente “quelle stavano litigando”. E’ sempre lei a raccontare al magistrato un altro episodio di facile interpretazione. Parlando dei numerosissimi messaggi che si scambiarono Sabrina con Ivano, quest’ultimo avrebbe confessato di averne cancellati alcuni di cui non ricordava il contenuto dicendosi peraltro preoccupato nel caso gli investigatori li avessero ritrovati. Il verbale di tre pagine che la donna ha riempito assistita dai due suoi avvocati, Antonella Demarco e Gaetano Di Marco, contiene poi vicende personali dell’ex coppia con risvolti violenti di lui che aggredisce lei, incinta di poche settimane, finita in ospedale senza nulla di grave. Il perché di questo lungo silenzio su fatti così importanti, lo spiega così Virginia al magistrato: «ho avuto paura della reazione di Ivano ma soprattutto non volevo che questo potesse influire su mio figlio». Tirato pesantemente in causa, Ivano Russo che ora è indagato per false dichiarazioni al pm, fa sapere attraverso il suo legale, Francesco Mancini, di essere all’oscuro di tutto e collega tutto ad un presunto piano della sua ex per fargliela pagare dei risvolti giudiziari in cui si è trascinata la loro storia. Tra i due è in corso un delicato procedimento per l’affido del figlio e reciproche denunce sia civili che penali. La donna, da parte sua, si è trincerata in casa e non ha voglia di parlare: «lasciatemi in pace, ho già sofferto abbastanza», dice al riparo della casa paterna dove vive con il figlio.

Caso Sarah Scazzi, Ivano Russo indagato: un atroce sospetto grava su di lui, scrive Michele Becciu su “Urban Post”. Ivano Russo è indagato per falsa testimonianza nell’ambito dell’indagine Scazzi bis: gli inquirenti hanno su di lui un terribile sospetto, ecco quale: “Al tempo raccontai tutto ciò che sapevo ai magistrati, ora vengo a sapere che sono indagato … cado dalle nuvole”, così Ivano Russo dopo aver appreso di essere tra le 12 persone indagate nell’inchiesta Scazzi bis. Ivano – è stato acclarato – ha mentito ai giudici. Se innocente ed estraneo alla vicenda, perché raccontò ai magistrati di avere trascorso tutto il pomeriggio a dormire, quel 26 agosto 2010? È stato un testimone ad aver fatto crollare il suo castello di menzogne – “lo vidi uscire di casa intorno alle 13.30″ – e lui, l’oggetto del desiderio di Sarah Scazzi e della cugina Sabrina Misseri, non ha potuto che correggere il tiro ed ammettere: “Sì, è vero. Sono uscito un attimo per acquistare le sigarette ma poi sono tornato a casa”. A quel punto, però, le sue dichiarazioni furono giudicate inattendibili, mere menzogne atte a depistare le indagini. Ed ora l’indagato è sospettato di avere taciuto importanti verità che avrebbero potuto giovare alle indagini. Gli inquirenti, infatti, sarebbero propensi a pensare che Ivano Russo si sia trovato in casa Misseri proprio in quel pomeriggio di agosto che fu fatale alla piccola Sarah. Il giovane avrebbe assistito alla furibonda lite tra cugine, sfociata poi nell’omicidio della 16enne. Cosa vide, Ivano? E perché non parlò in sede opportuna?

Colpo di scena ad Avetrana: “Ivano Russo era in casa Misseri il giorno del delitto”. Una svolta importante sul processo di Avtrana: Ivano Russo sa la verità. A svelare questo nuovo mistero è il settimanale GIALLO in edicolo, in via straordinaria, oggi, mercoledì 13 maggio. Così scrive Giallo riportato da Rete News 24: A cinque anni dal delitto di Avetrana arriva il colpo di scena. Dodici persone avrebbero contribuito a infittire il mistero sul la tragica fine di Sarah Scazzi, la quindicenne svanita nel nulla il 26 agosto 2010 e ritrovata morta in un pozzo dopo 42 giorni. Il castello di bugie e depistaggi, però, ora è crollato, grazie alle indagini dei magistrati di Taranto. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino e il sostituto Mariano Buccoliero, che con la loro caparbietà sono riusciti a far condannare all’ergastolo per omicidio la zia Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri, hanno notificato i 12 avvisi di garanzia per l’inchiesta Scazzi- bis, un procedimento parallelo al processo principale. Gli indagati andranno alla sbarra per falsa testimonianza e false dichiarazioni ai pm perché, secondo gli inquirenti, conoscevano le circostanze dell’uccisione della ragazzina ma hanno mentito. E la posizione più grave è quella di Ivano Russo, “l’Alain Delon” di Avetrana di cui Sabrina era innamorata e per il quale anche Sarah, negli ultimi tempi, aveva una simpatia. Contro di lui ci sono due supertestimoni, la cui identità è coperta dal massimo riserbo, che smontano l’alibi del “bel tenebroso” e gettano ombre su cosa sia successo davvero nella villetta dei Misseri, in via Grazia Deledda. Ma cosa aveva raccontato all’epoca Ivano? Il cuoco conteso tra le due cugine, a suon di interviste in televisione, aveva fin da subito negato qualsiasi coinvolgimento sentimentale sia con Sabrina che con Sarah. Ai pm che cercavano la ragazzina aveva fornito un alibi per il giorno della scomparsa: aveva detto di non sapere nulla sulla sparizione, che quel 26 agosto era stato a casa tutto il giorno e che solo alle 17 era venuto a sapere che Sarah era svanita nel nulla. Anche alle domande che gli chiedevano conto di una serie di sms che Sabrina gli aveva mandato all’ora di pranzo, Ivano aveva avuto la risposta pronta, dichiarando di aver dimenticato il cellulare in macchina la sera prima e averlo preso solo il giorno dopo, quando era uscito. A confermare le dichiarazioni del bell’Ivano erano stati la madre Elena Baldari, il fratello Claudio e la fidanzata di allora Antonietta Genovino, ora indagati insieme con Ivano per la falsa testimonianza. Gli inquirenti avevano già sospetti che il racconto di Ivano non quadrasse, visto che in un’intercettazione tra madre e figlio il cuoco istruisce la donna su cosa dire ai pm: «Hanno scritto cose assurde, se ti chiedono qualcosa tu devi dire “mio figlio a quell’ora stava dormendo”». Elena Baldari, inoltre, aveva contraddetto le dichiarazioni di Ivano anche sul cellulare, perché aveva detto che il giorno della scomparsa di Sarah il telefonino del figlio squillava, quindi non era in macchina, ma in casa. Se però, fino a poco tempo fa, le bugie di Ivano erano solo un sospetto, ora, con i due supertestimoni, sono diventate una prova contro il cuoco. E non solo perché svelano un comportamento ambiguo, interpretato inizialmente dagli investigatori come una mossa maldestra per proteggere Sabrina, ma perché cambierebbero lo scenario che ha portato all’omicidio della piccola. Dal racconto dei testimoni, infatti, emerge che, verso l’ora di pranzo di quel 26 agosto, nella villetta di via Deledda si sarebbe tenuto una sorta di “processo” a Sarah e che, oltre a Cosima e Sabrina, era presente anche Ivano. Motivo della discussione un fatto molto compromettente, che doveva rimanere segreto e che invece, ormai, era sulla bocca di tutti. Sabrina si era denudata in auto e si era offerta a Ivano, ma il bel tenebroso l’aveva rifiutata, dicendole di rivestirsi. La gente del paese chiacchierava e Cosima era andata su tutte le furie. Ma come si era sparsa la voce? La zia voleva un colpevole ed era convinta che fosse stata proprio Sarah a rivelare il segreto a una persona a lei molto vicina, che poi l’aveva spiattellato a tutti. A casa Misseri si stava consumando una tragedia, scatenata dalla vergogna, e Ivano aveva capito che era meglio defilarsi, quindi era andato via. Ma quella litigata non era rimasta tra le mura della villetta. Il cuoco aveva raccontato la vicenda a una persona allora a lui legata, che poi, finiti i rapporti, ha deciso di dire la verità ai pm. A confermare il fatto che Ivano non stesse dormendo c’è la dichiarazione dell’altro supertestimone, un uomo che ha visto una macchina amaranto, come quella del cuoco, allontanarsi da via Deledda intorno alle 14. Poco dopo anche Sarah aveva cercato di scappare, ma Cosima e Sabrina l’avevano raggiunta in strada e riportata dentro. Proprio come aveva raccontato il fioraio Giovanni Buccolieri, che aveva assistito alla scena. Le sue parole, però, erano state smentite dalla cognata Anna Scredo, che aveva assicurato come quello del commerciante fosse solo un sogno. Per aver inventato quella storia, anche lei, ora, è tra gli accusati di falsa testimonianza.

Una nuova testimone contro Ivano, scrive a sua volta “La Voce di Manduria” svelando il nome della testimone. Ivano Russo il pomeriggio in cui fu uccisa Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana trovata in un pozzo 42 giorni dopo la scomparsa, non era vero che si trovava in casa, come ha sempre sostenuto, ma era uscito per comprare le sigarette. Sarebbe una delle otto bugie, la più pesante, che, secondo chi lo accusa, l’ex amico di Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo per la morte della cugina insieme a sua madre Cosima Serrano, avrebbe raccontato ai magistrati che ora lo indagano per false dichiarazioni al pubblico ministero. La nuova versione che getta ombre sulla figura di Ivano Russo, è stata raccontata da una nuova testimone ascoltata di recente dagli inquirenti che a sua volta l’avrebbe appresa dallo stesso giovane. Ritenuto dalla pubblica accusa il vero movente dell’omicidio della ragazzina (le due cugine sarebbero state entrambe attratte da lui), il bell’Ivano ha sempre detto di essersi addormentato a casa quel giorno e di essere uscito con sua madre intorno alle 17.30. Solo allora, sostiene Ivano, dai messaggi che l’amica Sabrina gli aveva inviato mentre lui dormiva, avrebbe appreso della scomparsa di Sarah. La sua collocazione in giro per Avetrana intorno all’ora in cui è stato commesso l’omicidio, se la soffiata della sua ex compagna dovesse rispondere al vero, cambierebbe di molto la posizione di Ivano che si è sempre tirato fuori dalle presunte liti tra le cugine.

Le otto accuse per Ivano Russo, continua il ben informato Nazareno Dinoi su “La Voce di Manduria”. Ivano Russo ha mentito. Lo ha fatto per otto volte. E lo ha fatto per assicurare l’impunità a Sabrina Misseri». A formulare questa clamorosa accusa sono il procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino e il sostituto procuratore Mariano Buccoliero: i due pubblici ministeri del processo per il delitto di Avetrana, che ha visto Sabrina Misseri, ventisei anni, e sua madre Cosima Serrano, cinquantanove anni, condannate in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi, la cuginetta quindicenne di Sabrina, uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010. E questa nuova accusa, se i giudici la riterranno vera, potrà costare fino a sei anni di carcere, a Ivano Russo, trentuno anni, il giovane che, del tragico “caso di Avetrana”, è stato fin dall’inizio uno dei protagonisti. Ivano, che è stato soprannominato “il bell’Ivano” e “l’Alain Delon di Avetrana”, era per tutti l’amico del cuore di Sabrina ma, come era emerso nel processo, era stato anche suo amante. Non solo: secondo gli inquirenti e i giudici, Ivano era conteso tra Sabrina e Sarah, entrambe innamorate di lui; e, sempre per gli inquirenti e i giudici, è stata proprio la gelosia per Ivano che ha portato Sabrina a uccidere Sarah. Ora, però, i pubblici ministeri Argentino e Buccoliero sono convinti che Ivano, in questa terribile storia, non abbia avuto solo il ruolo di involontario “movente” del delitto: secondo loro, infatti, Ivano, nel tentativo di salvare Sabrina, ha detto bugie, in otto diverse occasioni, sia agli inquirenti che lo interrogavano, sia ai giudici davanti ai quali ha testimoniato in Tribunale durante il processo a Sabrina e a sua madre Cosima. Per Ivano è già pronta la richiesta di rinvio a giudizio da parte dei pubblici ministeri, che proprio in questi giorni hanno concluso le indagini su di lui. Se la richiesta sarà accolta, Ivano andrà a processo; e, se sarà condannato, rischierà di finire in prigione per sei anni. I pubblici ministeri, infatti, lo accusano di “false dichiarazioni al pubblico ministero” e “falsa testimonianza con l’aggravante della continuazione del reato”: due reati che la legge punisce, rispettivamente, con il carcere fino a sei anni senza contare l’aumento per le aggravanti. Ma quali sono, secondo l’accusa, le  otto bugie che Ivano avrebbe raccontato nel tentativo di salvare Sabrina? Vediamole una per una, basandoci sulle carte dell’inchiesta.

La prima bugia di Ivano, secondo l’accusa, consiste nell’avere nascosto il fatto che Sabrina era innamorate di lui.

La seconda bugia di Ivano, sempre per l’accusa, consiste nell’avere nascosto il fatto che anche Sarah era innamorata di lui. “Ivano Russo”, scrivono infatti i pubblici ministeri “ricostruiva in modo reticente e difforme dal vero i rapporti che aveva con Sabrina Misseri e Sarah Scazzi cercando di non fare emergere il particolare interesse sentimentale che Sabrina aveva nei suoi confronti e l’interesse sentimentale che Sarah aveva maturato sempre nei suoi confronti”.

La terza bugia di Ivano, secondo l’accusa, consiste nell’avere nascosto che, a causa sua, Sabrina e Sarah avevano litigato. “Ivano Russo”, scrivono i pubblici ministeri “ha nascosto il contrasto nato tra le due cugine”.

La quarta bugia di Ivano, secondo l’accusa, consiste nell’avere fatto finta di non essere mai stato amante di Sabrina. “Ivano Russo”, scrivono i pubblici ministeri “ha taciuto prima, escludendoli poi, due rapporti sessuali tra lui e Sabrina Misseri”. Ma,in un secondo momento, lui stesso ha amesso di essere stato amante di Sabrina quando gli inquirenti hanno scoperto diversi sms che lui e Sabrina si erano scambiati prima del delitto e che dimostravano, in modo inequivocabile, che la loro non era stata solo un’amicizia.

La quinta bugia di Ivano, secondo l’accusa, consiste nell’avere tentato di nascondere ai magistrati che Claudio Scazzi, il fratello maggiore di Sarah, gli aveva chiesto di non incoraggiare l’infatuazione che la ragazza nutriva per lui. “Claudio Scazzi”, scrivono infatti i pubblici ministeri “aveva avvisato Ivano di comportarsi con la sorella in ragione della sua giovane età”.

La sesta bugia di Ivano, secondo l’accusa, consiste nell’avere negato un fatto che, invece, per i giudici è sicuramente accaduto: il fatto di essere stato nella stessa stanza con Sarah mentre lei era in pigiama, e di averle prestato il suo cellulare, con cui la ragazzina si era scattata da sola una foto in quell’abbigliamento “da camera”. “Ivano Russo”, scrivono i pubblici ministeri “mentì alla Corte quando escluse di aver ceduto il suo cellulare a Sarah mentre la ragazzina era in pigiama nella stanza di Sabrina Misseri”. Per l’accusa, questo episodio è importante  perché dimostra che tra Ivano e Sarah c’era un rapporto di grande confidenza: una confidenza che, sempre secondo l’accusa, aveva spinto Sabrina a vedere in Sarah una sua potenziale rivale, suscitando nel suo cuore una gelosia e una collera che, alla fine, sono “esplose” nell’omicidio.

La settima bugia di Ivano, secondo l’accusa, consiste nell’avere tentato di nascondere il vero motivo di un animato “faccia a faccia” che si era svolto tra Sarah e Sabrina il 21 agosto 2010, cinque giorni prima del delitto. Una testimonianza, infatti, aveva informato gli inquirenti che in quella occasione Sabrina aveva rimproverato a Sarah di stare troppo attaccata a Ivano e le aveva detto, facendola scoppiare in lacrime: «Per due coccole ti vendi!». Ma, scrivono i pubblici ministeri, “Ivano ha mentito escludendo che l’incontro del 21 agosto tra Sarah e Sabrina era per chiarire la circostanza rilevata da Sarah di un rapporto sessuale tra lui e Sabrina».

L’ottava bugia di Ivano, infine, secondo l’accusa è anche la più grande di tutte: Ivano ha detto di essere rimasto sempre a casa il giorno in cui Sarah è stata uccisa; ma un testimone, invece, dice di averlo visto per strada proprio a quell’ora. “Ivano Russo”, scrivono i pubblici ministeri “ha mentito dicendo di non essere uscito dalla sua abitazione proprio il pomeriggio della scomparsa di Sarah Scazzi, il 26 agosto del 2010. A smentirlo in questa circostanza è stato un testimone che ha dichiarato invece di averlo visto in giro intorno all’ora in cui fu uccisa Sarah”. Se il testimone che smentisce Ivano sarà ritenuto attendibile dai giudici, sorgerà una nuova, inquietante domanda: come mai Ivano non voleva fare sapere ai magistrati di essere uscito di casa proprio nel tragico pugno di minuti in cui Sarah è stata uccisa? Che cosa voleva nascondere? È un mistero che, per ora, non ha risposta. Ma su cui, adesso, gli inquirenti vogliono vederci chiaro.

Sarah Scazzi, delitto di Avetrana ultime news 20/5: "Ivano Russo era là, lui sa tutto", scrive Gigi Rovelli su “Blasting News”. Omicidio Sarah Scazzi, Ivano Russo era a casa Misseri quel pomeriggio del 26 agosto 2010? Il caso legato al delitto Sarah Scazzi si arricchisce di nuovi ed importanti dettagli che potrebbero rivelarsi decisivi per scoprire cosa avvenne veramente in quel giorno di fine agosto del 2010, quando perse la vita la quindicenne. In particolar modo, è la posizione di Ivano Russo, il ragazzo di cui era innamorata Sabrina Misseri, ad essersi aggravata nelle ultime ore. "Lui sa tutto, Ivano sa molto di più di quello che ha detto". Queste sono le parole di Virginia Coppola, ex compagna di Ivano Russo, dal quale ha avuto persino un figlio, in un periodo posteriore al delitto.  "Quando mi chiameranno, racconterò quello che ho scoperto". La donna, in realtà, non venne mai convocata ma fu lei a rilasciare spontaneamente dichiarazioni riguardanti quel tragico pomeriggio. Virginia Coppola ha deciso di vuotare il sacco, anche perchè non riusciva a spiegarsi come mai Ivano e la sua famiglia si ostinassero a mentire agli inquirenti, asserendo che quel giorno lui si trovava a casa sua a dormire. La donna seppe che non era vero dalla compagna del fratello di Ivano che lei chiama cognata, perchè all'epoca era come se lo fosse: per la verità, lo stesso Ivano ammise, seppur vagamente, di aver visto Sabrina e Sarah litigare. Proprio per accertare la presenza del ragazzo a casa Misseri, nei prossimi giorni, verranno ascoltate diverse persone: Antonietta Genovino, ovvero la sopra citata cognata di Virginia Coppola, ma anche Claudio Russo ed Elena Baldari, rispettivamente fratello e madre di Ivano Russo. La loro posizione, di fronte agli inquirenti, si è fatta delicata perchè entrambi sono ora indagati per falsa testimonianza. Come ha reagito Ivano Russo di fronte alle dichiarazioni dell'ex compagna? L'uomo confessa che non si sarebbe mai aspettato un comportamento del genere e che, secondo lui, si starebbe vendicando. "Io ero in casa a dormire" continua a ribadire il Russo, invitando gli inquirenti a controllare meglio la posizione del suo cellulare prima di credere a delle dichiarazioni rilasciate da una persona che, evidentemente, vuole fargli del male. "Io non avevo alcun motivo di andare a casa dei Misseri, visto che la mia storia con Sabrina era già finita" . Chi ha ucciso Sarah Scazzi? Ivano Russo sta nascondendo qualcosa o si tratta solo di una vendetta trasversale dell'ex compagna?

Omicidio Sarah Scazzi: Ivano Russo indagato per falsa testimonianza, scrive Francesca Rogar su "Magazine Donna". Sembra una soap opera dal sapore amaro, piena di intrecci intricati, con lei che denuncia lui lo stesso giorno in cui lui presenta querela contro di lei. Che dopo un mese rilascia dichiarazioni spontanee in Procura. Contro di lui. Che poi, più tardi, la querelerà nuovamente. Una soap con due protagonisti: Ivano Russo e la sua ex compagna Virginia Coppola, con la quale tre anni fa ha avuto un figlio, Simone. Sullo sfondo c’è un delitto, quello di Sarah Scazzi, commesso il 26 agosto del 2010. Questa trama complicata inizia a fine dicembre di due anni fa. Le cose tra Ivano e la sua ragazza non vanno bene. Da mesi si trascinano i litigi. Volano parole grosse. Lei va a presentare denuncia, parla di aggressione e insulti. Ivano la querela. Trentotto giorni più tardi – è il 30 gennaio 2014 – è di nuovo Virginia ad agire, questa volta con un atto d’accusa lungo 99 righe in cui sostiene che Ivano ha mentito sul racconto di quel 26 agosto. Su quel terribile giorno Virginia dice che, contrariamente a quanto sostenuto da lui davanti ai Pm, Ivano non sarebbe rimasto a casa fino alle 5 del pomeriggio, ma sarebbe «uscito di casa intorno alle 13.50 per andare a comprare le cartine per fare le sigarette ed è rientrato nervoso, in casa, intorno alle 14.15, sbattendo le cartine e il  suo telefono cellulare sul tavolo della cucina». Dunque Ivano, a detta di Virginia, mente e sarebbe rientrato a casa nervoso. E mentirebbero anche la madre, il fratello e la cognata che, presenti, hanno negato quella circostanza e che sono stati anche loro indagati per false testimonianze. Poche righe dopo Virginia attacca ancora più duramente. Dice di aver parlato con il diretto interessato che «alla mia esplicita richiesta se avesse visto la bambina, cioè Sarah Scazzi, mi disse vagamente: “Quelle stavano litigando”». Dunque finiscono dentro il verbale anche Sabrina e Sarah. A quando farebbe riferimento quello “stavano litigando”? Allo stesso 26 agosto? C’è di più: Ivano ha sempre detto che i contatti con Sabrina si erano interrotti alcuni giorni prima, con la decisione di lui di allontanarsi. Virginia lo smentisce: «Ivano mi confidò che il giorno prima dell’arresto di Sabrina c’era stato un contatto fisico tra i due». E poi l’affondo finale, che lega la vicenda di Avetrana al rapporto stesso tra Virginia e Ivano. Virginia racconta che un giorno, durante la gravidanza, davanti alla volontà di lei di parlare di nuovo di quel 26 agosto, lui l’avrebbe aggredita, gettandola a terra. Lei sarebbe subito corsa in ospedale, riportando un “trauma contusivo in regione lombare”. Davanti alla dottoressa però, racconta Virginia, «dichiaravo di essere semplicemente caduta per strada, per evitare complicazioni ad Ivano». La denuncia si conclude con l’ultimo atto di accusa e di violenza. «Ho atteso questo momento per riferire quanto era a mia conoscenza, perché intimorita dalla reazione di Ivano. Ma dopo che ha lanciato un mazzo di chiavi contro mio padre che in quel momento aveva in braccio mio figlio, in occasione del primo compleanno, ho maturato la volontà di liberarmi del peso che avevo». Queste le parole di Virginia, che al telefono con noi aveva però negato di aver mai “conferito” con l’autorità giudiziaria. Secco Ivano: «Fa tutto per ripicca, mente e la verità verrà fuori. Purtroppo mi sta colpendo sul lato in cui sono più vulnerabile. Su quel giorno non ho mai mentito e la denuncerò per calunnia». Sarà forse un processo, un altro, a dover stabilire chi ha ragione in questa vicenda. Con Ivano abbiamo parlato all’inizio del fatto, un paio di volte. Gli ho chiesto delle cose e lui mi ha risposto. Il confronto è stato quello». Parla Claudio Scazzi, fratello maggiore di Sarah, ospite in studio a Quarto Grado dopo le accuse dei magistrati a Ivano Russo. Ora che la Procura ha messo sotto la lente di ingrandimento le sue dichiarazioni, ritenendole in parte mendaci, su quel lontano 26 agosto 2010, quando Sarah è stata uccisa senza pietà. «La mia idea – spiega Claudio – è che all’inizio di tutta la vicenda, quando ci sono state le prime audizioni, alcune cose sono state prese sottogamba dalle persone interrogate. Persone che hanno avuto lo scrupolo, magari in buona fede, di omettere dettagli, forse pure importanti ai fini delle indagini, per non tirare in ballo conoscenti o amici che, a loro avviso, avrebbero rischiato di finire, senza ragione, nel calderone dell’inchiesta. Persone che hanno sottovalutato la situazione all’inizio, non pensando che se arriva da Taranto un simile pool di investigatori, probabilmente conoscono già molte delle risposte alle domande che ti pongono. Dentro quelle risposte gli inquirenti non cercano solo la dinamica dei fatti, ma anche la sincerità e l’attendibilità di chi stanno interrogando». Su Ivano, perciò, Claudio Scazzi sospende il giudizio, facendo intendere che, se anche avesse raccontato agli inquirenti verità parziali o una versione del proprio alibi discostante dalla realtà, sarebbe più dovuto ad ingenuità e leggerezza che non al torbido intento di nascondere elementi importanti. «Non è quindi un muro di omertà, nel tacere fatti gravi, ma di leggerezza, nel temere che le proprie parole potessero essere fraintese». E sebbene ci sia una differenza abissale tra prudenza e menzogna, il fratello di Sarah resta garantista, in vista del nuovo processo: «Ci sarà un dibattimento, saranno ascoltate anche le versioni di Ivano e della sua ex compagna, che lo accusa di aver detto il falso. Solo dopo averli ascoltati potremo sapere chi di loro dice la verità».

Eppure non è stato sempre così per la Coppola. Non si sa se l’amore tra loro è sbocciato per amor dei media. La fidanzata di Russo: «Ivano mi ha detto tutto: gli credo», scrive Tonio Tondo su “la Gazzetta del Mezzogiorno” il 18 gennaio 2012. Di lei aveva parlato anche Dagospia, il sito del gossip nazionale. «Ivano Russo, uno dei principali testimoni del caso Sarah Scazzi si è innamorato... ». E «lei», Virginia Coppola, la fidanzata che da quel momento non ha mai mollato il giovane ventisettenne del quale Sabrina si era innamorata, per tutta la giornata ha coccolato Ivano, con sms e con le telefonate: «Non ti preoccupare, stai sereno, io sto qui con te». Virginia, assicuratrice e catechista, qualche anno più di Ivano, ha pregato anche Angela Cimino, chiusa nella stanza dei testimoni, di sostenere il suo fidanzato: Angela, per favore, fortifica Ivano, digli che deve stare tranquillo. Doveva essere la giornata del confronto ravvicinato tra Sabrina e Ivano. La difesa della cugina di Sarah era stata abile nel convincere la Corte a consentire a lei e alla madre Cosima di poter uscire dalla gabbia e stare vicino agli avvocati, a ridosso dei testimoni. Tutto era stato preparato perché Sabrina potesse guardare negli occhi Ivano: forse per sfidarlo, oppure per scongiurarlo con lo sguardo. Invece, alle 17.20 la sorpresa: il presidente della Corte, Cesarina Trunfio, dopo aver consultato procura e difesa, ha deciso il rinvio. Per Ivano tutto è slittato al 31 gennaio. Sabrina ha potuto lanciargli solo uno sguardo fugace, mentre il giovane, entrato nell’aula e vicino alla gabbia, ascoltava le parole della Trunfio. Virginia conosce un po’ tutte le persone che si sono occupate della morte di Sarah, dagli avvocati ai giornalisti. E sa destreggiarsi bene tra di loro. Dalla mattina è seduta tra il pubblico insieme alla sorella Antonella. «Da quando stiamo insieme Ivano non ha mai più rilasciato interviste» dice sicura. Nel circo dei media il giovane, che secondo la procura è stato al centro di un conflitto di passioni tra Sabrina e Sarah, tanto da essere considerato la causa scatenante di una rabbia omicida, ci era finito in pieno. Lei, Virginia, è apparsa nel momento cruciale. «Io ho provato subito un sentimento profondo - rivela -, ma prima di decidere di stare con lui, l’ho messo sotto: gli ho chiesto tutto, di Sabrina, di Sarah, gli ho chiesto di essere sincero e la verità anche sui piccoli dettagli». Ivano ha rischiato grosso. Si era sparsa la voce di un suo possibile arresto, di risposte contraddittorie alle domande degli inquirenti, di lacune irrisolte. Poi pian piano ha acquistato credibilità. «Tradito», «deluso», «preso in giro» da Sabrina, erano le frasi ricorrenti sulla sua bocca. «Io Sarah l’ho cercata dal primo giorno - sottolinea Virginia -; insieme ai volontari ho setacciato la campagna, sono andata anche in contrada Mosca, ho visto il casolare, l’albero di fico, ma il pozzo non l’ho visto, era difficile scovarlo. Per Sarah abbiamo pianto e piangiamo ancora adesso, per questo a Ivano ho detto: tu devi dirmi tutto quello che sai, per me la legge viene prima di tutto». Virginia è un tipo che sa affrontare gli ostacoli. Si dice che sia lei a dettare la linea. E la linea è: «Dalla parte di Sarah», se è stata Sabrina a ucciderla, è bene che resti in carcere e che paghi, senza sconti. La vive come una sorta di missione, un impegno che si sente di dover portare avanti, fino in fondo; e se la sorte ha voluto che Ivano si rifugiasse tra le sue braccia, un motivo ci deve pur essere. Stefania De Luca, prima, e Angela Cimino poi, hanno aperto la danza dei testimoni. Virginia le ha seguite parola per parola, senza perdersi neanche un passaggio. Stefania ha raccontato nuovamente la tristezza di Sarah al pub la sera del 25 agosto 2010, la reazione di Sabrina dopo un litigio con Ivano («E’ finita, è finita, non ci stiamo più parlando... »). E poi i colloqui con la stessa Sabrina, ora evasivi ora misteriosi. Soprattutto, quando le testimonianze mettono a fuoco i rapporti tra Sabrina e Ivano, tra Ivano e le altre amiche, inclusa la stessa Angela, Virginia si fa più attenta, cerca di percepire fatti nuovi, piccoli elementi in grado di gettare nuova luce sulla catena dei fatti. Amori che muoiono, amori che nascono, innamoramenti veri o fasulli, parole che sembrano aprire storie di sesso e che si stemperano nel pudore: è u n’altra storia rispetto al processo, in disparte rispetto ai richiami del giudizio, ma inevitabile e rivelatrice per inquadrare i personaggi che affollano l’aula.

Nuovi guai per Ivano Russo: richiesta di maxi risarcimento da 900mila €, scrive Nazareno Dinoi sul Quotidiano di Taranto il 3 febbraio 2016. Nuovi guai per Ivano Russo. Il bello di Avetrana che secondo la magistratura Tarantina sarebbe stato il movente che ha spinto Sabrina Misseri ad uccidere la cugina Sarah Scazzi, ha ricevuto nei giorni scorsi una raccomandata il cui contenuto lo ha lasciato senza fiato: deve versare novecentomila euro all’avvocatessa Emilia Velletri. E deve farlo «entro 20 giorni con l’avvertimento che, decorso invano tale termine, si agirà giudizialmente nei suoi confronti», conclude la lettera che porta la firma dell’avvocatessa tarantina. Il motivo della richiesta è spiegato nelle prime righe della missiva. «Quale risarcimento di tutti i danni subiti e subendi per le affermazioni calunniose e non corrispondenti al vero profferite ai miei danni». I fatti sono noti agli addetti ai lavori. Il trentaduenne avetranese durante le indagini preliminari per l’uccisione della quindicenne scomparsa il 26 agosto del 2010, dichiarò che durante un interrogatorio difensivo davanti all’avvocatessa Velletri che con il suo collega ed ex marito Vito Russo difendevano Sabrina Misseri (condannata con la madre Cosima Serrano all’ergastolo e ancora in carcere), i due legali furono artefici di comportamenti scorretti per costringere il testimone a rilasciare una versione favorevole alla loro assistita. L’avvocatessa, in particolare, fu indicata quale responsabile della distruzione di una parte del verbale di interrogatorio perché ritenuto sconveniente per l’allora indagata che era stata da poco arrestata perché accusata di essere l’assassina della cugina. Finita per questo sotto processo, la professionista, che rispondeva del reato di falso in sottrazione, è stata alla fine prosciolta «perché il fatto non sussiste». A distanza di cinque anni da quella sentenza assolutoria, per la legale tarantina è giunto il momento di chiedere conto del danno a chi, secondo il giudizio sopravvenuto, l’avrebbe accusata ingiustamente: Ivano Russo, appunto. «Sulla base di tali sue affermazioni, rivelatesi poi completamente false e divergenti da quanto realmente accaduto – si legge nella raccomandata recapitata al domicilio di Avetrana -, la scrivente ha subìto un procedimento penale conclusosi con assoluzione per insussistenza del fatto-reato, con conseguenti gravi danni, tra cui quelli morali, economici e di immagine». Che per Velletri valgono quasi un milione di euro. Russo che anche a voler concedere tutto non può ovviamente disporre di una cifra simile, ha fatto l’unica cosa che poteva fare. Si è recato con la busta dal suo avvocato, il penalista di Erchie, Francesco Mancini, il quale ha già fatto le prime mosse per contrastare le pretese risarcitorie della sua collega. «Ho ritirato copia della sentenza di assoluzione per capire come meglio formulare l’opposizione», afferma l’avvocato Mancini. Ivano Russo è indagato per falsa testimonianza perché, secondo la Procura di Taranto, avrebbe tenuto nascoste circostanze importanti su quanto avvenne in casa Misseri quel terribile pomeriggio di fine agosto. 

PROCESSO A GIOVANNI BUCCOLIERI.

CONFERMATA LA CONDANNA DEL FIORAIO DI AVETRANA. La Corte d'Appello di Lecce ha emesso la Sentenza, scrive Carmela Linda Petraschi su iltarantino.it il 26 Gennaio 2019. E’ stato condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione Giovanni Buccolieri, accusato di aver mentito a investigatori e magistrati. L’uomo aveva raccontato di aver assistito al sequestro di Sarah Scazzi, la studentessa 15enne uccisa dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima, condannate all’ergastolo in via definitiva. Buccolieri aveva descritto con dovizia di particolari ciò che aveva visto il 26 agosto del 2010, ma poi aveva ritrattato, asserendo che si era trattato solo di un sogno. Aveva raccontato di aver visto Sarah triste camminare per strada e poi giungere una Opel Astra con a bordo Cosima Serrano che scesa, aveva sgridato in malo modo Sarah e l’aveva costretta a salire in macchina, strattonandola. Nel sedile posteriore vi era seduta una figura femminile seminascosta. Il Giudice monocratico, Elvia Di Roma ha condannato a due anni, in primo grado, oltre al testimone chiave anche un altro imputato, Michele Galasso amico di Buccolieri, con il quale avrebbe concordato al telefono la versione del sogno da raccontare agli investigatori. Galasso non ha impugnato la sentenza che è divenuta definitiva. Che non si è trattato di un sogno è scritto anche nelle sentenze di 1° e 2° grado. Buccolieri al processo ha preferito tacere. Il suo avvocato, Lello Lisco ha affermato che il suo cliente era rimasto suggestionato dall’attenzione mediatica del caso.

Raccontò il sequestro e poi ritrattò: condannato il fioraio di Avetrana. Due anni e otto mesi a Giovanni Buccolieri che raccontò del sequestro di Sarah Scazzi. Successivamente ritrattò dicendo che si era trattato di sogno influenzato dai media, scrive il 22 novembre 2017 "Il Corriere della Sera". Il giudice monocratico del tribunale di Taranto, Elvira di Roma, ha condannato a due anni e otto mesi di reclusione per false dichiarazioni al pm, Giovanni Buccolieri, di 45 anni, il fioraio di Avetrana che raccontò ai carabinieri del sequestro di Sarah Scazzi e poi ritrattò sostenendo che le sue dichiarazioni erano solo frutto di un sogno e che era stato suggestionato dal clamore mediatico. Il pm Mariano Buccoliero aveva chiesto la condanna a 4 anni. Per l’omicidio della ragazzina, uccisa e gettata in un pozzo di contrada Mosca il 26 agosto del 2010, sono state condannate all’ergastolo con sentenza passata in giudicato la cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima Serrano, mentre sta scontando la condanna a 8 anni Michele Misseri (marito di Cosima e padre di Sabrina) per soppressione di cadavere. Il giudice di Roma oggi ha condannato a 2 anni di carcere un altro imputato, Michele Galasso, un amico del fioraio con il quale avrebbe concordato le versione del sogno poi riferita agli inquirenti. Nel processo principale Cosima e Sabrina sono state condannate anche per il sequestro di persona. Sia Buccolieri che Galasso rispondono di false dichiarazioni al pubblico ministero. Il 9 aprile del 2011 il fioraio disse ai carabinieri che mentre era alla guida del suo furgone per le vie di Avetrana, il 26 agosto del 2010, poco dopo le 13.20, aveva visto Cosima Serrano «vicino alla sua autovettura Opel Astra grigio-azzurro, rivolgersi alla nipote Sarah che era ferma sul marciapiede, dicendole, con tono minaccioso «Moh ha nchianà intra la macchina». Nell’occasione, Sarah - fu riportato nel verbale - era molto turbata e con la testa chinata; all’interno dell’auto della Serrano aveva scorto una sagoma di altra persona di sesso femminile con capelli legati all’indietro che si abbassava mentre Sarah entrava in auto dallo sportello posteriore destro».

Sarah Scazzi, fioraio di Avetrana confessò di aver visto il sequestro e poi ritrattò: condannato. Giovanni Buccolieri, condannato a due anni e otto mesi, raccontò ai carabinieri molti particolari rapimento. Due giorni dopo cambiò versione: "Era un sogno". Due anni al suo amico Michele Galasso, scrive Vittorio Ricapito il 22 novembre 2017 su "La Repubblica". Due anni e otto mesi di reclusione per Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana accusato di aver mentito a investigatori e magistrati negando di aver assistito al sequestro di Sarah Scazzi da parte della cugina Sabrina Misseri e della zia Cosima Serrano. Le due donne sono state già condannate a titolo definitivo all’ergastolo per l’omicidio della studentessa quindicenne strangolata ad Avetrana il 26 agosto del 2010. La sentenza di primo grado nei confronti del testimone chiave del delitto è stata pronunciata dalla giudice monocratica Elvia Di Roma, che ha condannato a due anni di reclusione anche un altro imputato, Michele Galasso, l’amico con cui il fioraio avrebbe concordato al telefono la versione del sogno da riferire agli investigatori. Prima della sentenza Buccolieri aveva depositato una memoria difensiva di due pagine in cui sostiene di essere stato suggestionato dall’attenzione che i media hanno riservato alla vicenda. Durante il processo, tuttavia, il fioraio non si è sottoposto a interrogatorio, avvalendosi della facoltà di non rispondere. Il pubblico ministero Mariano Buccoliero ha chiesto il massimo della pena, quattro anni di reclusione, perché il fioraio avrebbe potuto aiutare gli investigatori a risolvere un caso delicato come l’omicidio di una quindicenne e invece ha continuato a sostenere la tesi del sogno. Il 9 aprile del 2011 Buccolieri raccontò ai carabinieri con dovizia di particolari di aver assistito al rapimento. Due giorni dopo cambiò versione riferendo di aver soltanto sognato la scena. Disse di aver visto Sarah triste e sconvolta per strada e poi sopraggiungere la Opel Astra di Cosima Serrano, che intimò alla nipote Sarah con tono minaccioso di salire in auto strattonandola. Aggiunse di aver notato sul sedile posteriore dell’auto un’altra sagoma femminile, con i capelli legati, che si abbassava mentre Sarah saliva a bordo. Che non si sia trattato di un sogno è scritto anche nelle sentenze dei processi celebrati davanti alle Corti di assise, in primo e secondo grado, e confermate dalla Cassazione a febbraio 2017.

13 Maggio 2015: inizia il dibattimento. Caso Scazzi, in tribunale il finto sogno del fioraio, scrive Mimmo Mazza il 14 maggio 2015 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Lo schieramento di mezzi e inviati era quasi quello dei bei (...) tempi, quando il giallo di Avetrana monopolizzava telegiornali, trasmissioni del pomeriggio, prime e seconde serate. Ma ieri mattina la prima udienza del processo nei confronti di Giovanni Buccolieri, il 43enne fioraio di Avetrana protagonista non secondario dell’inchiesta sull’omicidio di Sarah Scazzi, è durata appena un paio di minuti, il tempo necessario al sostituto procuratore Mariano Buccolieri e all’avvocato Pasquale Lisco, difensore di Buccolieri, di proporre al giudice monocratico Elvia Di Roma le questioni preliminari. Alla sbarra si trovano Buccolieri e il suo amico Michele Galasso, entrambi ritenuti responsabili di false dichiarazioni al pubblico ministero. Buccolieri, in particolare, è finito nei guai per le diverse versioni fornite agli inquirenti su quanto vide il 26 agosto del 2010, giorno della scomparsa di Sarah Scazzi. In un interrogatorio del 9 aprile del 2011, il fioraio mise a verbale che «mentre era alla guida del suo furgone per le vie di Avetrana, il 26 agosto del 2010, poco dopo le 13.20 aveva visto Cosima Serrano, vicino alla sua autovettura Opel Astra grigio-azzurro, rivolgersi alla nipote Sarah che era ferma sul marciapiede, dicendole, con tono minaccioso “Moh ha nchianà intra la macchina”, contestualmente facendo un gesto perentorio con il braccio e con il dito indice. Nell’occasione, Sarah era molto turbata e con la testa chinata; all’interno dell’auto della Serrano aveva scorto una sagoma di altra persona di sesso femminile con capelli legati all’indietro che si abbassava mentre Sarah entrava in auto dallo sportello posteriore destro; Cosima, vestita di scuro, rimaneva sorpresa non appena egli la incrociava con il suo furgone tanto che la stessa spalancava gli occhi repentinamente». Dopo tale racconto, ritenuto cruciale dagli inquirenti prima e dalla corte d’assise poi per consolidare le accuse di sequestro di persona a carico di Cosima e Sabrina (entrambe condannate all’ergastolo), il fioraio Buccolieri però cambiò idea, sostenendo l’11 aprile del 2011 che si trattava solo di un sogno fatto dopo il ritrovamento del cadavere di Sarah. Michele Galasso, invece, è imputato per aver detto l’11 aprile del 2011 agli inquirenti di non aver avuto nessun contatto con il suo amico Buccolieri, tesi però smentita da intercettazioni telefoniche e tabulati che dimostrano come i due si siano sentiti, per concordare la versione da offrire agli investigatori, proprio mentre Galasso era in auto per raggiungere la Procura. Citato come testimone il 17 luglio del 2012 durante il processo per l’omicidio di Sarah, Buccolieri si avvalse della facoltà di non rispondere. Ieri mattina l’avvocato Lisco ha chiesto al giudice Di Roma di escludere la fascicolo del dibattimento i numerosi verbali di assunzione di informazioni inseriti dal pubblico ministero e le motivazioni della sentenza della Corte d’Assise con la quale Sabrina Misseri e sua madre Cosima sono state condannate all’ergastolo. Il giudice deciderà nell’udienza del 20 maggio quando esaminerà anche le richieste di mezzi di prova. La pubblica accusa ha depositato una lista di testimoni composta da 12 persone. Si tratta di parenti e conoscenti del fioraio Buccolieri e dei luogotenenti dei carabinieri Antonio Calò e Giovanni Bardaro. L’avvocato Pasquale Lisco, difensore di Giovanni Buccolieri, ha invece chiesto l’audizione del luogotenente dei carabinieri Fabrizio Viva, comandante della stazione di Avetrana, del luogotenente Armando Coccioli, dell’ex commessa del fioraio Vanessa Cerra e di sua madre Anna Pisanò, entrambe residenti da anni in Germania.

LE CONDANNE SCONTATE.

Caso Scazzi, alla sbarra dodici persone tra cui zio Michele e Ivano. Lo zio di Sarah rischia 4 anni di reclusione per autocalunnia e Ivano Russo, il ragazzo conteso tra le due cugine, rischia 5 anni di carcere per false informazioni al pm e falsa testimonianza dinanzi alla corte d'assise. Emanuela Carucci, Mercoledì 11/12/2019 su Il Giornale. Si riaccendono i riflettori su Avetrana e sul caso Scazzi. È in corso il processo bis, nel tribunale di Taranto, legato all'omicidio della 15enne avvenuto il 26 agosto del 2010. Il sostituto procuratore Mariano Buccoliero, secondo quanto scrive Vittorio Ricapito sul quotidiano regionale "La Gazzetta del Mezzogiorno", ha chiesto la condanna per dodici imputati per aver mentito o nascosto particolari durante indagini per il processo sull’omicidio. In particolare Michele Misseri, zio della vittima, rischia la terza condanna con l'accusa, questa volta, di autocalunnia. In passato è stato già condannato in via definitiva ad otto anni di reclusione per aver gettato in fondo ad un pozzo nelle campagne di Avetrana il corpo di Sarah. Meno di un mese fa ha avuto la seconda condanna, emessa dalla corte d'appello di Taranto, ad un anno e mezzo di reclusione per diffamazione ai danni del suo ex avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Bruzzone durante una puntata dell'Arena di Massimo Giletti. Adesso rischia di essere condannato per la terza volta, come detto, a quattro anni di reclusione per essersi preso le colpe dell'omicidio per scagionare la moglie e la figlia, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina di Sarah, condannate all'ergastolo. Alla sbarra è finito anche Ivano Russo, il ragazzo di Avetrana conteso tra le due cugine Sarah e Sabrina, per aver dato "false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza davanti alla Corte d’assise" come si legge ancora sulla Gazzetta. Secondo il pm di turno, il ragazzo mentì per coprire Sabrina. Non è finita, sono dodici in tutto le persone che potrebbero essere condannate. Sono stati chiesti tre anni di reclusione per Alessio Pisello, uno degli amici di comitiva di Sarah e Sabrina, accusato di falsa testimonianza. Due anni e quattro mesi di reclusione per la mamma di Ivano, Elena Baldari, due anni per il fratello di Ivano, Claudio Russo e l’ex fidanzata Antonietta Genovino accusati tutti di aver mentito dinanzi ai giudici sostenendo che il 26 agosto del 2010 Ivano fosse a casa e che fosse rimasto a letto tutto il pomeriggio. A finire sotto processo, con le accuse di menzogne e calunnie, c'è anche Dora Serrano, sorella di Cosima e Concetta, la mamma di Sarah, che avrebbe raccontato di aver subìto un tentativo di molestia sessuale da parte di Michele Misseri. Per lei il pm ha chiesto una condanna di tre anni e otto mesi di reclusione. Infine rischiano tre anni di carcere per falsa testimonianza anche Maurizio Misseri, nipote di Michele, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, Anna Scredo, cognata del fioraio del paese Giovanni Buccolieri e Giuseppe Augusto Olivieri. Insomma il giallo di Avetrana ha, in realtà, coinvolto più persone in paese e non solo i componenti della famiglia Misseri e Scazzi. Ora si aspetta il 7 gennaio per la prossima udienza del processo. 

Caso Scazzi, troppe bugie: chiesti 5 anni per Ivano Russo, 4 per Misseri: a gennaio il verdetto. La ragazzina fu uccisa nell'agosto 2010. Vittorio Ricapito l'11 Dicembre 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Pesanti richieste di condanna al processo-bis legato all’omicidio di Sarah Scazzi, la studentessa quindicenne strangolata ad Avetrana il 26 agosto del 2010. Il sostituto procuratore Mariano Buccoliero ha chiesto la condanna per 12 imputati accusati di aver mentito o nascosto particolari durante indagini e processo di primo grado per l’omicidio della studentessa. Rischia una nuova condanna, la terza, Michele Misseri (difeso dall’avvocato Ennio Blasi Di Statte), già condannato in via definitiva a otto anni di reclusione per aver gettato in fondo a un pozzo di contrada Mosca il corpo senza vita della nipotina di quindici anni nell’agosto del 2010, subito dopo l’omicidio. Delitto per il quale sono state condannate all’ergastolo Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina di Sarah. Stavolta Misseri, che quindici giorni fa è stato condannato in appello a un anno e mezzo per aver diffamato il suo ex avvocato Daniele Galoppa e la criminologa Roberta Bruzzone (assolto però dall’accusa di calunnia) rischia quattro anni di reclusione per autocalunnia, cioè per essersi incolpato ingiustamente dell’omicidio nel tentativo di scagionare moglie e figlia. La sua versione, tuttavia, non è mai stata creduta dai magistrati. A è finito anche Ivano Russo, l’amico conteso intorno al quale sarebbe nata una rivalità tra Sarah e sua cugina Sabrina, rivalità ritenuta uno dei moventi più forti alla base del delitto. Il pm ha chiesto la condanna a cinque anni di reclusione per Russo, accusato di false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza davanti alla Corte d’assise. Secondo il pm, in aula fu reticente, mentì per coprire Sabrina, cercando di sminuire l’intreccio di rapporti sentimentali e sessuali con l’estetista, la gelosia ossessiva della ragazza nei suoi confronti, il crescente interesse sentimentale della cuginetta Sarah e infine i contrasti fra le due cugine per il comune interesse sentimentale. Tre anni di reclusione è la condanna proposta per Alessio Pisello, uno degli amici di comitiva di Sarah e Sabrina, accusato di falsa testimonianza. A processo sono finiti anche la mamma di Ivano, Elena Baldari, per la quale il pm ha chiesto la condanna a due anni e quattro mesi, il fratello Claudio Russo e l’ex fidanzata Antonietta Genovino, che rischiano condanna a due anni. Sono accusati di aver mentito sostenendo che il 26 agosto 2010, giorno dell’omicidio, Ivano era rimasto a casa, a letto per tutto il pomeriggio. Menzogne e calunnie, per l’accusa, sono anche quelle di Dora Serrano, sorella di Concetta (mamma di Sarah) e Cosima, che per dipingere il cognato Michele come un mostro, in aula ha raccontato di aver subìto un tentativo di molestia sessuale dal contadino. Per lei e per Giuseppe Serrano, il pm Buccoliero ha chiesto condanna a tre anni e otto mesi di reclusione. Rischiano infine tre anni di reclusione per falsa testimonianza, Maurizio Misseri, nipote di Michele, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, Anna Scredo (difesa dall’avvocato Pasquale Lisco), cognata del fioraio Giovanni Buccolieri (l’uomo che avrebbe assistito al sequestro di Sarah da parte di Cosima e Sabrina, poi derubricato in aula a un semplice sogno) e Giuseppe Augusto Olivieri. Le discussioni dei difensori sono fissate il 7 gennaio del nuovo anno.

Omicidio di Sarah Scazzi, pena ridotta per zio Michele. Le motivazioni della condanna che è stata inflitta per il reato di diffamazione. Annalisa Latartara su tarantobuonasera.it lunedì 16 Dicembre 2019. L’inaffidabilità di Michele Misseri, sancita dai giudici nei tre gradi di giudizio, questa volta lo salva dalla pe­sante imputazione di calunnia. Malgrado la gravità delle accuse nei confronti dell’ex difensore Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Bruzzone le dichiarazioni del contadino di Avetrana non possono essere ri­tenute calunniose ma solo diffamatorie. È quanto si legge nelle 32 pagine delle motivazioni della sentenza di appello che ha ridimensionato la condanna a 3 anni di reclusione rimediata in primo grado. Nel corso delle indagini e del processo sull’omicidio della nipote Sarah Scazzi Michele ha fornito versioni diverse, prima autoaccusandosi con moventi diversi (dal trattore che non par­tiva alla violenza sul cadavere), poi accusandoli in concorso con Sabrina, poi ancora addossando tutta la responsabilità a sua figlia e infine autoaccusandosi di nuovo di tutte le fasi del delitto. Ad un certo punto ha accusato il suo legale Galoppa e la sua consulente Bruzzone di averlo indotto ad accusare Sabrina. Una versione dei fatti stridente, come viene evidenziato anche nella sentenza di secondo grado, con la cronolo­gia delle sue versioni. Infatti, Sabrina l’aveva già tirata in ballo in concorso il 15 ottobre 2010, men­tre l’incontro con Bruzzone e Galoppa insieme si tenne un carcere il 5 novembre dello stesso anno. Inoltre il 19 novembre successivo ribadì le sue accuse contro la figlia spiegando l’omicidio come un incidente avvenuto durante un “gioco del cavalluccio” fra le due ragazze. Ma a far crollare l’accusa di ca­lunnia, secondo i giudici di appel­lo è l’assenza del dolo: “Manca la volontà dell’imputato di accusare le parti civili – ossia Galoppa e Bruzzone costituitisi parte ci­vile nel processo per calunnia e diffamazione – posto che nei tre gradi di giudizio sull’omicidio di Sarah Scazzi i giudici si erano espressi sempre nel senso dell’inaffidabilità di Misseri e delle plurime versioni da lui narrate”. Quindi, “la mancanza di credibi­lità dell’imputato si riverberava anche sulle accuse rivolte all’ex difensore e all’ex consulente”. Come sottolinea nelle motivazioni depositate giovedì il giudice estensore Luciano Cavallone (presidente del collegio Antonio Del Coco, l’altro giudice a latere Andrea Lisi), l’assenza della “benché minima coscienza di ciò che stava facendo”, ossia l’esclu­sione del dolo sostenuta dalla di­fesa, per Misseri vale solo per la calunnia e non per le imputazioni di diffamazione. La Corte d’ap­pello ritiene “indubbia la portata diffamatoria delle accuse ai due professionisti” anche in considerazione dell’interesse mediatico verso il caso Scazzi. Per questo Misseri è stato condannato a un anno e mezzo di reclusione e a versare una provvisionale di 10.000 euro, più le spese legali, a Galoppa e Bruzzone. Misseri attualmente difeso dall’avvocato Ennio Blasi di Statte, rischia un’altra condanna, questa volta per autocalunnia, a quattro anni di reclusione. Per lui come per gli altri undici imputati, fra cui Ivano Russo e altri amici di Sabrina che ri­spondono di falsa testimonianza, la sentenza è prevista a gennaio prossimo.

"Sabrina Misseri attrice" in un’opera teatrale: dopo l’omicidio Sarah Scazzi l’inquietante adattamento della storia. Marilyn Aghemo su Lettoquotidiano.it il 10/08/2019. Sabrina Misseri e Sarah Scazzi in un’opera teatrale che prende vita per ripercorrere tutti gli step, del famoso e crudele omicidio. Ma di cosa stiamo parlando? Il delitto di Avetrana dove i protagonisti da sempre sono Sabrina Misseri e Sarah Scazzi, oggi diventa una rappresentazione per ripercorrere tutto quello che la povera vittima ha subito in quelle ore. Cosa fa Sabrina Misseri in carcere? La cugina di Sarah Scazzi si trova in carcere insieme alla madre, per scontare la pena di ergastolo per l’omicidio della giovane avvenuto il 26 agosto 2010 ad Avetrana. Da quello che emerge fa alcuni lavoretti per tenersi impegnata, studia e passa le sue giornate leggendo e sperando in un permesso premio. Sono molti, ancora oggi, i misteri controversi di questa tragica vicenda in quanto nessuno abbia mai fornito una versione chiara e lineare di cosa sia accaduto quel pomeriggio di fine estate. Sarah era una ragazzina vivace e curiosa, sempre a casa degli zii e della cugina con la quale passava la maggior parte del tempo. Tante pedine per un unico spazio che fa sfociare tante domande senza una risposta certa. Ma quello che sta facendo pensare gli utenti è una rappresentazione teatrale, che metterà in scena questo macabro delitto.

La rappresentazione teatrale dell’omicidio di Sarah Scazzi. Il 6-7-8 settembre 2019 andrà in scena “Re di Donne” al Caio Melisso di Spoleto, con la produzione firmata dal Teatro Lirico Sperimentale. Sono tante le storie che verranno messe in scena e tra queste anche quella della piccola Sarah, un femminicidio – insieme agli altri rappresentati – crudo e violento il cui registra vuole mettere in primo piano gli aspetti principali di tale vicenda che ha scosso gli italiani. Gli utenti si sono divisi in due in merito a questa questione, con polemiche da una parte e curiosità dall’altro lato. Una Sarah rappresentata da una ragazzina dalla somiglianza incredibile e alcun commento dei familiari o dei Misseri, almeno sino ad oggi.

OMICIDIO SARAH SCAZZI. ROBERTA BRUZZONE: “NESSUNO GLI HA MAI RACCONTATO COME È ANDATA”. Marco Spartà su tuttomotoriweb.com il 27/08/2019. Roberta Bruzzone, nota criminologa italiana, ha espresso il proprio parere circa il coinvolgimento di Michele Misseri nell’omicidio della giovane Sarah Scazzi. Per lei, l’uomo avrebbe partecipato esclusivamente alla fase di soppressione del cadavere. La criminologa Roberta Bruzzone, in un suo commento pubblicato sul settimanale Giallo, ha voluto rimarcare la propria convinzione circa l’esclusiva colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano nell’omicidio della giovane Sarah Scazzi. La nota criminologa ha, invece, relegato ai margini della vicenda Michele Misseri, zio della vittima, nonché rispettivamente padre e marito delle due donne condannate in via definitiva per l’efferato crimine. “A mio avviso non esiste alcun dubbio, tantomeno ragionevole, sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano in relazione al delitto di Sarah Scazzi” così esordisce su Giallo la nota criminologa Roberta Bruzzone. “E ci sono – prosegue – a oggi, considerando l’intera inchiesta, almeno una trentina di magistrati che l’hanno pensata esattamente come me, compresi i giudici della Corte di Cassazione che hanno confermato entrambe le condanne all’ergastolo nel febbraio del 2017. Non ci sarà mai modo di arrivare a una conclusione diversa e nulla e nessuno potrà modificare quanto è stato sancito dai tre gradi di giudizio“. Per la criminologa non ci sono dubbi, Michele Misseri avrebbe partecipato esclusivamente alla fase di soppressione del cadavere della giovane Sarah nel pozzo di Nardò: “Lui non ha avuto alcun ruolo nel delitto ed è questa la principale ragione per cui Misseri non è mai riuscito a fornire una versione coerente di quanto accaduto durante l’omicidio“. La Bruzzone ha poi concluso il suo commento dicendo: “ Lui non c’era e nessuno gli ha mai raccontato fino in fondo com’è andata“. Una spiegazione logica e coerente che eliminerebbe ogni dubbio in ordine al motivo degli innumerevoli cambi di versione forniti di Michele Misseri, poi per tale ragione finito anche sotto processo per calunnia ed autocalunnia. Il contadino di Avetrana  aveva, infatti, accusato il suo ex avvocato Galoppa  e la criminologa Roberta Bruzzone di averlo indotto a chiamare in causa la figlia Sabrina che lui, in un primo momento, accusò di avere ucciso Sarah. Successivamente Misseri si autoaccusò, per poi puntare nuovamente il dito contro sua figlia, finendo per perdere ogni sorta di credibilità.

Roberta Bruzzone età, altezza, peso, vita privata e carriera: tutto sulla criminologa italiana, scritto da Marilena De Angelis IL 27 Agosto 2019 SU Urban Post. Nella puntata di oggi, 27 agosto 2019, di Io e te, programma pomeridiano di Rai 1 condotto da Pierluigi Diaco, sarà ospite la criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone. La Bruzzone è conosciuta grazie alla partecipazione a diversi programmi che si occupano di cronaca nera. Roberta è abile nel suo mestiere e ogni volta riesce a dare un quadro chiaro della situazione e della vicenda anche ai non addetti ai lavori. Ma chi è davvero Roberta Bruzzone? Quanti anni ha? È sposata? Ha dei figli? Ecco tutte le curiosità sulla sua vita privata e sulla sua carriera da criminologa.

La vita privata di Roberta Bruzzone. Roberta Bruzzone è nata a Finale Ligure il 1º luglio 1973 ed è un personaggio televisivo, opinionista e psicologa forense italiana. Ha 46 anni, è alta 168 cm e pesa circa 62 Kg. È del segno zodiacale del Cancro. Ha due fratelli gemelli. Le sue caratteristiche sono: capelli lunghi biondi e sguardo glaciale e super attento. Psicologa forense, è divenuta nota principalmente per il suo coinvolgimento nelle indagini sul delitto di Avetrana. La Bruzzone, inoltre, è stata consulente anche per altri casi di cronaca nera, fra cui la strage di Erba. Ha avuto incarichi a contratto presso la Libera Università Mediterranea “Jean Monnet” di Casamassima e l’Università degli studi “Niccolò Cusano” telematica di Roma. Roberta ama la velocità e soprattutto le moto, la prima le fu regalata da sua nonna a 12 anni. Per quanto riguarda la sua vita sentimentale, Roberta è stata sposata dal 2011 al 2015 con Massimiliano Cristiano. Dal 2017 è sposata con Massimo Marino. La Bruzzone non ha avuto figli.

La sua carriera. Roberta Bruzzone si è fatta conoscere per il suo coinvolgimento nelle indagini sul delitto di Avetrana, quando le fu affidato il ruolo di consulente della difesa di Michele Misseri. In seguito fu chiamata a testimoniare proprio contro Misseri, dichiarando che l’uomo durante un colloquio in carcere aveva accusato dell’omicidio la propria figlia Sabrina. La Bruzzone, poi, dal 2008 è ospite fissa nell’ambito delle puntate dedicate alla cronaca nera del programma di Rai 1 Porta a porta. Roberta, inoltre, è stata autrice e conduttrice della trasmissione La scena del crimine, andata in onda sulla rete locale GBR – Teleroma 56, nonché conduttrice di Donne mortali, andata in onda per tre edizioni su Real Time. Nel 2012 ha pubblicato il libro Chi è l’assassino. Diario di una criminologa, edito da Mondadori. Dal 2017 è opinionista del programma di varietà Ballando con le stelle.

Diffamazione, condannato Michele Misseri. Quotidianodipuglia.it Giovedì 28 Novembre 2019. La Corte d’appello di Taranto ha riformato la sentenza a carico di Michele Misseri, padre e marito rispettivamente di Sabrina e di Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. In primo grado, tre anni di reclusione per una serie di indicazioni non veritiere, che avevano configurato i reati di diffamazione e calunnia ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Buzzone, erano stati inflitti a carico all’agricoltore di Avetrana. In appello, la Corte ha ritenuto di assolvere Misseri dal reato di calunnia nei confronti del suo ex legale e della ex consulente. Tuttavia lo ha condannato per il reato di diffamazione a carico di entrambi, infliggendogli la pena di un anno e sei mesi di reclusione. Insieme con Misseri era sott’accusa per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo, in primo grado condannato a una multa di ottocento euro. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, avrebbe espresso opinioni che si sarebbero estrinsecate in dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. La Corte d’appello ha dichiarato il non doversi procedere a carico di Gallo, in ordine alla diffamazione della Bruzzone per assenza della querela; mentre lo ha condannato a una multa di 700 euro per aver diffamato Galoppa. Quanto all’avvocato Galoppa, la Corte d’appello ha accolto il suo ricorso ed ha condannato sia Misseri che Gallo a pagare una provvisionale di 10mila euro ciascuno a titolo di “danno morale” patito. Daniele Galoppa, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa era stata poi nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri, che aveva fatto intendere che i due l’avessero convinto ad accusare la figlia Sabrina. Proprio in virtù di questo fatto, le due parti offese avevano attivato una denuncia per calunnia. Reato, questo, che il tribunale, in primo grado, aveva ritenuto integrato dalle dichiarazioni di Michele Misseri. Con questa sentenza della Corte d’appello, si chiude il secondo grado di giudizio sulla vicenda, che costituì una ulteriore appendice del maxi-procedimento aperto sull’omicidio di Sarah Scazzi. Altri procedimenti, infatti, si innestarono all’interno della maxi-indagine aperta dal pm dottor Mariano Buccoliero sulla uccisione della povera Sarah, e poi del processo in Corte d’assise in cui alcuni testi, secondo l’accusa, si macchiarono di falsa testimonianza.

Accuse false a Galloppa e Bruzzone: condanna a tre anni per "zio Michele". Quotidianodipuglia.it Mercoledì 7 Novembre 2018. Tre anni di reclusione per una serie di indicazioni non veritiere, che hanno configurato i reati di diffamazione e calunnia ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa e della criminologa Roberta Buzzone: è la condanna inflitta a "Zio Michele", ovvero l'agricoltore di Avetrana Michele Misseri, zio di Sarah Scazzi (difeso dall’avvocato Ennio Blasi). Insieme con Misseri erano sott’accusa per il reato di diffamazione l’avvocato Fabrizio Gallo e la giornalista televisiva Ilaria Cavo. In differenti trasmissioni televisive, secondo la tesi accusatoria, avrebbero espresso opinioni che si sarebbero estrinsecate in dubbi sulla condotta professionale dell’avvocato Galoppa e della dottoressa Bruzzone. L’avvocato Galoppa, come è noto, era stato il primo difensore (d’ufficio, poi tramutato in legale di fiducia) dell’agricoltore di Avetrana. La criminologa era stata poi nominata consulente di parte di Michele Misseri e aveva supportato l’attività dell’avvocato Galoppa, sino a quando entrambi non avevano preso le distanze da Misseri, che aveva fatto intendere che i due l’avessero convinto ad accusare la figlia Sabrina (condannata all’ergastolo insieme con la madre Cosima Serrano). Secondo la procura della Repubblica, sia l’avvocato Gallo che la giornalista, in modi e attraverso interventi differenti, avrebbero avallato la tesi secondo cui Misseri sarebbe stato effettivamente indotto dai due professionisti ad alterare la verità dei fatti. Gallo è stato condannato a una multa di 800 euro. Assolto dall’accusa Ilaria Cavo.

Delitto Scazzi, su Google maps la ricostruzione della scena. Immortalata la Set rossa e Saetta, il cane di Sarah Scazzi. Nazareno Dinoi su La Voce di  Manduria martedì 27 agosto 2019. Come ieri, nove anni fa, nella villetta giallo ocra con le tegole rosse di via Grazia Deledda ad Avetrana, si compiva l’omicidio che per diverse ragioni è stato annoverato tra i delitti del secolo. Tre sentenze hanno stabilito che quel giorno, era un giovedì, tra quelle mura domestiche fu strangolata Sarah Scazzi, quindici anni allora, per mano di sua zia Cosima Serrano e di sua cugina, Sabrina Misseri. Le due donne, zia e cugina della vittima, affidarono il corpo senza vita a zio Michele, marito e padre delle due assassine che si preoccupò di caricarlo sulla sua Seat rossa e lo portò in contrada Mosca dove lo gettò in un pozzo d’acqua sorgiva lasciandolo lì per 42 giorni. Ieri, 26 agosto, è stato il giorno dei ricordi. Il più realistico, da far rabbrividire, lo offre inaspettatamente Google maps che permette di tornare indietro nel tempo, esattamente a dieci mesi prima quel tragico giovedì, mostrando ciò che erano quei luoghi prima che tutto si compisse. L’obiettivo della macchina «Street View» di Google ha immortalato la Seat rossa ferma davanti al garage dove Michele Misseri, secondo la ricostruzione fatta dalla procura e poi dai giudici, trascinò l'esile corpo della nipote caricandolo nel portabagagli dell’auto che posizionò con la parte posteriore a favore del grande portone di ferro. La stessa telecamera ha catturato un altro personaggio della triste storia: Saetta, il cane meticcio che seguiva Sarah ovunque andasse. Nella foto l’animale è accucciato davanti al portoncino dell’ingresso principale dove, probabilmente, era entrata la sua padroncina. Ci sono le rose selvatiche piantate nel viale interno dove si vede il tubo dell’acqua per annaffiare, la vegetazione fitta che nasconde il pianerottolo della veranda. Tutto si trova al suo posto. Come una ricostruzione cinematografica che libera l’immaginazione, non è possibile non pensare che quell’anonimo giorno di ottobre del 2009, la piccola Sarah si era recata come faceva spessissimo a casa degli zii lasciando sulla porta il suo Saetta. E che in casa, quel giorno, c’erano tutti i protagonisti della truce vicenda: la cugina Sabrina, zia Cosima e zio Michele e, fuori, la Seat Rossa che dieci mesi dopo si sarebbe trasformata nel carro funebre della povera Sarah. A nove anni di distanza, invece, niente è più come in quelle immagini conservate nell'immenso archivio di Google. La Seat rossa sarà stata rottamata dopo il dissequestro, di Saetta non si hanno più notizie da tempo. Quella famiglia non esiste più come non esiste Sarah. Le due donne assassine stanno scontando l’ergastolo e sono rinchiuse nel carcere di Taranto dove occupano la stessa cella mentre i loro avvocati, Franco Coppi e Nicola Marseglia, hanno presentato ricorso alla Corte Europea. Zio Michele deve pagare con otto anni di carcere per aver fatto sparire il cadavere che lui stesso, 42 giorni dopo, fece trovare dopo un drammatico interrogatorio finito nella notte. La villetta dalle pareti giallo ocra e le tegole rosse c’è ancora, ma è desolatamente vuota, coperta da una assurda e fitta rete di colore verde che il contadino di Avetrana allestì quando era ancora libero per difendersi dalle visite indesiderate e dai giornalisti. Nazareno Dinoi

"Così ho nascosto il corpo di Sarah", il video-racconto di quel 26 agosto di 9 anni fa. In questo eccezionale servizio video, realizzato dal giornalista Nazareno Dinoi per La Voce di Manduria, è lo stesso Michele Misseri, due anni dopo l’omicidio, a raccontare dettagliatamente...La Voce di Manduria lunedì 26 agosto 2019. Il 26 agosto di nove anni fa, la piccola Sarah Scazzi, quindici anni, di Avetrana, fu uccisa nella villetta di Via Grazia Deledda dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima Serrano (condannate entrambe all’ergastolo, i loro avvocati hanno presentato ricorso alla Corte Europea). Secondo la sentenza, il corpo senza vita di Sarah fu affidato dalle due donne allo zio Michele Misseri, marito e padre delle assassine, che lo gettò in un pozzo in contrada “Mosca”, nelle campagne tra Avetrana e Erchie. Dopo 42 giorni zio Michele fece ritrovare il corpo. In questo eccezionale servizio video, realizzato dal giornalista Nazareno Dinoi per La Voce di Manduria due anni dopo gli eventi, è lo stesso Michele Misseri (attualmente in carcere dove sconta una pena di 8 anni) a raccontare dettagliatamente quel terribile pomeriggio quando con la sua Seat Marbella rossa portò il corpo della nipote in contrada Mosca per sopprimerlo. Nell'esclusivo documento, il contadino di Avetrana spiega con fredda lucidità, minuto per minuto, tutti i movimenti di quel terrificante atto.

Omicidio Sarah Scazzi: «Sabrina Misseri è innocente». L'avvocato Franco Coppi confessa il suo tormento: «In carcere da innocente da oltre dieci anni». Quotidianodipuglia.it Giovedì 1 Agosto 2019. «Sabrina Misseri è l'angoscia della mia vita. La notte mi capita ancora di pensare a questa sciagurata e a sua madre». Lo dice in un'intervista al 'Fogliò l'avvocato Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri e della madre Cosima, entrambe in carcere con una condanna all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi. «Ho la certezza assoluta della loro innocenza - dice Coppi - sarei pronto a giocarmi qualunque cosa. Non essere riuscito a dimostrarlo ha rovinato la mia vita di avvocato. Noi difensori non possiamo pretendere di vincere tutti i processi, non deteniamo il monopolio della verità e certe vicende si prestano a molteplici letture, d'accordo, ma nel caso di Sabrina Misseri no. Le prove della sua innocenza e della colpevolezza del padre reo confesso erano talmente schiaccianti che non riesco a capacitarmi di questo fallimento, il ricorso per Cassazione mi ha procurato una delusione insanabile. Questa ragazza sta in carcere da dieci anni: per me è un tormento». La Corte di Strasburgo, da voi adita, ha giudicato il caso ammissibile. «Attendiamo di conoscere l'esito, i tempi non sono brevi. Poi non ci resterà che sperare nella revisione del processo».

Silenzio. Parla il prof. Coppi: "Sabrina Misseri è l'angoscia della mia vita". Il Corriere del Giorno il 2 Agosto 2019. “La notte mi capita ancora di pensare a questa sciagurata e a sua madre”. Entrambe scontano una condanna all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi”. Le prove della sua innocenza e della colpevolezza del padre reo confesso erano talmente schiaccianti che non riesco a capacitarmi di questo fallimento, il ricorso per Cassazione mi ha procurato una delusione insanabile. Questa ragazza sta in carcere da dieci anni: per me è un tormento”. In un’intervista al quotidiano IL FOGLIO il prof. Franco Coppi, ritenuto il “principe” degli avvocati e cassazionisti italiani, è tornato a parlare del “caso Scazzi” di Avetrana. “Ho la certezza assoluta della loro innocenza, sarei pronto a giocarmi qualunque cosa. Non essere riuscito a dimostrarlo ha rovinato la mia vita di avvocato. Noi difensori non possiamo pretendere di vincere tutti i processi, non deteniamo il monopolio della verità e certe vicende si prestano a molteplici letture, d’accordo, ma nel caso di Sabrina Misseri no. Le prove della sua innocenza e della colpevolezza del padre reo confesso erano talmente schiaccianti che non riesco a capacitarmi di questo fallimento, il ricorso per Cassazione mi ha procurato una delusione insanabile. Questa ragazza sta in carcere da dieci anni: per me è un tormento”.

Sabrina Misseri e Cosima Serrano non meritavano l’ergastolo? Parla Franca Leosini. Michela Becciu il 25 Agosto 2019 su Urban Post. Caso Sarah Scazzi: Franca Leosini, regina della cronaca nera, intervistata a Fq Millennium da Peter Gomez, tra i veri temi trattati è tornata sul delitto di Avetrana, cui dedicò diverse puntate del suo celebre programma “Storie maledette”. A proposito della sua abilità nel gestire le interviste, ha detto di non avere mai avuto paura di un suo interlocutore/assassino: “Mai. C’è però stato un momento nel quale il protagonista della puntata "Aprite quella tomba", nel corso dell’intervista, ha fatto un salto e ha tentato di aggredirmi mettendomi le mani al collo. Voleva strozzarmi. Gli ho fatto una domanda scomoda e lui non l’ha sopportata. Mi saltò proprio addosso. Io rimasi impassibile. Purtroppo il regista di allora, sbagliando, staccò e invece avrebbe dovuto continuare a registrare …”.

Sabrina Misseri e Cosima Serrano non meritavano l’ergastolo? Sul caso Sarah Scazzi, a proposito delle interviste a Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri, la giornalista ha pronunciato parole inequivocabili: “Per dare l’ergastolo devono esserci la premeditazione e il vilipendio del corpo”. “Intanto le sentenze si rispettano e io non dò mai giudizi e non faccio capire quello che penso, direi riuscendoci. Nel delitto Scazzi, Sabrina Misseri e Cosima Serrano si sono sempre professate innocenti anche se condannate all’ergastolo dopo tre gradi di giudizio. Uccidere quella povera creaturina di Sarah sarebbe stato delitto d’impeto, forse preterintenzionale, e manca il vilipendio del corpo perché la vittima è stata inabissata in un buco da Michele Misseri. Mancano quindi i due presupposti per l’ergastolo”.

Salvatore Parolisi: i dubbi di Franca Leosini. La Leosini ha detto la sua anche sul caso Salvatore Parolisi, condannato per l’omicidio della moglie Melania Rea: “Lui si è sempre professato innocente e in primo grado con il rito abbreviato (che ti permette di evitare l’ergastolo) ha avuto trent’anni; in secondo grado diciotto perché gli è stata tolta l’aggravante della crudeltà. E’ una questione di parametri. Dobbiamo alla magistratura tanto, anzi tutto. I magistrati fanno anche una vita pericolosa, ma il libero convincimento dei giudici mi lascia perplessa, crea interrogativi ai quali non so dare risposte”.

FRANCA LEOSINI: “Cosima e Sabrina Misseri? Non c’erano presupposti per ergastolo”. Dario D'Angelo su Il Sussidiario il  10.08.2019. Franca Leosini: “Quella volta che un assassino mi mise le mani al collo per strozzarmi. Il mostro del Circeo? Sono ancora arrabbiata, mi ha ingannata”. Franca Leosini si racconta a tutto tondo nell’intervista rilasciata a Fq Millennium di Peter Gomez. In procinto di iniziare la 18esima stagione di “Storie maledette”, il programma che ha fatto di lei una vera e propria icona del giornalismo di cronaca nera, la Leosini parla di com’è cambiato il modo di raccontare il crimine:”La cronaca nera non è cambiata in meglio. (…) Te la ritrovi ovunque, a tutte le ore del giorno. Se accendi la tv, su tutte le emittenti, compresa la Rai, dalla mattina alla sera, trattano, ad esempio, la vicenda di Marco Vannini. Prendiamo questa come sinnedoche. Se ne parla ad ogni ora e lo si fa in modo inesatto. D’altronde io che ho il vantaggio di leggere gli atti processuali, diecimila pagine solo il caso di Avetrana (…) riesco ad essere precisa. Chi invece tutti i giorni deve portare la merce sulla bancarella magari dice anche tante inesattezze”. Diplomatica ma pungente… L’intervistatore chiede a Franca Leosini come mai non abbia deciso di occuparsi di delitti di Stato nei suoi tanti anni di carriera. La giornalista spiega: “Da autore ho scelto fin da subito un target preciso. I miei interlocutori sono dei non professionisti del crimine che come me e come te ad un certo punto cadono nel vuoto di una maledetta storia. Ad esempio non percorrerei mai un caso nel quale il motivo scatenante dell’atto omicida è esclusivamente economico. Mi è capitato che mi venisse chiesto di seguire quello di un industriale che fa uccidere un altro industriale per rivalità. Ma a interessarmi sono l’anima e le passioni umane. Per questo mi tengo lontana da omicidi e stragi di stato”. Su questo punto la Leosini torna anche in un altro passaggio dell’intervista: “Da tutte queste storia ho capito solo una cosa: in ognuno di noi può scattare quel clic. Siamo solo stati più fortunati, protetti dal destino. C’è come un momento particolare in cui la realtà può deformarsi. Può succedere anche a te. E’ quell’attimo in cui dici a te stesso: ‘Ora potrei veramente uccidere, commettere un gesto terribile'”. Sono tanti i casi seguiti da Franca Leosini nel corso della sua carriera. Parlando con “Millennium” ammette che uno di questi le brucia ancora per il fatto di essere stata ingannata: stiamo parlando di Angelo Izzo, il mostro del Circeo, che giusto una settimana fa le ha inviato una nuova lettera. La Leosini spiega: “La cosa che più mi fa arrabbiare, e non è facile ingannarmi, è che mi ero convinta che lui fosse davvero cambiato in carcere (Izzo nel 2004 ottenne la semilibertà ma poi uccise due donne nel 2005, ndr). (…) In altre lettere mi scriveva che aveva decine di progetti positivi per quando sarebbe uscito. Insomma, non ci sono cascata solo io, ma anche i magistrati. Quando nelle rare volte gli rispondo, gli dico: ‘ricordati che rispondo a quella parte di te in cui ho creduto’. Lui allora una volta replicò. Voglio dirle che non l’ho ingannata, perché esiste quella parte di me a cui ha creduto, ma purtroppo esiste anche quell’altra parte che quando prende sopravvento mi porta dove mi ha portato”.

Franca Leosini dice di non aver mai avuto paura di un suo interlocutore/assassino: “Mai. C’è però stato un momento nel quale il protagonista della puntata "Aprite quella tomba", nel corso dell’intervista, ha fatto un salto e ha tentato di aggredirmi mettendomi le mani al collo. Voleva strozzarmi. Gli ho fatto una domanda scomoda e lui non l’ha sopportata. Mi saltò proprio addosso. Io rimasi impassibile. Purtroppo il regista di allora, sbagliando, staccò e invece avrebbe dovuto continuare a registrare”. Uno degli ultimi casi trattati è quello di Avetrana in cui la Leosini ha intervistato Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri. La giornalista fa un’ampia premessa e si schiera contro il libero convincimento dei giudici: “Perché è vero che i crimini non sono mai sovrapponibili, non sono decalcomanie, ma ci sono dei fondamentali. Per dare l’ergastolo devono esserci la premeditazione e il vilipendio del corpo”. E qui si entra nel vivo:”Intanto le sentenze si rispettano e io non do mai giudizi e non faccio capire quello che penso, direi riuscendoci. Nel delitto Scazzi, Sabrina Misseri e Cosima Serrano si sono sempre professate innocenti anche se condannate all’ergastolo dopo tre gradi di giudizio. Uccidere quella povera creaturina di Sarah sarebbe stato delitto d’impeto, forse preterintenzionale, e manca il vilipendio del corpo perché la vittima è stata inabissata in un buco da Michele Misseri. Mancano quindi i due presupposti per l’ergastolo. Altro esempio il paragone con il caso Parolisi, paragone detto davanti ai magistrati. Lui si è sempre professato innocente e in primo grado con il rito abbreviato (che ti permette di evitare l’ergastolo) ha avuto trent’anni; in secondo grado diciotto perché gli è stata tolta l’aggravante della crudeltà. E’ una questione di parametri. Dobbiamo alla magistratura tanto, anzi tutto. I magistrati fanno anche una vita pericolosa, ma il libero convincimento dei giudici mi lascia perplessa, crea interrogativi ai quali non so dare risposte”. 

Indimenticabile Avetrana. Fai.informazione.it dal 18/07/2019. Avetrana, un paese lanciato verso l’estremità del  “tacco” dell’Italia, come chiamavano la Puglia una volta, al nord; ché poi, di logica, si sarebbe dovuto pensare alla Calabria come punta, ma si traslava la metafora, e tutto il sud era “quelli del tacco”. Una provincia baciata dal dolce Ionio, circondata da piane a perdita d’occhio, assolate, coltivate, punteggiate da pozzi non censiti, che forse solo i proprietari conoscono. Taranto è lontana con i suoi problemi. Si parlano dialetti curiosi, qualcuno dice messapici, contaminati dal salentino, appena parente del tarantino: quando gli abitanti si esprimono in  italiano, molti li scambiano per siciliani, chissà perché. La Puglia è la regione meno sudista del mezzogiorno, si dice. Non che siano mancate le storiche emigrazioni, né una organizzazione malavitosa di tutto rispetto come la Sacra Corona Unita; tuttavia non si sono formate cosche o archetipi come, per esempio,  per i siculi o i napoletani, parodiati tanto spesso nei film. La regione sconta il problema della scarsità d’acqua, ma è risultata sempre produttiva nel campo agricolo, della pesca, e del turismo di varia natura, come quello religioso nell’area di Monterotondo, patria adottiva di Padre Pio, polo mistico  e medico per i devoti. Lontani culturalmente dal “settentrione” foggiano e barese, i pugliesi meridionali vantano altri blasoni, come la barocca Lecce e la sua fama di città dove si parlerebbe l’italiano con l’accento ideale.

Sarah Scazzi non nacque, però, in questa terra, ma in Lombardia, durante una trasferta della madre in visita al papà Giacomo, colà emigrato; la bambina tornò al sud verso i sette anni. Un colibrì, minuta, diafana, la quindicenne sparì il 26 agosto 2010, con il popolo ancora distratto dall’ultima coda delle vacanze. Forse, come tante coetanee, il paese le stava stretto: dicono sognasse di fare la barista in qualche città o all’estero, e intanto studiava all’istituto alberghiero. Che succede, dal 26 agosto al momento in cui il corpo della ragazzina verrà ritrovato? Lo abbiamo ascoltato mille volte e in varie salse. Analizzeremo i protagonisti della storia e gli aspetti del crimine e della storia processuale che più ci hanno colpito. Le fonti sono mediatiche.

Concetta Serrano Spagnolo. La mamma di Sarah ha due cognomi perché adottata dagli zii. Poco aveva frequentato i veri genitori, era una ragazza di famiglia, che un giorno incontra Giacomo Scazzi e lo sposa. Ma Giacomo partirà per lavoro dopo la nascita del primogenito Claudio e Concetta, divenuta Testimone di Geova, resterà in compagnia della sua nuova religione e degli altri fedeli: ciò che, secondo molti, la renderà forte e poco incline a piegarsi al dolore dopo il dramma, convinta della prossima riunificazione con le anime dei defunti. L'abbiamo conosciuta sempre bella, dalla fiammeggiante chioma, sobria, ma incisiva nell'eloquio. Inviterà da subito a indagare sul nucleo familiare, se stessa compresa; apprenderà la sorte della figlia in modo fumoso e scoordinato, durante una diretta di “Chi l’ha visto?”.

Sarah, la vittima. Quando ancora si pensa a una fuga e non alla tragedia, in attesa di sviluppi, Concetta ci mostra la stanza della fanciulla, emula di Avril Lavigne, di cui tiene i poster in camera; spuntano dei video della sua ultima gita a Roma con la cugina/sorella Sabrina, di una festicciola dove l’adolescente sorride e punta il dito verso la telecamera, o di lei che guarda come si fa una messa in piega, magari pensando, in alternativa, a una carriera da hair stylist. La madre spiega il tipo di educazione che impartisce: niente computer, per esempio. Tuttavia ci viene svelato che Sarah va a chattare in casa di amiche e, per qualche giorno, si puntano i fari su un fornaio di diversi anni più grande, che si giustifica affannosamente: appena saputa la vera età dell’interlocutrice, aveva cessato i rapporti, peraltro rimasti rigorosamente virtuali. Concetta è contraria anche alle feste, a suo dire ormai solo espedienti per attività inappropriate, ma nulla può per frenare Sarah, sola come si ritrova nel fronteggiarne i primi ansiti di ribellione; la definisce tremenda, permalosa, un po’ eccentrica, ritratto che emerge anche dai resoconti sulla condotta scolastica. Forse a quindici anni è normale essere irrequieti ma, se davvero la donna intendeva imporre a Sarah una condotta a briglie più tirate, perché la faceva praticamente vivere in casa degli zii e in compagnia delle cugine? Laggiù, l’atmosfera pareva essere più adattata ai “tempi moderni” e Concetta non poteva ignorare che la compagnia di ultraventenni comportava delle conseguenze, rischiando di farle perdere il controllo sulla ragazzina. Tuttavia Concetta ha sempre riferito di sentirsi tranquilla, perché aveva fiducia in Sabrina Misseri, unica “mentore” di Sarah, dopo il matrimonio della sorella Valentina.

Giacomo Scazzi. Il papà di Sarah fa una curiosa impressione, con le sue palesi difficoltà espressive, mentre la moglie ha evidentemente compiuto un percorso evolutivo; intervistato con difficoltà, in qualche modo afferma che, anche se abita in Lombardia, ciò non significa che sia separato da Concetta. Lo si vedrà poco, a parte in qualche udienza. I media hanno fatto trapelare che Giacomo avesse la fama di correre dietro alle gonne, in modo anche un po’ invasivo. La sorella Cosima, nelle sue dichiarazioni spontanee alla Corte, affermerà che la loro famiglia non si è mai permessa di parlare male di Giacomo alla figlioletta, lasciando intendere che il resto del paese, invece, sussurrava cattiverie al riguardo. Sul punto, mamma Concetta avrebbe sostanzialmente risposto a Sarah in lacrime, toccata da questi pettegolezzi, che le doveva interessare solo il comportamento di Giacomo come padre e di non ascoltare il chiacchiericcio.

Claudio Scazzi. Il giovane, precocemente calvo e dall’aspetto “urban”, residente a San Vittore Olona, dove ha seguito il padre, è solito scendere al paese per una ventina di giorni ad agosto ed è già ripartito quando Sarah scompare. Simile alla madre nella parlata sciolta e di acute osservazioni, dopo la disgrazia allestirà una piccola mostra incentrata sull’amore della sorellina per gli animali, affermando, alla fine, che di lei non parlerà più.

Michele Misseri. Emigra con  la moglie in Germania circa nel 1979, dopo le nozze: una vita di sacrifici, una attitudine al lavoro mai messa in dubbio, forse un po’ succube della consorte, fama di puritano, anche un po’ timido. Dopo le note vicende viene dipinto come una sorta di Pacciani del sud, un primordiale contadino frustrato e incline ai raptus: pregiudizio di classe che si infila sempre nelle cronache criminali provinciali e rurali. L’unica immagine serena di lui che abbiamo visionato lo ritrae, elegante come tutti, al matrimonio della primogenita Valentina, mentre, fiero, la accompagna all’altare. Nello stesso video compare fugacemente Sarah, di rosso vestita. Serpeggia, da alcuni anni, un’ atroce diceria secondo cui il padre di Michele fosse violento, anche sessualmente, in famiglia.

Cosima Serrano in Misseri. Da ragazza molto somigliante a Sarah, precocemente invecchiata per la fatica e – detto a Franca Leosini – perché “ non voglio essere schiava della tinta” ( una frecciata a Concetta?), ci spiega che la loro famiglia è sempre stata normalissima; che tra lei e Michele erano corse incomprensioni negli ultimi tempi, come succede in molti nuclei familiari; di essere stata una madre di larghe vedute, e per nulla legata a costumi ancestrali visto che, d’altronde, la realtà odierna obbliga ad adeguarsi e – sempre da Leosini -  fa l’esempio del gran numero di ragazze madri ad Avetrana: piccola rivalsa di una donna fatta oggetto di insulti, sputi, e invocazioni al linciaggio da parte di una folla di compaesani, al momento dell’arresto. I leoni da tastiera avevano lasciato per un momento la postazione, per dar vita ad una scena rivoltante, che fa il paio con il turismo dell’orrore scatenatosi in particolare attorno a questo delitto. Cosima ribadisce lo smisurato affetto per la nipotina scomparsa, da sempre considerata una terza figlia e praticamente da lei cresciuta.

Sabrina Misseri. Ventiduenne al tempo, estetista con cabina in casa, viene descritta come “cocca di papà”. Pensiamo se non lo fosse stata, cosa di peggio le sarebbe accaduto…Propensa a confidarsi con tutti, pagherà cara la sua sete di comunicazione. La giovane appare molto legata alla “comitiva” di amici, protettiva verso Sarah, probabilmente talora anche un po’ aggravata dalla responsabilità di averla sempre appresso; unica in famiglia, non aveva la patente, particolare che più avanti assumerà un suo rilievo. Provocata dalla Leosini, risponde che non intende aderire alla religione dia zia Concetta, la quale l’ha invitata a convertirsi per espiazione, e si rammarica che la mamma di Sarah possa ancora considerare colpevoli lei stessa e Cosima; anche se, come si vedrà, forse nel tempo le circostanze hanno portato Concetta ad altre considerazioni.

Ivano Russo. Il bello del paese, si è detto spesso: un brunetto dallo sguardo intenso e, osservando le famose foto con le cugine, dalla gradita villosità. Ventisette anni all’epoca dei fatti e, si immagina, alquanto conteso da nutrita compagnia femminile, in effetti viene attratto nell’orbita di Sabrina Misseri, una ragazza che ha sempre ammesso di sentirsi complessata per un eccesso di peso e di peluria. Fatto “il colpaccio” di agganciare Ivano, iniziano i problemi.

In questa storia la fanno da padrone gli sms, predecessori dei whatsapp, ovvero i messaggini, che i giovani di oggi ( e non solo loro) si scambiano a raffica: ricostruirli, nel fatto di specie e considerando alcune cancellazioni a opera degli interessati, intorbidirà la ricostruzione, già di per sé problematica, degli eventi. Tuttavia l’episodio che più interessa è il famoso “rapporto mancato” del 21 giugno 2010 tra Ivano e Sabrina, su cui Franca Leosini infierirà con apprezzamenti sarcastici. In effetti non è ancora chiaro se il coniugio carnale, appena iniziato, fosse stato interrotto perché, all’ultimo secondo, Sabrina aveva ammesso di non assumere o portare anticoncezionali e lui non aveva dietro un preservativo, o per il timore del ragazzo che la partner potesse illudersi di avviare, con l’atto sessuale completo, una storia seria. Sabrina ha sempre disperatamente ribadito di non aver mai pronunciato la parola “amore”, e sfidato chiunque a trovarla in una delle migliaia di messaggi da lei scritti a Ivano stesso o ad altri, Né, in effetti, i testimoni anche più maliziosi hanno mai potuto affermarlo. La Misseri ha sempre parlato di attrazione fisica. C’è però un altro aspetto che investe prepotentemente Ivano, anche solo di riflesso: Sarah era innamorata di lui? E lui, che sponda le offriva? Che la adolescente avesse preso la sua prima vera cotta per Ivano è normale: in qualità di chaperon della cugina, stava spesso in sua compagnia, ne ascoltava gli sfoghi; Ivano era belloccio e di esperienza, vista l’età; ma che lui abbia potuto anche solo farle balenare un feed back, tendiamo a escluderlo, qualunque cosa la giovinetta avesse scritto nel suo famoso diario che, ricordiamolo, da giovani rappresenta l’amico immaginario, il libro dei sogni, il “muro del pianto” (e delle malignità inespresse) delle menti acerbe e degli ormoni in rivolta. Piuttosto, ci chiediamo se Ivano frequentasse con la stessa intensità altre ragazze, con foto di pomeriggi lieti e grande cameratismo. Se l’ha fatto, non sono uscite prove materiali; se invece prediligeva la compagnia delle cuginette diverse, ha scherzato davvero col fuoco, in un paesone di gole profonde.

Dopo i protagonisti, si passa ai comprimari che, talora, finiscono per assumere un rilievo smisurato a seconda della “sceneggiatura”. Maria Ecaterina Pantir. Badante rumena dello zio/padre di Concetta (l’uomo, che viveva con la figlia/nipote, morirà nel settembre successivo alla scomparsa di Sarah). La governante, proprio in agosto, aveva ricevuto la visita del fratello e pare che costui avesse anche dato una mano in lavoretti di riparazione e manutenzione. Subito nel mirino, il Pantir viene scagionato perché già ripartito prima della sparizione di Sarah, ma le Misseri vi avevano alluso, dunque Maria Ecaterina andrà ad aggiungersi alle parti civili contro di loro. E fosse solo questo. Dirà qualcosa di determinante per l’accusa, come vedremo: vendetta?

Mariangela Spagnoletti. Amica intima di Sabrina, molto coinvolta nel suo giro di “vasche” serali, e giri per pub e birrerie, è sulla scena dei fatti, unica estranea al nucleo familiare, nell’arco di tempo fatale.

Anna Pisanò. Altrimenti detta “supertestimone”. Nelle cronache criminali, se ne trova spesso uno, che riferisce molte impressioni non avvalorate e pochi fatti: sembra questo il caso. Testimone di Geova come Concetta, non si rivela altrettanto riservata, come da dettami del culto.

Giovanni Buccolieri, il fioraio che avrebbe sognato la scena del ratto di Sarah da parte di Cosima, per strada; sua dipendente era la figlia della Pisanò, Vanessa Cerra.

Alessio Pisello, amico di Sabrina, molto attivo nelle ricerche subito dopo la scomparsa di Sarah.

Valentina Misseri. Sorella maggiore di Sabrina, fresca sposa al momento della disgrazia, in quei giorni si trovava a Roma, dove abita. Ha sempre sostenuto che, per sfortuna si fosse trovata ad Avetrana, sarebbe finita in carcere anche lei. Ha spiegato accuratamente che la logistica di casa Misseri escludeva una dinamica come quella descritta in sentenza.

I fatti

Sarebbe quantomeno consolante poter riferire di un crimine in termini di certezze, almeno in percentuale accettabile. Sarà che le vite sono complicate e il loro racconto le riflette, quando non le deforma; che la pistola fumante è rara; che i testimoni a volte si esaltano per il momento di celebrità: vuoi per questo, che per altro, la sentenza non ha offerto evidenze schiaccianti.

Interpelliamo per primo Claudio Scazzi, il quale ci fa sagacemente notare l’assurdità del ritrovamento del telefonino di Sarah ( in parte bruciato e privo di Sim) nei pressi del pozzo dove l’hanno gettata: perché non disfarsi di un oggetto incriminante? Dove era stato fino a quel momento? Dal 26 agosto fatidico alla “confessione” di zio Michele, che fece rinvenire il cadavere il 6 ottobre, nessuno si è preoccupato di perlustrare le proprietà dei Misseri, a iniziare dal villino di abitazione con annesso il fatidico garage o le campagne dove erano soliti lavorare, né di setacciare un territorio che, pur vasto, presenta il vantaggio di snodarsi in pianura, senza fratte o pendii, né tantomeno di valutare la presenza dei pozzi? Ce n’erano molti, si è detto. Vero: ma qui si parla dei terreni di una sola famiglia e non dovevano essere sterminati: alberi da frutto, pomodori, fagiolini, queste le principali colture cui si dedicavano Michele e Cosima, e lì si doveva andare insieme a loro, battendoli metro a metro. Concetta stessa aveva già direzionato le indagini verso l’ambito familiare, dunque…Claudio però è attenzionato dai media abbastanza da far sorgere delle domande, alcune forse un po’ oziose, altre ancora senza risposta. Qualcuno osserva che, saputo della scomparsa della sorella, il giovane non si è subito precipitato ad Avetrana per aiutare nelle ricerche: ma è ipotizzabile che, appena rientrato al lavoro, contasse su ( e sperasse in) una soluzione meno tragica, magari un rientro dopo una scappatella, pronto a dare una mano in ogni caso. Più interessanti, invece, appaiono le riflessioni sul suo ruolo nella cerchia in cui erano coinvolti i giovani parenti, sorellina compresa. Sceso per le ferie di rito, anziché godersi il riposo e il divertimento, egli si infila subito nel chiacchericcio più hard (Sabrina dirà di lui “ Claudio non si fa mai i fatti suoi”). Se il teorema accusatorio si basa da una parte sulla feroce gelosia di Sabrina verso Sarah a causa di Ivano, è pur vero che esso è stato puntellato dall’idea che la piccola Scazzi avesse parlato in giro sul “due di picche” che Sabrina si era presa da Ivano in procinto di far l’amore, ma non sarebbe andata proprio così. In realtà la giovinetta ne avrebbe accennato in casa, Claudio aveva saputo ed era andato, in un certo senso, a “sfottere” Russo sull’incidente erotico. Quindi non era Sarah la “colpevole” di aver diffuso il “pastiche”: giovanissima, non “si teneva” niente e si era confidata con il fratellone che per poco ancora avrebbe avuto vicino. La stessa Sabrina, poi, avrebbe avuto di che riflettere sulla sua propensione a raccontarsi senza freni. In ogni caso, notiamo che l’accusa ha un piano A e un piano B, due moventi intercambiabili o integrabili.

Sentiamo Concetta: molto presto si dichiara convinta della colpevolezza di Cosima e Sabrina. Addirittura, seguendo, a suo dire, le confidenze di un’altra sorella, avrebbe affermato - “Mia sorella Emma mi parlò di una corda che aveva visto in bocca a un cane e le era sembrato strano, era come se il cane le volesse indicare qualcosa e mi disse di parlarne con i giornalisti. Dopo l'arresto di Sabrina, Emma non si è più fatta vedere". Bari.repubblica.it.  - Insomma, questa Emma Serrano prima appare solidale con Concetta, poi parrebbe prendere le distanze e schierarsi con Cosima. Ma che significa una corda in bocca a un cane che “ le indica” qualcosa? Qui si inizia a scivolare nell’immaginazione, magari dopo aver appreso che l’accusa non parla più di omicidio a mezzo corda (come da autopsia), ma mediante una cintura. Torniamo a Concetta che, in uno speciale dedicato al caso su TV 9, siamo ormai nel 2018, all’ascolto dell’interrogatorio di Mariangela Spagnoletti, trova che il PM sia pressante e la ragazza “pilotata”.

Ivano Russo che ne dice? Sfiorato dai sospetti, ha l’alibi della madre, anche se i due  fanno un po’ di confusione sugli orari; qualche sms, vivisezionato dagli inquirenti, potrebbe adombrare delle discrepanze, ma, a parte l’imbarazzante deposizione in aula sulla famigerata “ notte del rifiuto”, il ragazzo non viene più disturbato fino ai giorni nostri. Purtroppo il suo nuovo sodalizio sentimentale, da cui è nato un figlio, si rompe con strascichi astiosi e la sua ex, Virginia Coppola, avrebbe dichiarato che di quel 26 agosto Ivano non ha raccontato tutto, che era uscito nelle ore incriminate. La donna viene catalogata come ex vendicativa e il capitolo Ivano potrebbe chiudersi un’altra volta. Forse, vedremo.

Cosa dunque sarebbe accaduto, quel giorno? Scremate le divagazioni di zio Michele, quando ormai la Procura è concentrata su moglie e figlia, apprendiamo che la versione definitiva disegna una certa scena, ovvero: Sarah esce di casa alle quattordici, arriva dai Misseri, dove Michele se ne sta da qualche parte, ma non è chiaro dove ( la teoria del trattore che lo ha fatto infuriare è svanita e con essa anche la sua esatta posizione in quel frangente); si scatena una lite furiosa tra le due padrone di casa e la povera Sarah ( motivo, la gelosia o la spiata su Sabrina e Ivano?); la ragazzina, quaranta chili di leggerezza e gioventù, scappa lesta, ma le due Misseri prendono l’auto; Cosima (peso oltre i cento chili, in piedi dalle tre e mezzo di notte dopo una giornata passata nei campi)  guida a tutto gas, la raggiunge, esce dall’auto, la rincorre, la afferra senza che alcuno senta nulla, la riporta a casa, dove, in qualche maniera, con una cintura, la povera quindicenne viene strangolata a quattro mani. A quel punto, non si sa bene come (su eventuali risultanze di tabulati in merito ci hanno lasciato a bocca asciutta), vengono chiamati i rinforzi, ovvero zio Michele, suo fratello Carmine e suo nipote Cosimo Cosma: i tre, senza fare una piega, né essere visti da qualcuno, arrivano come fulmini, si infila il corpo nel bagagliaio della Panda di Michele e via, tutti, a disfarsi del cadavere nel famoso pozzo di contrada Mosca. Poi, si suppone, ognuno sarebbe tornato tranquillo a casa propria, perché……perché la Spagnoletti, arrivata per la gita al mare, circa tra le quattordici e trenta e le quattordici e quarantacinque, non ha visto nessuno, non cita terzi, non si accorge di alcuna agitazione.

Come si è arrivati a questo finale. Sulle prime, le dichiarazioni di Michele venivano prese sul serio, perfino l’assurda idea di uno stupro post mortem sul corpo di Sarah: non che non siano esistiti tristi figuri capaci di atti simili, ma si doveva quantomeno attendere l’autopsia, che infatti proverà l’inequivocabile verginità della giovane defunta (Cosima, ancora libera mentre va a trovare il marito in carcere, glielo obietta, durante una intercettazione ambientale); dopo aver verificato l’inattendibilità dello zio più famoso d’Italia, gli si offre, tuttavia, ancora abbastanza credito da seguire la sua lenta svolta verso le congiunte: ora diventa un incidente casalingo. Ossia, Sabrina e Sarah, mostrando un intelligenza vicina al minimo sindacale, avrebbero giocato a cavalluccio: con la Scazzi sopra, si sarebbe pensato. No, Sarah faceva il cavallo e Sabrina, di tripla consistenza, il cavaliere, che con una improvvisata briglia (la cintura, che ora fa capolino?) per sbaglio l’avrebbe strozzata (casomai, fosse mai stato vero, Sarah avrebbe rischiato sì, grosso, ma per il peso della cugina sul suo esile corpicino…). Altra giravolta di Michele: non giocavano, ma hanno litigato. Come lo sa? Si è visto arrivare in garage Cosima e Sabrina, cadavere in braccio, transitate per un passaggio interno, sempre chiuso ermeticamente fino a quella data, e in pochi secondi avrebbe dato il via alla congiura per l’occultamento. DNA di Sarah? Nemmeno un po’.

Perplessità. La rincorsa di Cosima è attestata dal famoso sogno/visione/percezione del fioraio Giovanni Buccolieri, sul modello di quanto avviene nella cultura degli indios, che considerano i sogni realtà. L’uomo non avrebbe avuto di meglio da fare che dirlo alla sua dipendente Vanessa Cerra, che ovviamente sarebbe andata subito a “sbrodolare” la succosa confidenza alla madre Anna Pisanò. Buccolieri però, a breve, ritratta tutto; in questo caso non viene creduto, e si becca una condanna a due anni e otto mesi per false dichiarazioni al pubblico ministero, ma non tornerà indietro: non era vero niente, era solo una sua ipotesi, nel mare di supposizioni paesane che si incrociavano in quei giorni. Anna Pisanò, a sua volta, non è stata certo lineare. Prima ha parlato di certi operai che stavano ristrutturando un edificio scolastico e fischiavano alle donne (anche a lei, precisa), quasi alludendo alla possibilità che tra loro si dovesse indagare; poi sterza di brutto, parlando della tristezza di Sarah la sera del 25 agosto, e di un suo malumore anche il 26, giorno in cui, vedi caso, la Pisanò si sottopose a trattamenti estetici da Sabrina (e Sarah era sempre lì), notando il suo pallore, le lacrime trattenute, perché bistrattata da Sabrina. In realtà l’umore altalenante dei giovanissimi è la regola e se la Pisanò la sera non era al pub, quindi parlerebbe de relato, il 26 nessuno oltre lei notò Sarah corrucciata. Le amiche di Sabrina picchiano duro sulla infatuazione di Sabrina per Ivano, ma quanto a Sarah, ne riferiscono in modo non significativo: ogni giorno tra giovani, specie giovani donne e ragazzine, si litiga e si fa pace. L’indomani Sarah in mattinata era già dalla cugina, andò a comprare un prodotto in profumeria per lei, ed era vestita di nero; dopo mangiato, entusiasta alla prospettiva di andare al mare, provocando anche un po’ di disappunto in Concetta, mise il costume da bagno e si cambiò, indossando la famosa maglietta rosa come testimoniato anche da Concetta……ma no. Un manutentore, che l’avrebbe notata per strada, parla di lei vestita di nero nel primo pomeriggio, e le parole di Concetta passano in secondo piano. Né conteranno di più riguardo all’orario: Concetta ha sempre sostenuto che sua figlia era uscita alle quattordici e trenta, ma sul punto verrà ritenuta più affidabile la badante Maria Pantìr, che è fissata con l’uscita alle quattordici. Né varrà più che tanto la testimonianza dei due fidanzati di passaggio, che hanno notato Sarah camminare sul marciapiede e propendono anch’essi per le quattordici e trenta. E perché mai, nel correre dietro a Sarah, si sarebbe impegnata la stanca e pesante Cosima, unica a saper guidare, lasciando in auto l’imperturbabile Sabrina, mentre sarebbe stato del tutto logico che la più giovane si mettesse alla rincorsa e la patentata Cosima aspettasse in auto col motore acceso, pronta a ripartire? Nel giro di circa venti minuti dunque Sabrina avrebbe: ucciso Sarah insieme alla madre, chiamato rinforzi per farla scomparire, mandato messaggi al telefonino della cugina e con lo stesso dispositivo, ora in suo possesso, risposto con uno squillo per far credere che la poveretta fosse ancora viva; inoltre, scambiato altri messaggi con una cliente che nel frattempo l’aveva contattata, per poi scendere in strada dove l’attendeva la Spagnoletti, fingere preoccupazione e dirottare tutti verso casa Scazzi, mentre Michele, incorporeo, si dileguava con la salma in auto. Sembrerebbe una macchinazione davvero fortunata, per un delitto d’impeto, che si suppone lasci l’assassino un minimo sconvolto e poco lucido nell’immediatezza: ci vogliono sempre alcuni minuti per decidere sul da farsi, tempo a disposizione e un luogo non frequentato o isolato.

In questa sede non è il caso di aggiungere altro, che già non si sappia, a parte considerare gli ultimi sussurri al riguardo – “ …intercettato, Ivano dialoga con un amico, Alessio Pisello, e pronuncia una frase inquietante: «Qualcuno di noi ha parlato». Parlato di che cosa? Nella villetta al mare c’è forse un segreto da nascondere? Anche il 29 novembre, sempre intercettati, Ivano e i suoi amici discutono animatamente di quanto dovranno dire agli inquirenti, di che cosa vada corretto e di che cosa andrebbe nascosto” Panorama.it 27 novembre 2018 –  Esisteva, in effetti,  questa villetta, di proprietà del nonno di Sarah, e pare che su certe feste che vi si svolgevano nessuno abbia raccontato la verità: Sarah c’era o no? Circolava droga? La ragazzina aveva visto qualcosa? Per ora, è tutto: ergastolo per Cosima e Sabrina, otto anni per Michele, che ha ripreso a dichiararsi colpevole ed è stato anche condannato per la diffamazione nei confronti del suo primo avvocato Daniele Galoppa e la consulente Roberta Bruzzone, che a suo dire lo avrebbero convinto ad accusare la figlia, in quanto rassicurato sul fatto che le avrebbero dato solo un paio d’anni di carcere….Se solo Sabrina non fosse stata sentita da tutti, nei convulsi momenti in cui Sarah non arrivava, mentre proclamava sicura “ l’hanno presa, l’hanno presa”, forse non avrebbe attirato su di sé quell’attenzione che i suoi detrattori, vedendola così spesso in televisione, hanno bollato impietosamente, additandola quale ovvia pertinenza caratteriale di un’assassina narcisista; se solo Cosima non avesse spintonato il marito dietro la porta del garage, per indurlo a non dire pericolose scemenze dinanzi ai giornalisti, gesto interpretato come volontà di insabbiare la verità…se, se solo Sarah fosse ancora qui. Maria Lucia Monticelli, la giornalista che seguiva la vicenda per “Chi l’ha visto” ci regala a sua volta una visione: prima del ritrovamento del corpo aveva sognato la ragazzina che la avvolgeva in un abbraccio “dolente”: così  aveva intuito che lei non c’era più. Se fosse stato tutto un brutto sogno.

Carmine Misseri vuole lasciare il carcere. Carmine Misseri, lo zio acquisito di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana uccisa dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima Serrano, condannato anche lui per...Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria mercoledì 07 agosto 2019. Carmine Misseri, lo zio acquisito di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana uccisa dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima Serrano, condannato anche lui per soppressione di cadavere in concorso con il fratello Michele, vuole lasciare il carcere e trasformare la pena detentiva con l’affidamento ai servizi sociali. Ma per i giudici è ancora presto. Non solo per quelli del Tribunale d sorveglianza di Lecce che hanno respinto la prima richiesta, ma anche per gli ermellini della Corte di Cassazione che hanno rigettato il ricorso. Il fratello del principale protagonista della triste vicenda di Avetrana, che secondo i tre gradi di giudizio il 26 agosto del 2010 lo ha aiutato a nascondere il corpo della nipote in un pozzo in contrada «Mosca», sta scontando nel carcere di Lecce, dal 21 febbraio 2017, una condanna di quattro anni e undici mesi di detenzione. In primo grado i giudici gli avevano assegnato sei anni. Rendendo inammissibile il ricorso, i giudici della suprema corte hanno avvalorato le argomentazioni dei giudici leccesi che ritengono prematura la misura alternativa. Intanto per la natura e gravità dei reati per i quali è stato condannato, ma anche per non aver mai ammesso la propria colpevolezza. La difesa di Carmine Misseri sosteneva invece che per usufruire della messa in prova anticipata non fosse necessaria la confessione «avendo il condannato il diritto di non ammettere le proprie responsabilità». Misseri, tra l’altro, si è sempre dichiarato estraneo all’imputazione di soppressione di cadavere «pur accettando e rispettando la decisione emessa nei suoi confronti». A dar forza alla tesi dei giudici ha concorso anche il parere contenuto in una nota del commissariato di polizia che ad un parere richiesto aveva sollevato dubbi per la presunta pericolosità sociale dell’individuo. Anche la direzione del penitenziario di Lecce dove è detenuto si era espressa non favorevolmente all’anticipato affidamento ai servizi sociali ritenendo utile, prima, sperimentare un ciclo di permessi premio di cui Carmine non ha ancora mai goduto. «Anche in ragione della non vicina scadenza della pena – si legge nella relazione del servizio penitenziario -, sia indispensabile un approfondimento dell’osservazione scientifica della personalità del condannato, all’esito della quale, in un’ottica di gradualità nella concessione dei benefici penitenziari, sperimentare, per un congruo periodo, banco di prova per l’ammissione ad una misura alternativa così ampia quale quella invocata in questa sede dall’interessato».

A poco è servita per il momento la buona condotta del detenuto che ha sempre sostenuto la sua innocenza accusando il fratello Michele di averlo coinvolto nella brutta storia con la telefonata fatta nel momento in cui trasportava il corpo di Sarah Scazzi per sopprimerlo. Secondo la sentenza, con quella chiamata i due fratelli si diedero appuntamento in contrada Mosca dove avrebbero trovato il pozzo in cui gettarono il cadavere. Carmine Misseri ha invece sempre sostenuto che in quella breve conversazione il fratello gli raccomandava di dire una bugia alla moglie nel caso lo avesse chiamato per chiedere dove si trovasse il marito. (Famosa la storia: «se chiama Cosima dì che sono scappati i cavalli»). Nazareno Dinoi

·           La sensitiva Rosemary Laboragine.

“Generali è nel lago” Rose lo aveva detto. Dilei.it il 20 maggio 2019. Intervista alla sensitiva Rosemary Laboragine, impegnata nella ricerca di persone scomparse. Il pomeriggio dell’8 novembre 2010 hanno ritrovato in fondo al lago dell’Enel di Pavana il corpo di Carlo Generali, l’imprenditore titolare del marchio Carla G di cui si erano perse le tracce dalla notte tra giovedì e venerdì. In mattinata la sensitiva Rosemary Laboragine, in una lunga chiacchierata, ci aveva detto che l’uomo era morto e si trovava in profondità, dentro l’acqua. Divenuta famosa alle cronache per avere aiutato a risolvere il caso di Melania La Mantia, la paracadutista annegata a febbraio, Rosemary Laboragine ha iniziato ad avere i suoi flash a due anni e mezzo quando predisse la morte della nonna e negli ultimi tempi aveva anticipato l’esito del caso Sarah Scazzi. Ma il suo unico obiettivo divita, ci ribadisce più volte, è aiutare a ritrovare le tante persone scomparse di cui si occupa. Come Denise Pipitone e Angela Celentano, che sono vive e torneranno.

Anche per Carlo Generali un’altra visione azzeccata.

«Sì, io l’avevo detto che aveva avuto un incidente, dovuto a un malore. Per me quell’uomo non ha nemmeno toccato i freni, nei miei flash lo vedevo incastrato in profondità, in mezzo a fango, acqua. Ho detto da subito che non si trattava di rapimento».

Come avvengono i suoi flash?

«Se ho la persona davanti, non la guardo negli occhi ma le prendo la mano se è al telefono sento la voce e guardo altrove: un muro bianco può darmi un viso o un nome. Nel caso di Petriti, per esempio, la donna scomparsa a Torino trovata murata nella casa dell’ex amante del marito, vedevo il nome Andrea, che è quello di uno degli arrestati. Quando mi chiedono di analizzare un caso posso avere un flash immediato oppure dopo 3, 4 giorni. Sull’imprenditore Generali guardavo la televisione e ho detto: “Entro domani (8novembre, ndr) lo trovano”. Vedevo una grossa automobile, vedevo che andava veloce e che aveva avuto un offuscamento alla vista. Ho visto anche una cosa che non so se la sua famiglia sapeva: quest’uomo un paio di giorni prima aveva avuto qualche sintomo, soffriva di pressione alta e non so se l’ha rivelato ai famigliari. Un piccolo malore che ha preso sottogamba. Aveva problemi fisici e con i suoi impegni di lavoro li ha sottovalutati».

Quando ha capito di avere questo “dono”?

«Il primo flash l’ho avuto a 3 anni. Mia nonna ne aveva 45, mio nonno 49. Vivevamo insieme, eravamo in cucina, mi sono alzata ho abbassato la persiana salendo sulla sedia, perché ero davvero piccolina, e ho detto: “Muore la nonna”. Si sono messi a ridere, mezz’ora dopo si è accasciata per un infarto. Dopo qualche giorno ho detto a mia mamma: “Voglio andare via col treno, muore il nonno”. E così è stato. Poi fino a 16 anni non ne ho più avute. Mia mamma non mi ha mai detto nulla, ma in paese lo sapevano tutti. A 16 anni ero seduta sui gradini di casa e vedo passare un vicino che sta partendo in Vespa. Corro e cerco di fermarlo. Lui non mi ascolta, dopo un quarto d’ora ha avuto un malore e si è piantato un freno in gola. A quel punto mia mamma mi ha raccontato quello che era successo quando ero piccola, riportato anche sul Gazzettino locale. Da allora i miei flash sono continuati».

Anche per Sarah Scazzi aveva avuto dei flash veritieri: vedeva acqua, prima ancora che la ritrovassero, su confessione dello zio, nel pozzo.

«Sì, pensi che Misseri lo presero di mercoledì e io avevo registrato una puntata di Pomeriggio sul 2 che non mandarono in onda per rispetto della madre in cui dicevo che la vedevo morta, in posizione fetale, con acqua intorno. Vedevo anche qualcuno che lei conosceva, un uomo, ma non riuscivo a identificarlo. Poi l’ho visto, era Michele».

Come?

«Il venerdì prima che lo prendessero e confessasse vado al ristorante, guardo un quadro e vedo la sua faccia e dico al mio compagno: “È stato lui, è lo zio”. Torno a casa e comincio a mandare mail a giornalisti, è tutto registrato. Il mercoledì guardo Chi l’ha visto e scopro in diretta del suo arresto. Se solo mi avessero ascoltata! Una sola cosa mi ha frenata dal chiamare la mamma di Sarah per dirglielo, una sua frase…»

Quale?

«“Di tutti sospetto fuorché di mio cognato”. E lì ho pensato: se chiamo io, da perfetta sconosciuta, mi manda a stendere».

Aveva anche predetto il coinvolgimento di Sabrina.

«Sì, avevo detto anche che Misseri non aveva fatto tutto da solo, che vicino a lui c’era una donna complice, della famiglia. Feci una intervista fatta per Matrix che non è andata in onda proprio la sera prelevarono Sabrina. Se penso che Sarah avrebbero potuto trovarla dieci giorni prima se mi avessero ascoltata! Io l’avevo detto: la vedo con gli occhi chiusi, in posizione fetale, c’è acqua intorno e non è lontana da casa. Non l’hanno mandata in onda per timore che la madre potesse restarne provata».

Il movente del delitto?

«Per me è stato un raptus. Poi ha chiamato il padre per farsi aiutare a sbarazzarsi del corpo. È Ivano, il fidanzato, la causa della gelosia di Sabrina, che vedeva Sarah crescere farsi carina, la vedeva come un pericolo. E ha perso la testa. L’ha uccisa con quella cinta bianca. Io continuo ad avere dei flash su Sarah, la bambina non è in pace, è morta di morte violenta. La sento vicina e le dico sempre: “Non preoccuparti che finché non vado a fondo non mollo”».

Su un altro caso di cronaca di questi giorni, quello di Marina Patriti, aveva detto la sua

«Sì, non appena sentii la figlia della donna in tv, vidi subito due uomini e lei sepolta. Ho tutto archiviato, lo posso dimostrare. Vidi anche il nome del complice Alessandro, figlio dell’assassina. Anche su un altro caso ho delle certezze».

Quale?

«Alessandro Ciavarella, scomparso l’11 gennaio 2009. A mio sentire è morto, era un ragazzo timido ed è stato adescato da amici. È stato ucciso per un atto di bullismo e io vedo che tra quelli che l’hanno preso c’è un “Pio”. È sepolto a 10-15 km da casa. E ci sono 3, 4 ragazzi coinvolti».

Omicidio di Garlasco: ha detto pubblicamente che secondo lei Stasi è colpevole.

«Sì, ogni volta che lo vedo in video mi viene la nausea, mi preme lo stomaco. Non dice la verità. Solo che secondo me è protetto da personaggi potenti. E la famiglia di Chiara mi fa una pena incredibile. L’ha uccisa perché lei aveva scoperto le sue foto pedopornografiche e minacciava di rivelare la cosa».

Sostiene invece che la Franzoni sia innocente.

«Ci ho messo un anno prima di avere i flash definitivi su Cogne. Mi creda, non la conosco e non mi ha certo pagata ma l’ho già detto: è stato un uomo, che vive lì, dimagrito di 10-15 kg dall’epoca del delitto e l’arma è custodita in una casa, nel secondo cassetto di un mobile. Annamaria non ha rimosso come dicono, è in carcere ingiustamente. Io vorrei chiamare il suo avvocato per farle avere il mio libro appena uscito: Oltre ogni ragionevole dubbio. Un domani, lo dissi a Mentana, farete una trasmissione per chiederle scusa. Si ricordi, è stato un uomo».

Il movente?

«È uno psicopatico, si era invaghito di Annamaria, aveva capito che non poteva averla e si è accanito sul bambino. I pazzi non sempre hanno un vero movente, guarda quel carabinieri che qualche giorno fa ha ucciso la figlia, ferito gravemente l’altra e poi si è suicidato. Io la sera prima avevo avuto un flash, avevo detto: “Prevedo un delitto grave in una famiglia bene”».

Lei è diventata famosa alle cronache per aver aiutato a ritrovare il corpo di Melania La Mantia, la giovane paracadutista morta a inizio anno, annegata nel lago Cà Bianca.

«Quando la vidi in un flash in fondo al lago fui attaccata da tutti. Ma io sono mamma, ho due gemelle delle sua età, potrei mai dire una cosa del genere se non fossi più che sicura delle mie visioni? Quando la cercavano nel lago e non la trovavano e mi dicevano: “Guarda che non c’è, non troviamo nemmeno il paracadute”, io rispondevo “Certo, perché è con lei!” E loro “impossibile”. Ma io insistevo. “È in acqua, ci passate sopra”. Infatti il fondale, che era come sabbia mobile, l’aveva risucchiata. Melania l’hanno ritrovata lì sotto, col suo paracadute».

Sostiene anche che Angela Celentano e Denise Pipitone siano vive.

«Sì, lo sono, sono state vendute. Di Denise si saprà e la mamma Piera Maggio avrà la sua soddisfazione, perché cuore di mamma non sbaglia. Angela sarà lei a mettersi in contatto con la famiglia. Perché la bambina ricorda, un giorno vedrà su internet qualcosa e tornerà da loro, da adulta. Ma la mamma di Denise fa bene a sperare, perché quando uno è morto lo dico, come ho fatto per Sarah, metto da parte l’emotività, non mi faccio frenare dal fatto che sono anch’io mamma. Poi magari dopo piango, ma lì per lì cerco di essere obiettiva. E comunque il settimo senso della Maggio sarà confermato».

In che senso?

«Piera maggio ha sviluppato il settimo senso, che è diverso dal mio dono. Sono quelli che hanno sogni premonitori o che sentono cose che poi si avverano. Che è diverso dall’essere sensitivi come me. Io ho i flash. So che Denise è stata venduta dalla sorellastra. Inizialmente, secondo me era in Italia, ora la sento in Francia o in Spagna. Solo che è cresciuta, è molto alta per la sua età, ha i capelli corti, è difficile riconoscerla per uno che ha in mente le sue foto da bambina. Ma è viva. C’entrano gli zingari, quelli ricchi, che hanno pagato profumatamente per comprarla».

Il suo potere, lo considera più un dono o una sventura?

«50 e 50. Pensi che mia mamma, che è scomparsa pochi anni fa, mi diceva: “Se potrò, da lassù ti aiuterò”. E credo lo abbia fatto, prima non riuscivo a vedere solo tramite le foto. Dovevo sentire la voce o toccare le persone. Dopo che è morta ce l’ho fatta. Ma la mia è una missione».

Ci spieghi meglio.

«Ci sono due Rosemary: una che lavora per vivere, infatti faccio le mie trasmissioni televisive, ho delle cartomanti selezionate. E poi c’è la Rosemary che si occupa, non per soldi, delle persone sparite nel nulla. Perché il mio obiettivo è aiutare gli scomparsi. Collaboro con le forze dell’ordine. Mi occupo degli scomparsi: ho tutti i loro volti appesi alle pareti, li guardo, ci parlo. Questa è la mia missione».

(Ieri sera Rosemary aveva scritto sulla sua bacheca: “Sta arrivando un terremoto lieve in Italia e uno forte all’estero”. Stamattina le agenzie hanno segnalato un sisma in Basilicata di magnitudo 3.4 e uno 5,4 a Giava)

Aggiornamento del 12 novembre 2010 ore 15 – In un flash del 17 ottobre alle ore 01.45 Rose scriveva: “UNO MORIRA’ PRESTO..DI LORO… DEI MISSERI… ” (Michele oggi ha avuto una crisi cardiaca)

·           Le figure accessorie e necessarie: consulenti mediatici ed  avvocati di ufficio.

La Strage di Erba, il delitto di Avetrana e gli altri casi di cronaca. Cosa accomuna i casi giudiziari forieri di dubbi sulla colpevolezza dei condannati?

La strategia difensiva. La presenza dei consulenti mediatici. La nomina di avvocati di ufficio. La loro sudditanza ai Pubblici Ministeri.

Picozzi, Meluzzi, Bruzzone. Le Iene. Due Pesi e due Misure. Perché le Iene per Olindo Romano e Rosa Bazzi credono nella manipolazione delle loro testimonianze e la stessa cosa non vale per Michele Misseri?

Da Le Iene del 23 febbraio 2019. Le Iene entrano in possesso di un documento inedito, dal contenuto clamoroso e che tutti hanno cercato e avrebbero voluto pubblicare in questi anni. È un video girato due mesi dopo la stage, in cui Olindo Romano racconta i particolari della strage al criminologo Massimo Picozzi, allora consulente del difensore d'ufficio. Il filmato, mai pubblicato prima d'ora e mai entrato a processo, aggiunge nuovi fondati dubbi sulla colpevolezza di Olindo Romano e Rosa Bazzi per la “Strage di Erba”. Il video viene girato circa un mese dopo che i due coniugi si autoaccusano del delitto, a un mese esatto dal massacro, avvenuto l'11 dicembre del 2006. Il contenuto delle confessioni è carico di incredibili inesattezze ed errori grossolani nella ricostruzione della dinamica. Rosa e Olindo sbagliano o non ricordano. Tra le altre cose: l’orario della strage; il fatto che non ci fosse illuminazione; l’ordine e la dinamica di aggressione delle vittime, in pratica chi avrebbe ucciso chi; le armi del delitto utilizzate; il loro abbigliamento; la loro via di fuga. Oggi Le Iene sono in grado di aggiungere un nuovo tassello nella ricostruzione degli eventi, questa volta con un nuovo e prezioso documento, fino ad oggi rimasto assolutamente inedito per la televisione. Olindo Romano ha accettato di rendere pubblico, esclusivamente attraverso il nostro programma, (vedi lettera di Olindo Romano in fondo all'articolo) i filmati realizzati due mesi dopo la strage dal criminologo Massimo Picozzi, che incaricato dal difensore d’ufficio Pietro Troiano, dovevano servire a dimostrare l’infermità mentale dei due coniugi e, pertanto, ottenere la loro non punibilità.

Il criminologo Picozzi “intervista” Rosa e Olindo nel corso di tre incontri ciascuno avvenuti tra febbraio e aprile 2007. Da questi incontri all'epoca viene fuori solo il più noto di questi filmati: quello dove Rosa Bazzi racconta, tra le lacrime, il movente e la dinamica dell’efferato pluriomicidio. Un filmato che non sarà considerato una prova valida dai Giudici, ma che comunque verrà proiettato in aula al processo e diffuso da ogni televisione, rafforzando in tutti la convinzione di avere di fronte una spietata assassina. Eppure anche in quel racconto, registrato diverse settimane dopo la confessione davanti ai pubblici ministeri, non mancano le enormi inesattezze e le assolute incongruenze. I contenuti del filmato inedito di Olindo Romano, sono ancora più clamorosi. Perché confrontati con il racconto di Rosa, ma soprattutto con la dinamica certificata dalle sentenze, rendono i dubbi sulla loro reale colpevolezza ancora più forti. Quello che all’epoca dei fatti era il difensore d’ufficio dei coniugi, l’avvocato Pietro Troiano, non sa che le prove in mano alla Procura sono meno solide di quello che sembra. La perizia del Ris di Parma che stabilisce con assoluta certezza che nessuna traccia di Rosa e Olindo è presente sulla scena del crimine e che nessuna traccia delle vittime è presente in casa dei due, verrà infatti depositata molto più avanti. Per questo motivo l’avvocato Troiano avrebbe deciso la strategia difensiva che puntava ad ottenere l’infermità mentale. Da qui il suggerimento, a Rosa e Olindo, di essere molto convincenti davanti all’obbiettivo della telecamera del criminologo Massimo Picozzi.

PICOZZI E RAMPONI. Da Le Iene il 30 aprile 2019. “Lui mi faceva le domande e mi spiegava quello che avevo da dire…mi spiegava “perché guarda Rosy, che vai contro o vai a fare, fai questo fai quello, devi dire così devi fare così, quando è il momento ti devi agitare, cioè muovi le braccia così, muovi le braccia così”. “Lui” è il criminologo Massimo Picozzi, all'epoca consulente della difesa, e la donna a cui avrebbe dato dei suggerimenti nel raccontare disperata i dettagli della strage di Erba, è proprio lei: Rosa Bazzi. Sarebbe la nuova tesi che la donna, condannata insieme al marito all’ergastolo per la strage dell’11 dicembre 2006 che costò la vita a 4 persone, 3 donne e un bambino, farebbe dal carcere di Bollate, dove è reclusa da 12 anni, nell’intervista esclusiva concessa a Le Iene, della quale vedrete un nuovo capitolo martedì a partire dalle 21.10 su Italia 1. Quel video ha un'importanza strategica sugli sviluppi della strage di Erba, perché finito nelle mani dei pm e poi di una trasmissione tv: nato come strumento voluto dalla difesa, una volta reso pubblico convinse tutta Italia che Rosa Bazzi fosse colpevole, molto tempo prima che fosse effettivamente condannata. Riguardo ai colloqui psichiatrici video registrati con Massimo Picozzi la detenuta racconta ad Antonino Monteleone particolari difficili da credere, perché se fossero veri, consentirebbero di vedere quel video sotto un’altra prospettiva. “Lui aveva spento la telecamera… mi aveva detto come muovere le mani come agitarmi, cioè… tutte queste cose. questo me l’aveva detto Picozzi”. E ci sarebbe un altro punto di questa vicenda che coinvolgerebbe ancora al consulente la difesa dei coniugi Romano, sempre riguardo a questi video- appunti per una perizia psichiatrica a Rosa e Olindo. Non solo il video in cui Rosa racconta la strage tra le lacrime finirà nelle mani della pubblica accusa, senza che venga depositata alcuna perizia psichiatrica, unica finalità per la quale erano stati realizzate quelle riprese. Ma buona parte dei contenuti del video di Rosa e anche di quello di Olindo, che non è mai stato depositato in Procura, sarebbero finiti non si sa come in un libro scritto dal giornalista Pino Corrias e pubblicato prima ancora che il processo a marito e moglie cominciasse. E questo denunciano i nuovi avvocati difensori di Rosa e Olindo, sarebbe una cosa molto grave. Chi fece vedere, abusivamente, i video al giornalista Corrias? Nel libro “Vicini da Morire”, oltre al contenuto trascritto di quei colloqui tra i detenuti e Massimo Picozzi, troviamo virgolettati attribuiti sia all’avvocato difensore Troiano, sia allo stesso consulente Picozzi, che compare anche tra i ringraziamenti dell’autore: loro, i componenti del collegio difensivo, erano gli unici che all'epoca sarebbero stati in possesso di quei video. E lo stesso Corrias, sentito in aula, ha raccontato: “ho visto un video, che è stato registrato in sede di perizia psichiatrica da Massimo Picozzi”. Quando però gli viene chiesto chi gli abbia mandato quei video e se fosse stato Picozzi, Corrias preferisce non rivelare la sua fonte. Antonino Monteleone decide allora di andare a sentire proprio il professor Picozzi per capire cosa ne pensa e qual è la sua versione dei fatti. “Professore una cosa molto importante, che quando Olindo e Rosa ritrattarono, lei consegnò tutto il materiale… ma in realtà il materiale presenta dei tagli, lei ha nella sua disponibilità il materiale?”, gli chiede la Iena. Ma Picozzi non ha intenzione di rispondere, neanche alla seconda domanda di Monteleone: “L’altra cosa che volevo chiederle è come mai Rosa chiede se era andata bene o era andata male in testa e in coda a dei tagli e delle dissolvenze che ci sono nel filmato…”. Niente, ancora nessuna risposta. E quando gli chiediamo come sia possibile che il giornalista e autore del libro Pino Corrias abbia visto il video di Olindo, tanto da contenerne alcuni estratti, Massimo Picozzi resta in silenzio, guardando fisso nel vuoto.

LETTERA DI EDOARDO MONTOLLI A DAGOSPIA il 30 aprile 2019. Caro Dago, in concomitanza con la nuova puntata de Le Iene di stasera sulla strage di Erba, Il Giorno riporta la clamorosa notizia che la Corte d’Assise di Como ha bocciato definitivamente le istanze di Olindo Romano e Rosa Bazzi di esaminare i reperti della strage mai analizzati, scrivendo testualmente, che la sentenza è «in applicazione dell’orientamento della Cassazione su ciò che attiene le attività di investigazione difensiva». Tutti i quotidiani e i tg, come quasi sempre capita in questa vicenda, si sono buttati a riprendere la news, talmente clamorosa e fresca che Oggi l’ha pubblicata tre settimane fa e Le Iene l’hanno contestualmente mandata in onda all’epoca. Anche se le cose non stanno esattamente come le raccontano in queste ore: la Corte d’Assise di Como, infatti, è tutt’altro che allineata con la Cassazione, che anzi aveva autorizzato gli esami. I giudici lariani scrivono però che il parere della Suprema Corte non è «vincolante per questo giudice dell’esecuzione, in quanto pronunciato in diverso procedimento definito dalla Corte d’Appello di Brescia». A Como, in sostanza, finchè non arriverà un parere delle Sezioni Unite, non vogliono saperne di autorizzare le analisi e quindi chiedono di distruggere anche ciò che in tribunale è stato dimenticato dall’incenerimento illecito della scorsa estate, quando la gran parte del materiale fu bruciato pure di fronte a due espressi divieti dei giudici e in attesa della decisione della Suprema Corte. A beneficio dei tuoi lettori, ti allego l’articolo di Oggi  di tre settimane fa e il documento in oggetto della Corte d’Assise, in modo che ognuno possa farsi un’opinione. Già che ci siamo, ti allego anche l’opposizione fatta a Como dalla difesa di Olindo e Rosa, che, come riporto domani su Oggi, ha chiesto stavolta un’udienza pubblica, cosicchè il cittadino constati di persona quanto sta accadendo. La difesa rileva nel provvedimento in parte una “nullità assoluta” e in parte “abnormità”, fermo restando che non si capisce perché siano stati confiscati e per la gran parte distrutti oggetti come pc, telefonini, indumenti che erano estranei al reato e che andavano restituiti ai legittimi proprietari o eredi quale che fosse il loro valore. Non a caso, nei processi sulla strage, non fu predisposta alcuna confisca. Questo, giusto per correttezza d’informazione. Non vorrei infatti che la vecchia notizia data da Il Giorno proprio stamane e fatta risaltare in maniera esorbitante da tutti i quotidiani e i tg, distraesse il pubblico dal lavoro d’inchiesta sul caso svolto dalle Iene e che stasera, come hai dato conto, andrà avanti, approfondendo la questione Rosa Bazzi-Massimo Picozzi. Perché purtroppo è molto facile distrarsi in una vicenda del genere, vuoi con una notizia vecchia, vuoi con un gossip. A proposito di tale argomento, debbo rilevare che nel frattempo si sono perse le tracce delle notizie sul falso amante di Rosa Bazzi, che, giornali e tg a parte, non è mai esistito, se non nel breve frangente temporale di un’altra puntata de Le Iene sulla strage. Cordialmente, Edoardo Montolli.

MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI. Confessione falsa estorta. Quando l’interrogato è costretto a confessare. Tecniche di interrogatorio consapevolmente torturanti. Manipolare, distorcere le parole, convincere che la confessione è una liberazione. Spingere un uomo a confessare il falso. Come estorcere una confessione.

HOW TO FORCE A CONFESSION: Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto.

MENTAL EXHAUSTION. La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza. La promessa di una via d’uscita.

THE PROMISE OF ESCAPE. Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia. Offrire una ricompensa.

OFFER A REWARD. Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo. Suggerire le parole per la confessione.

FORCING LANGUAGE

Video tratto da Bull. Stagione 1. Episodio 5: Vero o falso? Mandato in onda da Rai 2 Domenica 5 marzo 2017 ore 21,00. Bull e la sua squadra prendono le difese del giovane Richard Fleer che ha confessato di avere ucciso la sua ricca fidanzata, messo sotto pressione dall'interrogatorio della Polizia...

Yara Gambirasio e quelle confessioni mai rese. Rosa, Olindo, Sabrina Misseri e gli altri, scrive il 22/06/2014 L'Huffington Post. La storia di Yara ha diviso e scatenato le polemiche. Chi difende Massimo Giuseppe Bossetti e chi invece lo vede come il colpevole dell'omicidio della piccola. La sua confessione negata però non è la prima. La Stampa rivive tutti i casi di cronaca dove i colpevoli hanno negato sempre tutto. Nel reticolo di dolori che percorre l’indagine sulla fine di Yara lascia due gocce di stupore e di tenerezza la voce della madre di Giuseppe Bossetti, in carcere perché accusato dell’omicidio: «La scienza ha sbagliato». Difende il figlio, la famiglia di ieri e di oggi, il proprio passato e il proprio onore. L’ostinato negare è una costante del processo, per innocenza o per fede nell’effetto del dubbio, per un attimo d’ombra della mente o per vergogna sociale.

Rosa e Olindo Romano: all'inizio avevano confessato, poi ritrattato parlando di "lavaggio del cervello". Non è bastato. Sono stati condannati all'ergastolo nel 2011.

Anna Maria Franzoni: Ha sempre negato, in tribunale come in Tv, rifiutando l'ipotesi della rimozione mentale. Condannata a 16 anni per aver ucciso il figlio Samuele.

Paolo Stroppiana: ha sempre negato, ma le sue menzogne lo hanno alla fine condannato: sta scontando 14 anni per la morte di Marina di Modica.

Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro: omicidio colposo 6 anni e favoreggiamento (2 anni) per l'omcidio di Marta Russo. Teorizzavano il delitto perfetto.

Sabrina Misseri: Tutti la ricordano sempre in TY per la scomparsa della cugina Sarah Scazzi. Poi la condanna senza confessione.

Consulenti, dopo Bruzzone arrivano Meluzzi e Picozzi, scrive il 17 novembre 2010 La Repubblica. Criminologi e psichiatri della tv irrompono in truppa nel caso Sarah Scazzi. Pronti a sfidarsi a colpi di perizie per decifrare le pieghe del delitto. Questa volta sono i legali della famiglia Scazzi a calare gli assi della tv. Come consulenti di parte, infatti, sono stati nominati Massimo Picozzi e Alessandro Meluzzi, volti noti del piccolo schermo oltre che professionisti dall' impressionante curriculum. Il criminologo Picozzi sarà già in aula venerdì per prendere parte all' incidente probatorio in cui Michele Misseri dovrà dire la sua definitiva verità sull' omicidio di Sarah. La deposizione di zio Michele sarà raccolta nella cappella del carcere di Taranto in cui è rinchiuso. Misseri parlerà sotto gli occhi di Sabrina, la figlia che ha incastrato, bollandola come assassina. Ma a scrutarlo ci sarà anche Massimo Picozzi che siederà al fianco degli avvocati di parte civile Walter Biscotti e Nicodemo Gentile. Tra i banchi della difesa prenderà posto, invece, la criminologa Roberta Bruzzone, volto abitualmente accomodato sulle poltrone di Porta a Porta. Proprio lei ha fatto da apripista alla carica degli esperti della tv. Il legale di Misseri l'ha scelta come consulente. Venerdì scorso c'era anche lei in carcere, quando zio Michele ha deciso di vuotare il sacco, inchiodando Sabrinae sfilandosi di dosso i panni di assassino. La sua presenza nei delicati frangenti in cui l'inchiesta virava per l'ennesima volta, è stata ferocemente contestata dalla difesa al Riesame. Eccezioni procedurali, ovviamente, e che poi si tratti anche di un volto della tv è accessorio, anche se ormai è pacifico che le telecamere si siano conquistate da tempo un posto in prima fila nella tragica vicenda di Avetrana. E in questo tourbillon che ha trasformato l'omicidio di una ragazzina in un permanente horror show, vittime e colpevoli fanno la loro parte. Aveva cominciato Sabrina. Davanti a obiettivi e microfoni aveva versato lacrime su quella cugina scomparsa. Per oltre 42 giorni era stata protagonista. La sua breve carriera televisiva è finita dietro le sbarre. E la sua ultima immagine immortalata dalle telecamere è quella di una donna che nasconde il volto mentre viene condotta all'interrogatorio decisivo per il suo arresto. Ora è il turno di Claudio, il fratello di Sarah. Vuole fare strada in tv. Si sente portato e per questo ha contattato Lele Mora, ottenendo un secco rifiuto. "Gli ho chiesto se avesse in mente qualcosa per me. Non mi dispiacerebbe la televisione. Mi ha detto che non vado bene, non sono fatto per la tv» - ha rivelato Claudio Scazzi al settimanale Oggi. Lui, però, non si è perso d' animo e ha bussato alle porte di altre agenzie di spettacolo. In serata ha diffuso una nota in cui smentisce tutto. Senza parole.

Roberta Bruzzone, la criminologa da fiction che difende Misseri, scrive Benedetta Sangirardi Sabato 13 novembre 2010 su affaritaliani.it. Una criminologa da fiction. Trentasette anni, bionda, alta, bella. Chi l'ha vista circolare tra Taranto e Avetrana, da quando è consulente della difesa di Michele Misseri assicura: "E' rifatta, dalla testa ai piedi. Le labbra sicuramente". Chrurgia o no, Roberta Bruzzone non è passata inosservata tra i protagonisti del delitto di Avetrana. Anche perché, appena un mese fa, in un'intervista a La 7, parlando dell'arresto dello zio di Sarah, aveva detto: "E' un pedofilo assassino", salvo poi entrare a far parte della sua difesa qualche giorno dopo. E aveva continuato: "Questo tipo di soggetti difficilmente hanno ingresso a quell'età nella vita criminale. C'è da indagare in modo più approfondito nella vita di questa persona e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti". Psicologa (iscritta all’albo degli psicologi della Liguria) e Criminologa, Perfezionata in Psicologia e Psicopatologia Forense, Perfezionata in Scienze Forensi, esperta in Psicologia Investigativa, Analisi della scena del crimine, Criminalistica e Criminal Profiling. Il curriculum ce l'ha, e non solo per quel che riguarda lo studio e la carriera. Internet è tappezzato di sue immagini modello book fotografico, in cui sembra più un'attrice del telefilm "Ris - Delitti imperfetti" che una criminologa con tanto di esperienza sul campo. E già, perchè nessuno se la ricorda, ma la Bruzzone ha fatto anche parte della difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi, nella strage di Erba. La sua formazione viene dagli Usa. Ha conseguito in USA il titolo di E.C.S. - Evidence Collector Specialist (esperto di ricerca e repertamento tracce sulla scena del crimine certificato dall'American Institute of Applied Sciences) con gli standards statunitensi della Sirchie Fingerprint Laboratories. E’ esperta - si legge nel suo curriculum - di tecniche di analisi, valutazione e diagnosi di abuso nei confronti di minori e nell’ambito della violenza sulle donne. Aiuta anche le donne e le vittime di violenza. E' consulente tecnico di Telefono Rosa nell’ambito di casi di violenza domestica, violenza sessuale, di stalking e di omicidio. Ha maturato numerose esperienze formative in Italia e all’estero, tra cui un periodo di training in USA presso l’University of California nella sede di San Francisco. E' membro del comitato scientifico della Polizia Postale e delle Comunicazioni. Svolge attività di docenza in vari corsi di perfezionamento e master universitari di numerose Università italiane. Ma non è tutto. La bionda acclamata da diversi blog per la sua bellezza è anche docente universitario, Presidente dell'Accademia Internazionale di Scienze Forensi, membro dell'International Association of Crime Analysts, Direttore Scientifico de “La Caramella buona Onlus” (associazione di volontariato contro la pedocriminalità). E poi è conduttrice tv, la sua, forse, vera inclinazione. Autrice e conduttrice del Programma TV "La scena del crimine" su un'emittente locale romana e del programma "Donne mortali" su Sky. Insomma, la signora Bruzzone sa il fatto suo. Ed è entrata a gamba tesa nel delitto forse più seguito di tutti i tempi, togliendo spazio ai legali vari, da Vito Russo a Daniele Galoppa. D'altra parte lei non si concede troppo alle tv, come invece fanno gli avvocati e tutti gli altri protagonisti di questa vicenda. Lei resta in disparte, parla quando lo ritiene necessario, mostra la sua bellezza anche un po' provocante. E difende Michele Misseri, assicurando che è una persona dolce "che ha molto a cuore sua figlia Sabrina". Anche se fino a un mese fa era uno sporco pedofilo.

La criminologa e psicologa forense Roberta Bruzzone inizialmente fu consulente della difesa di Michele Misseri, poi lasciò l’incarico per divergenze con la linea difensiva. L’uomo si autoaccusò dell'omicidio della piccola Sarah Scazzi e accusò la criminologa e il suo primo avvocato, Daniele Galoppa, di averlo indotto a incolpare la figlia Sabrina del delitto, motivo per cui la Bruzzone accusò di calunnia Misseri.

Strage di Erba, video inedito di Rosa Bazzi. Confessione è una messinscena? (Le Iene 26 febbraio 2019).

Antonino Monteleone: «Eppure quel video di Rosa, a cui non crede nemmeno suo marito, è girato per far ottenere ad entrambi l’infermità mentale, finì in mano ai Pubblici Ministeri e convinse tutta Italia della loro colpevolezza».

Avv. Fabio Schembri, il nuovo difensore di Rosa ed Olindo: «Che sia finito nel fascicolo del Pubblico Ministero prima di un processo, un colloquio psichiatrico, mi sembra che non è un fatto scorretto, è un fatto incredibile. Diciamola così. Cioè…»

Antonino Monteleone: «Lei dice che è un fatto grave…»

Avv. Fabio Schembri «Ho appreso che è stato detto che quel video sarebbe finito nel fascicolo del Pubblico Ministero perché c’era la denuncia da parte di Rosa di uno stupro. D’accordo? Bene. La denucnoia di stupro si può fare senza video. Uno denuncia uno stupro, poi si fa sentire, se si vuol far sentire, appunto dai pubblici ministeri. Io non so per quale motivo si sia fatta questa scelta».

Antonino Monteleone «Che bisogno c’era di depositare quel video di Rosa. Non sarebbe bastato presentare una denuncia per stupro? Perché il difensore d’ufficio, Pietro Troiano fece quella scelta che poi si sarebbe rivelata davvero disastrosa?»

Roberta Bruzzone: "Io, il crimine e la Tv". La psicologa forense: "Al male non ci si abitua mai. Ballando? Una boccata d'ossigeno". Luca La Mantia, In Terris 5 maggio 2019. "Considero questa professione, per certi versi, una vera e propria missione che lascia solo briciole alla vita 'fuori dal campo di battaglia'. Anche perché il mio lavoro di certo non facilita lo sviluppo di fiducia nei confronti del genere umano...". Roberta Bruzzone il male lo conosce bene. Nella sua attività di criminologa investigativa e psicologa forense si è occupata di casi complessi, spinosi. Due su tutti: la strage di Erba e il delitto di Avetrana. Storie nere, come il colore che la vediamo spesso indossare nelle ospitate televisive o che ha scelto per lo sfondo del suo sito personale. Ma quale vocazione porta a scegliere un mestiere che ti fa entrare nei meandri più oscuri della psiche umana? Come si affrontano tensioni e scene raccapriccianti? Lo ha raccontato a In Terris.  

Come ha scoperto la passione per la psicologia? C'è sempre stata o si è trattato di un incontro casuale?

"La scelta è avvenuta in maniera molto naturale perché rappresentava la sintesi perfetta dei miei interessi sin da bambina. Ero infatti attratta da eventi e situazioni che meritavano un spiegazione e quindi ero molto curiosa e determinata soprattutto quando si trattava di fare luce su situazioni poco chiare o, addirittura, misteriose. Ho semplicemente assecondato una predisposizione naturale in me e, un passo dopo l'altro, ho compreso che la psicologia, la criminologia e le scienze forensi sarebbero diventati i pilastri della mia vita professionale. Lo studio e l'impegno hanno fatto il resto. Del resto l'unico modo di raggiungere un obiettivo nella vita è avercelo chiaro".

Serie tv come 'Lie to me' stanno portando alla ribalta il ruolo dello psicologo e del criminologo in ambito giudiziario. Le capita mai di confrontarsi con la pretesa di risposte immediate, frutto di una certa cultura massmediatica? 

"Si, purtroppo molto spesso c'è un'aspettativa quasi 'magica' di avere risposte o soluzioni rapidissime ma questo genere di lavoro, soprattutto quello che riguarda l'analisi della scena del crimine e dei vari reperti impone tempi che certo non hanno nulla a che fare con quelli mostrati nelle serie televisive di grande successo. Occorrono tempo, occorre calma e precisione. Per far bene questo lavoro, vista la posta in gioco, serve pazienza, da parte dei committenti e dell'opinione pubblica". 

Lei deve spesso confrontarsi con delitti efferati, frutto di menti deliranti. Riesce sempre a mantenere un certo distacco professionale o qualcosa, in termini di emozioni negative, finisce per portarselo a casa?

"Non ci si abitua mai a confrontarsi con il peggio del peggio che gli esseri umani sono in grado di fare ai loro simili, per questo occorre attrezzarsi emotivamente per evitare di essere fagocitati da tali atrocità. E' molto difficile staccare la spina fino in fondo rispetto ai vari casi di cui mi occupo. Dopo ormai 20 di attività ho però imparato a convivere con questo genere di complessità".

Da tempo frequenta i più importanti talk show televisivi. Come si raccontano le dinamiche complesse di cui si occupa al grande pubblico? 

"Bisogna farlo con onestà intellettuale e rappresentare tutte le informazioni disponibili. Purtroppo non tutti i talk show dedicati ai fatti di cronaca nera sono all'altezza di un compito così delicato e complesso. E i risultati si vedono, anche in termini di ascolti. Il pubblico vuole interlocutori credibili e affidabili, altrimenti cambia canale". 

Lei ha partecipato, in qualità di consulente tecnico di parte, al processo sul delitto di Avetrana. Si è trattato di un caso di cronaca nera che ha fatto emergere in modo prepotente il lato oscuro di una parte della provincia italiana, fatto di maldicenze, invidie, gelosie e lancinanti divisioni familiari. Che clima c'era in aula?

"Le indagini, prima, e il processo, poi, sono stati durissimi, senza esclusione di colpi come si suol dire in questi casi. Omertà e menzogne di ogni genere l'hanno fatta da padrone e ci hanno reso la vita davvero difficile ma non ci hanno impedito di ottenere verità e giustizia per la piccola Sarah (Scazzi ndr)".

Il racconto mediatico di quella vicenda è stato oggetto di critiche e di severi interventi da parte di Agcom e Ordine dei giornalisti. Ora che conosce bene il mondo della televisione si sarà fatta un'idea se siano stati commessi errori o meno...

"Non è a me che deve fare questa domanda. Io ho fatto il mio lavoro e piuttosto bene direi...viste le condanne". 

Una criminologa come arriva a "Ballando con le stelle" e, soprattutto, cosa fa?

"Mi proposero di partecipare come concorrente ma rifiutai per tutta una serie di ragioni. Poi Milly Carlucci mi propose il ruolo di profiler per valutare la performance dei vari concorrenti, come si rapportavano alla gara e come gestivano lo stress che il programma genera a profusione. 'Ballando' è un programma costruito per 'svelare' gli aspetti più interessanti e controversi della personalità dei vari concorrenti, quindi la cosa mi ha subito catturato ragion per cui ho accettato l'offerta. Ed eccomi qui alla terza mia edizione che è stata premiata da ascolti stellari".

Si tratta di un'esperienza che, in un certo senso, alleggerisce il carico di tensioni proprie del suo lavoro?

"E' la mia boccata di ossigeno. Un po' di sano divertimento non guasta nemmeno per una criminologa dalla scorza dura come me".

La criminologa Bruzzone: “Da bambina smembravo bambole e ho tentato di annegare i miei fratellini”. La criminologa più famosa della tv si racconta, scrive la Redazione TPI il 22 Gennaio 2019. In televisione l’abbiamo vista spesso commentare i grandi fatti di cronaca che hanno segnato il paese, ma lei, Roberta Bruzzone, la criminologa più famosa della tv, ha un lato oscuro che non aveva mai mostrato. Ospite di Caterina Balivo, la famosa esperta di delitti imperfetti ha lasciato a bocca aperta il pubblico con aneddoti di quando era bambini. La Bruzzone ha confessato che da piccola aveva una strana propensione per il macabro: “Da bambina mi piaceva sperimentare tecniche di smembramento e decapitazione con le bambole”. Ma non è finita qui: sulla poltrona candida dello studio della Balivo, la criminologa ha confessato (è proprio il caso di dirlo) di aver tentato di uccidere i suoi fratelli, quando era bambina: “Tentai di annegarli nella vasca da bagno”. Ma per fortuna intervenne la nonna: “Mi fermò giusto in tempo. Non ero imputabile, avevo solo tre anni e mezzo. Li picchiavo, ma ero molto piccola. Io la classica bambina femminuccia tranquilla? No, non su questo pianeta.”, precisa la criminologa. Dai suoi racconti si evince che Roberta Bruzzone deve essere stata una bambina particolare. Anche a scuola, fin da piccolissima, le cose non andavano meglio che a casa: “Sono addirittura stata cacciata dalla scuola materna delle suore. Le suore raccomandarono a mia madre di non portarmi più in quella scuola”, spiega l’esperta di nera. Al di là della sua infanzia, la criminologa ha parlato anche dell’ammirazione nei confronti di Bruno Vespa: “È una persona a cui voglio molto bene, se mi chiedesse di seppellire un cadavere gli darei una mano”, dice sorridendo. Roberta Bruzzone, classe 1973, è diventata famosa all’indomani del delitto di Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010, quando rivestì il ruolo di consulente di Michele Misseri, inizialmente indicato come assassino della nipote.

·           Il Fioraio condannato.

CONFERMATA LA CONDANNA DEL FIORAIO DI AVETRANA. La Corte d'Appello di Lecce ha emesso la Sentenza, scrive Carmela Linda Petraschi su iltarantino.it il 26 Gennaio 2019. E’ stato condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione Giovanni Buccolieri, accusato di aver mentito a investigatori e magistrati. L’uomo aveva raccontato di aver assistito al sequestro di Sarah Scazzi, la studentessa 15enne uccisa dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima, condannate all’ergastolo in via definitiva. Buccolieri aveva descritto con dovizia di particolari ciò che aveva visto il 26 agosto del 2010, ma poi aveva ritrattato, asserendo che si era trattato solo di un sogno. Aveva raccontato di aver visto Sarah triste camminare per strada e poi giungere una Opel Astra con a bordo Cosima Serrano che scesa, aveva sgridato in malo modo Sarah e l’aveva costretta a salire in macchina, strattonandola. Nel sedile posteriore vi era seduta una figura femminile seminascosta. Il Giudice monocratico, Elvia Di Roma ha condannato a due anni, in primo grado, oltre al testimone chiave anche un altro imputato, Michele Galasso amico di Buccolieri, con il quale avrebbe concordato al telefono la versione del sogno da raccontare agli investigatori. Galasso non ha impugnato la sentenza che è divenuta definitiva. Che non si è trattato di un sogno è scritto anche nelle sentenze di 1° e 2° grado. Buccolieri al processo ha preferito tacere. Il suo avvocato, Lello Lisco ha affermato che il suo cliente era rimasto suggestionato dall’attenzione mediatica del caso.

·           Parroco “tassista” inquisito per prostituzione.

Taranto, parroco “tassista” inquisito in vasto giro di prostituzione. Nelle intercettazioni risulterebbe evidente il ruolo svolto da padre Calabrese, il quale aveva un rapporto diretto sia con le giovani prostitute che con la “maitresse” che si occupava della loro gestione, scrive Federico Garau, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale".  Gravissime accuse nei confronti di padre Saverio Calabrese, sacerdote della parrocchia di Monteparano (Taranto). L’uomo risulta coinvolto in un’inchiesta nella quale gli inquirenti tentano di far luce su un vasto e ben organizzato giro di prostituzione che vede come protagoniste alcune ragazze originarie dell’est Europa. Le indagini hanno portato all’incriminazione di diversi connazionali delle giovani, che si occupavano della gestione degli affari, ma anche di alcuni italiani che avrebbero dato il loro appoggio in cambio di denaro. Questi ultimi, tra cui lo stesso padre Calabrese, avevano il compito di condurre le giovani nei luoghi in cui si prostituivano e di occuparsi delle loro necessità primarie. Il parroco di Monteparano, già conosciuto per aver ricevuto la confessione in carcere di Michele Misseri in merito al delitto di Avetrana, si trova ora agli arresti domiciliari per il reato di favoreggiamento alla prostituzione. Come riportato dal quotidiano “Libero”, la posizione di padre Calabrese, soprannominato “il tassista”, è ben nota al tribunale di Taranto. Il parroco, come si legge nell’ordinanza emessa dal giudice, “frequentemente accompagnava (le ragazze) sul luogo del meretricio fornendo assistenza, anche portando ivi cibo”. Innegabile, per gli inquirenti, il filo diretto mantenuto fra lui e la “maitresse” delle giovani prostitute. A dar conferma in tal senso le intercettazioni telefoniche effettuate nei confronti di Nadia Radu, in arte “Smeranda”, 31enne romena considerata un fondamentale punto di riferimento per l’organizzazione criminale. “Non me la sento ancora di uscire cucciolotta, ma se avete bisogno domattina poi esco, non c' è problema”. Queste le parole riferite alla donna da padre Calabrese nell’ottobre del 2017, che inchioderebbero il religioso alle sue responsabilità di “tassista”. In attesa del processo, il parroco è stato sospeso dai suoi incarichi pastorali. Al momento risultano 12 indagati, tra stranieri ed italiani, che sono inquisiti per i reati di associazione a delinquere, sfruttamento, agevolazione e favoreggiamento della prostituzione ed infine estorsione. 

·           Giornalista calabrese non rivelò fonte: Assolto dal tribunale di Taranto.

Giornalista calabrese non rivelò fonte: Assolto dal tribunale di Taranto. Calabria News 25 Maggio 2019. Il giudice della I Sezione Penale del Tribunale di Taranto, Chiara Panico, ha assolto “perché il fatto non sussiste” il giornalista calabrese Filippo Marra Cutrupi, 49 anni, dal reato di falsa testimonianza avendo opposto il segreto professionale alla richiesta di rivelare la fonte di una notizia pubblicata dall’agenzia di stampa per la quale lavorava. Filippo Marra Cutrupi, difeso dall’avvocato Gianluca Pierotti, aveva seguito per la sua testata tutta la vicenda dell’omicidio di Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa il 26 agosto 2010 ad Avetrana in Puglia, e, tra le altre notizie, aveva pubblicato quella relativa alla richiesta di una rogatoria internazionale avanzata dalla Procura di Taranto all’autorità giudiziaria tedesca per l’audizione di una persona che la Procura riteneva “informata dei fatti”. La notizia, peraltro, era stata pubblicata già da vari giornali locali e da altre testate. Interrogato su quella che la Procura di Taranto riteneva una “fuga di notizie” e richiesto di rivelare la fonte, il giornalista aveva opposto il diritto/dovere professionale di non rivelare la fonte stessa. Al fianco del giornalista si erano schierati il segretario generale aggiunto della Fnsi, Carlo Parisi, segretario del Sindacato Giornalisti della Calabria, e il presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Calabria, Giuseppe Soluri, ricordando che “il segreto professionale dei giornalisti è finalizzato a garantire i canali informativi del professionista al fine di portare vantaggio alla libertà e alla completezza della informazione”. Il segreto giornalistico non è, dunque, un privilegio della categoria, ma uno strumento di tutela delle libertà democratiche e dei diritti individuali del cittadino. Non a caso il segreto giornalistico è salvaguardato da varie disposizioni di legge. Nel processo penale, in particolare, è richiamato dagli articoli 200, 256 e 362 del codice di procedura penale. E la giurisprudenza ormai consolidata ribadisce che se il giornalista oppone il segreto professionale rispetto ad informazioni che possono condurre alla identificazione della fonte della notizia non commette il reato di false dichiarazioni. Considerazioni ribadite da una sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta anche in relazione ad una vicenda che ha riguardato un giornalista pubblicista e non professionista. Il procedimento a carico di Filippo Marra Cutrupi si è, dunque, concluso con la piena assoluzione del giornalista e, soprattutto, con la conferma – qualora ve ne fosse bisogno – che il segreto professionale è una garanzia per la libertà di stampa. “Finalmente – afferma Filippo Marra Cutrupi – si chiude un incubo giudiziario e per questo voglio ringraziare il segretario generale aggiunto della Fnsi, Carlo Parisi, con il Sindacato Giornalisti della Calabria, il presidente dell’Ordine dei giornalisti della Calabria, Giuseppe Soluri, l’avvocato Gianluca Pierotti del Foro di Taranto per avermi difeso e quanti mi sono stati vicini in questa vicenda”.

Carmine Misseri lascia il carcere. Semilibertà, per lavorare in una cava a Manduria. La Voce di Manduria sabato 29 febbraio 2020. Dopo tre anni di reclusione con l’accusa di aver occultato il cadavere di Sarah Scazzi in concorso con il fratello Michele, il manduriano Carmine Misseri lascerà il carcere per lavorare in una cava qui a Manduria. Il 63enne che è difeso dall’avvocato Lorenzo Bullo, tornerà in cella solo per dormire. Già beneficiario di due permessi brevi, il contadino di Manduria durante la detenzione ha mostrato una esemplare condotta in carcere dove ha conseguito la licenza elementare e dove frequenta il corso per la terza media. Nel penitenziario di Lecce conduce dei lavori ed ha avuto buoni rapporti con tutti ottenendo per questo un encomio dalla direzione carceraria. Inoltre ha già scontato più delle metà della pena dovendo lasciare definitivamente il carcere nell’estate del prossimo anno. Nonostante tutto questo, il Tribunale di sorveglianza di Lecce che ha emesso l’ordinanza, non ha accolto la richiesta della difesa che puntava sull’affidamento in prova ai servizi sociali o ai domiciliari, possibilità accordata anche dalla procura generale. Per i giudici di sorveglianza, invece, Misseri non è meritevole di tali benefici per il grave rato commesso e soprattutto perché non emergerebbe da parte sua alcun atto di «revisione critica». Il sessantatreenne, infatti, continua ad escludere di avere colpe attribuendo ogni responsabilità al fratello Michele non solo per il fatto commesso, ma anche per averlo coinvolto senza alcun motivo. Parzialmente soddisfatto il suo difensore. L’avvocato Bullo ha già annunciato un ricorso per Cassazione contro l’ordinanza del tribunale di Lecce. Il penalista si appellerà al principio, già sancito dalla Corte suprema, secondo cui «per la concessione di una misura alternativa alla detenzione non è necessaria la confessione, avendo il condannato il diritto di non ammettere le proprie responsabilità». Misseri, insiste il suo avvocato, «ha sempre dimostrato rammarico e sofferenza per la sorte della piccola Sarah Scazzi che neppure conosceva e inoltre prova profondo risentimento nei confronti del fratello e non riesce a comprendere la ragione per la quale lo ha coinvolto in questa vicenda». Contemporaneamente alla preparazione del ricorso in Cassazione, l’avvocato Bullo presenterà istanza per consentire al suo assistito il pernottamento nel carcere di Taranto e non in quello di Lecce dove è rinchiuso. Questo gli eviterà anche di incontrare suo fratello Michele che nello stesso penitenziario sta scontando la pena ad otto anni per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove (il furto del telefonino di Sarah).

Caso Scazzi: 11 condanne per false dichiarazioni agli inquirenti: 4 anni a Michele Misseri, 5 anni a Ivano Russo. Il Corriere del Giorno il 21 Gennaio 2020. 4 anni di reclusione sono stati inflitti dalla dottoressa Loredana Galasso giudice monocratico del Tribunale di Taranto allo zio di Sarah Michele Misseri, già condannato nel processo “madre” in via definitiva a 8 anni di carcere per soppressione di cadavere, il quale rispondeva di autocalunnia essendosi autoaccusato dell’omicidio di Sarah Scazzi. La dottoressa Loredana Galasso giudice monocratico del Tribunale di Taranto  ha emesso una sentenza di condanna di primo grado nei confronti di 11 imputati nel processo bis per i depistaggi sull’inchiesta per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto del 2010. Un delitto questo per il quale stanno scontando l’ergastolo Cosima Serrano e Sabrina Misseri, rispettivamente la  zia e la cugina di Sarah Scazzi,   oltre alla condanna ad  1 anno e mezzo subita due mesi fa per aver diffamato il suo ex avvocato Daniele Galoppa e la nota criminologa Roberta Bruzzone. Accolte pressochè integralmente le richieste di condanne della pubblica accusa, rappresentata dal pm Mariano Buccoliero della Procura di Taranto, che aveva richiesto 12 condanne. Assolta soltanto  Antonietta Genovino l’ex fidanzata di Claudio Russo. 4 anni di reclusione sono stati inflitti allo zio di Sarah Michele Misseri, già condannato nel processo “madre” in via definitiva a 8 anni di carcere per soppressione di cadavere, il quale rispondeva di autocalunnia essendosi autoaccusato dell’omicidio di Sarah Scazzi. E’ questa la terza condanna per  Michele Misseri presente in aula al momento della lettura della sentenza, dopo quella definitiva della Corte di Cassazione a 8 anni , per l’accusa di aver gettato in fondo a un pozzo di contrada Mosca il corpo senza vita della nipotina. Ivano Russo il giovane di Avetrana che sarebbe stato conteso da Sarah Scazzi e sua cugina Sabrina Misseri (condannata con sentenza passata in giudicato all’ergastolo per l’omicidio con sua madre Cosima Serrano) , è stato condannato a 5 anni di reclusione, accusato di aver reso false dichiarazioni al Pubblico Ministero e per falsa testimonianza alla Corte d’Assise. Queste le altre condanne emesse dal giudice Galasso : 3 anni e 6 mesi di reclusione comminati a Dora Serrano che rispondeva del reato di calunnia nei confronti dei Carabinieri in quanto, secondo l’accusa, si sarebbe inventata le molestie subite da Michele Misseri quando era minorenne,  la stessa pena per  Giuseppe Serrano per calunnia contro i Carabinieri,  e nei confronti dei fratelli di Concetta e Cosima (rispettivamente la madre e la  zia di Sarah Scazzi);  3 anni e 2 mesi invece per Giuseppe Augusto Olivieri; 3 anni di reclusione per falsa testimonianza ad Alessio Pisello  amico di Ivano e Sabrina , Anna Scredo la cognata del fioraio Giovanni Buccolieri, l’ autore del “sogno” sul sequestro di Sarah,  Maurizio Misseri   nipote di Michele Misseri e per sua madre Anna Lucia Pichierri, e per Elena Baldari ;   2 anni e mezzo a Claudio Russo, fratello di Ivano Russo.

Sarah Scazzi, 11 condanne per aver mentito agli investigatori: 4 anni a Michele Misseri, 5 anni a Ivano Russo. La decisione del tribunale di Taranto nel processo bis sui depistaggi nell'inchiesta per l'omicidio della 15enne di Avetrana, uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010. La Repubblica il 21 gennaio 2020. Il giudice monocratico del Tribunale di Taranto Loredana Galasso ha condannato 11 imputati nel processo bis per depistaggi legato all'inchiesta sull'omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto del 2010. Sono stati inflitti 4 anni di reclusione a Michele Misseri (lo zio di Sarah, condannato nel processo principale in via definitiva a 8 anni di carcere per soppressione di cadavere) che rispondeva di autocalunnia perché si autoaccusò dell'omicidio di Sarah. La pena più alta - 5 anni di reclusione - è stata comminata, per le ipotesi di false informazioni al pm e falsa testimonianza alla Corte d'Assise, a Ivano Russo, il giovane di Avetrana che sarebbe stato conteso da Sabrina Misseri (condannata con sentenza passata in giudicato all'ergastolo per l'omicidio con sua madre Cosima Serrano) e la cugina Sarah. Queste le altre condanne: tre anni e sei mesi di reclusione a Dora Serrano (rispondeva di calunnia contro i carabinieri in quanto, secondo l'accusa, si sarebbe inventata le molestie subite da Michele Misseri quando era minorenne) e Giuseppe Serrano (anche calunnia contro i carabinieri), fratelli di Concetta e Cosima (mamma e zia di Sarah); tre anni di reclusione per falsa testimonianza ad Alessio Pisello (amico di Ivano e Sabrina), Anna Scredo (cognata del fioraio Giovanni Buccolieri, autore del 'sogno' sul sequestro di Sarah) Maurizio Misseri (un nipote di Michele) e sua madre Anna Lucia Pichierri; tre anni e due mesi invece per Giuseppe Augusto Olivieri; 3 anni a Elena Baldari e 2 anni e mezzo a Claudio Russo, la mamma e il fratello di Ivano Russo. Assolta, invece, l'ex fidanzata di Russo, Antonietta Genovino.

Depistaggi e bugie, 4 anni a zio Michele e 5 a Ivano. Concluso il processo sui silenzi e le falsità sull'uccisione nel 2010 della giovane Sarah Scazzi. Il Giornale il 22/01/2020. Un intreccio di bugie, calunnie, accuse lanciate e poi ritirate. A quasi dieci anni di distanza dal delitto della giovanissima Sarah Scazzi arriva un lungo elenco di condanne per tutti coloro che tentarono di confondere le acque durante le indagini. Il giudice monocratico del Tribunale di Taranto, Loredana Galasso, ha finalmente chiuso il processo-bis sui falsi testimoni dell'omicidio della studentessa 15enne, strangolata ad Avetrana il 26 agosto del 2010. Su 12 imputati sono arrivate 11 condanne. Accolte quindi in gran parte le richieste della pubblica accusa, rappresentata dal pm Mariano Buccoliero. Per l'assassinio erano già state condannate all'ergastolo in via definitiva Cosima Serrano e Sabrina Misseri, rispettivamente zia e cugina di Sarah. Le pene più alte sono andate a Ivano Russo e Michele Misseri, condannati rispettivamente a 5 e 4 anni di reclusione. Ivano Russo ritenuto «il pomo della discordia» nella contesa tra Sabrina Misseri e Sarah Scazzi, avrebbe mentito sugli avvenimenti del giorno del delitto, il 26 agosto 2010. Accuse sostenute tra l'altro dalla sua ex fidanzata, Antonietta Genovino unica assolta, che aveva negato che Ivano fosse a casa nelle ore durante le quali Sarah fu uccisa. Per i giudici, la morte di Sarah Scazzi sarebbe da ricondurre proprio alla rivalità che intercorreva tra la 15enne e la cugina attorno alla figura di Ivano. A quel tempo infatti le due cugine frequentavano la stessa comitiva in cui vi era anche il ragazzo. Più lievi le pene per tutti gli altri imputati ovvero la madre di Ivano, Elena Baldari, il fratello Claudio e un amico di famiglia, Alessio Pisello. Condannati anche Dora Serrano, sorella di Cosima (ma anche di Concetta, la madre di Sarah), il fratello Giuseppe Serrano, Maurizio Misseri, nipote di Michele, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, Anna Scredo, la cognata del fioraio Giovanni Buccolieri, e Giuseppe Augusto Olivieri. Tutti accusati di falsa testimonianza perché avevano sostenuto che Ivano il giorno dell'omicidio era rimasto a casa tutto il giorno. Nel processo principale era stato invece prosciolto dall'accusa di omicidio Michele Misseri, marito e padre delle due condannate. L'uomo si era autoaccusato ma gli inquirenti non avevano mai creduto alla sua versione ritenendolo responsabile solo dell'occultamento del corpo di Sarah, fatto sparire nel pozzo di un fondo agricolo di Avetrana. L'uomo è stato condannato a 8 anni.

Caso Scazzi, 11 condanne per le bugie al processo: 5 anni a Ivano Russo, 4 anni a Michele Misseri. La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Gennaio 2020. Bugie, false testimonianze, autocalunnie: il giudice monocratico del Tribunale di Taranto Loredana Galasso ha messo la parola fine al processo-bis sui falsi testimoni dell’omicidio di Sarah Scazzi, la studentessa 15enne strangolata ad Avetrana il 26 agosto del 2010 condannando 11 dei 12 imputati e assolvendo una sola persona. Accolto quasi integralmente la richiesta della pubblica accusa, rappresentata dal pm Mariano Buccoliero che aveva chiesto 12 condanne. Le pene più alte sono andate a Mariano Russo e Michele Misseri, condannati rispettivamente a 5 e 4 anni di reclusione. Ivano Russo, l’amico conteso intorno al quale sarebbe nata una rivalità tra Sarah e sua cugina Sabrina (rivalità ritenuta uno dei moventi più forti alla base del delitto) è stato condannato per false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza davanti alla Corte d’assise. Secondo il pm, in aula fu reticente, mentì per coprire Sabrina, cercando di sminuire l’intreccio di rapporti sentimentali e sessuali con l’estetista, la gelosia ossessiva della ragazza nei suoi confronti, il crescente interesse sentimentale della cuginetta Sarah e infine i contrasti fra le due cugine per il comune interesse sentimentale. Per Michele Misseri - presente al momento della sentenza in aula - si tratta della terza condanna, dopo quella definitiva a 8 anni per aver gettato in fondo a un pozzo di contrada Mosca il corpo senza vita della nipotina (delitto per quale stanno scontando l'ergastolo Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina di Sarah) e dopo quella a un anno e mezzo inflittagli due mesi fa per aver diffamato il suo ex avvocato Daniele Galoppa e la criminologa Roberta Bruzzone. I 4 anni di oggi riguardano l'accusa di autocalunnia per essersi incolpato ingiustamente dell’omicidio nel tentativo di scagionare moglie e figlia. La sua versione, tuttavia, non è mai stata creduta dai magistrati. Tre anni di reclusione per Alessio Pisello, uno degli amici di comitiva di Sarah e Sabrina, accusato di falsa testimonianza, per la mamma di Ivano, Elena Baldari (il pm aveva chiesto due anni e quattro mesi), 2 anni e 6 mesi per il il fratello Claudio Russo. Assolta l’ex fidanzata Antonietta Genovino. Tutti erano accusati di aver mentito sostenendo che il 26 agosto 2010, giorno dell’omicidio, Ivano era rimasto a casa, a letto per tutto il pomeriggio. Menzogne e calunnie, per l’accusa, sono anche quelle di Dora Serrano, sorella di Concetta (mamma di Sarah) e Cosima, che per dipingere il cognato Michele come un mostro, in aula ha raccontato di aver subìto un tentativo di molestia sessuale dal contadino. Per lei e per Giuseppe Serrano, in tribunale ha inflitto una condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione. Tre anni di reclusione per falsa testimonianza, a Maurizio Misseri (nipote di Michele), Anna Lucia Pichierri (moglie di Carmine Misseri), Anna Scredo, cognata del fioraio Giovanni Buccolieri (l’uomo che avrebbe assistito al sequestro di Sarah da parte di Cosima e Sabrina, poi derubricato in aula a un semplice sogno), 3 anni e 2 mesi per Giuseppe Augusto Olivieri.

SARAH SCAZZI.  Il fratello: “Ivano? Non penso ci stesse provando. Michele Misseri…” Dario D'Angelo. Pubblicazione: 25.01.2020 su Il Sussiadiario. Claudio, fratello di Saraha Scazzi, intervistato a Quarto Grado ha parlato delle condanne per depistaggio a Michele Misseri e Ivano Russo. Michele Misseri e Ivano Russo tra i condannati in primo grado nel processo bis per depistaggi ad Avetrana, il caso di cronaca nera che sconvolse l’Italia culminato con la morte di Sarah Scazzi, uccisa il 26 agosto del 2010 dalla cugina Sabrina Misseri e della zia Cosima Serrano. Per parlare delle ultime notizie sul caso è intervenuto nello studio di Quarto Grado, su Rete 4, Claudio Scazzi, fratello di Sarah. Interpellato da Gianluigi Nuzzi su come avesse trovato lo zio Michele, cambiato nell’aspetto (senza baffi e invecchiato) e forse anche nel proprio intimo, Claudio ha detto: “Lo trovo sicuramente provato, è noto che il carcere è difficile, è un’esperienza forte. Non conosco nessuno che dopo il carcere è stato meglio. Queste sono le prime immagini che vedo di Michele: sicuramente la sua adesso è un’immagine di sofferenza”. Claudio Scazzi ha parlato anche di Ivano, condannato a 5 anni e definito da Nuzzi come il “vero custode del segreto di Avetrana”: “Io penso che all’inizio questa vicenda sia stata sottovalutata. Io stesso quando sono stato chiamato in caserma a Legnano: mi sono state fatte delle domande, in quel momento hai anche paura di tirare in ballo delle persone, perché magari hai solo dell’impressioni. Se Ivano ha detto tutto? Sicuramente sì, ma evidentemente gli inquirenti quando ti facevano delle domande sapevano già la risposta.”. Ad Avetrana in ogni caso manca ancora il movente dell’omicidio, ma Cosima andrà a parlare oppure no? Secondo Claudio: “Ora non penso abbia intenzione. Chissà, in futuro, un ravvedimento…”. Il fratello di Sarah ha commentato anche le parole di Michele Misseri, che ha detto di pregare per Sarah: “Se mi dà fastidio? La religione è libera…Io ho provato a mettermi nei loro panni e non penso sia affatto facile convivere con questo peso”. Claudio Scazzi ha poi aggiunto: “Io stavo a Milano e vedevo mia sorella una volta all’anno, avevamo 10 anni di differenza, io mi informavo telefonicamente. Non penso che Ivano ci stesse provando. Io l’ho conosciuto quell’anno lì, prima non sapevo chi fosse. Da fratello maggiore mi sono interessato di chi frequentasse”.

Sabrina Misseri pazza di gelosia per il “Dio Ivano”: le chat piccanti alla base del movente del delitto di Sarah Scazzi. Michela Becciu il 25 Gennaio 2020 su Urban Post. Sarah Scazzi processo bis: si è concluso con un undici condanne e una sola assoluzione il primo grado, che ha visto tra i principali imputati Ivano Russo – condannato a 5 anni di reclusione per false informazioni al pm e falsa testimonianza – e Michele Misseri, al quale sono stati comminati 4 anni per autocalunnia. Quarto Grado nella puntata di venerdì 24 gennaio è tornato sul caso, approfondendo la figura di Russo, il cuoco rubacuori di Avetrana conteso tra le cugine Sabrina Misseri e la piccola Sarah Scazzi. Sarah uccisa per gelosia, secondo quanto dicono tre sentenze, dalla cugina che lei considerava una vera e propria sorella. Il tribunale di Taranto nell’ambito del processo bis ha dunque accolto e confermato il capo d’accusa formulato dalla Procura: non è vero che Russo dormiva nei minuti in cui Sarah veniva uccisa. Ivano, movente involontario del delitto, che da mesi si lasciava corteggiare da Sabrina, perdutamente attratta da lui, e con la quale scambiava messaggi piccanti ad alto contenuto erotico, davanti al pm e come teste al processo ha sempre detto di avere dormito in casa – mentendo sapendo di farlo, secondo i giudici – nella fascia oraria in cui la piccola Sarah veniva uccisa dalla cugina e dalla zia. Non sentì le numerose telefonate che dalle 14:30 gli venivano fatte nei momenti concitati successivi alla sparizione della 15enne, quando tutti la davano per dispersa, perché il suo cellulare era rimasto appoggiato al cruscotto dell’auto. Questa la sua versione dei fatti. I giudici però non hanno mai creduto al suo racconto, giudicato lacunoso, né tanto meno al fatto che Russo si fosse svegliato tra le 16:30 e le 17:00. A corroborare i sospetti dei giudici le dichiarazioni spontanee rese ai carabinieri, nel gennaio 2014 (quattro anni dopo l’omicidio Scazzi), dalla ex compagna di Ivano, Virgina Coppola, nonché madre di suo figlio, che riferì di aver saputo dall’allora fidanzata del fratello di Ivano che nel pomeriggio del delitto lui non dormiva, ma che addirittura prima delle 14 uscì di casa per comprare le cartine per le sigarette, per poi rientrare, palesemente agitato, alle 14:15. Virginia, venuta a conoscenza di ciò, all’epoca chiese spiegazioni al compagno il quale in preda all’ira le rispose: “Quelle due stavano litigando”. Perché il giovane non lo riferì agli inquirenti quando fu sentito a sommarie informazioni? Ivano sa dunque di più di quanto riferito a processo? Per i giudici del primo grado evidentemente sì. Russo è il custode del segreto di Avetrana che ad oggi ancora non si conosce? Ricordiamo infatti che il movente del delitto è stato sempre ipotizzato ma non provato con elementi inconfutabili. Secondo la ricostruzione processuale, Sabrina andò su tutte le furie e perse il controllo perché la cuginetta Sarah aveva reso di dominio pubblico in paese una sua confidenza, ovvero che in un momento di intimità Ivano la rifiutò. A ciò si aggiunga la forte gelosia nutrita dalla Misseri nei confronti della giovane Sarah, la cui bellezza stava appena sbocciando, oggetto di attenzioni ed effusioni da parte di Ivano, di cui entrambe erano invaghite. Russo ha sempre bollato come “false” e non casualmente tardive le accuse da parte della ex. Ivano è vittima di una maldicenza o davvero qualcosa andrebbe riscritto su quel drammatico pomeriggio estivo di dieci anni fa? Sarà il processo d’Appello a fare – si spera – maggiore chiarezza al riguardo.

La fidanzata di Russo: «Ivano mi ha detto tutto: gli credo». Tonio Tondo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Gennaio 2012. Di lei aveva parlato anche Dagospia, il sito del gossip nazionale. «Ivano Russo, uno dei principali testimoni del caso Sarah Scazzi si è innamorato... ». E «lei», Virginia Coppola, la fidanzata che da quel momento non ha mai mollato il giovane ventisettenne del quale Sabrina si era innamorata, per tutta la giornata ha coccolato Ivano, con sms e con le telefonate: «Non ti preoccupare, stai sereno, io sto qui con te». Virginia, assicuratrice e catechista, qualche anno più di Ivano, ha pregato anche Angela Cimino, chiusa nella stanza dei testimoni, di sostenere il suo fidanzato: Angela, per favore, fortifica Ivano, digli che deve stare tranquillo. Doveva essere la giornata del confronto ravvicinato tra Sabrina e Ivano. La difesa della cugina di Sarah era stata abile nel convincere la Corte a consentire a lei e alla madre Cosima di poter uscire dalla gabbia e stare vicino agli avvocati, a ridosso dei testimoni. Tutto era stato preparato perché Sabrina potesse guardare negli occhi Ivano: forse per sfidarlo, oppure per scongiurarlo con lo sguardo. Invece, alle 17.20 la sorpresa: il presidente della Corte, Cesarina Trunfio, dopo aver consultato procura e difesa, ha deciso il rinvio. Per Ivano tutto è slittato al 31 gennaio. Sabrina ha potuto lanciargli solo uno sguardo fugace, mentre il giovane, entrato nell’aula e vicino alla gabbia, ascoltava le parole della Trunfio. Virginia conosce un po’ tutte le persone che si sono occupate della morte di Sarah, dagli avvocati ai giornalisti. E sa destreggiarsi bene tra di loro. Dalla mattina è seduta tra il pubblico insieme alla sorella Antonella. «Da quando stiamo insieme Ivano non ha mai più rilasciato interviste» dice sicura. Nel circo dei media il giovane, che secondo la procura è stato al centro di un conflitto di passioni tra Sabrina e Sarah, tanto da essere considerato la causa scatenante di una rabbia omicida, ci era finito in pieno. Lei, Virginia, è apparsa nel momento cruciale. «Io ho provato subito un sentimento profondo - rivela -, ma prima di decidere di stare con lui, l’ho messo sotto: gli ho chiesto tutto, di Sabrina, di Sarah, gli ho chiesto di essere sincero e la verità anche sui piccoli dettagli». Ivano ha rischiato grosso. Si era sparsa la voce di un suo possibile arresto, di risposte contraddittorie alle domande degli inquirenti, di lacune irrisolte. Poi pian piano ha acquistato credibilità. «Tradito», «deluso», «preso in giro» da Sabrina, erano le frasi ricorrenti sulla sua bocca. «Io Sarah l’ho cercata dal primo giorno - sottolinea Virginia -; insieme ai volontari ho setacciato la campagna, sono andata anche in contrada Mosca, ho visto il casolare, l’albero di fico, ma il pozzo non l’ho visto, era difficile scovarlo. Per Sarah abbiamo pianto e piangiamo ancora adesso, per questo a Ivano ho detto: tu devi dirmi tutto quello che sai, per me la legge viene prima di tutto». Virginia è un tipo che sa affrontare gli ostacoli. Si dice che sia lei a dettare la linea. E la linea è: «Dalla parte di Sarah», se è stata Sabrina a ucciderla, è bene che resti in carcere e che paghi, senza sconti. La vive come una sorta di missione, un impegno che si sente di dover portare avanti, fino in fondo; e se la sorte ha voluto che Ivano si rifugiasse tra le sue braccia, un motivo ci deve pur essere. Stefania De Luca, prima, e Angela Cimino poi, hanno aperto la danza dei testimoni. Virginia le ha seguite parola per parola, senza perdersi neanche un passaggio. Stefania ha raccontato nuovamente la tristezza di Sarah al pub la sera del 25 agosto 2010, la reazione di Sabrina dopo un litigio con Ivano («E’ finita, è finita, non ci stiamo più parlando... »). E poi i colloqui con la stessa Sabrina, ora evasivi ora misteriosi. Soprattutto, quando le testimonianze mettono a fuoco i rapporti tra Sabrina e Ivano, tra Ivano e le altre amiche, inclusa la stessa Angela, Virginia si fa più attenta, cerca di percepire fatti nuovi, piccoli elementi in grado di gettare nuova luce sulla catena dei fatti. Amori che muoiono, amori che nascono, innamoramenti veri o fasulli, parole che sembrano aprire storie di sesso e che si stemperano nel pudore: è u n’altra storia rispetto al processo, in disparte rispetto ai richiami del giudizio, ma inevitabile e rivelatrice per inquadrare i personaggi che affollano l’aula.

Avetrana bis, tutte le bugie del "dio Ivano" sull’omicidio di Sarah Scazzi. Ivano Russo ha mentito ai pm e depistato le indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne con cui aveva ingaggiato un tenero scambio di sms. Secondo la sentenza del processo bis per il delitto di Avetrana, il ‘dio Ivano’ come lo chiamava Sabrina Misseri, avrebbe visto Sabrina e Cosima litigare circa 30 minuti prima del delitto. Ivano, forse è stato l’ultima persona a vedere in vita Sarah prima che fosse assassinata. Angela Marino su Fan page il 27 gennaio 2020. Ivano Russo ha mentito ai giudici per dieci anni sul suo vero ruolo nel delitto di Avetrana. Ivano, secondo la sentenza che lo ha condannato a cinque anni di carcere per falsa testimonianza e depistaggio, avrebbe incontrato Sabrina Misseri e la cugina, Sarah Scazzi, 20 -30 minuti prima del delitto. È la verità che emerge dal secondo troncone del processo di Avetrana, ovvero il ‘processo ai silenzi' come lo ha chiamato la Procura. Quelli di Ivano, ma anche quelli della madre del cuoco e di suo fratello che si sono resi complici, entrambi, sempre secondo la sentenza, della falsa ricostruzione fornita dal Russo ai pm, su quanto accadde quel 26 agosto 2010, quando la quindicenne con cui aveva ingaggiato un tenero scambio di sms, veniva strozzata con una corda dalla zia e dalla cugina, la sua seconda famiglia, nella villetta di via Deledda.

Quel pettegolezzo di paese: Sabrina rifiutata da Ivano. Il "dio Ivano" infatti, come lo chiamava l'innamoratissima Sabrina, quel giorno sarebbe uscito intorno alle 13 e 50 per andare a comprare le cartine per le sigarette e sarebbe rientrato alle 14 e 15, turbato, dopo aver incontrato le due ragazze che discutevano. Litigavano per lui, o meglio per quel pettegolezzo messo in giro da Sarah sul suo conto, quello secondo il quale Ivano avrebbe rifiutato Sabrina dopo che lei si era già spogliata per consumare un rapporto sessuale, quello che aveva esposto Sabrina al pubblico ludibrio del paese. Ivano, sempre secondo la ricostruzione del ‘processo ai silenzi', avrebbe taciuto di aver visto le due ragazze e avrebbe anche volutamente scelto di non rispondere alle chiamate al cellulare quello stesso pomeriggio, quando la scomparsa della ragazzina fece il giro delle case e dei telefoni del paese.

Le menzogne dette da Ivano Russo per dieci anni. "Ero a casa a dormire", "non ho sentito il telefono", "quel giorno non ho visto Sarah" disse Ivano Russo agli inquirenti dieci anni fa, prima che le condanne cristallizzassero quanto accaduto quel giorno. Poi nel 2014, dalle confidenze dell'ex di Ivano alla ex cognata, allora fidanzata del fratello di Ivano, è nato il nuovo filone di indagine. A ‘inchiodare' l'ex cuoco di Avetrana, nel nuovo processo è stata la testimonianza di Virginia Coppola, ex e madre di suo figlio. "Questa persona è stata diversi anni al mio fianco – ha detto Ivano della supertestimone – poteva farlo prima perché l'ha fatto nel momento in cui ci sono state delle denunce riguardo a nostro figlio? Qualcuno avrebbe dovuto drizzare le antenne sulla tempistica e dire: c'è qualcosa che non va". Per Ivano Russo, il "dio Ivano" come soleva chiamarlo l'amica Sabrina Misseri, la testimonianza che lo ha incastrato facendolo condannare a cinque anni di carcere, sarebbe solo la vendetta di un'ex. Coppola, invece, è stata ritenuta credibile così come l'allora compagna del fratello di Ivano, finita anche lei sotto accusa e poi assolta. A mentire in questa tremenda storia sono stati gli uomini, dunque, Ivano Russo e Michele Misseri, che con il secondo troncone processuale si è visto comminare una seconda condanna oltre a quella per occultamento di cadavere (otto anni). Colui che per la parte civile è stato solo il ‘becchino' di Sarah, il macabro autista del suo ultimo viaggio dalla casa di via Deledda al pozzo nero dove poi è stato ritrovato il cadavere. Misseri, lo zio, ha mentito, continua a mentire nelle ormai numerose lettere che scrive ai giornali per ribadire l'ennesima una volta che le sue donne, Cosima Serrano (detta Mimina) e la figlia, Sabrina, sono innocenti. Lettere che non fanno neanche più notizia.

Ivano, zio Michele e gli altri: tutti i bugiardi di Avetrana. Misseri, che si trova in carcere dal 2017, quando la prima condanna è diventata definitiva, ha voluto essere presente alla lettura del dispositivo per il processo bis, uscendo per la prima dalle mura del penitenziario di Taranto. Completamente calvo, appesantito, con il bavero della giacca alzato sul collo si è presentato in aula per la prima volta dopo tre anni.  Si è alzato in piedi alla lettura della sentenza mentre Ivano, invece, ha preferito attendere il verdetto a casa, dove è stato avvertito della condanna da una giornalista di “Quarto Grado”. Insieme a loro altre dieci persone sono state condannate per aver mentito e taciuto sui fatti. Dieci abitanti di quello sparuto paesino in provincia di Taranto, seimila anime appena (compreso il fioraio che disse di aver ‘sognato' di aver visto Sabrina e Sarah litigare), hanno sviato le indagini sulla morte di una ragazzina di quindici anni, alzando la nebbia nella quale si sono fatti strada negli ultimi sei anni giudici e avvocati.

Michele Misseri scrive dal carcere: “L’unico colpevole sono io”. Giovanna Tedde il 23 gennaio 2020 su thesocialpost.it. A margine della condanna a 4 anni di carcere nel processo bis sui depistaggi nel caso Sarah Scazzi (che si somma a quella a 8 anni in via definitiva per occultamento del cadavere della 15enne), Michele Misseri torna ad autoaccusarsi del delitto con una lettera indirizzata a Barbara d’Urso. Lo zio della vittima, ritenuto responsabile del reato di autocalunnia nel procedimento-satellite appena concluso (in cui sono state condannate altre 10 persone, tra cui Ivano Russo), continua ad attribuirsi l’esecuzione materiale dell’omicidio. All’ergastolo, condannate in via definitiva, la moglie Cosima Serrano e la figlia, Sabrina Misseri. Fresco di una nuova condanna, dopo quella definitiva a 8 anni per occultamento di cadavere, Michele Misseri torna a parlare dal carcere, ancora una volta per autoaccusarsi dell’omicidio della nipote 15enne, Sarah Scazzi, il cui corpo fu fatto ritrovare dallo stesso nell’agosto 2010. Una lettera, indirizzata a Barbara d’Urso, per ribadire quanto lo ha condotto alla sentenza con cui il Tribunale di Taranto, nella giornata del 21 gennaio scorso, gli ha inflitto una pena di 4 anni di reclusione per autocalunnia: “Sono io il colpevole“. “Penso sempre alla mia famiglia, non ho mai smesso di scrivere a Sabrina e Cosima, ma non ho mai ricevuto risposta“, ha sottolineato il detenuto – attualmente recluso a Lecce – per poi aggiungere che “loro mi vogliono punire perché sono in carcere da innocenti“. Secondo zio Michele, i 3 gradi di giudizio conclusi con l’ergastolo a carico di moglie e figlia sarebbero un clamoroso errore giudiziario: “Nessuno mi vuole credere. Loro (Cosima Serrano e Sabrina Misseri, ndr) sono innocenti.

L’unico vero colpevole sono io“. Michele Misseri sostiene di star bene e di aver concluso un anno di scuola in costanza di detenzione, ma nella sua testa albergherebbe il chiodo fisso di aver mandato dietro le sbarre, a suo dire, due persone estranee al delitto. “Ho strangolato io la bambina“, aveva detto dopo un tira e molla di versioni contrastanti che ne hanno minato la credibilità. Parole schiacciate dall’esito giudiziario che ha consegnato i nomi delle due donne di casa Misseri alla cornice di responsabili del delitto di Avetrana.

Burattini e Burattinai: condannati zio Michele ed Ivano Russo. Anna Vagli su lagazzettadilucca.it giovedì, 23 gennaio 2020. Venghino signori venghino! Sono tornati al centro della scena gli uomini di Avetrana. Il primo, zio Michele, che di professione fa lo zio, è stato condannato per autocalunnia a 4 anni di reclusione. Eh già, lo zio nazionale continua a scontare le bugie raccontate nel processo per la morte della nipote Sarah Scazzi. Preso di mira anche dall’opinione pubblica, per tutelare le donne di casa, si era addossato la colpa della morte della nipote azionando un vero e proprio circolo di confessioni e ritrattazioni che gli hanno fatto incassare la terza condanna. Un uomo dei campi Michele, abituato a dormire su una sdraio per non scomodare le matrone di casa, Cosima e Sabrina. Quelle stesse donne che per salvare la loro posizione lo hanno esposto alla gogna mediatica dimostrando all’Italia intera come lui, in quella casa, era considerato niente di più che l’ultima ruota del trattore. Zio Michele continua a non trovare pace nemmeno dopo la condanna per autocalunnia intervenuta e continua a proclamarsi l’unico vero colpevole della morte di Sarah Scazzi. E lo fa accollandosi tutte le responsabilità anche sfruttando la scia mediatica. Difatti, è notizia di ieri, come lo zio di Avetrana abbia scritto una lettera a Barbara D’urso, nella quale descrive tutto il proprio struggimento non soltanto perché moglie e figlia non vogliono più saperne di lui ma anche perché le due donne starebbero scontando una pena che non dovrebbero scontare. Insomma lo zio dei mis(t)eri non riesce a trovare pace neppure dopo aver incalzato la terza condanna nel processo bis per la morte della nipote Sarah. Michele Misseri non è però il solo ad essere nuovamente al centro della scena processuale e mediatica. Già, qualche giorno fa insieme a lui è stato giudicato colpevole anche Ivano Russo per false dichiarazioni al Pm. Ivano, il bello di Avetrana, colui che aveva fatto perdere la testa a tutte le donne di Paese. Il Russo, considerato nel primo troncone processuale l’ago della bilancia dell’intera vicenda, teneva sotto scacco Sabrina Misseri. L’aveva soggiogata al punto di farsi inviare niente meno che 4500 messaggi al giorno. Insomma, la cozza Sabrina (come lei stessa si definiva) le aveva tentate proprio tutte per cercare di meritarsi un briciolo di attenzione dal “Dio Ivano”, come era solita chiamarlo lei. La condanna inflitta al Russo nel processo bis è pesante: 5 anni per aver mentito agli inquirenti circa gli eventi occorsi il giorno in cui la quindicenne scomparve. Ivano, dicono i giudici, ha mentito per coprire la pseudo-relazione che lo legava a Sabrina. Secondo i primi giudici, infatti, la furia omicida di quest’ultima era stata scaturita dai racconti di Sarah circa la loro ultima “notte interrotta”. Sarah aveva infatti esposto la cugina al pettegolezzo di borgata raccontando, in giro, di come – proprio qualche sera prima dell’omicidio – Ivano avesse respinto Sabrina, nonostante questa si fosse già spogliata per consumare un rapporto sessuale. Insomma, le dicerie paesane unitamente all’umiliazione dell’ennesimo rifiuto da parte del Russo, avevano amplificato l’invidia che Sabrina nutriva nei confronti di Sarah. Quell’invidia che poi l’ha determinata nel senso di ucciderla. Il processo bis si è concluso con un totale di undici condanne. Verrebbe da dire che quasi tutto il Paese è chiamato a scontare la morte di Sarah. Graziosa, leggiadra e magra al punto di diventare un’ossessione per la cugina Sabrina.

LA STORIA DI SARAH E DELLE ALTRE…NOEMI E NICOLINA.

La storia di Sarah Scazzi, che chiedeva: «Mi abbracci?», scrive il 21 febbraio 2017 Imma Vitelli. Nel giorno della sentenza definitiva che chiude il caso di Avetrana, ripubblichiamo una storia apparsa su Vanity Fair del 2010. Un racconto senza plastico, senza circo, e senza giostra di testimoni. La storia di Sara. Poco prima che il nome di Sarah Scazzi fosse scolpito su di una lapide di cristallo, era possibile trovarla nella Biblioteca del Comune, ombra timida di pallido sconforto, a leggere un libro rosa sulla nascita delle piante e degli animali e su come un bambino apre gli occhi alla vita. La sua, affondava le radici in una primavera salentina; erano gli anni Sessanta, gli anni in cui nacque Concetta Serrano. Il primo ricordo di Concetta, foriero di burrasche venture, è una foto su un muro di un uomo in divisa. Gliela indicava sua madre: «Diceva: quello è tuo padre», mi dice la signora Concetta. Era partito per la Germania a cercar lavoro prima che lei nascesse. Una foto simile, la vedeva a casa di uno zio, che di lei si prendeva cura, e in quella confusione di ruoli, pensò che fosse lui il suo genitore. Poi il padre tornò, un’estate, e offrì agli zii, visto che Concetta non lo riconosceva, di «prendersela», se la volevano. Fu così che la madre di Sarah Scazzi divenne Concetta Serrano Spagnolo ed ebbe quattro genitori, quelli veri, che non c’erano, e quelli adottivi, che se la presero in casa. Fu così, soprattutto, che si fece strada nella sua mente che si poteva affidare una figlia ad un’altra famiglia, senza che si scatenasse l’Armageddon. Crebbe, la piccola Concetta, come un fiore trapiantato in un vaso sterile. Studiò fino alla terza media; sognò di aprire una palestra; ma in paese non c’era niente, e Taranto, dove c’erano i corsi, ai suoi tempi sembrava l’America. Le rimasero le uscite nel corso, in via Nardò, e l’amore come via di fuga. Era bella. Aveva il volto di una Madonna, il fisico snello. Conobbe il padre di Sarah a 22 anni. Le piacque la sua aria innocente: «Sembrava un buono», mi dice. I suoi non volevano, eppure li sfidò: fu la sua prima ed ultima rivolta. Si sposarono nel 1984, e l’anno dopo, puntuale, nacque Claudio. Presero casa a San Pancrazio, un Comune vicino ad Avetrana, ma non restarono a lungo: il marito aveva un’autofficina, ma andava male. Alla fine la chiuse, e non ebbe altra scelta che seguire la scia dell’emigrazione verso il Settentrione. Nello stesso periodo, verso la fine degli anni Ottanta, avvenne in famiglia un altro cambiamento epocale: Concetta si era resa conto che il matrimonio era stato l’errore della sua vita. «Ci sono errori che si riescono ad aggiustare, altri che non si risolvono mai», mi dice. Alle prese con il suo tormento, un giorno aprì le porte, di casa e del cuore, ai Testimoni di Geova. «Capii che quello che mi dicevano era la verità di Dio, che le persone vivono nell’ignoranza. L’unico vero conforto l’ho ricevuto e lo ricevo solo dai fratelli e dalle sorelle della fede, dalle persone esterne non l’ho mai visto e non lo vedo». Armata di sacre scritture, cominciò un’esistenza pendolare, tra il Nord, dove lavorava il marito, e il Salento, dove la reclamavano i genitori adottivi. Fu in questo andirivieni che il 4 aprile 1995 nacque Sarah, a Busto Arsizio. La chiamarono Sarah, con la acca, perché piaceva a Concetta, e perchè così si chiama la moglie di Abramo. «C’erano dieci anni tra lei e mio figlio Claudio. E’ stato come crescere due figli unici». Sin dai primi passi, la piccola Sarah si rivelò un vulcano, una bionda e gracile tempesta. «Una bomba atomica», mi dice Concetta Serrano. Era iperattiva, sorrideva sempre. Con i giocattoli, aveva un rapporto disinvolto: buttava tutto in aria. Aveva una bambola, grande quanto lei, cui tagliò i capelli, e le unghie, e poi le dita, e alla fine, col pennarello, la ricoprì di tutti i colori. Mangiava solo schifezze, wurstel e patatine fritte e cordon bleu. La mamma ricorda che il primo anno di scuola elementare, a Canegrate, nel milanese, tornava a casa a pancia vuota e diceva che le avevano dato pasta e prezzemolo. In quei primissimi anni, seguì le andate e i ritorni della madre, le tradotte Avetrana – Milano, le visite al papà, i ritorni dai nonni e dalle zie, soprattutto Cosima, cui somigliava. Tornarono infine, nel 2002, ad Avetrana. Era morta nonna Nena, e s’imponeva un nuovo, definitivo, trasloco: a casa di nonno Cosimo, dove avrebbe vissuto da allora e per sempre. Quando arrivò, nella classe II A della scuola elementare Mario Morcello, la notarono tutti. Era così piccola, e bionda, con quei capelli crespi. I compagni di classe la prendevano in giro. Le dicevano sei brutta, sei bianca, sei troppo magra, lei a volte piangeva, a volte si difendeva, li insultava, diceva un sacco di parolacce. «La chiamavano capretta», mi dice Roberta, una che c’era. C’era anche Francesca. Di quegli anni ricorda la recita della V; Sarah aveva una piccola parte, diceva solo «C’è Katia?» e forse per questo, davanti al microfono, diafana tra teste more, indugiò più a lungo: «Voleva farsi sentire da tutti». Con Francesca, si erano poi ritrovate, nel settembre 2009, in I A, all’Alberghiero di Maruggio, ed avevano deciso, la bionda e la bruna, di sedersi allo stesso banco, il primo a sinistra. «I giorni erano belli quando c’era lei», mi dice Francesca. Gli zainetti a mo di barricate, davano sfogo alla fantasia disegnando sul banco, col bianchetto, dei cuori, cui poi davano fuoco con l’accendino, sotto il naso ignaro del professore. Si divertiva, Sarah, a prendere in giro gli insegnanti, ma la gag più divertente la metteva in scena alla vista delle suore. Era il suo tormentone. Ogni volta che le adocchiava, alzava le braccia, indice pollice e mignolo in fuori e diceva loro: «Viva la droga!» Coltivava la trasgressione come forma di ribellione; in realtà, mi hanno detto amici e compagni di scuola, soffriva la solitudine dei bambini che si sentono diversi. Aveva fame d’affetto. A Francesca, e a Roberta, e agli amici, chiedeva sempre: «Mi abbracci?». Nella bianca casa ad un piano in via Verdi le cose andavano un po’ così. Il nonno Cosimo, di più di 80 anni, le dava ordini, prendi questo, prendi quello. A lei non piaceva, e a volte lo ignorava, e a volte si scontrava, sul controllo del telecomando. Lui voleva vedere le partite, Sarah i cartoni animati, le piacevano i Simpson e Sabrina Vita da Strega e Buffy. Era appassionata di Buffy; era uno dei suoi tanti profili su Facebook. Non avendo un computer, si faceva aprire i profili dagli amici che poi si dimenticavano la password e si ricominciava da capo. Di Buffy adorava la protagonista, che nella vita vera si chiama Sarah, e che lotta contro i vampiri e le forze del male, di cui le parlava tanto la mamma. Era quella la vera guerra a casa. La signora Concetta desiderava tanto che la figlia la seguisse alle adunanze dei testimoni di Geova. «Avrei voluto, per il suo bene, indirizzarla verso la mia religione», mi dice uno dei tre pomeriggi che abbiamo trascorso assieme. Parliamo sedute al tavolo della cucina; siamo circondate da colline di lettere e di doni dei fratelli e delle sorelle di fede, che le scrivono da ogni dove. E’ una donna pallida, molto buona, d’inedita compostezza e immensa dignità, che vive questa vita in fervida attesa della prossima, infinita: «Avrei voluto che anche mia figlia, come me, scoprisse la verità». A tal fine, leggeva a Sarah i racconti biblici, le spiegava che la nostra generazione è alla fine, che dalla Creazione dell’uomo all’Apocalisse sono passati circa 6000 anni, e che adesso nelle sacre scritture sono rimaste solo due pagine, perché la Bibbia è un libro profetico, due pagine e arriva la fine. Le diceva che presto si arriverà alla distruzione del malvagio e alla vendetta dei Giusti e all’avvento di un governo insediato da Dio e retto da Gesù Cristo. «Ma lei non accettava proprio. Si ribellava. Mi ricattava. Diceva se mi porti con te io lo dico a papà, il papà era contrario. Questo era il motivo principale dei nostri scontri. Se avesse frequentato i testimoni di Geova, non avrebbe frequentato Sabrina». Era, quella della madre, una proposta di vita totale, difficile da accettare per un’adolescente. Sognava, Sarah, un caldo focolare ridanciano, atterrò nella villetta di palme tropicali degli zii e della cugina. Era una strana coppia, l’esile quindicenne in fiore, e la cugina ventiduenne, estetista di professione, con cui trascorreva le notti in birreria. «Sarah ha vissuto un’adolescenza accelerata», mi dice la dottoressa Gloria Saracino, una psicoanalista di Manduria, un paese vicino a Avetrana. Lei, che con l’amica Francesca ancora giocava a nonna e a zia, finì cucciola in un branco di adulti: «Era evidente la sua grande confusione. Era una bambina dolce ingenua e tenera costretta ad indossare una maschera, ad offrire al mondo una caricatura di sé». Quello che non faceva a casa, lo fece al Pub 102. Senza che glielo chiedesse nessuno, capitava che si mettesse a sparecchiare, a raccogliere i bicchieri dai tavoli, talvolta anche pieni, sotto il naso stupito degli avventori. Che abitasse un pianeta non suo, era evidente: «Una volta arrivò in birreria una tipa molto ubriaca. Sarah la osservò e sgomenta chiese: ma è normale? Risposi di no, è perché va male a scuola e lei abboccò», mi racconta uno del gruppo, che chiede di non divulgare il suo nome, poiché è rimasto scottato dalle orde barbariche dei giornali e delle televisioni. «Era buffa», dice. In macchina, quando sentiva il Cd dei Prodige «Smack my Bitch up» una roba elettronica tendente all’ossessivo, andava in deliquio: «Alza alza alza!». Era incuriosita dalle profezie dei Maya e qualsiasi cosa le si dicesse, che implicasse il domani, replicava: «Tanto nel 2012 muoriamo». Sognava una vita lontana: «Diceva sempre che se ne doveva andare». Erano sogni minori: al pub raccontava che avrebbe senz’altro fatto l’estetista, alle compagne dell’alberghiero certamente la cuoca in un ristorante a Milano, o anche su una nave. Non si piaceva, eppure era ormai così carina, con i capelli lisci, e la matita nera e lo smalto scuro. L’amico con cui ho parlato le disse un giorno che somigliava a Uma Thurman, lei non sapeva chi fosse. Si voltò verso la cugina e chiese: «E chi cazzo è?» «Una bona», rispose la cugina. A mamma Concetta, la nipote, Sabrina, non era mai piaciuta. Al loro ritorno da Milano, le chiese di adottare una delle sue 13 gatte, di cui neanche si curava, e quando se ne portò una a casa, quella urlò come una pazza che rivoleva la sua micia, o la denunciava ai carabinieri. «E’ stata sempre ribelle, stolta, aggressiva, la vedevo così e pensavo tanto i giovani sono tutti uguali», dice la signora Concetta. «Il fatto che Sarah la frequentasse non mi è mai garbato. Ma da un lato mi sentivo sicura, sentivo mia figlia protetta dai ragazzi che approfittano delle bambine, la riportavano a casa in macchina tutti assieme alle due, le tre di notte. Dall’altro lato pensavo fosse una soluzione temporanea in attesa che crescesse». Nell’attesa, della vita di Sarah, non sapeva molto. Ignorava che avesse festeggiato il suo primo ed ultimo compleanno, a 15 anni, a casa degli zii. «L’ho scoperto dai giornali», dice. «Mancavano molto a Sarah le feste», dico. «Sia lei, sia tutte le persone del mondo, hanno questa fissa delle feste. Per noi queste feste pagane sono contrarie alla nostra credenza perché non rispecchiano la volontà di Dio». Le chiedo cosa ha pensato, quando ha visto in tv le foto di sua figlia che spegne le sue prime candeline. «Che cosa le hanno insegnato: la menzogna?». Le chiedo se non crede che ciò abbia svelato il suo bisogno di normalità. «Se normalità la vogliamo chiamare». Le dico che tutte le sue amiche festeggiavano cose a lei proibite. «Dal punto di vista di Dio non è così. Dal suo punto di vista, questi atteggiamenti, il compleanno, il Natale, sono offensivi». Le dico che una bambina di quello vive. «Perché quello vede, ma non è detto che sia giusto. Sarah si basava sulla pura apparenza. Io ci provavo, ma lei mi sfidava sempre. Mi diceva "mamma mi devi far commettere i miei errori altrimenti io non cresco, io non divento grande, se tu mi dici quello che devo fare io non maturo". Allora io le dicevo, è vero Sarah che tu vuoi essere lasciata sola, ma ti possono capitare situazioni dalle quali non sai come uscire». Adesso che è tutto finito, e la via d’uscita è preclusa, chiedo alla signora Concetta dove pensa sia finita la sua ragazza. «Sarah adesso dorme. Riposa nella memoria di Dio. E’ come se avesse preso un aereo e fosse andata in America e per una qualsiasi ragione non possa venire in Italia. Nel tempo da lui stabilito, Geova la riporterà in vita. Se noi adesso non conosciamo la verità, sarà Sarah poi a dircela». Le chiedo, come faccio sempre, alla fine di un incontro, se c’è qualcosa che vuole dirmi, prima che io vada. Mi risponde pacata, serena quasi. «Desidero ardentemente che Geova ci doni quanto prima la fine perché non ne possiamo più di tutta questa malvagità». Esco in una giornata di gelo polare, nelle strade vuote di Avetrana, e mi torna in mente Sarah e la sua lapide di cristallo e la foto del padre di Concetta sul muro, e mi viene un brivido e penso: che fatica essere madri. E che fatica essere figlie.

Sarah Scazzi e il suo caso diventano una docufiction, l’ennesima di cronaca nera in tv. “Pubblico rischia il rincoglionimento”. Il massmediologo Giorgio Simonelli spiega il motivo del proliferare di questo tipo di programmi sul piccolo schermo e sottolinea come il vero problema sia la mancanza generalizzata di qualità (anche giornalistica) nel racconto dei fatti: "Di cosa preoccuparsi? Della superficialità, della non conoscenza dei fatti, della recita e della creazione degli stereotipi", scrive Luisiana Gaita, il 10 aprile 2017 su “Il Fatto Quotidiano”. Il giallo di Avetrana diventa un docufiction prodotto da Mediaset per Terzo Indizio, il programma condotto da Barbara De Rossi, che va in onda ogni martedì, in prima serata, su Rete Quattro. In questi giorni a Manduria si girano le prime scene che vogliono raccontare uno dei delitti che più hanno scosso l’opinione pubblica negli ultimi anni. Un omicidio analizzato in ogni dettaglio sui mass media ben prima di approdare nelle aule di giustizia. Ricostruito più e più volte. Come sempre più spesso accade con i casi di cronaca che, per un motivo o per l’altro, attirano l’attenzione del pubblico. Raccontati non solo dai telegiornali o da trasmissioni che si occupano specificamente di cronaca, ma anche da molti programmi di intrattenimento. Che ne forniscono anche i particolari più macabri. Cosa che, solo pochi mesi fa, ha spinto Fiorello a rivolgere un appello dalla sua pagina Facebook ai vertici delle principali televisioni italiane, chiedendo di porre un freno alla cronaca nera nei programmi mattutini e pomeridiani e lanciando l’allarme su “possibili spiriti di emulazione”. Ilfattoquotidiano.it ha chiesto una riflessione al massmediologo Giorgio Simonelli, per capire da cosa dipende questo continuo utilizzo della cronaca nera nei più disparati programmi tv e quali effetti possa avere. “Più lo spirito di emulazione, il rischio è il rincoglionimento del pubblico” spiega l’esperto.

IL GIALLO DI AVETRANA A TERZO INDIZIO – A febbraio la Corte di Cassazione ha confermato l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. Come riporta Il Messaggero la vicenda sarà al centro un documentario prodotto per Terzo Indizio, programma che si occupa dei casi che hanno già attraversato i tre gradi di giudizio, arrivando a sentenze definitive. Gli attori che interpreteranno i protagonisti – dalla vittima, alla cugina Sabrina, da Cosima Serrano a ‘zio Michele’ – saranno attori del posto. Sarah sarà la giovane Giulia Distratis, di Manduria. Per le riprese è stata anche scelta una casa con caratteristiche strutturali simili a quelle di villa Misseri, in via Grazia Deledda, ad Avetrana. Diventata soprattutto nei mesi successivi alla morte delle ragazzina persino macabra meta turistica. Una famiglia del posto si è resa disponibile a trasformare per cinque giorni la propria abitazione, alla periferia di Manduria, nel set del documentario. Gli ingredienti ci sono tutti.

PERCHE’ LA NERA HA INVASO I PALINSESTI – D’altro canto è da tempo che la cronaca nera ha invaso i palinsesti. Tanto da spingere Fiorello a lanciare un appello ai vertici delle tv generaliste. “Tutti i pomeriggi vengono scandagliati i casi di cronaca nera su cui ci si fanno le trasmissioni, ore a parlare dei particolari più macabri… è possibile intervenire, cari vertici, ed eliminare questi casi dai programmi pomeridiani e mattutini?” aveva chiesto lo showman, secondo cui la cronaca va raccontata dai telegiornali. Invece in Italia sono anni che le reti puntano alla nera. Da cosa dipende? “Da una tendenza, una moda – spiega a ilfattoquotidiano.it Giorgio Simonelli – perché si è scoperto un filone che rende e si andrà avanti fino a quando la gente non si stuferà. Il pubblico ama le conferme, più delle novità e sul breve termine tende ad ‘abboffarsi’ per poi fare indigestione e arrivare al rifiuto”. È solo questo il motivo del moltiplicarsi di questi programmi? Si parte da quelli di attualità che non di rado dedicano intere puntate ai casi più seguiti dall’opinione pubblica, come Porta a Porta o Matrix e si prosegue con quelli nati proprio come approfondimento giornalistico ai casi di cronaca, come Quarto Grado. Poi ci sono le trasmissioni in cui le storie vengono ricostruite anche attraverso docufiction, come Amore criminale e Terzo indizio. Discorso a parte per Chi l’ha visto?, nato e percepito dai telespettatori proprio per la sua specifica funzione di servizio pubblico. A questo panorama si aggiungono i programmi che dovrebbero avere, invece, una mission di intrattenimento, ma che oggi puntano a raccontare in ogni minimo dettaglio la cronaca nera. Con interviste a questo o quell’amico della vittima (o del presunto killer), collegamenti da ospedali, teatri dei delitti e via dicendo. “La nera vince anche sugli amori di Albano, perché vale sempre la regola che, se c’è un incidente, chi si trova nella corsia opposta rallenta per guardare cosa è successo – spiega il massmediologo– e perché scattano due meccanismi opposti. Da un lato si guarda una trasmissione che racconta un delitto pensando che sono fatti che possono accadere a tutti, dall’altro perché sono vicende ‘che a me non capiteranno mai’, in questo senso come una forma di distrazione”. Dal punto di vista delle tv, invece, il discorso è molto semplice: “Sono prodotti che costano poco e hanno una garanzia di audience. Basta imbastire un talk e organizzare una chiacchierata con ruoli fissi, ospitando il criminologo, lo psicologo, l’avvocato, magari anche il personaggio sopra le righe e il gioco è fatto”. Di più: “C’è gente disposta a pagare per partecipare e c’è chi, come i legali ad esempio, possono anche utilizzare l’occasione di visibilità per rafforzare la posizione del proprio cliente”.

GLI EFFETTI – Simonelli non crede che guardare questi programmi possa portare a emulare comportamenti così gravi, “almeno in persone sane di mente”. “Credo di più all’emulazione del consumo – aggiunge – e agli effetti negativi sul pubblico di trasmissioni che introducono una maniera di raccontare la vita”. Trasmissioni che “creano un modello di percezione della realtà, proponendo uno schema fisso nel raccontare i delitti che è il contrario di ciò che dovrebbe fare il giornalismo, ossia un’indagine con la quale si spiegano i fatti”. C’è da dire che ci sono programmi e programmi. “Mi è capitato di recente – racconta l’esperto – di vedere in onda su Sky Ignoto I, il documentario sull’omicidio di Yara Gambirasio e sulle successive indagini e l’ho trovato un prodotto eccellente. Dunque il problema non è l’oggetto, ma come ci si occupa delle cose”. Di cosa preoccuparsi? “Della superficialità, della non conoscenza dei fatti, della recita e della creazione degli stereotipi, perché il vero pericolo è il rincoglionimento del pubblico”.

Sarah Scazzi, tutti i protagonisti venduti come prodotti, scrive Luca D'Auria il 21 febbraio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “Non distraetevi come si è distratto nostro Signore quel giorno”. E’ il monito del Procuratore Generale alla Corte deve dire la parola finale per l’omicidio di Sarah Scazzi ad Avetrana. Se c’è una vicenda in cui la giustizia ha dato la propria rappresentazione pop questa è stata quella di Avetrana e dell’omicidio della giovane Sarah. Neanche uno dei personaggi coinvolti è stato sottratto dal destino di diventare un fumetto. Il bene ed il male, la giustizia ed il crimine sono stati venduti come prodotti da banco del capitalismo più sfrenato. L’avvocato Coppi ha sostenuto che il processo ha subìto delle distorsioni dalla pressione dei media. Non sono d’accordo. La pop justice non influenza il processo ma, al contrario, esclude il processo, lo rende un inutile orpello da cui gli stessi protagonisti sono alienati, come nella dottrina marxiana del feticismo delle merci. Gli effetti di tutto questo sono ben peggiori e gravi. La giustizia mediatica salvava il processo. La giustizia pop vende i valori del bene e del male come prodotti del mercato capitalista. C’è da chiedersi se questa giustizia pop sia sostenibile e se si possa parlare ancora di giustizia e della sua funzione tipica di ristabilire l’ordine sociale.

Noemi una morte annunciata e le solite responsabilità.

Noemi, il fidanzato prova a scaricare la colpa: "L'ho uccisa perché voleva sterminare la mia famiglia". Interrogatorio fiume nella notte: il 17enne sostiene che la vittima aveva con se un coltello e che lui avrebbe tentato di dissuaderla. Con quella stessa arma l'avrebbe uccisa. Trasferito in carcere, ha rischiato il linciaggio, scrive Chiara Spagnolo il 14 settembre 2017 su "La Repubblica". "L'ho ammazzata perché premeva per mettere in atto l'uccisione di tutta la mia famiglia": così avrebbe detto agli inquirenti, alla presenza del proprio legale, il 17enne sottoposto da mercoledì 13 settembre a fermo per l'omicidio volontario di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia il cui cadavere è stato trovato, sepolto dalle pietre, a 11 giorni dalla sua scomparsa. Il ragazzo è stato ascoltato in un lungo interrogatorio terminato nella notte. Un interrogatorio in cui avrebbe cambiato versione più volte. Inizialmente sarebbe emersa la pista della gelosia: "Aveva troppi amici". Poi l'improvviso ribaltone. Il ragazzo avrebbe raggiunto alle 5 del mattino del 3 settembre scorso a casa della sedicenne: voleva cercare di dissuaderla a mettere in atto il piano che, forse, doveva essere attuato proprio in quella giornata. Il ragazzo ha anche detto che con sé Noemi, quando è uscita dalla sua abitazione, aveva un coltello, a dimostrazione - a suo avviso - della determinazione della giovane di portare avanti il progetto di eliminazione di chi ostacolava il loro amore. Con quello stesso coltello, lui l'avrebbe uccisa.

L'arresto. Il 17enne stato portato in carcere nella tarda serata di mercoledì 13 settembre L.M., il 17enne di Alessano che ha ucciso la fidanzata sedicenne Noemi Durini di Specchia - scomparsa da casa il 3 settembre - nascondendone il cadavere sotto un mucchio di sassi in una campagna vicino Santa Maria di Leuca. Quando è uscito dalla caserma di Specchia ha sfidato le decine di persone che lo attendevano con un ghigno e un gesto di saluto, rischiando che si trasformasse in realtà il linciaggio mediatico iniziato qualche ora prima su internet. Il ragazzo era in evidente stato di alterazione psichica, al termine dell'ennesimo interrogatorio, concluso con il fermo di polizia giudiziaria che dovrà essere convalidato dal gip nelle prossime ore. Le accuse contestate sono omicidio volontario e occultamento di cadavere, mentre il padre B.M. risponde di concorso in occultamento di cadavere. Secondo gli inquirenti avrebbe aiutato il figlio a nascondere il corpo o quantomeno le prove dell'avvenuto omicidio.

Il ritrovamento. E' stato proprio il diciassettenne a portare i carabinieri sul luogo in cui ha cercato di nascondere la fidanzata dopo averla uccisa: un fondo in località San Giuseppe di Castrignano del Capo, a una ventina di chilometri da Specchia. Il corpo era ricoperto da pietre scardinate da un muretto a secco... Noemi indossava i vestiti che aveva all'alba del 3 settembre: leggins neri, scarpe da ginnastica, una maglietta. Stando ai primi accertamenti, effettuati dai carabinieri delle investigazioni scientifiche, è plausibile che sia stata uccisa proprio nel luogo in cui è stato rinvenuto il cadavere. La zona mercoledì pomeriggio è diventata meta di un vero e proprio pellegrinaggio da parte dei familiari di Noemi, gli amici, tanti curiosi. Nella notte, vicino alla tomba improvvisata sono stati posti lumini e candele.

Le denunce della famiglia. I genitori di Noemi osteggiavano da tempo la relazione della figlia con L.M. Lui era considerato "un poco di buono" come ha riferito la nonna Vincenza Cacciatore, ma la ragazza non voleva ascoltare i consigli di chi le diceva di lasciarlo. Al contrario, più volte la sedicenne si era allontanata da casa insieme al fidanzato e su facebook continuava a pubblicare fotografie e dichiarazioni di amore. Di recente, però, sul social era comparso anche un post che lasciava intravedere un sottofondo di violenza in quella relazione che lei si sforzava di fare apparire normale. "Non è amore se ti picchia" recitava la poesia condivisa da una pagina molto frequentata dalle teen ager. A dimostrazione di una situazione difficile già da mesi ci sono anche le due denunce che la mamma di Noemi, Imma Rizzo, aveva presentato nei confronti del diciassettenne alla Procura dei minori di Lecce. Ne erano nati due procedimenti - uno penale per violenza privata, l'altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui vive il giovane e se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta - ma nessuno dei due ha portato a provvedimenti cautelari. Una cautela che, alla luce di quello che è accaduto, viene letta come una sottovalutazione del problema da parte delle autorità preposte. Anche per questo motivo, il nonno materno Vito Rizzo ha puntato il dito contro chi avrebbe potuto fare qualcosa e non l'ha fatto. "Se fossero intervenuti per tempo non sarebbe successo - ha detto -. Ora ci aspettiamo che la legge faccia ciò che deve". A confermare la natura violenta del rapporto tra i due adolescenti, anche il cugino di Noemi, Davide, che ha raccontato di botte e lividi, spiegando che L.B. "non voleva che lei uscisse con nessuno e manifestava la sua gelosia anche in modo molto forte".

Il lutto. A Specchia, intanto, è stato proclamato il lutto cittadino. Il sindaco Rocco Pagliara ha manifestato la disponibilità dell'amministrazione a sostenere anche economicamente la famiglia Durini in questo momento particolare, mentre il parroco Don Tonino ha invitato la comunità a pregare affinché la famiglia possa trovare conforto nella fede. Mercoledì pomeriggio la casa di Noemi in via Madonna del Passo è stata meta cdi un continuo pellegrinaggio di parenti e amici, considerato che in un paese piccolo come Specchia tutti conoscevano la ragazzina o l'avevano frequentata. La mamma Imma, che ha appreso la notizia del ritrovamento del cadavere mentre stava per lanciare un appello per le ricerche in Prefettura a Lecce, si è sentita male ed è stata sottoposta a trattamenti sedativi. Poi si è rinchiusa in casa, da dove non è mai uscita per tutta la giornata di mercoledì. La sorella 22enne Benedetta, invece, ha fatto la spola con la casa dei parenti in cui è stata ospitata la sorellina di 9 anni, assistita da una psicologa, che ha cercato di evitare l'assalto mediatico, chiedendo rispetto per il dolore della famiglia. Benedetta - che il 28 ottobre dovrebbe laurearsi a Reggio Emilia - martedì ancora manifestava speranza: "Noemi tornerà e festeggeremo insieme", diceva. Ma, appresa la notizia della morte, si è lasciata andare alla rabbia: "Lo sapevate tutti e non avete fatto niente".

SVOLTA DOPO LA SCOMPARSA DELLA STUDENTESSA DI SPECCHIA. Scrive il 13 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Ha rischiato il linciaggio il 17enne reo confesso dell’omicidio della sedicenne Noemi Durini quando, poco fa, è uscito dalla sede della stazione carabinieri di Specchia dove è stato ascoltato per molte ore alla presenza del proprio difensore e del procuratore capo del tribunale dei minori Maria Cristina Rizzo. All’uscita il giovane si è reso protagonista di atteggiamenti irriguardosi e di sfida alzando la mano destra in segno di saluto alla gente che gli fischiava contro e lo apostrofava. «L'ho ammazzata perché premeva per mettere in atto l’uccisione di tutta la mia famiglia": così avrebbe detto agli inquirenti, alla presenza del proprio legale, il 17enne sottoposto da ieri sera a fermo per l’omicidio volontario di Noemi Durini, la sedicenne di Castrignano del Capo il cui cadavere è stato trovato ieri, sepolto dalle pietre, a 11 giorni dalla sua scomparsa. Il ragazzo è stato ascoltato in un lungo interrogatorio terminato nella notte. L’avrebbe uccisa - ha raccontato il 17enne - con lo stesso coltello che Noemi aveva portato con sé. "Ho reagito - questo il racconto di Lucio - di fronte all’ ostinazione di Noemi a voler portare a termine il progetto dello sterminio della mia famiglia». «Ero innamoratissimo di lei": è questa una delle frasi che Lucio, il 17enne omicida reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini avrebbe detto durante l'interrogatorio che si è svolto nella notte, alla presenza del suo difensore, nella stazione dei carabinieri di Specchia. «Dopo lo sterminio della mia famiglia volevamo fuggire a Milano». E’ uno dei passaggi fatti dal 17enne di Alessano reo confesso dell’omicidio della sedicenne di Specchia, Noemi Durini. Nell’interrogatorio che si è concluso nella notte il ragazzo ha raccontato agli investigatori del progetto di sterminio della sua famiglia che Noemi premeva fosse messo in atto per vivere liberamente il loro amore. Subito dopo l’uccisione dei componenti della famiglia di lui, i due - sempre secondo il racconto dell’omicida reo confesso - avrebbero progettato di fuggire a Milano e a prova di quanto da lui detto, il giovane ha affermato agli investigatori che avrebbero potuto trovare sotto il suo letto una lista di numeri di telefono di Milano, numeri di telefono di luoghi dove era possibile poter dormire. 

«Vigile e cosciente della sua posizione». Così il procuratore per i minori di Lecce Maria Cristina Rizzo, presente all’interrogatorio terminato nella notte, ha definito il 17enne reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini.

Noemi Durini era scomparsa da casa il 3 settembre scorso: l’ultima sua immagine è stata catturata da una telecamera di sorveglianza e risale alle 5 del mattino di quel giorno. Si vede una Fiat 500 bianca sulla quale sale e alla cui guida si trova il fidanzato 17enne che oggi, a 11 giorni dalla scomparsa della ragazzina, ha confessato l’omicidio. Nell’immagine si vede l’utilitaria arrivare e fermarsi in via San Nicola, a Specchia, a poche centinaia di metri da casa della giovane. A bordo ci sono i due fidanzati, con il 17enne al volante della vettura intestata alla madre. Agli inquirenti, per giorni, il 17enne, di Alessano, ha raccontato di aver accompagnato la sedicenne nei pressi del campo sportivo di Alessano e di averla lasciata lì. Ma la versione del ragazzo, sin dal primo momento, non ha convinto gli investigatori che hanno concentrato l’attenzione sul 17enne, un ragazzo dalla personalità violenta. E c'è un breve filmato che descrive bene il suo carattere: il 17enne è stato ripreso mentre rompe a colpi di sedia i vetri di una vecchia Nissan Micra parcheggiata per strada ad Alessano. L’auto sarebbe di una persona con la quale il giovane avrebbe avuto un acceso litigio e risalirebbe alla scorsa settimana, pochi giorni dopo la scomparsa di Noemi e poco tempo dopo un alterco avuto con il padre della sedicenne che si era recato ad Alessano per avere informazioni sulla figlia. I famigliari di Noemi avevano un rapporto conflittuale con il 17enne: non volevano che la sedicenne avesse una relazione con lui. Qualche tempo fa la mamma di Noemi aveva segnalato alla magistratura minorile il ragazzo a causa del suo comportamento violento. Per questo motivo erano sorti accesi contrasti tra le due famiglie. A far temere il peggio è stato il fatto che Noemi aveva lasciato a casa il cellulare, i documenti e i soldi. Numerosi gli appelli dei famigliari, soprattutto della nonna e della sorella di Noemi, Benedetta, che il 28 settembre deve laurearsi e che proprio ieri aveva detto ai giornalisti di essere ottimista: 'alla mia laurea - aveva detto - ci sarà anche leì. Invece oggi la confessione del ragazzo.

Il cadavere della sedicenne è stato trovato sotto dei massi, adagiato per terra, in una campagna, a Castrignano del Capo, a 30 chilometri da Specchia, il paese dove viveva la ragazza. A condurre gli investigatori sul posto è stato lo stesso ragazzo che è indagato per omicidio volontario assieme al papà 41enne. Sul luogo del ritrovamento del cadavere ci sono i magistrati della procura ordinaria e di quella dei minorenni che si stanno occupando del caso. I genitori della 16enne hanno appreso della confessione del 17enne mentre erano in prefettura a Lecce dove doveva cominciare una conferenza stampa alla quale dovevano partecipare. La mamma di Noemi è stata colta da malore ed è stato richiesto l’intervento di un’ambulanza. La ragazzina, come confermano i primi esami medico legali, è stata uccisa con una pietra il giorno della sua scomparsa. Per le ricerche di Noemi erano stati utilizzati anche i cani molecolari. Gli investigatori hanno cercato nei casolari abbandonati, negli inghiottitoi, nei pozzi e nelle grotte tra la cittadina in cui viveva la ragazzina, Specchia, il paesino in cui risiede il suo fidanzato 17enne, Alessano, fino al Capo di Leuca. I vigili del fuoco del Saf ieri si sono calati con un’autoscala nelle Vore di Barbarano, una voragine profonda circa 40 metri. Ma della ragazzina nessuna traccia. Da qui la decisione, di accelerare gli accertamenti iscrivendo, stamani, i nomi del 17enne e del padre di quest’ultimo indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere (l'ìnformazione di garanzia è stata notificata nel corso di una perquisizione nella sua abitazione). Il diciassette reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini è in una caserma dei carabinieri dopo aver fatto trovare oggi, nelle campagne di Castrignano del Capo, il cadavere della fidanzata 16enne scomparsa il 3 settembre. Nei suoi confronti sarà emesso un provvedimento cautelare. Sul luogo in cui è stato trovato il corpo sono al lavoro i carabinieri del Ris per i rilievi di rito e i magistrati. La strada che porta al luogo di ritrovamento del cadavere è delimitata da un nastro rosso e nessuno può avvicinarsi. Anche i giornalisti sono tenuti a distanza. Qualche settimana fa il fidanzato 17enne e presunto assassino di Noemi Durini era stato denunciato alla Procura per i minorenni dalla mamma di Noemi, Imma Rizzo, a causa del suo carattere violento. La donna, che temeva per la sorte della figlia che da un anno frequentava il giovane, chiedeva ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e per allontanarlo dalla figlia. Ne erano nati due procedimenti: uno penale per violenza privata, l’altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui vive il giovane e se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta. Procedimenti - a quanto è dato sapere - che non hanno portato ad alcun provvedimento cautelare, come il divieto di avvicinarsi alla sedicenne, ma che sono stati attualizzati dalla Procura per i minorenni solo dopo la denuncia di scomparsa di Noemi. L’unica conseguenza che ha prodotto la denuncia della mamma della 16enne è stato un inasprimento dei rapporti tra le famiglie dei due fidanzati. Il fidanzato e presunto assassino di Noemi «era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava». Lo dice Davide, cugino di Noemi, la sedicenne scomparsa il 3 settembre da Specchia il cui cadavere è stato trovato oggi nelle campagne di Castrignano del Capo dopo la confessione del 17enne. "Noemi, assieme ai genitori, era andata anche in caserma per denunciare le aggressioni subite dal diciassettenne, e aveva ancora i segni della violenza sul volto - racconta il giovane -, ma non è stato fatto nulla».

L’abitazione a Specchia in cui viveva Noemi Durini, la ragazza di 16 anni scomparsa il 3 settembre scorso il cui cadavere è stato trovato oggi dopo che il fidanzato 17 enne ha confessato di averla uccisa, è presidiata a distanza dai carabinieri e da alcuni amici della famiglia. Nessuno dei parenti della ragazza ha voglia di parlare ed è stato chiesto alle forze dell’ordine di evitare riprese per tutelare la privacy. Dal portone di casa di Noemi entrano ed escono parenti e amici della ragazza in un clima di grande tristezza che traspare dai volti della gente. La strada - via Madonna del Passo - è stata parzialmente transennata proprio per rispettare il dolore dei famigliari della ragazza. «Sono sgomento. È una tragedia difficile da metabolizzare": lo ha detto il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, commentando il ritrovamento del cadavere della sedicenne Noemi Durini, il cui omicidio è stato confessato dal fidanzato 17enne. Il primo cittadino poco fa è entrato nell’abitazione in cui la sedicenne uccisa viveva con la sorella Benedetta e la madre, che è separata dal padre, per portare il cordoglio di tutta la comunità locale, ma non ha potuto parlare con la madre della ragazza perché la donna stava riposando, prostrata dal dolore. Il sindaco ha intanto proclamato da subito il lutto cittadino, che ovviamente si protrarrà sino al giorno dei funerali di Noemi. «Ci abbiamo creduto sino alla fine - ha detto ancora il sindaco - abbiamo lavorato dal primo momento sperando nella buona notizia, abbiamo chiesto ai media di tenere i riflettori accesi sulla vicenda. Poi stamani il prefetto ci ha dato la terribile notizia». Il sindaco ha riferito che domani alle 17 incontrerà il parroco di Specchia per concordare iniziative di sostegno alla famiglia di Noemi, mentre il Comune sta pensando di accollarsi le spese del funerale della sedicenne.

«L'ho vista per l’ultima volta il sabato precedente alla scomparsa - dice singhiozzando il nonno, Vito - era tranquilla». L'uomo piange quasi costantemente, cerca di darsi forza appoggiandosi al muro di un’abitazione, a pochi metri da quella della sua nipote, e fuma nervosamente un piccolo sigaro. A chi gli mette una mano sulla spalla per consolarlo, lui risponde: "La forza prima o poi se ne va». Scuote la testa quando gli si dice che la mamma di Noemi aveva denunciato per due volte per violenze il fidanzato di sua nipote. «L'ho visto solo una volta" ricorda, forse pensando se avrebbe mai potuto fermarlo. Un ragazzo che sarebbe stato tradito - contrariamente a quanto si era saputo inizialmente - anche da alcune tracce ematiche trovate nell’auto da lui guidata e lasciate probabilmente dopo il delitto, nonostante una presunta opera di pulizia delle stesse tracce.

Un ragazzo violento. A 17 anni era già in cura al Sert per uso di droghe leggere, aveva subito tre trattamenti sanitari obbligatori in un anno e aveva qualche guaio con la giustizia. Pur non avendo la patente, guidava regolarmente la Fiat 500 della mamma, fatto di cui si vantava con gli amici. Non riusciva a controllarsi, era irascibile con tutti, anche con la sua fidanzata, una studentessa ribelle e innamoratissima di lui, tanto da assecondarlo ogni volta, anche se il ragazzo la picchiava perché geloso e possessivo. E’ questo il ritratto che gli investigatori fanno sulla personalità del fidanzato di Noemi Durini, che oggi ha confessato il delitto della sedicenne scomparsa da Specchia all’alba del 3 settembre. Ciò che descrive meglio la personalità del giovane è un breve video, acquisito dai carabinieri, nel quale il 17enne, la scorsa settimana, è stato ripreso con un cellulare da un automobilista mentre rompe a colpi di sedia i vetri di una vecchia Nissan Micra parcheggiata per strada ad Alessano. L’auto sarebbe di una persona con la quale il giovane avrebbe avuto un acceso litigio pochi giorni dopo la scomparsa della minorenne e poco tempo dopo un alterco avuto con il padre di Noemi che si era recato ad Alessano, città in cui vive la famiglia del 17enne, per avere notizie sulla figlia. Ma c'è di più. Qualche settimana fa il ragazzo era stato denunciato alla Procura per i minorenni dalla mamma di Noemi, Imma Rizzo. La donna chiedeva ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e per allontanarlo dalla figlia, che frequentava con qualche difficoltà l’istituto professionale 'Don Tonino Bellò di Alessano. Il fidanzato «era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava», racconta Davide, cugino della vittima. L'unica conseguenza che ha prodotto la denuncia della mamma della 16enne è stato un inasprimento dei rapporti tra le famiglie dei due fidanzati. Forse a causa delle violenze subite la ragazzina, il 23 agosto, aveva condiviso di Facebook il post di Amor De Lejos, Amor De Pendejos in cui si vede il volto emaciato di una ragazza alla quale la mano di un giovane imbavaglia la bocca. Sul polso del ragazzo c'è un tatuaggio con la scritta 'Love?'. "Non è amore se ti fa male. Non è amore - è scritto - se ti controlla. Non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei. Non è amore, se ti picchia. Non è amore se ti umilia (...). Il nome è abuso. E tu meriti l’amore. Molto amore. C'è vita fuori da una relazione abusiva. Fidati!». Ma Noemi non si è fidata, ha voluto rischiare. All’alba del 3 settembre è uscita da casa per incontrare il fidanzato, forse dopo una telefonata, ed è stata uccisa. E pensare che un mese fa, il 12 agosto, i due avevano festeggiato il loro primo anno di fidanzamento. Noemi aveva scritto su Fb: «E non stupitevi se siamo ancora qua, abbiamo detto per sempre e per sempre sarà!». 

Noemi: dopo ore d’interrogatorio, il fidanzato “saluta” la folla e lascia la caserma. Esplode la rabbia, scrive TRNews il 14 settembre 2017. Pochi minuti dopo la mezzanotte, il fidanzato di Noemi ha lasciato la caserma dei carabinieri di Specchia. Fuori, ad attenderlo, diversi cittadini pieni di rabbia e rancore. Inutile commentare le urla e le parole di disprezzo contro il ragazzino, che proprio nella tarda mattinata di mercoledì 13 settembre ha confessato l’omicidio della 16enne, indicando agli inquirenti il luogo in cui si è verificata la tragedia e dove nelle scorse ore è stato recuperato il cadavere: all’interno di una campagna di Castrignano del Capo, in una fossa ricoperta da sassi, a ridosso di un muretto. I carabinieri hanno cercato di calmare i cittadini, chiamando anche alcuni rinforzi davanti all’ingresso. Poi, dieci minuti dopo la mezzanotte si è aperta la porta e lui, con una felpa bianca e cappuccio, “ha salutato”, ha sorriso alla folla e subito dopo è salito in fretta e furia sull’auto della pattuglia, tra le urla di disprezzo e rabbia di un’intera comunità che ora chiede solo giustizia.

La 16enne ammazzata a colpi di pietra. Il procuratore: “lui aveva problemi psichici”, scrive TrNews il 13 settembre 2017. Un cumulo di pietre, ai piedi di un muretto a secco, è stata la tomba di Noemi per dieci giorni. Il suo corpo è stato portato via da pochi minuti, intorno alle 17, dopo ore estenuanti per poter tirarlo via e ricomporlo degnamente, prima di trasferirlo nella camera mortuaria del Vito Fazzi per l’autopsia. Sul posto, in un oliveto a due passi dal mare di Leuca, resta lo sgomento. La Scientifica ha effettuato i rilievi, ma la calca è tanta e oltre ai giornalisti ci sono tanti, troppi curiosi. Quel che appare certo è che la 16enne di Specchia sia stata uccisa qui, a colpi di pietra, e trascinata sotto al muro, coperta da vari massi. Era visibile solo il suo piede. Lo stato in cui il cadavere è stato ritrovato è compatibile con un decesso avvenuto dieci giorni fa. Il luogo è stato indicato dallo stesso fidanzato, durante la confessione resa ai carabinieri. Non si conosce ancora il movente, probabilmente gelosia, non si sa se all’alba di quella domenica 3 settembre, dopo averla presa da casa con la 500 bianca, lui – che da minorenne non poteva neppure guidare – l’abbia portata qui per cercare un po’ di intimità o per provare ad avere un chiarimento o se fosse già nelle sue intenzioni scegliere questo luogo per arrivare al peggio. Se sia stato un delitto premeditato o d’impeto saranno le indagini a dirlo. Ma è sicuro che il fidanzato di Noemi dei problemi li aveva già. “Problemi psichici documentati”, come ribadito dal procuratore capo Leonardo Leone De Castris, sul posto assieme alla dottoressa Maria Cristina Rizzo della Procura dei Minori. Il dolore è tanto. Nei campi arriva anche il sindaco di Castrignano del Capo, Santo Papa, commosso ed esterefatto: “sono qui per portare la mia solidarietà alla famiglia e alla comunità di Specchia”, dice. Il cerchio si era stretto sin da subito attorno al 17enne di Montesardo. Il pressing di questi giorni lo ha portato a confessare un delitto in cui nessuno, inizialmente, pensava si potesse tramutare l’ipotesi di una fuitina tra fidanzati.

Noemi, il giorno più buio. Il fidanzato confessa: “L’ho uccisa io”, scrive il 13 settembre 2017 TRNews".  “Mi dispiace comunicarvi una triste notizia: è stato trovato il corpo senza vita di Noemi”. Con queste parole ha inizio una terribile giornata, quella che nessuno avrebbe mai voluto vivere. A pochi minuti dalla notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati del fidanzato di Noemi, con l’accusa di omicidio volontario, ecco giungere la sua confessione del luogo in cui era stata uccisa e sepolta. Una confessione che ha fatto saltare anche la conferenza stampa con la famiglia e che ha fatto calare un triste sipario, dopo 10 giorni di ansia e attesa. Inutile commentare il malore della mamma di Noemi dopo aver appreso la notizia, che ha portato in una folle corsa sul luogo del ritrovamento: a Castrignano del Capo, in una campagna, in località San Giuseppe. Sul posto vigili del fuoco, 118, protezione civile, i Ris, i Saf, mentre a pochi passi tantissima gente, amici e parenti si sono radunati tra abbracci, lacrime e tanta rabbia. Alle 17.00 le nostre telecamere sono riuscite ad avvicinarsi sul posto dove Noemi è stata uccisa e poi sepolta in una fossa, coperta da pietre, a ridosso di un muretto a secco. La morte risalirebbe al giorno stesso in cui la ragazza è scomparsa da Specchia: domenica 3 settembre. Poco dopo, in un rispettoso silenzio, il corpo della 16enne è stato prelevato e portato via su un carro funebre a margine di una giornata ancora piena di punti interrogativi e con un’unica certezza: Noemi non c’è più.

Il 17enne in caserma per tutto il giorno, indagato anche il padre, scrive il 13 settembre 2017 "TrNews". Il fidanzato di Noemi è stato trattenuto in caserma, a Specchia, per tutto il giorno, dopo la confessione che ha permesso ai carabinieri della locale stazione di ritrovare il corpo. È indagato per omicidio volontario e occultamento di cadavere. E un avviso di garanzia per sequestro di persona e occultamento di cadavere è stato notificato anche al papà del 17enne assassino reo confesso. L’atto, dovuto, gli è stato notificato in occasione della perquisizione nell’abitazione di famiglia a Montesardo, frazione di Alessano. Stamattina, invece, si era invece appreso che il papà del 17enne era sottoposto ad indagini per omicidio volontario in concorso con il figlio. Qualche settimana fa, il 17enne era stato denunciato alla Procura per i minorenni dalla mamma della vittima, Imma Rizzo, a causa del suo carattere violento. La donna chiedeva ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e per allontanarlo dalla figlia. Da lì sono scaturiti due procedimenti: uno penale per violenza privata, l’altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui vive il giovane e se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta. Procedimenti – a quanto è dato sapere – che non hanno portato ad alcun provvedimento cautelare, come il divieto di avvicinarsi alla sedicenne, ma che sono stati attualizzati dalla Procura per i minorenni solo dopo la denuncia di scomparsa di Noemi. L’unica conseguenza che ha prodotto la denuncia della mamma della 16enne è stato un inasprimento dei rapporti tra le famiglie dei due fidanzati.

Lo strazio della mamma di Noemi, lapidata a 16 anni dal fidanzato. «Hanno portato via la mia pazzarella», scrive Francesco Sozzo, Giovedì 14 Settembre 2017, su “Il Mattino”. «Hanno ritrovato Noemi. Morta». Imma non regge. Grida e crolla in uno dei saloni della Prefettura di Lecce, mentre aspettava di partecipare ad una conferenza stampa convocata dalla famiglia e dal legale, Mario Blandolino per fare l'ennesimo appello alla figlia. Ma era morta. «Lo sapevate, lo sapevate tutti che lui l'aveva ammazzata». Non si dà pace mamma Imma Rizzo. Aveva provato in ogni modo a convincere sua figlia Noemi,16 anni, che era meglio lasciarlo perdere quel ragazzino che l'amava in maniera così morbosa. Che non voleva uscisse con altri, che frequentasse gli amici, soprattutto che la picchiava. Perché mamma Imma prima dell'estate aveva provato anche a denunciarlo L.M., il fidanzatino-assassino. Ma senza risultati. La pazzareddha de casa, la chiamava mamma Imma, ovvero la pazzerella di casa. Purtroppo non ha potuto mandare il messaggio alla sua figlia. In tarda mattinata la Procura ha avvisato il prefetto Claudio Palomba: il fidanzato della giovane ha confessato. L'ha uccisa lui. E ha fatto trovare il corpo. Era in Prefettura mamma Imma, insieme con la sorella maggiore di Noemi, Benedetta, quando ha saputo che non c'era più nulla da fare. Da lì a poco l'arrivo, a sirene spiegate, di un'ambulanza nel cortile della Prefettura. Imma non ha retto alla notizia. «Ha avuto una forte reazione emotiva», si è limitato a dire il prefetto di Lecce. Al riparo dei fotografi, in uno dei saloni della Prefettura, Imma si è disperata, ce l'aveva con tutto il mondo, con la famiglia del fidanzato, con lo stesso ragazzo. Non si dava pace, diceva che forse si sarebbe dovuti intervenire prima. «Se l'avessimo cercata prima...», continuava a dire. A gridare la rabbia, furibonda, incontenibile, invece è stata la cugina di Noemi, Alma Morciano. Arrivata sul posto, in mezzo a centinaia di curiosi che pian piano hanno intasato la provinciale, Alma ha urlato: «Lo sapevate tutti». A fermarla il padre, che l'ha abbracciata stretta, quasi per non farla muovere, per cercare di calmarla. Ma Alma non si è data pace: «Vi ammazzo tutti», ha gridato piangendo. Intanto a Specchia la protezione civile e i carabinieri hanno provveduto a limitare l'accesso alla gente in via Madonna del Passo dove vivono la mamma, la sorella e i nonni di Noemi. In strada, appoggiato ad un muro, jeans e camicia a quadri, c'è nonno Vito. Capelli bianchi, occhi azzurri, viso rigato dal sole e dalle lacrime: «Chi è stato a compiere tutto questo è un bastardo e un animale che non capisce niente». Imma non nascondeva la sua contrarietà alla relazione che Noemi aveva con il 17enne di Montesardo. In cuor suo sperava che la storia finisse. Da mamma sapeva che quello non poteva essere amore. Era una relazione malata dalla quale non è riuscita a difendere la figlia Immediato l'intervento dei medici del 118, arrivati in Prefettura per assisterla. Imma è in casa con il suo dolore e con quella speranza ormai infranta. Aveva lottato, era convinta di poter ritrovare Noemi sana e salva. Invece così non è stato. A portargliela via, quell'amore adolescenziale troppo malato.

Noemi poteva essere ancora viva, il ragazzo poteva essere fermato prima, scrive il 14 settembre 2017 "La voce di Venezia". Noemi potrebbe essere oggi ancora viva, se “Qualcuno avesse fatto qualcosa”. Questa la sensazione che trapela dal dolore il giorno dopo la scoperta della tragedia. La casa di Noemi, alla fine di un vicolo che porta al numero 73 di via Madonna del Passo, nel borgo antico di Specchia, è presidiata a distanza dai carabinieri. Niente telecamere, accesso consentito solo a parenti e amici della sedicenne uccisa dal fidanzato 17enne la cui relazione era mal vista dalla famiglia della ragazza, tanto che la madre di lei aveva denunciato per due volte il ragazzo accusandolo di picchiare la sedicenne. Noemi ha vissuto qui fino al 3 settembre scorso, giorno della sua scomparsa e probabilmente della sua morte, viveva con la madre, Imma Rizzo, con la sorella maggiore Benedetta, prossima laureanda, e la sorellina di 9 anni. “L’ho vista per l’ultima volta il sabato precedente alla scomparsa – dice singhiozzando il nonno, Vito – era tranquilla”. L’uomo piange quasi costantemente, cerca di darsi forza appoggiandosi al muro di un’abitazione, a pochi metri da quella della sua nipote, e fuma nervosamente un piccolo sigaro. A chi gli mette una mano sulla spalla per consolarlo, lui risponde: “La forza prima o poi se ne va”. Scuote la testa quando gli si dice che la mamma di Noemi aveva denunciato per due volte per violenze il fidanzato di sua nipote. “L’ho visto solo una volta” ricorda, forse pensando se avrebbe mai potuto fermarlo. Un ragazzo che sarebbe stato ‘tradito’ – contrariamente a quanto si era saputo inizialmente – anche da alcune tracce di sangue trovate nell’auto da lui guidata e lasciate probabilmente dopo il delitto, nonostante una presunta opera di ‘pulizia’ delle stesse tracce. In via Madonna del Passo, transennata per 200 metri per rispettare il dolore della famiglia di Noemi, oggi si parlava a bassa voce, si camminava a testa bassa e c’era chi, passando a piedi, rivolgeva uno sguardo furtivo a quel vicolo, ma probabilmente avrebbe voluto abbracciare chi sta vivendo momenti terribili dietro quelle mura. “Sono sgomento, è una tragedia difficile da metabolizzare” dice il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, pensando a come improvvisamente il suo paese di sole cinquemila anime sia finito sotto i riflettori. Pagliara è appena uscito da casa di Noemi, ma non ha potuto parlare con la madre della ragazza. In quei frangenti stava riposando, spiega, la donna è distrutta dal dolore. “Ci abbiamo creduto fino all’ultimo di trovarla viva – ripete – abbiamo cercato subito di far coordinare le ricerche e chiesto ai media di non spegnere mai i riflettori sulla scomparsa di Noemi. Poi stamani il prefetto ci ha dato la notizia che non avremmo mai voluto sentire ed è crollato tutto”. Il fidanzato e presunto assassino di Noemi “era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava”, racconta Davide, cugino della sedicenne. “Noemi, assieme ai genitori, – continua il ragazzo – era andata anche in caserma per denunciare le aggressioni subite dal diciassettenne, e aveva ancora i segni della violenza sul volto – racconta il giovane -, ma non è stato fatto nulla”. A Specchia già da oggi è stato proclamato il lutto cittadino, che proseguirà fino al giorno dei funerali di Noemi, di cui il Comune dovrebbe accollarsi l’onere. Domani il sindaco incontrerà il parroco del paese per concordare iniziative concrete dell’intera comunità locale a sostegno della famiglia della ragazza. Specchia non vuole dimenticare, ma ripartire da una tragedia senza precedenti. Noemi Durini, ira dei familiari: autorità sapevano ma non hanno fatto niente.

Nonostante la denuncia per violenze della madre della 16enne uccisa, la Procura dei minori non ha mai emesso misure cautelari nei confronti del fidanzato reo confesso, scrive Tgcom il 14 settembre 2017. "Tutti sapevano e nessuno ha fatto niente". E' l'urlo lanciato, in prefettura a Lecce, dalla sorella maggiore di Noemi Durini dopo la confessione del fidanzato killer. E ora ci si chiede come mai le autorità non siano intervenute prima allontanando il 17enne quando era ancora possibile. Era risaputo che il giovane avesse comportamenti violenti nei confronti della ragazza. Le violenze erano state denunciate dalla madre di Noemi alla Procura dei minori. Ne erano nati due procedimenti: uno penale per violenza privata, l'altro, civile, per verificare il contesto familiare. Ma, nonostante questo, nessun divieto di avvicinamento era stato attivato dalla Procura dei minori che ha attualizzato il provvedimento cautelare solo dopo la denuncia della scomparsa. La rabbia della famiglia - "La picchiava. Era possessivo e geloso, non voleva che mia cugina vedesse altre persone, la picchiava", afferma il cugino della vittima. "Noemi, assieme ai genitori, era andata anche in caserma per denunciare le aggressioni subite e aveva ancora i segni della violenza sul volto – racconta il giovane – ma non è stato fatto nulla". "Bisognava intervenire, allontanarlo prima e affidarlo a una casa di cura ma la legge comanda, fa quello che vuole", ha detto da parte sua il nonno.

La tragedia di Noemi, le denunce nel vuoto e un ragazzo-uomo sbagliato, scrive il 13 Settembre 2017 "Piazza Salento". Il ragazzo era stato soggetto a diversi trattamenti sanitari obbligatori; era stato denunciato dalla madre di lei per gli atteggiamenti violenti e con la richiesta di allontanarlo; si erano avviati due procedimenti, uno penale per violenza privata, l’altro civile per vedere se ci fossero programmi o interventi per curare l’indole del 17enne L.M.. Niente. Non era accaduto niente, nessun provvedimento cautelare a difesa di Noemi Durini, visti anche i rapporti di carabinieri e servizi sociali sulla situazione. Solo alla notizia della scomparsa della ragazza, La Procura per i minori aveva preso in mano il fascicolo. L’unica conseguenza pratica alla denuncia di Emma Rizzo era stato un inasprimento dei rapporti, già molto tesi, tra le due famiglie. Quella del 17enne non vedeva di buon occhio quel rapporto con una 16enne giudicata troppo indipendente e libera; quella della 16enne messa in guardia tra l’altro dai segni delle violenze subite dalla propria congiunta. Come faceva un 17enne a guidare la macchina in un paese in cui tutti si conoscono e sanno che non aveva l’età? L’aveva presa di nascosto dalla madre, come nell’alba del 3 settembre, per l’ultimo definitivo viaggio con lei? Noemi esce di casa alla chiamata giunta al cellulare, esce senza portare niente con sé, evidentemente convinta di dover sostenere l’ennesimo litigio – forse perché non aveva voluto uscire in quel sabato – e poi di poter tornare in casa. Tra i due le grandini di foto da innamorati folli si susseguono ad abissi di divieti e scontri. Lei si va convincendo, sostenta dalle amiche del cuore, che non si può andare avanti così. Il 12 agosto su Facebook pubblica risvolti drammatici di questa relazione: “Non è amore se ti fa male, se ti controlla, se ti picchia, se ti umilia, se si fa paura, se ti proibisce di indossare i vestiti che ti piacciono, se ti impedisce di studiare o di lavorare, se ti tradisce, se ti fa sentire piccola, stupida, pazza…”.  Se ne sta convincendo ma non è ancora pronta a troncare. I suoi familiari lo vorrebbero. Quando scoprono il letto vuoto la mattina di domenica sanno già cosa pensare. Quando il padre si reca ad Alessano per incontrare il giovane e chiedere notizie l’alterco è dietro l’angolo ed infatti scoppia. Uno dei tanti degli ultimi mesi. Ma ormai poco importa quanto poteva succedere – se magari ci fossero state risposte più tempestive da parte delle autorità chiamate in causa – e non è stato. “La legge…la legge fa quello che vuole, dice quello che vuole …” commenta amaro il nonno di Noemi in una dichiarazione a Telenorba. Certo non gli interessa che adesso siano arrivati tre magistrati (il Procuratore capo, il magistrato della Procura ordinaria e quello dei Minori). Però spera nella giustizia: “Il lavoro non lo ha fatto da solo”, ripete convinto. Il riferimento logico sembra essere al padre di lui, sotto inchiesta per il momento. Quel corpo trasportato in una stradina che collega Castrignano del Capo a Leuca e poi nascosto alla meglio sotto un cumulo di pietre potrebbe aver richiesto l’aiuto di qualcuno per arrivare lì dove lo hanno trovato. “C’è chi nasce e chi muore, io da morto sono rinato” ha scritto pochi giorni fa nella rete social il giovane. E ancora. “Ho smesso di affezionarmi alle persone, tanto o ti lasciano o ti tradiscono”.  A seguire un grande adesivo al gruppo Truceklan, rapper romani particolarmente violenti. Non stava bene l’omicida e non da ora. E non solo perché pensava di essere il padrone di una donna. Omicidio volontario e occultamento di cadavere sono i reati di cui dovrà rispondere, lui che voleva entrare nel mondo dei grandi dalla parte più sbagliata. “Ora che so per certo che quello che ho visto e pensato è la causa di tutto questo – scrive una amica della vittima – non posso far altro che ricordare i momenti trascorsi con te… quando mi chiamavi e mi chiedevi aiuto, ti vedevo distrutta, ti dicevo di lasciarlo… ma non ne hai avuto modo”. Il luogo dove ha giaciuto per dieci giorni Noemi adesso ha qualche cero e mazzi di fiori. Una cosa normale, in questi casi, per una vita che ha preso alla fine un’altra strada.

Quell’amore controverso e i retroscena su fb. Il padre di lui: “un cancro”, scrive il 13 settembre 2017 Trnews. Se di amore si può parlare, quello tra Noemi Durini e Lucio di sano sembra proprio non aver avuto nulla. Un rapporto che non poteva certamente godere della benedizione della famiglia di lei, che più volte aveva visto rientrare a casa la figlia con segni di violenza sul corpo, stando alla denuncia sporta dalla madre. Ma i retroscena viaggiano in rete, e riguardano anche il padre di lui: lo scorso 11 agosto Noemi aggiorna lo stato sentimentale sul suo profilo fb da “single” in “fidanzata ufficialmente”. Il padre di Lucio è il primo a commentare: “un cancro” scrive. A tenere in vita in legame dunque, tra un tira e molla e l’altro, erano solo i due giovani protagonisti di una storia che è culminata in tragedia. Lo scorso 12 agosto Noemi pubblica sul suo profilo un photo collage di lei e Lucio insieme in più occasioni: si abbracciano, si baciano, sorridono all’obiettivo. “E non stupitevi se siamo ancora qui -scrive Noemi- abbiamo detto per sempre, e per sempre sarà”. Lei che il suo Lucio “non lo avrebbe dato neanche se lo avesse avuto doppio” così come scrive in uno dei tanti post dedicati a lui. Il “per sempre” però non manca neanche nei post di lui: “andiamo via” cita la sua immagine di copertina, e poi “ho bisogno di te” scrive. Ma in quelle stesse pagine tante ombre: Noemi, più volte, condivide post e citazioni sull’amore violento, “quello che lascia lividi e cicatrici e che in realtà amore non è”. Intanto lui racconta, sempre a mezzo post, di quella fiducia persa nelle persone: “ho smesso di affezionarmi -scrive lo scorso 9 agosto- tanto o ti abbandonano o ti tradiscono”. I due profili, poco dopo la confessione e il ritrovamento del cadavere di Noemi, si trasformano nuovamente: il sole e la luna. Sulla bacheca fb di lei tantissime le immagini e le dediche. Amici, compaesani, compagni di scuola: “ti ricorderemo così: felice spensierata -scrivono- un angelo strappato via troppo presto dalla violenza, rifugio degli incapaci”. Sulla bacheca di lui, invece, va in scena il linciaggio di chi ancora non si spiega come abbia potuto un 17enne uccidere e tacere tanto a lungo proprio lei, Noemi, che per lui la vita l’avrebbe data, ma certamente non così. E.Fio

Chi l’ha visto, i genitori del fidanzato di Noemi Durini scoprono in tv che il figlio ha confessato. Una delle scene più brutali della tv italiana: Chi l'ha visto? ha mandato in onda l'intervista in cui il padre di Lucio, Biagio Marzo, faceva pesanti insinuazioni nei confronti di Noemi Durini e la dipingeva come una poco di buono. Poi la notizia, scrive "Next Quotidiano" giovedì 14 settembre. Ieri a Chi l’ha visto è andata in onda una delle scene più brutali della storia della televisione italiana. I genitori del fidanzato di Noemi Durini, che ieri ha confessato di aver ucciso la fidanzata 16enne e di aver nascosto il cadavere, sono stati intervistati da Paola Grauso mentre il figlio si trovava alla stazione dei carabinieri di Specchia. I due erano ignari di quanto stesse succedendo e hanno appreso dalla giornalista che il figlio aveva confessato. Chi l’ha visto? ha mandato in onda l’intervista in cui il padre Biagio faceva pesanti insinuazioni nei confronti di Noemi Durini e la dipingeva come una poco di buono, seguita dalla reazione dei due alla notizia della confessione del figlio. Al padre del ragazzo ieri sera è stato consegnato un avviso di garanzia per sequestro di persona e occultamento di cadavere. L’atto è stato notificato all’indagato in occasione della perquisizione in corso nell’abitazione di famiglia a Montesardo, frazione di Alessano. Stamani si era invece appreso che il papà del 17enne era sottoposto ad indagini per omicidio volontario in concorso con il figlio. Ma è quello che si è visto e sentito nell’intervista di Chi l’ha visto ad aver shockato di più. Nell’intervista il padre Biagio ha infatti raccontato di un rapporto difficile tra i due ragazzi ma ha anche detto, tra l’altro in un italiano perfetto e senza usare nemmeno una parola di dialetto, che la ragazza era “esperta”, volendo alludere che lei ha in qualche modo circuito il figlio; ha anche raccontato un episodio – del quale non si era fatto parola prima – che riguardava Noemi, la quale si sarebbe nascosta in un armadio di casa loro per non farsi vedere dai genitori di notte per poi andare nella camera del figlio. Il padre ha anche offerto una spiegazione per il video, pubblicato ieri proprio da Chi l’ha visto?, in cui si vede il ragazzo ora accusato di omicidio mentre rompe i vetri di un’automobile parcheggiata con una sedia. Secondo Biagio il figlio sarebbe andato ad un appuntamento con il padre di Noemi e altri parenti della ragazza che lo avrebbero aggredito, poi ha chiamato i carabinieri per denunciare l’aggressione e ha spaccato i vetri dell’automobile per non consentire ai proprietari di andarsene con l’auto in attesa dei carabinieri. L’auto, ha sempre detto il padre del ragazzo, non era assicurata e per questo è stata sequestrata. Il padre ha anche detto che il figlio è stato sottoposto a tre trattamenti sanitari obbligatori a causa di Noemi (in realtà i TSO sono stati fatti per abuso di sostanze stupefacenti). E che la ragazza aveva sobillato il ragazzo ad uccidere i genitori, pagando anche un tossicodipendente per portare a termine un misterioso “accordo” per farli fuori. Proprio mentre raccontavano queste storie, Paola Grauso li ha informati che la ragazza era stata ritrovata, senza specificare se viva o morta. Quando lo ha detto, i due genitori si sono lasciati andare a grida d’esultanza: poi la giornalista ha aggiunto che la ragazza era morta e che il figlio ha confessato e i due genitori si sono lasciati andare a gesti e urla di disperazione. Il servizio si è concluso con la madre del ragazzo che ha urlato: “Siamo morti adesso. Morti”. Ieri intanto il giovane ha rischiato il linciaggio mentre usciva dalla sede della stazione carabinieri di Specchia dove è stato ascoltato per molte ore alla presenza del proprio difensore e del procuratore capo del tribunale dei minori Maria Cristina Rizzo. All’uscita, racconta l’ANSA, il giovane si è reso protagonista di atteggiamenti irriguardosi e di sfida alzando la mano destra in segno di saluto alla gente che gli fischiava contro e lo apostrofava. Ad attenderlo c’erano oltre un migliaio di persone, soprattutto giovani, che si erano radunate in via Giovanni XXIII, dove ha sede la stazione dei carabinieri. Il 17enne, nei confronti del quale da oggi c’è un provvedimento di fermo del pm con l’accusa di omicidio volontario, col cappuccio della felpa sulla testa, ha sorriso, sfidando la gente e provocando la reazione dei presenti che hanno tentato di raggiungerlo e di aggredirlo nonostante il cordone di sicurezza dei carabinieri. Il giovane è stato fatto salire a fatica su un mezzo dei carabinieri ed è stato poi condotto presso la compagnia dei carabinieri di Tricase in attesa di essere portato in carcere.

Omicidio Noemi: una veggente l'aveva ''vista'' in una casetta di pietre. La sconcertante storia rivelata alla giornalista del TgNorba, scrive il 13 settembre 2017 Telenorbaonline. Nella drammatica vicenda di Noemi Durini, la ragazza di 16 anni trovata uccisa stamani nelle campagne di Castrignano del Capo, c’è spazio anche per una storia inquietante che riguarda una medium di Casarano. Nei giorni scorsi, infatti, un’amica della famiglia Noemi che si era rivolta a una veggente per chiedere che l’aiutasse a ritrovare la ragazza di Specchia scomparsa dal 3 settembre scorso. Ecco cosa scrive la veggente in un sms: "Vedo Noemi, la vedo in una casetta di pietre, in campagna e io la vedo arrabbiata. La vedo con due persone". E poi in un successivo messaggio ha scritto: “Non la vedo più”. Il messaggio della veggente, con la data, è stato mostrato dalla donna che lo ha ricevuto alla giornalista del TgNorba Stefania Congedo. Il messaggio era stato consegnato anche ai carabinieri.

Omicidio di Noemi, chi è il "fidanzatino" killer. Ecco come si giustifica il diciassettenne che ha ucciso la ragazza: "L'ho ammazzata perché premeva per sterminare la mia famiglia", scrive il 14 settembre 2017 Panorama. A 17 anni un ragazzo dovrebbe guardare al futuro mosso da grandiosi progetti. Ma i progetti che aveva il "fidanzatino" killer che ha ucciso la sua ragazza sedicenne, Noemi Durini, erano progetti di violenza e morte. Reo confesso, nella notte tra il 13 e il 14 settembre è stato interrogato nella stazione dei carabinieri di Specchia (Lecce), alla presenza del difensore. Dopo aver cambiato versione più volte, ha sostenuto di aver ucciso Noemi perché la giovane voleva portar avanti il piano - ordito insieme - di uccidere la famiglia di lui, che avrebbe osteggiato il loro rapporto. Ecco i dettagli.

Come si giustifica il diciassettenne: "Ero innamoratissimo di lei", ha detto L., il 17enne omicida, originario di Alessano (Lc). "L'ho ammazzata perché premeva per mettere in atto l'uccisione di tutta la mia famiglia": così avrebbe spiegato agli inquirenti. Il minorenne è sottoposto a fermo per l'omicidio volontario di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia il cui cadavere è stato trovato il 13 settembre, sepolto dalle pietre nella campagna di Castrignano del Capo, a 11 giorni dalla sua scomparsa, dopo che il giovane ha indicato agli investigatori il luogo dove cercare. "L'ho uccisa con un coltello che Noemi aveva con sé quando è uscita dalla sua abitazione", ha detto ancora, per cercare di avallare la sua versione dei fatti: un progetto di sterminio della famiglia di lui che Noemi premeva fosse messo in atto per vivere liberamente il loro amore. "Dopo lo sterminio della mia famiglia volevamo fuggire a Milano". Subito dopo l'uccisione dei componenti della famiglia di lui, i due - sempre secondo il racconto dell'omicida reo confesso - avrebbero progettato di fuggire a Milano e, a prova di quanto da lui detto, il giovane ha raccontato agli investigatori che avrebbero potuto trovare sotto il suo letto una lista di numeri di telefono di Milano, numeri di telefono di luoghi dove era possibile poter dormire. L. avrebbe quindi ucciso Noemi con lo stesso coltello che lei aveva portato con sé: "Ho reagito di fronte all'ostinazione di Noemi a voler portare a termine il progetto dello sterminio della mia famiglia". Il procuratore per i minori di Lecce Maria Cristina Rizzo, presente all'interrogatorio, ha definito il diciassettenne "vigile e cosciente della sua posizione". L. è stato trasferito in una casa protetta.

Ecco perché il "fidanzatino" ha confessato. Il "fidanzatino" di Noemi, scomparsa il 3 settembre scorso, è stato subito sospettato. A inchiodare il giovane una telecamera di sicurezza di Specchia che aveva inquadrato Noemi la mattina del 3 settembre, attorno alle 5, presumibilmente dopo essere uscita dalla sua abitazione: dopo aver percorso alcune decine di metri, era salita a bordo della Fiat 500 intestata alla madre del diciassettenne ma che proprio il minorenne guidava (pur non avendo la patente, la guidava regolarmente, fatto di cui si vantava con gli amici). Da quel momento di Noemi, che aveva lasciato a casa soldi, cellulare e documenti, si era persa ogni traccia. L. inizialmente ha a lungo sostenuto di aver accompagnato Noemi nei pressi del campo sportivo di Specchia e di averla lasciata lì. Sono state delle piccole tracce ematiche, trovate nell'auto utilizzata per allontanarsi da casa di Noemi, a far crollare il giovane. Si tratta di tracce molto piccole perché il ragazzo avrebbe pulito per bene tutto. Nella prima ispezione cadaverica, il medico legale Roberto Vaglio ha rilevato la presenza di alcune lesioni sul collo di Noemi. L'esame autoptico dovrà stabilire se quelle lesioni siano state provocate con un'arma da taglio oppure dall'azione di larve durante gli 11 giorni in cui il corpo della vittima è rimasto seppellito.

Un ragazzo dall'indole violenta. L. è descritto come un ragazzo dall'indole aggressiva. Proprio la mamma di Noemi Durini lo aveva denunciato alla Procura per i minorenni, a causa del suo carattere violento. La donna, che temeva per la sorte della figlia che da un anno frequentava il giovane, chiedeva ai magistrati di intervenire per far cessare il comportamento violento del ragazzo e per allontanarlo dalla figlia. Ne erano nati due procedimenti: uno penale per violenza privata, l'altro, civile, per verificare il contesto familiare in cui vive il giovane e se fossero in atto azioni o provvedimenti per porre fine alla sua indole violenta. L'unica conseguenza che ha prodotto la denuncia è stato un inasprimento dei rapporti tra le famiglie dei due fidanzati. "Era possessivo e geloso, non voleva che Noemi vedesse altre persone, la picchiava", racconta il cugino della vittima. Gli inquirenti lo ritraggono come un ragazzo che non riusciva a controllarsi, era irascibile con tutti, anche con la sua fidanzata, una studentessa ribelle e innamoratissima di lui, tanto da assecondarlo ogni volta, anche se il ragazzo la picchiava per gelosia. A conferma di questo ritratto c'è un breve video in cui L. è stato ripreso, la scorsa settimana, mentre rompe a colpi di sedia i vetri di una Nissan Micra parcheggiata per strada ad Alessano. L'auto apparterrebbe a una persona con la quale il giovane avrebbe avuto un acceso litigio proprio sulla sorte di Noemi. 

Il sindaco di Specchia: ''Il fidanzato di Noemi già segnalato ai carabinieri". L'amministrazione comunale si farà carico delle spese del funerale, scrive il 13 settembre 2017 Telenorbaonline. "Nei giorni scorsi avevamo avuto notizie sul fatto che il fidanzato di Noemi fosse violento e su presunte percosse subite dalla ragazza, fatti che non sono normali, ma che evidentemente da parte dei genitori e anche delle istituzioni sono stati sottovalutati". E' duro il monito del sindaco di Specchia (Lecce), Rocco Pagliara, a poche ore dal ritrovamento del cadavere di Noemi Durini. La notizia della morte di Noemi ha provocato profonda commozione a Specchia, il piccolo centro del Capo di Leuca dove la ragazza viveva insieme alla madre. Il sindaco spiega che "c'era stata una denuncia da parte dei carabinieri di Alessano arrivata al Tribunale dei Minorenni". E aggiunge: "La mamma, o forse gli stessi carabinieri, d'ufficio, avevano attivato una procedura di segnalazione, come magari ce ne sono a centinaia. Non so se ciò abbia scatenato ancora di più questa violenza, ma fatto sta che, come la madre e la nonna di Noemi mi hanno raccontato, la ragazza era stata invitata a lasciare il fidanzato. Che io sappia la segnalazione stava facendo il percorso per arrivare a qualcosa di più, ma purtroppo non c'è stato il tempo di portare a termine il procedimento". Rocco Pagliara, che nel pomeriggio, ha riunito la sua giunta per dichiarare il lutto cittadino e per adottare misure di sostegno alla famiglia, aggiunge: "Pensiamo di accollarci le spese dei funerali e di coordinare tutti gli aiuti che, spontaneamente, i miei concittadini vogliono indirizzare ai familiari della ragazza".

Omicidio Noemi, il vescovo: ''Tragedia oltre la nostra comprensione'', scrive il 13 settembre 2017 Telenorbaonline. "Noemi era una ragazza che cercava di vivere in maniera solare, aperta alla vita e all'amore". Così Imma, la madre di Noemi Durini, ha descritto al vescovo di Ugento, don Vito Angiulli, la figlia uccisa dal fidanzatino. Il prelato ha fatto visita questa mattina ai familiari della ragazza chiusi nella loro abitazione di Specchia. "Questi avvenimenti così tragici - ha detto il prelato dopo l'incontro - vanno oltre la nostra capacità' di comprensione". Imma, la mamma di Noemi - ha riferito mons. Angiuli - è estremamente provata ma sta trovando conforto nella fede e nella preghiera”. "Ci sono due ragazzi coinvolti in una vicenda veramente triste, che affidiamo alla misericordia di Dio", ha aggiunto ribadendo di non voler esprimere giudizi e di non volere entrare in dinamiche che sarà la magistratura a dover appurare.

Noemi, Tribunale aveva deciso di affidarla ai servizi sociali. 17enne: meglio se mi uccidevo. Ha rischiato il linciaggio il 17enne reo confesso dell’omicidio della sedicenne Noemi Durini quando è uscito dalla sede della stazione carabinieri di Specchia, scrive il 14 Settembre 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno". «Voleva che ammazzassi la mia famiglia. L’ho uccisa per questo». Scarica le colpe su Noemi, il suo presunto assassino; tira in ballo chi non può più difendersi, il fidanzato diciassette, dopo averla uccisa e abbandonata sotto un mucchio di pietre al bordo della strada: «quello che ho fatto è stato per l’amore che provo per voi. Noemi voleva che io vi uccidessi per potere avermi con sé». Ci sono ancora tanti punti da chiarire nell’ennesima triste storia della provincia italiana più profonda, in cui la ragazzina sedicenne è la prima vittima ma non l’unica. Nodi che la confessione del ragazzo, che esce dalla caserma dei Carabinieri dopo l’arresto con lo sguardo di sfida e rischia di essere linciato dalla folla inferocita, non scioglie. Perché per capire davvero come è andata bisogna, prima, ricostruire il rapporto tra i due, le relazioni tra le famiglie, gli odi reciproci. E mettere ordine ai veleni del paese. Definire quello che gli investigatori e gli inquirenti chiamano il contesto. «Diciamo - racconta uno di loro - che la situazione socio familiare di entrambe le famiglie era di qualche disagio, per usare un eufemismo». Tre Tso negli ultimi sei mesi e la prescrizione di farmaci inibenti atti di ira e collera per il ragazzo, la segnalazione dei servizi sociali per un’assistenza al Sert per Noemi sono lì a confermarlo. Atti ufficiali come il provvedimento del tribunale dei minori che chiedeva sempre ai servizi sociali di farsi carico di Noemi. Peccato sia arrivato quando lei era già scomparsa e, probabilmente, morta. Quella mattina del 3 settembre, ha raccontato in sostanza il ragazzo, Noemi voleva trasformare lui e lei in novelli Erika e Omar. Quando alle 5 del mattino è andato a prenderla, lei si è presentata con un coltello. «L'ho uccisa con quello - ha raccontato - ho reagito di fronte alla sua ostinazione nel voler portare a termine il progetto di sterminare la mia famiglia». Parole che non potranno trovare alcuna conferma e dunque, dicono gli investigatori, vanno prese per quello che sono: dichiarazioni di un ragazzo confuso e malato, che ha però confessato l’omicidio. Tra l’altro, aggiungono, non c'è al momento alcuna traccia del coltello di cui parla il diciassettenne: fin quando non verrà eseguita l’autopsia non sarà possibile dunque stabilire se sul corpo di Noemi vi siano delle ferite compatibili con un’arma da taglio. Di certo c'è l’odio tra le due famiglie, culminati nelle denunce reciproche a distanza di venti giorni l’una dall’altra. Per lesioni quella dei familiari di Noemi; per atti persecutori quella presentata dai genitori del ragazzo. Stalking. «Lui non doveva guardarsi intorno se c'era qualche ragazza - sostiene la madre del giovane - subiva da lei e ultimamente ha reagito così. Reagiva, quando la vedeva. Lei gli ha fatto il lavaggio del cervello, l’ha fatto diventare un mostro». «Ma se era lui che era geloso marcio» replica Leila, la migliore amica di Noemi. «Me lo avrà detto centinaia di volte, che voleva lasciarlo. Ma aveva paura. E aveva ragione: una volta le ha riempito la faccia di lividi solo perché aveva guardato una moto. Una moto, capisci? Lui era convinto che avesse guardato il ragazzo che c'era sopra ma lei manco lo aveva visto quello». «Noemi era una ragazza che cercava di vivere in maniera solare, aperta alla vita e all’amore». Così Imma, la madre di Noemi, ha descritto al vescovo di Ugento, don Vito Angiulli, la figlia uccisa dal fidanzatino. L’interrogatorio di garanzia, che ancora non è stato fissato, forse servirà a fare un po' di chiarezza ulteriore. A partire dal ruolo del padre. L’uomo avrebbe detto che il figlio, la sera prima del ritrovamento del corpo, gli rivelò quel che aveva fatto e gli chiese di accompagnarlo dai carabinieri. «Se hai le palle ci vai da solo» gli ha risposto lui, a conferma che questa è innanzitutto una storia di degrado familiare e che il diciassettenne è l’altra vittima. Forse ha cominciato a capirlo anche lui, chiuso in una struttura protetta da ieri sera e sorvegliato a vista per evitare che tenti di uccidersi. «Ho sbagliato - continua a ripetere - se mi fossi ammazzato si sarebbe evitato questo casino».

L’accusa della mamma di Noemi Durini su presunte inerzie della Procura per i minori di Lecce non resterà inascoltata. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha chiesto all’ispettorato di verificare se ci sono state sottovalutazioni e se l’omicidio della sedicenne poteva essere evitato. Per questo gli ispettori svolgeranno accertamenti preliminari sull'operato dei pm minorili a cui era giunta la denuncia della mamma di Noemi contro il fidanzato 17enne della ragazza, che ieri ha confessato l’omicidio. Sulla vicenda anche la prima commissione del Csm ha chiesto al comitato di Presidenza l’apertura di una pratica. Ispettori e Csm dovranno verificare anche un altro particolare finora inedito: anche la famiglia del ragazzo, a 15-20 giorni di distanza dalla denuncia della famiglia Durini, aveva denunciato la ragazza per stalking. Le denunce incrociate risalirebbero al maggio scorso e proverebbero l’astio crescente tra le due famiglie, tanto che il padre del 17enne si era spinto a commentare su Facebook che il fidanzamento tra Lucio e Noemi era "un cancro». La commissione del Csm potrebbe ora acquisire le denunce e verificare che tipo di approfondimenti sono stati disposti dai magistrati che le hanno ricevute. 

Omicidio Noemi, il Csm aprirà una pratica. Approfondire il perché le denunce della mamma non furono ascoltate, scrive il 14 settembre 2017 Telenorbaonline. Il Consiglio superiore della magistratura aprirà una pratica sul caso dell’omicidio di Noemi Durini. Non cade nel vuoto l'accusa della madre di Noemi Durini, la sedicenne uccisa dal fidanzato a Specchia, sulle inerzie che ci sarebbero state in relazione alle sue denunce e per comportamenti violenti del ragazzo. La prima commissione del Csm ha infatti chiesto al comitato di Presidenza l'apertura di una pratica sul caso. La donna, Imma Rizzo, avrebbe presentato queste denunce alla procura per i minorenni di Lecce.

Omicidio Noemi, il ministro Orlando dispone ispezione. Verificare perché le denunce della mamma siano rimaste inascoltate, scrive il 13 settembre 2017 Telenorbaonline. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha disposto accertamenti preliminari tramite gli ispettori del ministero sul caso dell'omicidio di Noemi Durini, su cui indaga la Procura dei minorenni di Lecce. L’ispezione servirà a verificare perché le ripetute segnalazioni da parte della mamma di Noemi non siano state recepite tempestivamente. La signora Imma, infatti, aveva denunciato più volte episodi di percosse nei confronti della ragazza. Perché quelle richieste di aiuto non sono state poi seguite da provvedimenti cautelari? Gli stessi familiari di Noemi si dicono convinti che si poteva fare di più per evitare questo efferato delitto. Gli investigatori, analizzando anche i social network, hanno appurato che il rapporto tra i due ragazzi ultimamente era complicato. L'ultimo post pubblicato da Noemi su Facebook è del 23 agosto. La ragazza aveva pubblicato una foto di una giovane con il viso pieno di lividi e la mano di un uomo che le chiude la bocca, accompagnata da queste parole: "Non è amore se ti fa male. Non è amore se ti controlla. Non è amore se ti fa paura di essere quello che sei. Non è amore, se ti picchia. Non è amore se ti umilia. Non è amore se ti proibisce di indossare i vestiti che ti piace. Non è more se dubiti della tua capacità intellettuale. Non è amore se non rispetta la tua volontà. Non è amore se fai sesso. Non è amore se dubiti costantemente della tua parola. Non è amore se non si confida con te. Non è amore se ti impedisce di studiare o di lavorare. Non è amore se ti tradisce. Non è amore, se ti chiama stupida e pazza. Non è amore se piangi più di quanto sorridi. Non è amore, se colpisce i tuoi figli. Non è amore, se colpisce i tuoi animali. Non è amore se mente costantemente. Non è amore se ti diminuisce, se ti confronta, se ti fa sentire piccola. Il nome è abuso. E tu meriti l'amore. Molto amore. C'è vita fuori da una relazione abusiva. Fidati!".

L'amica di Noemi: aveva paura di lasciarlo, scrive il 14 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno".  «Me lo avrà detto centinaia di volte, che voleva lasciarlo. Ma aveva paura. E aveva ragione: una volta le ha riempito la faccia di lividi solo perché aveva guardato una moto. Una moto, capisci? Lei amava le moto, ma lui era convinto che avesse guardato il ragazzo che c'era sopra. Lei manco lo aveva visto quello». Leila continua a tormentarsi le mani, mentre continua a guardare verso il vicolo dove abitava Noemi Durini, come se la sua amica dovesse uscire da un momento all’altro. Leila è la migliore amica della sedicenne di Specchia uccisa dal fidanzato; con lei ha passato giornate intere a raccontarsi sogni e paure, amori e delusioni. «Stavamo sempre insieme - racconta - eravamo unitissime». Ma chi era Noemi, Leila? «Era una ragazza solare, piena di vita. Aveva sempre il sorriso e quando doveva sfogarsi veniva da me. Una volta, ero a casa, lei è arrivata senza dirmi nulla. E appena è entrata mi ha detto: Leila abbracciami». E perché, si sentiva sola? «No, non era sola - risponde la ragazzina toccandosi i capelli - ma aveva bisogno di affetto, tanto affetto. E poi Noemi era forte, tanto forte». Leila si ferma un attimo. Poi aggiunge: «solo con lui era debole». Secondo la ragazza, la storia tra i due era nata per caso. Una sera in cui si incontrano quattro ragazzi. «Noemi stava con il miglior amico» del suo assassino, racconta. «Quella sera una ragazza di Alessano si è baciata con lui e allora lei, per fargliela pagare, ha baciato» l’altro ragazzo. Che era, appunto, il diciassettenne che poi l’ha uccisa. «All’inizio il loro rapporto era sereno, Noemi andava anche a casa sua e aveva un buon rapporto con i genitori». E poi cosa è successo? Leila si chiude. «Quello che ti posso dire è che non è vero che tutto è cominciato quando lei si nascose nell’armadio a casa sua, come dice qualcuno. Ha litigato con il padre. E lo ha fatto per il suo ragazzo». Oltre la ragazza non va, anche perché su questo aspetto è già stata sentita dai carabinieri. Certo è che lui però la picchiava. «E pure più volte - dice Leila - Lei lo amava, cento volte mi ha detto che voleva lasciarlo ma non ci riusciva. Aveva paura e aveva questo sentimento che non la faceva ragionare». Ma quando l’hai vista l'ultima volta. «Dopo ferragosto, poco prima che sparisse. E' venuta da me. Vuoi sapere se abbiamo parlato di lui? No, forse è stata l’unica volta che non l’abbiamo fatto. Era serena e felice».

Noemi, la pm minorile: "Guerra tra le due famiglie". Il papà e la mamma del 17enne: "Meglio un morto che tre". Ministro e Csm inviano a Lecce gli ispettori per capire se ci sono stati ritardi nell'affrontare le segnalazioni arrivate al tribunale dei minorenni di Lecce. Il ragazzo guardato a vista nella casa protetta dove è rinchiuso, scrive Chiara Spagnolo il 15 settembre 2017 su "La Repubblica". “L’ho fatto per voi, per salvarvi”: il diciassettenne di Alessano, reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini ha scritto ai genitori di avere assassinato la fidanzatina sedicenne di Specchia perché lei aveva ordito un piano per ucciderli ed essere libera di vivere la relazione d’amore. In un bigliettino che la madre del giovane ha tirato fuori davanti alle telecamere de “La Vita in diretta” c’è la conferma dell’ultima versione che il 17enne ha fornito ai carabinieri nell’interrogatorio del 13 settembre, finito il quale è stato arrestato. Non è chiaro se si tratti di un manoscritto originale (nonostante la firma in lettere maiuscole sul retro) e neppure il motivo per cui i genitori non l’hanno consegnato agli investigatori, che hanno perquisito più volte l’abitazione familiare di Alessano. Così come non è chiaro se corrispondano alla verità le dichiarazioni del padre del diciassettenne (indagato per concorso nell’occultamento di cadavere), secondo il quale il figlio - la sera prima della confessione - gli avrebbe raccontato di avere assassinato la fidanzata. Le ispezioni di ministero e Csm. Tali questioni complicano ulteriormente il quadro investigativo, sul quale si è abbattuto anche il ciclone degli accertamenti disposti dal ministero della Giustizia e dal Csm per verificare se il Tribunale dei minori di Lecce abbia vagliato tempestivamente la denuncia della mamma di Noemi, che chiedeva di allontanare quel ragazzo violento dalla sua bambina. La segnalazione è stata fatta prima dell’estate, a luglio il tribunale dei minorenni ha chiesto una relazione ai Servizi sociali del Comune di Specchia, che è stata inviata nello stesso mese. Il 31 agosto dal Tribunale è partito un provvedimento di affidamento di Noemi ai Servizi sociali e al Sert, che è giunto a destinazione il 5 settembre, quando la ragazzina era già morta. Tale provvedimento sarebbe servito a disporre un aiuto per la sedicenne e, forse, avrebbe potuto salvarla. Se avrebbe potuto essere più rapido lo disporranno gli ispettori romani, dopo la valutazione della documentazione sul caso che sarà acquisita negli uffici giudiziari salentini. Gli inquirenti di Lecce. Sulle denunce incrociate e il tempismo dei provvedimenti, a Lecce bocche cucite. Il procuratore generale della Repubblica, Antonio Maruccia, si trincera dietro un “no comment”, la procuratrice presso il Tribunale dei minori, Maria Cristina Rizzo, spiega che sono in corso le verifiche sui tempi delle denunce e i successivi provvedimenti nonché sul contenuto delle stesse, tenendo in considerazione il fatto che "alla base di tutto c'è una guerra tra famiglie". Meno criptico il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, che ha chiesto ai Servizi sociali il fascicolo su Noemi e chiarito che “la nostra assistente sociale ha ricevuto a luglio una richiesta di relazione sulla situazione della famiglia dal Tribunale dei minori e l’ha evasa nello stesso mese, dopo aver ascoltato la ragazza e anche la madre”. Il documento è poi arrivato al magistrato che il 31 agosto ha emesso un provvedimento di affidamento della sedicenne ai Servizi sociali e al Sert. Al vaglio degli inquirenti, però, ci sono anche le denunce che la famiglia del ragazzo ha presentato allo stesso Tribunale contro Noemi, accusata di atti persecutori. Le indagini. Intanto, proseguono le indagini sull’omicidio, nel tentativo di chiarire i numerosi punti oscuri rimasti. Innanzitutto quelli relativi alle complicità, a partire da quella presunta del padre ma anche di altri componenti della famiglia. L’automobile con cui il diciassettenne all’alba del 3 settembre è andato a prendere Noemi a casa della madre ed è stata sequestrata dopo il ritrovamento di tracce di sangue all’interno. Le modalità dell’omicidio invece potranno essere chiarite solo dopo l’autopsia, che sarà effettuata lunedì dal medico legale Roberto Vaglio. Sul corpo della ragazzina sono presenti segni di pietre (spiegabili anche con il fatto che era sepolto da pezzi di un muretto a secco) e tagli (che il giovane ha dichiarato di avere effettuato con un coltello ma potrebbero anche essere stati provocati da animali). Il fidanzato, dal canto suo, è stato trasferito in una località protetta, in considerazione del pericolo che potrebbe correre in carcere, visto che già all’uscita della caserma di Specchia - mercoledì sera - è stato sottratto al linciaggio da parte della folla. Nella struttura penitenziaria è controllato a vista per evitare che possa commettere atti autolesionistici. A questa intenzione farebbe pensare il biglietto in cui ha scritto: “Ho sbagliato, potevo uccidermi e avrei evitato questo casino”.

Omicidio di Noemi Durini: denunce, verifiche e provvedimento in ritardo. «Solo schiaffi non sembrava grave». I lividi sul volto, le fughe da casa, i problemi a scuola. Mamma Imma era molto preoccupata per Noemi e per la tormentata relazione con quel ragazzo che considerava la causa prima dei suoi mali, scrive il 14 settembre 2017 "Il Corriere della Sera”. I lividi sul volto, le fughe da casa, i problemi a scuola. Mamma Imma era molto preoccupata per Noemi e per la tormentata relazione con quel ragazzo che considerava la causa prima dei suoi mali. «È violento, sbandato e pericoloso, fate qualcosa per favore».

Era lo scorso maggio quando bussò alla porta del comandante dei carabinieri di Specchia, Giuseppe Borrello, chiedendo che venisse allontanato da Noemi. Lo fece formalmente, presentando una denuncia contro di lui e in qualche modo anche un po’ contro Noemi, visto che lei continuava a frequentarlo, prigioniera forse di un vortice dal quale non usciva. «E non stupitevi se siamo ancora qua, abbiamo detto per sempre e per sempre sarà», scriveva il 12 agosto per festeggiare il primo anno di fidanzamento. Contro tutto e contro tutti. Nonostante le botte, le furiose litigate e i tre Tso (trattamento sanitario obbligatorio) a cui è stato sottoposto il diciassettenne di Alessano negli ultimi sei mesi. La madre aveva però capito che Noemi era entrata in un tunnel pericoloso e con lei l’aveva capito anche la sorella di Noemi, Benedetta, entrambe unite nella condanna del ragazzo.

A luglio al tribunale dei minori. Oltre alla denuncia finita alla procura per i minorenni di Lecce, Imma Rizzo aveva chiesto anche l’intervento dei servizi sociali perché sentiva che la situazione poteva sfuggire al suo controllo. Il primo luglio è stata convocata da un assistente del Tribunale dei minori. «Se è un problema, se può essere d’aiuto a mia figlia, intervenite anche su di lei», aveva implorato quel giorno. E il tribunale ha chiesto al Comune di Specchia una relazione sulla situazione familiare di Noemi. «Sulla base di questo documento e di valutazioni autonome dei magistrati, il Tribunale ha emesso un provvedimento di presa in carico della ragazza da parte dei servizi sociali», ha spiegato il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara. Il provvedimento sarebbe però giunto sul tavolo degli operatori sociali solo il 6 settembre. Troppo tardi. Noemi era già stata uccisa e sepolta sotto un cumulo di pietre nelle campagne di Castrignano del Capo.

«Di segnalazioni così ne arrivano a decine». Le domande sono naturalmente quelle: perché si è perso tanto tempo? Perché non si è fatto nulla per bloccare un giovane violento? Gli inquirenti rispondono in modo univoco: «Perché dalla denuncia non emergeva una situazione gravissima. Alla ragazza erano stati dati pochi giorni di prognosi per lesioni da schiaffeggiamento: di denunce come quella ne arrivano a decine». E i Tso? E il fatto che il ragazzo scorrazzasse in macchina senza patente? «Sui trattamenti stavamo facendo delle verifiche», rispondono alla Procura per i minorenni. «Quanto alla patente, se solo l’avessimo scoperto una volta…», conclude amaro il comandante dei carabinieri.

Dietro alla tragedia emerge un ambiente di forte degrado. Due famiglie che si odiavano: quella di lei e quella di lui, entrambi a rifiutare ferocemente i fidanzati dei loro figli. Dopo la denuncia della madre di Noemi è stata la volta dei genitori di lui, che hanno puntato il dito sulla ragazza presentando una controdenuncia. La madre del giovane ha caricato le parole con la polvere da sparo: «È stata lei a farlo diventare un mostro, hanno mandato gente da Taviano per ucciderlo». Senza pietà. «Follie», ha tagliato corto l’avvocato che assiste la famiglia di Noemi, Mario Blandolino. Con lui, mamma Imma ha indagato per prima sulla scomparsa della figlia. Sapeva che era sparita fra le 2 e le 7 del mattino del 3 settembre. Ha cercato una telecamera nella zona, l’ha trovata, ha visionato il filmato e ha scoperto che Noemi era uscita alle cinque di notte per incontrare il suo fidanzato diventato assassino.

I genitori del killer di Noemi: "Così ha rovinato nostro figlio". I genitori dell'assassino di Noemi Durini ai microfoni di "Chi l'ha visto": "Ha aggredito e graffiato nostro figlio", scrive Luca Romano, Giovedì 14/09/2017 su "Il Giornale". La vicenda dell'omicidio di Noemi Durini si arricchisce di nuovi retroscena. Per il delitto della 16enne di Specchia nel Leccese è stato arrestato il fidanzato. Ma in questa storia emerge sempre più la famiglia del killer. Il padre, anche lui finito nell'inchiesta, ai microfoni di Rai Tre a Chi l'ha visto, poco prima di apprendere della confessione del figlio e del ritrovamento del cadavere della ragazza, ha parlato del rapporto che Noemi aveva col ragazzo: "Questa ragazza è entrata in casa mia ben accetta come la fidanzatina di mio figlio, circa un anno fa. Dopo neanche un mese, invitata a una festa qua vicino con mio fratello, ha piazzato un casino della madonna contro una ragazza chiamata Rebecca. Per gelosia. Mi ha detto 'ti devo fare impazzire'. Mi ha detto di tutto 'drogato, coglione'. Ho tollerato tutto per amore di mio figlio. Una notte, al mio rifiuto di chiamare sua madre per dirle che rimaneva qui a dormire, lei due notti dopo è entrata dalla finestra, si è nascosta nell'armadio e nottetempo è andata a dormire con mio figlio. Era fine gennaio". Poi ha aggiunto: "Quella ragazza è cresciuta in mezzo alla strada da quando aveva 12 anni - continua -. Aveva un bagaglio d'esperienza molto più grande di mio figlio, era lei che comandava nel gruppo. Una volta mi chiamano dalla scuola: 'Guardi che li ho visti con i miei occhi, la ragazza ha assalito suo figlio e lui è tutto graffiato'. Era lei che picchiava lui. Addirittura gli diceva di scannarci. Aveva trovato i soldi da dare a un certo tipo per comprare una pistola per spararci. Era tutt'altro che una brava ragazza. Era una ragazza cresciuta allo stato brado". Il padre del ragazzo infine avrebbe raccontato che il figlio sarebbe stato sottoposto a tre trattamenti Tso puntando il dito contro la ragazza. Ma su questo punto altre fonti sostengono che il ragazzo sia stato sottoposto a questo tipo di trattamento per l'uso di droghe leggere.

Omicidio Noemi, il padre del fidanzato contro la vittima: “Cresciuta in strada, incitava mio figlio a scannarci”. In una intervista a Chi l’ha visto? Biagio Marzo, il padre del 17enne che ha ucciso la fidanzatina Noemi a Specchia, si scaglia contro la vittima: “Basta balle, era lei che picchiava mio figlio, lo incitava a ucciderci”. Pochi minuti dopo la scoperta della confessione di suo figlio. La moglie: “Dai Biagio, è finita”, scrive il 14 settembre 2017 Angela Marino su "Fan Page". "Incitava mio figlio a scannarci tutti e due, era gelosa, era lei che lo picchiava. Basta balle in Tv: era tutt'altro che una brava ragazza". Sono le parole che precedono un momento surreale, carico di tensione, quello in cui i genitori di Lucio, il diciassettenne di Specchia, accusato dell'omicidio della fidanzatina, apprendono in Tv che il proprio figlio ha confessato. L'intervista è stata trasmessa da Rai Tre, nella puntata del 13 settembre del programma Chi l'ha visto?. Le immagini mostrano l'inviata della trasmissione condotta da Federica Sciarelli, Paola Grauso, nella casa del diciassettenne. La signora Marzo, madre di Lucio e moglie di Biagio, a sua volta indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere, comincia a raccontare del periodo che ha preceduto la scomparsa di Noemi Durini, avvenuta lo scorso 3 settembre dalla cittadina di Specchia, nel Leccese.

"Mi vergognavo di quel fidanzamento". "Abbiamo passato un anno di inferno, stiamo prendendo gli ansiolitici", premette, poi interviene il marito Biagio, tratteggiando un ritratto duro della sedicenne: "È entrata in casa mia ben accetta come la fidanzatina di mio figlio, è cominciato un rapporto malato, era gelosa, mi ha chiamato con tutti gli epiteti, mi ha detto chiaramente che mi avrebbe fatto impazzire, mi ha chiamato drogato. Per la salute mentale di mio figlio ho tollerato il rapporto con questa ragazza purché lo facessero fuori dal paese, perché mi creava vergogna". "Mio figlio ha avuto tre trattamenti sanitari obbligatori, da quanto ha conosciuto questa ragazza". "È un po' strano, no?", chiede la giornalista: "Perché ha avuto tre TSO?". "Perché gli è dato di volta il cervello, da quando è ha incontrato questa ragazza – la prima ragazza della sua vita – è successo il finimondo. A un mio diniego di chiamare sua madre e di informarla che sarebbe rimasta a casa mia, la notte dopo si è infilata dalla finestra, si è chiusa nell'armadio e nottetempo è andata a dormire con mio figlio". "Si erano innamorati questi due ragazzi – fa notare Paola Grauso – "sembrava una cosa da ragazzini". "Pur avendo un anno meno di mio figlio aveva un ‘bagaglio' molto più grande, era lei che comandava tra i due".

Le accuse alla vittima. Sull'atteggiamento violento di suo figlio Lucio descritto da amici della coppia dice: "Mi ha chiamato un professore dalla scuola dicendo di aver visto Noemi che assaliva mio figlio, era tutto graffiato: era lei che picchiava mio figlio". "Però dicono anche il contrario" ribatte l'inviata. Ancora per giustificare quanto dicono amici e conoscenti dei ragazzi, Marzo aggiunge: "Dopo tre trattamenti sanitari", "Voleva togliersela da dosso!", si intromette la moglie, per poi lasciare la parola al marito, che racconta: "Alla festa del patrono del paese (pochi giorni prima della morte di Noemi, ndr) lei gli è andata incontro dicendo: "Ti voglio bene, ti amo" e lui per scollarsela le ha dato quattro schiaffoni". Al riferimento della giornalista al video circolato online che ha immortalato Lucio mentre distrugge l'auto del padre di Noemi, poco dopo la scomparsa della fidanzatina, Marzo risponde: "Il padre di Noemi gli ha dato un pugno, allora mio figlio con una sedia gli ha sfasciato tutti i vetri, in modo che no scappassero, per bloccarli, perché sapeva che non avevano i documenti dell'auto". "Non è questo il modo" fa notare ancora una volta la Grauso. Secondo quanto affermato da Marzo, il padre della ragazza avrebbe sferrato un pugno in volto a Lucio, provocandogli una ferita con sei punti di sutura all’arcata di un occhio. In reazione, il giovane gli ha sfagliato l’auto per non farlo andare via in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine. Secondo Marzo, Noemi avrebbe aizzato suo figlio contro di loro: "Incitava mio figlio a scannarci tutti e due, aveva trovato un somma di denaro da dare a un certo tipo per comprare una pistola per spararci. Sentito questo ho sporto querela perché fosse allontanata da mio figlio. Basta balle in televisione, era tutt'altro che una brava ragazza, era una cresciuta allo stato brado, in strada da quando aveva 12 anni". Quanto al proprio ruolo nella vicenda, a fronte delle accuse di sequestro e occultamento di cadavere, precisa: "Sono stato un genitore accorto e ho visto tutti i cambiamenti di mio figlio, sta ragazza usava una tecnica per obbligare mio figlio ai suoi voleri: ti lascio e mio figlio sbatteva la testa contro il muro, per terra, quando ho visto queste cose ho dovuto intervenire coi sanitari. Lui aveva bisogno della mia presenza per sentirsi più uomo davanti a lei".

L'ultima sera. Pochi minuti prima che arrivi la notizia della confessione di Lucio, suo padre ribadisce ancora una volta la sua versione dei fatti riguardo alla notte della scomparsa: "Si danno un appuntamento per il sabato notte, avendo mio figlio l'auto a disposizione. "‘Per favore, usciamo', gliel'ha chiesto piangendo lei!", interviene la moglie. "Mio figlio – riprende la parola Marzo – voleva prendersi un momento di intimità, molto probabilmente lei, però, era pronta a scendere dall'auto. Di fronte c'era una macchina scura parcheggiata, Noemi è scesa e si è incamminata verso la macchina, è salita e se ne sono andati". "A me Lucio ha detto: ‘Stai sereno, quando la troveranno capiranno che io non c'entro niente'".

La notizia choc della confessione. "Hanno trovato la ragazza", lo interrompe la giornalista. "Bene! Son contento!", commenta prima di essere interrotto: "È morta e Lucio ha confessato". Marzo si accascia con le braccia sul tavolo, urlando: "Hanno creato un mostro!". "Hanno esasperato mio figlio – grida la moglie – suo padre (riferito a Noemi, ndr) ha mandato gente di Taviano per ammazzarlo, un tossico. "Siamo morti!" gridano insieme, poi la madre di Lucio si rivolge al marito: "Biagio è finita, dai".

Dopo la messa in onda dell'intervista, la conduttrice di Chi l'ha visto?, Federica Sciarelli, ha preso le distanze da quanto detto dai genitori di Lucio sul conto di Noemi.

Pomeriggio 5, la madre dell'assassino di Noemi in tv: "Adesso sto meglio", scrive il 14 Settembre 2017 "Libero Quotidiano”. Sconcerto in diretta tv. A Pomeriggio 5, il programma di Barbara d'Urso su Canale 5, si parla del caso di Noemi Durini, la 16enne leccese uccisa dal fidanzato di 17 anni che ieri, mercoledì 13 settembre, ha confessato il delitto. Il ragazzo, ora, prova a scaricare la colpa dell'omicidio su di lei, accusandola di voler uccidere la sua famiglia. La mamma del killer, che ha appreso della confessione del figli ieri in tv a Chi l'ha visto?, lo difende: “Si è liberato, mio figlio. Siamo stati noi a denunciare l’allontanamento, non la famiglia della ragazza”, ha raccontato alla d’Urso. Che poi ha rivelato: “Ha subito tre TSO per colpa di questa ragazza, l’ha fatto diventare un mostro”. E non ha lesinato particolari inquietanti: “Lei col coltello in mano lo voleva far venire a casa nostra”. Un crescendo di violenza (verbale) quello della donna. Che alla fine pronuncia le parole più sconcertanti: "Mi sento meglio ora”.

Sciarelli, il delitto di Noemi e la pornografia dell'orrore. Che senso ha mandare in onda la reazione dei genitori dell'omicida della ragazza alla confessione del figlio? Non è giornalismo. Solo cibo per gli intestini già infiammati degli italiani, scrive Francesca Buonfiglioli il 14 settembre 2017 su "Lettera 43". Quale è il limite della pornografia televisiva? Fino a dove le ragioni dello share si possono spingere in un servizio che si dice pubblico? Se esistevano dei paletti la puntata di Chi l'ha visto? mandata in onda il 13 settembre non solo li ha superati: li ha sradicati.

PORNOGRAFIA DELL'ORRORE. Focus della trasmissione, e non poteva essere altrimenti, l'omicidio della 16enne di Lecce. Che tale è diventato quando il fidanzato di appena un anno più grande ha confessato di averla massacrata portando gli inquirenti nel luogo in cui aveva nascosto il cadavere. Fino ad allora, almeno nei familiari, era rimasta viva la speranza che la ragazza fosse scomparsa, fuggita da una relazione che definivano malata. Per questo, l'inviata di Federica Sciarelli aveva intervistato i genitori del 17enne. Mentre padre e madre difendono il figlio, gettando fango sulla ragazza scomparsa, la giornalista riceve via messaggio la notizia della confessione. «Hanno trovato Noemi», dice la giornalista in modo asettico interrompendo la filippica del padre, che ora risulta indagato perché sospettato di aver aiutato il figlio a nascondere il corpo.

LA REAZIONE DEI GENITORI SBATTUTA IN PRIMA SERATA. «È morta. Suo figlio dice di averla ammazzata». La scena che segue può essere lasciata all'immaginazione. Ma non per la trasmissione. Che decide di mandare in onda il servizio registrato nonostante tutto. Sì, registrato è bene sottolinearlo. «Immagini forti», «nemmeno noi lo sapevamo», balbetta Sciarelli da studio lanciano il "contributo". No, non sono immagini forti. La reazione scomposta di due genitori sbattuta in prima serata è pornografia del dolore. Non c'è altra definizione possibile. Non c'è notizia. Non c'è "servizio". Ci sono solo disperazione, rabbia, urla, visi che si sciolgono in smorfie, pugni sbattuti sul tavolo dati in pasto a un pubblico che già sa. Sa che il ragazzo ha confessato, che quei genitori stanno in realtà offendendo una vittima. Senza saperlo, loro (su questo punto le indagini sono in corso). Una scena rilanciata come scoop pure sui social della trasmissione, con tanto di fotogramma dell'attimo della rivelazione. E che ha solo un effetto: accendere l'odio nello spettatore, come se ce ne fosse bisogno. Su Twitter in tempo reale qualche account di satira rilancia addirittura un meme della madre dell'omicida che grida: «La Gif per voi era d'obbligo: Siamo morti», è il commento. E cinguetta: «Si è ripartiti col botto». Non c'è molta differenza con la cronaca morbosa dei dettagli dello stupro di Rimini pubblicata e rivendicata da Libero e altri quotidiani. Pornografia e voyeurismo che lontani dal tutelare le vittime, le usano come arma per una battaglia ideologica. Politica. Di share e copie vendute.

IL PRECEDENTE DI AVETRANA. Chi l'ha visto? non è nuovo a porcherie di questo genere. Nel 2010 mentre Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi, era in collegamento da Avetrana in studio arrivò la notizia del possibile ritrovamento del corpo. «Ha capito cosa sta succedendo?», chiese Sciarelli alla donna. «Se vuole interrompere il collegamento lo può fare in ogni momento». «Chiami i carabinieri, si metta in contatto con gli investigatori». Serrano era ormai ridotta a una statua senza reazioni, mentre le telecamere indugiavano sul suo volto-non volto. «È una notizia terribile, di grande imbarazzo, che non vorremmo mai dover confermare», andò avanti Sciarelli. Dimenticando che l'unico dovere che aveva in realtà era interrompere quell'obbrobrio in diretta per tutelare una vittima.

TRASH DELL'ORRORE. Questo non è giornalismo. Non è servizio né tantomeno è pubblico. È trash dell'orrore e del dolore, della disperazione, cibo per gli intestini infiammati dei telespettatori. Sono forconi virtuali dati in mano a una folla inferocita che ogni giorno, sui social e davanti ad altri schermi, invoca la pena di morte, la giustizia fai-da-te, la tortura. Nella "migliore" (sic) delle ipotesi, la tragedia e l'orrore diventano una gif, una presa in giro, un meme. O un costume di carnevale come accadde con «zio Michè».

Assassinio di Noemi Durini: “Chi l’ha visto?”, interrogazione parlamentare di Dario Stefàno. Il senatore salentino parla di "inaccettabile voyeurismo giornalistico". Attacco anche dal direttore del tgnorba: come il caso Scazzi, si è risolto di mercoledì, scrive "Noi Notizie" il 14 settembre 2017. Il direttore del tgnorba fa questo ragionamento. Il ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi avvenne di mercoledì sera, nella sera della diretta tv di “Chi l’ha visto?”. Il ritrovamento del corpo di Noemi Durini, con indagine nei confronti del fidanzato che ha confessato, di mercoledì. Il giorno di “Chi l’ha visto?”. Coincidenza, dice Enzo Magistà che però fa un richiamo ad autorità della sicurezza e autorità della comunicazione. L’attacco alla trasmissione di Raitre è frontale. Una trasmissione che, si osserva da qua, ha comunque contribuito a risolvere un sacco di casi di scomparsa, con il ritorno a casa di tanta gente. Stavolta, peraltro, quella trasmissione è nell’occhio del ciclone, per il caso di Noemi Durini. Vicenda che finisce anche in parlamento. Di seguito un comunicato diffuso dal senatore Dario Stefàno: “Questo metodo, se da un lato non rispetta la dignità e la privacy dei soggetti coinvolti da questi terribili episodi, dall’altro interpreta con modalità inopportune e incoerenti la necessità di trasferire notizie ai telespettatori. E’ una testimonianza allarmante della deriva che talvolta può assumere un certo modo di concepire il servizio televisivo, in particolar modo di una rete pubblica”. Sono le parole che si leggono in una interrogazione presentata nel pomeriggio dal senatore Dario Stefàno, Presidente de La Puglia in Più, indirizzata al Ministro dello Sviluppo Economico, a seguito del servizio andato in onda su Rai 3 durante la trasmissione “Chi l’ha Visto?” sul caso Noemi Durini. “Tale approccio – continua Stefàno – tende a porsi in piena sintonia con la diffusa e censurabile tendenza alla rincorsa senza scrupoli degli ascolti, nella cui prospettiva la spettacolarizzazione delle sventure più intime e raccapriccianti viene usata come una delle leve più efficaci e a portata di mano. Queste modalità sviliscono e mercificano ciò che nella vita vi è di più alto, drammatico e riservato, come per esempio il dolore e la sofferenza delle persone”. “Il Garante per la protezione dei dati personali si è già pronunciato più volte, in senso critico, a proposito del principio di essenzialità dell’informazione e a proposito della diffusione di dati, soprattutto in presenza di minori coinvolti”. “La giornalista inviata – conclude Stefàno – non era certo la figura deputata e competente per dare comunicazione di tale terribile notizia e degli esiti delle indagini agli interessati, soprattutto se quella notizia riguardava un soggetto di minore età, e credo che la scelta di mandare in onda questo servizio necessitasse di ben altra valutazione rispetto a quella operata”.

IL FATTO  14/09/2017 TGNorbaonline. Editoriale a cura del direttore Enzo Magistà di giovedì 14 settembre 2017. Tema del giorno: l'omicidio della sedicenne Noemi Durini compiuto dal reo confesso Lucio Marzo. C’è chi trova paralleli tra il delitto di ieri, di Specchia e quello di 7 anni fa di Avetrana. Sforzo inutile. Si tratta di delitti diversi. Maturati in ambienti diversi. Ispirati da follie diverse. Realizzati da personaggi diversi. C’è una sola concomitanza fra i due delitti: lo spettacolo finale. O meglio, la spettacolarizzazione televisiva che se n’è fatta. Ai più, forse, sarà sfuggita. Non a noi. Sarah Scazzi venne ritrovata un mercoledì sera in diretta televisiva. Mentre un troupe di “Chi la visto?” si trovava in casa della vittima ad intervistare sua madre. E propria alla madre in diretta televisiva venne detto, venne comunicata la notizia che il corpo della figlia era stato ritrovato grazie alla confessione di Michele Misseri. Il corpo di Noemi Durini, la ragazza di Specchia, è stato ritrovato sempre di mercoledì. Mentre una troupe della stessa trasmissione televisiva si trovava in casa dell’assassino ad intervistare i suoi genitori, ai quali è stata data in diretta la notizia del ritrovamento e dell’arresto del figlio. Che coincidenza! E queste sono le uniche che si possono fare tra i due casi: la presenza delle telecamere di “Chi la visto”. Bravissimi i nostri colleghi, ma è tutto merito loro? Un sospetto, consentitecelo, è legittimo. Anche se, attenzione, due indizi non fanno una prova. Valgono, però, una denuncia e la facciamo, perché non vorremmo trovarci ad un terzo caso. Perché allora lo Stato, lo Stato e chi lo rappresenta a livello di informazione e di controllo del territorio, allora sì che dovrebbe farsi un profondo esame di coscienza. Perché non si può giocare con queste tragedie tenendole in sospeso per settimane, per giorni, in attesa che arrivi un mercoledì sera.

Di seguito si riportano i commenti idioti pubblicati su giornali che dovrebbero essere capitani di credibilità. Invece riportano scarabocchi di chi fa della volgarità e dell’ignoranza il suo stile di vita.

Diffamando gratuitamente un padre, che per il momento è solo indagato. Poi, i più meschini e diffamatori, di chi non è ancora sazio nell’oltraggiare il Salento ed Avetrana in particolare che nella vicenda non ha nulla a che fare.

Se questi son giornalisti… “Ma nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salentino, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci, masserie rifatte a bed and breakfast e pozzi sperduti nel buio. Come ad Avetrana, del resto, l’omertoso paese di Sarah Scazzi, che dista un’ora di strada da qui, ma meno d’un sospiro di silenzio da questa trama mostruosa, quest’altra, quasi in fotocopia, di un’altra ragazzina sepolta nei campi, di altre famiglie disfunzionali o malate, di familismi amorali che diventano delitto e complicità, perché la legge non varca l’orto di casa”. Goffredo Buccini 13 settembre 2017 Corriere della Sera.

Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali.

Noemi, le denunce inutili e quel padre complice. Nel silenzio agghiacciante le grida disperate dei parenti, lacrime come pioggia acida, amarissima, conclusione di undici giorni che racchiudevano ancora la speranza di rivedere Noemi, viva, scrive Tony Damascelli, Giovedì 14/09/2017, su "Il Giornale". Non c'è soltanto il nonno eroe che perde la vita cercando di salvare la propria famiglia, con lui morta nel fango buio dell'alluvione. Non c'è soltanto un padre che tenta invano di salvare il proprio figlio e la propria moglie dai fumi della solfatara. Livorno e Pozzuoli sono nuvole bianche, pagine stracciate da un'altra cronaca nera. C'è anche un padre bastardo che aiuta il proprio figlio assassino a nascondere il cadavere di una ragazza di sedici anni, uccisa per amore violento e miserabile esistenza. L'uliveto, uno dei mille, nella campagna di Castrignano del Capo, mostra alberi antichi, malati di xylella; sotto i rami bruciati dalla maledetta, giaceva il corpo straziato di Noemi, appena e vilmente coperto da alcune pietre staccate dal muretto a secco davanti al quale era stato lasciato dai due delinquenti, dopo averla finita, a colpi di pietra, qualche metro più in là, dove la terra è diventata più rossa, di sangue, poi coperta e bonificata dalla calce viva. Nel silenzio agghiacciante le grida disperate dei parenti, lacrime come pioggia acida, amarissima, conclusione di undici giorni che racchiudevano ancora la speranza di rivedere Noemi, viva. Undici giorni nei quali tutti sapevano, molti supponevano, alcuni mormoravano, nessuno interveniva. Il Salento scopre l'orrore dopo un'estate di follia turistica, le masserie e le spiagge ritrovano il silenzio di settembre, la bara bianca si è portata via Noemi mentre attorno è incominciata la sagra del macabro, la processione dei pellegrini non verso il santuario di Santa Maria di Leuca, là dove si uniscono i due mari, le acque dell'Adriatico e quelle dello Ionio, ma sono curiosi ignoranti che vogliono vedere, quasi toccare, il luogo del misfatto, scattare fotografie, portare via un ricordo maligno, larve e insetti umani come sono larve e insetti quelli che ammorbavano l'aria intorno al luogo del delitto. Padre e figlio, il complice e l'assassino, sono un'altra immagine, l'ultima in ordine di tempo, di una terra che ha già offerto la storia miserabile di Avetrana, un altro padre che decise di nascondere il cadavere di una nipote, una ragazza bambina, uccisa da altre mani di famiglia, una follia mafiosa, una complicità schifosa che denuncia una miseria sociale ed esistenziale che si aggrappa alla droga, al furto, alla violenza domestica, alle minacce, ai ricatti. Sarah Scazzi e Noemi Durini sono vittime di realtà fintamente felici, di giovinezze falsamente libere e indipendenti. Sono segnali di fumo nero e acre di una società tossica che fugge alle proprie responsabilità, che non affronta e, soprattutto, non comprende il pericolo, non risolve le denunce, dieci, cento, mille, di violenze, di soprusi, di aggressioni, perché ormai fanno parte del quotidiano, di una movida che conduce all'immobilità di menti e di corpi. Adolescenti alla ricerca della libertà e famiglie sfatte, disgraziate, disperate, senza grazia, senza speranza. L'omicidio di Noemi Durini non è un semplice fatto di cronaca nera. È la sirena di allarme che continua a suonare mentre pensiamo che si tratti di un cattivo funzionamento, di una finestra socchiusa, di una porta lasciata aperta per caso. Invece è la gioventù che si spegne nel degrado, nella polvere di sogni facili, è la storia di famiglie che non sono più tali, di padri che non sono eroi ma assassini e complici, di madri silenziose, vittime codarde. Il Salento è la terra bellissima de «lu sule, lu mare e lu ientu». Nell'uliveto di Castrignano del Capo, il sole è calato, il mare è appena oltre il muretto a secco e il vento puzza di morte.

NOEMI SI POTEVA SALVARE. Violenze e soprusi per la 16enne uccisa: tutti sapevano. Ma indifferenza e omertà hanno prevalso Il fidanzato confessa: massacrata con le pietre. Padre indagato per occultamento di cadavere, scrive "Il Quotidiano di Puglia" (Taranto) il 14 Settembre 2017. La tensione era palpabile ieri mattina nelle Procure ed al comando provinciale dei carabinieri. Era attesa una giornata decisiva per l’inchiesta sulla scomparsa di Noemi Durini. La svolta tuttavia, l’ha data il fidanzato quando si è presentato dai carabinieri per confessare. Una decisione presa spontaneamente? In realtà il ragazzo ha sentito addosso tutta la pressione degli indizi raccolti in questi giorni dagli inquirenti e confluiti inequivocabilmente verso di lui. A cominciare dalle due tracce di sangue trovate nella Fiat 500 con cui è andato a prendere Noemi verso le quattro di domenica mattina 3 settembre e portata all’autolavaggio subito dopo. Peraltro che fossero insieme lo dimostra anche il filmato di un impianto di videosorveglianza: la pressione quel ragazzo l’ha sentita anche grazie al giro nelle campagne fatto martedì pomeriggio con i carabinieri e deve essersi sentito con le spalle al muro quando ieri mattina gli è stato notificato l’avviso di garanzia sotto forma di decreto di perquisizione della casa. Il caso è stato preso particolarmente a cuore dagli inquirenti. Da Roma, su richiesta della Procura, sono arrivati gli specialisti delle ricerche degli indizi invisibili ad occhio nudo: i carabinieri del Ris. Ed anche il Ros con la sezione specializzata in crimini violenti. Le ricerche per le campagne hanno visto l’impiego della protezione civile, dei volontari e dei reparti speciali dei vigili del fuoco. Ieri c’era anche un elicottero che sorvolava sul Basso Salento. E poco dopo mezzogiorno e mezzo è atterrato a Castrignano del Capo, in contrada San Giuseppe. Nello spiazzo libero da alberi, più vicino a quella campagna di muretti a secco ed ulivi dove poco prima L.M. 17 anni, di Montesardo, ha accompagnato i carabinieri. Il dispositivo delle ricerche e delle indagini ha chiuso un caso che ha destato preoccupazione con il passare dei giorni: la ragazza è scomparsa domenica 3 settembre, il martedì successivo la madre ha sporto denuncia. Ha preso un po’ di tempo perché la ragazza altre volte si era allontanata da casa senza dire nulla, per fare ritorno non più tardi di un giorno, un giorno e mezzo. Resta da capire, e se ne occuperanno la Procura ed il Tribunale per i minorenni, come sia possibile che una ragazza di 16 anni venga ammazzata dal fidanzatino, nonostante due “Trattamenti sanitari obbligatori” ne abbiano dimostrato la pericolosità.

Il tormento di Noemi, la paura e le fughe tra le braccia del suo assassino, scrive Goffredo Buccini il 13 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Come tutte le sedicenni, Noemi aveva un confidente: Facebook. Così, forse, sarebbe bastato porsi qualche domanda in più, leggendo quella poesia rilanciata sul suo profilo in un post del 23 agosto, appena undici giorni prima d’essere lapidata in mezzo agli ulivi e i muri a secco della campagna leccese: «Non è amore se ti fa male/ non è amore se ti controlla/ non è amore se ti picchia/ non è amore se ti umilia...», un grido di dolore di tutte le donne violate e abusate dai loro uomini infami.

Ma nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salentino, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci, masserie rifatte a bed and breakfast e pozzi sperduti nel buio. Come ad Avetrana, del resto, l’omertoso paese di Sarah Scazzi, che dista un’ora di strada da qui, ma meno d’un sospiro di silenzio da questa trama mostruosa, quest’altra, quasi in fotocopia, di un’altra ragazzina sepolta nei campi, di altre famiglie disfunzionali o malate, di familismi amorali che diventano delitto e complicità, perché la legge non varca l’orto di casa.

Quello che ha confessato d’averla uccisa ha un anno più di lei, 17: dunque ha diritto all’anonimato e dovremmo chiamarlo «fidanzatino», se appellativo e diminutivo non suonassero come una bestemmia. Uno sbandato, dicono di lui, «che ha già fatto tre Tso», terapie obbligatorie, sussurrano. «Uno che viveva in paranoia», tanto da sfasciare a seggiolate, in un allucinante video girato e rigirato su Whats App, l’utilitaria del papà di Noemi venuto a chiedergli notizie della figlia sparita da giorni. Uno «con problemi psichici» ha ammesso perfino il Procuratore che indaga assieme ai carabinieri. Già. Tra queste case basse e candide a ridosso della Provinciale per Leuca, tra questi vicoli lastricati di nulla, la vita si spreca nella noia, la giovinezza sfuma così, uno spinello, due, il rap sparato nello stereo, la luna sopra la testa che sballa, le notti che non muoiono all’alba, la voglia di qualcosa di più forte. Noemi da più d’un anno si stava perdendo appresso a quel suo ragazzo balengo, era già stata bocciata a scuola, era presa di lui e al tempo stesso da lui terrorizzata. Le amiche dicono: «La picchiava». Lo ha detto, inutilmente, anche la mamma di Noemi, Imma, che aveva fatto denuncia al Tribunale dei minori contro il ragazzo quando la figlia le era tornata con la faccia gonfia; ma si sa come sono le indagini in certi casi. Il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, dice che «le cose sono state sottovalutate» e che «le istituzioni non sono senza colpa». Nessuno è senza colpa e tuttavia occorre pietà per ciascuno. Prima di tutto per la famiglia di lei, adesso arroccata nella piccola casa di Specchia, in via Madonna del Passo: con mamma Imma è rimasta solo la figlia più grande, Benedetta; il papà se n’è andato ma vive a cinquecento metri; i nonni poco lontano. Il 28 settembre Benedetta si laurea e nei giorni in cui la sorella era sparita e tutti la cercavano perfino con gli immancabili veggenti e coi cani molecolari (sì, quelli diventati famosi al tempo di Sarah) le aveva lanciato un tenero appello: «Non puoi perderti la mia festa, torna». Pensavano all’ennesima fuga, in quei giorni d’attesa e speranza. Era complicato da un pezzo stare dietro a quella ragazzina smarrita e innamorata che su Facebook postava pure le acconciature da mezzo matto di lui, scrivendo orgogliosa «anche se ne potessero fare due non ve lo darei comunque». Come al solito, paura e malìa. Solita trappola: «Mi pesta perché tiene tanto a me». Cinque volte in tre mesi era scappata Noemi. E quando non scappava tornava alle sei di mattina. Un cugino la portava spesso a Montesardo, la frazione di Alessano, dove abitava lui. E lui stava lì ad aspettarla, ormai sempre più sospettoso, geloso, «vuoi lasciarmi, vuoi tradirmi...». Colpa di lei, certo, si sa, è sempre colpa di una lei, no?, quando un lui la riempie di botte per amore...Vito, il nonno materno, lo dice senza girarci attorno: «Bisognava intervenire prima. Quello là andava rinchiuso in una casa di cura. E penso che il lavoro non l’abbia fatto da solo», aggiunge in un soffio. Quel soffio spalanca un incubo dentro l’incubo. Perché assieme al ragazzo è sotto accusa il padre, Biagio, uno che descrivono in lite perenne con la giustizia, senza un lavoro stabile, uno che s’arrangia. Uno che di Noemi diceva: «È un cancro per mio figlio». Chissà quanto c’è di vero; gli odi tra le due comunità, Specchia e Alessano, sono radicati come piante secolari. Si odiavano le famiglie, finché l’odio non è tracimato anche sull’amore di due poveri adolescenti già traballante di suo. Dicevano che l’accusa per il padre fosse «tecnica». Dovevano perquisire la 500 bianca su cui il ragazzo ha portato via Noemi la notte del 3 settembre. Lui, a 17 anni e in barba alla legge, guidava abitualmente. Ma la macchina è del papà, sarebbe stato un «atto dovuto». E tuttavia: qualcuno l’ha lavata la macchina, cancellando almeno le tracce più visibili. E tuttavia: i tabulati potrebbero raccontare di qualche telefonata alle cinque del mattino, le celle telefoniche potrebbero ricostruire qualche spostamento inspiegabile se non in un quadro di complicità. E il quadro s’è fatto più fosco, dunque. Ancora una volta viene in mente Avetrana: l’ombra di zia Cosima che cattura Sarah, quella di zio Michele, schiavo di famiglia e di masseria, che si china a nascondere Sarah nel pozzo. Un pozzo così simile alla tomba di pietre che ha sepolto gli incubi di Noemi e la mala coscienza di chi non li ha scacciati in tempo.

Ordine giornalisti: osservare doveri deontologia, scrive il 14 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Un invito «ad osservare i doveri deontologici nell’esercizio del diritto di cronaca, pur nel comprensibile coinvolgimento emotivo» viene rivolto con una nota a tutti gli iscritti dall’Ordine dei giornalisti della Puglia in relazione alla vicenda di Specchia (Lecce) dell’uccisione della sedicenne Noemi Durini da parte del fidanzato 17enne. «Cronache e immagini devono, in casi come questi - spiega l'Ordine dei giornalisti - richiedere un supplemento di professionalità, che impone pertanto di applicare i principi deontologici nell’uso di tutti gli strumenti di comunicazione, compresi i social network. Il diritto all’informazione, specie quando si tratta di vicende che riguardano i minori, impone di elaborare e diffondere con ogni accuratezza possibile ogni dato, ogni immagine, ogni notizia di pubblico interesse secondo la verità sostanziale dei fatti ed essenzialità dell’informazione».

Specchia. Noemi Durini e Lucio Marzo. Un film già visto, come Sarah Scazzi. Lucio Marzo, fidanzato di Noemi, ha confessato ed ha fatto trovare il corpo. Per il delitto di Sarah Scazzi, Michele Misseri, reo confesso, anch’egli ha fatto trovare il corpo, ma non è stato condannato per l’omicidio. Chi sarà condannato per il delitto di Noemi Durini?

Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali, se non fumo negli occhi.

Omicidio Noemi, Specchia non ci sta: “chi offende la nostra città ne risponderà in Tribunale”. Con una delibera di Giunta è stato deciso di dare mandato a un legale che avrà il compito di tutelare buon nome della città, scrive il 29 settembre 2017 Lecce news. Sono trascorse due settimane esatte da quel 13 settembre, quando, a seguito della confessione del fidanzato, è stato ritrovato, nascosto tra i sassi di un terreno agricolo di Castrignano del Capo, il corpo senza vita della giovane Noemi. L’omicidio della 16enne di Specchia ancora fa parlare e riempie le pagine di tutti, proprio tutti, gli organi di informazione locale e nazionale. Una vicenda triste, tristissima, quella della giovane studentessa che ha sconvolto moltissime persone ma, soprattutto, la comunità di Specchia che ancora piange la scomparsa della sua piccola concittadina. Naturalmente, non poteva essere diversamente, ripetiamo, questa storia ha avuto una eco mediatica importante e, per certi versi, sproporzionata. In questo contesto non sono mancati i riferimenti negativi nei confronti della piccola e bellissima cittadina del Salento, impegnata da sempre nel promuovere le proprie bellezze storico-artistiche-architettoniche e culturali del proprio entroterra. Con il trascorre degli anni, infatti, Specchia è divenuta un’eccellenza turistica della provincia di Lecce, si è affermata come uno dei borghi più belli d’Italia, dei comuni gioiello d’Italia ed è stata insignita della Bandiera arancione del Touring Club, oltre a ospitare ogni estate 10mila turisti provenienti da ogni dove. Non è, quindi, quel “Villaggio dal nome sconosciuto, che si è conosciuto a causa dell’omicidio di Noemi e che non ha futuro”, come è stato scritto in alcuni articoli. Per questo motivo l’Amministrazione comunale ha deciso di tutelare il buon nome della città e, nella giornata di oggi, con una Delibera di Giunta ha fornito atto di indirizzo per la nomina di un legale che ponga in essere ogni azione utile a tutelarne il nome, l’immagine e l’onorabilità. In questi ultimi tempi, è bene chiosarlo, si è un po’ tracimato e, senza dubbio, anche la comunità specchiese può essere definita una “vittima” di tutto ciò.

Specchia, il sindaco chiede i danni: «Lesa la nostra immagine», scrive Donato Nuzzaci su "Il Quotidiano di Puglia" Sabato 30 Settembre 2017. Sconvolta dal dolore per la tragica vicenda di Noemi Durini - la 16enne trovata morta nelle campagne di Castrignano del Capo dopo circa 10 giorni dalla notizia della scomparsa -, la comunità di Specchia cerca ora di rialzarsi, non senza togliersi qualche sassolino dalla scarpa. L’amministrazione comunale, guidata dal sindaco Rocco Pagliara, ha deciso di fare il punto sul racconto a livello mediatico di questo drammatico evento, arrivando ad una prima conclusione: mandato legale per difendere l’immagine di Specchia che in determinati servizi giornalistici «è stata denigrata nella maniera peggiore». Così ha deliberato l’altro giorno la giunta comunale prendendo atto che, a suo dire, in tanti «hanno provato a descrivere Specchia entrando in una realtà che non conoscevano e della quale si è parlato in modo spropositato, sbagliato e non consono rispetto a ciò che ogni giorno si vive in questa comunità». «Il paese ha un tessuto sociale e culturale sano ed è complessivamente un borgo vivo e sopra la media sia in termini qualitativi che quantitativi», spiega il sindaco Pagliara. «Qualche giornalista ha definito Specchia “un villaggio dal nome sconosciuto”, “villaggio senza età né futuro” e altre espressioni che a nostro avviso sono insinuazioni completamente infondate e diffamatorie», si legge nella delibera.

«TERRE DI NIENTE E DI NESSUNO…» Avetrana e Specchia come «le pietraie dell’Afganistan» è un articolo apparso il 21 settembre 2017 sui giornaletti locali a bassa tiratura. Si riferisce ad un testo del giornale on-line Lettera43 che pubblica un articolo a firma del giornalista Massimo del Papa con un titolo e contenuto che non è stato gradito al vice-sindaco di Avetrana Alessandro Scarciglia. Nell’articolo il giornalista paragona Avetrana e Specchia “alle pietraie dell’Afganistan,” e così Alessandro Scarciglia, a nome del Comune di Avetrana, ha segnalato l’autore del contenuto all’Ordine dei Giornalisti delle Marche chiedendo “di verificare l’eventuale presenza di violazioni etiche e morali del giornalista e di tenere informato il Comune di Avetrana sugli esiti di una eventuale azione che il Consiglio di Disciplina volesse intraprendere.” Qui di seguito la segnalazione integrale inviata All’OdG delle Marche dal vice sindaco: «Ill.mo Ordine, con la presente voglio segnalare un articolo pubblicato in data 18 settembre 2017 sul giornale on-line “LETTERA 43” a firma del giornalista sig. Massimo Del Papa, dal titolo “Avetrana, Specchia e le pietraie d’Italia figlie del Grande Fratello” e dal sottotitolo “Villaggi dai nomi sconosciuti, che un giorno tutti imparano per le ragioni più atroci. Villaggi senza età né futuro. Storditi davanti a un televisore, incantati da personaggi che non esistono”. Il giornalista Del Papa, nel paragonare il comune della giovane vittima di Specchia (LE) al Comune di Avetrana (TA), usa, a parere dello scrivente, termini alquanto offensivi nei confronti dell’intera comunità di cui mi onore di amministrare. Di seguito riporto alcuni passaggi del suddetto articolo che fanno riferimento ai comuni di Avetrana e Specchia:

• “terre di niente e di nessuno, senza speranze, che i telegiornali mostrano simili a pietraie dell’Afganistan”;

• “qui la gente si limita a sospettare altre forme di vita su altri pianeti mostrati dalla televisione, neanche internet, che serve a chattare la non-vita di ogni minuto”;

• “nelle pietraie del Sud d’Italia riparte la faida”;

• “la televisione è ancora l’unico antidoto alla noia della pietraia, insieme alle canne e, a volte, altra roba più forte”;

• “non si vuole dire che chi guarda il Grande Fratello poi diventa balordo e criminale, si vuole semplicemente dire che, nelle mille pietraie d’Italia, l’orizzonte culturale è quello, la speranza di vita è quella”.

Non starò certo qui ad annoiare l’ Ill.mo Ordine dei Giornalisti elencando le bellezze naturalistiche e storiche dei nostri luoghi o i diversi concittadini che si sono distinti (e continuano a farlo) per vari meriti in ambito nazionale ed internazionale; non starò qui a dire che negli ultimi anni il turismo cresce a livello esponenziale grazie all’impegno dei privati e delle pubbliche amministrazioni che quotidianamente, con umiltà, sacrifici e amore per la propria terra, si impegnano ad offrire servizi migliorativi. E non starò certo qui ad annoiare con una difesa di parte sull’onorabilità del comune di Avetrana e dei suoi cittadini. Sono qui solo ad esprimere la propria rabbia (e a rappresentare quella degli abitanti di Avetrana) per quanto scritto nell’articolo in questione. Si chiede al Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti delle Marche, che legge in copia, di verificare l’eventuale presenza di violazioni etiche e morali del giornalista e di tenere informato il Comune di Avetrana sugli esiti di una eventuale azione che il Consiglio di Disciplina volesse intraprendere. Per le eventuali contestazioni penali e/o civili ci stiamo consultando con i legali del Comune per verificare la fattibilità di un’azione giudiziaria che possa ridare dignità alla città di Avetrana, da troppo tempo martoriata ed infangata da certa stampa. Nell’esprimere la massima stima all’Ordine dei Giornalisti di tutta Italia, porgo sinceri saluti. Alessandro Scarciglia (Vicesindaco Comune di Avetrana)».

Sicuramente è il massimo che da questi amministratori locali ci si potesse aspettare.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Popolo di Avetrana, se avete un po’ di dignità ed orgoglio, indignatevi e condividete questo post su quanto ha scritto contro gli avetranesi Nazareno Dinoi, amico dei magistrati di Taranto (ma non dei magistrati di Bari, per cui è stato processato a Lecce per aver diffamato il Procuratore Laudati) e direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi, e non me ne spiego l'astio, e gli amministratori locali e la loro opposizione non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.

“La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più. Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.”

Il giornalista, come lui si definisce, dovrebbe sapere che i conti si fanno alla fine. Per ora omette di contare i due imputati assolti dall'accusa di favoreggiamento...o questo per omertà o censura non si può dire?

Quarto Grado. Nuzzi, Longo ed Abbate, Avetrana vi dice: vergogna!

Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».

Vada per i condannati; vada per gli imputati, ma tutto il paese cosa c’entra?

Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»

Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?

Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenerlo egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «…però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»

Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo!

Eppure questi amministratori locali sono stati interpellati dal sottoscritto dr Antonio Giangrande:

Al Presidente del Consiglio Comunale di Avetrana

Per il sindaco di Avetrana e la Giunta Comunale

Per i consiglieri comunali

Avetrana lì 3 giugno 2015

Oggetto: Art. 47/49 Statuto di Avetrana. Richiesta di convocazione di un Consiglio Comunale monotematico attinente il Caso Sarah Scazzi per la ricerca di strumenti di tutela dell’immagine e della reputazione del paese e dei suoi cittadini di fronte alla gogna mediatica a cui è perennemente sottoposto.

Il sottoscritto Dr Antonio Giangrande, scrittore, nato ad Avetrana il 02/06/1963 ed ivi residente alla via Manzoni, 51, presidente nazionale della Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, direttore di Tele Web Italia e vice presidente della Associazione Pro Specchiarica, sodalizio di promozione del territorio, con sede legale in via Piave 127 ad Avetrana, tel 0999708396 cell. 3289163996,

premesso che sin dal 26 agosto 2010, dal momento della scomparsa di Sarah Scazzi in Avetrana, i cittadini del paese sono oggetto di una gogna mediatica senza soluzione di continuità che non trova pari in nessun altro caso di cronaca nazionale ed internazionale. Da allora ho scritto 3 libri sul delitto, rendicontando giorno per giorno eventi avvenuti e commenti elargiti in tutta Italia. Per gli effetti ho verificato che di Avetrana si è fatta carne da macello. Se da una parte, per quanto riguarda i protagonisti della vicenda, il diritto di cronaca è tutelato dalla Costituzione italiana, quantunque per esso non vi è giustificazione quando per loro questo si travalica. E’ criminale, però, quando si coinvolgono in questa matassa tutti gli altri cittadini di Avetrana che nulla centrano con la vicenda. Eppure dal 26 agosto 2010 tutti gli avetranesi sono stati dipinti come retrogradi, omertosi e mafiosi. Chi riesce ad andare oltre i confini della “Cinfarosa” si accorge che Avetrana è conosciuta in tutto il mondo e certo non in toni lusinghieri. Tanto da far mortificare i suoi cittadini e far pagare loro fio per colpe non commesse. Non basta il mio prodigarmi a favore di Avetrana attraverso la pubblicazione dei miei libri o di video o di note stampa sui miei o altrui blog per ristabilire la verità. Io sono sempre un semplice cittadino che non fa testo e questo è un limite, oltretutto, chi mi segue, per come mi conosce, non pensa che io sia di Avetrana e ciò rende meno efficace la posizione da me assunta. D’altra parte, però, a difesa dei diritti di Avetrana si è notato una certa mancanza di iniziativa adeguata da parte dell’Amministrazione Comunale, tanto meno la minoranza ha adottato misure opportune di pungolo o di critica. Il tutto per mancanza di coraggio o di impreparazione comunicazionale. E per questo nei libri non ho mancato di rilevare l’ignavia atavica degli amministratori. Poco si è fatto e quel poco è risultato al di più dannoso. Se da una parte può essere considerato opportuno, con oneri per la comunità, costituirsi parte civile nei confronti di chi si addita prematuramente come responsabile e comunque non ha nulla da risarcire, intollerabile è che Pasquale Corleto, avvocato per il Comune di Avetrana, che dovrebbe tutelare l’immagine degli avetranesi, dica in pubblica udienza inopinatamente: «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». Io non sono come Michele Misseri. Io non mi accuso di essere un assassino!

A Specchia il 29 settembre 2017 si è dato mandato ad un legale per presentare un atto contro i diffamatori che poteva essere fatto motu proprio senza spese con una semplice querela di parte. Ad Avetrana anziché presentare motu proprio la querela contro i giornalisti diffamatori, il 29 agosto 2017 il Consiglio Comunale ha approvato la spesa fuori bilancio di oltre 42 mila euro per un avvocato, non di Avetrana, per prendersela con i Misseri. Anzichè prendersela con i giornalisti, si sono spesi oltre 40 mila euro per un avvocato, Pasquale Corleto di Lecce e non di Avetrana, per prendersela con i Misseri e per dire “LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI”.

Comunque, l’inadeguato contrasto da parte del Comune di Avetrana ha portato all’apice dell’ignominia.

In occasione della notifica dei 12 gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari fatti notificare a quanti, secondo l’accusa, erano a conoscenza di fatti e particolari riguardanti l’omicidio e hanno taciuto, o peggio detto il falso, dinanzi ai pubblici ministeri o alla corte d’assise, i media si sono sbragati.

Nel caso dell'omicidio di Sarah Scazzi, trattato molto spesso da “Quarto Grado” su “Rete 4” di Mediaset la redazione (guidata da Siria Magri) si è attestata su una linea prevalentemente conforme agli indirizzi investigativi della pubblica accusa, cioè della Procura della Repubblica di Taranto. Tanto che i suoi ospiti, quando sono lì a titolo di esperti (pseudo esperti di cosa?) o, addirittura, a rappresentare le parti civili, pare abbiano un feeling esclusivo con chi accusa, senza soluzione di continuità e senza paura di smentita. A confermare questo assioma è la puntata del 15 maggio 2015 di “Quarto Grado”, condotto da Gianluigi Nuzzi ed Alessandra Viero e curato da Siria Magri.

A riprova della linea giustizialista del programma, lo stesso conduttore è impegnato a far passare Ivano come bugiardo, mentre il parterre è stato composto da:

Alessandro Meluzzi, notoriamente critico nei confronti dei magistrati che si sono occupati del processo, ma che sul caso trattato è stato stranamente silente o volutamente non interpellato;

Claudio Scazzi, fratello di Sarah;

Nicodemo Gentile, legale di parte civile della Mamma Concetta Serrano Spagnolo Scazzi.

Solita tiritera dalle parti private nel loro interesse e cautela di Claudio nel parlare di omertà in presenza di cose che effettivamente non si sanno.

Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».

Vada per i condannati; vada per gli imputati; vada per gli indagati; ma tutto il paese cosa c’entra?

Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «Io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»

Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?

Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenere egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «...però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»

Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo! Tutto ciò detto di fronte a milioni di spettatori creduloni.

Si noti bene: nessun ospite è stato invitato per rappresentare le esigenze della difesa delle persone accusate o condannate o addirittura estranee ai fatti contestati.

Per questi motivi

SI CHIEDE ALLA SV VOSTRA

Non essendoci fin qui, colpevolmente, nessun provvedimento adottato per motu proprio, ossia d’ufficio, nonostante le segnalazioni verbali al presente ufficio di presidenza, al sindaco, al vice sindaco ed ad esponenti della minoranza, di convocare ai sensi dello Statuto del Comune di Avetrana, come previsto dagli artt. 24 comma 3, 29, 37, attraverso la presente richiesta di pubblico interesse inoltrata in virtù del dettato dello Statuto del Comune di Avetrana, ex art. 47, in qualità di presidente di una associazione ed ex art. 49 da semplice cittadino, un consiglio comunale monotematico per le motivazioni in oggetto, opportunamente pubblicizzato e partecipato. In tale sede si ricerchino e si adottino, finalmente all’unanimità ed in unione, adeguati e netti strumenti di tutela dell’onorabilità di Avetrana e dei suoi cittadini, come per esempio una denuncia per diffamazione a mezzo stampa e relativa azione civile contro i giornalisti ed al direttore del programma televisivo citati. Altresì aggiungersi una campagna stampa istituzionale, affinchè, a tale delibera adottata, sia data ampia rilevanza nazionale in modo tale che la querela non sia fine a se stessa ma attivi un clamore mediatico. In questo modo, dal dì di approvazione in poi, sia di monito a tutti e, finalmente, tutti si possano lavare la bocca prima di pronunciare qualsivoglia considerazione malevola sul nostro paese.

Comunque qualcosa va fatto, in quanto la misura è abbondantemente colma e con vostra responsabilità.

Mi è stato consigliato di soprassedere alla mia proposta, ovvia e normale in altri luoghi, ma forse considerata estemporanea ad Avetrana. Io non dispero, considerando, nonostante tutto, Avetrana un paese normale.

Con ossequi. Dr Antonio Giangrande

“La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più. Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.” Così scriveva il 29 luglio 2015 Nazareno Dinoi sul Corriere del Mezzogiorno – Corriere della Sera e su “La Voce di Manduria”. Un giornalista che sicuramente i conti li deve fare con la sua coscienza e la sua professionalità, in quanto ha qualche problema nello scrivere con libertà e verità stante la sua propensione a favore della posizione dei magistrati, di cui è ampio megafono, e dedito alla menzogna, se parla di Avetrana come paese omertoso sol perché i suoi amici magistrati lo hanno fatto passare come tale, anche se in questo è in buona moltitudine compagnia con i suoi colleghi pseudo giornalisti. Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il 7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»

Ma Nazareno Dinoi quando le cose non le sa, perchè le scrive? Scrive Giovanni Caforio il 9 aprile 2017 su Viva Voce web. Informare è giusto. Diffamare è un altro conto. E su questo il direttore de La voce di Manduria dovrebbe preoccuparsi. Seriamente. Questa mattina il cellulare è impazzito: “Corri, ho una notizia incredibile per te!” Era questa la prima chiamata domenicale. Incontro al bar e sul bancone, assieme all’ottimo caffè dell’Elio bar, mi trovo la copia festiva del Quotidiano di Puglia. Titolone “Il racket delle sepolture dietro l’attentato al sindaco di Sava”. Addirittura. Il caffè viene sorseggiato in modo anomalo. E’ troppa la curiosità di leggere l’articolo che con il titolo copre tutta la prima pagina. E poi è scritto da Nazareno Dinoi, mica uno qualunque! Ma andiamo all’articolo e ai passi che hanno colto il nostro stupore e la nostra incredulità. “La sostituta procuratrice, Ida Perrone chiederà il rinvio a giudizio” e quindi, vuol dire che non lo ha ancora chiesto, pertanto non c’è nessuna richiesta sul tavolo di rinvio a giudizio ma solo indagini. Andiamo avanti, e qui viene la lode al sindaco pro tempore savese: “Del giovane ma coraggioso sindaco che da poco eletto cominciava ad interessarsi di cose evidentemente pericolose”. Stop su questo passo. Dinoi scorda, o fa finta di scordare, che il “giovane sindaco” aveva prolungato il contratto con la Global Work per un altro anno quando la stessa era stata bandita pochi mesi prima dalla DDA di Lecce per infiltrazioni camorristiche nella sua Manduria. Ma questo Dinoi lo ha scordato? Proseguiamo. Un dato importantissimo: l’attentato fu subito da IAIA nell’aprile del 2013. La gara d’appalto per i servizi cimiteriali fu espletata nel gennaio 2015. “Anche la gara d’appalto al cimitero era stata aggiudicata facendo ricorso alle minacce”. Falso. Doppiamente falsa questa affermazione. Ecco perché: fui invitato io a presiedere nell’ufficio del dirigente al Patrimonio, arch. Alessandro Fischietti, all’apertura delle buste delle ditte che concorrevano per la gara di aggiudicazione dei lavori all’interno dell’area cimiteriale. Furono 4 le ditte che parteciparono. Di queste 4 una fu esclusa in quanto mancava parte della documentazione richiesta. Delle restanti tre, due presentarono un ribasso del 21.50% e l’altra del 24,50%. La terza, quella della cooperativa di D’Ambrogio presentò un ribasso del 41%. E visto che la gara d’appalto parlava del massimo ribasso, l’architetto Alessandro Fischietti affidò in seduta stante alla Cooperativa Aurora, che vedeva Fernando D’Ambrogio presidente, la gestione dei lavori cimiteriali per due anni. Data questa stabilita dalla gara. Quindi, caro Dinoi, non ci sono state ne minacce ne tanto altro che lasci trasparire nel tuo articolo. Il Comune di Sava, in questo caso rappresentato dal dirigente al Patrimonio architetto Alessandro Fischietti attento e vigile sull’evolversi della seduta di aggiudicazione, non ha potuto far altro che legittimare la gara. E non ha obbligato l’ente savese ad affidare per forza la gara alla Cooperativa Aurora. Ed era tutto regolare!!! Ero testimone di tutta l’operazione, come si dice, oculare!!! Quanto all’attentato alla sorella del primo cittadino, mi devi spiegare caro luminare del giornalismo come fa un auto che parte da Torre ovo, e fare circa una dozzina di chilometri, e poi fermarsi e notare che i bulloni della sua ruota sono stati svitati? Me lo spieghi, per favore? Ma la dinamica sappiamo cos’è? La sappiamo bene? Non abbiamo il tuo curriculum giornalistico, e questo non ci cambia la vita, ma abbiamo la logica delle cose …Giovanni Caforio

Curriculum giornalistico? Ma non è infermiere?

Bavaglio all’informazione, ASL Taranto: Due procedimenti disciplinari in poco tempo a infermiere – giornalista, scrive il 28 settembre 2017 "La Voce di Maruggio". “Per me si tratta di un bavaglio”. Nazareno Dinoi dipendente ASL infermiere presso il 118 di Manduria, vive a Manduria e come giornalista ha curato gli articoli di cronaca nera sulla drammatica storia di Sarah Scazzi ad Avetrana. È il direttore de “La Voce di Manduria”, collabora con il Quotidiano di Puglia, ha collaborato per il “Corriere del Mezzogiorno è anche scrittore e autore di diversi libri tra cui “Dentro una vita” e “Sarah Scazzi, il pozzo in contrada Mosca”. Giornalista di cronaca nel tempo libero, finito nelle ultime ore dentro la notizia, per una vicenda che lo vede contrapposto all’ Asl di Taranto. “Ho sempre scritto senza mai avere problemi di alcun tipo – ci ha raccontato a telefono – fino a quando il consigliere regionale Giuseppe Turco, a gennaio, ha presentato un esposto contro di me, secondo cui le due attività di infermiere e giornalista sono incompatibili. Da lì è partito un procedimento disciplinare, a marzo ho avuto la sospensione senza stipendio per un mese. La motivazione addotta dalla Asl è che io non potevo avere la partita iva, necessaria per documentare gli introiti della mia attività giornalistica. Ovviamente ho fatto opposizione e ne discuteremo davanti al Giudice del lavoro a novembre”. “Adesso mi è arrivata un’altra contestazione. In sostanza -spiega – mi dicono che posso fare il giornalista, senza però trattare argomenti che riguardano la Asl, genericamente, senza entrare nello specifico; non mi dicono, per esempio, che non posso scrivere di malasanità. La cosa particolare, però, è che gli articoli oggetto della contestazione riguardano una vicenda di cronaca nota a tutti, l’omicidio di una signora al Pronto Soccorso dell’ospedale di Taranto commesso da uno squilibrato”. “Nel primo pezzo riporto fedelmente degli estratti dai comunicati stampa del Sindaco, dell’Onorevole Vico e del consigliere Borraccino; nel secondo riporto una delibera pubblicata sul sito della Asl, accessibile da chiunque, per cui l’Azienda Sanitaria Locale si costituirà parte civile quando inizierà processo per il delitto della signora. Il 3 ottobre si riunirà la commissione di disciplina e mi aspetto che ci andranno con la mano pesante, parliamo di due contestazioni in breve tempo. Lo stesso contratto prevede l’inasprimento della pena”. “Che tutto sia iniziato con l’esposto di Turco non lo dico io, lo scrive la stessa Asl nelle motivazioni del provvedimento di sospensione. Ora, non mi dicono che io non posso scrivere, cosa che tra l’altro non si può fare perché viola il diritto costituzionale della libertà d’espressione, però così passa il messaggio che non posso scrivere cose scomode a loro, ed è brutto”.

Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?

«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità», rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia.  «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente: «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no? Cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole...»

Giustizia, d’ora in avanti i processi facciamoli solo in tv, commenta Antonello Caporale su “Il Fatto Quotidiano”. Quanto costa un processo? Ma soprattutto quanto vale un omicidio? Uno a caso. Per Yara Gambirasio la Procura di Bergamo quanti soldi ha speso per raggiungere la sua verità? Mille, diecimila, centomila, un milione di euro? Di più? E cosi fa sempre? Si impegna fino allo spasimo per giungere a una giusta condanna, foss’anche l’ultimo derelitto a chiedere giustizia? E sempre a proposito di soldi: la famiglia accusata dell’efferato omicidio di Avetrana, per non parlare delle altre, a quali fondi occulti attinge per avvalersi di quella tribù di avvocati, criminologi, psichiatri, analisti tutti di eccellente e prezioso curriculum? Ma soprattutto: la severità dell’indagine, lo scrupolo col quale accusa e difesa avanzano indizi o li neutralizzano è amore per la verità o (anche) frutto dell’aspettativa del tempo di esposizione in televisione e dunque del fatturato che ne deriverà dalla notorietà acquisita? Voglio spiegarmi meglio: tutti questi bei processoni che producono faldoni zeppi di documenti e di consulenze, tonnellate di prove e controprove, sono il risultato di una sincera sete di giustizia o solo, e purtroppo, il magico saldo del bisogno ossessivo di tv? Perché, nel caso fosse vera la seconda ipotesi, varrebbe la pena saltare il tribunale e infilare l’imputato, i suoi accusatori e i suoi difensori, dopo averli fatti passare in sala trucco, direttamente in uno studio televisivo.

E' iniziato il 3 luglio 2015 il processo per l'omicidio di Yara Gambirasio. E subito si è attivato il circo mediatico, con dispiegamento di telecamere ed analisi chiamati a interpretare la psico-somatica dell'imputato. Sarebbe invece il caso di spegnere le luci dei riflettori: per una difesa garantista di chi è accusato e per il rispetto della povera vittima, scrive Gianluca Veneziani su “L’Intraprendente”. Eccolo là, l’imputato, arrivare abbronzatissimo, in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica, nel tribunale di Bergamo per l’inizio del processo a suo carico. Ed eccolo là, il circo mediatico che si riattizza, pronto a scrutare ogni minimo gesto dell’uomo accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio, a cogliere ogni suo segno di cedimento, a interpretare il “suo muovere continuamente i piedi” – scrivono le agenzie – “come un sintomo di nervosismo”. Ed eccole lì, le troupe televisive, munite di arnesi in grado di riprendere senza comprendere, e i curiosi assembrarsi davanti all’ingresso del Palazzo di giustizia e addirittura accamparsi dal giorno prima pur di assistere all’Evento, immortalare l’Evento, essere spettatori e al contempo protagonisti di quell’Evento. A prescindere da quale sarà l’esito della vicenda giudiziaria, l’esordio non è stato affatto buono, perché ha dato il segnale che il processo a Massimo Bossetti possa trasformarsi nella versione aggiornata, 2.0, del caso Avetrana. Con una spettacolarizzazione mediatica fuori luogo (magari con qualche tablet e smartphone in più rispetto ad alcuni anni fa), con la stessa attenzione morbosa, quasi voyeuristica, su dettagli insignificanti, con l’elevazione preventiva dei protagonisti del fattaccio di cronaca a icone del Male o viceversa del Bene (spietati carnefici o, al contrario, vittime della giustizia, perché così vuole la semplificazione giornalistica), e quindi con la riduzione di quello che è stato un dramma familiare abnorme (la morte di una ragazza di tredici anni) a pretesto di un ennesimo fenomeno di costume e malcostume italico. Sarebbe bene piuttosto che il processo rientrasse nei ranghi e nei canoni che più gli sono propri, cioè quelli giudiziari. E sarebbe opportuno in primo luogo per Bossetti, la cui immagine rischia di essere cannibalizzata da tv e giornali e associata, in modo indelebile, a quella del “mostro”. In un sistema garantista la difesa dell’imputato e la sua reputazione come innocente fino a sentenza definitiva dovrebbero passare anche dalla tutela della sua privacy e dalla sua non eccessiva esposizione mediatica. Ci vorrebbe pudore anche nel (non) mostrare il volto del (presunto) colpevole, una sobrietà nel non utilizzare il suo corpo come cavia sulla quale psicologi d’accatto possano esercitare le loro fasulle velleità ermeneutiche (vedi il tic della gamba). Ma il ridimensionamento del processo a un ambito meno prossimo all’avanspettacolo sarebbe soprattutto una forma di rispetto nei confronti della piccola vittima e della sua memoria. Sarebbe doloroso vedere Yara costretta alla sorte mediatica di Sarah Scazzi, ridotta a oggetto di assurdi sondaggi e ricostruzioni post-mortem (“Ma a chi stava più antipatica, secondo voi, a zio Michè o alla cugina Sabrina? Votate!”), a pedina di un gioco macabro funzionale allo share nonché a destinataria simbolica di indecenti pellegrinaggi dell’orrore. Ricordare così il nome di una persona significa offenderne la memoria, visitare così la sua tomba significa profanare il luogo in cui riposa. Lasciamo dunque che la giustizia faccia il suo corso, senza processi preventivi e complementari fuori dall’aula e nei salotti tv, e lasciamo che i morti seppelliscano i morti, custodendo le spoglie della piccola Yara, affinché il suo nome non venga ulteriormente violato dal chiacchiericcio e dai “si dice”. Prendiamo esempio dai genitori della ragazzina di Brembate di Sopra, che hanno deciso di non figurare in aula, di non farsi attirare dalle luci dei riflettori, imprigionati nel ruolo di “vittime da compiangere” che impone loro il copione, ma hanno preferito stare in disparte, preservare in silenzio il loro dolore, senza renderlo osceno, volgare, inautentico, magari con un pianto studiato durante un talk show. E prendiamo le distanze dalle parole dello stesso Bossetti, che ha chiesto a gran voce che le telecamere fossero presenti in aula, affinché «tutti possano vedere, in quanto non ho niente da temere o da nascondere», volendo diventare forse il protagonista dell’ennesima saga mediatico-giudiziaria all’italiana, in onda sui migliori schermi. Il Male si compie al buio, in una periferia abbandonata, lontani da occhi indiscreti. Ma poi la celebrazione del rito che dovrebbe giudicarlo e, in caso, punirlo, la si vuole necessariamente a porte aperte, a favore di telecamera, alla presenza del pubblico in aula e degli spettatori a casa. C’è una contraddizione palese: il marcio si occulta ma il suo lavacro (che può essere gogna o catarsi, comunque espiazione) deve essere guardato da tutti, senza vergogna. Quasi che la visibilità del giudizio e della pena possa ridurre la potenza del Male, alleviare i nostri animi e assolverci per non essere stati presenti e non aver voluto vedere, quando c’era da assistere e da non voltare lo sguardo altrove.

Intanto Avetrana non è più scenario di un efferato delitto, ma set del film “Belli di papà”, scrive “Manduria Oggi”. La comunità avetranese ha “adottato” la troupe, composta da circa 70 unità fra attori ed equipe tecnica, del film diretto da Guido Chiesa, che ha come protagonista uno dei pilastri del cinema e del teatro italiano contemporaneo: Diego Abatantuono. Non più scenario di un efferato delitto, trasformato in una sorta di romanzo noir ancora alla ricerca dell’ultimo capitolo che sveli trame e colpevoli e al centro di una smisurata attenzione mediatica. Da una decina di giorni, Avetrana è il set del film “Belli di papà”, che si propone come uno dei “cine panettoni” del prossimo Natale. Uno strumento efficace per offrire al grande pubblico un volto differente di questo centro. La comunità avetranese ha “adottato” la troupe, composta da circa 70 unità fra attori ed equipe tecnica, del film diretto da Guido Chiesa, che ha come protagonista uno dei pilastri del cinema e del teatro italiano contemporaneo: Diego Abatantuono. Con lui recitano anche Francesco Facchinetti (al debutto in un film), Matilde Gioli, Andrea Pisani, Francesco Di Raimondo e alcuni attori pugliesi (fra questi, Uccio De Santis e Umberto Sardella). Dopo alcune scene girate a Roma e a Taranto, attori e cineoperatori si sono stabiliti ad Avetrana. Hanno “invaso” alberghi, ristoranti e bed & breakfast, che registrano il “tutto esaurito”, soprattutto nei week end, quando i protagonisti del film vengono raggiunti da familiari o amici. Non solo un ritorno di immagine notevole dal grande schermo per questa cittadina, che si sforza di cancellare un neo che ne offusca qualità e pregi, ma anche un riscontro economico immediato più venale. «Siamo felicissimi e orgogliosi per questa scelta» sono le parole di Emanuele Micelli, operatore culturale del posto, che si è offerto di svolgere gratuitamente il ruolo di “location manager”, collaborando, gomito a gomito, con la troupe per l’organizzazione logistica. «I ritorni sono sotto gli occhi di tutti: non solo quelli diretti e immediati per le attività ricettive (che, a mio avviso, non si discostano dagli introiti prodotti da un paio di stagioni estive), ma soprattutto quelli di immagine. Tutta l’Italia potrà ammirare le bellezze di una cittadina purtroppo assurta alla notorietà per un delitto». Diverse scene sono già state girate nel centro storico della cittadina dell’estrema area orientale della provincia. Presto le telecamere si sposteranno all’interno dello storico palazzo Pignatelli e di un capannone della zona industriale. Anche Torre Colimena ha conquistato gli scenografi di “Belli di papà”: sono state effettuate tre giornate di registrazione nel ristorante “da Caterina” e, presto, una scena sarà ambientata nella pescheria “Mancini”.

Però Guido Chiesa bacchetta i giornalisti: “Giornalismo etico modello AVETRANA”...mi domando, perché (quasi) nessuna testata - nazionale e peggio ancora locale - cita il nome di AVETRANA. Giriamo “Belli di papà” per 1 settimana a Roma, 1 a Taranto (città di sorprendente fascino), e 4 settimane, dico Q-U-A-T-T-R-O a AVETRANA, paese in provincia di Taranto al confine con quella di Lecce, città semplice e ospitale, con una delle più belle spiagge d’Italia. La gente ci ha accolto con una disponibilità straordinaria. Ora, mi domando, perché (quasi) nessuna testata – nazionale e peggio ancora locale – cita il nome di AVETRANA, preferendo menzionare le pur belle e ospitali San Michele Marzano (dove faremo 3 giorni di riprese) e Manduria (1 giorno)? Forse perchè non vogliono insudiciare le loro testate con il nome di un paese in cui è accaduto un tragico fatto di cronaca? Ma allora smettiamo di parlare di Padova per via di Michele Profeta o Roma per la banda della Magliana. E basta parlare di Firenze come città di Dante, dei Medici o del Battistero, perché c’è stato Pacciani e la città è marchiata a vita. E via dalle mappe Novi Ligure, Cogne, Erba, ecc. Cari amici giornalisti, io vi adoro e rispetto, ma vi prego, non offendete con le vostre “dimenticanze” tanta brava gente che qui vive, lavora ed è giustamente orgogliosa del suo paese. Ve l’abbiamo detto e ripetuto, non potete far finta di non saperlo: noi giriamo a AVETRANA e ne siamo felici. Felici di far sì che per almeno un po’ – speriamo per tanto – questo paese sia ricordato per qualcosa di positivo, speriamo divertente. Con affetto. Post pubblicato sulla pagina di Fb di Guido Chiesa, regista, e sul suo blog, poi ripreso da “La voce di Maruggio”.

Come nessuno parla dei natali e del "tesoretto di Avetrana". Tesoretto che i locali sognano di trovare con la cosiddetta "Occhiatura", ossia non come se ne dà il significato ordinario come il rito contro il malocchio o i buchi del formaggio, ma un divenir in sogno di un buco (occhiatura), indicato da un parente morto, in cui scavare e trovare un piccolo anfratto che porta ad una antica tomba o la bocca di una grotta dove vi è custodito un antico tesoro. O il lascito nascosto dai "Scianari" o dai "Masciari" o addirittura dallo "Zù Lauru". Le Gatte masciare. Queste streghe si trovano a Bari e possono trasformarsi in gatti e girovagare per la città di notte, operando i loro malefici. Al tramonto, si dice, questa donne si ungono di olio masciaro, che permette loro di potersi gettare nel vuoto, dai tetti delle case, e volare. Ecco dunque che ritorna l'unguento come uno degli strumenti magici delle streghe. Il termine masciaro sembra derivi dal latino megaera, da cui appunto proviene il nostro megera, che significa strega, maga. C'è un piccolo collegamento fra le gatte masciare pugliesi e le cogas sarde: se un uomo era convinto che un gatto fosse in realtà una strega, poteva recitare una formula magica e il gatto si sarebbe immediatamente trasformato in una donna nuda. Erano inoltre chiamati masciari coloro che si erano venduti al demonio e potevano così entrare in possesso di poteri straordinari. Janare. Le janare sonno terribili streghe della Campania – nei pressi di Caserta esiste il monte Ianaro, che da loro ha preso il nome – brutte e con lunghe zanne di cinghiale. Vestono con un mantello nero macchiato di sangue. Poteva penetrare nelle fessure delle finestre diventando vento e si dice che rubasse asini e cavalli nelle stalle, riportandoli all'alba stremati. Il suo nome probabilmente deriva da Dianare, ossia le sacerdotesse di Diana. Laùru. Da piccolo ricordo che i vecchi mi raccontavano del "lauro". Nei racconti è un piccolo gnomo o folletto dispettoso con un cappello in testa. Si dice che Lu Laùru appare di notte, e seduto sulla pancia fa svegliare il malcapitato che dorme a causa della difficoltà nel respirare e togliendogli la forza di qualsiasi movimento. Se chi svegliandosi riesce a sottrargli il cappello, lui pur di riaverlo è pronto ad esaudire un desiderio. Si raccontava di questo folletto che di notte andava ad intrecciare la coda dei cavalli o i crini e guai a scioglierli: l'animale sarebbe morto. Nella realtà si tratta di ben 1915 monete, venute alla luce in contrada “Demani” nel 1936, scrive “Manduria Oggi”. Ben 1915 monete in argento della Repubblica Romana e, nello specifico, 1.669 denari e 241 quinari, coniate fra il 211-195 e il 38 avanti Cristo. E’ una parte del “tesoretto” di Avetrana, venuto alla luce nel 1936, in contrada “Lupara”, in una zona denominata “Demani”. Si narra, infatti, che attraverso questa straordinaria scoperta archeologica, in un orciolo di terracotta, furono recuperate quasi quattromila monete romane, ben conservate e non ancora poste in commercio. Quest’ultimo particolare lascia presagire la probabile esistenza in zona di un vero e proprio cono romano. La riproduzione fedele di queste monete, oggi custodite nel Museo di Taranto, sarà consegnata alla città di Avetrana dal Soprintendente ai Beni Culturali della Puglia, Luigi La Rocca, nel corso di una cerimonia che si terrà domani sera 9 giugno 2015, alle 18,30, nell’aula delle assemblee della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana. Si tratta di uno dei ritrovamenti più significativi in materia di monetazione archeologica. Si narra che per il “tesoretto di Avetrana” al rinvenimento è seguito l’occultamento e, in un secondo tempo, il tentativo di alienazione. Questi tentativi il più delle volte si concludono con l’intervento delle forze dell’ordine e il sequestro del materiale. Anche il “tesoretto di Avetrana” non è sfuggito a questa infausta “prassi”. Infatti coloro che lo rinvennero cercarono di venderlo al Museo Provinciale di Lecce, ma la notizia venne diffusa, qualche tempo dopo, sulla stampa e, pertanto, la Guardia di Finanza si attivò per recuperare il gruzzolo. Fu poi Ciro Drago, all’epoca direttore del Reale Museo Nazionale di Taranto, a condurre in porto il recupero come si evince anche dalla una lettera del 26 agosto 1936, conservata nell’archivio storico della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia. Il materiale venne sequestrato e poi confiscato ed infine assegnato al Museo di Taranto dove tuttora si trova. Il “tesoretto”, seppur in copia, ritornerà a partire da domani ad Avetrana, su iniziativa dell’Amministrazione Comunale e dell’associazione turistico-culturale “Terra della Vetrana”, grazie alla sponsorizzazione garantita dalla Banca di Credito Cooperativo di Avetrana e sotto la supervisione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia. «Potremo conoscere e apprezzare in tutta la sua bellezza il “tesoretto”» annuncia l’assessore al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. «Ovviamente si tratterà di una fedele riproduzione, mentre ai presenti verrà donato il catalogo illustrativo delle monete esposte, nella consapevolezza che esso possa costituire fonte di arricchimento e l’avvio di un percorso virtuoso che incrementi sempre più l’apporto di materiali provenienti dal passato, fosse anche solo in riproduzione, dimenticati dalla memoria comune, al fine di produrre alimento alla coscienza di quel sano spirito di appartenenza ad una comunità ed alla sua storia». Una prima parte del “tesoretto di Avetrana” è ritornata nel centro ionico. Si tratta delle prime cinquanta monete su un totale di 1915 della Repubblica Romana (211-38 a.C.), ritrovate nel maggio del 1936 in una campagna di Avetrana. Sono state riprodotte, in argento come le originali, dal restauratore, avetranese anch’egli, Cosimo De Rinaldis. Potranno essere inizialmente ammirare all’interno della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana, che ha sostenuto finanziariamente l’iniziativa, per poi entrare a far parte della mostra archeologica già esistente, arricchendola, nella casamatta del torrione. «Questa operazione si inquadra nell’ottica della diversificazione dell’offerta turistica della nostra cittadina» hanno rimarcato sia il sindaco Mario De Marco, sia l’assessore al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. «Non solo mare e gastronomia, ma anche le testimonianze della nostra storia. Con la riproduzione delle prime cinquanta monete di quel “tesoretto”, intendiamo riappropriarci di una parte delle radici culturali della nostra cittadina, un patrimonio che vogliamo far scoprire anche alle nuove generazioni». La riproduzione eseguita dal tecnico restauratore della Soprintendenza, Cosimo De Rinaldis. La professionalità e il legame forte per la sua terra alla base della riproduzione in argento delle prime cinquanta monete del “tesoretto di Avetrana”. Tecnico restauratore della Soprintendenza, Cosimo De Rinaldis, avetranese, ha le “mani d’oro”. Nella sua ormai lunga carriera ha recuperato e restituito al loro originario splendore migliaia di preziosissimi reperti archeologici, venuti alla luce in diverse regioni del sud. Proprio per questa sua straordinaria abilità, fu inserito, ad esempio, nella squadra dei quattro restauratori cui fu affidato, qualche lustro fa, il delicato compito di ridar lustro agli “Ori di Taranto”. E’ stato lui a far da tramite fra Comune di Avetrana e associazione “Terra della Vetrana” con la Soprintendenza per i Beni Archeologici affinchè questo sogno potesse realizzarsi. «Ho impiegato pochi giorni per riprodurre le prime cinquanta monete» ci racconta Cosimo De Rinaldis, che poi ci spiega le tecniche e i materiali utilizzati. «Per i calchi, abbiamo scelto materiali che non potessero danneggiare in alcun modo le monete. Il calco è stato realizzato con gesso di fusione, mentre il metodo che ho seguito è stato quello denominato “a cera persa”». Per De Rinaldis la “sfida” continua. E’ stato proprio il Soprintendente La Rocca ad annunciare la prossimo operazione: la riproduzione delle due “pintadere” ritrovate nella grotta “Dell’Erba” di Avetrana. Si tratta degli antesignani degli attuali clichè, che venivano utilizzate come stampo o timbro per decorare il corpo, il pane o i tessuti.

Non aspettatevi, però, tutela della comunità da parte degli amministratori locali.

A Specchia, come ad Avetrana, si aspettavano i giornalisti con le palle, ma son arrivati solo…i coglioni.

Intervista, critiche a Chi l'ha visto. Iniziato «turismo del macabro». La rabbia del parenti: «È una vergogna, mancano solo le bancarelle per le noccioline», scrive il 14 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno".  Critiche su Chi l’ha visto che ieri sera ha mandato in onda un’intervista ai genitori del ragazzo, presunto assassino della fidanzata, Noemi Durini, nel corso della quale è l’inviata a dare loro la notizia della confessione del figlio. A puntare l’indice contro la scelta sono i sindacati dei giornalisti; critiche anche dall’Aiart, l’associazione cattolica che si occupa di tv. «La decisione dell’inviata della trasmissione Rai Chi l’ha visto di comunicare ai genitori del presunto assassino di Noemi Durini la notizia della morte della ragazza e della confessione del ragazzo e la successiva messa in onda di immagini che ne mostravano lo strazio e la disperazione rappresentano una pagina di pessimo giornalismo e un tentativo crudele di spettacolarizzare una tragedia», affermano Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Fnsi, e il segretario dell’Usigrai, Vittorio Di Trapani, augurandosi che la Rai e la conduttrice del programma, Federica Sciarelli, "con la sensibilità e la professionalità che la contraddistinguono, trovino il coraggio di chiedere scusa alle persone coinvolte e ai telespettatori». Parla di «brutta pagina della televisione» Massimiliano Padula, presidente dell’Aiart, che in un intervento per l'agenzia stampa della Cei sottolinea che si è scritta «un’altra pagina della storia della televisione annientando, non soltanto ogni regola deontologica (minori, famiglie, fascia protetta, segreto istruttorio, questi sconosciuti), ma dando un calcio in faccia a chi, suo malgrado, si ritrovava davanti al televisore, in un mercoledì sera qualunque, poco dopo l’orario di cena, magari insieme ai propri figli». Per Padula «non c'è diritto di cronaca che tenga di fronte alla tracotanza di una scelta irresponsabile che dimostra come l’informazione possa precipitare in baratri così profondi e irrespirabili». Nel corso dell’intervista, realizzata in un momento in cui ancora non c'era stata la svolta nelle indagini, comunicata alla giornalista con una notizia sul telefonino proprio in quel momento, i genitori del ragazzo presunto assassino (ma che ancora non era tale) non fanno altro che parlare male della ragazza attribuendo solo a lei ogni responsabilità del rapporto difficile tra i due giovani. Il padre, che sostanzialmente è l'unico a rispondere, anche a nome della moglie, dice anche come la presenza della giovane non fosse gradita nella loro casa. Quando ricevono la notizia mostrano prima contentezza per il ritrovamento, poi stupore alla notizia che è stata trovata morta, infine disperazione nel sapere che il figlio ha confessato. Una reazione che va vista, però, anche alla luce delle affermazioni dello stesso padre di oggi, secondo le quali era stato informato dell’omicidio dal figlio già martedì sera.

«Inizia il rito del turismo del macabro». Non ha usato mezze misure il filosofo Mario Carparelli per definire sui social l’enorme afflusso di curiosi che ieri pomeriggio si sono recati in via San Giuseppe alla notizia del ritrovamento del cadavere di Noemi Durini. «Leuca è già invasa dai turisti del macabro - ha scritto il Presidente del Presidio del libro del Capo di Leuca – abbiate pietà e rispetto». Una folla enorme, un via vai sostenuto di persone che si informavano su quanto accaduto e che commentavano frammenti di notizie che trapelavano sia attraverso i social che sui mass media. «Manca solo che mettano le bancarelle per le noccioline - ha commentato infastidito uno zio di Noemi che si è recato sul posto insieme ad alcuni familiari - e qui possono organizzare una fiera. Vergogna – ha aggiunto prima di invitare moglie e figlio a lasciare la piccola frazione di Castrignano del Capo – la piccola Noemi non ce la ridarà indietro nessuno». La campagna in cui è stato ritrovato il corpo della vittima si trova quasi ai margini (occorre seguire un tratto di strada sterrata che conduce all’interno) di una via di comunicazione molto trafficata in questo periodo, che collega Castrignano alla marina di Santa Maria di Leuca e sulla quale, poco distante, si innestano gli svincoli della statale 274 per Gallipoli. Raggiungere il posto è stato quindi facile per chi ha voluto osservare da vicino l’evolversi degli eventi (di cui riferiamo a parte) tanto che il cavalcavia della statale è stato trasformato in una sorta di balcone di osservazione privilegiato. Gran da fare anche per i vigili urbani di Castrignano, che hanno dovuto smistare il traffico verso Leuca e impedire l’avvicinamento dei veicoli non autorizzati, mentre un doppio cordone con nastri di sbarramento era stato disposto da carabinieri e protezione civile alcune centinaia di metri prima del sito in cui si trovava il cadavere. Lo stesso medico legale Roberto Vaglio ha avuto non poche difficoltà ad attraversare la folla con la sua auto prima di raggiungere gli investigatori.

La giustizia complice dell'assassino, scrive Manila Alfano, Venerdì 15/09/2017, su "Il Giornale".  Il dopo fa sempre impressione. E rabbia. Donne che si scoprono essere state vittime due volte; del compagno violento prima e della giustizia, che troppo spesso non ce la fa ad arrivare in tempo. Denunce che cadono letteralmente nel vuoto. Donne offese due volte perché quando parlano e trovano il coraggio di raccontare, di stracciare il velo del pudore e dell'umiliazione nessuno le ascolta davvero. Secondo l'Istat solo il 12 per cento delle vittime denuncia il partner, ma di questa quota arriva a condanna una percentuale dello zero virgola. Perché non succede niente? Dove sono i pm, i giudici, qui che il tempo è tutto, che spesso fa la differenza tra la vita e la morte. Fascicoli accartocciati in uno straziante imbuto in cui scorrono le storie di sangue che ogni giorno riempiono l'Italia. Un imbuto regolato dalla magistratura. Troppe volte le denunce restano in un cassetto, troppe volte esaminate con superficialità, prese poco sul serio, troppe volte non si dà il giusto peso al grido di queste donne. Troppe volte i pubblici ministeri e i giudici trattano con burocratica distanza questioni che sono sangue e sofferenza. Nessuno certo ha la bacchetta magica, ma spesso la magistratura non è al passo con l'evolversi della situazione, e troppe volte le violenze sfociano in morti annunciate e che quindi si potevano evitare. E di chi è la colpa? Noemi aveva solo sedici anni e una mamma spaventata che era corsa a denunciare. Ma a cosa è servito? Giordana aveva vent'anni e una bambina piccola di quattro anni. Lei il passo lo aveva fatto; il coraggio lo aveva anche trovato. Era andata dai carabinieri per stanare l'uomo che la picchiava e la spaventava a morte. Uccisa dall'ex il giorno dell'udienza per stalking. Troppo tardi anche per Marianna, lei che aveva implorato e bussato alle porte di tutti collezionando dodici denunce. «Con questo coltello ti ucciderò». Lo aveva detto ai pm che sono stati condannati perché un giorno lui poi l'ha fatto davvero. In passato il problema era il silenzio, le vittime che non parlavano, preferivano subire e non dire. Nel 2010 i dati sulle violenze erano ancora nebulosissimi proprio per questa cappa che aleggiava sulla privacy delle case. Chi soffriva lo faceva in silenzio. Le vittime erano passate da 101 nel 2006 a 127 nel 2010 e la maggior parte delle donne erano rimaste sempre a tacere. Ancora oggi, 8 volte su 10 la donna non chiede aiuto. Ma se lo avessero fatto si sarebbero salvate? Purtroppo non è sempre così. Ora alcune cose stanno cambiando. Ma il problema spesso è anche dove si fanno le denunce perché l'Italia è a macchia di leopardo. C'è una legge del 2001 che permette l'allontanamento del partner violento. Ci sono zone - più spesso al nord - in cui si riesce ad ottenerlo dopo due giorni e altre in cui occorrono tre mesi. Un tempo assurdo. Giorni e notti dove può accadere di tutto. Dove lui ha tutto il tempo di mettere in pratica il suo piano omicida. E di farlo con calma.

Noemi, le richieste di aiuto che non sappiamo più ascoltare, scrive Rosario Tornesello su "Il Quotidiano di Puglia". Se ne è andato anche il sorriso. Il suo, per primo. Aveva scritto su Facebook che non glielo avrebbe portato via nessuno, mai. Sbagliava. Noemi aveva l’età in cui si credono vere alcune cose, false altre, errando spesso in entrambi i sensi: se ne sognano di immortali, come l’amore; se ne scoprono di laceranti, inattese e autentiche, come il dolore. Lei le ha vissute tutte, e velocemente. Non è bastato a proteggerla. L’adolescenza ha ritmi accelerati, fasi convulse, scarti improvvisi. Troppo per la mente umana degli altri, gli adulti, a volte lenta, spesso distratta, per poter valutare, capire, agire. Se ne è andata col suo sorriso. L’assassino - fidanzato no, risparmiamocelo, ché la parola rimanda ad altro e lui non era quest’altro - gliel’ha strappato a colpi di pietra, seppellendolo in campagna. «Ero esasperato», ha detto confessando l’orrore e ammettendo il delitto, come se le cose fossero allineate in sequenza logica. «Ero esasperato, l’ho uccisa». Non è questo l’epilogo scritto? Non si fa così nell’era certificata del femminicidio? In questa sciagurata stagione, infinita e perciò fuori dal tempo, di cui prima o poi capiremo le cause per trovare i rimedi che non siano nella spirale necessaria e inutile della pena e del carcere, non funziona così? «Ero esasperato». L’ha uccisa. Cos’altro resta? Qualcuno dirà che la forma in fondo è sostanza, e che perciò la cornice stretta e angusta, per forza di cose alienante, di un paesino del profondo sud sia il contesto in cui ritrovare - volendo - le chiavi di lettura di un delitto, l’ennesimo, seguendo le figure classiche della tragedia: l’amore, la gelosia, le famiglie contro, l’omertà, il nulla che aleggia fino al dramma finale. Morte e dolore, sangue e lacrime, tutto assieme. Ma buona parte di questa riflessione si porta appresso il dubbio che no, stavolta forse non c’entra. A partire dal sud, non così profondo, e dal paese, non così depresso. E quanto alla gelosia, da qualsiasi lato brandita, difficile inquadrarla come sentimento quando latitano equilibrio e senso di responsabilità. Qui sono mancati l’uno e l’altro. Ed è mancata, soprattutto, una generale capacità di ascolto. Disperati sono i casi umani, non i luoghi. Ci sono codici e canali comunicativi che sembrano ormai aver perso il ruolo salvifico dell’allarme. Evidente, concreto, palpabile. Il frastuono che rende possibile tutto e il contrario di tutto nell’epoca della “post-verità” dilagante e del “fake” imperante, dentro e fuori la Rete, annacqua gli elementi con cui il pericolo si fa presente in quanto fatto reale e visibile. La madre aveva denunciato in caserma le percosse subite da Noemi quattro mesi fa, un giorno che l’aveva vista rientrare piena di lividi e di lacrime. Non basta? La stessa ragazza aveva compilato un post, l’ultimo, sul suo profilo Facebook, il 23 agosto scorso. Ore 13.30, immagine eloquente: una donna picchiata e oltraggiata, una mano d’uomo a tapparle la bocca, sul polso un tatuaggio: Love? “Non è amore se ti fa male; non è amore se ti controlla; non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei. Non è amore, se ti picchia; non è amore se ti umilia”. Neanche questo è bastato. E in paese tutti, o quasi, sapevano dei contrasti, delle accuse reciproche e dei tormenti. Tra le foto che abbiamo visto e ancora vedremo, sui giornali e in internet, ce n’è una di Noemi che colpisce per la sua radiosità: sguardo fiero, sorriso oltre il rossetto, sulla mano sinistra alcune lettere scritte a penna, una per ogni dito. Se ne scorgono quattro, la quinta si intuisce: “Happy”. Ma è durato poco. Così la tragedia si compie: non abbiamo saputo ascoltare le richieste di aiuto. Non siamo stati in grado di interpretare l’allarme, leggere l’emergenza, intuire il dramma. Non sono bastati la denuncia formale e il messaggio multimediale, le voci di piazza e i trattamenti sanitari. Il silenzio e l’omertà qui davvero c’entrano poco, anzi nulla. È sud, ma non così profondo; non così depresso. Tanto da poter, persino, non essere sud. Perché questo omicidio non è più disgrazia locale ma sciagura universale replicabile ovunque, nella nostra indifferenza, più volte testata e brevettata, qui e altrove. Eccoli i risultati. Noemi è sgusciata fuori dalla porta di casa nel buio della notte, poco prima che sorgesse il sole, il 3 settembre. Incontrando il suo assassino (fidanzato no, davvero no) è scivolata fuori dalla propria vita, ma non dalla nostra. Ritroveremo il suo sorriso solo quando ritroveremo noi stessi.

Noemi, oggi l'interrogatorio del 17enne sotto accusa per omicidio premeditato. Il ragazzo che ha confessato di aver ucciso la sedicenne di Specchia scomparsa il 3 settembre scorso e fatto ritrovare il corpo, sarà sentito per la convalida del fermo nella località protetta dove è ospitato dopo l'arresto, scrive Chiara Spagnolo il 16 settembre 2017 su "La Repubblica". L'omicidio di Noemi Durini - la sedicenne scomparsa da Specchia il 3 settembre - è stato premeditato dal fidanzato che non sopportava l'idea che lei potesse lasciarlo. Lo scrive la Procura dei minori di Lecce nel decreto di fermo con cui il 13 settembre ha imposto la custodia cautelare al diciassettenne di Alessano, che ha confessato il delitto e consentito il ritrovamento del corpo della ragazza, sepolta otto un cumulo di pietre in una campagna a pochi chilometri da Santa Maria di Leuca. Omicidio aggravato dalla premeditazione, nonché dai futili motivi e dalla crudeltà è l'accusa ipotizzata allo stato, anche sulla scorta della testimonianza di un amico, al quale il ragazzo avrebbe manifestato l'intenzione di uccidersi o di uccidere la compagna. Gli inquirenti, dunque, non credono alla versione fornita dal giovane, secondo il quale il delitto sarebbe scaturito d'impeto nel tentativo di fermare Noemi che, all'alba di quel 3 settembre, era uscita di casa armata di un coltello per andare a uccidere i genitori di lui. Così come, al momento, non ha riscontro l'accusa lanciata dal padre di Noemi, Umberto Durini, contro il papà del ragazzo: "Protegge suo padre, ha fatto tutto lui". Tali parole sono state pronunciate davanti alle telecamere nella mattinata di venerdì 15 settembre, dopo un tentativo di irruzione di Umberto nell'abitazione di Montesardo (frazione di Alessano) in cui vive la famiglia del 17enne. La tensione è salita alle stelle e per riportare la calma è stato necessario l'intervento dei carabinieri.

Umberto si è sfogato duramente: "Il ragazzo era stato cacciato di casa, dormiva nei casolari, io l'ho accolto da me, gli ho comprato i vestiti, mia figlia l'amava e per questo sono andato da suo padre e mi hanno aggredito e chiamato delinquente". La sua teoria - che vedrebbe l'altro padre in un ruolo attivo nell'omicidio - al momento non ha alcun riscontro investigativo. "Interrogheremo il papà di Noemi - dicono dal palazzo di giustizia di Lecce - se ha notizie circostanziate da fornire le ascolteremo". Intanto sul fronte investigativo si lavora nel tentativo di capire quale sia stata l'arma del delitto, considerato che la tac effettuata sul cadavere dal medico legale Roberto Vaglio ha mostrato l'assenza di fratture sul cranio e dunque escluso che la morte della sedicenne sia avvenuta a causa dei colpi di pietra. Possibile che l'arma utilizzata sia un coltello, così come ha raccontato il ragazzo, che ne attribuisce la proprietà a Noemi. I dubbi sul punto potrebbero essere sciolti nell'interrogatorio del diciassettenne che comparirà davanti alla gip del Tribunale dei minori di Lecce, Addolorata Colluto alla presenza della pm Anna Carbonara e degli avvocati difensori Luigi Rella (lo stesso che difese Cosima Serrano, la zia di Sarah Scazzi condannata all'ergastolo insieme alla figlia Sabrina Misseri) e Paolo Pepe. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando è a Lecce per partecipare alle Giornate del Lavoro della Cgil. Non si esclude che il ministro possa incontrare i vertici degli uffici giudiziari di Lecce, dopo l'avvio di un'ispezione sul caso Noemi. L'obiettivo delle verifiche è capire se provvedimenti più tempestivi da parte del Tribunale dei minori, a cui la mamma della sedicenne aveva chiesto l'allontanamento del fidanzato violento, avrebbero potuto salvare la ragazza. I primi documenti sarebbero già stati acquisiti dagli ispettori negli uffici giudiziari salentini. "Abbiamo ritenuto opportuno intervenire perché a una prima valutazione sono emerse delle condotte nell'attività dei magistrati che possono far supporre delle abnormità - ha detto il ministro -. Gli atti sono stati acquisiti da poco, non ci sono ancora novità". La verifica riguarderebbe la cosiddetta "abnormità funzionale", ovvero ipotetici comportamenti dei magistrati, che potrebbero aver determinato una stasi nel procedimento in atto, che riguardava la richiesta di allontanamento del fidanzato manesco. Allo stadio embrionale anche l'indagine del Csm, che martedì esaminerà il caso nella riunione del Comitato di Presidenza e deciderà se avviare un procedimento disciplinare.

Omicidio di Noemi Durini, il papà: «La colpa? È del padre del ragazzo». Le accuse del papà della 16enne davanti alla casa dell’assassino. La madre: dai servizi sociali solo promesse, scrive Andrea Pasqualetto il 15 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Maglietta nera, testa pelata, faccia scura e un incontenibile furore. Ieri mattina il padre di Noemi si è presentato così a casa dei genitori del ragazzo che ha confessato di aver ucciso sua figlia. Non sono state carezze: «Bastardo, vieni fuori!». E giù calci sul cancello, fortunatamente chiuso, peraltro ripreso dalle telecamere della trasmissione Quarto grado. Arriva un carabiniere che cerca di fermarlo: «Durini, stai calmo!». Umberto Durini decide di mollare la presa e, visibilmente alterato, prova a spiegare le ragioni di tanto odio: «Non potevano vedere mia figlia». Biascica, si dispera, racconta la sua versione dei fatti mentre guarda con ferocia la casa del presunto assassino: «Quella mattina mia figlia è uscita per chiarire. Subito dopo essere salita in macchina il ragazzo deve averla stordita con un pugno...». Secondo Durini il ragazzo l’avrebbe portarla a casa sua. «Il padre ha fatto tutto il resto, l’ha finita e buttato il cadavere. Io il ragazzo lo perdono, protegge suo padre ma non lo salverà». Parole pesanti come pietre. Una convinzione che non si capisce dove trovi fondamento, in quali prove se non in una sensazione radicata dentro se stesso, l’ennesima esplosione del grande odio maturato nell’ultimo anno fra queste due famiglie. Ma per gli inquirenti la verità, al momento, è un’altra: il fidanzato l’ha uccisa (una Tac eseguita ieri ha escluso che l’arma fosse una pietra) e il padre l’ha aiutato a nascondere il corpo sotto un cumulo di sassi. Durini ricorda quasi con comprensione quel «ragazzo pazzo. Il papà l’aveva cacciato e lui andava a dormire nelle case abbandonate. Noemi era commossa e mi diceva “aiutiamolo noi”. L’ho così ospitato per tre mesi a casa mia (è separato dalla moglie, ndr). Gli ho comprato sigarette, vestiti, medicine...». Ma la moglie, Imma, ha visto il pericolo in quel ragazzo e a maggio l’ha denunciato. «Dopo la denuncia sono venuto qui da loro, volevo parlare, volevo trovare un punto d’incontro — prosegue lui —. E loro mi hanno trattato da delinquente. “Non vogliamo drogati”, dicevano a me che non so nemmeno cosa sia la droga».

Imma lo sostiene: «Mia figlia era allegra, educata e rispettosa. È nata in una famiglia sana, ecco perché è morta. Se è morta è colpa di quell’uomo (intende il padre del ragazzo, ndr)...». Imma Rizzo è incredula di fronte ai genitori del diciassettenne che hanno usato parole di disprezzo per la figlia uccisa: «Con quale coraggio parlano ancora di Noemi?». Nel giorno in cui il ministro Orlando parla di «abnormità nell’attività dei magistrati», la madre di Noemi tira in ballo gli assistenti sociali: «Dal 19 luglio mi avevano promesso che sarebbero intervenuti per aiutarmi a fare un piano rieducativo per mia figlia... e invece non è successo. Vedevo che la situazione mi stava sfuggendo di mano, per questo mi sono rivolta a loro. Ma non volevo rinchiuderla in qualche istituto. Volevo soltanto che ci aiutassero». Nel frattempo Durini si calma e si allontana dall’odiata casa. Si affaccia la madre del ragazzo. Dice che il padre di Noemi ha sfasciato una macchina parcheggiata dall’altra parte dell’abitazione. Esce anche il padre e conferma. In effetti, dietro casa, c’è un’automobile con il lunotto in frantumi. Ma quella macchina non è loro, precisano i genitori del diciassettenne che oggi sarà interrogato dal gip dei minori. Pare sia del fratello di un vicino di casa, che vive Torino. Ma Durini, questo, non lo sapeva.

A «Studioaperto» del 15 settembre 2017 lo sfogo della donna nei confronti dei genitori del fidanzato-omicida intervistato da «Quarto Grado». A Studio Aperto, telegiornale di Italia1, è andata in onda un'intervista esclusiva, realizzata da «Quarto Grado», alla mamma di Noemi, la 16enne di Specchia, in Salento, che sarebbe stata uccisa dal fidanzato, come da lui stesso confessato. Nell’intervista prosegue la lotta a distanza tra le due famiglie, quella di lui e quella della vittima: «Queste persone hanno sempre calunniato mia figlia e gli inquirenti lo sanno».

Noemi, è scontro fra le due famiglie. La mamma della 16enne: sono tutti complici, lʼhanno minacciata. Il papà della vittima: "Ad ucciderla è stato il padre del ragazzo". La mamma del fermato: "Lei aveva comprato una pistola per ucciderci", scrive Tgcom il 15 settembre 2017. Non trova pace Noemi Durini. A 48 ore dalla svolta nelle indagini e dal ritrovamento del corpo nel Leccese, la sua famiglia accusa quella del fidanzato 17enne. A loro volta i genitori del reo confesso rispondono per le rime, accusando la vittima di aver addirittura comprato una pistola per ucciderli. La madre del fermato: "Noemi aveva la pistola"- Secondo la madre del presunto omicida, Noemi era una ragazza diabolica. Ai microfoni di Pomeriggio Cinque la donna ha raccontato di "averla vista con i miei occhi. E' stata espulsa dalla scuola perché aveva picchiato una ragazza". Affrontando la situazione psicologica del figlio, ha invece spiegato che lui "doveva fare la terapia, un po' la lasciava, un po' la riprendeva. Noemi? So che ha fatto la colletta per comprare una pistola e uccidere me, mio marito e mia figlia dodicenne. E' diabolica". La donna ha quindi definito "una persona pericolosa" il padre di Noemi. Le accuse del padre di Noemi - Davanti ai microfoni di Quarto grado era stato il padre di Noemi a dare il via alla battaglia a distanza. Umberto Durini si era presentato davanti all'abitazione di Alessano dove abitano i genitori del 17enne e ha accusato il padre del ragazzo. "Lui ha ucciso Noemi", ha attaccato. Il ragazzo "sta nascondendo suo padre, lo protegge, ma quello non si salverà, ha fatto tutto lui", ha sottolineato, sostenendo di voler perdonare il giovane per quello che ha fatto. La mamma di Noemi: "Hanno calunniato mia figlia, ci sono le minacce" - L'ultima, per ora, a prendere la parola è stata Imma Durini. Ai microfoni di Quarto Grado la donna ha difeso la figlia: "E' nata in una famiglia sana: mentre lei (riferito al padre del fermato, ndr) non la poteva vedere, perché suo figlio doveva diventare il secondo delinquente come lei". E ancora: "Hanno calunniato mia figlia, che invece voleva fare la crocerossina con quel ragazzo. Queste persone hanno sempre mandato calunnie nei confronti di mia figlia e gli inquirenti lo sanno: prenderanno i tabulati e ci saranno le minacce vocali, telefoniche, con messaggi di Whatsapp o altri messaggi normali". Un fiume in piena la donna in tv. "Noemi era sempre allegra, educata e rispettosa. Così la devono ricordare... come la ricordiamo noi, non la vedo più entrare in casa per colpa loro... la devono pagare tutti in questa famiglia, tutti! Sono tutti complici!" ha poi ribadito la mamma. "Gli assistenti sociali non sono intervenuti. Dal 19 luglio mi avevano promesso che sarebbero intervenuti per aiutarmi e fare un piano rieducativo per mia figlia... e invece non è successo", ha proseguito Imma Rizzo. "Perché - ha aggiunto la donna - vedendo la situazione con mia figlia che mi stava un po' sfuggendo, ho chiesto aiuto ai servizi sociali... ma non perché mia figlia dovesse essere rinchiusa, ma perché mia figlia doveva essere aiutata insieme alla mamma".

Noemi Durini, la rabbia della madre: “Su mia figlia solo calunnie”, scrive il 15 settembre 2017 "Diretta news". Continua a non darsi pace Imma Rizzo, la mamma di Noemi Durini, uccisa barbaramente dal fidanzato Lucio Marzo e trovata nelle campagne del Sud Salento due giorni fa. La donna più volte aveva denunciato le violenze perpetrate dal 17enne nei confronti della figlia. E’ stata proprio la donna disperata a ribadire questo aspetto appena si è diffusa la notizia della morte: “Lo sapevate, lo sapevate tutti che lui l’aveva ammazzata”, ha urlato. Proprio per questa ragione, il ministro della Giustizia Orlando ha avviato un’inchiesta sulla procura per i minorenni di Lecce. Gli ispettori dovranno accertare se realmente siano rimaste inevase le denuncia di Imma Rizzo. Intanto, il papà di Noemi è tornato ad accusare Biagio Marzo, padre di Lucio, sostenendo che a suo avviso sarebbe lui l’assassino della figlia. Imma Rizzo, in queste ore, ha voluto difendere la memoria della figlia barbaramente uccisa in un’intervista alla trasmissione televisiva Quarto Grado. Ha sottolineato la mamma di Noemi Durini: “Mia figlia è una ragazza solare, che parlava con tutti. Le piaceva avere amicizie con tutti, però queste persone cattive me l’hanno portata via”. La donna ha aggiunto: “Queste persone hanno sempre calunniato mia figlia e gli inquirenti lo sanno. Quando prenderanno i tabulati, emergeranno le minacce telefoniche, con messaggi Whatsapp e anche con messaggi normali”. Imma Rizzo poi guarda fisso la telecamera e si rivolge al padre dell’assassino reo confesso della figlia: “Quindi signor Marzo, lei può dire a me qualunque cosa, ma mia figlia non la deve toccare mai più”. La mamma di Noemi Durini respinge poi le accuse secondo le quali la 16enne avrebbe anche tentato di acquistare una pistola per poi uccidere i ‘suoceri’: “Mia figlia non si sarebbe mai permessa, anche perché mia figlia è nata in una famiglia sana, in una famiglia perfetta e proprio per questo si è ritrovata morta. Lei, signor Marzo, non la poteva vedere, perché suo figlio doveva diventare un delinquente come lei. E mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo”.

La mamma di Noemi Durini a Quarto Grado: “Sono tutti complici”, scrive Filomena il 16 settembre 2017 su "Ultime notizie flash". Per la prima volta in tv in una lunga intervista, la mamma di Noemi Durini, la signora Imma, parla alle telecamere di Quarto Grado, nella puntata in onda il 15 settembre 2017. Una intervista piena di rabbia, di dolore e di disperazione. Il racconto della vita di sua figlia, le difficoltà. “Io avevo chiesto aiuto, mi ero resa conto che mia figlia sfuggiva alla mia educazione. Per questo mi sono rivolta agli assistenti sociali. Non di certo perchè la rinchiudessero ma perchè mi dessero una mano, usando la loro competenza. E nessuno mi ha aiutato” queste le parole della signora Imma. Noemi era una ragazzina veramente speciale. Anzi… è tuttora una ragazzina speciale, perché ci guida da lassù. Lei sta con noi… è un pezzo di cuore che resterà sempre qua dentro. Noemi era solare e lo potete chiedere a tutti. Era sempre allegra, le piaceva dialogare e avere amicizie. Però queste persone cattive me l’hanno portata via. All’inizio hanno fatto finta di volerle bene. Ma quando hanno visto che mia figlia veniva da una famiglia di onesti, di persone che si guadagnano un pezzo di pane lavorando da mattino a sera per mantenere la famiglia… hanno visto che non potevano competere. Questa, forse, è la risposta più giusta. Con l’onestà e il lavoro delle persone che sudano dalla mattina alla sera, no, non ce la facevano… Sono persone disoneste: lo sanno tutti. Però, adesso, che purtroppo Noemi quelle brutte persone me l’hanno portata via… perché sono veramente delle brutte persone…, la devono smettere di infangare la memoria di mia figlia".

La mamma di Noemi parla di sua figlia ricordando come fosse amata e ben voluta da tutti. E anche la sorella di Noemi ha qualcosa da dire per descrivere quello che era il comportamento del fidanzato di Noemi. Quando ha capito che aveva usato violenza contro sua sorella gli ha proibito di entrare in casa e gli ha detto di non farsi vedere in paese, lui per tutta risposta, l’avrebbe minacciata. Le due donne sono convinte di una cosa: Noemi voleva fare la crocerossina e ha pagato per questo suo errore. La signora Imma invita i genitori di Lucio a lasciare da parte le sceneggiate. Crede nella giustizia e aspetta che sia faccia davvero luce su quanto accaduto: ci sono dei messaggi, delle mail, i tabulati. Le indagini dimostreranno come sono andate davvero le cose e Noemi potrà riposare in pace. "Mia figlia è nata in una famiglia sana, perfetta: ecco perché è morta. Mia figlia, grazie a lei, signor Biagio, a lei che non la poteva vedere, perché suo figlio doveva diventare il secondo delinquente come lei… Mi assumo tutte le mie responsabilità e con questo ho chiuso".

Il veto di mamma Imma sui funerali: “Niente banda o show, sennò urlo”. Il paese di Specchia preparava esequie solenni coi maxischermi. La madre della ragazza: “No, solo la bara a casa per l’ultimo saluto”, scrive Francesco Grignetti il 15/09/2017 su "La Stampa". Ora che Noemi non c’è più, il suo cadavere parla. Urla. Ma quella famiglia che era diventata invisibile agli occhi del paese, con i suoi drammi, la sua caduta nella povertà, dieci anni di vita agra che nessuno aveva voluto vedere, e ora pure il precipizio di un violento in casa, non ci sta a diventare icona di un dolore troppo ostentato per essere del tutto sincero. A caldo, a Specchia è nato un comitato spontaneo che aveva immaginato di fare le cose in grande: camera ardente in un locale comunale, feretro che sfila per la strada principale del paese, banda, contorno di motociclisti «perchè Noemi amava tanto le moto». E poi fiori da tutte le parti, gigantografia, messa solenne, forse pure gli altoparlanti e i maxi schermi in piazza. Invece no, mamma Imma rifiuta ogni pompa esteriore. La sua voce arriva ferma nella sala comunale dove ieri sera, attorno alle 19 si sono trovati in tanti, con assessori e parroco, a progettare l’ultimo saluto. «No a tutto - ha scandito la madre - non voglio fiori, non voglio sfilate e banda. Voglio solo che mi portino la bara a casa per un ultimo saluto, io e lei, con la nostra famiglia e basta. E poi dritti in chiesa. Dove nessuno deve neppure gridare, perché se no griderò io, con il dolore che provo, ci manca pure che qualcuno faccia lo show». Niente altoparlanti, allora. E se proprio ci devono essere le motociclette, «le voglio con il motore spento».  Così parlò mamma Imma. Che palesemente rifugge tutti questi eccessi un po’ sospetti dell’ultima ora. Ha altro a cui pensare. Un cuore spezzato per non essere riuscita a impedire quel che aveva visto avvicinarsi. Si è sentita abbandonata da tutto e da tutti. Si capisce lo sfogo della cugina, Alma, che quando è accorsa, l’altra sera, ha preso a spintoni i troppi curiosi che affollavano la stradina dove Noemi abitava, urlando «Lo sapevate tutti!». Forse no, forse nessuno sapeva. Ma questo non assolve il paese. Nessuno sapeva perché nessuno voleva sapere. Una mamma che da dieci anni si spaccava la schiena per portare avanti la famiglia, dopo che il marito l’aveva mollata senza un perchè e soprattutto senza un soldo. Nella piazza del paese, dove si fa il punto della situazione come accade da tempi antichi, il signor Giuseppe, dalla soglia della sua bottega di ciabattino, ammette: «Lo sapeva tutto il paese che Imma faticava a tirare avanti, con le due figlie grandi del primo matrimonio e poi la terza figlia del nuovo compagno. Per un periodo ha fatto da badante ad alcuni vecchi. Da qualche tempo aveva trovato un lavoretto nel paese vicino, in un asilo, dove teneva i bambini». Anche il parroco, don Antonio, non sapeva. Si torce le mani per il dispiacere. «Imma è una donna di fede, partecipa alle attività parrocchiali, è nel coro. Ma con me non si è mai confidata. Io, che Noemi avesse un ragazzo, l’ho saputo solo ora. E pensare che quel ragazzo è del mio paese. Se Imma me ne avesse parlato, chissà, mi sarei attivato».  Imma aveva preferito investire lo Stato. Due denunce ben particolareggiate alla magistratura. E nessuna risposta. Di questo ora i magistrati leccesi parleranno con gli ispettori inviati dal ministro Orlando. Qualcosa doveva avere detto anche ai carabinieri, tanto che il maresciallo del paese, Giuseppe Borrello, è andato quasi a colpo sicuro sul fidanzato violento. Conferma, il maresciallo, che la signora Imma «ci fece un paio di segnalazioni nei mesi scorsi, perché la figlia non era tornata a casa la notte». Piccole ragazzate, aveva pensato il maresciallo.  Già, la famiglia invisibile si trovava a fronteggiare un tumore dilagante in casa, con il ragazzo manesco e quella adolescente ribelle che non aveva mai digerito sul serio la rottura tra i genitori e forse nemmeno l’entrata in scena di un padrino, ma nessuno ha alzato un dito. Una totale solitudine. Fatto sta che nell’ultimo anno Noemi viveva da una parte, la mamma da un’altra, il padre desaparecido nonostante vivesse nello stesso fazzoletto di case, la sorella all’università. E Lucio, il suo lui, era diventato qualcosa di importante. Un salvagente. Nonostante le mattane, la gelosia, le botte che ogni tanto partivano a casaccio. Una volta era tornata piena di lividi e lo zio Rocco non riusciva a darsi pace che quei due ancora filassero. Raccontano in tanti che dopo la separazione tra i genitori, fossero stati i nonni materni, Vito e Vincenza, a tirare su quella bambina in crisi. «Io - dice la giovane Paola, al bancone del bar nella strada principale del paese - quando vedo alla televisione certe storie, mi sembrano così lontane che non le sento reali. Poi capita qui accanto, a una che conoscevo e ha quasi la mia età, e non riesco a crederci. Posso toccare con mano la cattiveria». Il giorno dopo lo show di Lucio, intanto, Imma ha realizzato che il rischio è l’infermità mentale. «Quello se la cava facendo il pazzo». E il Comune ha deciso di stanziare dei soldi per un buon avvocato. Si costituirà parte civile. In fondo a Imma e a Noemi glielo devono.

Noemi, il genitore accusa il papà del fidanzato: ha fatto tutto lui. Sabato mattina l'interrogatorio di garanzia del 17enne. Gli ispettori del ministero hanno acquisito gli atti, scrive il 15 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Ha fatto tutto lui». Umberto Durini non ha dubbi: a provocare la morte di sua figlia Noemi non è stato il fidanzato diciassettenne reo confesso ma suo padre, che provava nei confronti della ragazzina «un odio indescrivibile». Con il passare dei giorni, quello che era il dramma di una sedicenne che ha avuto l’unica colpa di innamorarsi del ragazzo sbagliato diventa sempre più una faida tra famiglie. Intrisa di veleni e rancori. Dove Umberto trovi tutte queste certezze, non è dato sapere: le indagini dei carabinieri e della procura di Lecce non hanno ancora chiarito il ruolo del padre di Lucio, che resta indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere. Una serie di accertamenti sono in corso e qualche risposta potrebbe arrivare dall’autopsia sul corpo della ragazza, che si terrà martedì, e dall’esame delle macchie di sangue rinvenute sulla 500 con cui alle 5 del mattino del 3 settembre il ragazzo è andato a prendere Noemi. Allo stato, dunque, l’ipotesi più probabile resta quella che il ragazzo abbia confessato al padre quello che aveva fatto e questi lo abbia aiutato a far sparire il corpo di Noemi. O, quantomeno, a pulire l’auto dopo che il giovane si era liberato del cadavere della fidanzata. Umberto Durini è convinto però che sia andata in tutt'altro modo e anche se non dice mai in maniera chiara che è stato il padre di Lucio ad uccidere sua figlia, la sua ricostruzione dei fatti è tutta in quella direzione. Tanto che di prima mattina si è presentato davanti a casa della famiglia di Lucio ad Alessano urlando e cercando di entrare. «Me l’ha uccisa, vieni fuori bastardo, vieni fuori» ha inveito più volte, con i carabinieri che a fatica sono riusciti a fermarlo. Poi l’uomo si è calmato e si è sfogato con i cronisti. Noemi «era la ragazza più brava del mondo. Non era perfetta, ma era brava e onesta». Una sedicenne che una settimana prima di sparire sembrava aver trovato finalmente la pace, stando a quello che dice il padre. «Stava finalmente bene, tornava a casa tutte le sere alle 20 e mi abbracciava. Era riuscita a lasciarlo, anche se lo amava e lo adorava». Ma era Lucio il problema? «No» risponde lui. E torna indietro nei mesi. «Lui con me era come un agnello. Quando l’hanno cacciato di casa, perché vedeva mia figlia, è venuto a dormire da me. Andava a dormire nelle baracche e io me lo sono portato a casa. Gli ho preso le medicine in farmacia, gli ho dato i vestiti e le sigarette. E lui si era calmato». Sono stati i suoi genitori, il padre in particolare, a far precipitare tutto. «Dopo le denunce di mia moglie avevo la verità davanti agli occhi e non volevo vederla - sostiene Umberto Durini - Però sono andato da loro, volevo parlare, io sono una persona che parla non un violento. Volevo trovare un punto d’incontro. E loro mi hanno aggredito. Mi hanno trattato come un delinquente, dicevano “noi non vogliamo avere a che fare con i drogati”. A me? Che non so neanche dove sta la droga». Quella famiglia, aggiunge, «provava un odio indescrivibile per mia figlia, un odio che non era comprensibile». Accuse condivise anche dalla mamma di Noemi, Imma. «Mia figlia era allegra, educata a rispettosa. E’ nata in una famiglia sana, ecco perché è morta» dice la donna, che poi si rivolge direttamente al padre del presunto assassino. «Mia figlia, grazie a lei, a lei che non la poteva vedere» è morta, «perché suo figlio doveva diventare il secondo delinquente come lei...Mi assumo tutte le mie responsabilità». L’odio secondo Umberto Durini è esploso definitivamente la mattina del 3 settembre. L’uomo si mette le mani sul viso, poi si volta verso la casa del padre del presunto assassino, e sibila. «Io Lucio lo perdono. Io voglio suo padre e basta, perché so tutto. Quella mattina mia figlia è uscita per chiarire. Subito dopo essere salita in macchina il ragazzo deve averla tramortita con un pugno». E poi? «E poi è venuto qua - Umberto indica la casa del padre di Lucio -. Il padre ha capito la situazione e ha detto “ci penso io”. E’ lui che ha fatto tutto il resto». L’uomo si ferma, poi riattacca. «Lucio sta nascondendo suo padre, lo protegge. Ma non lo salverà. Ha fatto tutto lui e ha fatto festa come un bambino a Disneyland».

LA TAC ESCLUDE LA MORTE PER LA PIETRA - Noemi non è stata uccisa con un colpo di pietra alla testa. Lo hanno escluso i risultati di una Tac eseguita, alla presenza del medico legale Roberto Vaglio, nella camera mortuaria dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce sul corpo della ragazza, scomparsa da casa il 3 settembre scorso, presumibilmente ammazzata la stessa mattina e il cui corpo, nascosto sotto un cumulo di pietre, è stato trovato due giorni fa nelle campagne di Castrignano del Capo (Lecce) su indicazione del presunto omicida reo confesso, il fidanzato di 17 anni. Dall’esame non emergerebbero segni di fratture scheletriche sul cadavere, né tanto meno alla testa e questo fa escludere l'ipotesi iniziale che la ragazza sia stata uccisa a colpi di pietra. Domani alle 10,30, nella casa protetta dell’hinterland leccese in cui è rinchiuso in stato di fermo, ci sarà l'interrogatorio di garanzia del 17enne dinanzi al gip del tribunale per i minorenni di Lecce. Il ragazzo, quando ha confessato il delitto, disse di aver ucciso Noemi con un coltello che la ragazza avrebbe portato con sé uscendo da casa il 3 settembre. Della presunta arma del delitto non è stata trovata traccia, ma per sciogliere i dubbi su come la sedicenne di Specchia sia stata uccisa sarà decisiva l’autopsia che dovrebbe essere eseguita lunedì prossimo. Un primo esame esterno del cadavere, il giorno del ritrovamento, ha evidenziato la presenza di lesioni al collo: potrebbero essere state procurate da qualcuno con un’arma da taglio, ma potrebbero anche essere le conseguenze dell’azione di insetti e larve su un corpo in stato di decomposizione, quale era quello della sedicenne. L’interrogatorio di garanzia di domani potrebbe servire a chiarire, ad esempio, il movente del delitto. Il 17enne, accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere in concorso, quando ha confessato il delitto ha riferito di aver ucciso la fidanzata perché Noemi voleva che lui sterminasse la sua famiglia, che ostacolava la loro relazione sentimentale. Così come non è ancora chiaro il ruolo che, secondo l’accusa, potrebbe avere avuto nella vicenda il padre del ragazzo, indagato per sequestro di persona e concorso in occultamento di cadavere. Che tra le famiglie dei due adolescenti non corresse buon sangue lo si era capito dalla denuncia che la mamma di Noemi, Imma Rizzo, aveva sporto nel maggio scorso alla Procura per i minori per presunte violenze che la ragazza avrebbe subito dal fidanzato, e dalla contro-denuncia che la famiglia del 17enne aveva presentato un paio di settimane dopo nei confronti della ragazza, accusata di stalking. Da quel momento la situazione di astio reciproco si è andata trascinando fino all’epilogo tragico. E’ il motivo per cui ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha chiesto all’ispettorato di verificare se ci siano state sottovalutazioni e se l’omicidio della sedicenne potesse essere evitato. «Abbiamo ritenuto opportuno intervenire - ha spiegato ancora oggi il ministro Orlando - perché a una prima valutazione sono emerse delle condotte nelle attività dei magistrati che possono far supporre delle abnormità. Gli ispettori hanno acquisito gli atti oggi. Naturalmente - ha aggiunto - questo non cancellerà il dolore dei famigliari». 

Domani alle 10,30, nella casa protetta dell’hinterland leccese in cui è rinchiuso in stato di fermo, ci sarà l'interrogatorio di garanzia del 17enne dinanzi al gip del tribunale per i minorenni di Lecce. Il ragazzo, quando ha confessato il delitto, disse di aver ucciso Noemi con un coltello che la ragazza avrebbe portato con sé uscendo da casa il 3 settembre. Della presunta arma del delitto non è stata trovata traccia, ma per sciogliere i dubbi su come la sedicenne di Specchia sia stata uccisa sarà decisiva l’autopsia che dovrebbe essere eseguita lunedì prossimo. Un primo esame esterno del cadavere, il giorno del ritrovamento, ha evidenziato la presenza di lesioni al collo: potrebbero essere state procurate da qualcuno con un’arma da taglio, ma potrebbero anche essere le conseguenze dell’azione di insetti e larve su un corpo in stato di decomposizione, quale era quello della sedicenne.

L’interrogatorio di garanzia di domani potrebbe servire a chiarire, ad esempio, il movente del delitto. Il 17enne, accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere in concorso, quando ha confessato il delitto ha riferito di aver ucciso la fidanzata perché Noemi voleva che lui sterminasse la sua famiglia, che ostacolava la loro relazione sentimentale. Così come non è ancora chiaro il ruolo che, secondo l’accusa, potrebbe avere avuto nella vicenda il padre del ragazzo, indagato per sequestro di persona e concorso in occultamento di cadavere.

Lecce, 16enne scomparsa: trovato il corpo. Il fidanzato minorenne confessa l'omicidio. Le tappe della vicenda. Noemi Durini è stata vista l'ultima volta la mattina del 3 settembre: l'ansia dei genitori, le indagini degli inquirenti. Terminati i primi esami a bordo della Fiat 500 dove la giovane è stata vista per l'ultima volta, scrive Raffaella Cagnazzo il 13 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera".

La vicenda: Noemi scomparsa il 3 settembre. È stata la mamma la prima ad accorgersi che Noemi Durini non era nella sua stanza, la mattina di domenica 3 settembre. La giovane, 16 anni, vive a Specchia, in provincia di Lecce, dalla separazione dei genitori: è con la madre Imma Rizzo, il nuovo compagno di lei e la sorella Benedetta. Si era già allontanata da casa altre volte, ma solo per pochi giorni, due o tre - spiega la madre - ed era sempre rientrata. A destare sospetti è il fatto che Noemi abbia lasciato a casa i suoi effetti personali: il portafogli e il telefono cellulare. Dopo alcuni giorni di silenzio, martedì 5 settembre la donna presenta la denuncia e scattano le ricerche della Prefettura di Lecce che attiva il tavolo di coordinamento delle ricerche.

Le ricerche e l'attenzione alle amicizie «a rischio». La ricerche si fanno sempre più serrate e la segnalazione della ragazza scomparsa si allarga su tutto il territorio nazionale. Per cercarla, arrivano in Puglia anche i cani molecolari dell'unita cinofila in dotazione a carabinieri e vigili del fuoco. Le indagini si concentrano in particolare sulla cerchia di amicizie della ragazza, considerate «a rischio», e sul fidanzato di Noemi, un minorenne di Montesardo, frazione di Alessano.

Le ricerche e l'interrogatorio del fidanzato. Le ricerche si concentrano attorno a Macurano di Alessano, paese di origine del fidanzato di Noemi. È stato lui l'ultima persona ad aver visto viva la ragazza, all'alba del 3 settembre: una telecamera di sorveglianza li ha ripresi mentre transitano in via San Nicola di Specchia. Sul caso la magistratura indaga per sequestro di persona e apre due inchieste: un fascicolo della Procura ordinaria e uno presso il Tribunale per i minorenni. I controlli, anche con cani molecolari, sono estesi a grotte, inghiottitoi, cisterne, pozzi: un terrapieno in una campagna lungo la strada che da Alessano conduce a Novaglie viene ispezionato senza risultati.

Il fidanzato indagato per omicidio volontario. La svolta nell'indagine arriva mercoledì 13, a dieci giorni dalla scomparsa della ragazza: Il fidanzatino 17enne di Noemi Durini è indagato per omicidio volontario. Le telecamere di sicurezza di un'abitazione di Specchia certificano che il ragazzo e Noemi erano insieme all'alba del 3 settembre, a bordo di una fiat 500 di proprietà della famiglia del ragazzo: a bordo dell'auto - da giorni sotto sequestro - non sono stati trovati elementi utili all'indagine. Il fidanzato ha raccontato di aver lasciati Noemi nei pressi del campo sportivo, ma le sue dichiarazioni avrebbero lati oscuri e qualche contraddizione. L'iscrizione del suo nome nel registro degli indagati è disposta dalla Procura per i minorenni di Lecce per permettere l'esecuzione di accertamenti utili alle indagini.

Trovato il corpo, il fidanzato confessa: «L'ho uccisa io». Un episodio con tanti lati oscuri che man mano che passano i giorni, si connota sempre meno come un allontanamento volontario e assume i contorni del giallo. Fino alla confessione del fidanzato. A dieci giorni dalla scomparsa di Noemi durini, gli investigatori trovano il corpo e lui confessa l'omicidio.

Noemi su Facebook: «Non è amore se ti fa male». Il profilo Facebook di Noemi si popola, con il passare delle ore, di messaggi e di appelli, anche di violenza verbale. Commenti che vengono lasciati sotto gli ultimi post della ragazza tra foto dei suoi look, selfie e frasi ripostate: «Non ve lo darei neanche se l'avessi doppio» commentava con un cuore accanto ad una foto abbracciata al fidanzatino, l'11 agosto gioiva per il suo «Fidanzamento ufficiale», pochi giorni dopo scriveva «La voleva l'amore mio» accanto ad un selfie in shorts di jeans. Tra i tanti post anche frasi condivise da altri siti e pagine social, una in cui si legge: «Se ha voglia di te, non se ne va, non sparisce. Non credere a chi ti dice il contrario, sono solo parole. Chi ti ama ti vuole vicino, ha bisogno di stringere la tua mano, anche restando semplicemente lì, in silenzio». E ancora in un post del 23 agosto: «C'è vita fuori da una relazione abusiva. Non è amore se ti fa male, non è amore se ti controlla, non è amore se ti fa paura di essere ciò che sei, non è amore se ti picchia, ti umilia, non rispetta la tua volontà.

Noemi, parla il carabiniere che ha interrogato il ragazzo. "Non si è pentito", scrive il 16 Settembre 2017 Giuseppe Spatola su "Libero Quotidiano”. Un'ora e tre quarti faccia a faccia con il mostro che non ti aspetti, cercando una ragione della follia che ha spezzato due giovani vite e gettato un intero paese nel dramma. Così il maresciallo capo Giuseppe Borrello, 40 anni e tre figli, comandante della stazione dei carabinieri di Specchia, nella lunga notte passata in caserma con l'unico indiziato ha cercato di riordinare gli ultimi scampoli di vita di Noemi Durini, portando il giovane fidanzato ad ammettere l'atroce mattanza. Lui, ragazzino violento con un passato già frastagliato da "problemi", ha confessato ma non si è pentito. Anzi. «Il ragazzo è stato lucido e chiaro nella ricostruzione dei fatti - ha confermato il maresciallo -. Ma non ha avuto crisi di pianto o momenti di sconforto, dal punto di vista emotivo e di ricostruzione dei fatti non ha evidenziato disagio di tipo psichico».

Freddo e distaccato, anche quando vi ha detto "sono stato io"?

«Nessuna reazione. Per noi è stata una conferma drammatica di quanto avevamo raccolto con le indagini dal giorno della scomparsa».

Cosa lo ha portato a confessare...

«Si sentiva braccato. La pressione psicologica lo ha portato a venire a confidarsi con me. Cercava qualcuno che lo potesse guidare verso la confessione per liberarsi del peso. Del resto i giornali e l'opinione pubblica lo avevano indicato come principale sospettato. Aveva paura dell'arresto. Si è tolto un peso e ha scelto di farlo con chi nei giorni passati lo aveva sentito ma anche consigliato, rassicurandolo che sarebbe stato tutelato in tutti i sensi data la sua giovane età. A quel punto ha parlato...».

Ma con lei non ha fatto lo sbruffone, non si è bullato così come ha invece fatto all' uscita della Caserma...

«Il ragazzo con me è stato molto tranquillo, remissivo, non ha fatto colpi di testa. Non mi aspettavo questa reazione all' uscita dalla caserma. Non è stato un bel gesto nei confronti della popolazione. Eppure pochi istanti prima mi aveva fatto intendere che non dormiva da giorni per il peso che nascondeva e la paura di finire in manette. Non ce la faceva più a sopportare un peso simile anche a livello fisico».

Una confessione che tira fuori dai guai il padre, pure lui coinvolto nell' inchiesta.

«Non ha mai parlato del padre. Per l'adulto la vicenda sarà magari approfondita dall' autorità giudiziaria».

La questione che lascia però perplessi è la storia tormentata di questa giovane coppia, dove tutti parevano sapere dei litigi e delle violenze ma in paese nessuno ha mai parlato fino al giorno dopo il dramma. È normale?

«I problemi ci sono stati, è innegabile, ma la comunità ci ha aiutati tanto da ipotizzare il coinvolgimento del giovane».

La famiglia del fidanzato aveva denunciato la ragazza per atti persecutori nei confronti del giovane. La denuncia sarebbe stata fatta alcuni mesi fa e 15-20 giorni dopo quella presentata invece dalla madre di Noemi che accusava il ragazzo di lesioni nei confronti della figlia. Come può una madre tutelare la figlia maltrattata se neppure denunciando il fidanzato manesco si riesce ad avere la giusta serenità?

«La madre ha fatto tutto il possibile per tutelare la giovane. Ma parlare dopo è facile. Certo lui non era un agnello, ha commesso un omicidio efferato senza provare pentimento. Solo quando ci ha portato davanti alla tomba di sassi dove aveva nascosto il corpo martoriato di Noemi l'ho visto barcollare. Un attimo. Poi è tornato presente e lucido, quasi distaccato».

Specchia come Avetrana?

«Quando muore una giovane il dramma è condiviso dall' intera comunità. Il paese avrà modo di elaborare il lutto, capendo dove si è sbagliato».

L'autopsia in prima pagina: quando la cronaca diventa abuso. La nera tra tv e giornali. Quello di Noemi Durini è soltanto l'ultimo caso della deriva di un certo tipo di giornalismo italiano, scrive Francesco Merlo il 15 settembre 2017 su "La Repubblica". È odiosa la deriva selvaggia di questo giornalismo italiano che attizza la morbosità e ti fa dimenticare la sedicenne uccisa a Specchia e l’oltraggio subito da tutte le ragazze del mondo, presi come siamo a violarne gli spasmi sotto le pietre, “anzi no, era un coltello”. Ora al pantografo sono finite le ferite, il sangue e la lama affilata. Ma le mani restano manacce che colpiscono e manine che si chiudono, e la descrizione dei colpi di bastone ti fa sentire il legno che sbatte sulle ossa. Poi si passa ai lividi vecchi che, recuperati e rinfrescati dal sempre più pietoso prosatore, bene illustrano le botte dei titoloni a tutta pagina. E così, alla fine, quando arrivi in fondo all’articolo e già attacchi il secondo, che viola lo smarrimento della madre, e poi ce ne sono un terzo sull’arma e un quarto sul luogo dell’esecuzione, alla fine, dicevo, non c’è più la morte di una bella ragazza che tutti avremmo voluto come figlia, ma c’è solo l’infinita indecenza. E non è vero che lì c’è il Dio dei dettagli, la storia concentrata. Al contrario, c’è la fuga dalla notizia alla pornografia. E più ti avvicini e più ingrandisci il dettaglio morboso più Dio si allontana da te, dal giornale, da tutti. È un giornalismo spudorato quello che in video mostra l’androne dove sono state stuprate le due ragazze americane a Firenze: «Non ne facciamo il nome» dice lo scoopista indignato mentre ci accompagna a casa loro, e in quel buio dove è stata consumata la violenza prova a rievocare lo smarrimento, vorrebbe misurare l’incommensurabilità del dolore, ma la verità è che, in questo modo, la cronaca del delitto diventa a sua volta delitto, e la notizia dello stupro è lo stupro della notizia. Ed è stato un interrogatorio “di polizia”, anzi una vera e propria trappola quella di Chi l’ha visto? ai genitori del fidanzato assassino. Il padre e la madre di Vincenzo hanno appreso dalla giornalista che il corpo era stato ritrovato e che il loro figlio aveva confessato: uno spettacolo orribile e terribile. Mentre cercavano, maldestramente, di difendere il loro ragazzo c’era infatti una bandella che annunziava quello che stava per accadere: «Ancora non sapevano che il figlio avesse confessato». Il padre, che è indagato, dice allora «bedda mia», si appoggia al tavolo, si agita come una bestia ferita: «Hanno creato un mostro» grida. Poi c’è la lunga inquadratura sullo strazio della madre che si abbandona a una serie di frasi sconnesse, straparla di killer venuti da lontano, infine sbotta «ora siamo morti» e piange nascondendo la testa tra le braccia conserte poggiate sul tavolo. Ecco, tutto questo ci ha lasciato non a bocca aperta ma a bocca chiusa. Anche la mamma dell’assassino ha diritto alla compostezza pubblica e alla disperazione privata. E invece la giornalista non le ha dato il tempo di dominarsi, di raccapezzarsi e l’ha esposta all’insana curiosità dell’Italia, ha ridotto la sua pena a tecnica spettacolare. Diciamo la verità: il rigetto è totale. È vero che Mussolini aveva proibito la cronaca nera considerandola “eversiva ed emulativa” ed è stata una liberazione riappropriarsene, un dovere del giornalismo democratico occuparsene. È insomma giusto che la cronaca nera, che non è solo roba da stampa scandalistica, occupi anche le prime pagine dei quotidiani d’informazione responsabile, dei giornali-istituzione che sanno servire il pubblico con un controllo qualificato delle reticenze, svolgendo il ruolo dei grandi testi di riferimento del passato. Come si sa, infatti, la grande letteratura gialla proviene proprio dalla cronaca nera. Ebbene, grazie alla qualità dei giornali italiani, la cronaca nera nel dopoguerra è diventata letteratura, con Dino Buzzati, Orio Vergani, Tommaso Besozzi...Ma ci sono dei doveri che il giornalista non dovrebbe mai dimenticare. E invece, in un crescendo che dura da un po’ di anni, anche colleghi sensibili, perspicaci e intelligenti, non si fermano più dinanzi alla sconcezza. Ma non è civile l’idea che il diritto di cronaca significhi infilare il naso nelle nefandezze. Ricordate il caso Cogne? Quell’omicidio ci colse impreparati. Non capimmo subito quello che stava accadendo nell’informazione italiana. In molti ricorderanno l’iniziale spaesamento e poi il crescente disagio dinanzi alla rappresentazione della violenza, alla voglia di mostrare nel dettaglio lo scempio di un corpicino, all’indugiare sul particolare raccapricciante, al calcolo dei colpi mortali, al dilungarsi sull’efferatezza, allo spacciare per scienza il bla-bla vanitoso degli psicologi del sabot assassino, alla sanguinolenta esibizione di sapere degli esperti di tragedie greche, alla truce chiacchiera su criminologia, cervello e maternità. Insomma, ci abbiamo messo un po’ di tempo a capire che dietro l’eccesso di cronaca c’era la morbosità, e che non si trattava di analisi fredda e neppure di resoconto intelligente, ma di compiacimento. Poi però, da un omicidio all’altro, da uno stupro all’altro, da un femminicidio all’altro, siamo arrivati all’attuale accanimento dell’informazione sulla cronaca nera: la pedofilia (ricordate Rignano?), le streghe di Avetrana, Meredith, Yara, la mamma assassina di Loris... Ed è stata un’escalation che ha accompagnato la crisi dei giornali, la perdita di lettori, il bisogno di fare audience e di vendere copie. Sino allo stupro di Rimini e alla diffusione di quei verbali, che ovviamente avevamo pure noi, anche se non ci è mai passato per la mente che fossero uno scoop. Erano infatti una roba da pattumiera dell’anima, un’immondizia adatta al giornalismo- immondizia e non certo alla Rai, a Mediaset, ai grandi quotidiani e ai settimanali italiani che, come già denunziò l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi — nel 2003! — «danno un rilievo altissimo ai fatti di violenza», eccedono, insistono, scavano con un furore che «finisce per dare a quei drammi una valenza esemplare che essi sicuramente non hanno», e alla fine questa gutter press, questo giornalismo da rigagnolo, commette, concludeva Ciampi, «un grave attentato alla dignità umana». Noi non pensiamo che la rappresentazione, il racconto, la fotografia, la discussione, anche quella inutile e oziosa sulla violenza, debbano essere denunziate più della violenza stessa. Ma una cosa è raccontare che c’è stato un caso di harakiri e un’altra mostrare lo sparpagliamento delle viscere. Ci sono cose che debbono essere fatte perché sono importanti: il magistrato, per esempio, deve indagare e anche, con la polizia, tendere tranelli. E il chirurgo deve operare. Ma l’operazione non si fa su Raitre o a Canale 5. E i processi si celebrano in tribunale. Né basta esibire un’indignazione morale che diventa essa stessa spettacolo. Durante il caso di Rignano, seguendo un’idea “neutrale”, furono messi a confronto in televisione i genitori dei bimbi e i presunti pedofili. Esiste, secondo noi, l’abuso di cronaca che dovrebbe essere sanzionato, non in tribunale ma nelle coscienze, dalla cosiddetta deontologia, specie quando l’abuso si spaccia per verità senza tabù, per “necessità di sapere”, per scoop. Ci sono degli eccessi e ci sono casi di abbrutimento della vita che sono così eccezionali da meritare professionalità eccezionali che sappiano, quando occorre, anche chiudere gli occhi per pietà. Così il racconto di uno stupro, come quello di Rimini, almeno sui grandi giornali come il nostro, deve essere riassunto, mediato dalla professionalità e dal pudore del giornalista, dal riserbo se necessario. Non può diventare un furto d’anima, uno squartamento interiore, il feroce avvilimento dell’umanità, un’orgia scritta di carne e liquidi, di posizioni, di sodomie, tutti convinti di scrivere come Balzac, Simenon e Truman Capote, tutti piccoli Tarantino, tutti virtuosi dello splatter. Tutti arrapati, invece, che con la penna incidono, aprono, fanno l’autopsia, sporcano e si sporcano. La cronaca nera, ci insegnarono i nostri maestri, non si commenta mai. Ma, questa volta, per dirla con Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».

Quando si oltrepassa il comune senso del pudore, scrive il 15 Settembre 2017 Oscar Iarussi su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Ci sarebbe da lasciare la pagina in bianco. Ci sono già troppe parole intorno alla tragica fine di Noemi Durini, la sedicenne salentina di Specchia, morta per mano del suo ragazzo di 17 anni. «Ho sbagliato, potevo uccidermi io e avrei evitato questo casino», avrebbe dichiarato il presunto assassino, che l’altra notte ha rischiato il linciaggio quando ha sfoderato un atteggiamento di sfida - un saluto inquietante, una smorfia derisoria - verso la folla che ne attendeva il trasferimento. Chiuso in una struttura protetta, con un passato di trattamenti psichiatrici, il «fidanzatino» - come molti continuano a definirlo con impropria tenerezza - viene descritto in preda a una confusione che si riflette nelle diverse versioni della sua confessione. «Ero innamoratissimo di lei», ha detto ai Carabinieri. «Ho reagito di fronte all’ostinazione di Noemi nel voler portare a termine il progetto dello sterminio della mia famiglia». Arma del delitto? Le pietre. Anzi, un coltello che la stessa vittima avrebbe portato con sé, di cui però finora non v’è traccia. Una storia tremenda, vissuta quasi «in prima persona» da chiunque abbia figli adolescenti, così vicini così lontani rispetto al mondo adulto. Noi genitori possiamo intuirne il disagio, i turbamenti, i dolori, ma spesso è difficile andare al cuore del loro comportamento. Perché davvero, con Pascal, «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce», persino nei casi più foschi. Così è nel tunnel oscuro e criminale di questa vicenda in un paese invece solare e ventoso qual è Specchia, un luogo elevato - dal latino specula - adatto per le osservazioni. Tra l’altro, ogni estate vi si svolge un piccolo festival dedicato al «Cinema del reale», il cui titolo rischia ora di suonare beffardo. Si è infatti subito scatenato il reality / irreality show dei mass media. Cartoline dell’irrealtà spedite a raffica, tanto più quando una tragedia - accadde anche per lo scontro ferroviario di Andria nel luglio 2016 - dà la stura a un inconsapevole e sottile svilimento del Sud. Così ieri abbiamo letto su un quotidiano milanese che «nessuno si fa troppe domande, giù nel Basso Salento, tra Specchia e Alessano, belle ville di vacanza della swinging Puglia e terre riarse dei poveracci». Noi diremmo piuttosto che tutti in Italia si fanno molte domande, in cerca di una risposta che possa «spiegare» seppur lontanamente quello che purtroppo a volte succede, nelle «terse riarse dei poveracci» come nel caso dell’omicidio di Garlasco, in provincia di Pavia. Ma il clou del Barnum mediatico è stato toccato in televisione, tanto che i vertici dei sindacato dei giornalisti, il pugliese Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, deplorano che l’inviata di Chi l’ha visto abbia comunicato in diretta ai genitori del presunto assassino di Noemi la notizia della morte della ragazza e della confessione del figlio. Sulla necessità di cautelare i minori intervengono anche il Comitato regionale per le Comunicazioni della Puglia e l’Ordine dei giornalisti della Puglia che ricorda l’importanza «di applicare i principi deontologici nell’uso di tutti gli strumenti di comunicazione, compresi i social network». Pare d’accordo l’avvocato del ragazzo, Paolo Pepe, che ieri ha dichiarato: «Nel rispetto della riservatezza e sensibilità delle famiglie coinvolte, e nel rispetto delle indagini dell’Autorità Giudiziaria, tuttora in corso, ci si esime dal diffondere e trattare mediaticamente la vicenda». Tuttavia, poco dopo, la madre del reo confesso ha letto davanti alle telecamere di La vita in diretta un biglietto che le avrebbe lasciato il figlio: «Quello che ho fatto è stato per l’amore che provo per voi. Noemi voleva che io vi uccidessi per potere avermi con sé. Sono un fallito e mi faccio schifo. Ti voglio bene papà e mamma». Il macabro «circo» ovviamente non si fermerà e già abbiamo assistito ai selfie di rito sul luogo del delitto o ad altre dirette Tv nelle quali l’informazione live degrada verso lo spettacolo della morte. Sono segnali di scadimento morale che riflettono l’orizzonte imbarbarito dagli stupri e dal razzismo. Allora, nonostante il pudore che spingerebbe a tacere, viene il sospetto che le parole servano: pacate, riflessive, ferme. Quelle dei giudici, quando toccherà a loro. Quelle degli adulti, ogni giorno. Quelle dei liceali pugliesi che ieri, in memoria di Noemi e delle vittime della violenza di genere, hanno testimoniato il loro sdegno con i sit-in a Bari e in altre città unite dall’hashtag «Ti amo da vivere». «Perché - dicono gli studenti - non si può morire amando e non si uccide mai per amore».

Due molotov lanciate nella notte contro la casa dei genitori dell'assassino di Noemi. Non erano state accese, quindi non sono esplose. Alta tensione tra le due famiglie: entrambe le case sono piantonate, scrive Chiara Spagnolo il 17 settembre 2017 su "La Repubblica". Cresce la tensione ad Alessano, il paese in cui vive la famiglia del diciassettenne reo confesso dell’omicidio della fidanzata sedicenne Noemi Durini. Due ordigni rudimentali - costruiti utilizzando bottiglie incendiarie - sono stati lanciati nella notte tra venerdì e sabato contro l’abitazione di Montesardo (frazione di Alessano) in cui il ragazzo viveva assieme ai genitori e ai fratelli. Laddove, pochi giorni fa, il padre di Noemi, Umberto Durini, era andato ad urlare la propria rabbia, accusando l’altro genitore di essere l’assassino della figlia. “Il ragazzo lo sta coprendo” aveva detto Umberto, lanciando un’accusa durissima, che potrebbe presto essere raccolta sotto forma di testimonianza dalla Procura di Lecce. Per il momento l’unico responsabile dell’omicidio viene considerato il fidanzato, indagato per omicidio premeditato, aggravato dai futili motivi e dalla crudeltà, mentre il padre è indagato solo per occultamento di cadavere. L’ipotesi è che abbia aiutato il figlio a disfarsi del corpo senza vita della fidanzata ma stride con le ammissioni del giovane, che ha raccontato agli inquirenti di avere assassinato Noemi nella campagna vicino Santa Maria di Leuca in cui è stato trovato il cadavere. Molte le contraddizioni nei suoi interrogatori, a partire dalle modalità dell’omicidio, che ha detto prima di avere effettuato con una pietra e poi con un coltello che si sarebbe spezzato. Ma sul cranio della vittima non sono state trovate ferite compatibili con le pietrate e del coltello non c’è traccia. Per non aggravare ulteriormente la sua posizione, il 17enne ha scelto di rimanere in silenzio davanti al gip Ada Colluto, chiamata a convalidare il fermo del 13 settembre e a disporre nuova misura cautelare. I difensori Luigi Rella e Paolo Pepe hanno chiesto di trasferire il ragazzo in una struttura protetta non detentiva e di sottoporlo a una perizia psichiatrica, anche allo scopo di verificare la capacità di intendere e di volere al momento del delitto. La diffusione della notizia di tale strategia processuale (che se fosse accolta potrebbe incidere molto su una futura valutazione della pena) ha ulteriormente sollecitato la rabbia degli amici e conoscenti di Noemi e l’indignazione della famiglia. A far crescere la tensione, le migliaia di commenti sui social, che spesso si trasformano in minacce che rischiano di diventare realtà. Come è accaduto appunto venerdì notte, quando ignoti hanno raggiunto la villetta gialla in cui abita la famiglia di Montesardo e hanno lanciato due molotov contro il muro: gli ordini non hanno preso fuoco. I genitori del diciassettenne erano in casa. I carabinieri di Alessano hanno recuperato i resti di due bottiglie incendiarie e verificato la presenza di telecamere di sorveglianza nei pressi dell’abitazione, che potrebbero aver ripreso i responsabili. Entrambe le abitazioni, quelle dei genitori di Noemi e del fidanzato, sono piantonate. Lunedì 18 settembre intanto dovrebbero iniziare gli accertamenti autoptici sul corpo di Noemi, che si potrebbero concludere martedì, per cui i funerali - ai quali il sindaco di Specchia Rocco Pagliara ha invitato a presenziare il ministro della Giustizia, Andrea Orlando - potrebbero tenersi mercoledì o addirittura giovedì.

Omicidio Noemi, l'ex fidanzato: «Così l'ho uccisa: abbiamo fatto l’amore poi l’ho colpita alla testa». Il pm nel decreto di fermo del 17enne: «Condotta violenta, crudele e premeditata», scrive Andrea Pasqualetto, inviato a Specchia, il 16 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Si conclude così una lunga lettera scritta da Lucio (il fidanzato 17enne arrestato con l’accusa di avere ucciso Noemi) e trovata dagli investigatori in una pen drive. È datata 30 agosto. Dopo tre giorni Lucio l’ha uccisa e lui l’ha confessato così: «Quella notte ci siamo incontrati perché mi aveva nuovamente chiesto di far fuori i miei genitori. Aveva un coltello, credo da cucina... Dopo averglielo tolto, l’ho colpita alla testa e poi con alcuni sassi. Con il coltello una sola volta perché la lama si è spezzata e il manico mi è rimasto in mano… Prima avevamo avuto un rapporto sessuale». Al di là del movente e delle modalità del delitto, sui quali gli inquirenti hanno molte perplessità, restano i fatti: da una parte una lettera d’amore, dall’altra un delitto. Entrambi firmati da questo diciassettenne che ieri, su consiglio dei suoi difensori, ha deciso di non aggiungere altro davanti al gip del Tribunale per i minorenni di Lecce. L’avvocato Luigi Rella ha chiesto per lui una perizia psichiatrica per stabilire la capacità di intendere e di volere al momento dell’omicidio. Ma il pm non crede né all’incapacità né al delitto d’impeto: «Condotta violenta, crudele e premeditata tenuta da L. nelle prime ore del 3 settembre», ha scritto nel decreto di fermo. Rimangono dei dubbi sul perché L. abbia ucciso e, soprattutto, sul ruolo di suo padre, indagato per concorso in occultamento di cadavere «solo per una questione tecnica, cioè per poter eseguire alcune perquisizioni», ha aggiunto ieri un investigatore. E rimane questa strana lettera, nella quale L. ripercorre l’ultimo tormentato anno, con Noemi e con il padre. «Un giorno andai con il mio migliore amico alla villetta del paese per incontrare gli altri amici e vidi una ragazza di nome Noemi che mi piaceva già da un bel po’ e feci di tutto per rimorchiarla… Dopo 30 giorni stavamo insieme e iniziarono guai seri con mio padre e mia madre che mi portarono all’esaurimento nervoso. Una sera furono così tante le lamentele da parte dei miei che io mi ribellai scatenando tutta la rabbia che avevo verso di loro…». E lì volarono le «manate» e ci fu il primo Tso. «Lei mi dava la forza per scappare da mio padre… Con Noemi però litigavo spesso e io soffrivo talmente tanto che mi rinchiusero a Casarano». Altro Tso. E un altro ancora lo scorso 21 luglio, dopo nove birre bevute in una sera e un crollo «etilico». Poi venne il giorno del delitto, i tentativi di depistaggio e la consegna. «E lui lo chiamava amore», ha sospirato ieri sera Umberto Durini, il padre di Noemi, passandosi una mano sulla testa. «Poco prima della scomparsa — ha ricordato sua moglie Imma — mia figlia mi aveva detto “mamma io parto, mi prendo il diploma e aiuterò le persone in difficoltà”». Nel ragazzo pare sia spuntato un barlume di pentimento: «Ho sbagliato — avrebbe detto — potevo uccidermi e avrei evitato questo casino».

Specchia e Alessano unite nel dolore: non alimentiamo faide, scrive il 17 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Non ci sono faide, non ci sono guerre tra paesi né propositi di vendetta incrociata. Però è necessario che tutti quanti abbassino i toni, altrimenti si rischia un’altra tragedia; si rischia che qualcuno dalle parole e dalle accuse, per il momento solo urlate dalle due famiglie dei ragazzini protagonisti di questa triste vicenda, possa passare ai fatti. Sono le istituzioni di Specchia e Alessano a capire prima di tutti che è necessario lasciare che la giustizia segua il suo corso, senza alimentare odi e rancori. Anche perché, come dimostrano le parole pronunciate anche oggi dalla madre di Noemi, Imma, gli animi sono tutto tranne che tranquillizzati. «Voglio giustizia - ha detto la donna - queste persone hanno fatto male a mia figlia e devono stare dentro. Lucio in prima persona deve rispondere di questo omicidio, poi ne risponderà anche la famiglia. Non sono persone normali, sono due delinquenti e nessuno di loro si deve permettere di nominare mia figlia, la lascino in pace e la smettano di offendere il nome di Noemi, che trovando loro ha trovato solo la morte». L’assassinio della sedicenne ha sconvolto profondamente una comunità dove tutti si conoscono e dove in molti sapevano del rapporto tormentato tra la ragazza e Lucio. Nei bar e nei capannelli in mezzo alla strada si parla solo di questo, ognuno dice la sua per spiegare un omicidio orrendo e, soprattutto, fioriscono i pettegolezzi, le voci non verificate, i si dice che non fanno altro che complicare e distorcere una vicenda ancora da chiarire fino in fondo. Ecco perché le istituzioni lanciano una sorta d’appello, chiedendo prima di tutto alla stampa e poi ai propri concittadini di moderare i toni. Specchia e Alessano sono unite nel dolore e nella vicinanza ad una famiglia distrutta - dice il primo cittadino del comune dove abitava Noemi, Rocco Pagliara - Ogni giorno mi sento con il sindaco di Alessano e viviamo entrambi questo dramma che riguarda l’intera comunità. Non c'è alcuno scontro tra le due comunità, tanta gente di Alessano mi ha chiamato in questi giorni per esprimermi vicinanza, per dirmi di portare il loro abbraccio alla famiglia di Noemi». Ed in ogni caso, aggiunge, «il tessuto sociale dei due paesi è sanissimo, qui c'è gente civile. Poi purtroppo ci sono anche le eccezioni che fanno clamore, ma non sono la realtà. Che è invece quella di una comunità unità». Parole condivise dal collega di Alessano, Francesca Torsello. «Ma quale guerra, ma quale faide. Fin dalle prime ore siamo vicini alla famiglia di Noemi. L’intera comunità - sostiene il sindaco - è spaesata e attonita, non capisce questa violenza. I miei concittadini sono tutti affranti e nessuno tenta di difendere l’indifendibile. Siamo una comunità con un grande senso di civiltà». Quel che è certo, aggiunge, è che «bisogna abbassare i toni. C'è una famiglia che sta soffrendo in maniera inaudita e il silenzio è il modo migliore per esserle vicino». La pensa così anche don Antonio De Giorgi, il parroco di Specchia. «È evidente che bisogna moderare i termini. Invito tutti al silenzio e a pregare per quella povera ragazza - è il suo messaggio - Le nostre comunità sono unite e vicine nello stringersi attorno alla famiglia della ragazza e a condannare unanimemente chi si è macchiato di questi delitto. Non ci sono tifoserie che patteggiano per l’uno o per l’altro, perché questo è un dramma che ha scosso tutto il territorio».

Abuso di cronaca nera su giornali e tv. La deriva selvaggia del giornalismo che attizza la morbosità, scrive Francesco Merlo il 15 settembre 2017 su "La Repubblica". E’ odiosa la deriva selvaggia di questo giornalismo italiano che attizza la morbosità e ti fa dimenticare la sedicenne uccisa a Specchia e l’oltraggio subito da tutte le ragazze del mondo, presi come siamo a violarne gli spasmi sotto le pietre, ” anzi no, era un coltello”. Dunque ora al pantografo sono finite le ferite da taglio, il sangue e la lama affilata, ma le mani restano manacce che colpiscono e manine che si chiudono, e la descrizione dei colpi di bastone ti fa sentire il legno che sbatte sulle ossa. Poi si passa ai lividi vecchi che, recuperati e rinfrescati dal sempre più pietoso prosatore, bene illustrano le botte dei titoloni a tutta pagina. E così, alla fine, quando arrivi in fondo all’articolo e già attacchi il secondo, che viola lo smarrimento della madre, e poi ce ne sono un terzo sull’arma e un quarto sul luogo dell’esecuzione, alla fine, dicevo, non c’è più la morte di una bella ragazza che tutti avremmo voluto come figlia, ma c’è solo l’infinita indecenza. E non è vero che lì c’è il Dio dei dettagli, la storia concentrata. Al contrario, c’è la fuga dalla notizia alla pornografia. E più ti avvicini e più ingrandisci il dettaglio morboso più Dio si allontana da te, dal giornale, da tutti. E’ un giornalismo spudorato quello che in video mostra l’androne dove sono state stuprate le due ragazze americane a Firenze: “non ne facciamo il nome” dice lo scoopista indignato mentre ci accompagna a casa loro, e in quel buio dove è stata consumata la violenza prova a rievocare lo smarrimento, vorrebbe misurare l’incommensurabilità del dolore, ma la verità è che, in questo modo, la cronaca del delitto diventa a sua volta delitto, e la notizia dello stupro è lo stupro della notizia. Ed è stato un interrogatorio “di polizia”, anzi una vera e propria trappola quella di “Chi l’ha visto?” ai genitori del fidanzato assassino. Il padre e la madre di Vincenzo hanno appreso dalla giornalista che il corpo era stato ritrovato e che il loro figlio aveva confessato: uno spettacolo orribile e terribile. Mentre cercavano, maldestramente, di difendere il loro ragazzo c’era infatti una bandella che annunziava quello che stava per accadere: “ancora non sapevano che il figlio avesse confessato”. Il padre, che è indagato, dice allora “bedda mia”, si appoggia al tavolo, si agita come una bestia ferita: “hanno creato un mostro” grida. Poi c’è la lunga inquadratura sullo strazio della madre che si abbandona ad una serie di frasi sconnesse, straparla di killer venuti da lontano, infine sbotta “ora siamo morti” e piange nascondendo la testa tra le braccia conserte poggiate sul tavolo. Ecco, tutto questo ci ha lasciato non a bocca aperta ma a bocca chiusa. Anche la mamma dell’assassino ha diritto alla compostezza pubblica e alla disperazione privata. E invece la giornalista non le ha dato il tempo di dominarsi, di raccapezzarsi e l’ha esposta all’insana curiosità dell’Italia, ha ridotto la sua pena a tecnica spettacolare. Diciamo la verità: il rigetto è totale. E’ vero che Mussolini aveva proibito la cronaca nera considerandola “eversiva ed emulativa” ed è stata una liberazione riappropriarsene, un dovere del giornalismo democratico occuparsene. E’ insomma giusto che la cronaca nera, che non è solo roba da stampa scandalistica, occupi anche le prime pagine dei quotidiani d’informazione responsabile, dei giornali-istituzione che sanno servire il pubblico con un controllo qualificato delle reticenze, svolgendo il ruolo dei grandi testi di riferimento del passato. Come si sa, infatti, la grande letteratura gialla proviene proprio dalla cronaca nera. Ebbene, grazie alla qualità dei giornali italiani, la cronaca nera nel dopoguerra è diventata letteratura, con Dino Buzzati, Orio Vergani, Tommaso Besozzi…

Ma ci sono dei doveri che il giornalista non dovrebbe mai dimenticare. E invece, in un crescendo che dura da un po’ di anni, anche colleghi sensibili, perspicaci e intelligenti, non si fermano più dinanzi alla sconcezza. Ma non è civile l’idea che il diritto di cronaca significhi infilare il naso nelle nefandezze.

Ricordate il caso Cogne? Quell’omicidio ci colse impreparati. Non capimmo subito quello che stava accadendo nell’ informazione italiana. In molti ricorderanno l’iniziale spaesamento e poi il crescente disagio dinanzi alla rappresentazione della violenza, alla voglia di mostrare nel dettaglio lo scempio di un corpicino, all’indugiare sul particolare raccapricciante, al calcolo dei colpi mortali, al dilungarsi sull’efferatezza, allo spacciare per scienza il bla-bla vanitoso degli psicologi del sabot assassino, alla sanguinolenta esibizione di sapere degli esperti di tragedie greche, alla truce chiacchiera su criminologia, cervello e maternità. Insomma, ci abbiamo messo un po’di tempo a capire che dietro l’eccesso di cronaca c’era la morbosità, e che non si trattava di analisi fredda e neppure di resoconto intelligente, ma di compiacimento. Poi però, da un omicidio all’altro, da uno stupro all’altro, da un femminicidio all’altro, siamo arrivati all’attuale accanimento dell’informazione sulla cronaca nera: la pedofilia (ricordate Rignano?), le streghe di Avetrana, Meredith, Yara, la mamma assassina di Loris… Ed è stata un’escalation che ha accompagnato la crisi dei giornali, la perdita di lettori, il bisogno di fare audience e di vendere copie. Sino allo stupro di Rimini e alla diffusione di quei verbali, che ovviamente avevamo pure noi, anche se non ci è mai passato per la mente che fossero uno scoop. Erano infatti una roba da pattumiera dell’anima, un’immondizia adatta al giornalismo-immondizia e non certo alla Rai, a Mediaset, ai grandi quotidiani e ai settimanali italiani che, come già denunziò l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi – nel 2003! – , eccedono, insistono, scavano con un furore che , e alla fine questa gutter press, questo giornalismo da rigagnolo, commette, concludeva Ciampi. Noi non pensiamo che la rappresentazione, il racconto, la fotografia, la discussione, anche quella inutile e oziosa sulla violenza, debbano essere denunziate più della violenza stessa. Ma una cosa è raccontare che c’ è stato un caso di harakiri e un’altra mostrare lo sparpagliamento delle viscere. Ci sono cose che debbono essere fatte perché sono importanti: il magistrato, per esempio, deve indagare e anche, con la polizia, tendere tranelli. E il chirurgo deve operare. Ma l’operazione non si fa su Raitre o a Canale 5. E i processi si celebrano in tribunale. Fa bene il macellaio a squartare il vitello, ma non certo davanti a un pubblico pagante. Né basta esibire un’indignazione morale che diventa essa stessa spettacolo. Durante il caso di Rignano, seguendo un’idea ‘neutrale’, furono messi a confronto in televisione i genitori dei bimbi e i presunti pedofili. Esiste, secondo noi, l’abuso di cronaca che dovrebbe essere sanzionato, non in tribunale ma nelle coscienze, dalla cosiddetta deontologia, specie quando l’abuso si spaccia per verità senza tabù, per necessità di sapere, per scoop. Ci sono degli eccessi e ci sono casi di abbrutimento della vita che sono così eccezionali da meritare professionalità eccezionali che sappiano, quando occorre, anche chiudere gli occhi per pietà. Così il racconto di uno stupro, come quello di Rimini, almeno sui grandi giornali come il nostro, deve essere riassunto, mediato dalla professionalità e dal pudore del giornalista, dal riserbo se necessario. Non può diventare un furto d’anima, uno squartamento interiore, il feroce avvilimento dell’umanità, un’orgia scritta di carne e liquidi, di posizioni, di sodomie, tutti convinti di scrivere come Balzac, Simenon e Truman Capote, tutti piccoli Tarantino, tutti virtuosi dello splatter. Tutti arrapati, invece, che con la penna incidono, aprono, fanno l’autopsia, sporcano e si sporcano. La cronaca nera, ci insegnarono i nostri maestri, non si commenta mai. Ma, questa volta, per dirla con Montale: “Codesto solo oggi possiamo dirti, /ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

Vittorio Feltri il 16 Settembre 2017 su "Libero Quotidiano": l'informazione si accorge solo ora che la verità fa male. Ma ai tempi di Nicole Minetti...Credo di potermi definire amico di Francesco Merlo, editorialista della Repubblica, col quale per alcuni anni lavorai al Corriere della Sera. Il quale ieri ha scritto un articolo sofferto per deplorare il giornalismo-verità aduso a raccontare i fatti di cronaca con la crudezza con cui sono stati compiuti, non trascurando dettagli scabrosi. Egli condanna i colleghi accusandoli di compiacersi nel descrivere gli scempi commessi da stupratori e assassini. A Merlo, scrittore raffinato, non mancano gli argomenti per trafiggere la categoria cui, come lui, appartengo. Però mi stupisco della sua tardiva consapevolezza del problema che tratta con ardore e disgusto. Narrare le schifezze che contraddistinguono i comportamenti orrendi dell’umanità offende spesso i buoni sentimenti dei lettori, ma bisogna decidere se essi hanno il diritto di sapere oppure se noi pennaioli abbiamo il potere di occultare, addolcire, omettere. Il quotidiano al quale Francesco collabora si è distinto in un recente passato per la tigna con cui ha riferito delle porcherie avvenute nelle istituzioni del Paese e dintorni. Ricordiamo le prodezze della signora D’Addario, della signora Minetti, delle varie olgettine, che la Repubblica ha ricostruito sulle proprie pagine con scrupolo notarile. Tutte costoro sono state cordialmente sputtanate allo scopo di incrementare le vendite. O per sport? La reputazione italiana andò a farsi benedire con quella di Berlusconi. Fu una bella operazione? Non mi pare. Opportunamente Merlo ricorda i grandi inviati del Corriere della Sera, che si dedicarono a fatti di nera, per esempio quello di Rina Fort che massacrò una famiglia a Milano nell’immediato dopoguerra. Mi sono riletto in proposito i pezzi del grande Dino Buzzati, che avrebbe meritato il Nobel se non fosse stato contrastato dalla sinistra perché non apparteneva alla consorteria, e ho scoperto che non trascurò di narrare i particolari della strage, insistendo sul bimbo soppresso mentre era seduto sul seggiolone e mangiava la pappa. Questo dimostra che il giornalismo di un tempo, oggi osannato e rimpianto, non era molto diverso, se si esclude la qualità della prosa, rispetto a quello odierno. Caro Merlo, non diciamo cose inesatte. Buzzati nell’arte di spaccare il capello (specialmente se sporco) era un maestro. I suoi resoconti sui peggiori crimini e sciagure sono passati alla storia e non alla barzelletta. Non voglio dilungarmi, ma hai seguito sulla Repubblica ed altre pubblicazioni chic (si fa per dire) la vicenda dolorosa di Bossetti, all’ergastolo per l’uccisione di Yara? Costui ha appreso di avere una mamma leggerotta, e quindi di essere figlio non di suo padre anagrafico, direttamente dai quotidiani. Nessuno tranne me ha protestato. Sempre dai giornali Bossetti ha saputo che sua moglie gli ha messo le corna quando lui era già in carcere. Bello? Cosicché i bambini del galeotto, ancora via stampa, sono stati informati di essere eredi di un omicida e di una fedifraga, nonché nipoti di un cornuto e di una nonna infedele. Potrei vergare la storia di mille altre persone maltrattate (caso Tortora) dal tuo e da altri giornali organi di informazione, tuttavia, non si sono mai sognati di scusarsi. Adesso arrivi tu a deplorare coloro che hanno stilato articoli sugli ultimi stupri e delitti vari. Non ti sembra di essere lento e troppo critico nei confronti di colleghi che fanno il loro dovere nel porgere ai lettori quanto scoperto nello spulciare le carte processuali? E che dire delle intercettazioni abusive, se non rubate, relative a episodi riguardanti gente più o meno importante, divulgate urbi et orbi dal tuo foglio autorevole, ma non immune dagli stessi difetti che rilevi in altre pubblicazioni che non ti piacciono? Non è un peccato spiattellare la verità, lo è ometterla. Vittorio Feltri

Noemi, convalidato il fermo di Lucio: via dalla Puglia. Il vescovo: mantenere la calma, scrive il 17 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Prima le urla disperate del padre di Noemi contro il papà di Lucio, da lui accusato di aver avuto un ruolo nella tragica fine della figlia, poi le tre molotov lanciate l’altra notte contro l’abitazione della famiglia del fidanzato e assassino reo-confesso della sedicenne di Specchia. Dopo l’attentato le misure di sicurezza sono aumentate. Il prefetto di Lecce ha disposto la vigilanza sotto casa della vittima e della famiglia di Lucio, che era in casa quando è stato compiuto l’attentato e ha dato l’allarme. Le bottiglie incendiarie sono finite sul terrazzino dell’appartamento della frazione di Montesardo di Alessano, ma non sono esplose perché non innescate. Nessuna conseguenza, quindi, ma l’attentato intimidatorio prova però come la 'guerrà in atto tra le due famiglie abbia raggiunto livelli altissimi. Tutto è accaduto alla vigilia della decisione del gip del Tribunale per i minorenni di Lecce che ha convalidato oggi il fermo del diciassettenne per omicidio premeditato aggravato dai futili motivi e dalla crudeltà e ne ha disposto il trasferimento in una struttura protetta per minori fuori dalla Puglia. Al momento non è dato di sapere quando il minorenne sarà trasferito nell’Istituto protetto per minori fuori regione che sarà scelto sulla base di una valutazione dei servizi sociali e degli psichiatri che lo hanno in cura. Per il giudice, il giovane ha un equilibrio psicofisico «labile» che potrebbe portarlo non solo a fuggire nuovamente da casa, ma anche ad essere pericoloso per se stesso e per i suoi familiari, come dimostrano i tre Trattamenti sanitari obbligatori (Tso) subiti in un anno e richiesti - a quanto si sa - proprio dalla sua famiglia. Sul luogo dell’attentato i carabinieri hanno recuperato i cocci (per rilevare eventuali impronte) delle tre bottiglie di birra trasformate in molotov, lanciate dal lato dell’abitazione che affaccia su via Santa Barbara. I militari stanno inoltre cercando le immagini degli attentatori nelle riprese degli impianti di sorveglianza della zona. Sulla vicenda è intervenuto durante la messa del mattino il parroco di Specchia, don Antonio De Giorgi. In serata un appello alla comunità è stato lanciato anche dal vescovo, monsignor Vito Angiuli. «Stiamo vivendo - dice il parroco - giorni terribili. Invito tutti i cittadini e i parrocchiani di Specchia a mantenere la calma ed il controllo delle parole e delle azioni e a non commettere gesti di cui poi potrebbero pentirsi perché non è con la vendetta che si ottiene giustizia per la povera Noemi». «La violenza porta solo altra violenza - aggiunge - in una spirale che alla fine rischia di distruggere anche l’ultimo brandello di umanità». Sull'omicidio di Noemi è al lavoro anche la Procura ordinaria di Lecce che ha indagato il papà del diciassettenne per concorso in sequestro di persona e occultamento di cadavere. Gli investigatori stanno rileggendo le sue dichiarazioni rese a verbale tra la scomparsa della ragazza (il 3 settembre) fino al ritrovamento del cadavere (il 13 settembre). Il 9 settembre l'uomo dice ai militari di aver saputo più volte dal figlio che "Noemi lo incitava ad ammazzare me e mia moglie» (la stessa versione fornita dal 17enne durante la confessione del delitto) e che la sedicenne «stava raccogliendo danaro» da dare ad un giovane di Patù «che, dopo aver comprato una pistola, mi doveva ammazzare». L’11 settembre il 61enne dice, però, di avere dubbi sulla versione del figlio in relazione alla scomparsa della giovane e ammette per la prima volta: «Ho paura che abbia fatto del male a quella ragazza. Dubbi atroci che ho anche rappresentato all’avvocato». Sarà conferito il 19 settembre, al medico legale Roberto Vaglio, l’incarico di compiere l’autopsia: il medico legale è stato convocato presso la Procura per i minorenni di Lecce alle ore 10 dal pubblico ministero inquirente Anna Carbonara.

Noemi, il 17enne potrebbe aver avuto un complice. Insulti sul web agli avvocati della difesa. Troppe contraddizioni nei racconti del ragazzo che ha confessato di aver ucciso la fidanzata. Il padre è indagato per occultamento di cadavere. La famiglia di Noemi si rivolge a Giulia Bongiorno, scrive Chiara Spagnolo il 18 settembre 2017 su "La Repubblica". Il diciassettenne che si è accusato dell'omicidio della fidanzata sedicenne Noemi Durini potrebbe aver agito insieme a un complice. Si legge tra le righe dell'ordinanza con cui la gip dei minori di Lecce Ada Colluto ha imposto la custodia in carcere minorile, convalidando il fermo per omicidio premeditato e aggravato dalla crudeltà e dai futili motivi ma non per il reato di occultamento di cadavere. Significa che non ci sono elementi univoci sulla responsabilità del ragazzo nella creazione di quel tumulo fatto di pietre e che qualcun altro potrebbe essere intervenuto nella campagna vicino Santa Maria di Leuca per far sparire Noemi. Il padre del diciassettenne B.M., forse. Al momento è l'unico indagato dell'inchiesta della Procura ordinaria, che gli contesta proprio il reato di occultamento di cadavere. Il suo ruolo non è chiaro ma l'attenzione su di lui alta, anche in virtù dell'odio viscerale verso Noemi, tirato fuori a più riprese davanti alle telecamere. E anche dell'accusa precisa lanciata dal papà di Noemi: "E' stato lui, il figlio lo sta coprendo". Tutti questi elementi sono al vaglio degli inquirenti, che non hanno messo la parola fine alle indagini, anche perché la ricostruzione fornita dal reo confesso non è limpida in ogni sua parte, ma ricca di contraddizioni, a partire dall'arma del delitto, che prima ha detto essere stata una pietra e poi un coltello. I dubbi saranno sciolti dall'autopsia, che sarà effettuata martedì 19 settembre dal medico legale Roberto Vaglio, e indicherà con maggiore precisione cosa ha provocato il decesso di Noemi. Altri dubbi riguardano lo stato di salute del 17enne. Per i suoi avvocati (Luigi Rella e Paolo Pepe) "il ragazzo deve essere curato" e, per questo motivo, avevano chiesto che il fermo non venisse convalidato e fosse trasferito in una casa di cura. La gip invece ha accolto integralmente la richiesta della pm Anna Carbonara e disposto la detenzione in un istituto penitenziario minorile, "da individuare fuori dalla Puglia" per cercare di smorzare la carica di violenza nei suoi confronti, che si sta diffondendo aiutata dal web e venerdì notte ha portato ignoti a lanciare due bottiglie molotov contro la sua abitazione di Alessano, in cui si trovavano i genitori. Nel decreto di convalida del fermo, la scelta di applicare la misura cautelare più restrittiva è motivata in virtù "dell'equilibrio psico-fisico labile" dell'indagato, che potrebbe portarlo a fuggire ma anche ad essere pericoloso, per se stesso e per gli altri. Per la difesa, il giovane dovrà essere sottoposto a una perizia psichiatrica, che ne attesti la capacità di intendere e di volere, anche al momento del delitto. Tale strategia processuale è stata duramente condannata dal popolo del web, che in coda agli articoli dei giornali online e sui social ha lanciato accuse durissime contro gli avvocati di L.M., in alcuni casi diventate vere e proprie minacce. Per questo motivo l'Aiga (Associazione italiana giovani avvocati) di Lecce ha stigmatizzato "la deriva populista della grave vicenda di sangue che ha sconvolto il Salento", puntando il dito contro "la spettacolarizzazione delle vicende investigative e giudiziarie, che sta producendo una valanga di insulti e di minacce nei confronti dei difensori". "La gente comune - scrive l'Aiga - sempre di più identifica il presunto colpevole con il suo avvocato, visto quale favoreggiatore se non complice. Ciò significa che si è smarrito il senso civico e si vuole negare il diritto di difesa, costituzionalmente garantito". Restando in tema di assistenza legale, è di poche ore la notizia che la famiglia di Noemi Durini potrebbe essere assistita oltre che dall'avvocato salentino Mario Blandolino anche dall'avvocata Giulia Bongiorno, già presidente della Commissione giustizia della Camera dei deputati, difensore di Giulio Andreotti ma anche di Raffaele Sollecito e fondatrice della onlus Doppia Difesa, che si occupa di donne vittime di abusi e violenze. Intanto a Roma, gli ispettori del ministero della Giustizia inizieranno a breve a vagliare la documentazione sul "caso Noemi" inviata dagli uffici giudiziari minorili di Lecce dopo l'avvio di accertamenti preliminari sul caso. "Valutiamo se nei passaggi davanti alla giurisdizione tutto abbia funzionato o se esistano passaggi che hanno un rilievo disciplinare" ha detto sabato a Lecce il ministro della Giustizia Orlando, che è stato invitato dal sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, a presenziare al funerale della ragazzina, che dovrebbe tenersi mercoledì o giovedì. La mamma Imma Rizzo, ha chiesto che le esequie non vengano trasformate in, uno show.

L’urlo degli avvocati: «Basta giustizia show», scrive il 20 settembre 2017 Simona Musco su "Il Dubbio". L’appello dell’ordine di Lecce: «Basta anonimi su internet e basta impunità». «Dobbiamo insegnare che il rifiuto dell’odio serve a far sì che fatti come questo non si ripetano». L’appello del presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Lecce, Roberta Altavilla, è rivolto ad avvocati, magistrati e giornalisti. Ed è stato lanciato durante un incontro organizzato dall’ordine degli avvocati e dalla presidenza della Corte d’Appello, alla presenza del neo presidente Roberto Tanisi, dopo le minacce nei confronti dei legali del reo confesso dell’omicidio di Noemi. «Dobbiamo uscire dai tribunali e insegnare che legalità significa responsabilità e che il rifiuto dell’odio serve a far sì che fatti come questo non si ripetano». L’appello di Roberta Altavilla, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Lecce, è a tutti: avvocati, magistrati e giornalisti, chiamati a fare rete per arginare l’odio ormai sempre più pervasivo in rete e dire no ai linciaggi. È stato questo il tema affrontato ieri nel corso di un incontro organizzato dall’ordine degli avvocati e dalla presidenza della Corte d’Appello, alla presenza del neo presidente Roberto Tanisi, un incontro urgente a seguito delle minacce nei confronti dei legali del 17enne reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini. Il clima a Specchia e Alessano, paesi in cui risiedevano la vittima e il suo presunto assassino, è di tensione. Sono gli stessi primi cittadini, Rocco Pagliara e Francesco Torsello, ad evidenziarlo, richiamando tutti al buon senso e ai «valori della legalità». Gli avvocati salentini si sono schierati con Paolo Pepe e Luigi Rella, i due legali sottoposti alla gogna mediatica, accusati di essere «complici», «parassiti» e ai quali è stata augurata anche la morte. Ma il caso è solo l’ultimo di una lunga serie che ha dato voce al “partito dei forcaioli”. «Abbiamo voluto dare un messaggio di unità e rete tra avvocatura e magistratura nella battaglia contro l’odio – ha spiegato Altavilla – Anche la stampa deve starci accanto. Dispiace molto che questi messaggi di minacce ai colleghi, a corredo di un articolo pubblicato sul web, non siano stati rimossi subito. Il nostro obiettivo è far capire a chi scrive che c’è un principio di responsabilità e che bisogna rispettare la funzione dell’avvocato e la sua terzietà». Un appello è stato rivolto anche alla politica, affinché chi viene colpito da minacce e ingiurie sul web non sia costretto a difendersi da sé. «La tutela deve venire da chi è deputato a questo», ha commentato Altavilla. Tra i soggetti colpiti spesso e volentieri ci sono anche gli avvocati, che hanno un ruolo fondamentale nelle democrazie, ha evidenziato Tanisi. «Ho dato un’occhiata a quei messaggi e sono rimasto allibito. Chi li ha scritti può tentare di fare linciaggi. Anche lo Stato migliore diventerebbe prevaricatore nei confronti del cittadino senza avvocati – ha sottolineato – Però c’è la convinzione diffusa che l’avvocato intralci il corso della giustizia. Ovviamente non è così». Ma il problema, va da sé, non riguarda solo il Salento. «È una questione generale – ha spiegato – che a monte ha un humus culturale degradato. C’è una concezione forcaiola data dall’idea di farsi giustizia da sé che dipende da una sfiducia nella giustizia, che arriva tardi, e in leggi ritenute “permissive”». La soluzione, ha spiegato Tanisi, sta nelle norme e nelle scuole. Convinzione condivisa anche dagli avvocati, che stanno portando avanti un progetto di alternanza scuola lavoro per promuovere la cultura della legalità. Lo scopo è far comprendere ai giovani, ma anche ai loro genitori, che internet è un luogo in cui possono essere commessi anche dei reati. «Ingiuriare, offendere, diffamare, calunniare sono azioni contro la legge – ha rimarcato Altavilla – e chi li compie deve averne la consapevolezza». Ma c’è anche un altro problema da affrontare, ovvero l’immedesimazione del reo con l’avvocato. «Non esiste – ha aggiunto – L’avvocato in quel momento è come il sacerdote che coglie in confessionale il peccato del fedele e non può essere identificato con esso. La moralità comune è cosa diversa dal comportamento deontologicamente corretto dell’avvocato, che deve svolgere il proprio mandato in libertà e autonomia. Faccio appello anche alla stampa, perché il processo show non aumenta il livello della cultura e della giustizia». E va superata anche la cultura dell’anonimato: «la materia va regolamentata – ha aggiunto – è giusto che chi si avvicina al web abbia un nome e cognome. In un sistema nel quale non c’è responsabilità non ci può essere giustizia».

Specchia, il paese di Noemi tra vendetta e sete di giustizia. Molotov lanciate contro la casa dei genitori dell’ex fidanzato killer, scrive Grazia Longo il 18/09/2017 su "La Stampa". Al netto dell’orrore per la morte di Noemi e della sete di vendetta contro i genitori del suo fidanzato-assassino culminata con il lancio di tre molotov contro la loro abitazione, la cifra di questo piccolo centro nel cuore del Salento è l’incomunicabilità. «Nessun uomo è un’isola» scriveva Thomas Merton, ma a Specchia - cinquemila anime tra un borgo antico e una periferia cresciuta troppo in fretta - c’è una comunità smarrita. Dove ciascuno è rinchiuso nella propria isola e fatica a confrontarsi con gli altri. Non c’era vero dialogo tra i due ex innamorati, per la gelosia spietata di quest’ultimo, schizoide e manipolatore, che ha spento sogni e desideri della bella e dolce sedicenne. Non c’era comprensione tra Lucio e i suoi genitori, in particolare il padre, che hanno ostacolato il suo fidanzamento con pedinamenti e botte. Non c’era possibilità di confronto tra le due famiglie, se non a colpo di denunce e contro denunce.  E oggi assistiamo al gesto estremo di chi vuole farsi giustizia da sé. Non parole di condanna, o richieste di un chiaramente per un delitto brutale e ancora avvolto nel giallo ma un episodio concreto. Terribile e insidioso. Certo, le tre bottiglie di benzina scagliate alle tre della notte tra venerdì e sabato scorso contro la finestra della villetta di Lucio, nella vicina Montesardo frazione di Alessano, non erano accese. Eppure la sensazione è ugualmente devastante.  In passato, prima dell’omicidio, chissà, qualcuno si è forse girato dall’altra parte di fronte a un 17 enne sulla 500 del padre pur senza patente e maltrattava in pubblico la sua ragazza. Oggi invece in molti hanno cercato di linciarlo quando l’altra notte è uscito dalla caserma dei carabinieri dopo aver confessato e qualcuno con le molotov ha deciso di sostituirsi alla legge e punire i suoi genitori. Forse in particolar modo suo padre, indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere. Ma sarebbe troppo facile inquadrare questo dramma in un contesto sociale di indifferenza. La realtà ha tanti volti. Accanto a quelli, sconosciuti, di chi ha confezionato e scaraventato le molotov artigianali ci sono anche quelli degli amici di Noemi che escono dalla sua casa. «Fatti come questo non aiutano nessuno - dice una ragazzina con i capelli lunghi schiariti sulle punte -. L’unico modo per rendere giustizia a Noemi è mandare in prigione il fidanzato che invece si finge pazzo». Un adolescente con la camicia di jeans e un berretto con la visiera: «Anche il parroco ha detto che così non andiamo da nessuna parte. Ha ragione lui: ci vuole giustizia, non vendetta». E un pensionato che è venuto a porgere le condoglianze ai genitori di Noemi «anche se non li conosco» insistite che «qui siamo brava gente, non vogliamo diventare la nuova Avetrana».  Il sindaco Rocco Pagliara difende il suo paese: «Le molotov sono un atto spregevole ma isolato, frutto forse dell’esasperazione per le parole dei genitori del ragazzo che lo hanno difeso sostenendo che con l’omicidio si è liberato una volta per tutte di Noemi. Ma Specchia non cerca vendetta, è con la legge. Ho parlato anche con il sindaco di Alessano, Francesca Torsello, entrambi ribadiamo che le nostre comunità sono sane». Ecco allora snocciolati i dati sulle tante associazioni di volontariato che a Specchia coinvolgono i giovani, il Festival del cinema del reale che a luglio richiama tanti spettatori e la bandiera arancione attribuita al borgo antico dalle organizzazioni turistiche. Intanto ieri sera una folla ha partecipato alla veglia di preghiera nella chiesa di Sant’Antonio. Il vescovo della Diocesi di Ugento, monsignor Vito Angiuli, ha voluto celebrare una messa anche per stemperare il clima di tensione. E il parroco di Specchia, Antonio de Giorgi, ribadisce: «Viviamo giorni terribili. La tragedia che ha colpito la nostra comunità e lo shock che ne è seguito ci chiama a una prova dura e difficile. Invito tutti i a mantenere la calma e il controllo delle parole e delle azioni e a non commettere gesti di cui potrebbero pentirsi».  Non si ferma, nel frattempo, l’inchiesta giudiziaria. I difensori del ragazzo, che compirà 18 anni a dicembre, gli avvocati Luigi Rella e Paolo Pepe, puntano a una perizia psichiatrica per verificare la capacità di intendere e di volere al momento del delitto. Ipotesi che fa inorridire la madre della vittima, Imma Rizzo: «Ma quale pazzo! Anche se ha avuto i tre Tso e prendeva psicofarmaci, quello è furbo e spietato». Anche il padre, Umberto Durini insiste: «L’ha uccisa nel peggiore dei modi. E chissà fino a che punto è coinvolto anche suo padre».

Intanto il gip ha convalidato il fermo solo in relazione al reato di omicidio volontario pluriaggravato, ma non per l’occultamento di cadavere. Sul lancio delle molotov non ci sono immagini, perché il vicino di casa aveva disattivato le telecamere di sorveglianza. Il prefetto di Lecce ha disposto la vigilanza sotto casa della vittima e della famiglia di Lucio. L’autopsia è prevista domani, entro giovedì il funerale.  

Noemi, minacce e insulti sul web agli avvocati del 17enne, scrive Erasmo Marinazzo Lunedì 18 Settembre 2017 su "Il Quotidiano di Puglia". Insulti e minacce agli avvocati che hanno preso la difesa del 17enne reoconfesso dell’omicidio della fidanzata Noemi Durini, 16enne di Specchia. Il “partito forcaiolo” si è scatenato sul web appena i genitori di L.M., di Alessano, hanno nominato l’avvocato Paolo Pepe. E anche all’avvocato Luigi Rella è stata riservata una sfilza di parole offensive - ed anche l’auspicio che certe cose accadano alla sua famiglia - sull’inopportunità di garantire la difesa a chi ha ammesso di aver ucciso la giovanissima fidanzata con un colpo di coltello alla gola ed un colpo di pietra alla testa. Intanto la casa di L.M. è presidiata giorno e notte. Lo ha stabilito il prefetto Claudio Palomba, dopo che nella notte fra venerdì e sabato sono state scagliate due molotov. Non sono esplose, ma danno comunque la dimensione del livello di tensione. Il web invece si è riempito di sfoghi e di rancori soprattutto dopo che l’avvocato Rella - davanti alle telecamere delle tv - ha spiegato che il ragazzo si è avvalso della facoltà di non rispondere, che ha bisogno di cure e che chiederà, insieme con il collega Pepe, una perizia psichiatrica sulla capacità di intendere e di volere al momento del fatto e sulla capacità di stare in giudizio. Nella giornata odierna i legali dell’indagato per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà e dai futili motivi, stabiliranno se presentare un esposto in Procura ed anche se chiedere l’intervento del Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Intanto sul linguaggio dell’odio è intervenuto l’avvocato Michele Laforgia: «Chi insulta e minaccia gli avvocati che fanno il loro dovere, invece, ne è complice». Gli strali più offensivi sono tutti raccolti nella sezione commenti del video in cui parla l’avvocato Rella. Commenti che, per scelta, non pubblichiamo. C’è anche chi ha attaccato l’intera categoria. In pratica i legali di L.M. sono diventati i parafulmini delle ingiurie e delle accuse del processo, con giustizia sommaria, e senza diritto alla difesa, riservato dalla rete al ragazzo. Esponente dell’associazione “Antigone per i diritti e le garanzie del sistema penale”, l’avvocato Laforgia è intervenuto sulla sua pagina Facebook: «Il minorenne che ha assassinato Noemi aveva subito tre Tso, acronimo che sta per trattamento sanitario obbligatorio. Una misura eccezionale ed estrema, che si adotta nei confronti dei malati psichici pericolosi per se stessi e per gli altri. Eppure quel minorenne non è stato curato né fermato prima di commettere un delitto atroce. Com’è stato possibile? E come si può - perché si può, e si deve - prevenire tragedie terribili come questa? Sono domande difficili, me ne rendo conto, perché la morte di una sedicenne tende a travolgere emotivamente ogni riflessione e soprattutto perché comportano l’assunzione di un principio di responsabilità collettiva, come dovrebbe accadere sempre quando il sangue di un innocente rischia di travolgere le basi della nostra convivenza sociale, famiglie comprese. Il processo serve anche a questo. A rendere possibili queste domande e, magari, a trovare qualche risposta, senza annegare tutto nella invocazione di altro sangue. Chi assume la difesa dell’imputato difende anche tutti noi dalla stessa ottusa violenza che ha reso possibile il delitto. Chi insulta e minaccia gli avvocati che fanno il loro dovere, invece, ne è complice».

Noemi, spunta un teste. «Inseguiti da un'Ibiza». Una seconda auto sulla scena? Il racconto in tv: quella notte l'ho vista salire in auto col fidanzato, scrive il 19 Settembre 2017 Gianfranco Lattante La Gazzetta del Mezzogiorno. Una seconda auto. Un testimone. Il sospetto di un complice. Le indagini sull’omicidio di Noemi Durini, la 16enne di Specchia uccisa dal fidanzato 17enne, si arricchiscono di nuovi elementi. Ora spunta un testimone che, ai microfoni della trasmissione «Mattino Cinque», ha raccontato di aver visto Noemi (proprio la notte in cui è scomparsa, il 3 settembre scorso) salire sull’auto del fidanzato e di aver notato una seconda macchina, una Seat di colore verde, che li avrebbe seguiti: «Ho visto sfrecciare una Seat davanti a me, una Ibiza verdone, vecchio modello». Il testimone, dunque, avanza l’ipotesi che quella notte ci fosse una seconda auto coinvolta nell’omicidio. Gli investigatori frenano ma non smentiscono che sono in corso indagini alla ricerca di un eventuale complice. La confessione del fidanzato di Noemi non sembra essere convincente nella parte in cui sostiene di aver fatto tutto da solo. Di certo i carabinieri hanno acquisito e stanno esaminando i filmati delle telecamere che si trovano lungo la statale che porta al luogo in cui è stato trovato il cadavere di Noemi, nelle campagne di Castrignano del Capo, ad una decina di chilometri da Specchia. Gli investigatori stanno verificando il passaggio di tutte le auto, concentrando l’esame intorno agli unici orari che, al momento, sembrano essere certi. Sono quelli forniti dalla telecamera installata vicino alla casa di Noemi: alle 5.09 la Fiat Cinquencento condotta dal 17enne si allontana con la ragazza a bordo. Finora, per concorso in occultamento di cadavere e sequestro di persona, è indagato il papà 61enne del ragazzo, sul quale sono in corso accertamenti che tendono a verificane gli spostamenti subito dopo la scomparsa della vittima. Ma non risulta che l’uomo abbia in uso una Seat. L’assassino reo confesso di Noemi, da ieri mattina, non è più nell’istituto minorile di Monteroni. È stato trasferito a Bari ma, secondo quanto disposto dal gip Ada Colluto del Tribunale dei minori di Lecce, dovrà andare in Sardegna, in una struttura specializzata dove sarà curato. Nell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, il gip lo descrive come un ragazzo con «un’organizzazione borderline della personalità con capacità intellettive al limite» che non mostra segni di «un reale senso di colpa». Per il gip il ragazzo deve seguire «un percorso trattamentale altamente specialistico», anche se al momento, non ci sono elementi per ritenere che al momento dell’omicidio «non fosse pienamente in grado di intendere e di volere». Il trasferimento in Sardegna è anche un modo per tenerlo lontano dalla guerra in corso fra la sua famiglia e quella della vittima, dal clima di avversione sociale nei suoi confronti, sfociata nel lancio di tre molotov non innescate contro l’abitazione dei suoi genitori. Oggi, intanto, sarà eseguita l’autopsia. L’accertamento potrà fare chiarezza sulle modalità e sull’arma dell’omicidio: pietra o coltello? Il ragazzo ha sostenuto di aver ucciso Noemi con alcune coltellate al collo. Della presunta arma del delitto non è stata trovata traccia. Dalla Tac non sarebbero emersi segni di fratture tali da far pensare a colpi di pietra. Il papà di Noemi ha contattato l’avvocato Giulia Bongiorno (che in passato ha difeso Giulio Andreotti e Raffaele Sollecito) per l’assistenza legale. Intanto i difensori del 17enne sono finiti al centro di minacce sul web. E proprio questa mattina l’ordine degli avvocati di Lecce insieme con la presidenza della Corte d’Appello ha organizzato un incontro su «Linguaggio dell’odio, diritto di difesa e informazione sul web».

Noemi, un testimone in tv: «C'era un'altra auto», scrive Erasmo Marinazzo su “Il Quotidiano di Puglia” il 18 settembre 2017. «La notte del 3 settembre percorrevo quella strada. Alle tre e mezzo ho notato il ragazzo arrestato, a bordo di una Fiat 500 bianca. Stava da solo. Stavo andando verso l’incrocio sulla destra ed ho visto sfrecciare davanti a me una Seat Ibiza verdone, vecchio modello». E’ la testimonianza raccolta dai microfoni di “Mattino Cinque”. Un ragazzo del Capo di Leuca ha raccontato di aver visto L.M. la notte del 3 settembre vicino alle campagne fra Santa Maria di Leuca e Castrignano del Capo, alla guida della macchina dei genitori. E di aver visto passare lo stesso modello di macchina indicata dal giovane che si trova in un Istituto penale per minori, con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dai futili motivi e dalla crudeltà, nella quarta delle versioni sulla scomparsa della fidanzata Noemi Durini: una Seat Ibiza. Si tratta di una testimonianza che al momento non ha trovato riscontri nei filmati, anche quelli più recenti, acquisiti dai carabinieri. E che potrebbe invece servire a capire se L.M. abbia fatto o meno un sopralluogo nelle campagne dove qualche ora più tardi avrebbe condotto la fidanzata. Per ucciderla. Tuttavia chi ha parlato al microfono non ha riferito nulla di ciò che ha visto agli inquirenti. La ricostruzione della sequenza tragica di domenica 3 settembre ha come punto fermo il filmato dell’impianto di video sorveglianza di una villa poco distante dalla casa della ragazza, a Specchia: L.M. e Noemi sono stati ripresi a bordo della Fiat 500 bianca alle 5.05. Il fidanzato era arrivato lì alle 4.51, nel video si vedono ripartire alle 5.09. Più tardi, almeno un’ora più tardi, i fidanzati sono stati ripresi mentre passavano da Santa Maria di Leuca all’altezza del santuario sulla strada per Castrignano del Capo. Stavano per raggiungere contrada San Giuseppe dove mercoledì scorso L.M. ha fatto ritrovare il corpo della ragazza. E la Seat Ibiza? Ne parlò L.M. ai carabinieri dopo che gli fecero presente l’esistenza del filmato in cui era stato ripreso davanti casa di Noemi e della possibilità che altri impianti di videosorveglianza confermassero che avessero trascorso insieme la nottata. Sentito appena la madre della ragazza presentò la denuncia di scomparsa, nella tarda mattina del 6 settembre, L.M. sostenne di non saperne nulla: non la vedeva dal 28 agosto perché si erano lasciati. Messo al corrente del filmato cambiò versione almeno altre due volte, fino a raccontare di averla accompagnata alla rotatoria per Morciano di Leuca. Lì, ad attenderli, ci sarebbe stata una Seat Ibiza, di colore nero, con un uomo alla guida. Noemi sarebbe scesa dalla Fiat 500 per salire a bordo dell’altra auto e allontanarsi. Tutto inventato: dopo le perquisizione in casa, il sequestro della macchina con il ritrovamento di tracce di sangue, l’avviso di garanzia con la contestazione di omicidio volontario, L.M. la mattina del 13 settembre ha chiesto di parlare con i carabinieri. E si è liberato del peso di aver ucciso la fidanzata: ha fatto ritrovare il corpo, ha accompagnato gli investigatori nelle campagne di contrada San Giuseppe. Caso chiuso? No. Ancora no. Perché se l’indagato ha sostenuto di avere ammazzato Noemi con un colpo di coltello alla testa e che la lama si sarebbe spezzata all’interno, è vero anche che la Tac ha smentito questa ricostruzione: la lama non è stata individuata. Qualche chiarimento potrebbe arrivare dall’autopsia prevista nella giornata di oggi. Il medico legale Roberto Vaglio cercherà di capire se quelle lesioni sulla parte sinistra del collo siano compatibili con una coltellata. E verificherà anche le lesioni sulla testa che potrebbero essere state procurate con la pietra intrisa di sangue, trovata a circa cinque metri dal corpo di Noemi. Servirà, insomma, l’autopsia, a verificare l’attendibilità dell’indagato. A difenderlo, gli avvocati Luigi Rella e Paolo Pepe, mentre la famiglia di Noemi si è affidata a Giulia Bongiorno ed Mario Blandolino.

Noemi, la perizia psichiatrica sul fidanzato: "Capacità intellettiva al limite", scrive il 18 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". È questa la patologia di cui soffrirebbe Lucio, il 17enne che ha confessato di avere ucciso Noemi Durini, la sua fidanzata 16enne: "Un'organizzazione borderline di personalità con capacità intellettive al limite".  Emerge nel decreto di convalida del gip del Tribunale per i Minorenni di Lecce Ada Colluto, in riferimento alla relazione neuropsichiatrica psicologica del dipartimento di salute mentale dell'Asl di Lecce redatta lo scorso 14 settembre. Per il gip, il giovane "non manifesta cenni di reale senso di colpa". Nel decreto di convalida del fermo il gip ritiene che sussista un pericolo di fuga, c'è la possibilità che "egli non rimanga coerente in quel suo atteggiamento rispetto alla vicenda e si renda irreperibile magari anche per cercare di risolvere a suo modo la situazione di totale avversione sociale che avverte nei confronti suoi e della sua famiglia". Tutti elementi comunque che secondo il magistrato "non possono portare in ogni caso a ritenere in questa fase che" il ragazzo "non fosse pienamente in grado di intendere e di volere nel momento in cui ha commesso l'azione delittuosa. È evidente - conclude - che allo stato non è possibile soddisfare le esigenze cautelari con misure meno gravi, mentre proprio un contesto totalizzante, pienamente regolato e separato come quello dell'Istituto penale minorile può consentire di creare le condizioni minime per la profonda ricostruzione della personalità".

Omicidio di Noemi Durini, pm chiede la perizia per Lucio, il diciassettenne reo confesso, scrive il 30 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Lucio, il 17enne e assassino reo-confesso di Noemi Durini, era capace di intendere e di volere quando ha assassinato la sua fidanzata? E’ la domanda che il pm del Tribunale per i minorenni di Lecce, Anna Carbonara, rivolge al gip Ada Colluto chiedendole di disporre un incidente probatorio che accerti nell’immediato la capacità processuale dell’indagato, detenuto per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dai futili motivi e dalla crudeltà. Lucio è ritenuto dai sanitari un ragazzo difficile e violento perché faceva uso di droghe leggere e perché, in un anno, è stato sottoposto a tre trattamenti sanitari obbligatori, i cosiddetti Tso. Gli stessi difensori del giovane, subito dopo il fermo per l'omicidio, avevano presentato al Tribunale una richiesta per procedere a una perizia psichiatrica che ne attestasse la capacità di intendere e volere al momento dei fatti. L'accertamento chiesto dal pm minorile è ritenuto fondamentale dalla Procura, che ritiene pure che si debba svolgere nell’immediato piuttosto che nella fase processuale i cui tempi potrebbero pregiudicare irreparabilmente la valutazione psichiatrica del giovane, che a dicembre diventerà maggiorenne. L'indagine tecnico-scientifico è rilevante per la decisione dibattimentale. Infatti, ai sensi dell’articolo 98 del Codice penale, la capacità di intendere e volere del minore che ha compiuto 14 anni ma non ancora i 18, a differenza dell’adulto, non è presunta, ma deve essere accertata. Nel caso in cui dovesse essere accertata l’incapacità di intendere e di volere, Lucio potrebbe finire, se ritenuto colpevole, in un manicomio giudiziario; se il vizio di mente dovesse essere parziale, il diciassettenne risponderà del reato commesso, ma la pena sarà diminuita. Lucio, detenuto presso l’Istituto penale minorile di Quartucciu (Cagliari), in Sardegna, avrebbe picchiato e poi accoltellato a morte la fidanzata all’alba del 3 settembre scorso, giorno il cui la sedicenne scomparve da Specchia, città del Basso Salento in cui viveva. Il cadavere fu fatto ritrovare dallo stesso fidanzato dopo 10 giorni, il 13 settembre, nelle campagne di Castrignano del Capo, sulla strada per Santa Maria di Leuca. Il corpo si trovava sotto un cumulo di pietre. Le telecamere di sorveglianza nella zona avrebbero accertato che Lucio avrebbe agito da solo al momento del delitto. Per il sequestro di persona e occultamento di cadavere è invece indagato a piede libero il papà del ragazzo. 

Avetrana, Specchia e le pietraie d'Italia figlie del Grande Fratello. Villaggi dai nomi sconosciuti, che un giorno tutti imparano per le ragioni più atroci. Villaggi senza età né futuro. Storditi davanti a un televisore, incantati da personaggi che non esistono, scrive Massimo Del Papa il 18 settembre 2017 su "Lettera 43". Quante sono le Avetrana, le Specchia che covano mostri? Anus mundi, villaggi dai nomi sconosciuti, senza età, senza futuro, che un giorno li imparano tutti, per le ragioni più atroci. Morto il mito ambiguo, consolatorio della provincia lontana dalla metropoli e dalle sue perversioni, feroce nei suoi rituali presociali ma almeno sana nel preservarne i legami e quei valori ingenui forse mai esistiti, resta la realtà delle ragazzine scannate per niente, delle faide familiari, la banalità di un male più banale, senza neppure l'alibi dell'illusione.

TERRE DI NIENTE E DI NESSUNO. Noland, terre di niente e di nessuno, senza speranze, che i telegiornali mostrano simili a pietraie dell'Afghanistan, ma qui la gente ci nasce e non vuole andarsene, si limita a sospettare altre forme di vita su altri pianeti mostrati dalla televisione, neanche internet, che serve a chattare la non-vita di ogni minuto, proprio l'eterna televisione che poi, un giorno, mostra «in diretta» il ritrovamento dei loro cadaveri in un pozzo o un bosco o una cava, come una lapidazione postuma. Sostituendosi ai carabinieri, ma col loro permesso, com'era successo, e sempre da Chi l'ha visto?, per la giovanissima Sarah Scazzi e come si è ripetuto per la pressoché coetanea Noemi Durini, quindici, sedicenni per le quali la stessa televisione del brutto e del macabro spreca le formule del decadentismo romanzato borghese, «aveva una relazione difficile», «il fidanzato», «il legame tormentato». Ragazzine irretite in una vita che non arriva mai, ma che è l'unica che c'è, finché c'è.

E RIPARTE LA FAIDA. «Abbiamo fatto l'amore» confessa il «fidanzatino» con fare vissuto, «poi l'ho massacrata con un sasso». E alla gente che lo vuol linciare fa le linguacce da Gain Burrasca ritardato, la manda affanculo, lascia biglietti sgangherati, veri o apocrifi, che sembrano usciti da romanzi d'appendice che non leggerà mai, neanche in carcere: «Era meglio che mi ammazzavo io». E già gli hanno spiegato che, «gestito» come si deve, cioè «facendo il pazzo», come teme la madre di Noemi, uscirà prestissimo perché c'è sempre qualche prete sociale, ma soprattutto mediatico, che lo aspetta. E puntuale, nelle pietraie del Sud d'Italia, ma non necessariamente, riparte la faida, il padre della vittima che vuole sterminare l'altra famiglia, i parenti dell'omicida, abbonato al Tso, per niente ammansiti, che danno la colpa alla ragazzina trucidata, il parroco che fa il Ponzio Pilato, «Io non ne sapevo niente», unico in una noland dove tutti sanno tutto e sapevano del disagio della madre di Noemi, Imma, anche lei con storie difficili alle spalle, con altri figli da mantenere, costretta a una trama di lavoretti duri e inutili, ma nessuno o quasi l'aiuta e tutti sanno tutto. Tranne il parroco. Lo stesso che adesso guida il comitato dei festeggiamenti, perché a Specchia, Afghanistan italiano, hanno subito colto al balzo la palla nell'abisso umano per inventarsi una sorta di fiera, di sagra che avrebbe fatto impazzire Fellini: processione del feretro, magari con inchino davanti casa dei notabili, corteo di motociclette rombanti, fiori, la banda che suona come dopo un delitto di mafia, la gigantografia di lei tratta da Facebook, altoparlanti, maxischermo, fortuna che Imma in un sussulto di orrore s'è opposta: no a tutto, ha ringhiato, altrimenti il casino lo faccio io.

LE LITANIE DEL DOLORE. Su Facebook la ragazzina Noemi postava le sue litanie del dolore, «se non ti rispetta non è amore, se ti alza le mani non è amore», ma si lasciava pestare e a mollare quel balordo di villaggio non ci pensava, un conto era la ragione del social, un altro la sua vita non-vita che era l'unica che aveva e un'altra vita sapeva non sarebbe mai arrivata. E così, un brutto giorno arriva la resa dei conti e il «fidanzatino» chiude la storia, senza una ragione, così, perché gli è salita la furia, perché il Tso non funzionava. Anche il ministro Andrea Orlando sospetta, con la prudenza del burocrate, «che qualcosa non abbia funzionato» e così ha mandato gli ispettori i quali, inutili come tutti gli ispettori, concluderanno nella nebbia e nel discarico di responsabilità, anche se la madre Imma disperata aveva fatto due o tre denunce, puntualmente cascate nel vuoto di chi tutto sapeva, tutto si aspettava. Quante sono le pietraie d'Italia dove il buon senso, l'umanità, il diritto finiscono inghiottite?

UN ANTIDOTO STORDENTE. «Io quando le vedo alla televisione queste storie non mi sembrano vere, invece siamo noi», ha detto alla televisione, in un fiorire di anacoluti, qualche ragazzina del posto. E la televisione è ancora l'unico antidoto alla noia della pietraia, insieme alle canne e, a volte, altra roba più forte. Ma la televisione è la più stordente di tutte. Hanno calcolato che la prima puntata del Grande Fratello Vip è stata vista dal 25% dei televisori, uno su quattro accesi, 4,5 milioni di spettatori che si bevono gli aneliti di Malgioglio e i fratelli di Belen. In crescita rispetto agli anni scorsi. Uno su due ha tra i 15 e i 24 anni, una su tre è donna, particolarmente al Sud. Tutto per un programma che non esiste, con personaggi che non esistono, con un copione che non c'è anche se la sua narrazione pornografica ha sostituito i romanzi d'appendice, giunto al suo 17esimo anno. Ovviamente non si vuol dire che chi guarda il Grande Fratello poi diventa balordo e criminale, si vuol semplicemente dire che, nelle mille pietraie d'Italia, l'orizzonte culturale è quello, la speranza di vita è quella. E non cambia.

La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre o gli altri. Per la Corte di Cassazione 12 denunce disattese valgono “la negligenza inescusabile” dei PM. Commento di Antonio Giangrande. Scrittore e sociologo storico. Trattare il caso di Marianna Manduca, anche in video, è come trattare miriadi di casi identici, così come ho fatto in “Ingiustiziopoli. Disfunzioni del sistema che colpiscono i singoli”, e mi porta ad affrontare un tema che tocca argomenti inclusi in vari saggi da me scritti e pubblicati su Amazon e su Lulu. 

Per la verità la decisione della Corte di Cassazione, tanto enfatizzata dai media, è intervenuta solo per affermare un principio giuridico formale. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (Carmelo Calì che è un cugino della loro mamma che vive a Senigallia, nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore.

La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ha affermato che i figli di Marianna ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce.

Tanto si è parlato del caso di Marianna Manduca. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce della donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. Il padre uxoricida è stato condannato a soli venti anni di reclusione. Le aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo, nonostante le sue richieste di aiuto.

«Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che 12 dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato». Ergo: sbagliano le toghe, pagano gli italiani, muoiono le vittime.

Ma a tutti è sfuggito un particolare importante che porta a chiederci: per le toghe quante denunce insabbiate valgono una vita umana? Una, due, tre, dieci…Oppure fino a che punto lo stantio o l’inerzia provoca l’inevitabile evento denunciato?

E perché, come ai poveri cristi, alle toghe omissive non viene applicato il reato di omissione d’atti di ufficio, ex art. 328 C.P.? Non si paventa il dolo omissivo?

Non si pensi che la morte di Marianna Manduca sia un caso isolato e riferito solo alla trinacride magistratura. Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. «La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

La sua storia è esemplare: è il padre di Carmela. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.

Invece di perseguire chi l’aveva violentata, hanno di fatto perseguito una bambina rinchiudendola in vari istituti in cui Carmela non voleva stare. E, come ha denunciato il padre, usando il metodo facile di «calmarla» con psicofarmaci.

Fin qui la questione attinente al femminicidio. 

L’uomo orco da scotennare? No! C’è un paradosso da non sottovalutare. Se i Pm insabbiano, i giudici sono punitivi.

«Giudici punitivi, sempre dalla parte delle madri. E padri disperati: troppe le storie quotidiane di sofferenza atroce». E’ agguerrito Alessandro Poniz di Martellago (Ve), coordinatore Veneto dell’associazione Papà Separati. Esprime la rabbia e la frustrazione che ogni giorno tanti genitori «vessati dall’ex coniuge» riversano su di lui. «Ci si scontra continuamente con madri “tigri” tutelate dalla legge - accusa Poniz - . Non mi stupisce il dramma del papà di Padova. Sì, sono convinto che per la disperazione si possa arrivare a togliersi la vita. Sapete quanti padri si presentano puntuali a prendere i figli, secondo le sentenze stabilite dai tribunali, suonano il campanello e vengono mandati via dalla madre con la scusa che il bimbo è ammalato? Escamotage simili vanno avanti per anni... E quanti scontano l’odio e il rancore di figli “plagiati” dalle madri?».

«Il sistema non è mai pronto a intervenire tempestivamente», sostiene Alessandro Sartori, presidente Veneto dell’associazione italiana avvocati per la famiglia e per i minori (Aiaf). «Ci vorrebbe una formazione specifica sia per i giudici che per i servizi sociali. A volte sono chiamati a pronunciarsi su questa materia delicatissima giudici che fino al giorno prima si occupavano di diritto condominiale...». 

Divorzi e paternità: ecco come la donna violenta l'uomo. False denunce e false accuse tra violenze fisiche, verbali e paternità negate. Nella coppia la donna diventa sempre più violenta. Ecco i risultati sconcertanti del questionario, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. “Sono prive di fondamento le teorie dominanti che circoscrivono ruoli stereotipati: donna/vittima e uomo/carnefice”. Ad affermarlo è la psicologa forense Sara Pezzuolo, dopo aver condotto in Italia la prima “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”. “Dal questionario emerge come anche un soggetto di genere femminile sia in grado di mettere in atto una gamma estesa di violenze fisiche, sessuali e psicologiche - continua a spiegare a Panorama.it, l’esperta - che trasformano il soggetto di genere maschile in vittima”.

E quando gli affidi diventano scippi e le vittime sono i figli ed entrambi i genitori?

Ci sono i falsi abusi, ma che realizzano vere tragedie. Solo 3 denunce su 100 si concludono con una condanna.

Minori strappati dalle mura domestiche e rinchiusi all’interno di comunità. Storie di sofferenze, abusi, maltrattamenti, ma anche di errori giudiziari, che segnano indelebilmente la vita di minori, costretti a vivere e crescere in comunità o famiglie affidatarie lontane dall’affetto dei genitori.

Da quanto detto si estrae una semplice conclusione. Il sistema esaspera gli animi ed il debole soccombe. Non vi è differenza di sesso od età. Solo i media esaltano il fenomeno del femminicidio. Lo fanno per non colpire i veri responsabili: i magistrati. 

Bene. Anzi, male. Perché se è vero, come è vero, che questo sistema della stagnazione delle denunce o la loro invereconda procedibilità viene applicato anche per qualsiasi altro tipo di reato violento, allora si è consapevoli del fatto che ogni vittima è rassegnata al peggio. Si badi bene. Qui si parla anche di vittime di estorsioni. Quindi vittime di mafia. Senza parlare poi delle vittime di errori giudiziari. 

Ecco, allora, chiedo a Voi toghe. Quando scatterebbe la “la negligenza inescusabile” dei PM che provoca morte o rassegnazione, dopo una, due, tre, dieci…denunce? Ce lo dite con una vostra alta sonante pronuncia, in modo che noi vittime, poi, teniamo il conto di quelle già insabbiate. Se poi, in virtù dell’indifferenza sopravviene la morte, chissà, forse i nostri figli si potranno rivalere economicamente, non sui responsabili, come sarebbe giusto, ma, bontà vostra, sui nostri e vostri concittadini che pagano le tasse anche per quei risarcimenti del danno. Danni riferiti a responsabilità dei magistrati, ma non a questi addebitati. 

È morta la 15enne di Ischitella colpita al volto dall'ex della madre, scrive il 21 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". E’ morta la ragazza di 15 anni, Nicolina Pacini, che ieri era stata ferita al volto da un colpo di pistola sparato dall’ex compagno della mamma, Antonio Di Paola, di 37 anni, che, dopo una fuga nelle campagne circostanti il paese, si è ucciso sparandosi con la stessa arma, una calibro 22. La ragazza è morta poco prima delle 7 di questa mattina per un ennesimo arresto cardiaco. La quindicenne, Nicolina Pacini, ieri, intorno alle 7.30, stava scendendo le scale di via Zuppetta, a Ischitella, per raggiungere la fermata dell’autobus che l’avrebbe condotta a scuola, a Vico del Gargano, quando è stata avvicinata da Antonio Di Paola, che - probabilmente - le ha chiesto notizie della mamma, Donatella Rago, di 37 anni, fino ad un mese fa la sua compagna. Al rifiuto della ragazzina, l’uomo avrebbe sparato colpendola al viso. Donatella Rago è stata raggiunta dalla notizia mentre si trovava in una località della Toscana dove lavora e dove, pare, avesse cominciato una nuova relazione. Antonio Di Paola non si dava pace e voleva in tutti i modi ritornare insieme alla donna che di recente lo aveva denunciato due volte per minacce, l'ultima un paio di settimane fa. Nicolina Pacini, a causa delle condizioni di disagio famigliare, viveva a casa dei nonni ai quali era stata affidata dai servizi sociali insieme al fratello.

La madre: inutile la mia denuncia, scrive il 20 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". I miei figli «erano in affidamento ai miei (genitori, ndr) ed io ho avvertito che sarebbe successo qualcosa, nessuno mi ha dato retta. Io non c'ero, ma i miei che li avevano in affido dov'erano? Non doveva prendere il pullman visto che c'erano delle denunce in corso, ma dovevano accompagnarla loro a scuola». Lo scrive su Facebook la mamma della 15enne ferita con un colpo di pistola al volto ad Ischitella (Foggia). Per il ferimento viene ricercato l’ex compagno 37enne della donna. Quest’ultima non vive in Puglia. «E l’assistente sociale del Comune di Ischitella - accusa la mamma - che mi aveva assicurata che dai miei stavano benissimo? Complimenti!» L'avevo «supplicata - aggiunge - di portarli in un altro posto perché sapevo che sarebbe successo tutto questo. Non mi ha ascoltato, anzi ha detto: 'Stanno bene dove stanno'. Ora mia figlia è in coma farmacologico. Mio Dio ti prego aiuta la mia unica stella, era l’unica figlia femmina che ho. Ti prego, ti prego, ti prego. Mio Dio! Ascolta la mia preghiera. Sono disperata, lei non c'entrava nulla». La donna ieri aveva pubblicato la foto di tre ragazzi, forse i suoi tre figli, e aveva scritto: «La mia forza, la mia vita, il mio ossigeno: siete tutto quello che ho amori miei». 

E la mamma della ragazzina rivela: «Hanno ignorato le mie denunce». Lo sfogo della donna sui social: «Sapevo che sarebbe successo», scrive Massimo Malpica, Giovedì 21/09/2017, su "Il Giornale".  Ancora una volta una tragedia annunciata. Ancora una volta il dubbio che l'inerzia dello Stato abbia contribuito a versare del sangue innocente. Anche a Ischitella, nel Foggiano, dove un 37enne ha sfogato la sua malata gelosia per l'ex compagna, sparando in volto alla figlia quindicenne della donna prima di suicidarsi. Ora la ragazzina lotta tra la vita e la morte, e le sue condizioni sono «disperate». E a soffiare sul fuoco delle polemiche arrivano i post «social» della madre, che su Facebook ha commentato la notizia, sostenendo di aver più volte denunciato l'ex compagno, e di aver avvertito invano le autorità di temere questo terribile esito. Almeno due sarebbero le denunce presentate contro l'uomo che ha sparato alla figlia, e l'ultima porterebbe la data di un paio di settimane fa. Tra l'altro la donna, Donatella, sostiene anche di aver chiesto che i figli, affidati ai nonni, venissero portati via da Ischitella. «Perché sapevo si legge in uno dei messaggi scritti ieri sul social network dalla madre - che sarebbe successo tutto questo». Un episodio che ricorda quanto accaduto pochi giorni fa con la morte di Noemi Durini, ammazzata dal fidanzato nonostante le numerose denunce presentate sia dalla madre della ragazza che dalla famiglia di lui, e che non avevano portato ad alcuna forma di tutela prima che si consumasse la tragedia. Tornando a Ischitella, è di ieri alle 13 il primo messaggio postato dalla donna, che nel frattempo dopo aver rotto la relazione con l'uomo che ha aggredito la figlia per poi ammazzarsi si è trasferita in Toscana. «Mia figlia!», esclama a commento di un articolo sulla sparatoria. E rispondendo ai commenti di amici e parenti, ecco la denuncia: «Erano in affidamento ai miei - scrive la madre - ed io ho avvertito che sarebbe successo qualcosa ma nessuno mi ha dato retta». E ancora: «Non doveva prendere il pullman visto che c'erano delle denunce in corso, ma dovevano accompagnarla loro a scuola», lamenta la donna, rivolgendosi poi per nome all'assistente sociale del paese: «Complimenti... io ti avevo supplicata di portarli da un altro posto che sapevo che sarebbe successo tutto questo, non mi ha ascoltato anzi ha detto stanno bene dove stanno... ora mia figlia è in coma farmacologico». Poi la mamma della 15enne ferita se la prende con l'ex compagno. «Spero che ti ammazzi bastardo lurido - scrive - prendertela con una ragazza di soli 15 anni, sei un rifiuto umano», e poco dopo aggiunge «tu non meriti di vivere», per poi commentare la notizia del suicidio, ancora su Facebook: «Ditemi che è vero». Ce n'è abbastanza per riaccendere il dibattito sulla scarsa efficacia dello Stato nel proteggere chi denuncia violenze e minacce. A seguito degli esposti della donna, i carabinieri erano intervenuti con perquisizioni personali e domiciliari, concluse senza alcun esito tranne, nel 2016, un deferimento per porto illegale di coltello.

La mamma della 15enne uccisa posta un messaggio su Facebook: «Senza te non siamo niente», scrive il 22 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". «Amore senza di te non siamo niente», "ricordati di tua mamma di tuo padre e del tuo fratellino», «torna tra noi, ti prego, ti aspetto». Sono alcuni dei passaggi del post che ha pubblicato su Facebook Donatella Rago, madre di Nicolina Pacini, la 15enne uccisa dall’ex compagno della donna. Rago ha pubblicato il post ieri, in tarda serata, aggiungendo numerose foto in cui Nicolina è ritratta in diverse occasioni: col vestito elegante, mentre si scatta un selfie davanti allo specchio, in posa per sembrare ancora più bella. «Eccoti amore mio - scrive sua madre - così bella, solare, allegra, carattere forte...con questi occhi blu più del sole e del mare...tu la mia vita, il mio sole il mio tutto...io e te si litigava, io e te ci confidavamo a vicenda, eravamo due sorelle e non madre e figlia. Tutti ci invidiavano amore mio, vita mia, mi manchi tantissimo». «Ora - prosegue la mamma di Nicolina - tu sei un piccolo angelo in mezzo a tanti angeli mah! Qui giù ricordati di tua mamma, di tuo padre e il tuo fratellino, amoreeeeee senza di te siamo niente...tesoro mio ti va di venire (a darci, ndr) un bacio?». «Così - conclude - ci sembra che tu stia ancora qui con noi...nico ci manchi amore mio, torna tra noi, ti prego a mamma, ti aspetto!!!!». Al post seguono messaggi di condoglianze e vicinanza, ma anche molte critiche alla mamma per «non aver badato a sua figlia» e perché «espone il suo dolore su Facebook». Stessi attacchi che ha ricevuto anche dopo il post pubblicato questa mattinata, con una foto di Nicolina con due ali da angelo: «Il mio angelo per sempre», ha scritto Donatella. «Sapevo che aveva una pistola e l’ho anche detto ai carabinieri quando ho presentato le denunce perché mi minacciava: ho ancora i messaggi conservati sul telefono. Era un violento, sapevo che c'era pericolo per i miei figli», ha poi detto Donatella Rago all''Ansa.

Nicolina non ce l'ha fatta. Lo sfogo della madre: l'avevo messa in guardia. Il killer aveva già minacciato con un coltello la 15enne. Il ministro chiede una relazione, scrive Bepi Castellaneta, Venerdì 22/09/2017 su "Il Giornale". Il filo di speranza si è fatto sempre più sottile e si è affievolito ancor di più con il passare delle ore. Fino a quando, poco prima delle 7, il cuore di Nicolina Pacini, 15 anni, raggiunta da un colpo di pistola al volto sparato dall'ex compagno della madre che poi si è suicidato, si è fermato per sempre in una stanza degli Ospedali Riuniti di Foggia, là dove era stata ricoverata dopo un agguato gelido e spietato in un vicolo di Ischitella, piccolo centro del Gargano. Fin dal primo momento i medici si erano mostrati pessimisti: troppo gravi le lesioni riportate, la ragazza è stata ferita a un occhio e la pallottola ha causato un'emorragia cerebrale. «Impossibile operare», è stato il drammatico verdetto. E così, dopo una notte di agonia, per la quindicenne non c'è stato niente da fare: i suoi sogni e il suo destino sono stati cancellati sugli scalini insanguinati di via Zuppetta, il vicolo del centro storico che stava percorrendo per raggiungere la fermata dell'autobus e andare a scuola. Adesso in questo angolo della provincia di Foggia il dolore si mescola alla rabbia. E crescono le polemiche per quella che in tanti definiscono una tragedia annunciata. A cominciare dalla madre, Donatella Rago. Che non usa mezzi termini e sul suo profilo Facebook sostiene di aver dato più volte l'allarme puntando l'indice contro l'ex compagno, Antonio Di Paola, 37 anni, l'uomo che ha ucciso e si è tolto la vita poche ore dopo nelle campagne del paese con la stessa pistola. In un'intervista a Mattino Cinque la donna rivela il contenuto dell'ultima telefonata con Nicolina, data in affidamento ai nonni materni su disposizione della magistratura minorile. «Io mi sto preoccupando perché so cosa vuole fare», le ha detto quattro giorni fa la madre, che era riuscita a chiudere il rapporto con Di Paola tornando a Viareggio, dove vive l'ex marito che insieme a lei ieri ha raggiunto Ischitella per piangere sul corpo della figlia. Aveva paura, Donatella. Temeva che il 37enne, quell'uomo con cui ha convissuto due anni, un tipo violento con precedenti penali e noto in paese come «una testa calda», potesse in qualche modo vendicarsi dopo che lei aveva deciso di interrompere la relazione e di fargliela pagare nel modo più atroce. Del resto lui lo aveva detto chiaramente: secondo quanto risulta nella denuncia presentata nel 2016, Di Paola nel corso di una lite avrebbe minacciato Nicolina con un coltello, intervennero ai carabinieri e l'arma fu sequestrata; e poi ancora: due settimane fa il pregiudicato avrebbe chiesto con insistenza alla quindicenne notizie della ex compagna, la ragazza si è rifiutata di rispondere e ha riferito tutto alla madre. Risultato: è stata presentata una seconda denuncia, questa volta in Toscana. Insomma Donatella temeva che nella mente di Di Paola, in preda a una gelosia ossessiva, avrebbe potuto persino prendere forma il feroce disegno di una vendetta trasversale. E così è stato. «Non siamo stati capaci di evitare una tale tragedia», dice il parroco della chiesa di Santa Maria Maggiore, Dino Iacovone. E mentre in paese la gente si interroga su ciò che poteva essere fatto per fermare l'assassino, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, annuncia l'intenzione di chiedere maggiori dettagli sul caso.

La mamma della 15enne uccisa «Aveva già minacciato mia figlia». Poi attacca i genitori: dove erano? Scrive il 22 Settembre 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno". «Nessuno muore finchè vive nel cuore di chi resta. E' questo uno degli striscioni che campeggiavano stasera nel corso della fiaccolata a Ischitella per ricordare Nicolina Pacini, la 15enne uccisa dall'ex compagno della mamma. Il sindaco ha proclamato il lutto cittadino in occasione dei funerali che avranno luogo sabato, alle 15.30. Intanto, la mamma della ragazza, in un post ha dato sfogo alle sue emotivi: «Amore senza di te non siamo niente», "ricordati di tua mamma di tuo padre e del tuo fratellino», «torna tra noi, ti prego, ti aspetto». Sono alcuni dei passaggi del post che ha pubblicato su Facebook Donatella Rago, madre di Nicolina. Rago ha pubblicato il post ieri, in tarda serata, aggiungendo numerose foto in cui Nicolina è ritratta in diverse occasioni: col vestito elegante, mentre si scatta un selfie davanti allo specchio, in posa per sembrare ancora più bella. «Eccoti amore mio - scrive sua madre - così bella, solare, allegra, carattere forte...con questi occhi blu più del sole e del mare...tu la mia vita, il mio sole il mio tutto...io e te si litigava, io e te ci confidavamo a vicenda, eravamo due sorelle e non madre e figlia. Tutti ci invidiavano amore mio, vita mia, mi manchi tantissimo». «Ora - prosegue la mamma di Nicolina - tu sei un piccolo angelo in mezzo a tanti angeli mah! Qui giù ricordati di tua mamma, di tuo padre e il tuo fratellino, amoreeeeee senza di te siamo niente...tesoro mio ti va di venire (a darci, ndr) un bacio?». «Così - conclude - ci sembra che tu stia ancora qui con noi...nico ci manchi amore mio, torna tra noi, ti prego a mamma, ti aspetto!!!!». Al post seguono messaggi di condoglianze e vicinanza, ma anche molte critiche alla mamma per «non aver badato a sua figlia» e perché «espone il suo dolore su Facebook». Stessi attacchi che ha ricevuto anche dopo il post pubblicato questa mattinata, con una foto di Nicolina con due ali da angelo: «Il mio angelo per sempre», ha scritto Donatella.

«Sapevo che aveva una pistola e l’ho anche detto ai carabinieri quando ho presentato le denunce perché mi minacciava: ho ancora i messaggi conservati sul telefono. Era un violento, sapevo che c'era pericolo per i miei figli», ha poi detto Donatella Rago all''Ansa. «Nicolina era stata già minacciata ad agosto dell’anno scorso dal mio ex compagno che le ha puntato un coltello alla pancia». Donatella ricorda che non lasciava «mai Nicolina da sola con lui» ma quel giorno «ero a fare un colloquio di lavoro» e "Nicolina volle tornare a casa sua per riprendersi delle foto di lei e di suo fratello. Appena entrò - ricorda Donatella - trovò tutte le foto per terra e si arrabbiò molto: fu allora - conclude - che mia figlia fu minacciata». «Avevo chiesto ai miei figli di venire con me a Viareggio dove mi sono trasferita per lavoro, per dare loro un futuro migliore - spiega la donna - ma non hanno voluto seguirmi perché qui avevano la scuola e le loro amicizie. Avevano detto che non sarebbe successo nulla». Qualche giorno prima dell’omicidio, Donatella dichiara di aver avvisato i suoi genitori, invitandoli a stare attenti. «Qualcuno - racconta Donatella - mi ha telefonato per dirmi che il bastardo (il suo ex compagno, ndr) era stato visto nei dintorni di casa mia», ma "mio padre mi ha detto che era al bar con gli amici». E poi, aggiunge Donatella, «ha chiamato il padre di Nicolina dicendogli di non farmi telefonare più». «Volevo che i miei figli fossero trasferiti altrove, fuori dal paese. Ma l'assistente sociale mi diceva sempre che non c'era posto più sicuro di casa dei nonni: si è visto com'è andata a finire». La donna riferisce che tempo fa aveva avvertito Nicolina di stare attenta perché il suo ex le aveva telefonato dicendo di averla vista in giro con la zia. «Lasci tua figlia in mano agli altri?», le aveva chiesto. Rago spiega che alla sua richieste di guardarsi le spalle, Nicolina aveva risposto: «Mamma, ma allora non posso più uscire?». «Io - conclude Donatella piangendo - l’avevo pregata di non uscire mai da sola». «Andrò a Foggia e comprerò a mia figlia il vestito più bello che c'è, perché me l'hanno lasciata nuda, non mi hanno fatto neppure trovare i suoi vestiti», ha continuato la mamma di Nicolina. Rago, tra le lacrime, punta il dito contro i nonni della piccola, i suoi genitori, ai quali era stata affidata e con i quali i rapporti si erano deteriorati. Li accusa, tra l’altro, di non aver fatto vedere neppure al papà di Nicolina, ieri a Ischitella, l’altro figlio più piccolo, pure lui affidato ai nonni. «Sapevano saremmo arrivati e se ne sono andati - dice Rago - con l’unico figlio che gli rimane».

IL FATTO. Norbaonline. 22 settembre 2017. L’editoriale del direttore del TgNorba Enzo Magistà. Tema del giorno: Femminicidi in costante crescita. Quali sono le carenze nelle istituzioni e nella rete familiare delle vittime?

«Le famiglie denunciano, le istituzioni sembrano sorde. E nel frattempo gli omicidi continuano. In Puglia sembra che si sia aperta una pericolosa spirale, a Specchia come ad Ischitella. C’è un dato che fa paura. C’erano due probabili assassini in giro, denunciati, conosciuti, liberi, nessuno li ha fermati. E così due ragazze sono state uccise. Stato impotente? Servizi insufficienti? Istituzioni disattente? Si è detto e si è scritto di tutto in questi giorni tanto che il CSM e il Ministero della Giustizia hanno messo sotto indagine la procura minorile di Lecce. Noemi e Nicolina si potevano salvare per davvero? E che cosa avrebbero dovuto fare le istituzioni per salvarle dalla morte più di quanto non abbiano fatto? Dovevano arrestare preventivamente i probabili assassini, introducendo il reato del sospetto? Noemi prima di essere uccisa uscì di casa di sua spontanea volontà all’alba di quel giorno. Uscì con i suoi piedi, con le sue gambe, forse anche armata. Potevano saperlo i servizi sociali di Specchia? Poteva saperlo la procura minorile di Lecce? O dovevano prevederlo i suoi genitori? E così Nicolina, doveva essere accompagnata a scuola dai nonni, perché girava da sola per le strade deserte di Ischitella di mattina presto? Le due vicende, purtroppo, dimostrano che ci sono disattenzioni familiari prima delle disattenzioni istituzionali. Si fa presto a dire “Lo Stato non ci protegge”. Ma in famiglia cosa si fa per meritarsi anche questa protezione? Certo, fa male parlare così delle famiglie delle vittime in questo doloroso momento per loro però le riflessioni se si devono fare si devono fare a 360° guardando alle responsabilità di tutti. I genitori, i parenti, hanno responsabilità dirette che vengono prima delle responsabilità sociali. Se si bypassa la rete di protezione familiare, se si fa un buco in questa rete allora ci si deve aspettare di tutto. E non è un caso che i delitti più efferati avvengano nell’ambito delle famiglie se non addirittura tra le mura domestiche. Ci sarà un perché. Questo perché è nascosto dietro la porta di casa».

A Ischitella i funerali di Nicolina. Il parroco: “Dopo Noemi, ancora dolore in Puglia”. Tantissime persone, di Ischitella ma anche dei paesi vicini, sono intervenute nella chiesa di San Francesco e all’esterno per i funerali di Nicolina Pacini, la quindicenne uccisa dall’ex compagno della madre, scrive il 23 settembre 2017 Susanna Picone su "Fan Page". Nel pomeriggio di oggi, nella chiesa di San Francesco a Ischitella, in provincia di Foggia, più di mille persone sono intervenute per dare l’ultimo saluto a Nicolina Pacini, la quindicenne uccisa dall’ex compagno della madre il 20 settembre. “Per la seconda volta, in una settimana, la nostra Puglia è stretta in un abbraccio di dolore: prima i funerali di Noemi, a Specchia, nel profondo Sud; oggi quelli per Nicolina. Una terra che ci invidia il mondo, in cui alla luce splendida delle sue albe, si alterna l'oscurità della violenza; alla bellezza dei suoi paesaggi, l'orrore per questi crimini; alla santità che ha benedetto questa nostra diocesi, con san Michele Arcangelo e con San Pio da Pietrelcina, di cui oggi ricordiamo la festa liturgica, il terribile peccato del femminicidio”, le parole pronunciate durante l’omelia da don Dino Iacovone. “Nicolina rivive non solo nel ricordo di chi l'ha conosciuta e amata, rivive in noi quando ci incontriamo per pregare, quando allacciamo relazioni amorevoli e sincere, quando ci battiamo per liberare l'aria e la terra dai rifiuti dell'odio. Solo così il suo sacrificio non sarà vano”, ha detto ancora il sacerdote. Lutto cittadino a Ischitella – Oltre ai genitori della ragazza, ai nonni e al fratellino, sono presenti alle esequie, fra gli altri, il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, il sindaco di Ischitella, Carlo Guerra, autorità civili e militari, sacerdoti, famiglie e anche tanti bambini e ragazzi. Tantissime le persone, arrivate anche dai paesi vicini, che sono rimaste fuori dalla chiesa. A Ischitella oggi è stato proclamato il lutto cittadino mentre ieri c’è stata una fiaccolata per la ragazzina. Il corteo era aperto da uno striscione: “Nessuno muore finché vive nel cuore di chi resta”. Nicolina frequentava il secondo anno del liceo “Publio Virgilio Marone” di Vico del Gargano ed è lì che stava andando la mattina in cui ha incontrato l’uomo che poi le ha sparato in viso. Un uomo che dopo il delitto si è tolto la vita.

Un delitto di abbandono mentre tanti sapevano, scrive Enrica Simonetti il 23 Settembre 2017 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Il nome sembra quello della protagonista di una favola: Nicolina. Pure il paese, con 4mila anime, arroccato su una collina verde, sembra da favola. Il paradosso è che la favola è invece un horror, un ennesimo horror sbarcato nel nostro strano mondo, in cui pensiamo di sapere e di potere tutto. E invece, fino all’altro giorno, nulla conoscevamo di Nicolina e della sua stirpe, della mamma «volata» lontano, del padre assente, dei nonni ai quali era affidata, della casa-famiglia in cui aveva abitato e di tutte le vicissitudini da lei vissute nel breve tempo dei suoi 15 anni. Nulla si sa, perché nulla siamo e nulla facciamo. Non sappiamo dei fascicoli pendenti in qualche Tribunale per i minori, nulla di qualche assistente sociale che doveva avere in carico il caso. Sappiamo solo che c’è una nuova black story da consumare, divorare e buttar via. Una storia in cui tutto sembra assurdo: dal fatto che una ragazzina e il suo fratellino possano essere stati lasciati nel mezzo di un pericolo di vendetta, fino al mistero di un uomo rancoroso tranquillamente fornito di pistola. Nelle favole c’è dolore, è vero, ma qui ce ne sta troppo; nelle favole c’è meraviglia, ma esiste pure un po’ di felicità. Che qui sembra invisibile. In questa storia pugliese che ha tanto di interplanetario e nulla di esclusivamente pugliese, c’è l’ennesima beffa contro i deboli. C’è una famiglia dilaniata in una società altrettanto dilaniata: una società che perde tempo a parlare di femminicidi e di pedagogia dell’ascolto e nulla riesce a fare per fermare la mano violenta di un uomo e per sanare la mente impazzita davanti al volto aperto di Nicolina. Una ragazzina forse forte, ma indebolita dalle carenze di uno Stato che non ha potuto proteggerla nonostante fosse stata minacciata un mese fa con un coltello puntato alla pancia da chi poi le ha sparato. Una debolezza dietro l’altra: è debole un sistema sociale in cui i servizi sociali languono; è debole una famiglia che fugge ed è debole chi soccombe; è debole chi non riesce a tollerare la separazione; è debole chi adesso fa il «finto forte» insultando la madre di Nicolina su Facebook. Deboli ma violente le liti familiari che fanno da sfondo a questo caso, con le barriere di odio che serpeggiano tra le case, tra i legami, tra le incomprensioni. La vita ha le parole che può, la fiaba ha le parole che deve. Mai fiaba e vita possono coincidere, ma a Ischitella, sembra che si riproduca quel cruento delle fiabe che Kafka già ai suoi tempi intravedeva come reale. E il disagio è accorgersi che nulla cambia, nemmeno con l’avanzare dei tempi e dei diritti. Perché l’infelice fine di una ragazzina trovatasi sola contro il nemico è un fatto moderno e antico allo stesso tempo, figlio della nostra era, così apparentemente completa e così definitivamente arresa al Nulla. Possibile che nel 2017 Nicolina sia rimasta sola a combattere il deserto di una famiglia e di un mondo? Le cose che si dicono dopo un delitto purtroppo finiscono per somigliarsi tutte, un po’ come le famiglie felici-infelici citate da Tolstoj. La ritualità di queste stragi familiari è ormai terribilmente «tipica»: con l’esperto che commenta, con l’inchiesta che scava, con quella piazza provinciale che diventa l’Italia affamata di noir. Un’era fa i cronisti passavano ore davanti a queste case inondate di orrore, mendicavano una foto, un ricordo, una dichiarazione. Oggi si digita un nome sfortunato su Facebook e si «rapiscono» gli istanti di una vita, con un fiume di immagini e di sorrisi da offrire per lo «spettacolo». A Specchia come a Ischitella e come in tutti questi delitti, c’è una rosa di immagini dei tempi felici, capaci di inondare il racconto orrifico delle tragedie. E queste immagini ci arrivano e ci soffocano, spezzano il racconto, distraggono dall’obiettivo: pensate, come se Shakespeare avesse fotografato Desdemona soffocata da Otello invece di descriverla... forse quella storia non sarebbe mai stata così indimenticabile. E allora, il rischio della debordante e breve attenzione mediatica di fronte a questi orrori è quello di produrre oblìo, non memoria. Di fare casciara e non analisi. In poche parole: di continuare a ignorare Nicolina e coloro che hanno come lei una sfortunata e intensa vita. Un po’ come quelle favole onnipresenti che si sanno, si ripetono... e si dimenticano. Enrica Simonetti.

Il papà: «Giustizia per Noemi». Il padre di Lucio alza il tiro: «Lei vittima della sua famiglia», scrive Sabato 23 Settembre 2017 il "Quotidiano di Puglia”. «Voglio verità e giustizia per mia figlia Noemi»: a dirlo è Umberto Durini, il padre della sedicenne di Specchia uccisa il 3 settembre dal suo fidanzato di 17 anni che ha poi confessato l'omicidio. L'uomo si è affidato all'avvocato del foro di Perugia Walter Biscotti, già legale della mamma di Sarah Scazzi e difensore di Salvatore Parolisi, che si è recato appositamente nella città pugliese. «Umberto Durini - ha detto l'avvocato Biscotti - vuole ringraziare le forze dell'ordine e tutti quelli che hanno collaborato alle indagini. Chiede che rimanga alta l'attenzione sul caso perché ci sono punti ancora oscuri legati alla confessione del ragazzo». Secondo il legale «occorre chiarire in particolare il ruolo del padre del diciassettenne». «Sono andato ai servizi sociali, mi sono inginocchiato e ho detto: “Mi aiuti a trovare una struttura dove mio figlio possa essere curato”. Non mi hanno mai contattato. Lei era gelosa e morbosa». «Ho cercato di salvarli tutti e due: sarebbe bastato che mi avessero ascoltato». Sono alcuni dei passaggi dell'intervista, mandata in onda ieri su Retequattro, a 'Quarto Gradò, a Biagio, il padre di Lucio, il ragazzo che ha confessato di essere responsabile dell'omicidio di Noemi Durini, la ragazza di 16 anni, di Specchia, ammazzata il 3 settembre scorso. Il ragazzo è accusato di omicidio volontario. Anche il padre è indagato per sequestro di persona e concorso in occultamento di cadavere. «Sono stato ai servizi sociali per chiedere come mai questa ragazza fosse sempre fuori di casa e non fosse seguita dalla famiglia. Mi sono inginocchiato e ho detto: “Mi aiuti a trovare una struttura dove chiudere mio figlio, in modo che venga curato”. Se ne sono usciti con un "sarai contattato da un consultorio". Consultorio che non si è fatto mai vivo», ha raccontato l'uomo. «Che questa ragazza fosse pericolosa per mio figlio me ne sono accorto quasi subito, perché era gelosa e morbosa. Me ne sono accorto - continua l'uomo - sin dai primi giorni, quando veniva accompagnata da un ragazzo di Casarano molto più grande di lei». «È pericolosa questa gente qua? a venire a casa a buttare molotov. I carabinieri lo avevano già detto: «Occhio! A causa di questa ragazza Lucio frequenta persone molto adulte... erano amici loro, amici delle loro famiglie. Non è vero che questa ragazza chiedesse il permesso per uscire di casa: usciva quando voleva. Tempo fa, poi, vengo a sapere che raccoglieva soldi per comprare una pistola e ammazzarci», ha detto il padre di Lucio. «Adesso - ha concluso - siamo passati che la mia è una cattiva famiglia, che non seguivo mio figlio, e che Noemi invece era una brava ragazza. Ho pietà per lei. Per me era vittima della sua famiglia. Questa è la pura e sacrosanta verità. E quando ci sarà l'opportunità tirerò fuori vita morte e miracoli di questa famiglia. A Lucio non posso dire niente perché non ce l'ho più. Ho cercato di salvarli tutti e due: sarebbe bastato che mi avessero ascoltato».

Che stravagante e bizzarra è la coincidenza per la quale sia diventato l’avvocato del padre di Noemi l’avvocato di Parolisi e della famiglia Scazzi, ossia l’avvocato di Perugia Walter Biscotti, che oltretutto si è occupato anche del caso dell’omicidio di Meredith Kercher. Egli difendeva il condannato Rudy Guede. Per quel delitto sono stati assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Anche loro vittime dei PM di turno innamorati della loro ipotesi investigativa.

Gli avvocati Biscotti e Gentile si sono offerti alla famiglia Scazzi (a dire degli avvocati, gratuitamente) e si avvarranno della consulenza dell’ex comandante del Ris di Parma, l'ex generale Luciano Garofano. «Vogliamo essere di supporto alla Procura – ha spiegato Gentile – abbiamo incontrato il sostituto procuratore Mariano Buccoliero (dirige l’inchiesta sulla scomparsa della minore) depositando le nostre nomine.

E poi, nonostante si fosse in preda alla disperazione, che annebbia la razionalità, e si fosse consapevole che nelle situazioni di clamore mediatico tutti avrebbero approfittato per essere illuminati dai media per conseguire notorietà, la famiglia Scazzi il 21 settembre 2010 si è affidata agli avvocati Walter Biscotti e Nicodemo Gentile.

L'anomalia è che la famiglia Scazzi sceglie come difensore l'avvocato Walter Biscotti, già difensore di Rudy Guede nel processo Meredith, e coinvolto anche nel caso Marrazzo. L'avvocato risiede a Perugia. C'è da domandarsi come ha fatto la famiglia a scegliere un difensore che risiede a centinaia di chilometri, e con che criterio. Inoltre, nella fase di ricerca di una persona scomparsa, il difensore è assolutamente inutile, non essendoci procedimenti né civili né penali da affidare al legale. Guarda caso poi, il legale in questione non solo trova il tempo di recarsi personalmente ad Avetrana, ma ha anche la fortuna di trovarsi alla trasmissione "Chi l'ha visto" proprio quando in diretta mandano la notizia del ritrovamento del cadavere.

Sulla mediaticità degli avvocati, anche il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto fa dei rilievi. In riferimento al caso Sarah Scazzi a Daniele Galoppa viene contestata la sovraesposizione mediatica, a Vito Russo e Emilia Velletri anche l'accaparramento di clientela. Per Russo si aggiunge anche la violazione delle norme di correttezza e decoro. In seguito agli eventi su esposti l'avv. Russo e l'avv. Velletri hanno lasciato la difesa di Sabrina Misseri. Sicuramente, questi, non hanno l'opportunità, riservata a Galoppa, Biscotti e Gentile, (per questi la sovraesposizione mediatica mai contestata e per gli avvocati di Perugia, nemmeno l’essersi offerti “gratuitamente” per accaparrarsi la clientela), di presenziare nei talk show televisivi, non invitati da quei media poco inclini a dare spazio alle tesi difensive o a sposare la tesi dell'innocenza di Sabrina o Cosima, ovvero sentire rimostranze contro gli atteggiamenti della procura di Taranto e del GIP Martino Rosati. 

Dove ci sono le telecamere, subito dopo appaiono loro. I casi più seguiti dai media sono roba loro. Non è accaparramento illecito di clientela. Sia mai. Non è come per gli avvocati tarantini Vito Russo ed Emilia Velletri. Per loro, sì, che si son mossi Procura e Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto. Inoltre i legali degli Scazzi collaborano in modo “simbiotico e significativo” sia con i giornalisti, sia con i magistrati. Gli avvocati di Perugia Walter Biscotti e Nicodemo Gentile rappresentano anche Salvatore Parolisi come persona offesa nell'indagine sull'omicidio della moglie Melania Rea. Anche in questo caso non mancano di soffermarsi su un fatto: stabilire la loro verità. Gli avvocati Gentile e Biscotti hanno spiegato che con la loro nomina intendono "contribuire all'accertamento della verità". «Abbiamo incontrato il pm Umberto Monti - ha detto Biscotti, avvicinato dai cronisti ad Ascoli Piceno - offrendo massima collaborazione. La volontà di Parolisi è essere considerato parte offesa in questa vicenda, collaborando con gli investigatori, come ha già fatto finora». Intanto si è proceduto nei confronti di Parolisi come se si trattasse del vero responsabile. Sia da parte della stampa, sia da parte della procura, che pur procedendo alla perquisizione in casa di Parolisi, a questo non gli è stato indicato di nominare un legale. L'irresistibile ascesa dei due avvocati perugini alla fama nazionale. Si tratta di Valter Biscotti e Nicodemo Gentile che hanno ricevuto l'incarico di difendere Winston Manuel Reves, 41enne domestico di origine filippina che ha ammesso di aver ucciso la contessa Alberica Filo Della Torre. Un delitto che ha trovato soluzione, grazie a nuove tecniche di laboratorio, a quasi 20 anni di distanza. La contessa, infatti, fu uccisa, nella camera da letto della sua splendida villa situata all'interno del parco dell'Olgiata, a Roma, il 10 luglio 1991. Sarà un processo importante per la coppia di avvocati perugini, l'ultimo di una serie che li ha visti protagonisti. Hanno assistito la famiglia di Emanuele Petri, l'agente della Polfer, assassinato il 2 marzo 2003, sul treno Roma-Firenze, dal brigatista Mario Galesi. Hanno poi difeso Rudy Guede nel processo per il delitto di Meredith Kercher. Assistono la famiglia Scazzi dopo il delitto di Sarah, il cui corpo senza vita fu ritrovato nelle campagne intorno ad Avetrana, il 6 ottobre 2010. Infine, i due penalisti, difendono la famiglia di Brenda, il trans brasiliano trovato morto, asfissiato, nella sua modesta abitazione romana, il 20 novembre 2009. Brenda era testimone eccellente nel caso che portò alle dimissioni il governatore del Lazio, Piero Marrazzo. Infine, il solo Biscotti è stato nominato difensore di Sara Tommasi, la starlette ternana comparsa tra le ragazze che avrebbero frequentato le feste di Arcore nella villa di Silvio Berlusconi. Attaccare Sabrina Misseri considerandola responsabile del delitto di Sarah Scazzi, o definire la madre, Cosima Serrano, come fortino da espugnare, riferendosi al fatto non provato che il delitto fosse stato commesso in casa con l’apporto di tutta la famiglia, non sono il solo exploit diffamatorio del duo perugino. Sapete cosa dissero Biscotti e Gentile al processo in cui difendevano Rudy Guede? Vi riporto il passaggio di un articolo de “Il Corriere della Sera” del 25 ottobre 2008. «Chi era Meredith Kercher? Non era certo una ragazza estremamente riservata e che non si faceva avvicinare da nessuno, anzi, amava bere, assumeva delle droghe (cannabis) quando si trovava in compagnia. Aveva inoltre una vita sessuale piena, a trecentosessanta gradi, e provava attrazione non solo per il proprio fidanzato italiano».

Stavolta l'ineffabile Ghedini non se l'è sentita, scrive L’Unità. Di trash e pulp, noir e spy, in effetti, in questi anni, ne ha visto e vissuto fin troppo. E poi si vede che questa era troppo persino per lui. Così la denuncia penale che mira a svelare il complotto demo-pluto-giudaico-massonico che nel 2011 costrinse Berlusconi a lasciare palazzo Chigi e che dopo il giornalista Alan Friedman è stato svelato anche dall'ex segretario al Tesoro Usa Timothy Geithner, è stata firmata da Walter Biscotti, toga nota agli addetti ai lavori, un po' meno alla grandi masse, con bellissimo studio nel corso principale che taglia in due la città vecchia di Perugia. Dove, negli anni novanta, nacque il primo club Forza Silvio. E da dove, per l'appunto, Biscotti ha iniziato, non più giovanissimo, la scalata alla notorietà che gli è valsa, in effetti, qualche uscita nel salotto di Porta a Porta. Una veloce carrellata sui casi che portano in calce la sua firma dimostra la predilezione dell'avvocato per il trash, il pulp e il noir profondo. E' stato difensore dell'ivoriano Rudy Guede, condannato con rito abbreviato a sedici anni per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Si è appassionato al caso Marrazzo e ha assistito la mamma di Brenda, la transessuale testimone del caso del caso del governatore poi trovata morta in casa. Un crescendo fino ai casi di Avetrana, dove ha assistito la famiglia di Sarah Scazzi. Fino all'omicidio Parolisi dove ha assistito il marito-militare. In questo percorso, non poteva mancare il giallo dell'Olgiata: qui Biscotti difende Manuel Winston, il filippino che dopo vent'anni ha confessato di essere stato l'autore dell'omicidio rimasto irrisolto. Insomma, dove c'è Biscotti c'è il caso di cronaca nera che conta. E che fa audience. Poi sono cause difficili da vincere. Ma molto popolari. Certo, adesso la faccenda è diversa: c'è di mezzo Berlusconi, un complotto internazionale, un'associazione dal nome altisonante e altamente evocativo. L'esposto-denuncia per cui la procura di Roma ieri ha dovuto aprire il fascicolo, è infatti presentato dalla deputata azzurra Micaela Biancofiore e dalla associazione Tribunale Dreyfus. Entrambi ipotizzano i reati di attentati contro i diritti politici del cittadino e di violazione della norma che punisce le associazioni segrete (legge Anselmi). Walter Biscotti e il giornalista Arturo Diaconale (che pure firma la denuncia), affermano che è "assolutamente necessario l'individuazione degli European Officials, così come denominati dall'autore del libro (Geithner)" , e ritenuti autori delle pressioni, nel 2011, per costringere l'allora premier italiano a lasciare palazzo Chigi. Una trama straordinaria. Un complotto perfetto. “Demo-giudo-plutaico-massonico” amava dire qualcuno.

Valter Biscotti: dal processo Pecorelli al caso di Avetrana, l’intervista di Daniel Chiabolotti su “La Goccia”. L’avvocato Valter Biscotti, originario di Peschici, da anni esercita la professione nella città di Perugia. Recentemente si è occupato di casi di notevole rilievo della cronaca giudiziaria italiana: dalla difesa di Rudy Guede, accusato del delitto della studentessa inglese Meredith Kercher, all’assistenza legale fornita alla famiglia della giovane Sarah Scazzi e in ultimo a Salvatore Parolisi, vedovo di Melania Rea, la ventinovenne di Somma Vesuviana trovata uccisa il 20 aprile scorso nel bosco delle Casermette in provincia di Teramo. Nell’intervista che l’Avv. Biscotti ci ha rilasciato, invece d’investigare nei particolari più foschi degli ultimi risvolti processuali, abbiamo preferito approfondire la chiave del suo successo personale e conoscere più da vicino il legame che si instaura tra legale e assistito in processi molto delicati.

Avvocato come è riuscito ad “aggiudicarsi” dei casi di notevole rilievo della recente cronaca giudiziaria italiana?

«Da oltre venticinque anni svolgo la professione d’avvocato. I casi Kercher e Scazzi non sono i primi di una certa importanza che tratto. Verso la metà degli anni novanta ho fatto parte del collegio difensivo di Giuseppe Calò nel processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svoltosi a Perugia; nel 2003 sono stato legale di parte civile della famiglia di Emanuele Petri (l'agente della POLFER ucciso da Mario Galesi e Desdemona Lioce esponenti delle nuove Brigate Rosse) e Massimo D’Antona, ho rappresentato la parte civile nel processo della strage di piazza della Loggia a Brescia. Assieme al collega Nicodemo Gentile mi sono occupato della difesa di Rudy Guede, processo che vedeva il giovane ivoriano accusato dell’omicidio di Meredith Kercher, suscitando grande clamore nella cronaca italiana e internazionale. Da allora ho instaurato un ottimo lavoro di collaborazione con l’avvocato Gentile: lavoriamo in sintonia e dopo il caso Kercher abbiamo assunto la difesa della mamma di Brenda, la transessuale del “caso Marrazzo”; in autunno si aprirà il processo. Attualmente ci stiamo occupando del caso di Avetrana e della difesa di Manuel Winston che ha confessato di essere l’autore dell’omicidio dell’Olgiata e di Salvatore Parolisi».

Come si comportano i clienti le prime volte che si rivolgono a voi, considerando l’attenzione mediatica posta su di loro?

«Inizialmente sono timidi nel cercarci, non sanno come approcciarsi. Tuttavia cerchiamo fin da subito di instaurare un clima disteso, cercando di far capire che siamo persone molto alla mano. Ancorché lei vede lo studio tutto ovattato e affrescato, nel quale ci troviamo durante quest’intervista, spesso accade di incontrare i miei clienti a casa loro, nella loro cucina, in un tranquillo ambiente familiare mettendoli più a loro agio. È fondamentale manifestare un segno di vicinanza in tutti i modi».

Instaurare un clima disteso tra avvocato e cliente vi aiuta nel vostro lavoro…

«…Esatto. Svolgere i colloqui in un tranquillo ambiente domestico aiuta a metterli più a loro agio. Bisogna essere vicini al proprio assistito accorciando il più possibile la distanza tra cliente e avvocato. Ovviamente poi l’avvocato deve saper interpretare il proprio ruolo in maniera professionale all’interno del processo, e dare il meglio per ottenere il massimo risultato processuale».

È stato ospite in svariate trasmissioni televisive che si occupano di cronaca giudiziaria, da “Quarto Grado” a “Porta a Porta”, da “Chi l’ha visto?” a “Matrix” come valuta l’apporto del mezzo televisivo?

«Determinati casi di cronaca per forza di cose assumono una forte visibilità mediatica, è normale che se ne parli nei programmi d’approfondimento. Quando tuttavia la trasmissione assume dei toni troppo insinuatori il cliente viene in qualche modo mal rappresentato o addirittura già giudicato dal pubblico televisivo. Ritengo che l’avvocato in queste situazioni debba prendere parte in questo “processo mediatico”. A partire dal caso di Rudy immediatamente giudicato e condannato dalla televisione, fino a Salvatore Parolisi linciato pubblicamente e processato dai media quando è soltanto il marito della povera Melania. Se il processo si fa, sempre più frequentemente in tv, l’avvocato deve rappresentare il suo cliente anche in questa situazione e le assicuro che non è una cosa semplice».

Giustizia, i Perry Mason dell’Umbria: i grandi casi mediatici visti e raccontati dagli avvocati. L'avvocato Valter Biscotti si è occupato della difesa di Rudy Guede, di Salvatore Parolisi, dei familiari di Sarah Scazzi e dei processi alle vecchie e nuove Br: "Mi fermano in giro per l'Italia e mi chiedono di salutare mamma Concetta", scrive Umberto Maiorca il 19 ottobre 2016 su “La Notizia Quotidiana”. La toga sulle spalle, a discutere davanti ai giudici di Corte d’assise, e poi davanti ad una selva di microfoni e telecamere. Una scena che l’avvocato Valter Biscotti ha vissuto molte volte, sia come difensore dell’imputato sia come rappresentante legale della parte offesa.

Da studente universitario ad avvocato “mediatico”, come hai iniziato?

«Sono avvocato da 28 anni e mi sono diviso sempre tra diritto industriale, dai tempi dell’università, e penale. Ricordo che iniziai con un paio di processi con due maestri come Stelio Zaganelli e Fabio Dean. Poi arrivò l’occasione di partecipare al processo Pecorelli, con la difesa di Calò. Sono stati cinque anni molto intensi, una settimana al mese di udienza, una sorta di master universitario sul campo con professionisti del calibro di Coppi, Naso, Oliviero, Taormina e magistrati come Cardella, Cannevale e Orzella».

Nel tempo sono arrivati altri processi importanti.

«Ho iniziato ad occuparmi di casi di omicidio, come quello di un ragazzo che aveva ucciso la madre o di un anziano che aveva assassinato la moglie. Entrambi furono assolti per incapacità. Il grande salto nel mondo dei media è arrivato con la difesa di Rudy e il processo Mez. Anche se qualche anno prima avevo iniziato ad occuparmi del delitto del soprintendente Emanuele Petri da parte delle nuove Br e avevo partecipato anche al procedimento per l’omicidio di Massimo D’Antona. Si è trattato dei primi delitti delle Br dopo tanti anni durante i quali si riteneva di aver sgominato i terroristi. Assisto ancora oggi i familiari degli uomini della scorta di Aldo Moro, trucidati in via Fani. Sono stato anche difensore di parte civile per la strage di piazza della Loggia. Tutti casi impegnativi che hanno avuto grande risalto su giornali e televisioni. Il processo a Rudy guede, però, è stato un evento mondiale e molto impegnativo. Ricordo che in occasione dell’udienza del riesame avevano montato delle torri per poter trasmettere i servizi. I giornalisti che hanno seguito il caso penso che siano stati, almeno presenti una volta, oltre 200».

Quale rapporto tra giustizia e media, tra avvocati e giornalisti?

«Devi essere capace di trattare con la stampa, perché i media hanno una rilevanza enorme nel processo, soprattutto quando si tratta di un procedimenti indiziario. In certi casi la sovraesposizione mediatica del caso può danneggiare lo svolgimento del processo e le parti coinvolte. L’avvocato, quindi, visto che è chiamato in gioco, deve giocare, nel rispetto delle regole professionali, ma deve saper usare il circo mediatico anche per bilanciare i vari elementi dell’inchiesta giudiziaria. Il “no comment” davanti ai giornalisti è un danno per il cliente. L’avvocato deve saper reagire alle notizie che provengono dalla controparte del difensore dell’imputato. La disparità di potere è rilevante, quindi a volte, bisogna impressionare l’opinione pubblica. Purtroppo mi è capitato che un magistrato si sia lasciato impressionare e abbia avuto paura di prendere decisioni conformi alle risultanze processuali».

Verità processuale e verità dei fatti, le sentenze rispecchiano l’evento?

«No. Alcuni esempi? Il caso Parolisi. È ingiusto perché le risultanze processuali non rispecchiano il tenore delle sentenze. Il caso Rudy lascia ancora tanti dubbi e ombre su quanto sia avvenuto in via della Pergola. Il caso di Sarah Scazzi è stato molto importante e seguito, forse il più mediatico, con ogni canale e ogni trasmissione che ogni settimana dedicava uno spazio. Eppure di omicidi simili ce ne sono stati tanti e ce ne sono in Italia. Dalla sentenza sappiamo tante cose, ma non emerge la verità piena, come è avvenuto l’omicidio, la dinamica resta un mistero».

Troppa visibilità danneggia il lavoro dell’avvocato?

«In casi come quelli nominati occorrono nervi saldi e e una serie di collaboratori per tutti i fronti e per controllare ogni aspetto del procedimento. Bisogna scegliere i migliori consulenti. E bisogna saper rispondere a tutti. Qualche anno fa c’erano solo “Un giorno in pretura” e “Chi l’ha visto?”, adesso ci sono almeno cinque programmi nazionali e decine di siti che fanno cronaca nera. La visibilità porta anche ad essere fermato da estranei nei posti più impensati in giro per l’Italia, tipo in autogrill, e mi dicono: Salutami Parolisi, oppure dì a Concetta, la mamma di Sarah Scazzi, che le sono vicino».

L'avvocato: «Silenzi, omissioni e complicità: come ad Avetrana», scrive Lunedì 25 Settembre 2017 "Il Quotidiano di Puglia”. Questi silenzi, queste omissioni, queste complicità: non voglio richiamare il caso Missere, ma le sensazioni e l’esperienza processuale mi dicono che bisogna ancora chiare se e quale ruolo abbia avuto la famiglia dell’indagato». Parla l’avvocato Walter Biscotti a poche ore dalla nomina ricevuta dal padre di Nomi Durini, di seguire gli sviluppi dell’inchiesta che vede indagato il fidanzato della ragazza per omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dalla crudeltà e dai futili motivi. Non è la prima volta che il legale di Umberto Durini affronti casi di particolare interesse mediatico: è stato l’avvocato di parte civile della madre di Sarah Scazzi (la ragazza di 15 anni fatta ritrovare morta dallo zio Michele Missere il 6 ottobre del 2010 nelle campagne di Avetrana) e l’avvocato difensore Salvatore Parolisi (il caporal maggiore condannato per l’omicidio della moglie Melania Rea del 18 aprile del 2011 a Ripe di Civitella, in provincia di Teramo).

Avvocato Biscotti, perché ritiene che vada approfondito il ruolo della famiglia?

«Le mie sono sensazioni, per ora solo sensazioni, dettate dall’intervista rilasciata al padre e dalla madre a “Chi l’ha visto”. Dico questo perché successivamente il genitore ha affermato di essere stato messo a conoscenza di tutto dal figlio la sera prima. Alla luce delle esperienza maturata in tanti processo in Corte d’Assise, non posso non pensare ad aiuti forniti dalla famiglia. So che la Procura di Lecce sta svolgendo un lavoro egregio, resto però dell’idea della necessità di scandagliare il ventaglio delle possibili responsabilità anche ai genitori. Del resto c’è un dato oggettivo: il padre è indagato per concorso in occultamento di cadavere. Non so se sia stata solo una scelta procedurale per fare perquisizioni o altro, staremo a vedere. Siamo qui anche per questo».

Se dovesse profilarsi un favoreggiamento cambierebbe qualcosa?

«No. Manca la punibilità del reato: nel nostro codice non può essere contestato ad un familiare dell’indagato».

Avvocato, alla luce della ricostruzione fatta dal ragazzo e dei primi esiti dell’autopsia, che idea si è fatto: L.M. mente?

«Ho ricevuto l’incarico poche ore fa, per questo non ho avuto possibilità di valutare direttamente i fatti. Dalle notizie diffuse dagli organi di informazione e fermandomi solo a considerazioni di carattere generale, posso dire che ci siano certamente zone d’ombra nella ricostruzione del delitto. Resta da chiarire se ci siano state delle omissioni volontarie con lo scopo di proteggere qualcuno o se l’indagato non ha saputo essere più preciso durante il primo interrogatorio».

L’autopsia sembra costituire il punto di svolta dell’inchiesta: nominerete un medico legale?

«Non ne vedo la necessità. Il professore Francesco Introna (nominato dalla madre di Noemi, ndr) è uno dei migliori medici legali in Italia. Ed ho già avuto modo di collaborare con lui».

Cerchia familiare e delitti di Puglia. Cosa unisce gli ultimi casi di cronaca con vittime ragazze belle e giovani? Scrive Giandomenico Amendola il 26 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". La cronaca sembra dar ragione al filosofo francese Jean Baudrillard il quale afferma che nella società contemporanea la realtà insegue l’immaginario e tende a riprodurlo. Tesi ripetuta in un suo volume dal titolo, oggi incredibilmente attuale, “Il delitto perfetto”. Perché è ai delitti di casa nostra che la citazione di Baudrillard fa pensare. Gli assassini di ragazze, belle e giovanissime, Noemi a Specchia e Nicolina ad Ischitella ieri, e Sarah Scazzi ad Avetrana prima, sembrano uscire dalle sceneggiature dei film e delle fiction televisive che raccontano le storie di piccoli paesi, perfetti visti da lontano ma che nascondono terribili segreti. Specchia, Ischitella ed Avetrana sono i più piccoli dei tanti piccoli paesi della Puglia ed anche loro come le cittadine del Midwest dei film americani nascondevano qualcosa. Quelli di Noemi, Nicolina e Sarah non sono, a ben guardare, i consueti delitti passionali, crimini consumati sull’onda del desiderio inappagato o della rabbia per il tradimento. C’è certamente anche questo ma in più appare un terzo inquietante protagonista: la famiglia di cui le ragazzine sono, almeno simbolicamente, le vittime. La zia e la cugina di Sarah ad Avetrana mentre Nicolina è la vittima della passione malata dell’ex compagno della madre. Nella vicenda di Noemi a Specchia incombe l’ombra delle famiglie in antico conflitto tra di loro. Se sia questo uno dei motivi che ha armato la mano di un ragazzo violento e border line non è dato di sapere. Riappare improvvisamente nello scenario di un Mezzogiorno, ormai considerato assolutamente modernizzato, l’antico protagonismo delle famiglie, tema tradizionale di cento ricerche e dell’interesse di autorevoli studiosi stranieri. Nel 1958, quando le nostre regioni sembravano uscire dall’arretratezza secolare, venne proposto dal politologo statunitense Edward Banfield il “familismo amorale” come tratto caratterizzante delle “Basi morali di una società arretrata” (era il titolo del suo importante volume). Le ricerche le aveva condotte vivendo in un paesino della Basilicata, ribattezzato Montegrano. Qui nulla sembrava pensabile senza dover far riferimento alla famiglia i cui valori morali erano assolutamente autoreferenziali o, detto in altri termini, centrati solo sull’interesse e sulle pulsioni dei membri del nucleo. Sono passati sessant’anni da quel libro ed il Mezzogiorno è cambiato profondamente ma, evidentemente, qualcosa del familismo amorale sembra permanere. Nei piccolissimi centri certamente ma anche nelle grandi città come mostrano eloquentemente la politica e le università dove il peso – più o meno amorale – della famiglia è ancora rilevante.

Lo sfogo del papà di Noemi: "Ho sbagliato tutto". Uno sfogo in lacrime davanti le telecamere che ha colpito gli spettatori. Il padre di Noemi: "Con lei e Lucio ho sbagliato", scrive Luca Romano, Lunedì 25/09/2017, su "Il Giornale". Il dolore non passa. Il padre di Noemi Durini fa ancora i conti con quanto accaduto, con quella mano assassina che gli ha portato via una figlia. E in un'intervista a Mattino Cinque il padre della 16 uccisa a Specchia nel Leccese si sfoga e accusa se stesso, colpevole a suo dire, di non aver evitato il peggio per la ragazzina: "Mia figlia era una ragazza dolce e spensierata prima di incontrare quel ragazzo. Il loro era un amore malato. Non ho mai visto un livido sul suo corpo ma sapevo che le faceva del male e quando l’ha capito pure lei è rinata”. Poi svela alcuni retroscena sul passato che hanno una sorta di sapore che sa di rimpianto: “Ricordo ancora quando l’ho portata l’ultima volta al mare e le ho montato la tenda per passare lì la serata. Sono stato uno stupido. Mi ero illuso di poterli aiutare entrambi, e invece ho sbagliato tutto. Mi sento terribilmente in colpa – ha ammesso in lacrime il signor Umberto – potevo fare molto di più per la mia piccola, e invece ho sbagliato”. Il padre della ragazza dunque si sente in colpa per non aver fatto abbastanza per separare quell'unione tra i due ragazzi che infine è costata la vita a Noemi. Un dolore immenso per un padre che adesso prova a cercare delle risposte a domande che forse non ne hanno. 

Elisabetta: “Il fidanzato di Noemi mi ha aggredita”, scrive il 25 settembre 2015 Tgcom 24. A Mattino Cinque, parla l’amica di Noemi proprietaria dell’auto distrutta dal ragazzo. Elisabetta, amica di Noemi nonché la proprietaria dell’auto distrutta dal 17enne reoconfesso, racconta in esclusiva ai microfoni di Mattino Cinque i momenti concitati della lite con il fidanzato della giovane di Specchia. “Ho provato a difendere il papà di Noemi dopo che i due stavano discutendo animatamente. Il 17enne alle domande di Umberto ha reagito con un pugno, e così sono intervenuta io. Poco dopo però il giovane ha perso le staffe e ha colpito la mia macchina con una sedia di un bar lì vicino”. Le immagini mostrano il 17enne che distrugge i vetri della Nissan Micra di Elisabetta. “Poi mi ha inseguita – ha aggiunto l’amica di Noemi - per quasi 200 metri urlando “dov’è il papà di Noemi, portatemelo qui”. Stava per raggiungermi, ma per fortuna sono arrivati i carabinieri. Ho avuto paura”.

Noemi: Lucio solo sul luogo del delitto. Telecamera riprende la 500 entrare in uliveto, unica auto in zona, scrive "L'Ansa" il 26 settembre 2017. Spunta un video che confermerebbe che Lucio, il 17enne reo confesso dell'omicidio della fidanzata Noemi Durini, avrebbe agito da solo la notte del delitto. A fornirlo la telecamera di sicurezza di una villa che si affaccia lungo via Enea, il proseguimento della provinciale che da Castrignano del Capo conduce a Santa Maria Leuca, che si affaccia proprio sull'ingresso dell'uliveto dove é stato trovato il cadavere della sedicenne di Specchia il 13 settembre, dieci giorni dopo la scomparsa e il delitto. L'apparecchio riprende poco prima dell'alba del 3 settembre la Fiat 500 con a bordo verosimilmente i due fidanzati, arrivare sul posto e poi, dopo un po', andare via. Da quel terreno quella notte sarà l'unica auto ad entrare ed uscire. L'utilitaria guidata da Lucio viene ripresa la notte del delitto da tutte le telecamere posizionate lungo il tragitto percorso, fino al rientro a Montesardo di Alessano, dove vive Lucio, poco dopo le 7. Il diciassettenne, anche in questo caso, è da solo.

ANSA 19 settembre 2017. L’autopsia compiuta sul corpo in avanzato stato di decomposizione di Noemi Durini non ha finora fornito elementi certi per stabilire le cause della morte della sedicenne, ma i medici legali hanno “forti sospetti” su alcune lesioni presenti tra il collo e la testa della giovane. Il fidanzato di Noemi, detenuto per l’omicidio, ha detto di aver ucciso la ragazza con una coltellata al collo. Noemi sarebbe stata uccisa il giorno della scomparsa, il 3 settembre. L’accertamento sulle cause della morte è abbastanza difficile. Il cadavere di Noemi era molto malmesso, quasi pre-mummificato, e vi erano numerose lesioni su diverse parti del corpo provocate da larve. Il medico legale nominato dalla Procura, Roberto Vaglio, e il consulente della famiglia, il prof. Francesco Introna, hanno deciso di compiere esami istologici e cito-chimici sui tessuti prelevati dal cadavere e hanno disposto l’esame delle larve per accertare l’epoca della morte. I funerali della ragazza si dovrebbero tenere domani alle 16 a Specchia.

L’autopsia conferma: Noemi è stata prima picchiata, poi accoltellata. Rinvenuta nel cuoio capelluto della ragazza la punta del coltello che l’ha colpita. Sul cadavere invece non sono presenti segni di pietrate. Per l’assassino reo confesso, ora rinchiuso in carcere in Sardegna, l’accusa è di omicidio premeditato, scrive "Il Corriere della Sera" il 22 settembre 2017. Prima di essere uccisa Noemi Durini è stata picchiata, probabilmente a mani nude, e successivamente è stata accoltellata al capo e al collo. Lo ha stabilito l’autopsia. I medici legali hanno riscontrato sul cadavere della sedicenne «lesioni contusive multiple da picchiamento al capo e agli arti e lesioni da arma bianca al capo e collo». Come era già emerso ieri, nel cuoio capelluto della sedicenne di Specchia (Lecce) è stata trovata la punta del coltello utilizzata per il ferimento ed è confermata la circostanza, già emersa, che sul cadavere della ragazzina non sono presenti segni di pietrate. L’autopsia è stata compiuta tre giorni fa dal medico legale nominato dalla Procura, Roberto Vaglio, e dal consulente della famiglia della vittima, il medico legale barese Francesco Introna. L’omicida reo confesso, il fidanzato 17enne della ragazzina, è attualmente detenuto in Sardegna con l’accusa di omicidio premeditato. La lama curva, più larga alla base per finire all’estremità ben appuntita, meno lunga del palmo di una mano, col manico di plastica invece di lunghezza maggiore: è la descrizione del coltello da cucina, di quelli usati per sbucciare frutta e ortaggi, che il 17enne fidanzato della sedicenne Noemi avrebbe usato per colpire e uccidere la sua fidanzata. È stato lo stesso giovane reo confesso, attualmente detenuto presso l’Istituto penale per i minorenni di Quartucciu (Cagliari), in Sardegna, a disegnarlo agli inquirenti su un foglio di carta, durante l’interrogatorio del 13 settembre scorso, affermando di non ricordarsi dove lo avrebbe occultato. Il disegno compare tra gli atti acquisiti dagli investigatori. Il 17enne, nel corso dell’interrogatorio, ha riferito di avere avvolto il coltello nella maglietta che indossava e di averlo occultato in una buca fatta nella terra in una zona di campagna in agro di Castrignano del Capo (Lecce), ma non vicino al luogo in cui è avvenuto il delitto. In ogni caso il ragazzo non è stato in grado di indicare il luogo perché in quei momenti era molto agitato. Noemi Durini era scomparsa il 3 settembre scorso ed il suo corpo senza vita è stato ritrovato dieci giorni dopo, sepolto parzialmente sotto un cumulo di pietre in aperta campagna, non lontano da Santa Maria di Leuca, nel comune di Castrignano del Capo. Secondo le dichiarazioni dello stesso ragazzo, sarebbe stata Noemi a portare con sé il coltello la mattina del 3 settembre, per mettere in atto il proposito di uccidere i genitori del ragazzo. Dopo l’esame autoptico, eseguito dal medico legale Roberto Vaglio, la salma di Noemi Durini è stata restituita alla famiglia, e mercoledì scorso, a Specchia, si sono svolti i funerali.

Noemi, l'autopsia non scioglie i dubbi: «Lesioni a collo e testa», scrive il 19 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". L’autopsia non ha fornito elementi certi per stabilire le cause della morte di Noemi Durini, ma i medici legali hanno «forti sospetti» su alcune lesioni presenti tra il collo e la testa della sedicenne. Il fidanzato di Noemi, detenuto per omicidio premeditato, ha confessato di aver ucciso la ragazza con una coltellata al collo: se gli ulteriori accertamenti medico legali dovessero confermare questi sospetti, è probabile che Lucio abbia detto la verità sulle modalità del delitto. Resta da accertare, invece, quale sia stata l’arma utilizzata e se ci sono stati eventuali complici che abbiano aiutato il minorenne a nascondere il corpo. La ragazza - stando ai primi accertamenti - sarebbe stata uccisa il giorno della scomparsa, il 3 settembre, dieci giorni prima il ritrovamento del cadavere sotto una catasta di sassi nelle campagne di Castrignano del Capo. Fu Lucio a portare i carabinieri sul luogo della sepoltura e a dire: "L'ho uccisa io". L’accertamento sulle cause della morte della sedicenne è abbastanza difficile. Il cadavere è molto malmesso, quasi pre-mummificato, e vi sono numerose lesioni su diverse parti del corpo provocate dalle larve. La difficoltà di stabilire le cause della morte nascono proprio da queste lesioni: bisogna capire quali sono quelle inferte dall’assassino e quali quelle provocate dalla larve. Per questo motivo, il medico legale nominato dalla Procura, Roberto Vaglio, e il consulente della famiglia della vittima, Francesco Introna, hanno deciso di compiere esami istologici e cito-chimici sui tessuti prelevati dal cadavere e hanno disposto l'esame delle larve per accertare con esattezza il giorno e l'ora della morte. L’autopsia ha confermato anche quando emerso nei giorni scorsi: la Tac compiuta sul cadavere non ha rilevato fratture né sul capo né altrove. Da qui la ricerca delle cause della morte tra le tante lesioni presenti sul cadavere. All’autopsia erano presenti anche il procuratore per i minorenni Maria Cristina Rizzo e il pm Anna Carbonara. Intanto, la tensione tra le famiglie di Lucio e Noemi resta altissima. I sindaci di Alessano e di Specchia, Francesca Torsello e Rocco Pagliara, chiedono alle loro comunità «di vivere i sentimenti di sgomento e di dolore per l’accaduto con doveroso rispetto». «Ora è giusto - concludono - che la giustizia e le istituzioni operino in un clima sereno, che consenta di giungere alla verità dei fatti, nella convinzione che qualsiasi atto di ritorsione privata e di eccessiva spettacolarizzazione mediatica dell’accaduto danneggino il lavoro degli inquirenti». Si dovrebbero tenere domani pomeriggio, nella chiesa di Specchia, i funerali di Noemi Durini. Il sindaco di Specchia, Rocco Pagliara, si è recato in serata all’ospedale Vito Fazzi di Lecce dove si è tenuta l’autopsia sul corpo della ragazza per firmare alcune pratiche relative al rilascio della salma. A quanto si è saputo, il corpo della ragazza dovrebbe essere restituito alla famiglia già nelle prossime ore. La bara sarà trasportata in via Madonna del Passo, a Specchia, nell’abitazione dove Noemi abitava con la madre mentre domani mattina sarà trasferita presso la camera ardente allestita nel centro “Catsda” che nei giorni della scomparsa della sedicenne aveva funzionato come centro di coordinamento delle ricerche. Alle 15 la salma sarà portata in chiesa e alle 16 si terranno i funerali. 

Noemi, dopo il delitto il fidanzato avrebbe compiuto un furto: le immagini delle telecamere. La trasmissione “Quarto Grado” mostra due frame delle immagini riprese dalle telecamere all’interno del negozio. Il diciassette reo confesso dell’omicidio di Noemi Durini avrebbe rubato merce dal valore di pochi euro qualche ora dopo aver ucciso la fidanzata, scrive il 22 settembre 2017 "Fan Page". Prima avrebbe picchiato e accoltellato la sua fidanzata Noemi Durini uccidendola e poi, poco dopo, il ragazzo di diciassette anni ora in carcere con l’accusa di omicidio premeditato avrebbe anche compiuto un furto in un emporio gestito da cittadini di origini cinesi. Lo rivela la trasmissione televisiva di Rete4 “Quarto Grado”, che nella puntata di questa sera ha fornito degli aggiornamenti sulla tragica storia della sedicenne di Specchia (Lecce) uccisa lo scorso 3 settembre. Lucio, re confesso dell’omicidio di Noemi, nel negozio dei cinesi avrebbe rubato due penne di tipo laser, del valore complessivo di tre euro. "Quarto Grado" ha mostrato due frame delle immagini riprese dalle telecamere all’interno del negozio. La rapina sarebbe avvenuta poco dopo le 18.15 del 3 settembre, quindi appunto a poche ore dalla scomparsa e dall’omicidio della adolescente pugliese. Il coltello disegnato dal fidanzato di Noemi – L’inviato della trasmissione Remo Croci ha anche riferito che il ragazzo arrestato, durante l’interrogatorio nella caserma di Specchia in cui ha ammesso di essere l'autore del delitto, ha disegnato l’arma usata per uccidere Noemi. Da quanto emerso, si tratterebbe di un coltello a serramanico che il diciassettenne portava spesso con sé. L’arma avrebbe un bottone che dà lo scatto per l’uscita della lama. Il disegno è stato realizzato su un foglio che poi è stato consegnato agli inquirenti. Il ragazzo avrebbe spiegato di non ricordare il luogo in cui ha nascosto l’arma che per ora non è stata ancora ritrovata. Sicuramente, secondo quanto emerso dall’autopsia effettuata sul cadavere della giovane vittima, l’assassino ha usato un coltello per uccidere. I medici legali hanno infatti riscontrato sul cadavere di Noemi “lesioni contusive multiple da picchiamento al capo e agli arti e lesioni da arma bianca al capo e collo”. Nel cuoio capelluto della ragazzina è stata rinvenuta anche la punta del coltello.

Omicidio Noemi: il ruolo dell’amico Fausto al centro dell’inchiesta, ecco perché, scrive sabato 23/09/2017 Michela Becciu su "Urban Post". L’uomo è stato chiamato in causa dal 17enne reo confesso, che lo accusa di essere stato assoldato dalla vittima per sterminare la sua famiglia. Omicidio Noemi Durini, a Quarto Grado nella puntata del 22 settembre un lungo approfondimento sul delitto di Specchia. Si è parlato, tra le altre cose, di un uomo adulto cui la giovane vittima era legata. Fausto, chiamato in casa dall’assassino reo confesso, secondo cui sarebbe stato assoldato da Noemi per uccidere i suoi genitori che osteggiavano la sua relazione con la ragazza. Remo Croci di Quarto Grado ha intervistato Fausto, che ha rimandato al mittente ogni accusa: “Noemi era legata ad Elisabetta, la figlia dell’amica mia. Lei mi voleva bene, mi chiama papà. Tra noi ci sono stati sempre dei rapporti alla luce del sole”, ha detto. “La Noemi non ha mai fatto uso di droga, che io sappia si limitava a cercare erba, cose così… Ed io ero contrario quando lei e Lucio fumavano le canne, ma lui mi rispondeva che non c’era problema, che fumava spesso l’hashish insieme a suo padre”. Fausto delinea il rapporto conflittuale fra Lucio e suo padre: “Aveva una grande rabbia contro suo padre, una volta mi raccontò che lo picchiò con una pala in testa … Dopo i TSO Lucio era cambiato, sembrava intontito. Dopo l’ultimo, poi, sembra un robot, aveva questi occhi da demone … un demone”. Nega di aver assoldato qualcuno, su richiesta di Noemi, per sterminare la famiglia di Lucio, come invece asserito agli inquirenti dal ragazzo e dai suoi genitori, che lo hanno accusato di ciò di fronte alle telecamere di Chi l’ha visto? – “Assolutamente no, non ho mai fatto una cosa del genere” – ed ammette soltanto di avere sferrato due cazzotti a Biagio, padre del 17enne reo confesso: “Sì è vero, il giorno del ritrovamento di Noemi (13 settembre ndr), erano le 13:30 e l’ho visto fuori dal bar con occhiali e cellulare, era baldanzoso … così ho fermato lo scooter e gli ho dato due cazzotti. Mi hanno fermato, ma io volevo mandarlo all’ospedale … ho i miei dubbi su di lui”. Anche Fausto dunque, così come il padre di Noemi, sospetta che il padre Lucio sia coinvolto nell’omicidio.

«Noemi non mi chiese aiuto per uccidere i genitori di lui», scrive Alessandro Cellini su "Il Quotidiano di Puglia" Giovedì 28 Settembre 2017. Era stato tirato in ballo dal 17enne reo confesso dell’omicidio di Noemi e dai suoi genitori: secondo loro, avrebbe dovuto procurare alla ragazza un’arma con cui ucciderli. Ora Fausto Nicolì, 49enne di Patù, vuole giustizia. Non gli va giù quella ricostruzione (che anche gli investigatori ritengono poco credibile) che lo dipinge come un complice nel progetto di un duplice omicidio. E così si è rivolto alla giustizia: assistito dall’avvocato Luca Puce, Nicolì ha querelato il giovane e i suoi genitori rispettivamente per i reati di calunnia e di diffamazione. L’uomo, nell’atto depositato sia presso la Procura ordinaria che presso quella peri minorenni, ripercorre tutta la vicenda che lo ha visto, suo malgrado, protagonista. Spiega di aver conosciuto entrambi i ragazzi «lo scorso anno, per caso in un bar di Montesardo. Sebbene piuttosto ampia fosse la differenza di età tra noi, accadeva spesso e volentieri di frequentarci anche insieme ad altri giovani». Poi le cose precipitano: la scomparsa di Noemi, il 3 settembre, le indagini, le tensioni in paese e le prime dicerie che corrono di bocca in bocca. Fino alla confessione dell’omicidio, avvenuta dieci giorni dopo, e a quella ricostruzione fornita prima ai carabinieri da L.M. e poi ale telecamere di diverse trasmissioni televisive dai genitori. «Da circa due mesi ho saputo che Noemi Durini, insieme a Fausto Nicolì, avevano deciso di comprare una pistola con cui ammazzare la mia famiglia»: questo ha dichiarato il giovane durante l’interrogatorio. E poi quelle frasi della mamma di lui: «Voleva ammazzare me, mio marito e mia figlia. Aveva raccolto i soldi, la signorina, per darli a Fausto Nicolì di Patù». Troppo, insomma. Accuse insopportabili. Tanto più che lo stesso Nicolì scrive a chiare lettere nella querela: «Il mio coinvolgimento in un presunto progetto di Noemi di uccidere i suoi genitori è del tutto falso». Quando il 49enne viene a conoscenza di queste accuse, non riesce a credere ai suoi occhi e alle sue orecchie: «Sono rimasto letteralmente basito. Conoscevo sì, per sommi capi, di accuse pesanti rivolte al mio indirizzo dal ragazzo, ma mai avrei potuto ipotizzare che costui per difendersi potesse giungere a tanto; ad infangare il mio nome, sebbene io gli sia sempre stato amico e l’abbia anche sempre difeso, tirandomi dentro ad una storia di cui sono, viceversa, mero spettatore e, ancor più, a demolire l’immagine della sua fidanzata, che lui sosteneva di amare tanto». Da qui, dunque, la decisione di querelare sia il ragazzo che i suoi genitori. Un ulteriore tassello in una storia, quella dell’omicidio di Noemi Durini, 16enne di Specchia, che per alcuni versi appare ormai chiara; e per altri - ad esempio sul fronte delle indagini sull’arma del delitto, che ancora non si trova - quanto mai fumosa.

Noemi, è il giorno del funerale. In centinaia per l’addio alla 15enne. L’autopsia: «lesioni provocate da oggetti diversi, ma non da colpi di pietra. L’assassino reo confesso è stato trasferito nel carcere minorile di Cagliari, scrive il 20 settembre 2017 "Il Corriere della Sera". Le «lesioni multiple» rilevate durante l’autopsia compiuta sul collo e sulla testa di Noemi Durini sono state «indotte da mezzi diversi». Quali siano questi mezzi, al momento non è certo perché il corpo è fortemente interessato dall’azione demolitiva delle larve degli insetti. Saranno quindi necessari esami istologici sui tessuti. Sul corpo della 16 enne di Specchia, uccisa dal fidanzato, non sono presenti segni di colpi di pietra. I medici legali sono riusciti a ricostruire quanto è avvenuto il 3 settembre scorso, giorno della scomparsa e dell’uccisione della giovane. Sulla ricostruzione dei fatti, la procura di Lecce ha imposto il riserbo. Durante l'autopsia sono stati anche eseguiti tamponi che saranno inviati al Ris di Roma. L’accertamento è stato disposto al fine di procedere a confronti con il dna di persone che potrebbero aver avuto un contatto con la vittima o anche solo con il suo cadavere. Materiale per procedere a questo confronto sarebbe già in possesso degli investigatori. Per questo motivo la famiglia di Noemi, oltre al medico legale di fiducia che ha partecipato all'autopsia (Francesco Introna) ha nominato consulente la genetista forense romana Marina Baldi. Su eventuali complici che possano aver aiutato Lucio, il fidanzato 17enne e assassino reo-confesso della ragazza, la Procura ha indagato formalmente per sequestro di persona e occultamento di cadavere il padre di Lucio a casa del quale, nei giorni scorsi, i Ris hanno compiuto una minuziosa perquisizione.

I funerali di Noemi. La bara bianca della 15enne è stata trasportata a spalla tra due ali di folla e accompagnata da un lungo applauso commosso fino alla nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Vergine di Specchia, dove sta per iniziare la cerimonia funebre. Il feretro è stato vegliato nella camera ardente, era preceduto da una grande foto di Noemi e seguito dalla famiglia della giovane, mamma, padre e due sorelline. La chiesa è gremita e moltissima gente è rimasta fuori. Alla cerimonia, presieduta dal vescovo, Vito Angiuli, partecipa anche il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano.

L’omelia. «Non rifugiatevi nella solitudine del vostro mondo, ma lasciateci intravvedere l'immenso desiderio di bene che alberga dentro di voi. Affrontate con coraggio la vita, non scoraggiatevi di fronte alle difficoltà». È uno dei passaggi dell'omelia di monsignor Vito Angiuli, vescovo di Ugento, al funerale di Noemi. Operatori tv e fotografi sono rimasti fuori, e nel piazzale antistante la chiesa un altoparlante ha diffuso il rito funebre alle tante persone che non sono riuscite ad entrare. «L'uccisione di una donna si ripresenta, nel nostro tempo, con sempre maggiore frequenza - ha detto ancora il vescovo - Cambiano scenari, motivazioni, età e condizioni sociali, ma efferatezza, crudeltà e ferocia sono simili. Cosa sta accadendo alla nostra società? perché, nonostante il tanto parlare, la donna non è ancora rispettata? Perché sempre più spesso i giovani si sentono soli e, non trovano chi ha tempo da dedicare a loro per ascoltarli e orientarli?». Cara Noemi, cercavi l’amore, hai trovato la morte ma Dio ti ridona la vita». Con queste parole monsignor Angiuli, ha chiuso l’omelia.

La mamma di Noemi: «Non voglio odio». «Non voglio odio, non odiate, perché l'odio porta solo violenza». È l'appello che la mamma di Noemi Durini ha rivolto ai giovani parlando dall'altare a conclusione della cerimonia funebre per la figlia uccisa dal suo fidanzato. «Vi chiedo - ha aggiunto - se avete problemi, venite a casa di Noemi e parlate, la porta sarà sempre aperta per ascoltarvi». Alla fine della cerimonia ci sono stati altri applausi e palloncini bianchi sono stati fatti volare sulle note della canzone «Vietato morire» di Ermal Meta, hanno accompagnato l'uscita della bara bianca di Noemi dalla chiesa parrocchiale di Specchia. Il feretro era portato a spalla da personale della protezione civile che nei giorni corsi ha partecipato alle ricerche della ragazza, quando ancora si sperava che fosse viva.All'uscita della chiesa, il corteo si è diretto verso la casa di Noemi per una breve sosta di raccoglimento. Poi si è mosso nuovamente verso il cimitero dove domani avverrà la tumulazione.

Lucio è a Cagliari. Intanto, il diciassettenne è stato trasferito dall’istituto minorile penale di Bari a quello di Quartucciu, in provincia di Cagliari. Nel carcere sardo il giovane sarà anche sottoposto a cure mediche. Intanto, l’insegnante Agnese Maisto, amica della mamma di Noemi, ha lanciato un appello a raccogliere fondi per sostenere le spese processuali della famiglia Durini. E anche per avviare la costruzione di un centro antiviolenza.

Noemi, l'appello della madre ai funerali: "Giovani, l'odio porta soltanto violenza". Centinaia di persone hanno partecipato in Salento al funerale della ragazza uccisa dal fidanzato 17enne. L'omelia di monsignor Angiuli contro la violenza sulle donne, scrive Chiara Spagnolo il 20 settembre 2017 su "La Repubblica". "Non voglio odio. Non odiate, perché l'odio porta soltanto violenza". E' l'appello che la mamma di Noemi Durini ha rivolto ai giovani parlando dall'altare a conclusione della cerimonia funebre per la figlia sedicenne uccisa dal suo fidanzato. "Mia figlia è morta, ma ha vinto lo stesso perché lei non provava odio - ha aggiunto - A voi ragazzi ora chiedo: se avete problemi, venite a casa di Noemi e parlate. La porta sarà sempre aperta per ascoltarvi". La messa è stata celebrata dal vescovo della diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca, monsignor Vito Angiuli, il quale ha lanciato un appello dall'altare: "Ciò che è accaduto a vostra figlia e alla vostra famiglia potrebbe accadere ad altre ragazze e ad altre famiglie: Noemi cercava l'amore e ha trovato la morte". Migliaia di persone hanno partecipato alla cerimonia funebre a Specchia: fra loro anche il governatore Michele Emiliano. Nel piccolo paese del Salento è stato un altro giorno segnato dal dolore. Prima la veglia funebre in casa della ragazza, poi la camera ardente allestita nel centro Capsda in cui fino a sette giorni fa sono state coordinate le ricerche. Le lacrime delle amiche, i ricordi spezzati dal pianto, gli abbracci alla mamma Imma e alla sorella Benedetta, per ore seduta accanto alla bara bianca. C'era anche il padre della vittima, Umberto Durini, che nei giorni scorsi aveva lanciato accuse durissime, ipotizzando il coinvolgimento nell'omicidio del padre del fidanzato della figlia, indagato per occultamento di cadavere. Al ragazzo (arrestato il 13 settembre e trasferito nel carcere minorile di Quartucciu a Cagliari, dopo alcuni giorni trascorsi a Bari) vengono contestati i reati di omicidio premeditato, aggravato dalla crudeltà e dai futili motivi, occultamento di cadavere e porto di oggetti atti ad offendere fuori dalla sua abitazione. L'autopsia non ha fornito risposte definitive sul decesso ma sul collo e sulla testa della ragazza sono state riscontrate "lesioni multiple" probabilmente prodotte da più armi. E se pure l'intera comunità di Specchia è stata coinvolta prima nelle ricerche della ragazza (scomparsa il 3 settembre e il cui corpo è stato trovato il 13 vicino Leuca grazie alla confessione del fidanzato) e poi nell'inchiesta (molte le persone interrogate), in paese c'è stato spazio soltanto per il dolore. "Sappiamo che in un momento tragico come questo è difficile tenere a freno il rancore e l’amarezza-  ha detto nell'omelia monsignor Angiuli - Il lutto può generare torpore e stordimento. E' possibile, forse, nutrire sentimenti di astio e di risentimento nei riguardi di chi ha portata via troppo presto vostra figlia. È un evento destabilizzante e devastante. Vanno in frantumi il futuro, i sogni, i progetti. Muore una parte della vostra vita". Ma proprio in questo momento di dolore lacerante, il vescovo ha rinnovato la vicinanza della comunità alla famiglia. Durini. E don Tonino De Giorgi, parroco di Specchia, ha ribadito la necessità di "affidare agli inquirenti la ricerca della verità", invitando i testimoni "a dire tutta la verità".  Dell'ansia di giustizia del piccolo paese salentino ha parlato anche il sindaco Rocco Pagliara al termine della celebrazione funebre: "La morte di Noemi ci ha lasciato la responsabilità di chiedere giustizia e di non permettere più che una donna subisca un'azione violenta. Per questo esorto tutte le ragazze ad aprire gli occhi, a essere vigili, a non accettare nemmeno il primo schiaffo o la violenza verbale, che uccide una donna rendendola fragile". Il primo cittadino ha poi ammesso che una diversa attenzione da parte di tutte le istituzioni avrebbe potuto salvare la vita della ragazza: "Non abbiamo capito e non siamo intervenuti quando avremmo potuto. Perdonaci, Noemi, se ti abbiamo lasciata sola". Per lei, per la sedicenne che le amiche durante la preghiera hanno ricordato come "una ragazza solare", "grintosa e un po' ribelle per celare le tue insicurezze", all'uscita della bara bianca dalla chiesa madre sono stati esposti striscioni e lanciati in volo palloncini bianchi. Un lungo applauso ha accolto il passaggio tra migliaia di persone, mentre il coro intonava la canzone Vietato morire di Ermal Meta. Quella che a Noemi piaceva tanto e mai avrebbe pensato sarebbe stata suonata al suo funerale.

Camera ardente a Specchia alle 16 i funerali di Noemi, scrive il 20 Settembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Disperazione, strazio di una intera comunità, dolore, incredulità, e tanta rabbia, ma l'odio no. E’ stata la mamma di Noemi a tentare di tenere fuori della chiesa di Specchia, gremita per i funerali di sua figlia uccisa dal fidanzato, il sentimento più distruttivo che si possa provare dinanzi al feretro bianco di una sedicenne. Lo ha fatto dall’altare rivolgendosi ai giovani dopo giorni di accuse e tensioni incrociate tra le famiglie coinvolte nella vicenda: «Non voglio odio - ha detto - perché l’odio porta solo violenza». «Vi chiedo - ha aggiunto - se avete problemi, venite a casa di Noemi e parlate, la porta sarà sempre aperta per ascoltarvi». Parole che hanno fatto esplodere la commozione trattenuta fino ad allora a stento nella chiesa e sul sagrato dove centinaia di persone si sono fermate non riuscendo ad entrare. E che hanno rilanciato l’appello rivolto dal vescovo di Ugento, mons. Vito Angiuli, che nella omelia si è rivolto anche lui ai giovani invitandoli a «non rifugiarsi nella solitudine del loro mondo, ma ad aprire i loro cuori e confidarsi». Un appello diretto al mondo di adolescenti in cui è maturata questa tragedia e a Lucio, il diciassettenne che il 13 settembre scorso, dopo dieci giorni di ricerche, ha confessato di avere ucciso Noemi e di averla nascosta sotto una catasta di pietre in campagna. «Noemi, cercavi l’amore e hai trovato la morte», ha detto il vescovo, esprimendo comprensione per lo strazio della famiglia ma invitandola a «tenere a freno rancore e amarezza, nutrendo sentimenti di astio e risentimento nei riguardi di chi ha portato via troppo presto vostra figlia». Mons. Angiuli si è anche interrogato sulle cause che hanno portato a questa tragedia e ha invitato tutti a riflettere «perché - ha detto - ciò che è accaduto a Noemi potrebbe accadere ad altre ragazze e ad altre famiglie. Anzi, accade sempre più spesso». All’ingresso e all’uscita dalla chiesa ali di folla hanno accompagnato con applausi il passaggio della bara bianca di Noemi. L’ultimo corteo, all’uscita dalla chiesa, è stato preceduto dalle note della canzone di Ermal Meta 'Vietato Morire' e dal lancio di palloncini bianchi. La fine del funerale e la tumulazione, che avverrà domani, non mettono la parola fine sulla vicenda perché, dal punto di vista investigativo sono ancora molti i quesiti da chiarire. L'autopsia, infatti, eseguita ieri, non ha chiarito del tutto le modalità dell’uccisione di Noemi accertando comunque che la morte è stata provocata da lesioni multiple sul collo e sulla testa provocate da oggetti di varia natura. Non si sa ancora quale sia l’arma usata e questo è importante per capire se il presunto assassino abbia detto la verità quando ha confessato di avere accoltellato la ragazza e di avere agito da solo. Il coltello non è stato trovato, e gli investigatori sospettano che qualcuno lo abbia aiutato. Per questo è indagato anche il padre del ragazzo, accusato al momento di sequestro di persona e occultamento di cadavere. Più chiarezza arriverà dagli esiti di altri esami e dalla comparazione di eventuali tracce di Dna di altre persone che potrebbero essere entrate in contatto con la ragazza primo o dopo la morte. Oggi, mentre Lucio veniva trasferito dall’Istituto minorile penale di Bari a quello di Quartucciu (Cagliari) dove sarà anche sottoposto a cure mediche, a Specchia la comunità sconvolta tentava di reagire: un gruppo di cittadini ha avviato una raccolta fondi per creare un centro anti-violenza e di aiuto alle persone che vivono disagi e difficoltà. A rappresentarli è Agnese Maisto, una delle insegnati di Noemi. (Di Paola Laforgia, ANSA)  

Omicidio Noemi, il padre di Lucio in diretta a Quarto Grado: “Noemi vittima delle sue amicizie”, scrive Filomena Procopio il 7 ottobre 2017 su "Ultime Notizie Flash". Nella puntata di Quarto Grado in onda il 6 ottobre 2017 è stato trattato ancora una volta, un tema delicato, quello dell’omicidio di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia uccisa dal suo fidanzato Lucio, diciassettenne di Alessano. Come sempre, anche in questa occasione, l’inviata del programma di Rete 4 era davanti la casa dei genitori di Lucio in diretta per raccontare le ultime notizie sul caso. Dopo qualche minuto, chiede di poter intervenire anche il padre di Lucio, il signor Biagio, che vuole precisare alcune cose in diretta. L’uomo spiega a Nuzzi, correggendolo, che i famosi cellulari “presi” da suo figlio, sono stati riconsegnati ai Carabinieri da lui, a dimostrazione del fatto che in questa vicenda ha sempre voluto collaborare e non ha mai nascosto quello che suo figlio faceva. Il conduttore ha poi chiesto al signor Biagio quali siano le responsabilità in questa storia, delle famiglie. La sua risposta: Io credo che le famiglie non abbiano responsabilità in questa storia, soltanto che magari qualcosa è sfuggita di mano, certamente le responsabilità, secondo me vanno cercate nelle amicizie di queste ragazze, io credo, mi posso sbagliare ma non credo. Queste le parole del padre di Lucio che ancora una volta ribadisce il suo punto di vista. Il conduttore gli chiede poi se abbia una parola per Noemi, sperando di ascoltare magari, finalmente, qualche parola d’affetto. L’uomo risponde con queste dichiarazioni: Una parola per Noemi, per me è una vittima, lo è sempre stata, è una vittima delle sue amicizie e di qualcuno che non ha fatto il suo dovere. Mi ascolti signor Nuzzi, mio figlio viveva a casa mia, io ho cercato di fare il meglio. Io penso che nella famiglia di lei debba trovare le risposte. Qualcuno deve mordersi dove non riesce. Quella ragazza andava curata. Dopo le parole del padre di Lucio ha deciso di intervenire in diretta la madre di Noemi che non può permettere che sua figlia, anche da morta, venga insultata in questo modo. 

La mamma di Noemi Durini in diretta a Quarto Grado: “La famiglia di Lucio deve pagare con la galera”, scrive ancora Filomena Procopio il 7 ottobre 2017 su "Ultime Notizie Flash". E’ stata una puntata movimentata quella di Quarto Grado in onda il 6 ottobre 2017. In studio si parlava dell’omicidio di Noemi Durini, la sedicenne di Specchia uccisa dal suo fidanzato, il giovane Lucio. Mentre in diretta si raccontavano le ultime notizie sul caso, il padre di Lucio ha chiesto di intervenire rilasciando delle discutibili dichiarazioni che hanno provocato, come era immaginabile, la reazione della mamma di Noemi, la signora Imma, che ha deciso quindi di chiamare il programma per dire la sua in diretta. Il padre di Lucio ancora una volta ha tirato in ballo le amicizie di Noemi, dicendo che bisogna cercare in quella cerchia i motivi della morte della ragazza. La mamma di Noemi non ci sta e vuole ricordare chi fosse realmente sua figlia. “Io non volevo più intervenire, da un mese viviamo un dolore immenso, mia figlia è sotto terra e qui si parla ancora di amicizie” queste le parole della mamma di Noemi che definisce delle bestie i genitori di Lucio e che chiede che giustizia venga fatta. “Adesso basta, questa bestia, devono lasciare in pace mia figlia, noi ce la piangiamo e loro dimenticano che sta sottoterra. Il buonismo non esiste in quella famiglia. Noi siamo le persone oneste. Qui si trattava di un ragazzino che ha sempre subito sin dall’adolescenza. Io la querelo signor Biagio. Lei non deve diffamare mia figlia. Noemi sta sotto terra. L’altra sua figlia la sta facendo diventare peggio di lei. Io non ho paura. Io non odio. Io non porto rabbia l’ho sempre detto ma adesso basta, dovete lasciare in pace mia figlia, Noemi deve riposare in pace. Lei sta in mezzo alle persone che le vogliono bene. Io ogni giorno vado al cimitero per pregare mia figlia. Adesso basta. Questa bestia deve stare in silenzio. Io sono una mamma”.

Il conduttore le chiede perchè il padre di Lucio tira sempre in ballo queste amicizie: Mia figlia era sempre amica di tutti, mia figlia andava ad aiutare le persone con i problemi, perchè di questo non si parla? Perchè buttare fango? Si dovrebbe solo guardare allo specchio e vergognarsi. Le loro anime saranno dannate a vita. La giustizia ci deve essere. Mia figlia ha sedici anni e non c’è più. Io li voglio vedere tutti in galera a pagare per quello che hanno fatto. 

Noemi Durini: gli ultimi istanti dei due fidanzati visti dalle telecamere. Da Quarto Grado le novità e opinioni sul caso della giovane assassinata dal fidanzato, scrive Marta Migliardi su "it.blastingnews.com" il 6 ottobre 2017 e curato da Federico Gonzo. La famiglia è il tema della puntata del 6 ottobre di #Quarto Grado. E, trattando il caso Durini, si concentra particolarmente sulle figure della madre e del padre di Lucio. Ma tutto comincia con l'osservare ancora le #telecamere, che, data la confessione spesso contraddittoria del presunto omicida, al momento sono capi saldi che possono direzionare le indagini.

I ragazzi sembravano tranquilli. Nel servizio di Croci e Lombardi si vedono due figure che si muovono nella notte, Lucio e Noemi. Nelle immagini sgranate della telecamera i due sembrano tranquilli. Salgono in auto e si accede la lucina interna. Alle 5.09 la macchina parte. A Castigano del Capo, nell'oliveto a pochi Km di distanza Noemi verrà poi trovata morta. Lucio dichiara di aver avuto con Noemi un rapporto sessuale e dopo una lite di averla uccisa. Tutto da solo. Lui dichiara che il luogo dove si è recato con Noemi fosse casuale. Ma le cose stanno così? Davvero il luogo era uno qualsiasi? Nella confessione racconta che prima si erano fermati a Santa Maria di Leuca. La costante nei suoi racconti, cercando di depistare, è che Noemi facesse uso di droga. Nella droga arriva ad indicare un possibile movente, prima di confessare. L'oliveto dove farà ritrovare il cadavere, tra l'altro, è diviso in 14 appezzamenti. Perché l'ha scelto? Forse voleva allontanare i sospetti lasciando la ragazza inerme su un terreno con molti possibili collegamenti? Possibile che gli agricoltori addetti alla potatura non lo abbiano notato? Le immagini delle telecamere Lucio e Noemi mentre salgono in macchina sono gli unici documenti oggettivi di questa storia e ne fissano la dinamica. Possono anche far venir fuori le contraddizioni del ragazzo. Le telecamere possono raccontare se Lucio ha fatto da solo o no. Che ruolo ha il padre di Lucio, che prima del ritrovamento del corpo ammise che il figlio gli diceva bugie?

La telecamera davanti all'ingresso secondario. Le telecamere ci aiutano, come quella davanti all'ingresso secondario della casa di Lucio. Quarto Grado scopre che sotto il pergolato del vicino vi è una telecamera che potrebbe aver ripreso Lucio al suo rientro a casa il 3 Settembre. Si interpellano i vicini stessi, proprietari della telecamera, ed effettivamente si vede bene il garage da dove Lucio sarebbe rientrato con la macchina. Il vicino dice che il 3 settembre la camera funzionava. Questo modello di telecamera sovrascrive i dati ogni tre giorni, ma gli inquirenti hanno sequestrato la memoria, che potrebbe rivelare se davvero Lucio era solo e a che ora è tornato. Qualora si riuscissero a recuperare, le immagini potrebbero anche svelare se il ragazzo indossava la maglietta o era a torso nudo, come da lui dichiarato. A indicare la telecamera fu proprio Biagio, il padre di Lucio. Il sig. Lucio si presta alle telecamere di Quarto Grado e dice che le responsabilità vanno ricercate nelle amicizie che aveva Noemi. Ribadisce che Noemi stessa è una vittima delle sue amicizie.

La mamma di Lucio. Che ruolo ha la mamma di Lucio? Nel servizio di Valentina Fabris vediamo descrivere meglio la figura della madre di Lucio, Rocchetta Rizzelli. Una madre preoccupata e in ansia, così pare, che definisce il figlio schiavo del rapporto con Noemi. Una madre attenta che però non si preoccupa del fatto che a mancare dal guardaroba sia proprio la maglia che pare Lucio indossasse il giorno del delitto. Ha sempre accompagnato Lucio agli interrogatori. Non era invece presente quando lui confessò. Gli inquirenti stessi hanno notato un cambio di atteggiamento. Senza la madre piange, è meno strafottente e spavaldo. La donna, comunque, è convinta che il figlio la abbia uccisa per difenderli, perché Noemi voleva, a detta sua, assassinare lei e il marito. I sospetti verso la donna sono nati anche per l'astio feroce verso Noemi, nei confronti della quale, anche una volta saputo della sua morte, non sono state spese parole di pietà. Sempre in tema di famiglia Remo Croci riporta una lettera scritta questa volta dalla mamma di Noemi, la signora Irma, dove la donna si aggrappa alla fede e respinge ogni forma di odio e di rabbia. Ma ci tiene a specificare che Noemi era una 16enne come tutte le ragazzine della sua età. "Noemi è la vittima, solo la vittima. Nessuno ha il diritto di infangare la sua memoria. Manterrò la promessa e le farò giustizia" #noemi durini.

GIORNALISTI MENTITORI ED INFANGATORI.

Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità e mentire spudoratamente? Si chiede Massimo Prati sul suo Blog “Albtatros-Volando Controvento”. America - 1880 (milleottocentoottanta) - a una cena di giornalisti all’American Press Association c'è anche John Swinton, un editorialista del New York Sun che invitato a brindare alla stampa indipendente dice: "In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che anche scrivendole non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattrore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Sono passati 135 anni da quel discorso e da noi, in Italia, a dire il vero qualcosa è cambiato. Ora da noi la stampa non si inchina più solo al volere degli uomini ricchi, a chi detiene il potere maggiore di uno stato, ora si inchina anche agli "uomini del potere locale". Vi siete mai chiesti perché ci sono giornalisti sportivi a cui è vietato entrare nella sala stampa del "loro" stadio? Semplicemente perché hanno criticato la squadra di cui scrivono o chi la guida a livello dirigenziale. Vi siete mai chiesti cosa accade quando un giornalista non allineato non può entrare in una sala stampa e non può intervistare i calciatori? Semplice. Leggeremo sempre notizie buoniste di un certo tipo che mai porteranno critiche serie. Ed anche se l'esempio sembra stupido perché si parla di sport, quindi di una informazione minore, in effetti stupido non è perché rapportandolo a qualsiasi altro argomento, dalla politica alla giustizia, fa capire quali siano i rapporti che si vogliono obbligatoriamente far intercorrere fra chi informa e chi, in pratica, comanda. I giornalisti politici, ad esempio, devono seguire una linea editoriale di parte per "partito preso". Per cui occorre, a prescindere, criticare ciò che fa o dice lo schieramento opposto... anche se sinteticamente identico a quanto dice o fa il proprio. Vi siete mai chiesti chi è che sparge il pregiudizio? Per forza di cose chi ci informa, chi sparla additando a colpevole chi una procura vuole colpevole. Magari non ci sono prove. Magari neppure ci sono indizi seri. Ma a forza di insistere su un argomento si crea una convinzione (un meme). E la convinzione fa sembrare prova e indizio anche la più inutile delle banalità Banalità che sparsa ai quattro venti dall'informazione e dagli opinionisti che la cavalcano, verrà metabolizzata dall'opinione pubblica e creduta di una importanza vitale. Ed ecco che così facendo si fa credere ai lettori che la verità è quella scritta sugli atti giudiziari e non sui ricorsi dei difensori. Questo accade, anche se in realtà sugli atti si legge tutt'altra cosa. Ma il fatto che in pochi abbiano accesso ai verbali di interrogatorio agevola chi scrive articoli "mirati" a cui nessuno fa da contraltare. Anche perché, dopo l'iniziale assembramento, è la stampa locale che fornisce la maggior parte delle informazioni a quella nazionale. E dove le prende le informazioni se non in procura? Quale giornalista moderno rischierebbe di diventare "ospite sgradito", ad esempio criticando una linea investigativa o un arresto immotivato, sapendo che le porte di "certi uffici" gli si potrebbero chiudere in faccia? Tutti vogliono lavorare e guadagnare. E chi scrive di cronaca nera da troppi anni si nutre grazie all'accondiscendenza di alcuni. Quella che permette a certi giornaluncoli di nascere e sviluppare grazie a scoop creati ad arte con frasi "ad hoc" estrapolate in maniera unilaterale da un verbale o da una intercettazione secretata. E quasi tutti sono contenti. Contenta è la procura che vede aumentare la sua credibilità, l'editore che vede aumentare i profitti e il giornalista che si ritrova famoso perché catapultato sotto i riflettori per quanto ha scritto e si è usato per più puntate nei talk show dell'orrore. Gli unici scontenti sono gli indagati, i loro familiari e, quando ce ne sono, i loro figli minori che dalla valanga di notizie gettate a pioggia, che inevitabilmente bagneranno anche il loro ambiente sociale, verranno demoliti psicologicamente. A nessuno importa spargere la verità assoluta, quella che deriva solo dalla logica impossibile da alterare. L'informazione da tanto non fa cernite, da tanto non vaglia con critica la "velina" che arriva dagli uffici a cui attinge a piene mani. Chi li informa sa che per i media è facile amalgamare l'opinione pubblica alla linea voluta. Basta sbatterle in faccia la solita domanda: "Perché i procuratori dovrebbero, se non ci sono motivi, accusare una persona a caso?". La risposta potrebbe essere facile, visto che non esiste l'investigatore infallibile e gli errori giudiziari sono ormai una regola che annualmente costa tanti denari pubblici. Ed è logico che se non è l'informazione a ribadire questa ovvietà, si finisce sempre nel solito imbuto. Quindi a credere che quanto dice la difesa è falso, perché le indagini sbattute sui video per anni dicono il contrario e i difensori per luogo comune farebbero di tutto pur di salvare il dietro al loro assistito, mentre quanto afferma l'accusa è più che vero. Anche se la sua ricostruzione appare incredibile e illogica. Così facendo si distrugge la vera informazione, quella parte di giornalisti che racconta solo la verità e critica chi va contro le giuste regole, e si finisce per dover accettare una serie infinita di compromessi. Forse qualcuno ancora non lo sa, ma il compromesso è l'inizio della fine perché chi accetta il primo non potrà rifiutare il secondo e neppure il terzo e il quarto e così via. Facendo così la fine di quei delinquenti che una volta entrati nell'organizzazione malavitosa non hanno più modo di uscirne... se non da morti. Come disse John Swinton? "Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Forse Swinton è stato anche troppo drastico coi suoi colleghi, forse nei giornalisti non c'è quella intenzione convinta di distruggere la verità... ma troppi esperimenti mentali si son fatti nell'ultimo secolo da non sapere che una volta plasmata l'idea altrui nessuno leggerà più usando la logica e nessuno si accorgerà di aver letto o ascoltato, e mentalmente accettato anche per anni, articoli o parole di una stupidità eclatante. Chi di voi sa cos'è il meme? Per restare nell'orbita semplice e non inserirsi in spiegazioni difficili da comprendere, il meme moderno si può paragonare a un tormentone che viene lanciato in grande stile e condiviso da più menti così da unificarle e farle diventare parte integrante di una grande mente che funge e prende il posto della mente individuale. Se parliamo di internet, si può paragonare alla foto del momento che postata su facebook viene condivisa da migliaia di persone. Pare nulla, una cosa poco pericolosa, ma così non è dato che se i media lanciano e danno per vero un meme falso, e qui comprendo anche il campo giustizia, la mente lo elaborerà facendolo proprio come fosse vero. E più se ne lanciano, e più se ne elaborano, e più si corre il rischio di non riuscire a capire che la realtà non è quella che si crede vera. E più si corre il rischio di far crescere una specie di tumore, un virus (da qui la parola "virale" usata quando prende piede la moda del momento grazie a un meme) che impossessandosi del nostro cervello lo porterà a fare ragionamenti mirati che una mente libera troverebbe ridicoli e privi di validità. Ci si può salvare da un virus che pare ormai essersi propagato a dismisura e che con l'avvento di internet ha attecchito e si è espanso grazie anche ai copia-incolla che duplicano all'infinito la notizia del momento? Certo che sì. Basterebbe che i media invadessero l'etere di notizie vere in grado di delegittimare quelle false. Ma in Italia, in questo periodo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Scrivere ciò che si pensa non si può. I giornalisti devono obbedire, oggi come 135 anni fa. In caso contrario qualcuno smetterà di fornire loro informazioni, qualcun altro smetterà di invitarli in certe trasmissioni e l'editore li manderà a scrivere i necrologi. Motivo per cui, per non soccombere ognuno di noi deve cercarsi una cura su misura che possa contribuire anche alla demolizione del virus. Ad esempio, si potrebbe iniziare a spegnere la televisione quando in tivù c'è chi il virus lo spande a piene mani e si potrebbe iniziare a far marcire in edicola quei settimanali che il virus lo mostrano già in copertina. Così facendo gli editori capirebbero che il filone si sta prosciugando, che il pubblico pagante sta guarendo e che tenere in piedi un carrozzone solo per pochi intimi economicamente non conviene. Solo toccando loro le tasche e i portafogli si può sperare di risolvere una situazione altrimenti irrisolvibile. Certo, in questo modo si risolverebbe solo una delle piaghe. Ne rimarrebbero ancora tante da sistemare, ad iniziare dal rapporto che da secoli si è instaurato fra i media e la politica. Ma forse è troppo tardi ormai e quello è, e grazie al meme continuo rimarrà, un male incurabile...

Lettera aperta a Quarto Grado. Nuzzi, Longo ed Abbate, Avetrana vi dice: vergogna! Dissertazione difensiva di Antonio Giangrande, avetranese, che sul delitto di Sarah Scazzi ha scritto due libri, uno il sequel dell’altro. Un lungo resoconto, che parte sin dall’inizio e non tralascia nulla. Più che parodia di un programma di approfondimento, siamo ormai alla satira. Da troppo tempo, (sin dall'inizio della vicenda) la cittadinanza di Avetrana è accusata di omertà o di reticenza, rendendoci o facendoci apparire, di fatto, complici inconsapevoli dell'efferato delitto. E questo, la gente che incontriamo in tutta Italia, ce lo fa notare. Credo proprio che la misura sia ormai colma. A voler usare lo stesso metro della d.ssa Bruzzone, non credo che gli autori del programma possano essere contenti. La satira a volte può creare polemiche. L'ultimo caso riguarda l'imitazione di Virginia Raffaele che ad Amici ha vestito i panni di Roberta Bruzzone, una tra le più note criminologhe d'Italia, grazie ai salotti come "Quarto Grado". La parodia dell'attrice comica non è stata gradita dalla criminologa. E così dopo l'esibizione della Raffaele su Twitter è scoppiata la polemica. La Bruzzone ha seguito in diretta lo show dell'attrice e subito dopo l'ha fulminata con un cinguettio: "La Roberta Bruzzone originale è e rimarrà sempre semplicemente inimitabile..". Poi ha aggiunto: "Chissà se ciò che le stanno preparando i miei legali lo troverà divertente". "Io non ho nessun problema contro la satira"- precisa Bruzzone - "l’elemento intollerabile è giocare sull’aspetto sessuale in maniera sguaiata, becera, volgare, gratuita". Insomma, la criminologa non ha preso per niente bene l'immagine ironica e sensuale che l'imitatrice ha portato in scena. E, dopo aver minacciato querela nei confronti della Raffaele, si è aperto un vero e proprio "caso mediatico". "L’elemento che mi porta in tv ormai da oltre dieci anni - sottolinea - non è la mia avvenenza fisica ma il tipo di contenuti che tratto e l’esperienza dovuta al lavoro che svolgo". "Non siamo più nella satira, questa è diffamazione bella e buona" aggiunge, confermando la sua decisione di procedere per vie legali.

Ed anche su Avetrana, ormai "Non siamo più nella satira, questa è diffamazione bella e buona".

Parlare o sparlare dei fatti e dei protagonisti delle vicende giudiziarie è comprensibile. Diffamare gente che nulla c'entra con le vicende è criminale e per nulla professionale, tanto da meritare il licenziamento, come si è adoperato nel fare per altre vicende di falsi in tv di sponda Mediaset.

Da tempo mi son posto come antagonista ad un certo modo di fare giustizia, tanto da non aver fiducia nella magistratura, che diligentemente me lo conferma. Quindi nulla ho da fare per tutelare i miei diritti di avetranese, perchè non troverei sponda.

Molto potrebbe fare, invece, l’amministrazione comunale di Avetrana. Ma se dopo anni di massacro mediatico contro i cittadini che rappresenta, inspiegabilmente, questa nulla ha fatto, non posso certo sperare che inizi sin da ora a darsi quel coraggio o quella capacità che le mancano.

A me, quindi, scartata la via giudiziaria o escluso il coinvolgimento del sindaco di Avetrana, non rimane che usare l’arma a me più congeniale: adoperare la tastiera è rimbrottare pubblicamente chi diffama Avetrana.

Ci si può fidare della tv? E’ la domanda che gli spettatori della tv contemporanea dovrebbero porsi.

Sarah Scazzi bis. Un processo al processo già di per sé criticabile e criticato. Un’altra puntata della lunga e tormentata telenovela sull’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne scomparsa ad Avetrana il 26 agosto del 2010. Mentre i periti nominati dalla corte d’assise d’appello stanno effettuando le verifiche sulle celle telefoniche per risalire all’esatta posizione dei principali imputati e della vittima il giorno del delitto, giunge al capolinea l’inchiesta-bis condotta dal procuratore aggiunto Pietro Argentino e dal sostituto Mariano Buccoliero. Sono 12 gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari fatti notificare a quanti, secondo l’accusa, erano a conoscenza di fatti e particolari riguardanti l’omicidio e hanno taciuto, o peggio detto il falso, dinanzi ai pubblici ministeri o alla corte d’assise. Quanti, secondo altri, che non si sono genuflessi alle volontà dei magistrati inquirenti. Secondo Argentino e Buccoliero, queste 12 persone conoscevano particolari importanti riguardo il feroce assassinio di Sarah, ma hanno taciuto, oppure hanno dichiarato spudoratamente il falso dinanzi ai due pubblici ministeri ed alla Corte d'Assise. Proprio per questi reati, secondo i due pm, tali indagati dovranno essere giudicati. Tra questi vi è anche il nome di Michele Misseri, lo zio acquisito della piccola Sarah; a lui è stata contestata l'autocalunnia, in quanto, come è oramai risaputo, si autoaccusò di aver eliminato la nipote, al fine di coprire la moglie e la figlia, tesi che sostiene tuttora, accusando la Bruzzone di averlo indotto a cambiare versione e ad accusare la figlia Sabrina. Ma è la posizione di Ivano Russo la vera novità, quella che è saltata subito all'occhio. Se, come sostengono i procuratori, il ragazzo avesse davvero cercato di coprire Sabrina, nascondendo e non dichiarando alcune circostanze importanti riguardo al delitto, allora ecco che il caso della sventurata quindicenne d'Avetrana dovrebbe essere riscritto da cima a fondo. Il giovane dichiarò agli inquirenti, che il 26 Agosto, giorno dell'uccisione di Sarah, sarebbe rimasto tutto il tempo a casa e che avrebbe appreso della sparizione della ragazzina solo alle 17:00 del pomeriggio. "E le telefonate e gli sms che ti aveva inviato Sabrina all'ora di pranzo?" gli chiesero gli inquirenti, Ivano rispose così: "Rientrando a casa la notte prima, avevo dimenticato il telefono in macchina, l'ho ripreso solo il pomeriggio alle 17:00. Solo allora mi sono accorto che Sabrina mi aveva cercato". Questa spiegazione non aveva molto convinto i procuratori Argentino e Buccoliero, anche la madre di Ivano parlò del telefonino del figlio, che il giorno della morte di Sarah squillava.

Nell’onda dell’entusiasmo molti programmi della cosiddetta tv spazzatura si sono buttati a capofitto sulla notizia.

Nel caso dell'omicidio di Sarah Scazzi, trattato molto spesso da “Quarto Grado” su “Rete 4” di Mediaset la redazione (guidata da Siria Magri) si è attestata su una linea prevalentemente conforme agli indirizzi investigativi della pubblica accusa, cioè della Procura della Repubblica di Taranto. Tanto che i suoi ospiti, quando sono lì a titolo di esperti (pseudo esperti di cosa?) o, addirittura, a rappresentare le parti civili, pare abbiano un feeling esclusivo con chi accusa, senza soluzione di continuità e senza paura di smentita. A confermare questo assioma è la puntata del 15 maggio 2015 di “Quarto Grado”, condotto da Gianluigi Nuzzi ed Alessandra Viero e curato da Siria Magri.

“A quell’ora ero a casa” – ha sempre raccontato Ivano ai pm – “ho dormito fino alle 17″.“L’ho visto uscire di casa intorno alle 13.30″, dice invece un testimone. Ma Ivano non ci sta, rigetta le accuse e si difende davanti ai microfoni di Quarto Grado. “Mi sento abbastanza tranquillo perché sono a posto con la mia coscienza…e in merito alla intercettazione secondo cui sono accusato di avere pilotato la deposizione di mia madre, in realtà le dissi solamente di raccontare ai magistrati ciò di cui si ricordava bene invitandola a non dire cose che non ricordava con esattezza”. E poi dà la sua versione dei fatti in merito al nuovo testimone che lo accusa: “Nel dicembre ci sono state denunce reciproche con la mia ex compagna madre di mio figlio, e guarda caso nel gennaio 2014 è spuntata una persona che ha fatto delle dichiarazioni spontanee al pm contro di me … farò denuncia per calunnia contro questa persona”.

A riprova della linea giustizialista del programma, lo stesso conduttore è impegnato a far passare Ivano come bugiardo, mentre il parterre è stato composto da:

Alessandro Meluzzi, notoriamente critico nei confronti dei magistrati che si sono occupati del processo, ma che sul caso trattato è stato stranamente silente o volutamente non interpellato;

Claudio Scazzi, fratello di Sarah;

Nicodemo Gentile, legale di parte civile della Mamma Concetta Serrano Spagnolo Scazzi.

Solita tiritera dalle parti private nel loro interesse e cautela di Claudio nel parlare di omertà in presenza di cose che effettivamente non si sanno.

Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».

Vada per i condannati; vada per gli imputati, ma tutto il paese cosa c’entra?

Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»

Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?

Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenerlo egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «..però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»

Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo!

Si noti bene: nessun ospite è stato invitato per rappresentare le esigenze della difesa delle persone accusate o condannate o addirittura estranee ai fatti contestati.

Nell'ordinamento giuridico italiano, la diffamazione (art. 595, codice penale) è un delitto contro l'onore ed è definita come l'offesa all'altrui reputazione, comunicata a più persone con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di comunicazione. A differenza del delitto di ingiuria di cui all'art. 594 c.p., il delitto di diffamazione può essere consumato solo in assenza della persona offesa. Il bene giuridico tutelato dalla norma è la reputazione intesa come l'immagine di sé presso gli altri. L'analisi testuale della norma consente di risalire ai suoi elementi strutturali: l'offesa all'altrui reputazione, intesa come lesione delle qualità personali, morali, sociali, professionali, etc. di un individuo; la comunicazione con più persone, laddove l'espressione "più persone" deve intendersi senz'altro come "almeno due persone"; l'assenza della persona offesa, da intendersi secondo la più autorevole dottrina come l'impossibilità di percepire l'offesa. In quasi tutti gli ordinamenti giuridici si ha diffamazione se quanto asserito è falso, e spetta all'accusa dimostrare tale falsità. In altri, come quello italiano, ciò non è richiesto e solo in casi molto limitati è, viceversa, la difesa che ha la facoltà di discolparsi dimostrando la verità delle asserzioni ritenute diffamatorie. La diffamazione è punita nella maggioranza degli Stati, e considerata un delitto punito dal codice penale, ma che comporta anche la condanna a un risarcimento civile. La diffamazione può anche coesistere con una lesione del diritto alla privatezza, da contemperare al diritto alla libertà di espressione dei fatti veritieri.

Per quanto mi riguarda per le frasi da me proferite e ritenute offensive, in base all’art. 599 c.p. (ritorsione e provocazione), si stabilisce che ”nei casi preveduti dall'articolo 594, se le offese sono reciproche, il giudice può dichiarare non punibili uno o entrambi gli offensori. Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 594 e 595 nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso. La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche all'offensore che non abbia proposto querela per le offese ricevute”.

Per gli effetti della norma citata mi preme affermare in aggiunta quanto segue.

Altro che bugiardi. Voi fate parte di quella tv spazzatura che di questi tempi è accusata di falsi scoop. Da Fabio e Mingo su Striscia la Notizia a Fulvio Benelli di Quinta Colonna, fino a Francesca Bastone ed Alessandra Borgia di Video News.

Fulvio Benelli e gli altri: il professionismo della recita in Tv, scrive Giorgio Simonelli (Docente di Storia della televisione e di Giornalismo televisivo) su “Il Fatto Quotidiano”.

Fulvio Benelli licenziato, Lerner: “E’ capro espiatorio di una tv fatta di falsi scoop”. Con un post sul proprio blog, l'ex direttore del Tg1 esprime solidarietà al cronista di Quinta Colonna cacciato da Mediaset con l'accusa di aver confezionato servizi falsi: "Sono gli autori e i conduttori e i direttori di rete a spingere in questa squallida direzione". "Chi oggi lo licenzia - scrive quindi il giornalista su Twitter - ne conosceva benissimo e incoraggiava il metodo di lavoro nella pseudo-tv-verità".

Ritenuto che la misura sia ormai colma si è scritto agli amministratori di Avetrana con prot. 3468.

Al Presidente del Consiglio Comunale di Avetrana

Per il sindaco di Avetrana e la Giunta Comunale

Per i consiglieri comunali

Avetrana lì 3 giugno 2015

Oggetto: Art. 47/49 Statuto di Avetrana. Richiesta di convocazione di un Consiglio Comunale monotematico attinente il Caso Sarah Scazzi per la ricerca di strumenti di tutela dell’immagine e della reputazione del paese e dei suoi cittadini di fronte alla gogna mediatica a cui è perennemente sottoposto.

 

Il sottoscritto Dr Antonio Giangrande, scrittore, nato ad Avetrana il 02/06/1963 ed ivi residente alla via Manzoni, 51, presidente nazionale della Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, direttore di Tele Web Italia e vice presidente della Associazione Pro Specchiarica, sodalizio di promozione del territorio, con sede legale in via Piave 127 ad Avetrana, tel 0999708396 cell. 3289163996,

premesso che

sin dal 26 agosto 2010, dal momento della scomparsa di Sarah Scazzi in Avetrana, i cittadini del paese sono oggetto di una gogna mediatica senza soluzione di continuità che non trova pari in nessun altro caso di cronaca nazionale ed internazionale. Da allora ho scritto 3 libri sul delitto, rendicontando giorno per giorno eventi avvenuti e commenti elargiti in tutta Italia. Per gli effetti ho verificato che di Avetrana si è fatta carne da macello. Se da una parte, per quanto riguarda i protagonisti della vicenda, il diritto di cronaca è tutelato dalla Costituzione italiana, quantunque per esso non vi è giustificazione quando per loro questo si travalica. E’ criminale, però, quando si coinvolgono in questa matassa tutti gli altri cittadini di Avetrana che nulla centrano con la vicenda. Eppure dal 26 agosto 2010 tutti gli avetranesi sono stati dipinti come retrogradi, omertosi e mafiosi. Chi riesce ad andare oltre i confini della “Cinfarosa” si accorge che Avetrana è conosciuta in tutto il mondo e certo non in toni lusinghieri. Tanto da far mortificare i suoi cittadini e far pagare loro fio per colpe non commesse. Non basta il mio prodigarmi a favore di Avetrana attraverso la pubblicazione dei miei libri o di video o di note stampa sui miei o altrui blog per ristabilire la verità. Io sono sempre un semplice cittadino che non fa testo e questo è un limite, oltretutto, chi mi segue, per come mi conosce, non pensa che io sia di Avetrana e ciò rende meno efficace la posizione da me assunta. D’altra parte, però, a difesa dei diritti di Avetrana si è notato una certa mancanza di iniziativa adeguata da parte dell’Amministrazione Comunale, tanto meno la minoranza ha adottato misure opportune di pungolo o di critica. Il tutto per mancanza di coraggio o di impreparazione comunicazionale. E per questo nei libri non ho mancato di rilevare l’ignavia atavica degli amministratori. Poco si è fatto e quel poco è risultato al di più dannoso. Se da una parte può essere considerato opportuno, con oneri per la comunità, costituirsi parte civile nei confronti di chi si addita prematuramente come responsabile e comunque non ha nulla da risarcire, intollerabile è che Pasquale Corleto, avvocato per il Comune di Avetrana, che dovrebbe tutelare l’immagine degli avetranesi, dica in pubblica udienza inopinatamente:  «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». Io non sono come Michele Misseri. Io non mi accuso di essere un assassino!

Comunque, l’inadeguato contrasto da parte del Comune di Avetrana ha portato all’apice dell’ignominia.

In occasione della notifica dei 12 gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari fatti notificare a quanti, secondo l’accusa, erano a conoscenza di fatti e particolari riguardanti l’omicidio e hanno taciuto, o peggio detto il falso, dinanzi ai pubblici ministeri o alla corte d’assise, i media si sono sbragati.

Nel caso dell'omicidio di Sarah Scazzi, trattato molto spesso da “Quarto Grado” su “Rete 4” di Mediaset la redazione (guidata da Siria Magri) si è attestata su una linea prevalentemente conforme agli indirizzi investigativi della pubblica accusa, cioè della Procura della Repubblica di Taranto. Tanto che i suoi ospiti, quando sono lì a titolo di esperti (pseudo esperti di cosa?) o, addirittura, a rappresentare le parti civili, pare abbiano un feeling esclusivo con chi accusa, senza soluzione di continuità e senza paura di smentita. A confermare questo assioma è la puntata del 15 maggio 2015 di “Quarto Grado”, condotto da Gianluigi Nuzzi ed Alessandra Viero e curato da Siria Magri.

A riprova della linea giustizialista del programma, lo stesso conduttore è impegnato a far passare Ivano come bugiardo, mentre il parterre è stato composto da:

Alessandro Meluzzi, notoriamente critico nei confronti dei magistrati che si sono occupati del processo, ma che sul caso trattato è stato stranamente silente o volutamente non interpellato;

Claudio Scazzi, fratello di Sarah;

Nicodemo Gentile, legale di parte civile della Mamma Concetta Serrano Spagnolo Scazzi.

Solita tiritera dalle parti private nel loro interesse e cautela di Claudio nel parlare di omertà in presenza di cose che effettivamente non si sanno.

Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».

Vada per i condannati; vada per gli imputati; vada per gli indagati; ma tutto il paese cosa c’entra?

Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «Io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»

Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?

Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenere egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «..però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»

Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo! Tutto ciò detto di fronte a milioni di spettatori creduloni.

Si noti bene: nessun ospite è stato invitato per rappresentare le esigenze della difesa delle persone accusate o condannate o addirittura estranee ai fatti contestati.

Per questi motivi

SI CHIEDE ALLA SV VOSTRA

Non essendoci fin qui, colpevolmente, nessun provvedimento adottato per motu proprio, ossia d’ufficio, nonostante le segnalazioni verbali al presente ufficio di presidenza, al sindaco, al vice sindaco ed ad esponenti della minoranza, di convocare ai sensi dello Statuto del Comune di Avetrana, come previsto dagli artt. 24 comma 3, 29, 37, attraverso la presente richiesta di pubblico interesse inoltrata in virtù del dettato dello Statuto del Comune di Avetrana, ex art. 47, in qualità di presidente di una associazione ed ex art. 49 da semplice cittadino, un consiglio comunale monotematico per le motivazioni in oggetto, opportunamente pubblicizzato e partecipato. In tale sede si ricerchino e si adottino, finalmente all’unanimità ed in unione, adeguati e netti strumenti di tutela dell’onorabilità di Avetrana e dei suoi cittadini, come per esempio una denuncia per diffamazione a mezzo stampa e relativa azione civile contro i giornalisti ed al direttore del programma televisivo citati. Altresì aggiungersi una campagna stampa istituzionale, affinchè, a tale delibera adottata, sia data ampia rilevanza nazionale in modo tale che la querela non sia fine a se stessa ma attivi un clamore mediatico. In questo modo, dal dì di approvazione in poi, sia di monito a tutti e, finalmente, tutti si possano lavare la bocca prima di pronunciare qualsivoglia considerazione malevola sul nostro paese.

Comunque qualcosa va fatto, in quanto la misura è abbondantemente colma e con vostra responsabilità.

Mi è stato consigliato di soprassedere alla mia proposta, ovvia e normale in altri luoghi, ma forse considerata estemporanea ad Avetrana. Io non dispero, considerando, nonostante tutto, Avetrana un paese normale.

Con ossequi. Dr Antonio Giangrande

CONCLUSIONI. BASTA GOGNA!

Maledetta Avetrana. “Storie maledette” riparte da qui. Il caso di cronaca più mediatizzato d’Italia nelle mani di Franca Leosini diventa un genere a sé, scrive Andrea Minuz il 12 Marzo 2018 su "Il Foglio". “La lettura dell’Italia si può fare attraverso il delitto”, dice Franca Leosini che riparte da Avetrana e non ha mai scritto un romanzo, anche se molti editori glielo chiedono, anche se “per ogni storia che porto in video è come se ne avessi scritto uno”. Il romanzo c’è già. “Storie maledette” non è solo un programma fatto di interviste, ma il grande romanzo italiano a puntate che racconta pulsioni, trasformazioni e perennità di questo paese, delle sue strutture sociali, della sconfinata, profonda provincia che pensiamo di conoscere ma che non conosciamo mai davvero. Nella complessa geografia del delitto italiano (Novi Ligure, Cogne, Erba, Garlasco, Perugia) Avetrana è anzitutto il punto di non ritorno del cortocircuito tra informazione, cronaca, spettacolo; perfetta sintesi di giustizialismo, voyeurismo e ferocia dei talk-show. Qui i media non arrivarono dopo ma costruirono un’indagine parallela culminata nell’annuncio del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi in diretta su “Chi l’ha visto”. Il delitto a sfondo familiare si trasformava definitivamente in reality. Ci sprofondammo tutti con un orrore via via sempre più grottesco e i negozi del Rione Sanità che vendevano il “vestito di carnevale di Zio Michele”. Un’“epopea baraccona”, come l’ha definita Franca Leosini nella prima puntata di domenica. Pensavamo di averne avuto abbastanza di Sarah, del diario, del cellulare, di Sabrina, “Zio Michele”, Cosima, Ivano. Invece è stato come entrare ad Avetrana per la prima volta. Orchestrati dentro un doppio racconto, quello di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano, Franca Leosini intreccia i fatti come in un confronto all’americana costruito sulla parola. Al delitto ci accompagna per gradi, anzi per grandi cerchi concentrici che delineano il quadro logico-passionale degli eventi, l’ambiente, i personaggi. Perché “la forza di ‘Storie maledette’ non è il delitto ma il percorso”, come dice Leosini. La cronaca ha fretta. Lei no. C’è il preludio, lo sguardo dall’alto sul teatro dell’azione come nel romanzo dell’Ottocento, poi l’affondo sui dettagli: i “devoti sms”, i capelli bianchi di Cosima che “non vuole essere schiava della tinta”, i “crateri di cellulite” delle signore di Avetrana massaggiate da Sabrina che ha un alibi a forma di “cordon bleu” divorato di corsa il giorno del delitto e rigorosamente pronunciato “Gordon blé”. Ogni puntata lascia dietro di sé una scia di “meme” e tormentoni rilanciati in rete dai “leosiners”. Ma alla fine appare riduttivo spiegare il suo successo coi tailleur colorati, il linguaggio desueto, il piglio contemporaneamente empatico e freddo della conduzione. Casomai, in una televisione fatta di format costruiti su casting, montaggio e ospitate gratis, “Storie Maledette” è uno dei pochi programmi che punta tutto sulla scrittura. C’è la tragedia con Sabrina che rievoca i compagni di scuola che la sfottevano per la peluria ed entravano in classe con le lamette, ma ci sono anche dialoghi che sembrano usciti dalle migliori pagine della nostra commedia, non a caso detta “all’italiana” perché quasi sempre moriva qualcuno: “Nei 4.500 sms a Ivano lei appare come una questuante dell’amore”, incalza Leosini; “sì, ma avevo anche la promozione coi messaggi gratis”. Siamo davvero dalle parti di Billy Wilder. “Se tornassi indietro non farei neanche un’intervista”, dice a un certo punto Sabrina, “però così avrebbero detto che di Sarah non me ne fregava niente”. Sintesi formidabile di come le dicerie di Avetrana siano solo la versione in scala ridotta di quelle nazionali. “Il delitto di Avetrana si è compiuto in una profonda campagna secondo un modo familiare cioè contadino”, scriveva Giorgio Bocca, “ma tutti gli italiani lo hanno sentito come proprio, a smentita che la società italiana moderna abbia perso i suoi fondamenti contadini”. Ce ne siamo ricordati anche il 5 marzo.

Franca Leosini, fredda analista dei delitti, ma icona dell’empatia. I leosiners (i fan della giornalista e conduttrice) amano l’enfasi retorica consacrata alla vittima, ma amano ancor più il personaggio, vagamente démodé eppure affascinante, scrive Aldo Grasso il 12 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". È tornata Franca Leosini con le sue «Storie Maledette» per dedicare due puntate all’omicidio di Sarah Scazzi, la giovane di Avetrana uccisa a 15 anni il 26 maggio 2010. Lei si definisce un’instancabile indagatrice di anime, narratrice di persone che cadono nel buio della coscienza: «Capire, dubitare, raccontare: mai come in questo caso i miei verbi, quelli che frequento di più, come scelta narrativa, etica e di rigore, si sono confermati importanti». Anche in Dino Buzzati c’era sempre questa tensione al tragico attraverso il patetico (ogni delitto che raccontava era patetico, letteralmente un’esplosione di sofferenza), questo bisogno di tradurre l’angoscia più cupa dell’esistenza in un teatro del quotidiano. Per questo la sua scrittura cercava continuamente una mediazione estetica per non cedere al dolorismo, per non assecondare la nostra morbosità nei confronti dell’orrore. Qual è lo stile di Franca Leosini? Uno stile, per altro, ormai così riconosciuto che le ha meritato un invito al Festival di Sanremo di Claudio Baglioni (la gag è stata alquanto modesta, in verità). La Leosini è una sgobbona, bisogna ammetterlo: prima di incontrare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia della vittima, condannate all’ergastolo e recluse nel carcere di Taranto, la giornalista napoletana ha studiato tutte le carte del processo. Poi scrive, scrive e in trasmissione legge tutto (più radio che tv): è il suo modo di fare letteratura, anche se ho molti dubbi sulla tenuta stilistica della sua prosa, piena di barocchismi («ardori lombari», «bipede sgualcito»), e sul suo marcato sociologismo (il vero colpevole è sempre il contesto). I leosiners (i suoi numerosi fans) amano l’enfasi retorica consacrata fatalmente alla vittima, ma amano ancora di più il personaggio, vagamente fuori moda eppur affascinante, fredda analista dei delitti eppur icona dell’empatia.

Classica eppure modernissima, la giornalista e conduttrice di «Storie maledette» è diventata un’icona sui social network, scrive Chiara Maffioletti l'11 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Il suo programma, «Storie maledette», è in onda dal 1994: e questa sera torna in onda alle 21.25 su RaiTre. Ma solo negli ultimi anni, quelli dei social network, la giornalista e conduttrice è diventata un fenomeno cult. Tutti la amano, tutti la commentano. Il suo stile — impeccabile — è diventato, nel suo essere senza tempo, il segreto della sua modernità. Lontana dai social eppure mai così presente, protagonista, Leosini è oggi un’icona. Dopo essere stata anche guest star al cinema — nella commedia «Come un gatto in tangenziale» —, e al Festival di Sanremo (dove è stata protagonista di una gag con Claudio Baglioni — Franca Leosini è pronta a tornare in onda. «Lo ammetto: la tv, la fiction e il cinema mi corteggiano. Ma non partecipo mai ai talk show, con tutto il rispetto per i colleghi che fanno un lavoro meraviglioso, faticoso, spesso quotidiano. E sono così cari da accettare i miei no. Al cinema ho detto sì al film di Riccardo Milani perché, al di là della grande amicizia che mi lega a Paola Cortellesi, ero me stessa. Non ho mai voluto, invece, interpretare ruoli». E a proposito dell’affetto straordinario del pubblico, ha fatto sapere che «mi riempie il cuore e mi dà tanta forza di lavorare». Il suo programma riparte con due puntate dedicate al delitto di Avetrana, all’omicidio di Sarah Scazzi, a Sabrina Misseri e alla madre Cosima. «Ho letto 10 mila pagine di processo, dalla prima all’ultima parola. Sul piano personale e professionale, ogni storia che racconto è un percorso umano, giudiziario e ambientale faticosissimo: non cerco la verità, che è compito di inquirenti e magistrati, cerco di capire, a volte arrivando a una verità che non è sempre quella storica e processuale. Penso che la storia dell’Italia si possa leggere anche attraverso i delitti». A gratificarla è soprattutto «l’affetto dei ragazzi, che seguono la trasmissione con amore e con grande attenzione al linguaggio, una responsabilità enorme per chi fa questo mestiere».

Franca Leosini: ecco chi è la giornalista di Storie Maledette, star sui social, scrive "Popcorntv.it". Franca Leosini, giornalista e conduttrice di Storie Maledette, è seguitissima sui social e ha anche un gruppo di fan che si fa chiamare Leosiners. Fredda e distaccata ma precisa e pungente: ecco chi è Franca Leosini, giornalista e conduttrice tv, diventata un vero e proprio idolo sui social tanto da avere anche un suo esercito di fan che si è ribattezzato Leosiners. Sono tantissimi i personaggi che Franca Leosini, nel suo programma Storie Maledette, in onda dal 1994 tutte le domeniche in prima serata su Raitre, ha intervistato: tra questi anche Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all'ergastolo per l'uccisione di Sarah Scazzi.

Chi è Franca Leosini. Una delle prime curiosità sul conto di Franca Leosini è legata alla sua data di nascita, eh sì perché secondo alcune biografie ufficiali la nota giornalista sarebbe nata nel 1949, anche se nell'annuario dei giornalisti è riportato 1934. Nonostante questo, la Leosini è nata a Napoli il 16 marzo e il suo cognome è Lando, Leosini è il suo cognome, invece, da coniugata. 

Franca Leosini: carriera. Nel 1974 Franca Leosini ha conseguito il tesserino da giornalista pubblicista, regolarmente iscritta presso l'albo della Campania. Fin da piccola è sempre stata una grande studiosa e appassionata della lingua italiana e così dopo il diploma ha scelto di proseguire gli studi e di laurearsi in Lettere Moderne. Il suo primissimo lavoro è stato presso l'Espresso, collaborando per il settore della cultura, e subito ha cominciato ad occuparsi non solo di interviste ma di vere e proprie inchieste. Nel 1974, inoltre, la Leosini si è occupata dell'inchiesta denominata Le zie di Sicilia, in cui Leonardo Sciascia ha accusato le donne dello sviluppo della mafia. Non tutti lo sanno ma Franca Leosini, per un periodo, è stata anche direttrice di Cosmopolitan e ha curato la terza pagina de Il Tempo. 

Franca Leosini: le frasi. Franca Leosini è considerata una vera e propria superstar sul web. In tantissimi, infatti, su twitter non perdono occasione non solo di farle i complimenti ma anche di esaltare il suo operato, le sue interviste e il suo modo di parlare, ciò che più incanta gli internauti. Basti pensare che su Facebook esiste una pagina intitolata Le perle Franca Leosini, che conta oltre 8mila like, in cui vengono riportati tutti i suoi tormentoni, come: «Questo lo dice lei». 

Curiosità su Franca Leosini. Franca Leosini, nel 2013, è stata eletta come icona gay della serata romana Muccassassina.

Franca Leosini a DM: «Ho studiato 10 mila pagine di processo per intervistare Sabrina e Cosima Misseri. Detesto la parola femminicidio», scrive mercoledì 7 marzo 2018 Mattia Buonocore su "Davide Maggio". “Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana. Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina che ha i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scompare”.  Con queste parole Franca Leosini inizia il suo racconto del caso Scazzi, la triste vicenda di cronaca nera che ha toccato l’Italia intera. Le interviste a Sabrina e Cosima Misseri terranno banco nel nuovo ciclo di Storie Maledette, al via domenica 11 marzo in prima serata su Rai3. DavideMaggio.it ha incontrato Franca Leosini.

Cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova stagione di Storie Maledette?

«Di vederlo. Io non faccio mai anticipazioni, è una cosa che definirei anche di cattivo gusto. Nel senso che è una trasmissione che va vista, seguita. Per fortuna viene seguita con grande amore, il che mi gratifica molto. E mi gratifica moltissimo il fatto che sia seguita da fasce sociali completamente differenziate, difformi, e soprattutto sia seguita dai ragazzini. I leosiners sono dei ragazzini e questa è una cosa straordinaria perchè il mio non è un varietà, la mia è una trasmissione impegnativa. I ragazzi purtroppo stanno perdendo l’uso del linguaggio a furia di stare su twitter e di scrivere messaggini; mi dicono che seguono Storie Maledette perchè a loro piace il linguaggio. C’è sicuramente un linguaggio non povero, e noi siamo dei modelli, chi ci ascolta ci imita. Così come ci imitano come siamo vestiti, ci imitano anche con il linguaggio. Questa è una cosa che mi gratifica. E’ una trasmissione difficile la mia».

In questo ciclo di puntate si parlerà del caso Scazzi.

«Saranno due puntate, con due protagoniste che sono Sabrina e la madre. Diciamo che il Professore Coppi, che è l’avvocato principe, mi ha fatto studiare diecimila pagine di processo. Gli editori, che sono sempre così gentili con me, mi sollecitano a scrivere libri ma io scrivo un libro ogni volta che faccio una storia maledetta. E’ un lavoro anzitutto molto capillare di studio del processo, della psicologia dei personaggi, della cultura dell’ambiente e anche diciamo proprio del luogo; dico e ripeto, è molto importante la cultura del posto. Una lettura del paese si potrebbe fare anche attraverso i delitti, perchè tante cose si verificano in una parte di Italia e in un’altra no? Tornando al mio lavoro, io faccio poche puntate, con grande disperazione dei miei direttori proprio perchè è ogni puntata è una struttura narrativa, un grande romanzo – parliamoci chiaro – del quale io sono l’autore unico. E’ un lavoro molto complesso, d’altronde la cosa che mi gratifica è che l’apprezzamento c’è».

E’ un’anomalia il fatto anche di avere due ospiti conosciute.

«Ho avuto tanto riscontro – la parola successo la rifuggo, preferisco parlare di risultati, quando mi dicono: “sei una donna di successo”, dico: “ho avuto dei risultati mai successo” – con casi assolutamente sconosciuti. Un caso come quello Scazzi è quasi una vicenda del secolo, per il retrogusto di questa storia».

Va in onda nella prima serata della domenica.

«E’ una scelta del direttore. Io avrei preferito un’altra serata, logicamente è il direttore che sceglie e io sono un soldato di Rai3».

Tu sei anche molto legata alla seconda serata.

«Ho amato molto la seconda serata, ma ci sono dei casi talmente forti che sai… A suo tempo – Storie Maledette ha 20 anni – quando andai da Guglielmi a dire: “Vorrei fare Storie Maledette”. Lui mi disse: “Il titolo mi piace vediamo cosa ci metti dentro”. Ci ho messo dentro Storie Maledette. Lui voleva già da allora la prima serata e io mio sono battuta per la seconda serata. Ci sono dei casi che sono veramente molto forti, romanzati».

Tuo marito cosa ti ha detto quando gli hai detto: “Mi accompagni a Sanremo”?

«Lui è molto carino con me. E’ stata un’occasione per stare insieme perchè oltretutto lui vive a Napoli. A suo tempo, mi ricordo ci furono le targhe alterne. Una mia amica mi disse: “come va con tuo marito?”. Le risposi: “Ci vediamo a targhe alterne quindi è stata anche un’occasione per stare insieme”».

Il fatto di essere una donna ti aiuta nel tuo lavoro.

«Forse noi donne abbiamo quel sesto senso in più, quella capacità di capire anche le debolezze che gli uomini non individuano o non accettano».

Si parla molto di donne in questo periodo.

«Purtroppo ora è diventato un argomento di grande attualità, giustamente ora presente sul mercato delle idee, dei sentimenti e dei progetti. Logicamente la violenza sulle donne ha radici antiche ed è indubbiamente aumentata nel momento in cui le donne hanno cominciato a scegliere per la loro vita, per il loro destino. Le donne vivevano quello che era il ricatto economico, logicamente hanno raggiunto un’indipendenza che le consente di scegliere per il destino delle coppie. Purtroppo le liti nascono sempre dal rifiuto di una donna di accettare il progetto dell’uomo, bisognerebbe educare l’uomo prima di educare la donna. Ad esempio se c’è un termine che detesto è femminicidio perchè dico che la donna è anzitutto è persona, quindi non è femmina. Non si dice maschicidio».

"Al supermercato so quando entro ma non quando esco, faccio selfie tutto il giorno". Franca Leosini torna su Rai3 con una nuova stagione di Storie Maledette con un doppio appuntamento domenicale dedicato alle interviste di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, scrive il 7 marzo 2018 Sebastiano Cascone su “Il Sussidiario”. Franca Leosini torna, su Rai3, al timone di Storie Maledette, dall’11 marzo con tre puntate, le prime due, dedicate all'omicidio di Avetrana e intitolate "Sarah Scazzi: quei venti minuti per morire", con le interviste esclusive a Sabrina Misseri e la mamma Cosima Serrano: "L’omicidio di Avetrana fa parte della cultura e della storia giudiziaria e umana di un Paese. Ma è stata anche una vicenda televisiva, che ha diviso nella passione del giudizio. Con i risvolti umani e le inquietudini che si è portata dietro" ha confessato la giornalista al settimanale Tv Sorrisi e Canzoni in edicola questa settimana. La conduttrice napoletana sceglie con scrupolosa attenzione le storie dei protagonisti che vuole intervistare per dare un occhio totale della realtà dei fatti: "La parola importante è “rispetto”. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta. Sono persone come noi, può succedere a tutti: ci sono momenti in cui la consapevolezza si smarrisce. Il limite tra giusto e sbagliato è gelatinoso… Queste persone accettano di scendere con me nell’inferno del loro passato".

LA SCELTA DELLE STORIE E DEI PROTAGONISTI. Franca Leosini ha rivelato, per la prima volta, l'iter, per la scelta delle storie dei vari protagonisti: "Scrivo a mano una lettera in carcere alla persona che vorrei incontrare. È importante che veda la mia calligrafia, per stabilire subito un rapporto umano. Poi sento l’avvocato, che ha sempre un breve ruolo nella puntata perché ci sono problemi tecnici che deve risolvere. Quanto a me, cerco di non far capire quello che penso: il mio ruolo è doverosamente super partes". Poi, inizia il complicato percorso dei permessi fino all'incontro con l'intervistato, della durata di un giorno, per creare il giusto feeling. Da lì, passano tre quattro mesi per "studiare gli atti del processo, scrivere dalla prima faccio anche un lavoro di solfeggio, proprio come su uno spartito musicale: intonazione della voce, pause, all’ultima parola, creare la struttura narrativa". Un lavoro che richiede, quindi, tempo e la giusta concentrazione per mettere a punto un prodotto qualitativamente alto che non delude le aspettative degli affezionati telespettatori. Il segreto? Non anticipare mai le puntate ai diretti interessati per rendere il tutto più fluido e naturale possibile.

L'AMORE DEI LEOSINERS. Franca Leosini, recentemente ospite del Festival di Sanremo per una gag molto divertente con Claudio Baglioni, ha un folto seguito di fedelissimi sulla rete che non perdono una puntata di Storie Maledette. La giornalista è orgogliosa di un consenso trasversale che abbraccia diverse generazioni: "Al supermercato so quando entro ma non quando esco. L’ultima volta non sono riuscita a comprare neanche un pomodoro, perché ho fatto selfie tutto il tempo. Ma lo faccio con gioia. Oltre che un piacere, è un dovere dare al pubblico tempo e attenzione". I Leosiners sono un gruppo molto numeroso che, compatto, scalpita per la messa in onda delle nuove attesissime puntate (eccezionalmente alla domenica sera): "Siamo dei modelli e siamo imitati per come ci comportiamo. Se abbiamo un linguaggio che non è povero, trasmettiamo quella ricchezza a chi ci ascolta. E la cosa che mi gratifica è che i “leosiners”, che sono giovani e di tutte le estrazioni, amano quel linguaggio".

Leosini, racconto luci e ombre dell'omicidio Scazzi. Torna Storie Maledette da domenica 11 marzo su Rai3, scrive Angela Majoli il 9 marzo 2018 su "Ansa". "Capire, dubitare, raccontare: mai come in questo caso i miei verbi, quelli che frequento di più, come scelta narrativa, etica e di rigore, si sono confermati importanti". Instancabile indagatrice di anime, scrupolosa narratrice di persone che cadono nel buio della coscienza, Franca Leosini torna con la 16/a edizione di Storie maledette, domenica 11 marzo in prima serata su Rai3, e dedica due puntate all'omicidio di Sarah Scazzi, la giovane di Avetrana uccisa a 15 anni il 26 maggio 2010. Prima di incontrare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia della vittima, condannate all'ergastolo e recluse nel carcere di Taranto, la giornalista napoletana ha "studiato 10 mila pagine di processo: non faccio cronaca - spiega - svolgo un percorso che va in profondità nella storia dei protagonisti della vicenda e nell'ambiente in cui si è svolta. Ho disegnato un pannello che affonda le radici non solo nella realtà umana dei personaggi, ma anche nell'humus circostante. La cronaca non ha tempo, mentre io vado in verticale". Pur avendo incontrato Sabrina e Cosima separatamente, "perché altrimenti si sarebbero influenzate a vicenda", Leosini ha creato però "una sceneggiatura nella quale interagiscono", intrecciandone le testimonianze. "E' stato molto difficile non soltanto studiare gli atti, ma anche ricostruire la storia, vederne i risvolti, con luci e ombre, perché è una vicenda particolarmente complessa per la molteplicità e la poliedricità dei personaggi. C'è Sarah, questa creatura sottile come un gambo di sedano, con i capelli biondi come spighe di grano, che a un certo punto scompare. Ci sono Sabrina e Cosima, ma c'è anche Michele Misseri (marito di Cosima, ndr), una figura terza ma anche il motore mobile della vicenda, che parla un linguaggio tutto suo, il misserese. E poi c'è Ivano (che sarebbe stato il movente della gelosia di Sabrina nei confronti della cugina, ndr), trascinato in una storia in cui non ha responsabilità ma ha un ruolo da protagonista. E poi la madre di Sarah". Due puntate per raccontare "un delitto di cui si sa tanto e poco nello stesso tempo, perché ne esistono tante versioni", sottolinea Leosini, convinta che "il senso di una storia possa nascondersi nei dettagli. La verità storica e quella processuale non sempre coincidono: i miei interlocutori parlano liberamente, ma io devo sempre tener presente gli atti. Le sentenze in democrazia si discutono, ma bisogna rispettarle". Il nuovo ciclo di Storie maledette avrà una terza puntata, "mentre la quarta è caduta - spiega la giornalista - perché il protagonista, un uomo, mi ha chiesto le domande in anticipo. Ma io non patteggio mai nulla: tutto deve essere vero, spontaneo, anche se poi si interviene con il montaggio. E così ho preferito annullare l'incontro, pur avendo lavorato tantissimo". Un lavoro preparatorio che passa anche per il solfeggio dei testi, abitudine 'svelata' dagli stessi redattori del programma: "Per me la parola conta moltissimo, vivo la prosa come musica, ecco perché - spiega Leosini - solfeggio i testi", raccolti in un librone che è diventato una leggenda. Solfeggiato era anche il copione del suo intervento sul palco di Sanremo, accanto a Baglioni: "Quando Claudio lo ha visto, non riusciva a crederci. E' stata un'esperienza straordinaria, ho avuto commenti talmente lusinghieri che Sting, a confronto - dice ridendo - si è rivelato un dilettante". Quella 'maglietta fina' di Questo piccolo grande amore trasformata in 'storia maledetta' ha rafforzato l'affetto del pubblico per la giornalista, osannata dal web, adorata dai 'leosiners' che sono soprattutto giovani: "E' una responsabilità, uno stimolo, una motivazione in più. Il successo? E' una parola effimera. Forse la gente mi ama perché, al di là del mio impegno, sente che sono una persona semplice".

"Con Cosima e Sabrina vi racconto la verità sull'inferno di Avetrana". Stasera a «Storie Maledette» il colloquio in cella. «Ma i pedofili mai: non voglio mostri», scrive Paolo Scotti, Domenica 11/03/2018, su "Il Giornale". Si dice che prima d'indagare sui misteri altrui ci si debba interrogare sul proprio. E l'enigma che avvolge Franca Leosini inesorabile investigatrice delle anime nere di Storie maledette (da stasera alle 21,20 su Raitre) - è: come può una garbata signora provare interesse per i mostri che intervista? «Le mie non sono interviste ma incontri. E quelli che incontro non sono mostri ma uomini caduti nelle tenebre del male».

Signora Leosini: stasera lei avvicinerà Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, entrambe all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Cosa prova di fonte a persone simili? Curiosità? Rabbia? Pietà?

«Innanzitutto rispetto. E poi, spesso, compassione. I delitti non si giustificano mai. Però si devono interpretare. Capire è un dovere. Io non sono un pubblico ministero. Sono un'indagatrice dell'anima».

Insomma la pensa come Papa Francesco, che ai carcerati disse «Potrei essere al posto vostro».

«Esattamente. Un cuore di tenebra batte nel petto di ciascuno di noi. Non m'interessa il criminale in quanto tale: è l'uomo, che voglio indagare. Il mostro assoluto no: per questo non ho mai incontrato un pedofilo».

Ma loro perché l'incontrano? Un'estrema speranza di riabilitazione? Un insperato processo d'appello?

«Un po' tutte queste cose. Certo: loro sanno che ne avranno un restauro d'immagine. Chi accetta di scendere con me nell'inferno del passato, spera di gettare un ponte fra sé e la società nella quale, prima o poi, è destinato a ritornare».

E lei? Non prova alcuna inquietudine, neppure un po' di malessere, dopo essersi immersa in queste storie?

«Le vivo come psicodrammi. Dopo aver conosciuto la Misseri e la Serrano non ho chiuso occhio. La verità è che il callo non lo fai mai. Quando Mary Patrizio spiegò nei dettagli come uccise il figlio di cinque mesi, ricorsi a tutto il mio coraggio per non scoppiare a piangere».

Da Angelo Izzo a Patrizia Gucci a Pino Pelosi. Quanti di loro si dichiarano innocenti e quanti ammettono la colpa?

«Diciamo metà e metà. La verità vera non sempre coincide con quella processuale. Per ottenerla talvolta pongo domande durissime. I miei amici si stupiscono che io non riceva come risposta un cazzotto in faccia».

E le risposte sono davvero sincere? Mai dubitato d'essere ingannata, forse strumentalizzata?

«Una volta sola, con una donna molto celebre. Ma io sono ferratissima: studio per mesi tutti gli atti processuali, solo per Avetrana diecimila pagine di faldoni. Non gliela feci passare liscia».

E non teme di sottoporre i suoi spettatori al fascino del male? O di rendere i suoi ospiti degli eroi negativi?

«Quel fascino lo ha già abbondantemente esercitato la cronaca nera, che il male lo strumentalizza in innumerevoli programmi, da mattina a sera. Io cerco invece di capirlo. C'è una bella differenza».

I suoi incontri favoriscono in queste persone una presa di coscienza? Magari l'inizio di una redenzione?

«Ecco la mia soddisfazione più grande! Con molti di loro resto in contatto epistolare: Quante cose ho capito di me e di quel che ho fatto, mi scrivono. Fabio Savi, il capo della banda della Uno Bianca, mi scrisse d'essersi profondamente pentito. Ma mi chiese di non parlarne, e io mi astenni. Ho fatto cose troppo terribili perché possa permettermi di dire pubblicamente che ne sono pentito».

Delitto di Avetrana, Cosima e Sabrina in tv per la prima volta: i volti e le tappe dell’omicidio di Sarah Scazzi. Il verdetto della Cassazione arriva a sei anni e mezzo dall’assassinio della 15enne — oggetto della puntata di Storie Maledette di Franca Leosini. Confermato l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia della vittima, e gli 8 anni di reclusione per lo «zio Michele» ritenuto responsabile di soppressione di cadavere, scrive Angela Geraci l'11 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Per le prima volta le due donne protagoniste di uno degli episodi di cronaca nera più drammatici degli ultimi anni raccontano la loro versione dei fatti. Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, condannate all’ergastolo in terzo grado per l’omicidio di Sarah Scazzi, sono ospiti della prima puntata della sedicesima edizione di «Storie Maledette», il programma ideato, scritto e condotto da Franca Leosini, su Rai3. Oggi scontano la pena nel carcere di Taranto. Due le puntate che ne ricostruiscono la vicenda processuale e umana: «Sarah Scazzi: quei venti minuti per morire», la prima parte in onda domenica 11 marzo e la seconda domenica 18 marzo. Ecco cos’è successo, sei anni fa, ad Avetrana.

La scomparsa in un pomeriggio di agosto. Sarah Scazzi sparisce nell’arco di 12 minuti mentre percorre 600 metri nel cuore del suo paese, Avetrana (Taranto). In pieno giorno. A quell’ora, le 14.30 di un giovedì di fine agosto, le strade sono deserte e cotte dal sole. La ragazza ha 15 anni, studia all’istituto alberghiero ed è uscita di casa per andare dalla cugina Sabrina Misseri con cui deve andare al mare. Sabrina sogna di fare l’estetista, ha 22 anni e nonostante la differenza di età è molto legata a Sarah tanto da portarla anche fuori la sera insieme ai suoi amici più grandi. La ragazzina passa molto tempo nella villetta di via Grazia Deledda dove Sabrina vive con i genitori Cosima e Michele. Qualcuno la vede lungo la breve strada tra le due abitazioni, cammina spedita e indossa gli auricolari, non immagina che quelli sono gli ultimi istanti della sua vita. Passano i minuti e Sarah non arriva all’appuntamento: Sabrina cerca di chiamarla sul cellulare ma risulta staccato. Allora dà l’allarme perché «l’hanno certamente rapita», dice «agitata» all’amica Mariangela Spagnoletti che doveva andare in spiaggia con loro. È il 26 agosto del 2010.

40 giorni di ricerche e il cellulare nell’uliveto. La mamma di Sarah, Concetta Serrano, fa la denuncia di scomparsa la sera stessa. Da subito telecamere e giornali iniziano a seguire attentamente la storia della ragazzina esile e bionda sparita incredibilmente nel nulla. All’inizio si punta sulla pista del rapimento a scopo di riscatto ma presto appare chiaro che le condizioni economiche della famiglia non sono tali da giustificare uno scenario del genere. Sarah vive con la madre ad Avetrana mentre il padre Giacomo fa il muratore a Milano, dove sta anche il fratello maggiore della 15enne, Claudio. Gli inquirenti prendono in esame anche la possibilità di un allontanamento volontario, sebbene sia difficile che una ragazzina se ne vada via in tenuta da mare e senza un soldo. L’ha aiutata qualcuno? È possibile che nessuno abbia visto o sentito nulla? Mentre vanno avanti le ricerche in paese e nelle campagne che lo circondano, si moltiplicano i falsi avvistamenti di Sarah. I parenti della ragazza sono sempre in tv a fare appelli, soprattutto Sabrina che con un fazzoletto appallottolato in mano racconta tra le lacrime davanti alle telecamere il suo rapporto con la cuginetta.

Tutto cambia il 29 settembre, quando Sarah è scomparsa da trentatrè giorni: lo zio Michele, padre di Sabrina, trova in un uliveto il telefonino della nipote. Era senza batteria e scheda Sim, bruciacchiato, in un podere ad alcuni chilometri di distanza da Avetrana. Le televisioni si avventano sull’uomo, un anziano contadino che era emigrato in Germania e poi è tornato nel suo paese. Con un cappellino calato in testa, singhiozzando, l’uomo racconta di essere andato in campagna per recuperare un cacciavite dimenticato e di aver visto il cellulare a cui erano legati un lucchettino e un ciondolo a forma di lattina. «Il cuore me lo diceva che era di Sarah», dice prima di fare una strana precisazione: «È stato proprio un caso che lo abbia trovato io e ho detto ai carabinieri di non dire nulla a nessuno per evitare che la gente potesse pensare “Proprio lo zio lo doveva trovare!”. Ma la notizia è circolata lo stesso».

Le confessioni dello «zio mostro». Zio Michele resiste cinque giorni agli interrogatori, poi il 6 ottobre 2010 crolla: «Ho ucciso io Sarah». L’uomo racconta di averla strangolata nel suo garage in una sorta di «raptus». Poi aggiunge un particolare che lascia tutti sbigottiti: quando la ragazzina era già morta, lui avrebbe abusato sessualmente del suo corpo prima di gettarlo, senza vestiti, in un pozzo. L’indignazione degli italiani è grande, compaiono striscioni contro «l’orco» negli stadi e ad Avetrana. Michele Misseri accompagna gli inquirenti nelle campagne intorno al paese e fa ritrovare il cadavere di Sarah, gonfio e irriconoscibile. In quel momento la mamma della ragazzina è collegata con la trasmissione «Chi l’ha visto?» e tra mille imbarazzi viene avvisata del ritrovamento in diretta.

Ma Michele, portato subito in carcere, cambia presto versione. Qualche giorno dopo, il 15 ottobre, chiama in causa a sorpresa sua figlia Sabrina sostenendo che lei ha trattenuto Sarah mentre lui la strangolava in garage. Intanto l’autopsia lo smentisce a proposito della violenza su Sarah: sul corpo non ci sono tracce di abusi, Michele ha detto un’abominevole bugia. L’uomo però non ha ancora finito di «correggere» la sua confessione: in un’ulteriore versione, cristallizzata in un incidente probatorio il 19 novembre 2010, attribuisce tutta la responsabilità alla figlia, sostenendo di avere visto Sarah quando era già morta e di essersi occupato solo di nascondere il corpo. Mai, in tutte le sue ricostruzioni, fa riferimento al ruolo della moglie Cosima di cui appare succube. Sabrina viene arrestata.

Il movente, Ivano e la gelosia. Michele, accusando la figlia, fornisce anche il movente del delitto: la gelosia. Sabrina e Sarah si erano infatti invaghite dello stesso ragazzo, Ivano Russo, e per lui avevano litigato il 25 agosto, la sera prima del delitto. Vengono analizzati gli sms scambiati tra i giovani, si entra nelle memorie dei telefonini a caccia di foto, si raccolgono le voci di amici e conoscenti. Salta fuori che Sabrina e Ivano avevano avuto una relazione che poi si era interrotta bruscamente per volere di lui. Anche il 26enne viene sentito più volte dagli inquirenti, mentre la stampa gli dà la caccia: «Voi giornalisti mi perseguitate, addirittura i paparazzi mi vengono dietro, vorrei chiedere di lasciarmi in pace. C’è un limite a tutto», si sfoga in un’intervista al Corriere del Mezzogiorno. «Sarah per me era una tenera amica poco più di una bambina e non sapevo quali fossero i suoi sentimenti sul mio conto: questa è stata la mia unica colpa», sostiene Ivano. Durante il processo poi racconterà: «Il giorno del delitto o il giorno dopo Sabrina mi mandò un sms dicendo che aveva trovato un diario di Sarah in cui diceva che aveva un debole per me. Mi disse che non lo consegnava di comune accordo con la madre di Sarah perché temeva che mi indagassero. Io non risposi e poi ho cancellato questo messaggio perché mi spaventai. Forse sarebbe stato meglio consegnarlo, forse ho sbagliato e avrei dovuto dirlo». Oggi Ivano è indagato nell’inchiesta bis (insieme a sua madre, suo fratello e una ex fidanzata) per false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza alla Corte d’assise.

Un delitto «di famiglia». Nella brutta storia di Sarah entrano altri personaggi, tutti legati a lei da vincoli di parentela. Il 23 febbraio 2011 vengono arrestati anche Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello e nipote di Michele: sono accusati di concorso in soppressione di cadavere. Hanno, cioè, aiutato «zio Michele» a disfarsi del corpo di Sarah. Per questo il 20 aprile 2013 vengono condannati in primo grado a 6 anni di reclusione. L’anno successivo Cosimo, 46 anni, muore dopo una lunga malattia.

Il paese, il fioraio e la «sfinge» Cosima. Sullo sfondo della vicenda, con il passare dei giorni, acquista sempre più peso il paese di Avetrana, immerso a lungo in un silenzio omertoso: le persone non parlano, appaiono intimorite. Al punto da riferire circostanze e poi ritrattare tutto con motivazioni grottesche. È il caso del fioraio Giovanni Buccolieri che prima dice di aver visto Cosima e la figlia Sabrina rincorrere per strada Sarah e costringerla a salire sulla loro auto, poi - dopo poche ore - spiega al magistrato che si è confuso: «Era un sogno». Verrà accusato di false dichiarazioni al pm. Il 26 maggio 2011 Cosima - donna di polso e di poche parole, il volto dai lineamenti pietrificati - viene arrestata e raggiunge Sabrina in carcere. L’accusa è quella di concorso in omicidio e sequestro di persona. Tra lei e la sorella minore Concetta, la mamma di Sarah, da tempo non c’erano buoni rapporti. Quattro giorni più tardi torna invece in libertà il marito Michele, accusato a questo punto soltanto di soppressione di cadavere. In pochi giorni, comunque, l’intera famiglia Misseri è andata in frantumi. L’unica non toccata dalle indagini è Valentina, la sorella maggiore di Sabrina che vive lontano da Avetrana, a Roma, con il marito. «Mia madre e mia sorella non c’entrano assolutamente niente con questa storia - commenta a caldo - il problema è che si è parlato troppo».

La ricostruzione dell’omicidio. Secondo l’accusa Sarah litiga con Sabrina appena arrivata alla villetta dei Misseri, il 26 agosto. Dopo il litigio la 15enne esce con l’intenzione di tornare a casa sua ma viene raggiunta in auto dalla cugina e dalla zia che la riportano indietro con la forza. E la uccidono strangolandola con una cintura. Poi il corpo viene portato in garage e fatto successivamente sparire da Michele con l’aiuto del fratello e del nipote. L’analisi delle celle telefoniche parla chiaro a proposito dei movimenti delle imputate. Il delitto secondo i pm è stato «l’apice di una situazione di tensione mista ad ira» perché «Se Cosima è uscita e ha preso l’auto per riprenderla vuol dire che era necessario impedire che Sarah tornasse a casa e raccontasse le ragioni del litigio e di tutto ciò che era accaduto in casa Misseri. Qualcosa di grave, legato allo stato di tensione tra le due cugine». Dalla lettura di alcuni sms tra Sabrina e Ivano emerge infatti un «contesto scabroso che avrebbe caratterizzato la comitiva di cui faceva parte anche Sarah, dove i discorsi a sfondo sessuale sarebbero stati un’abitudine e dove compare persino uno “spogliarello” maschile con “paghetta” per lo spettacolo offerto. Un contesto - sostiene l’accusa - che se fosse stato svelato anche dalla stessa Sarah alla madre avrebbe danneggiato irrimediabilmente l’immagine della famiglia Misseri in un piccolo centro di provincia quale Avetrana: quel 26 agosto, in quella casa, è mancata la pietà umana e ha prevalso l’istinto di conservazione». Insomma, Sarah è stata uccisa e gettata in un pozzo per paura del giudizio del paese sui comportamenti di un gruppo di ragazzi.

Le sentenze e il verdetto della Cassazione. Durante il processo di primo grado Michele Misseri torna ad addossarsi la responsabilità del delitto ma nessuno gli crede più. A iniziare dal suo legale che si dimette subito dopo le dichiarazioni rese in aula del contadino di Avetrana. Misseri in aula con un pezzetto di quella che lui dice essere stata l’arma del delitto: «Ho utilizzato la corta perché era appoggiata sul trattore, se avessi avuto il cacciavite avrei preso il cacciavite»

Il 20 aprile 2013 Sabrina e Cosima, che stanno nella stessa cella, vengono condannate all’ergastolo. Il pubblico che assiste alla lettura della sentenza applaude, la ragazza piange disperata, la madre non muove un muscolo facciale e dice alla figlia: «perché piangi? Tanto lo sapevamo». A Michele vengono inflitti 8 anni, per i due complici che l’hanno aiutato a nascondere il corpo di Sarah la pena è di 6 anni.

Poco più di due anni dopo, il 27 luglio 2015, i giudici d’appello confermano le condanne. In quella occasione Cosima esce dal suo silenzio e prende la parola in aula: «Sono passati duemila anni e Gesù venne condannato dal popolo: come allora tutti vogliono che siamo condannate - dice - Oggi tutti i giorni vengono condannati degli innocenti». Anche Sabrina, in lacrime, chiede di parlare: «Non ce la faccio se penso che secondo voi io avrei potuto uccidere Sarah! Io non l’ho uccisa».

Il verdetto della Cassazione arriva il 21 febbraio 2017 e conferma l’ergastolo per Sabrina e Cosima e gli 8 anni per Michele Misseri. Lo zio di Sarah dovrà dunque tornare in carcere. Sconto di pena di un anno invece per il fratello Carmine che in appello era stato condannato a 5 anni e 11 mesi.

Sabrina Misseri, in carcere per la morte della cugina Sarah Scazzi, si racconta a i microfoni di Fanca Leosini. La ragazza che sta scontando l'ergastolo con la madre Cosima Serrano parla anche del rapporto con il suo amico Ivano Russo chiarendo alcuni pettegolezzi. Franca Leosini è esplicita e le dice: «Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei». La replica irritata di Sabrina: «Questo lo dice lei...» (nda Quel “lo dice lei” è riferito ad Anna Pisanò).

LE FRASI CULT:

L’incauto giovanotto mentre, frenando i suoi ardori lombari, si rinforcava le mutande...

Flaiano ha scritto “i grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo?" Con Ivano a lei è accaduto questo, Sabrina? 

"Quando scompari misteriosamente in un giorno d'estate, subito hai diritto a una biografia. Anche se hai solo 15 anni, se sei sottile come un gambo di sedano e ti chiami Sarah".

Baruffe, Sfarinarsi, Sfortunata creatura, Cottarella, Massimamente, Primavera di vita, Essere a portata di cazzeggio, Bamboleggiare, Rosicare, Ammusato, Pensierini tarlati, Bipede sgualcito, Epopea baraccona, Notte sbadata, Dribblare gli amici, Incauto giovanotto, Ardori lombari, Pietra liberata di qualche capo di biancheria, Operazione spogliarello, Livello di affondo, Notte sgarbata, Notte interrotta, Incauta idea, Babbalona, Chiacchiera lesiva, Bellu tipu stu guaglione, Succede casamicciola, Chiacchiericcio, Quel suo Dio senza più Cielo, Esiziale, Cazziare di brutto, Urlacchiata, Smorfieggiare, Telenovela messicana, Annunziare, Denunziare, Variegato teatrino, Servizietti, Ragazza briosa, Andare ammmare, Un momentino!, Fatalmente, Ingorgo mentale, Giorni ansiosi, C'è una cosa che si chiama MISURA, Acrobazie dell'immaginario, Buia quaresima, Immobile geografia del mistero, Balbettare turbato, Piagnucolare, Breccia insperata.

«Storie Maledette», Franca Leosini torna in tv e Twitter impazzisce per lei, scrive il 12 marzo 2018 “Il Corriere della Sera”. Ci sono “gli ardori lombari” dell’incauto giovanotto. E “l’immobile geografia del mistero”. E c’è soprattutto lei, Franca Leosini. Che a “Storie maledette” ripercorre uno dei delitti che più hanno sconvolto l’opinione pubblica degli ultimi anni, quello di Avetrana. Intervista in carcere Cosima Serrano e Sabrina Misseri, ma a conquistare il web è il modo, in cui la conduttrice racconta la vicenda e interpella le due. Così Ivano Russo diventa “l’incauto giovanotto”, e Sabrina “sentimentalmente genuflessa”.

Animazioni, vignette, su Twitter Franca Leosini diventa subito una star. Franca Leosini e le sue metafore su Sarah Scazzi. Sul web è trionfo, scrive lunedì 12 marzo 2018 "Il Secoloditalia.it". E’ stato un ritorno in grande stile quello di Franca Leosini su Raitre con le sue Storie maledette. La puntata di esordio del programma ha avuto al centro il giallo di Avetrana con le interviste a Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi.  Il segreto del successo della Leosini sta nel suo modo sarcastico e arguto di porre le domande. “Mi accosto a questi personaggi – ha spiegato lei stessa – non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta”. Sui social i fan si sono scatenati nel commentare la puntata e soprattutto il linguaggio usato dalla giornalista, che già nell’introdurre il tema ha fatto ricorso alle sue celebri metafore: “Quando scompari misteriosamente in un giorno d’estate, subito hai diritto a una biografia. Anche se hai solo 15 anni, se sei sottile come un gambo di sedano e ti chiami Sarah”. E ancora: “Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana. Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina che ha i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scompare”.

Storie Maledette: dagli «ardori lombari» ai «crateri di cellulite». Ecco le frasi cult della Leosini sul caso Scazzi, scrive lunedì 12 marzo 2018 Giovanni Rossi su "Davide Maggio". Franca Leosini torna a parlare e far parlare. Nella prima puntata del 2018 di Storie Maledette la giornalista ha intervistato Sabrina Misseri e Cosima Serrano, in carcere per la morte di Sarah Scazzi. E nella lunga intervista in onda ieri sera su Rai 3 (di cui è stata trasmessa solo la prima parte) la Leosini ha sfoderato una serie di espressioni che conferma, ancora una volta, come il suo stile così arzigogolato sia un marchio di fabbrica in grado di catalizzare l’attenzione del pubblico. Ecco quindi una rassegna delle frasi “cult” pronunciate da Franca Leosini nel corso della prima puntata di Storie Maledette 2018.

La frase emblema della serata è quella in cui Franca chiede a Sabrina Misseri come ci si sente ad essere rifiutate durante un approccio sessuale: “L’incauto giovanotto, mentre - frenando i suoi ardori lombari – s’inforcava le mutande, come si giustificava con lei?”.

Poco prima la giornalista aveva stuzzicato Sabrina – secondo lei “sentimentalmente genuflessa” -, per farsi dire che tra lei e Ivano ci fosse qualcosa in più di una semplice amicizia: “Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei”.

E ancora, non riuscendosi a spiegare il successo riscosso da Ivano tra le ragazze di Avetrana, Franca dice che “Brad Pitt in confronto sembra un bipede sgualcito”. Il giovane viene definito anche: “A portata di cazzeggio”. Poi, rivolgendosi a Sabrina, parlando della sua presunta ingenuità, le confessa: “Lei è proprio una babbalona. Ma perché chiacchierava tanto?” .

Sul suo rapporto con il “Delon” di Avetrana, Franca chiede alla galeotta: «Flaiano ha scritto “i grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo?”. Con Ivano a lei è accaduto questo, Sabrina?».

Altra perla della serata è quella relativa alla professione di estetista svolta dalla Misseri all’epoca dei fatti. Franca Leosini vuole sapere: “Al di là di spianare crateri di cellulite sulle cosce delle signore di Avetrana, lei che faceva?”.

E sempre su tale argomento si lascia andare a una considerazione: “Oggi anche per spremere una foruncolo ci vuole un master”.

La giornalista definisce l’intera vicenda una “epopea baraccona”, e parla delle voci di paese come di “becera chiacchierologia”. Arriva addirittura a rabbrividire per il congiuntivo sbagliato usato da Sarah Scazzi sulle pagine del suo diario: A proposito del diario della vittima, quando Sabrina Misseri sembra mentire sulle intenzioni che l’avrebbero spinta a leggerlo, Franca Leosini chiede elegantemente: “Mi permette di dubitarne?”. La giornalista ironizza su un colorito diverbio via sms tra Sabrina e Ivano e lo descrive come “uno scambio di opinioni di alto livello”, poi chiosa con un “Del senno di poi sono piene le fosse” davanti al pentimento della Misseri per aver rilasciato troppe dichiarazioni al tempo dei fatti. Non mancano nemmeno le similitudini religiose: “Dopo 40 giorni, 40 come una buia Quaresima, c’è un primo, clamoroso colpo di scena che scompagina l’immobile geografia di quel mistero”.

Franca Leosini intervista Sabrina Misseri e le sue citazioni conquistano il web. La prima puntata della nuova edizione di Storie Maledette è stata dedicata al delitto di Avetrana, scrive Giuseppe D'Alto, Esperto di Tv e Gossip, su "it.blastingnews.com" il 12 marzo 2018. Dopo il duetto canoro conClaudio Baglioni a Sanremo, #franca leosini è tornata protagonista della prima serata di Rai 3 con #storie maledette, con uno dei casi più dibattuti e controversi della cronaca italiana: il delitto di Avetrana. La giornalista ha riferito di aver studiato diecimila atti processuali prima di intervistare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per la morte di Sarah Scazzi. Dopo averle incontrate non ho chiuso occhio, ha riferito a Il Giornale. La Leosini ha riavvolto il nastro ed ha provato a ripercorrere passo dopo passo con la Misseri quella tragica estate di otto anni fa. ‘Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana.

Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina con i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scomparve‘. L’eleganza e la raffinatezza con la quale la conduttrice ha affrontato il delicato argomento hanno reso ancora più affascinante narrazione e intervista. La giornalista è passata con eleganza da un linguaggio forbito a quello più popolare per trattare argomenti più intimi e stimolare l’interlocutrice.

Frasi e citazioni sono diventate virali. Frasi e sottolineature che sono diventate subito virali sul web, con Storie Maledette che ha conquistato rapidamente la topic trend di Twitter. Facendo riferimento all’attività di estetista della Misseri, la Leosini ha sarcasticamente affermato: Oggi anche per un foruncolo sembra ci voglia il master. In riferimento al flirt della cugina di Sarah con Ivano la conduttrice ha citato Flaiano: I grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo? Sul rapporto con il ragazzo, la Leosini si è soffermata a lungo nel corso della prima parte dell’intervista con Sabrina: Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei.

Io e Sarah vittime di bullismo. La descrizione dell’incontro in auto della Leosini è stato definito un capolavoro dai numerosi seguaci di Storie Maledette: L’incauto giovanotto, mentre frenando i suoi ardori lombari s'inforcava le mutande, come si giustifica con lei? Dall’altra parte Sabrina ha spiegato che Sarah era la sorella che non aveva mai avuto ed ha rivelato che entrambe sono state vittime di bullismo. ‘Lei si fidava di me e frequentando amici più grandi stava iniziando a credere di più in se stessa’. La Misseri ha ammesso di aver sbagliato a rilasciare tante interviste dopo la scomparsa della cugina.

Oggi non lo rifarei. Cosima Misseri si è soffermata sul rapporto con Sarah Scazzi ed ha spiegato che quando era piccola giocava con lei: Ho smesso di farlo quando mi ha detto che voleva essere adottata.

Franca Leosini e le sue “pillole”, Storie Maledette sul caso Avetrana è un grande evento tv La giornalista fa ritorno in tv trattando uno dei casi di cronaca più torbidi degli ultimi anni. Le interviste a Sabrina Misseri e Cosima Serrano diventano il teatro per le proverbiali perle della conduttrice, che come al solito trovano nei social un’immediata valvola di sfogo per innumerevoli citazioni, scrive il 12 marzo 2018 Andrea Parrella su "Fan page". Il ritorno di Storie Maledette in televisione era, probabilmente, uno degli appuntamenti più attesi di questa stagione televisiva. E si è confermato un evento. Franca Leosini, al netto della sua apparizione a Sanremo, era assente da diversi mesi dal piccolo schermo con nuove indagini sui casi di cronaca italiani più eclatanti degli ultimi anni. E l'attesa è stata soddisfatta con una puntata interamente dedicata al delitto di Avetrana, che vede condannate Sabrina Misseri e Cosima Serrano all'ergastolo per l'omicidio volontario di Sarah Scazzi e Michele Misseri ad 8 anni di reclusione per soppressione di cadavere e inquinamento di prove. La prima puntata della nuova stagione di Storie Maledette, concentrata per buona parte sull'intervista a Sabrina Misseri, è andata in onda su Rai3 domenica 11 marzo, confermando l'amore eterno instauratosi tra Franca Leosini e il suo pubblico. "Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana. Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina che ha i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scompare", questo l'incipit che caratterizzava lo spot promozionale apparso sulle reti Rai nei giorni scorsi, una premessa che prometteva benissimo.

Il frasario della conduttrice del programma si è arricchito di altri aforismi precocemente citati su Twitter dai tantissimi utenti che seguono la trasmissione televisiva di Rai3 riproponendo, con fare devoto, le costruzioni sintattiche elaborate, forbite e ficcanti della giornalista napoletana. L'account ufficiale della trasmissione riprende quella che probabilmente è stata la frase più richiamata della serata, quella con cui la Leosini descriveva l'incontro sessuale tra Sabrina Misseri e Ivano: Non seconda è la smorfia inorridita della Leosini nel leggere alcuni passaggi del diario di Sarah Scazzi e soffermarsi, in particolare, su un congiuntivo sbagliato. Qualcuno tira in ballo un riferimento politico piuttosto telefonato ("severo ma giusto", direbbe qualcuno) di questi tempi. E tra le tante pillole di Leosini emerse in serata non possono mancare i messaggi di piena e completa ammirazione per la personalità e l'aplomb di una delle conduttrici più apprezzate del piccolo schermo. Con un piccolo colpo di scena, che non era stato preventivato da molti, la puntata non si chiude con la terminazione del racconto, visto che ci sarà una seconda puntata di Storie Maledette sul caso di Avetrana, in onda domenica 18 marzo 2018, come prontamente Rai3 pochi secondi dopo la sigla finale. Con qualche reazione scomposta…

Perché "Storie Maledette" è ormai un evento tv. Non c'è dubbio che Storie Maledette abbia assunto, negli ultimi anni, i caratteri di un programma in cui il personaggio alla conduzione rischia di essere prevaricante rispetto alle vicende e ai protagonisti stessi delle storie maledette raccontate. Si può spiegare forse con questo pericolo, oltre che con l'enorme mole di studio che richiede una trasmissione come Storie Maledette, la parsimonia nelle apparizioni tv di Franca Leosini e il numero esiguo di puntate per singola stagione del programma. Tutti elementi che contribuiscono a rendere una trasmissione televisiva un grande evento.

Franca Leosini e "Storie maledette". Le sue frasi cult fanno impazzire i Leosiners. La conduttrice torna sui Rai Tre con le sue interviste garbatamente sconvolgenti ed è subito leosiners-mania, scrive Adalgisa Marrocco il 12/03/2018 su "Huffingtonpost.it". Grande ritorno televisivo per Franca Leosini, che ha aperto la nuova stagione di Storie Maledette, nella prima serata domenicale di Rai Tre, tornando al 2010 e al delitto di Avetrana. La conduttrice televisiva ha infatti intervistato Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Un ritorno attesissimo, quello della Leosini, divenuta vera e propria star del web, oltre che del piccolo schermo, grazie al suo stile elegante ma incisivo, e alla capacità di affrontare personaggi e casi di cronaca sconvolgenti con una compostezza che le impedisce di scadere nel sensazionalismo e nella TV urlata. Un atteggiamento che non ha mancato di procurarle l'adorazione di Facebook, Twitter e degli altri social network, anche in chiave affettuosamente ironica (emblematica la pagina Uccidere il proprio partner solo per essere intervistati da Franca Leosini). Anche stavolta Franca non ha tradito le attese e la prima puntata di Storie Maledette si è rivelata una miniera: Cosima "dimostra una modernità insospettata" e sembra "una donna del 3000"; Ivano, talmente bello che "Brad Pitt al confronto sembra un bipede sgualcito", "frena i suoi ardori lombari" con Sabrina, una "babbalona" che racconta un po' troppo in giro le sue faccende più intime. E quando la ragazza ripercorre i pensieri che la attraversavano nelle drammatiche ore dell'omicidio di Sarah, arrivando ad ipotizzare un fantomatico rapimento, Franca la incalza: "Neanche Avetrana fosse la Locride dei sequestri degli anni '70...". Finezze linguistiche e argomentazioni simili a colpi di fioretto che hanno scatenato la reazione social dei cosiddetti leosiners.

Franca Leosini e le sue frasi di culto, oltre 1 milione 800 mila spettatori. Grande attesa e grande esordio per il programma condotto da Franca Leosini: «Storie maledette» è stato visto da oltre 1 milione 800 mila spettatori (7,5% di share), scrive Renato Franco il 12 marzo 2018 su “Il Corriere della Sera”. Franca Leosini è tornata con la sua testa cotonata, gli occhi che guardano dritto per dritto, il suo lessico che mette in crisi gli accademici della Crusca, figurati un ergastolano, la sua capacità di raccontare il morboso in modo profondamente lieve. Domenica sono andate in scena le intervista a Sabrina Misseri e a sua madre Cosima Serrano che hanno raccontato la loro verità sull’omicidio di Sarah Scazzi. Grande attesa e grande esordio: Storie maledette è stato visto da oltre 1 milione 800 mila spettatori (7,5% di share, ampiamente sopra la media di Rai3 che è al 6,1%). Successo anche sui social, per quel che vale (il programma che genera maggiori discussioni non è detto che sia il più visto): la prima puntata è stata al primo posto dei programmi più commentati dell’intera giornata con oltre 132 mila interazioni.

Alla fine Sabrina si è pentita. Franca Leosini ha spiegato così il suo approccio ai casi che racconta: «La parola importante è rispetto. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta». Ma a rapire, come al solito, è il suo registro lessicale capace di pescare tra espressioni come «ardori lombari» ma non disdegnare di pronunciare parole come «cazzeggio». Le sue frasi sono già di culto: «Oggi non si prenderebbe a schiaffoni per aver scritto questi messaggi?»; «Oltre a spianare i crateri di cellulite sulle cosce delle signore di Avetrana, che vita faceva?»; «Flaiano ha scritto “i grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo?”. Con Ivano a lei è accaduto questo, Sabrina?»; «Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei»; «L’incauto giovanotto, mentre frenando i suoi ardori lombari s’inforcava le mutande, come si giustifica con lei?». Gioco, partita, incontro.

Storie Maledette, Sabrina Misseri e Cosima Serrano: ascolti record per la prima puntata. Franca Leosini, Storie Maledette: enorme successo per la prima parte dell'intervista a Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Le espressioni della giornalista rilanciate sui social, scrive il 13 marzo 2018 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Storie Maledette, il programma di Franca Leosini, è tornato in onda, in prima serata su Rai 3, domenica 11 marzo 2018, con un'intervista esclusiva rilasciata da Sabrina Misseri e Cosimo Serrano, le due donne coinvolte in uno dei casi di cronaca nera più eclatanti degli ultimi anni, l'omicidio di Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana. Come riporta Wikipedia, "il 21 febbraio 2017, la Corte suprema di cassazione ha definitivamente riconosciuto colpevoli e condannato all'ergastolo per concorso in omicidio volontario aggravato dalla premeditazione Sabrina Misseri e Cosima Serrano". L'intervista di Franca Leosini ha ottenuto i favori di pubblico e critica e l'entusiasmo dei cosiddetti "leosiners", la fascia di pubblico giovane che segue Storie Maledette e che riporta fedelmente le frasi cult della giornalista sui social network. E il ritorno di Franca Leosini sul piccolo schermo è stato premiato anche dagli ascolti: la prima puntata della nuova edizione di Storie Maledette è stata seguita da 1.855.000 telespettatori con uno share pari al 7.5%. (Aggiornamento di Fabio Morasca)

LE DICHIARAZIONI DI STEFANO COLETTA. Un «fenomeno televisivo», così viene definita Franca Leosini dal direttore di Raitre Stefano Coletta. Soddisfatto per i numeri registrati dal suo Storie Maledette, Coletta ha fatto i complimenti alla giornalista e conduttrice, diventata una superstar sul web. «La perizia d'indagine e la narrazione costruita su un appassionato linguaggio letterario fanno di Franca Leosini un fenomeno televisivo. Dietro l'ottimo dato di ascolto di Storie Maledette, si nasconde una platea istruita, prevalentemente femminile e fortemente interattiva». Il programma ha fatto infatti registrare 132 mila interazioni sui tre principali social network, classificandosi al primo posto tra le trasmissioni televisive più commentate in rete. C'è grande soddisfazione a Raitre per i risultati complessivi raggiunti nel 2018, infatti è considerata «saldamente la terza rete generalista». (agg. di Silvana Palazzo) 

PROFESSIONALITÀ INECCEPIBILE PER IL WEB. A Storie Maledette, Franca Leosini ha intervistato Sabrina Misseri, tornando quidi sul caso dell'omicidio di Sarah Scazzi. A colpire, oltre alle parole della Misseri, è stata la grande professionalità e il carattere fermo e deciso della Leosini. Tanti i commenti d'apprezzamento per la conduttrice: "Un racconto reso unico dalla professionalità ineccepibile della Leosini. - scrive una telespettatrice sui social dedicati alla nota trasmissione - Con le giuste parole e l'appropriato pathos si è materializzata la vita breve Della piccola Sarah. Il "babbalona" detto più volte a Sabrina è arrivato come un rimprovero fatto ad una figlia, che ha sbagliato e non può più tornare indietro. [...] In attesa di domenica io oggi guarderò nuovamente la puntata di ieri. Dalla tanta maestria si può solo imparare. Grazie" (Aggiornamento di Anna Montesano)

GRANDE SUCCESSO PER LA LEOSINI. Franca Leosini con il suo stile elegante e dissacrante insieme, è tornata ieri in occasione del nuovo ciclo di puntate di Storie Maledette, su RaiTre. Un appuntamento oltremodo atteso non solo per la sua collocazione nel prime time (scelta del direttore di rete, come specificato dalla stessa Leosini in una recente intervista al blog DavideMaggio) ma anche per il calibro delle protagoniste, ben due, intervistate: Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Saranno due le puntate dedicate al delitto di Avetrana nel corso delle quali la padrona di casa, dal carcere di Taranto, ha ripercorso le tappe che hanno portato alla morte di Sarah Scazzi, rispettivamente cugina e nipote delle due intervistate, entrambe condannate nei tre gradi di giudizio all'ergastolo. La doppia intervista ha visto Sabrina e la madre Cosima intervistate separatamente in due differenti sale. Una scelta anche questa voluta fortemente dalla Leosini per non farle influenzare nel corso dei loro racconti-ricordi. Protagonista assoluta è stata però Sabrina, alla quale è stata dedicata gran parte della prima puntata di Storie Maledette dedicata al delitto Scazzi. A farla da padrona non sono state tanto le lacrime che in più occasioni hanno rigato il viso della giovane Misseri, oggi trentenne, quanto piuttosto il linguaggio forbito, misto allo stile classico che la signora Leosini ha portato in tv e che in qualche modo contrastavano con il lessico semplice e a tratti insicuro di Sabrina e della madre. Messa in piega come sempre impeccabile, tailleur sartoriale scuro ed elegante e quasi una sorta di tenerezza che ha dimostrato in certi passaggi dell'intervista a Sabrina: la Leosini è andata avanti spedita, con frasi pungenti, altre capaci finanche di strappare un sorriso nonostante lo scempio di un delitto che ha spezzato la vita di una 15enne innocente che, come ricordato nell'esordio dalla stessa giornalista, fa ora parte della schiera degli angeli.

STORIE MALEDETTE DI FRANCA LEOSINI: SUCCESSO TV E SOCIAL. Un successo atteso e meritato, quello segnato ieri sera dalla prima parte dell'intervista a Sabrina Misseri e Cosima Serrano realizzata da una magistrale Franca Leosini nella sua trasmissione Storie Maledette. Il pubblico e i numerosi leosiners hanno premiato ancora una volta la signora del giornalismo italiano, che con la sua eleganza e le sue frasi diventate oggi già virali, ha segnato un ottimo risultato in termini di ascolto tenendo incollati al piccolo schermo 1.855.000 telespettatori con una share media del 7.5%. Un risultato senza dubbio migliore rispetto a quello che era stato registrato nell'esordio della passata stagione, quando l'intervista a Rudy Guede, condannato per il delitto di Perugia, aveva invece interessato 1.459.000 con share del 5.32% nonostante il clamore. Enorme anche l'interazione social che ha permesso di far volare la prima puntata di Storie Maledette direttamente in cima alle tendenze dei programmi più commentati dell'intera giornata, con oltre 132 mila interazioni. Ad appassionare saranno certamente state quelle domande così prive di pregiudizio, lo stesso che Sabrina ha invece più volte denunciato. Sua premura quello di fornire al telespettatore un ritratto visto da un'angolazione inedita rispetto a quello emerso dalle pagine di cronaca nera. Non è un caso se proprio a proposito della sua trasmissione la Leosini aveva commentato, come spiega TvZap: "La parola importante è rispetto. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta". Qual è il ritratto che la giornalista ha tracciato di Sabrina? Come da lei ribadito nel corso della puntata, certamente quello di una ragazza "insicura e fragile", ma anche "sentimentalmente genuflessa" a Ivano Russo, il tutto condito da frasi ironiche durante la lettura dei loro sms le cui espressioni non sono passate inosservate dagli spettatori, subito rilanciate sui principali social in attesa del secondo capitolo.

Leosini fa il record con Avetrana: “Affronto le storie con equidistanza”, scrive il 13/03/2018 Michela Tamburrino su "La Stampa". Un fenomeno televisivo quello di Franca Leosini, capace di catalizzare l’interesse del pubblico, di strappare audience alla concorrenza anche di casa e di tracciare una linea netta su come si fa televisione d’inchiesta. Storie maledette raccoglie il 7.53% di share, quasi 1,9 milioni di telespettatori (e punte dell’11% di share e 2 milioni) e segna il record di ascolto del programma dal 2014, domenica su Rai 3 in prima serata. Una platea, la sua, istruita, prevalentemente femminile e fortemente interattiva. Il programma va fortissimo sui social network, è il commentato del giorno in Rete. Merito di Leosini che è un’icona e non solo nell’universo spinoso della giudiziaria. Conducesse Sanremo probabilmente il successo sarebbe lo stesso, tanto è entrata nell’affezione del telespettatore generalista. «Merito» anche delle protagoniste della prima puntata di domenica sera, al centro di una storia che prenderà due appuntamenti.  Dall’altra parte del tavolo siede Sabrina Misseri, giudicata colpevole d’aver ucciso la cuginetta Sarah Scazzi. Per gelosia, per amore. Con lei, condannata anche la madre Cosima che per una felice intuizione di sceneggiatura è stata posta ad interagire con la figlia ma in lontananza.  

Ma perché questa storia ha tanto catturato l’interesse della gente? Forse perché Leosini ha dato una lettura diversa della vicenda mettendo in luce le crepe dell’inchiesta e confrontando la verità processuale con la verità possibile?  

«Io affronto sempre le storie che tratto con grande equidistanza, per rispetto del protagonista e per rispetto del pubblico. Un dovere morale per una professionista come me che sa valutare le conseguenze di un processo. Bisogna anche dire che esistono eventi di cronaca che diventano storia. Questo attiene alla realtà dei personaggi e all’ambiente in cui i fatti avvengono. Luoghi che si fanno paesaggi dell’anima».  

Come Avetrana, un piccolo centro che rimanda un po’ Peyton Place, oppure?  

«Se dovessimo fare un parallelo italiano, parlerei di Cogne, per l’intensità dei personaggi». Archetipi tragici che si muovono in un universo malato. «Nella prima puntata ho descritto l’ambiente, il paese che da luogo gentile si trasformerà in capitale del pettegolezzo. Nella seconda puntata la figura del padre di Sabrina, Michele Misseri, esploderà. Per la prima volta intervisterò una collega giornalista, la vostra Maria Corbi che per lavoro è stata molto addentro alla storia che narriamo». 

Franca Leosini, soddisfatta degli ascolti?  

«Sono molto contenta per la rete anche perché avevamo contro concorrenti di peso: Fazio, Giletti e la partita Napoli-Inter». Perchè i protagonisti delle Storie maledette si fidano di lei così tanto? «Perchè affronto con loro la fatica del ricordo».  

Scazzi, Sabrina Misseri e Cosima raccontano in tv: "Voleva farsi adottare da noi". La cugina e la zia della 15enne uccisa nel 2010, condannate all'ergastolo, raccontano la loro versione nel programma Rai di Franca Leosini. Sabrina scoppia in lacrime: "Mi hanno dipinta come un serial killer", scrive il 12 marzo 2018 “La Repubblica”. Sabrina Misseri e a sua madre Cosima Serrano raccontano la loro versione del delitto d'Avetrana, e lo fanno in tv nella trasmissione Storie Maledette di Franca Leosini. Le due donne, con l'accusa di aver ucciso la piccola Sarah Scazzi, scontano l'ergastolo nel carcere di Taranto. Sabrina racconta il forte legame con la piccola Sarah era "la sorella che non ho mai avuto, viveva praticamente da noi - spiega Sabrina - Non aveva un'alta autostima e la portavo con i miei amici perché si lasciasse un po' andare". Sabrina parla della cugina con affetto. Ma è Cosima che racconta aspetti sinora sconosciuti: "La piccola Sarah era molto legata a noi, voleva farsi adottare e portava una mia foto nella borsa dicendo che si trattava di sua madre". Sabrina ripercorre poi nelle risposte il rapporto con Ivano Russo, dal momento in cui lo conobbe all'innamoramento divenuto ossessione e che secondo gli inquirenti sarebbe all'origine della tragedia. Poi la ricostruzione, penosa, dell'ultimo pomeriggio con Sarah. Una manciata di minuti, dalle 14 alle 14.30 circa in cui secondo gli inquirenti si sarebbe consumato l'omicidio della ragazzina all'interno del perimetro della villetta dei Misseri. Leosini sottopone Sabrina a domande molto dirette su quegli istanti e sui messaggi scambiati con Sarah e l'amica Mariangela, che per gli inquirenti sarebbero il tentativo diabolico di depistaggio messo in piedi dalla giovane. Lei scoppia a piangere, "mi hanno dipinta come un serial killer". 

Caso Scazzi, Storie Maledette nel carcere di Taranto. Cosima: «Sarah voleva che la adottassimo», scrive Lunedì 12 Marzo 2018 "Il Quotidiano di Puglia". Storie maledette è tornato ieri sera nella prima delle sue due puntate dedicate al caso Scazzi. Nell'attesa intervista a Sabrina Misseri e a sua madre Cosima Serrano, rilasciata a Franca Leosini. Le due donne per la prima volta raccontano la loro verità su uno degli omicidi che maggiormente ha diviso e appassionato l'opinione pubblica: quello di Sarah Scazzi. Con l'accusa di aver ucciso la piccola Sarah, dopo un lungo e intricato iter processuale che le ha condannate all'ergastolo, Sabrina e Cosima Misseri scontano la loro pena nel carcere di Taranto. Sabrina racconta il forte legame con la piccola Sarah era «la sorella che non ho mai avuto, viveva praticamente da noi - spiega Sabrina -. Non aveva un'alta autostima e la portavo con i miei amici perché si lasciasse un po' andare». Sabrina parla della cugina con affetto e nega le responsabilità nell'omicidio. Ma è Cosima, sua madre, che racconta aspetti sinora sconosciuti: «La piccola Sarah era molto legata a noi, voleva farsi adottare e portava una mia foto nella borsa dicendo che si trattava di sua madre». Sabrina ripercorre poi nelle risposte il rapporto con Ivano Russo, dal momento in cui lo conobbe all'innamoramento divenuto ossessione e che secondo gli inquirenti sarebbe all'origine della tragedia. Poi la ricostruzione, penosa, dell'ultimo pomeriggio con Sarah. Una manciata di minuti, dalle 14 alle 14.30 circa, in cui secondo gli inquirenti si sarebbe consumato l'omicidio della ragazzina all'interno del perimetro della villetta dei Misseri. Franca Leosini sottopone Sabrina a domande molto dirette su quegli istanti e sui messaggi scambiati con Sarah e l'amica Mariangela, che per gli inquirenti sarebbero il tentativo diabolico di depistaggio messo in piedi dalla giovane. Lei scoppia a piangere, "mi hanno dipinta come un serial killer". 

Sabrina Misseri, intervistata dalla Leosini, parla del diario di Sara. Delitto di Avetrana: Sabrina Misseri parla dal carcere a Storie Maledette, rivelando indiscrezioni sul diario di Sara, scrive Roberta Amorino, il 12/03/2018 su Blasting News. Sabrina Misseri si trova attualmente in carcere, assieme alla madre Cosima Serrano, per scontare la pena per il delitto della piccola Sara Scazzi. La ragazza ha ricevuto la visita della brillante giornalista #franca leosini, conduttrice della trasmissione Storie Maledette. Con la serenità e delicatezza che la contraddistinguono, la professionista ha iniziato a raccontare, coadiuvata dalla detenuta, la tragica storia della Scazzi, una ragazzina di soli quindici anni, [VIDEO] probabilmente entrata in una situazione più grande di lei che le è stata fatale. Il pomeriggio della tragica scomparsa, Sarasi era accordata con la cugina Sabrina e un'amica, Mariangela, per andare al mare. Sta di fatto che in spiaggia la piccola non è mai arrivata. Sabrina ha iniziato a narrare l'accaduto con tranquillità, lasciando alcuni spazi all'emozione e al pianto, come quando ha ricordato che sia lei che Sara sarebbero state vittime di bullismo. A parte ciò, la Misseri, che continua a professarsi innocente, ha dichiarato di aver atteso invano la cugina quel pomeriggio, in quanto non sarebbe mai arrivata a casa sua. Diversa, invece, è la ricostruzione dell'accusa che ha ipotizzato che la piccola si sia recata a casa dei Misseri e sia stata assassinata proprio nell'abitazione.

Sabrina Misseri parla del diario di Sara: un carabiniere le avrebbe chiesto di procurarselo? Ad un certo punto del racconto, Sabrina Misseri ha fatto un'importante rivelazione: a detta sua, sarebbe stato un carabiniere a chiederle di procurarsi il diario di Sara, in cui la piccola annotava le sue emozioni anche nei confronti di Ivano Russo, il ragazzo che piaceva a Sabrina e che sarebbe stato motivo di astio nutrito da quest'ultima nei confronti della quindicenne. La Leosini ha precisato alla Misseri di non crederle su questo punto, in quanto il carabiniere non avrebbe avuto motivo di chiedere a lei di prendere il diario, ma se lo sarebbe procurato personalmente. A tale osservazione, la Misseri ha obbiettato di non aver fatto sparire il diario, né di averlo alterato. Il racconto della detenuta è andato avanti affrontando anche il tema della notte di passione con Ivano che si è bloccata, a detta sua, non perché il ragazzo non fosse attratto da lei, ma perché entrambi avevano timore di un concepimento indesiderato. Anche Cosima Serrano, madre di Sabrina, ha avuto modo di dire la sua in merito a ciò, confermando la versione della figlia e affermando di essere una donna moderna, capace di affrontare anche argomenti più delicati. 

Franca Leosini abilissima: è davvero Sabrina che ha ucciso Sarah Scazzi. Durante l'intervista nel suo programma Storie Maledette, la Leosini scava nel profondo della cugina di Sarah, scrive Danila Rocca il 12/03/2018 su Blasting News. Non ci sono processi, aule di tribunale, interrogatori, faldoni da riempire, nel carcere di Taranto dove sono rinchiuse madre e figlia, #Cosima Serrano e Sabrina Misseri, ritenute colpevoli per l'omicidio della povera Sarah Scazzi. Rimane solo il silenzio delle celle e del cortile della prigione, appena intraviste attraverso l'occhio delle telecamere di Storie Maledette, la trasmissione condotta da Franca Leosini, magistralmente, tanto da far scomparire traccia della forzata detenzione delle due donne, che parlano con l'aria di essere da una psicologa: Cosima tranquilla e quasi "fiera", la figlia Sabrina con gli occhi lucidi, tra un pianto ed un sorriso, poco convincente quando afferma la sua estraneità al delitto.

Sarah era la mascotte del gruppo. Sarah viene raccontata dalla cugina come una ragazzina fragile, che non aveva riferimenti maschili, dato che il padre ed il fratello non erano in paese, e non vivevano accanto a lei. Aveva solo 15 anni, era sempre con la famiglia Misseri, oppure con Sabrina quando lei usciva con gli amici. Gli altri erano più grandi di lei, anche Ivano, anche l'Ivano conteso, quel ragazzo che brilla nello sguardo di Sabrina, da cui sfocia ancora tutto il suo amore per lui. Forse la cuginetta se n'era un pochino invaghita, oppure era soltanto un capriccio di una ragazzina, lo scrive anche lei sul suo diario, [VIDEO] 'non so cosa provo per lui'. Era carina Sarah, dolce, aveva bisogno di coccole, dice Sabrina. Quelle coccole che Sabrina avrebbe voluto solo per lei. Era la mascotte del gruppo. Come potevo esserne gelosa?

Una rivelazione la madre Cosima. Cosima invece non tradisce turbamento alcuno, risponde serena, certo che sapevo di Ivano, e poi chiede inaspettatamente alla Leosini: 'Ma lei lo sa quante ragazze madri ci sono ad Avetrana? Quante mamme crescono i nipoti?' Quasi a dire mia figlia quella sera è stata furba, non è stato Ivano a tirarsi indietro, è stata lei, perché lui non aveva il contraccettivo. Demolendo così la tesi della beffa, dell'umiliazione subita da Sabrina, quando Ivano, come confidato all'amica Mariangela, l'aveva fatta rivestire ed aveva interrotto a metà quell'incontro amoroso. Cosima non è quella delle fotografie sui giornali, della televisione, "Non voglio essere schiava della tinta per capelli" risponde a Franca Leosini che tira fuori nella sua intervista una donna al passo coi tempi, giustificando i suoi capelli bianchi, che non la assolvono dall'essere una madre complice, e una moglie padrona.

Le due donne sono colpevoli. Se qualche dubbio poteva esserci, e non sta a noi spettatori il giudizio, sicuramente questi colloqui fuori aula, ci hanno aiutato a capire che la legge ha fatto il suo dovere, fermo restando il fatto che soltanto loro, madre e figlia, sanno come veramente sono andate le cose, e perché una ragazzina di 15 anni dovesse essere messa fuori gioco, tolta dal suo futuro, dalla loro casa e da quel gruppo dove lei spiccava, giovane, carina, bisognosa d'affetto. Troppo presente nelle vite di questa famiglia. Troppo vicina ad Ivano, che se non doveva essere di Sabrina, non doveva neanche perder tempo con la cugina. Ergastolo per questo assassinio. Fine corsa per Sarah Scazzi, colpevole soltanto di ingenuità, e di avere avuto i parenti sbagliati.

Delitto di Avetrana, Sabrina Misseri in tv: "Sarah era come una sorella", scrive "Unione Sarda" il 12 marzo 2018. "Sarah era molto coccolosa, era speciale". Comincia con un racconto emozionato l'intervista di Franca Leosini a Sabrina Misseri su Sarah Scazzi, la 15enne uccisa nell'agosto del 2010 ad Avetrana, in provincia di Taranto. "Era come una sorella per me, viveva praticamente da noi. Non aveva un'alta autostima e la portavo con i miei amici perché si lasciasse un po' andare". Per quel delitto, proprio Sabrina (all'epoca dei fatti 22enne) e la madre Cosima sono state condannate in via definitiva all'ergastolo per omicidio volontario con l'aggravante della premeditazione (Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, è stato condannato a 8 anni per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove. Condannato anche, per concorso in occultamento di cadavere con Michele Misseri, anche suo fratello Carmine).

LA RICOSTRUZIONE - "Questa sentenza non rispecchia niente della realtà", commenta Sabrina dal carcere di Taranto dove sta scontando la pena e dove l'ha raggiunta la Leosini per la puntata di "Storie Maledette" andata in onda ieri e che sarà seguita da un altro episodio la prossima domenica. Con la Leosini, Sabrina ripercorre le tappe della vicenda che ha sconvolto l'Italia a partire dal rapporto con Ivano Russo, il ragazzo "conteso" tra le due cugine fino a scatenare la gelosia, secondo i giudici, della più grande. "Mi piaceva, lui lo sapeva, ero attratta fisicamente da lui. Lui diceva 'L'importante è che non pretendi da me altre cose'. Non era un'amicizia ma neanche un amore". Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 2010 succede qualcosa, che per gli inquirenti segna la svolta per Sabrina. I due si allontanano per appartarsi in macchina. Si spogliano, stanno per avere un rapporto sessuale, quando - "sul più bello", dice la Leosini - la cosa si interrompe per una frase di Sabrina: "Non so se riuscirò a rimanere tua amica". Ivano si riveste: un momento che ha fortemente leso l'orgoglio di Sabrina anche se lei sminuisce: "Non è stato un vero rifiuto da parte sua, ero io che ero molto fredda, non sapevo cosa fare". Quella storia poi era stata raccontata anche a Sarah, che a sua volta l'aveva rivelata ad altre persone scatenando i pettegolezzi del paese.

LA GELOSIA - Sabrina, dicono ancora gli inquirenti, era molto gelosa del rapporto di Ivano e Sarah, che la mattina della scomparsa scriveva sul suo diario: "Ieri sera sono uscita un po' con Sabrina e la sua amica Mariangela. Sabrina come al solito si è arrabbiata, dice che quando usciamo sto sempre con Ivano. E ci credo, lui almeno mi coccola! Avessi un fidanzato come lui...". "Non ci sono messaggi a Ivano in cui io dico di essere gelosa di Sarah - si difende Sabrina -. Nessuno ha saputo spiegare il perché". La Leosini ha poi ricostruito quel pomeriggio del 26 agosto, e in particolare i venti minuti in cui Sarah sarebbe morta, tra le 14.10 e le 14.30, all'interno della villetta dei Misseri. In quel frangente, si legge nei tabulati telefonici, Sarah ha risposto ai messaggi di Sabrina, che la invitava al mare. Ma per i giudici era la stessa Sabrina a "rispondersi", dopo averla già uccisa con la complicità della madre, per depistare poi le indagini. "Mi hanno dipinta come un serial killer - ha concluso la Misseri in lacrime - ma io non sarei mai stata in grado di fare una cosa simile".

Sabrina Misseri a Storie Maledette: la sua verità su Sarah Scazzi e Ivano Russo, scrive Michela Becciu il 12 marzo 2018 su "Urban Post".

Omicidio Sarah Scazzi, Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano intervistate a Storie Maledette da Franca Leosini. La prima parte della lunga inedita intervista è andata in onda in prima serata ieri 11 marzo su Rai 3. Madre e figlia condannate in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio della 15enne Sarah Scazzi, rispettivamente cugina di Sabrina e nipote di Cosima, hanno raccontato la loro verità su come sono andati i fatti. Intervista intima, incalzante e a tratti drammatica quella fatta dalla bravissima giornalista, che a Sabrina Misseri non ha risparmiato domande dure, che hanno invaso senza mezzi termini anche la sfera del privato della ragazza, e che già lunghi processi avevano scandagliato in maniera più che esaustiva. Domande sul rapporto con Ivano Russo – l’oggetto del contendere tra la ragazza e la vittima, invaghitasi di lui – e anche sul ‘rifiuto’ che Sabrina ricevette da parte sua durante un incontro intimo in auto, dal quale secondo i magistrati sarebbe scaturito il movente del delitto.

Sabrina e Cosima a Storie Maledette: “Sarah voleva farsi adottare da noi”. Madre e figlia danno della piccola Sarah una descrizione che dipinge la vittima come bisognosa di affetto, affetto che non trovava in famiglia e che andava a cercare a casa loro, dove ha trovato la morte il 26 agosto 2010. Sabrina ha raccontato il forte legame con la piccola Sarah: “Era la sorella che non ho mai avuto, viveva praticamente da noi. Non aveva un’alta autostima e la portavo con i miei amici perché si lasciasse un po’ andare”. La madre Cosima ha confermato la natura del loro rapporto simbiotico con la piccola Sarah: “Era molto legata a noi, voleva farsi adottare e portava una mia foto nella borsa dicendo che si trattava di sua madre”.

Sabrina Misseri in lacrime: “Io e Sarah vittime di bullismo”. Sabrina Misseri ha sminuito la presunta ossessione morbosa per Ivano Russo che l’avrebbe portata alla furia omicida contro Sarah, invaghitasi dello stesso ragazzo che nei suoi confronti aveva sempre una parola dolce, una coccola, una tenera attenzione. Sarah lo annotava nel suo diario segreto: Sabrina la rimproverava per questo eccesso di attenzioni verso Ivano e negli ultimi tempi – quasi per ‘punirla’ – non la invitava ad uscire con loro, mettendola in disparte e facendola soffrire tantissimo. Anche la sera prima del delitto tra le cugine vi fu una discussione accesa per questo motivo. Sabrina Misseri alla Leosini che la incalzava ha anche negato di essere stata gelosa di Sarah. Eppure non ha fatto mistero di essersi sempre sentita “una cozza”, non gradevole esteticamente già prima di conoscere e frequentare Ivano Russo. Poi è scoppiata a piangere rivelando di essere stata vittima di bullismo (così come Sarah) quando frequentava le scuole medie. La ragazza ha parlato anche del rapporto con Ivano Russo chiarendo alcuni pettegolezzi. “Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei”, le ha detto Franca Leosini, “Questo lo dice lei, queste cose con mia madre in casa non sono mai successe, assolutamente”, ha replicato Sabrina Misseri. Si è parlato degli oltre tremila sms invitai ad Ivano in cui la ragazza si prostrava a lui, dimostrava una sudditanza psicologica fuori dal comune nei suoi confronti, dipendeva dalle sue labbra e si autodefiniva brutta e inferiore a lui, lusingando l’ego del ragazzo che non le hai mai mostrato vero interesse. “Mi piaceva, lui lo sapeva, ero attratta fisicamente da lui. Lui diceva ‘L’importante è che non pretendi da me altre cose’. Non era un’amicizia ma neanche un amore”, ha precisato al riguardo Sabrina, per poi ribadire che “Questa sentenza non rispecchia niente della realtà […] Mi hanno dipinta come un serial killer, ma io non sarei mai stata in grado di fare una cosa simile”.

Sabrina Misseri a Storie Maledette, i diari segreti di Sarah Scazzi: Franca Leosini la mette in difficoltà, continua Michela Becciu. Omicidio Sarah Scazzi Storie Maledette: fra i tanti punti dell’inchiesta sviscerati da Franca Leosini nella prima parte dell’intervista a Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo in via definitiva insieme alla madre Cosima Serrano, in quanto ritenute esecutrici materiali del delitto, l’atteggiamento assunto da Sabrina nell’immediatezza dei fatti in merito ai diari segreti della vittima. La sera stessa della scomparsa di Sarah, 26 agosto 2010, Sabrina Misseri si presentò in casa della cugina, dove si vivevano le prime ore di panico e angoscia perché la 15enne dal pomeriggio era scomparsa nel nulla, chiedendo e ottenendo di prendere visione dei diari della ragazzina. Di quei diari poi Sabrina parlò al telefono con Ivano Russo, dicendogli di aver fatto in modo di non farli finire in mano ai carabinieri “per non metterti nei guai … ma Ivano non mi credeva, non credeva che Sarah fosse scomparsa e mi rispose ‘Non mettetemi in mezzo a questa storia’ …”. Di quel frangente Franca Leosini ha chiesto conto a Sabrina: “Perché proprio la sera stessa della scomparsa di Sarah ha sentito il bisogno di fare ciò?”, Sabrina ha risposto: “Mi fu detto da un carabiniere al telefono di vedere nei diari se c’era qualcosa … non sono andata io spontaneamente”. La Leosini però non le ha creduto: “Mi permette di dubitarne? I carabinieri ci sarebbero andati direttamente, scusi”. Circostanza poco chiara questa, che in sede i giudizio ha pesato come un macigno sull’imputata Sabrina. In quei diari infatti la piccola Sarah annotava come si svolgevano le sue giornate ed anche i sempre più frequenti contrasti tra lei e la cugina 25enne che le rimproverava di fare le moine a Ivano Russo (il ragazzo di cui entrambe erano invaghite). Per l’accusa infatti Sabrina – che dal primo istante in cui Sarah non si trovava mostrò un eccessivo ed immotivato (in quel frangente temporale) catastrofismo nell’urlare in strada “L’hanno presa! L’hanno presa!”, quando ancora non avrebbe avuto motivo di ipotizzare il peggio per un ritardo all’appuntamento di pochi minuti da parte della cugina – si sarebbe affrettata a chiedere i diari per verificare se su quelle pagine Sarah avesse annotato qualche episodio particolare che la riguardasse e che potesse portare gli inquirenti a sospettare di lei. “Con il senno di poi … se tornassi indietro non lo rifarei”, ha precisato Sabrina.

Storie Maledette, Franca Leosini e l’intervista capolavoro a Sabrina Misseri e Cosima Serrano, scrive Anna Lupini il 12 marzo 2018 su Tv zap. Ottimi risultati di ascolto, ma soprattutto un plauso quasi totale da parte dei telespettatori, ormai veri e propri addicted dell’insuperabile stile Leosini. Se esiste una divinità delle interviste, ha di certo le sembianze di una signora napoletana di nascita e romana d’adozione, dallo stile classico e dal lessico fiorito, che corrisponde al nome di Franca Leosini. Ieri sera Franca, con la sua messa in piega impeccabile e il tailleur sartoriale con un capitello ricamato, ha fatto ingresso nel carcere di Taranto per intervistare Sabrina e Cosima Misseri, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Un delitto avvenuto ad Avetrana nell’estate del 2010, che colpì l’opinione pubblica anche per l’aspetto angelico della ragazza, bionda e eterea, di soli 15 anni, brutalmente ammazzata, secondo quanto stabilito dalla verità processuale, dalla cugina e dalla zia che lei considerava come una sorella e una madre. Franca Leosini inizia proprio da lì, descrivendo la vittima, il suo aspetto delicato e i suoi sentimenti innocenti e facendolo con una delicatezza e un’empatia raramente registrate verso la vittima di questo atroce delitto. L’intervista impossibile, a Sabrina e a sua madre Cosima, presenti in tutti i notiziari e approfondimenti nei primi giorni dopo la scomparsa di Sarah e poi scomparse dall’orizzonte con l’accusa più atroce, è così realizzata. Grande successo negli ascolti, con 1.855.000 spettatori e uno share pari al 7.5% (decisivo miglioramento rispetto alla prima puntata della scorsa stagione, l’intervista a Rudy Guede, che aveva interessato 1.459.000 spettatori pari ad uno share del 5.32%) e nell’interazione social dove la prima puntata si classifica al primo posto dei programmi più commentati dell’intera giornata con oltre 132mila interazioni. Se non l’avete vista, in attesa della seconda parte, vi consigliamo di recuperarla. Franca Leosini ha il dono, molto raro se non unico nella categoria degli intervistatori, di fare domande senza pregiudizio, ha la passione dei particolari, dove si annida dio ma anche il diavolo, e ci restituisce, nel corso del lungo dialogo, di cui è andata in onda solo la prima parte, un ritratto che alle cronache era sempre sfuggito. “La parola importante è rispetto. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta” ha detto a proposito della sua trasmissione. E anche stavolta il suo intento si realizza alla perfezione. Il ritratto di Sabrina che traccia Franca Leosini è quello di una ragazza insicura e fragile, vittima di bullismo sin dalle scuole medie, folle di gelosia per la cuginetta a causa di un ragazzo, verso il quale Franca la definisce “sentimentalmente genuflessa” mentre le legge le decine di sms inviati a questo “Ivano Russo, a confronto del quale, in questa storia, Brad Pitt sembra un bipede sgualcito”. Sono frasi ironiche, arzigogolate e fiorite, che mandano in sollucchero (ci consenta, cara Franca) i telespettatori che la seguono e rilanciano sui social le sue espressioni più riuscite, che spesso contengono riferimenti alti, letterari e cinematografici. Ogni tanto, Franca, mette giù l’affondo, per rendere esplicito il pensiero che lo spettatore sta già formulando nella sua mente: “A Sabrì, diciamolo, lei è una babbalona”. L’incontro prosegue la prossima settimana, per la seconda parte di questo piccolo capolavoro di giornalismo di approfondimento che si chiama Storie Maledette.

Storie maledette, 11 marzo 2018, diretta prima puntata. In diretta la prima puntata del programma condotto da Franca Leosini, con la prima parte delle interviste a Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi, scrive Francesco La Rosa Domenica, 11 Marzo 2018, su Marida Caterini. È andata in onda su Rai 3 la prima puntata del nuovo ciclo di Storie maledette. Franca Leosini ha intervistato Cosima Serrano e Sabrina Misseri, detenute nel carcere di Taranto per l’omicidio di Sarah Scazzi, avvenuto nell’agosto 2010. La trasmissione parte con un servizio della stessa Leosini, che ricostruisce l’esistenza di Sarah Scazzi e quel tragico 26 agosto 2010, giorno in cui sparì. Si parla della sua famiglia, delle sue abitudini, del suo carattere nel consueto stile Leosini, tra delicatezza, momenti lirici e un pizzico di retorica. Eccoci nel carcere di Taranto, dove sono detenute le due donne che la giustizia ha dichiarato colpevoli dell’omicidio della ragazza. Sabrina Misseri è la prima ad essere intervistata, nella cappella della casa di reclusione: “Io ero per Sarah la sorella che non ha mai avuto”, dice. Con lei la Leosini cerca di raccontare la ragazza e la sua famiglia: le due cugine sembra che fossero molto unite e uscivano insieme, anche con gli amici di Sabrina. “La madre non le concedeva di uscire con le amiche, Sarah aveva poca autostima anche perché da piccola la prendevano in giro”, rivela. Le interviste si svolgono in parallelo: la ricostruzione delle vicende stavolta passa attraverso le parole di Cosima Serrano, madre di Sabrina e zia di Sara. Anche lei ammette come la ragazza fosse molto ben voluta in casa sua: “Una volta espresse il desiderio di essere adottata da noi”, dichiara. La Leosini comincia ad entrare nella psiche delle intervistate. Chiede infatti a Sabrina Misseri di raccontarsi, invitandola però a “non crearsi il santino”, cioè a non realizzare il ritratto di sé autocelebrativo, cosa di cui la ammonisce quando si accorge di ascoltare una descrizione che ritiene troppo di parte. La ragazza parla di sé, dei suoi amori giovanili, delle sue abitudini prima che perdesse la libertà. Poi si apre il capitolo Ivano Russo, il ragazzo che frequentava prima della morte di Sarah e che sarebbe stato il principale movente dell’omicidio della cugina. La Misseri parla del rapporto con lui, che si strinse fino a diventare qualcosa che non era amicizia ma nemmeno poteva definirsi amore. La Leosini critica la condotta della Misseri nel gestire questo legame, sottolineando come fosse “sentimentalmente genuflessa” al ragazzo e motivando le sue considerazioni attraverso la lettura degli sms allegati agli atti del processo. “Lei è una babbalona”, dice con la sua ironia garbata e al contempo ficcante. Sul rapporto tra Sabrina e Ivano si esprime Cosima Serrano: la madre sapeva dell’interesse della figlia per il ragazzo ma non di più. In questa prima parte della trasmissione il focus è concentrato principalmente su Sabrina: i blocchi dedicati all’intervista alla madre sono soltanto 2. La conduttrice prosegue nel cercare di capire cosa volesse la ragazza da Russo: “Lei si sfarinava per lui, a quanto pare sognava la favola…”. Termini desueti che però vanno dritti al punto. Sabrina Misseri ad Ivano Russo raccontava tutto, anche delle liti tra i genitori che la facevano stare male e soffrire, come dimostra la commozione con cui parla di quel momento della sua vita. Della cugina dice di non essere mai stata gelosa, sostenendo che Sarah non si fosse innamorata di Russo, cosa su cui però la Leosini non è d’accordo. Spezza per qualche attimo il colloquio anche la docufiction, con la piccola vittima interpretata da un’adolescente che legge il suo diario, su cui parlava della crescente attenzione nei confronti dell’allora 27enne Ivano. Sempre attraverso una ricostruzione filmata si parla anche della passione mancata tra i due ragazzi, che scattò in auto in un luogo appartato. Fu Ivano a frenarsi prima che venisse consumato un rapporto sessuale completo tra i due. L’evento creò imbarazzo e disagio ad entrambi, come si nota anche dalle parole della giovane nel riascoltare la domanda del pm Buccoliero al suo “amico” durante il processo. Di quanto accaduto Sabrina parlò ad un’amica anche in presenza della cugina Sarah: nel giro di poco tempo la notizia si diffuse in città e Ivano Russo reagì molto male. Cosima Serrano, interpellata dalla Leosini sull’argomento, dichiara di non essere stata messa subito a conoscenza del mancato rapporto sessuale tra la figlia e Russo. “Comunque, sono cose che possono succedere tra due che si piacciono”. La giornalista, in tal senso, le sottolinea come attraverso questi suoi atteggiamenti si dimostri una donna moderna, contrariamente a quello che si è evinto dai fatti. Con lei, almeno per ora, la conduttrice instaura un rapporto meno diretto rispetto a quello creato con la figlia, con meno “licenze”. Franca Leosini, in base agli atti del processo che sono per lei riferimento costante, parla della gelosia di Sabrina nei confronti di Sarah a causa dell’avvicinamento di quest’ultima ad Ivano Russo: la ragazza però smentisce. La sera prima del tragico evento la Scazzi subì un brusco rimprovero dalla cugina, come comprovato anche dal diario della ragazzina e da alcune testimonianze, sempre per gli stessi motivi. Sabrina, che si commuove ricordando anche gli atti di bullismo subiti da lei e dalla cugina quando frequentavano le scuole medie, cerca di far capire come le parole della cugina siano state sostanzialmente prese troppo alla lettera e ingigantite soprattutto in ambito processuale. Si arriva alla fatidica mattina del 26 agosto 2010. Le testimonianze parlano di una Sarah molto silenziosa e triste: la ragazza trascorse la mattinata a casa di Sabrina, che afferma come invece la ragazza non fosse taciturna quel giorno. Dichiarazione rafforzata dal legale della Misseri, che parla in un breve rvm andando nel dettaglio della questione. I misteri sui fatti che hanno portato alla morte di Sarah Scazzi riguardano l’orario in cui la ragazza è arrivata da sua cugina Sabrina: difesa e accusa hanno portato avanti tesi diverse. La Leosini legge la serie di sms scambiati tra le due cugine e un’amica di Sabrina per mettersi d’accordo su quando avviarsi per andare a mare. Sostanzialmente Sarah sarebbe stata assassinata intorno alle 14.25 circa e la Misseri avrebbe utilizzato il cellulare della cugina inviando al suo telefonino un messaggio per crearsi un’alibi. Accusa che in lacrime la ragazza respinge, sostenendo che non sarebbe mai stata capace di un atto del genere.

In questa fase del programma l’approfondimento è tutto dedicato ai fatti tragici accaduti e alle relative risultanze processuali. Sabrina Misseri dice la sua verità, con convinzione: la Leosini gradualmente incalza basandosi sugli atti del procedimento penale a suo carico. Su alcuni passaggi, si nota come la conduttrice sia poco convinta delle dichiarazioni dell’intervistata. Che rimpiange la sua sovraesposizione mediatica al tempo: “Sono pentita di aver rilasciato troppe interviste: ma a prescindere da questo i pregiudizi nei miei confronti ci sarebbero sempre stati, anche se avessi deciso di non parlare”. Il 29 settembre 2010 un colpo di scena: riappare il cellulare di Sarah, parzialmente bruciato e ritrovato nelle campagne limitrofe da Michele Misseri, il padre di Sabrina. In realtà fu proprio lui a farlo rinvenire in quella zona. “Perché lo fece, secondo lei?”, chiede la Leosini alla figlia: qui la trasmissione finisce. La risposta sarà possibile ascoltarla nella seconda parte dell’intervista alle due donne di casa Misseri, che sarà trasmessa domenica 18 marzo, alle 21:20 circa. Attesa dopo una stagione di pausa, la prima puntata di questo nuovo ciclo di Storie Maledette non ha deluso. La trasmissione si è confermata di alto livello qualitativo, tra fedeltà assoluta alle numerosissime pagine del processo e la straordinaria capacità della conduttrice nell’andare gradualmente a fondo delle vicende provando a conoscere le due omicide oltre la rappresentazione mediatica fornita fino a questo momento. Franca Leosini riesce ancora una volta a non spettacolarizzare eventi che hanno conosciuto in maniera a dir poco ossessiva le attenzioni dei media. Come? Provando sinceramente, con grande disponibilità all’ascolto pur mantenendo un suo punto di vista critico, a capire cosa frullasse nella testa di persone diventate improvvisamente delle criminali e a tentare di mostrare la loro fragilità, pur non giustificando mai le loro orribili azioni. Nella sua ricostruzione dei fatti, tra una domanda e l’altra, non sono mancate le sue considerazioni argute, effettuate anche tramite ironiche perifrasi in cui ha fatto ricorso sia a termini oggi poco utilizzati sia ad altri che invece fanno parte del gergo giovanile, concedendosi addirittura una rapido tuffo nel dialetto napoletano. Un modo di comunicare che anche per questo la rende popolarissima tra i più giovani e che rappresenta uno dei tratti distintivi di un format sempre molto atteso prima della sua messa in onda.

Se Leosini scivola sugli «Ardori lombari». Habemus Corpus. Scavare nei delitti avvenuti in famiglia significa dover rovistare, spesso, in un covo di rancori e intimità..., scrive Mariangela Mianiti il 13.03.2018 "Il Manifesto". Scavare nei delitti avvenuti in famiglia significa dover rovistare, spesso, in un covo di rancori e intimità. Se poi si affronta, come ha fatto Franca Leosini nella puntata di Storie maledette andata in onda lo scorso 11 marzo su Raitre, il delitto di Avetrana, vuol dire mettere le mani in un ginepraio che scatenò in modo osceno la morbosa curiosità nazionale. La scomparsa di Sarah Scazzi, le interviste a valanga concesse dalla cugina Sabrina, la confessione di Michele Misseri che fece ritrovare il corpo, le sue ritrattazioni, i sospetti e le indagini su Sabrina e sua madre, la complicità dei media che sguazzavano in questa vicenda, tutto ciò trasformò per mesi il paese pugliese in un teatro mediatico di voyerismo del crimine. C’era gente che andava in gita la domenica a vedere i luoghi del misfatto: la villetta, le strade, il pozzo dove fu buttato il corpo. Era come se quel delitto avesse scatenato il bisogno collettivo di esorcizzare qualcosa che, proprio per essere avvenuto nella profonda provincia italiana e in una famiglia apparentemente come tante, poteva accadere a ciascuno. Franca Leosini conduce Storie maledette dal 1994 ed è arrivata alla sedicesima edizione. Amata dal pubblico, con l’avvento dei social è diventata una star del web dove i suoi seguaci apprezzano soprattutto il suo stile pacato ma diretto e il suo linguaggio, detto anche leosinario con tanto di hashtag. Però ci sono dei però e riguardano alcuni termini e frasi usate dall’amabile Franca nella puntata sul delitto Scazzi. Perché rivolgersi a Sabrina Messeri chiedendole: «Oltre a spianare i crateri di cellulite sulle cosce delle signore di Avetrana, che vita faceva?». Spianare i crateri? Che bisogno c’era di essere così sottilmente cattive? Quando Leosini ricostruisce l’incontro intimo in auto fra Sabrina e l’amico Ivano Russo, dice: «Tolti i fastidiosi vestiti, inizia fra voi un rapporto caldo, bollente. A dare lo stop a sperdimenti, fino a interrompere l’estasi, incredibilmente è Ivano. L’incauto giovanotto per frenare i suoi ardori lombari si rinforcava le mutande… Diciamolo, è un gesto a dir poco offensivo nei confronti di una donna». E perché? Magari a lei andava bene così. Ora, sappiamo tutti che parlare di sesso in modo naturale e sciolto non è facile, soprattutto in tivù. Di solito, chi preferisce usare perifrasi, svolazzi verbali, metafore alate, aggettivi fantasiosi piuttosto che chiamare le cose con il loro nome, lo fa per nascondere un certo imbarazzo. Il risultato è che la pezza è spesso peggio dello strappo. Nello specifico, era del tutto superfluo definire i vestiti fastidiosi, il rapporto caldo e bollente, l’eccitazione come ardori lombari, il rivestirsi con un rinforcare le mutande, un rapporto interrotto come un infortunio, senza considerare il tono giudicante con cui Leosini ha trattato questa parte della puntata e della vicenda, definendo più volte babbalona la sua intervistata per aver raccontato alle amiche fatti poco edificanti per una donna. Se c’era un argomento da trattare con la mitizzata misura leosiniana, era questo. Ciò dimostra quanto sia più facile parlare con elegante distacco di un delitto piuttosto che di sesso, uno dei più grandi misteri delle relazioni fra umani. Qualunque cosa pensi un giornalista o un intervistatore di quei tragici eventi e dei suoi protagonisti, resto convinta che il modo migliore per dare allo spettatore e al lettore gli strumenti per farsi un’opinione sia far emergere contraddizioni, stanare dubbi, mettere in fila i fatti. A meno che non si cerchi lo spettacolo, in questo caso un brutto spettacolo.

“Storie maledette” di Franca Leosini. Perché fare spettacolo sul dolore degli altri? Scrive Alessandro Notarnicola su "Faro di Roma" il 12/03/2018. Sabrina Misseri e Cosima Serrano sono tornate in televisione. A riportarle sotto i riflettori del piccolo schermo e nelle case di tutti gli italiani è stata Franca Leosini nella prima puntata di “Storie maledette” in prima serata su Rai 3. Una puntata del tutto inedita con un incipit narrativo in cui la Leosini sintetizza con linguaggio forbito, alto e composto la vicenda di Avetrana, quel fatto di cronaca dell’agosto 2010 che ha tenuto tutti gli italiani incollati alla cronaca nera dividendo l’opinione pubblica tra colpevolisti e cauti innocentisti. “Era impossibile la favola”, afferma Sabrina con voce tremante ma non del tutto sottomessa. Sarah Scazzi, studentessa quindicenne al secondo anno dell’istituto alberghiero, una ragazzina con una forte nostalgia per il padre e il fratello che vivono a Milano. La ragazza esce di casa nel primo pomeriggio per raggiungere l’abitazione della cugina Sabrina, distante tre minuti e cento passi da casa sua, e andare con lei e un’altra amica al mare; da quel momento si perdono le tracce di Sarah, che non risponde più al telefono e scompare. “E se scompari in piena estate meriti una biografia”, dice la Leosini. Al prologo accompagnato dalle immagini di un’Avetrana calda così come è in estate, segue un primo piano del viso di Sabrina che si racconta a Franca Leosini nell’Aula magna del Tribunale di Taranto. Quasi come un pubblico ministero Franca Leosini, che l’iter processuale composto da più di diecimila pagine, ha ripercorso l’intera e travagliata vicenda rivolgendo una raffica di domande a Sabrina e alla mamma Cosima, due donne provate da questi anni di carcere e di detenzione. Il 21 febbraio 2017 la Corte Suprema di Cassazione ha definitivamente riconosciuto colpevoli e condannato all’ergastolo per concorso in omicidio volontario aggravato dalla premeditazione Sabrina Misseri e Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della vittima, confermando la condanna già inflitta in primo grado e in appello dalla Corte d’assise di Taranto. Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, è stato condannato alla pena di 8 anni di reclusione per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove (il furto del cellulare di Sarah). È stato condannato in via definitiva a 4 anni e 11 mesi di reclusione per concorso in occultamento di cadavere con Michele Misseri anche suo fratello Carmine Misseri. Confermata, infine, dalla Cassazione la condanna ad un anno e quattro mesi per favoreggiamento personale per Vito Russo Jr., ex legale di Sabrina, e Giuseppe Nigro. Informazioni utili per far comprendere che quello che Wikipedia definisce “Delitto di Avetrana” e che Franca Leosini e il suo team di autori inseriscono freddamente tra le sue “Storie Maledette” è un fatto reale su cui spettacolarizzare proprio non serve. C’è una madre che piange la tragica scomparsa della propria figlia, vite spezzate a causa – probabilmente – di un raptus dovuto alla gelosia o all’egoismo. Un egoismo che oggi nel volto di Sabrina – che parla ancora al presente non accettando il suo passato – non si ravvisa perché prendono sempre più spazio il tremore e le incertezze di una ragazza, perché questo è, a cui le sono state strappate via le ali a causa di un grave errore commesso. Perfino la sfinge Cosima Serrano nel corso dell’intervista ha mostrato emozione e senso di colpa. “Storie maledette” è un programma dei palinsesti Rai di grande successo, vittoria garantita dalla gentilezza della padrona di casa che con fare materno e con linguaggio legale e romanzato entra nelle vicende di cui gli interlocutori sono stati tristi protagonisti. Un prodotto Rai impacchettato ad arte per assicurare una buona dose di share sulla pelle degli altri e che forse alle due accusate di Avetrana può aver fatto comodo per ripulire un po’ la propria immagine pubblica al cospetto degli italiani colpevolisti. Un lavoro autoriale ad hoc che potrebbe anche tendere all’umanizzazione dell’assassino, fine raggiunto nella puntata trasmessa domenica sera dal terzo canale Rai ma che lascia un cattivo sapore in bocca perché con la vita delle persone non si gioca fingendo di fare informazione.

Intervista rilasciata da Sabrina Misseri a Franca Leosini il 15 marzo 2018.

Franca Leosini: A quanto risulta dalle dichiarazioni rese a verbale dalla signora Anna Pisanò (…) lei Sabrina praticava massaggi estetici e terapeutici anche a Ivano Russo.

Sabrina Misseri: Sì alla cervicale, massaggio alla cervicale.

Franca Leosini: Ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei, su di lei Sabrina.

Sabrina Misseri: Questo lo dice lei (Anna Pisanò), questo lo dice lei, no, in casa non è mai successo niente di tutto ciò, in casa no, (incomprensibile).

Franca Leosini: Quindi è un pettegolezzo?

Sabrina Misseri:… questo è un pettegolezzo, in casa no, con mia madre dentro casa non esiste proprio (incomprensibile).

Franca Leosini: (…) il suo rapporto con Ivano Russo, lei come lo definirebbe?

Sabrina Misseri: Sicuramente mi piaceva e lo sapeva anche lui perché io sono una persona abbastanza chiara e trasparente, abbiamo parlato più volte di questo fatto, che lui mi piaceva, che ero attratta sicuramente lui lo sapeva ehm.

Franca Leosini: Ecco, ma lui non si pronunziava nei suoi confronti, scusi?

Sabrina Misseri: Lui diceva: “L’importante è che non pretendi da me altre cose”, perché comunque lui non si voleva fidanzare, ma io infatti ho detto: “Non ho mai chiesto una cosa del genere”.

Franca Leosini: Lei era gelosa di Sarah?

Sabrina Misseri: No, proprio perché sapevo, primo che a Ivano gli piacevano le donne più grandi, secondo non vedevo atteggiamenti di nessun tipo e poi io, gelosa di una bambina? Assolutamente no, assolutamente no, e poi si possono vede’ dai messaggi. C’è un messaggio dove io a Ivano faccio una scena di gelosia nei confronti riguardo a Sarah? Non ce n’è nessuno, potevo essere gelosa di altre ragazze, di altre donne, magari sì, ma di Sarah no, assolutamente no.

Franca Leosini: A lei seccava un poco, la infastidiva un poco il fatto che Sarah bamboleggiasse con Ivano?

Sabrina Misseri: A me non seccava il fatto che bamboleggiava, a me seccavano le dicerie del paese, che è ben diverso. A me seccavano le dicerie del paese perché alcuni clienti quando venivano poi mi dicevano delle cose che a me davano molto fastidio, loro hanno voluto travisare e girare in un altro modo che è ben diverso.

Franca Leosini: Alcune sue amiche o sedicenti tali hanno lasciato intendere al processo che invece lei Sabrina fosse stizzita perché Ivano invece coccolava Sarah più di quanto si dedicasse a lei.

Sabrina Misseri: Non è stata detta da me quella frase, è stata detta da un’altra persona.

Franca Leosini: Io le dico cosa hanno detto al processo le sue amiche o sedicenti tali che lei fosse stizzita perché Ivano coccolava più Sarah di quanto poi si dedicasse a lei e che addirittura queste attenzioni del giovanotto per Sarah praticamente suscitassero delle discussioni tra lei e Sarah, è vero questo o no?

Sabrina Misseri: Per le chiacchiere del paese ma non del fatto… cioè che coccole poteva fare Ivano a Sarah? Una carezza sulla testa? Cioè, per quello dovevo essere gelosa? Di cosa dovevo essere gelosa?

Franca Leosini: L’accusa si è formata il convincimento che lei Sabrina fosse gelosa della sua cuginetta.

Sabrina Misseri: Però non ci sono messaggi tra me e Ivano che faccio scenate di gelosia riguardo a Sarah e questo che ancora nessuno ha saputo spiegare.

Franca Leosini: Sabrina, nell’epopea baraccona di questa storia, propriamente campeggia appunto il suo rapporto  con Ivano Russo, c’è un episodio che appare in qualche modo un altro dei cardini su cui ruotano gli eventi che si susseguiranno in sostanza accade questo che in una notte sbadata fra il 3 ed il 4 lei Sabrina e Ivano dribblate gli amici e su sollecitazione di Ivano vi allontanate per appartarvi in auto in un posticino tranquillo e allora via i fastidiosi vestiti, inizia fra voi un rapporto caldo, un rapporto bollente ma sul più bello a dare lo stop agli sperdimenti, no a interrompere l’estasi, incredibilmente è Ivano. Senta Sabrina ma l’incauto giovanotto, mentre, frenando i suoi ardori lombari, si rinforcava le mutande, ecco come si giustifica con lei scusi? Come giustifica quel gesto che nei confronti di una donna è, a dir poco, offensivo?

Sabrina Misseri: Bhè, le cose non sono… io non mi sono sentita proprio tanto… perché le cose non sono andate come son state descritte, nel senso, quando è successo quell’attimo, io ero abbastanza fredda e a disagio, lui automaticamente vedendomi così ha iniziato a dirmi: “Ma rimarremmo amici?”, io ho detto: “Non lo so”, da quel momento lui si è fermato ed è finita là, cioè con quella frase è finito tutto, se io fossi stata diversa chi lo… non so come sarebbe andata a finire, cioè la fra… è stato raccontato come per dire un rifiuto, s’è vestito, non è andato proprio così.

Franca Leosini: Per me è la stessa cosa, mi deve scusare.

Sabrina Misseri: No, per me è diverso, perché nel momento in cui io dico: “Non lo so”, che per me non sarebbe rimasta l’amicizia, è diverso, non è uguale per me.

Franca Leosini: Scusi tanto (…) un uomo non mette una ragazza in condizioni comunque di disponibilità (…)

Sabrina Misseri: Disagio, non ero proprio disponibile… ero a disagio, ero una pietra, non sapevo cosa fare, non sapevo cosa fare.

Franca Leosini: Vabbè, lei era a disagio, sarà stata pure una pietra, ma magari era una pietra che così si era liberata di qualche capo di biancheria. Ora sostanzialmente un uomo non mette una donna in condizioni di disponibilità, per poi dirle: “Scusa tanto, ma poi restiamo amici?”.

Sabrina Misseri: Ma io non penso che sia partito con quest’intenzione, stavamo facendo un giro per la litoranea e lui si è fermato per fumare e poi è capitato quello, io non credo sia partito all’inizio con quell’intento.

Franca Leosini: Ma prima di dare il via all’operazione spogliarello, insomma poteva evitare di mettere una ragazza in condizioni di disponibilità per poi umiliarla. Mi deve scusare, Sabrina.

Sabrina Misseri: Guarda per me è stato più umiliante il giorno dopo che la sera stessa, la sera stessa non è stato così, per me è stato più brutto il giorno dopo, io il giorno dopo mi so’ sentita più umiliata perché il giorno dopo ho visto che comunque lui si sentiva a disagio, stavamo in gruppo e lui non mi rivolgeva la parola, cioé in questo senso.

Franca Leosini: Ah, lui si sentiva a disagio?

Franca Leosini: Raccontare a Mariangela in presenza di Sarah il fatto del rapporto con Ivano, lei con l’esperienza che si ritrova la rifarebbe questa sciocchezza?

Sabrina Misseri: No, questa no.

Sabrina Misseri: Eh, vabbè, loro raccontano che Sarah l’ha… l’ha raccontato a tutti e che quindi si è riempita la voce del paese.

Franca Leosini: Sarah a chi l’ha raccontato?

Sabrina Misseri: Ah, al fratello lo ha raccontato, a Claudio, però con Claudio non abbiamo parlato di questa situazione, cioè io l’ho saputo tramite altre persone, non l’ho saputo direttamente da Claudio… lo confidò al fratello e il fratello poi si inizia a mettere un po’ in mezzo alla situazione, a parlare con gli altri del gruppo.

Franca Leosini: Lei glielo rimprovera a Sarah.

Sabrina Misseri: No, a Sarah, perché Sarah era piccolina, invece magari lo… Claudio, che è una persona più adulta, avrebbe potuto… cioè tenerselo per sé, secondo me, mi (incomprensibile) non c’era bisogno di parlarne con Ivano o con altri, perché comunque so’ abbastanza grande quindi…

Franca Leosini: Ivano come la prende?

Sabrina Misseri: Ma Ivano la… se la prende a male perché dice no… perché gliel’ho detto… perché lo sono andata a dire a Mariangela e per questo fatto incominciamo a litigare. Una risposta disarticolata fatta di frasi frammentate rivelatrici del fatto che Sabrina nasconde delle informazioni. 

Franca Leosini: Che succede tra lei e Ivano?

Sabrina Misseri: Incominciamo a litigare tramite sms.

Franca Leosini: Che succede tra lei e Ivano, vi rivedete?

Sabrina Misseri: Non mi ricordo se subito dopo ci rivediamo, comunque il rapporto non è più buono, cioè le poche volte che ci vedevamo comunque litigavamo sempre. Io sono arrivata no al 21 agosto della notte, mi ricordo l’ultima volta che l’ho visto prima della tragedia.

Franca Leosini: Sicuro?

Franca Leosini: No, perché a quanto risulta dai tabulati telefonici nei giorni successivi alla rottura tra lei e Ivano Russo, la piccola Sarah e Ivano invece continuavano non solo a sentirsi sul cellulare ma a spedirsi sms persino nel cuore della notte.

Franca Leosini: Ecco, lei non lo sapeva Sabrina?

Sabrina Misseri: Non so niente di questo io, è tutto nuovo.

Franca Leosini riferisce a Sabrina che secondo l’accusa lei sapeva dello scambio di messaggi tra Ivano e Sarah.

Sabrina Misseri: Nooo, assolutamente no, no, perché io sapevo… ho visto solo i messaggi mandati quando c’era Claudio ad Ivano, non sapevo nient’altro.

Franca Leosini: Quell’ultima sera c’è stata, come ha detto Mariangela questa gelosa litigata tra lei e Sarah?

Sabrina Misseri: Questo è quello che dichiara lei (Mariangela Spagnoletti)… se ci fossero stati tutti questi litigi Sarah il giorno dopo non sarebbe venuta a casa… non era stupida Sarah.

La Leosini invita Sabrina a commentare una frase riguardante Sarah e a lei attribuita: “Si vende per due coccole”.

Sabrina Misseri: Bhè, uno dall’esterno è normale che dice: “E’ una frase orribile da dire ad una ragazzina”, è proprio orribile, però noi sapevamo il rapporto che avevamo come ci stuzzicavamo e non per offendere, questo serviva anche a fortificare il carattere, è normale una persona dall’esterno può pensare male ma dall’interno sapevamo noi, perché sapevamo noi da che passato venivamo. Io e Sarah comunque, avevamo sofferto di bullismo (piange)… perché comunque da piccole siamo sempre state prese in giro… lei alle scuole medie, come anch’io alle scuole medie… io per la… perché soro di ipertricosi quindi ho eccessiva peluria, per le basette per i baffetti, i ragazzi che si portavano la lametta a scuola per dirmi se ne avevo bisogno, comunque ne abbiamo passate.

Franca Leosini: Lei questa frase ricorda di averla detta?

Sabrina Misseri: Sì, sì, sì, non ho mai negato di non averla detta, non l’ho mai negata, bhé, dall’esterno anch’io avrei detto: “Una frase offensiva, orribile”, però solo chi sta dall’interno, anche alcuni parenti che sanno, è una frase che non veniva detta solo da me ed era una frase non come volevano apparire.

Sabrina Misseri: perché tutte le cose, come son state passate, son state passate come ragionamenti di una persona adulta, non da ragionamenti di una persona di 15 anni e ne parlo in questo modo perché l’ho… io me li ricordo bene i miei 15 anni, ogni piccolo rimprovero sembrava una catastrofe, ecco perché hanno pesato tanto, perché tutti si son dimenticati di ragionare da 15enni e non da adulti.

Franca Leosini: (…) Sarah era così entusiasta all’idea di questa gitarella al mare che, lei ricorda cosa fa Sarah a casa?

Sabrina Misseri: No, io l’ho saputo dopo però, io so che lei velocemente si è vestita, si è cambiata eee, raccontato da famiglia, ha mangiato un cordon blue e aspettava il messaggio mio, questo (incomprensibile).

Franca Leosini: No, lei ha addirittura… ha inventato… ha forse inventato alla madre che aveva avuto una sua chiamata…

Sabrina Misseri: No, questo è impossibile, Sarah non aveva bisogno di mentire quando voleva veniva…

Franca Leosini: Sì, no lei ha inventato alla madre per venire prima che aveva avuto uno squillo da lei.

Sabrina Misseri: Un messaggio.

Franca Leosini: Un messaggio da lei che la sollecitava a raggiungerla presto.

Sabrina Misseri: E infatti c’è il messaggio mio, il messaggio mio è stato inviato.

Franca Leosini: A che ora Sarah sarebbe dovuta venire da lei?

Sabrina Misseri: Mah, noi abbiamo parlato che comunque il messaggio se doveva andar male sarebbe stato sempre verso le… dopo le due, due e un quarto perché Mariangela lavorava quindi, quando usciva dal lavoro dopo le 14, 14 e 15, era sicuro che…

Franca Leosini: Sarah sarebbe venuta comunque o doveva aspettare?

Sabrina Misseri: No, doveva aspettare un messaggio mio per andare al mare.

Franca Leosini: (…) i numeri di cellulare che sono presenti nei tabulati telefonici con una sequenza oraria ritenuta dall’accusa altamente indicativa della responsabilità che lei e sua madre Cosima avreste avuto nell’omicidio di Sarah, responsabilità che entrambe disperatamente rifiutate, è così Sabrina?

Sabrina Misseri:… ci sono tante cose che non… non… non sono corrette, innanzitutto Sarah in casa non è entrata proprio.

Seconda l’accusa Sarah sarebbe arrivata a casa di Sabrina prima delle 14.00 e sarebbe stata uccisa entro le 14.23.00. Secondo la difesa Sarah sarebbe uscita di casa intorno alle 14.30. Di seguito la cronologia dei messaggi intercorsi tra Mariangela e Sabrina, Sabrina e Sarah e viceversa: 14.23.34 Mariangela invia un sms a Sabrina: “Il tempo di mettermi il costume e vengo”. 14.24.03 Sabrina risponde a Mariangela: “Avviso Sarah”. 14.24.23 Mariangela risponde a Sabrina: “Ok”. 14.25.08 Sabrina invia un sms a Sarah: “Mettiti il costume veloce e vieni”. 14.28.13 Sabrina invia un secondo sms a Sarah: “L’hai letto il msg?”. 14.28.26 Sarah invia uno squillo di conferma a Sabrina. 14.28.40 Sabrina invia un secondo sms a Mariangela: “Sto tentando in bagno”. 14.39.27 Sabrina invia un terzo sms a Mariangela: “Pronta”. La Leosini riferisce che, secondo i giudici, Sabrina, dopo aver ucciso Sarah, per crearsi un alibi, avrebbe inviato due messaggi alla vittima e rispose a se stessa usando il cellulare di Sarah.

Sabrina Misseri: Non so proprio come si fa ad immaginare una cosa del genere.

Franca Leosini: Se così fosse il suo sarebbe un comportamento di questo tipo…

Sabrina Misseri: Da killer seriale, proprio.

Franca Leosini: Se così fosse come i giudici hanno ritenuto un comportamento di questo tipo sarebbe diabolico, se me lo passa.

Sabrina Misseri: Da come mi hanno descritto senz’altro.

Franca Leosini: Ricorda quale è stata l’interpretazione che di questi msg i giudici hanno dato a processo?

Sabrina Misseri: Loro hanno dichiarato di aver fatto tutto da sola di aver usato io il cellulare di Sarah a mandare a me stessa i messaggi… io non avrei mai avuto questo pensiero, cioè, non so da dove è venuta questa logica, non riesco a capirla, cioè la logica reale è quella che io dovevo avvisare Sarah quando c’era l’appuntamento. C’era l’appuntamento per andare al mare? La dovevo avvisare io? Ho mandato il messaggio? Il messaggio c’è. Perché Sarah doveva uscire prima? Perché? Non aveva bisogno di dire la bugia per andarsene da fare le pulizie, non ha mai fatto le pulizie, perché? A parte che non so, non sapevo neanche usare il cellulare di Sarah io, che era un cellulare nuovo, comprato proprio nel mese di agosto, innanzitutto… poi una mente… cioè per fare una cosa del genere devi essere un… come devo dire, un killer seriale, cioè proprio specializzato a fare questi crimini, cioè non lo so, mi sembra di vedere un film, non la realtà.

Franca Leosini: Un film che l’ha portata qui.

Sabrina Misseri: E che sto pagando.

Sabrina Misseri: Questa sentenza non rispecchia niente della realtà dei fatti niente… (piange) non c’è una briciola che rispecchia della verità di… quello che hanno detto i giudici (piange) niente, niente, rispecchia.

Franca Leosini: (…) quando Mariangela Spagnoletti alle 14.23.00 le invia per avvisarla che liberatasi dal lavoro si infilava il costume e passava a prenderla, lei Sabrina, che per l’accusa aveva già ucciso Sarah, risponde a Mariangela che avrebbe avvertito sua cugina, un espediente questo, secondo i giudici, per indicare che Sarah no a quel momento a casa sua, Sabrina, non si era vista, non era venuta.

Sabrina Misseri: Infatti non era venuta.

Franca Leosini: In più, per l’accusa, i due sms che invia a Sarah per invitarla a prepararsi per andare al mare nonché lo squillo di conferma, che era partito alle 14.28 dal cellulare di Sarah, appunto per conferma, per i giudici li avrebbe inviati tutti lei Sabrina dal cellulare di Sarah del quale lei era in possesso in quanto Sarah era ormai senza.

Sabrina Misseri: Per accettare una cosa del genere è perché si ha già il pregiudizio nei confronti di una persona perché di logico cosa c’è? Se io per crearmi l’alibi non avrei fatto venire neanche Mariangela, anzi avrei cercato di allontanare la situazione per stare più tranquilla, non è così.

Franca Leosini: Alle 14.42 lei Sabrina e Mariangela vi incontrate, vero?

Sabrina Misseri: Sì, quando io so… io ero pronta stavo sotto la veranda, è arrivata Mariangela. Io a Mariangela ho chiesto se Sarah l’aveva vista per strada, perché comunque Mariangela faceva lo stesso tragitto di Sarah quando doveva venire con la macchina, ho chiesto a lei, prima ancora ho chiesto a mio padre se stava vedendo Sarah arrivare.

Franca Leosini: Dov’era suo padre? Sabrina Misseri: In cantina, io me ne sono accorta quando ho sentito il rumore del portone.

Franca Leosini: Lei ha sostenuto che mentre aspettava che venisse Mariangela lei era in veranda, vero?

Sabrina Misseri: Sì.

Franca Leosini: Lei ha dichiarato che mentre lei lì era in veranda, e siamo attorno alle 14.42, lei ha parlato con suo padre?

Sabrina Misseri: Sì.

Franca Leosini: Dov’era suo padre?

Sabrina Misseri: Era in cantina, io l’ho sentito il rumore… 

Franca Leosini: Come in cantina? Come faceva a parlare con suo padre?

Sabrina Misseri: Sì, perché ho sentito il rumore del portone chiudere e ho detto: “Chi è?” E poi mio padre ha risposto, io… io non sapevo che mio padre fosse in cantina.

Franca Leosini: Ma lei ha detto invece che suo padre era all’esterno del garage.

Sabrina Misseri: Dopo, dopo, quando è arrivata Mariangela, l’ho visto fare il… su e giù dalla cantina, però inizialmente, ho sentito il rumore del portone, siccome mio padre aveva l’abitudine di non chiudere a chiave, ho pensato che ci fosse qualcuno dentro, poi invece ha risposto mio padre.

Franca Leosini: Quindi lei non l’ha visto in faccia suo padre?

Sabrina Misseri: No, no, dalla veranda, no.

Franca Leosini: Vi siete parlati senza vedervi? Sabrina Misseri: Sì, senza vederci.

Franca Leosini: Quindi non può come le è sembrato suo padre.

Sabrina Misseri: No, in quel momento no.

Franca Leosini: Quando l’ha visto?

Sabrina Misseri: Quando è arrivata Mariangela con la macchina, che sono scesa giù per la strada, ho visto mio padre che stava preparando la macchina perché il trattore non partiva.

Franca Leosini: Ha notato qualcosa di strano lei in suo padre?

Sabrina Misseri: No, non ho notato niente di strano. Franca Leosini: (…) lei ha sostenuto che Sarah sarebbe uscita da casa alle 14.30?

Sabrina Misseri: Sì, quando ha fatto lo squillo penso, non so se fosse o stava già in mezzo alla strada.

La Leosini parla di tempi stretti per commettere un omicidio riguardo ai 12 minuti che sarebbero intercorsi tra le 14.30 e l’orario d’arrivo di Mariangela a casa di Sabrina.

Sabrina Misseri: Io non la so la fase omicidiaria quanto ci vuole per… cioè, io quando sento parlare in tv, sento pochi minuti non ho mai sentito, tipo mezzora.

Franca Leosini: Quando intorno alle 14.42 è venuta a prenderla Mariangela Spagnoletti a quanto lei ricorda, lei dov’era?

Sabrina Misseri: Quando è arrivata lei io stavo scendendo dalla veranda.

Franca Leosini: Lei sa perché io le ho rivolto questa domanda?

Sabrina Misseri: No.

Franca Leosini: Le ho rivolto questa domanda perché (…) a detta di Mariangela (…) lei non era in veranda ma contrariamente al solito era già ad attenderla sul marciapiede.

Sabrina Misseri: Io ribadisco quello che ho sempre detto ero sotto la veranda, come l’ho vista arrivare sono scesa per le scale… per raggiungerla fuori.

Franca Leosini: Quindi sono due tesi completamente opposte, Mariangela dice che lei era già per strada, lei invece Sabrina dice che era in veranda.

Franca Leosini: Mariangela non ha mancato di descrivere lei, Sabrina (…) addirittura con particolari minuti. Mariangela ha detto che lei aveva una piccola borsa, che aveva il telo da mare sul braccio sinistro e che nella mano destra lei stringeva il cellulare.

Sabrina Misseri: Non me lo ricordo io, se lo ricorda lei, io non me lo ricordo.

Franca Leosini: (…) lei ricorda quale è stata l’interpretazione che hanno dato prima gli inquirenti e poi i giudici del fatto che lei, come ha sostenuto Mariangela, (…) fosse ad attenderla per strada e non in veranda?

Sabrina Misseri: Se non mi sbaglio l’accusa avrà detto che avrò fatto da palo, non mi ricordo, quello che ha detto l’accusa sinceramente ne ha dette tante che non mi ricordo tutto.

Franca Leosini: (…) i giudici hanno ritenuto che lei Sabrina avrebbe aspettato la sua amica per strada e non in veranda, come lei sosteneva, proprio per evitare che Mariangela salisse su a casa e si imbattesse sul corpo senza vita di Sarah. Mariangela ha insistito sul punto che lei fosse ad attenderla per strada e non in veranda come al solito.

Sabrina Misseri: Le assicuro in veranda perché in veranda è più fresco, in mezzo alla strada fa s… troppo caldo.

Franca Leosini: Poi ricorda che cosa altro ha detto Mariangela?

Sabrina Misseri: No non mi ricordo, tante cose, ormai le sto cancellando man mano.

Franca Leosini: Mariangela ha detto che lei all’inizio appariva tranquilla e anzi come prima cosa lei avrebbe chiesto a Mariangela, cosa le ha chiesto?

Sabrina Misseri: Sì, se avesse visto Sarah, me lo ricordo perché appena arrivò gliel’ho chiesto se avesse visto Sarah, sì.

Franca Leosini: Non solo, poi che avrebbe fatto lei se lo ricorda?

Sabrina Misseri: Ho chiamato subito il cellulare di Sarah, me lo ricordo e ha squillato più volte senza risposta, poi, se non ricordo male, ho richiamato di nuovo mentre salivo nella macchina di Mariangela, non risultava più raggiungibile.

Franca Leosini: A quel punto lei ricorda cosa ha raccontato a Mariangela?

Sabrina Misseri: Mah non mi ricordo, io mi… mi ricordo soltanto che mi sembrava strano che Sarah non fosse arrivata perché era molto precisa. Sabrina comincia a inserire nel racconto alcuni elementi, “mi sembrava strano” e “era molto precisa”, che le permettano di giustificare ciò che disse nell’immediatezza della scomparsa della cugina.

Franca Leosini: (…) a quel punto lei Sabrina sembra entrare in agitazione (…) e in quello stato d’ansia lei avrebbe detto, ha detto “l’hanno presa, l’hanno presa” Sabrina Misseri: Alla seconda volta, non l’ho detto alla prima, allora. Franca Leosini: Che vuol dire alla seconda volta?

Sabrina Misseri: Perché quando siamo salite in macchina, siamo andate da mia zia Concetta a chiedere se c’era Sarah e mia zia ha rispo… e mio zio, perché c’era mio zio, mio zio ha detto: “No, adesso se n’è andata”, quando… quando sono uscita ho detto “Sarah non c’è”, conoscendo benissimo Sarah ho detto: “E’ strano che non c’è”, subito ho pensato a che fosse successo qualcosa di brutto.

Franca Leosini: (…) ecco, su che base lei ha potuto ipotizzare che fosse stata rapita?

Sabrina Misseri: Sulla base che Sarah non c’era a casa, non stava a casa mia, non stava a casa di mia zia Concetta. Dove doveva anda’ Sarah? Sarah non si sarebbe mai permessa di andare a casa di una persona senza avvisare e dove? Eh.

Franca Leosini: (…) come le viene in mente di dire “l’hanno presa, l’hanno presa”?

Sabrina Misseri: Eh, conoscendo le abitudini di Sarah sapevo che era successo qualcosa, non era una cosa normale “l’hanno presa” e che… per forza, Sarah non sarebbe mai andata da nessuna parte.

Franca Leosini: (…) quello che ha sorpreso di lei è proprio questa sua angoscia così immediata, questa sua visione catastrofica di quello che potesse essere successo a Sarah, lei sa che questo è stato uno dei cardini su cui ha ruotato l’accusa.

Sabrina Misseri: Sì, ma questa è la frase, secondo me… questa frase è la più plausibile di una persona che comunque è attaccata alla cugina e sa le abitudini e sa che qualcosa di grave è successo.

Franca Leosini: Questa è anche una valutazione giusta, però ricorda cosa fate lei e Mariangela dopo?

Sabrina Misseri: Allora tutti i giri che abbiamo fatto io non me li ricordo perché non stavo a pensare lì che dovevo memorizzare per poi andarli a raccontare davanti ad un inquirente. Io mi ricordo soltanto che abbiamo girato per cercarla, che siamo andati in caserma, io non mi ricordo l’ordine cronologico.

Franca Leosini: Sabrina come reagiscono i genitori, la mamma e il papà?

Sabrina Misseri: Ah, la seconda volta subito ha pensato: “E’ successo qualcosa”, mia zia, subito a fare le ricerche a cercare Sarah.

Franca Leosini: Cosa fanno poi loro?

Sabrina Misseri: Eh, vanno in caserma e vanno la prima volta e poi dopo vanno di nuovo per fare la denuncia.

Franca Leosini: E lei e Mariangela cosa fate?

Sabrina Misseri: Eeh, non mi ricordo che cosa facciamo, cioè sono andata pure io in caserma, poi ci siamo divisi, io con mamma, poi lei con Alessio.

Franca Leosini: Ma avverte anche Ivano?

Sabrina Misseri: Sì, sì, sì.

Franca Leosini: E lui?

Sabrina Misseri: Lui non mi crede all’inizio.

Franca Leosini: No, lui non le risponde proprio.

Sabrina Misseri: Sì, non mi ricordo, ma quando mi risponde lui non mi crede, all’inizio lui pensava che io lo stavo cercando per riappaci… era una scusa per poterci riappacificare, all’inizio… chiediamo anche a Ivano.

Franca Leosini: Non era una scusa per sentirlo?

Sabrina Misseri: No, no, non l’avrei proprio chiamato. Che scusa era? Non c’era proprio… veramente era scomparsa Sarah, non era una scusa questa, assolutamente no.

Franca Leosini: La sera stessa chiede di prendere visione dei diari a casa di Sarah, perché?

Sabrina Misseri: No, emm… no, no, lì mi fu detto da un carabiniere al telefono, al telefono mi fu detto di vedere nei diari se c’era qualche cosa, non sono andata io spontaneamente ad andare.

Franca Leosini: Mi permette di dubitare.

Sabrina Misseri: I tabulati ci sono, i tabulati ci sono, i carabinieri mi hanno detto di vedere se c’era qualcosa (incomprensibile)…  no, mi è stato detto questo, mi è stato detto questo.

Franca Leosini: Ma lei ricorda quale è stata l’interpretazione che è stata data in sede di giudizio?

Sabrina Misseri: No.

La Leosini ricorda a Sabrina che inquirenti e giudici hanno ritenuto che lei e sua madre si fossero recata a casa di Sarah per capire se sui diari della ragazzina ci fossero elementi che potevano indurli a sospettare di Sabrina.

Sabrina Misseri: Io non sapevo neanche che diaria… Sarah scrivesse diari, quindi per me è stata tutta una cosa nuova, di quel giorno, l’ho saputo perché mi è stato detto di vedere se ci fosse stato qualcosa, però se avessi avuto tutta quella paura li avrei fatti sparire, invece non ho… non ho mai toccato niente, stavano lì… e infatti se fossi tornata indietro, col senno di poi, mi sono resa conto di aver sbagliato lì.

Franca Leosini: (…) però lei sottolinea con cura anche a Ivano che lei aveva fatto in modo che i diari di Sarah non venissero nelle mani dei carabinieri per non metterlo nei guai, si ricorda come ha reagito Ivano?

Sabrina Misseri: Ivano non ci credeva.

Franca Leosini: No, Ivano ha reagito malissimo.

Sabrina Misseri: No, non credeva… no mah sì, non mi ricordo, vabbè, lui reagiva spesso male, quindi non mi ricordo tutte le volte le cose che diceva.

Franca Leosini: Ivano la manda a quel paese, le scrive in sms: “Ma cosa stai dicendo, non mi mettere in mezzo a ‘sta storia”. Sabrina Misseri: Sì, perché lui non credeva e dopo ci sono altri messaggi che lui dice che non riesce comunque a credere a quello che gli stavo dicendo, non mi credeva.

Franca Leosini: (…) tante interviste sia stato opportuno concederle?

Sabrina Misseri: No, se tornassi indietro non ne farei neanche una, però posso dire anche un’altra cosa, fare tante interviste è statooo una cosa negativa, se non ne avessi fatte proprio sarebbe stata un’altra cosa negativa, avrebbero detto che se ne frega della cugina, quindi io ho notato che qualsiasi cosa io facessi non andava mai bene, il pregiudizio era talmente tanto che ogni mio passo non andava mai bene, allora io negli anni, adesso, riflettendo mi dicevo: “Come mi dovevo comportare io?”, questo vale dall’inizio fino alla fine, fino al processo, se non parla Sabrina vuol dire ha qualcosa di nascondere, se non ha niente da nascondere deve parlare, parla, Sabrina mente, cosa deve fare Sabrina?

Franca Leosini: Però indubbiamente una sovraesposizione mediatica c’è stata.

Sabrina Misseri: Sicuramente sì, ma io, infatti, le mie colpe, io me le prendo assolutamente, cioè, se tornassi indietro non ne farei neanche una, non aprirei neanche la porta.

Franca Leosini: (…) lei le avrebbe fatte per allontanare da sé ogni possibile sospetto e ogni ombra.

Sabrina Misseri: Perché io quando c’è il pregiudizio qualsiasi cosa tu faccia non va mai bene, mai, mai.

Sabrina Misseri: Ma non ci credo a casa, sai perché? Le dico, le dico questo sai perché? Perché se ci fossero state le cimici a casa avrebbero scoperto tante cose che quelle che sto dicendo io sono vere, dentro casa, magari ci fossero state, io quello dico, magari ci fossero state, invece dentro casa no, nella macchina sì, ma dentro casa no.

Franca Leosini: Quindi eravate tranquilli?

Sabrina Misseri: Io sì… abbastanza… io ero… più che tranquilla, io ero in ansia perché non si riusciva a trovare Sarah.

Una storia Franca: il giallo di Avetrana riletto dalla Leosini, scrive Rosario Torsello domenica 18 marzo 2018 su "Il Quotidiano di Puglia". Le storie vanno studiate per essere capite. (Pausa). Anche per essere giudicate. Esiste una magistratura ed esistono le sentenze. Ed esiste anche (sorriso appena abbozzato) quella più grande Assise che siamo tutti noi. Ecco. Il promo spiega il senso di un appuntamento che è subito evento atteso e perciò imperdibile. I palinsesti hanno le loro nicchie di consenso, le loro platee di affezionati spettatori. La tv affastella i programmi, somma gli ascolti, insegue lo share. Le “Storie maledette”, invece, si muovono su un universo parallelo, trasversale ai generi, al pubblico, alle emozioni. Rimbalzano sui social. Scendono negli abissi dell’uomo per illuminare il lato oscuro della vita e perciò di tutti. Quando le tragedie non sono più cronaca, non più processo, diventano memoria condivisa con cui tornare e ritornare a fare i conti. Noi della “grande Assise” multiforme. Franca Leosini rilegge il delitto di Avetrana. Domenica scorsa la prima puntata, stasera la seconda, RaiTre, 21.25. Nuova stagione, nuovo successo. Ma non è questo ciò che conta, non qui almeno. Si parla di Sarah, ancora, la piccola Sarah Scazzi, scomparsa in un pomeriggio afoso di agosto, otto anni fa, e ritrovata in fondo a un pozzo quarantuno giorni dopo. Lei, quindici anni appena, capelli e sogni dello stesso colore, dorati come spighe di grano, come raggi di sole. “Nell’iconografia classica - dice in apertura la voce fuori campo, dopo distese di ulivi e litorali sabbiosi - gli angeli sono biondi e lievi. Ci starà bene con loro quella ragazza bionda di Avetrana, volata lassù così leggera...”. La magistratura ha emesso la sua sentenza, definitiva, identica nei vari gradi: ergastolo per la cugina Sabrina Misseri e per sua madre Cosima Serrano, sorella di Concetta, la mamma di Sarah. Otto anni per Michele Misseri, zio Michele, ora fermo sull’ultima versione (io l’unico colpevole) dopo la girandola di confessioni fatte e smentite, condannato solo per soppressione di cadavere. C’è una magistratura. C’è una sentenza. Ora tocca a noi. Del delitto non parla, Franca Leosini. Di questo come degli altri. Non nello specifico. Non al cellulare («ma neppure a tavola con gli amici», giura dall’altro capo del telefono). Unica sede deputata, la tivvù. Finite le aule di giustizia, resta solo quella. “Spero di riuscire a far comprendere quanto ha turbato anche me, le ombre e le luci di questa vicenda”, aveva spiegato nel lancio della nuova stagione di “Storie maledette”, lei che ne è ideatrice, autrice e conduttrice. Il tempo di inchiodare in febbraio Claudio Baglioni alle sue responsabilità, sul palco dell’Ariston, a Sanremo, sorpreso ad armeggiare con una maglietta troppo fina per un piccolo grande amore, ed eccola in marzo partire a razzo con le nuove puntate. Dallo scherzo alla realtà. Dai sorrisi alla tragedia. Fino alla morte. Non è previsto il contrario. C’est la vie. «Sono fatti, quelli che tratto, che hanno attraversato la nostra storia recente e diviso l’opinione pubblica», spiega la giornalista. Franca Leosini, sposata, due figlie, una laurea in Lettere moderne, le sue “Storie maledette” le racconta dal 1994. Prima ha lavorato in redazioni prestigiose, fatto inchieste, suscitato scalpore con un’intervista a Leonardo Sciascia sulle donne di mafia, diretto un mensile (Cosmopolitan), curato la terza pagina de “Il Tempo” e contribuito come autrice al lancio di programmi di successo, Telefono Giallo tanto per gradire. «Sono vicende a tinte forti, appassionanti, quelle che porto all’attenzione del pubblico, trattate sempre con grande umanità». E grande preparazione, ti viene da aggiungere dopo averla vista all’opera. «Questo è sicuro. Ogni puntata impone settimane di fatica. Ogni aspetto è curato nei minimi dettagli. La messa in onda per il delitto Scazzi ha richiesto quattro mesi di lavoro. Non è come per la cronaca. I piani sono diversi: raccontare giorno per giorno i fatti impedisce di andare molto in profondità. Ci si muove su linee orizzontali. Programmi come questo, invece, seguono traiettorie verticali, operano di scavo, indagano a diversi livelli. Sono approcci differenti, insomma, entrambi ugualmente importanti. Un po’ come i Beatles e Mozart: impossibile paragonarli, senza per questo dire chi sia migliore». Cento e passa storie maledette, in tutti questi anni. Un pubblico che la segue da tempo e cresciuto con lei, approdando in rete sotto forma di “Leosiners”, nome plurale di fans che dà il titolo a una pagina Facebook e fa il paio con l’altra, pure gettonatissima, “Uccidere il proprio partner solo per essere intervistati da Franca Leosini”, per dire del seguito della giornalista, vuoi la professionalità, vuoi la simpatia, vuoi anche alcune stravaganze lessicali. Tradotto in cifre: per la prima puntata oltre un milione e 800mila spettatori, più il picco di contatti Twitter. L’approfondimento come fenomeno social. E sociale. Se le chiedi qual è il segreto, trova modo di sintetizzare il concetto mentre sale in taxi. «Gli ingredienti principali, in tutte queste storie, sono quelli che catturano la nostra attenzione. Per prima cosa il fattore umano: indispensabile. E poi il contesto culturale in cui si inserisce l’episodio narrato. Infine, la valutazione dei dubbi e delle incertezze che inevitabilmente aleggiano su ciascun evento sotto forma di luci e ombre. Spero di aver fatto un buon lavoro, all’altezza delle aspettative del pubblico. Guarda la seconda puntata e fammi sapere cosa ne pensi». Il “tu” è cortese omaggio alla comune professione. Piani diversi, però. Il delitto Scazzi tiene dentro tutto. Il mare e la campagna; la città e la provincia; il percorso a ritroso di Sarah da Milano ad Avetrana; il fiore che sboccia nell’adolescenza; le prime timidezze; gli amori attesi; la morbosità dei racconti; lo sgomento della scomparsa; il giallo del cellulare spuntato all’improvviso; il colpo di scena del cadavere ritrovato durante la diretta Rai; la confessione di zio Michele; l’arresto; la ritrattazione; il coinvolgimento della cugina gelosa per l’amico conteso e, infine, l’arresto della zia, quasi fosse la strega cattiva e magari proprio per questo. Tutto e tutti sotto i riflettori, 24 ore su 24, ininterrottamente, un diario dell’orrore costruito intorno al totem dell’imponderabile che sempre incombe, quell’angoscia di ritrovarsi un giorno vittime o carnefici esorcizzata con un rito collettivo e purificatorio quando alla fine la vittima c’è e il carnefice pure, o forse no o forse sì. L’intermittenza delle nostre paure. «Oltre diecimila pagine di processo divorate con attenzione e meticolosità», dice Franca Leosini. Lo si capisce dagli appunti con cui si presenta in carcere, a Taranto, per intervistare, l’una nella grande cappella, l’altra in una stanzetta grigia, Sabrina e Cosima. Le domande ripercorrono i fatti; i resoconti hanno già sintetizzato i cardini della difesa: «Per lei ero una sorella - dice la cugina -, da piccole siamo state flagellate dal bullismo». L’intreccio dei racconti accavalla le voci: «Voleva che io l’adottassi - dice la zia -. Aveva con sé nella borsetta una mia foto di quando ero bambina. “È mia madre”, diceva». Sabrina fragile, Cosima coriacea. E su tutto lei, la conduttrice, che controbatte con le tesi dell’accusa, con le frasi dei testimoni, con la scansione oraria del delitto, con la figura ingombrante di Ivano, il “dio Ivano”, al cospetto del quale “Brad Pitt sembra un bipede sgualcito”. Luci e ombre, appunto. E da qui si riparte. Da una domanda rimasta appesa: “Senta, Sabrina: perché suo padre ha fatto ritrovare il cellulare di Sarah?”. E da uno sfogo polemico, quello di Concetta Serrano, mamma della piccola: «Perché tanto spazio per loro? È sempre la solita farsa». Il resto è contorno. Dà spessore al personaggio Leosini e spiega le ragioni del successo per quel tanto di folclorico e carismatico che, insieme, la perpetua come icona. A cominciare dalle frasi articolate, dai lemmi desueti, dal solfeggio delle domande, partitura in musica di interviste offerte al giudizio della Corte universale. E così dal “livello di affondo” (per non dire penetrazione) si passa alla “questuante dell’amore, sentimentalmente genuflessa”, per approdare ai “crateri di cellulite spianati sulle cosce delle signore”, alle mani usate con “efficacia felicemente terapeutica”, all’“incauto giovanotto che, frenando i suoi ardori lombari, s’inforcava le mutande”. Fino al disarmo totale della controparte quando Sabrina dice “sono trasparente”: “No”, la inchioda, “lei è una babbalona”. Otto anni senza Sarah. I sogni biondi come i capelli, baciati dal sole, mossi dal vento, lei angelo tra gli angeli. La giustizia ha emesso il suo verdetto, ognuno stilerà il proprio. Ma in fondo a quel pozzo, lì ad Avetrana, in un giorno di agosto è precipitata anche un po’ della nostra anima bella.

CONCETTA SERRANO, MAMMA DI SARAH, CONTRO STORIE MALEDETTE. Scrive il 18 marzo 2018 Stella Dibenedetto su "Il Sussiadiario". L’intervista realizzata da Franca Leosini a Sabrina Misseri e Cosima Serrano per Storie Maledette ha provocato la reazione di Concetta Serrano, la mamma di Sarah. In un’intervista rilasciata ai microfoni del settimanale Giallo, la mamma della ragazzina uccisa ad Avetrana, ha dichiarato: “Sono state le mie amiche a dirmi dell’intervista. Al di là di questo, sono esterrefatta. Lo trovo ingiusto nei confronti degli altri ergastolani. Trovo ingiusto il fatto che loro abbiano un trattamento particolare, in quanto possono dire quello che vogliono, mentre gli altri ergastolani non hanno voce in capitolo”. La mamma di Sarah, poi, alla domanda sul perché Storie Maledette abbia intervistato solo Cosima e Sabrina senza dare la parola alla famiglia di Sarah, ha detto: “Evidentemente quello che hanno da dire Cosima e Sabrina, dal punto di vista di chi dirige la trasmissione, è più importante del pensiero dei familiari della vittima. Per quanto riguarda il rispetto, quello ormai non esiste più…”.

Storie Maledette, Roberta Bruzzone: “Il racconto di Franca Leosini non somiglia a quello reale. E mi aspettavo sobrietà sulle scelte lessicali”. La criminologa non ha affatto gradito le due puntate della trasmissione di Rai 3 Storie Maledette, condotta da Franca Leosini, dedicate al processo che ha condannato Sabrina Misseri e Cosima Serrano, entrambe intervistate nel corso della trasmissione, all'ergastolo per aver ucciso l'allora 15enne Sarah Scazzi, scrive Giulio Pasqui il 19 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Apprezzamento quasi unanime sui social per il programma Storie Maledette, non condiviso però da Roberta Bruzzone. “Ma la Leosini cosa si è letta prima di fare queste interviste?Siccome questa storia la conosco particolarmente bene, ho gli strumenti per dire che purtroppo il racconto reso non assomiglia a quello reale”. La criminologa non ha affatto gradito le due puntate della trasmissione condotta da Franca Leosini, dedicate al processo che ha condannato Sabrina Misseri e Cosima Serrano, entrambe intervistate nel corso della trasmissione, all’ergastolo per aver ucciso l’allora 15enne Sarah Scazzi. “Ho visto entrambe le puntate dedicate alla vicenda e avendo studiato approfonditamente gli atti e le tre sentenze di condanna, avendo fatto parte dell’inchiesta e avendo partecipato al processo come testimone dell’accusa devo dirle che nelle carte ho letto proprio un’altra storia. Tanti aspetti davvero interessanti e importanti, contenuti nelle sentenze, non sono state portate all’attenzione o sono stati citati in maniera impropria. Non è il mio lavoro fare le pulci a Franca Leosini: dovrei dedicarci due o tre giorni di lavoro perché le imprecisioni sono davvero tante e ho ben altro da fare”, si sfoga la criminologa a ilfattoquotidiano.it. “Perlomeno andava concesso un contraltare (un avvocato o un esponente della famiglia di Sarah), altrimenti il prodotto finale diventa squilibrato. Conoscendo la signora Concetta Serrano, madre di Sarah, credo che per lei sia stato davvero straziante. A differenza di altre volte in cui ho avuto modo di apprezzare Franca Leosini, stavolta non ci siamo proprio. La storia è proprio un’altra. Le persone che non hanno letto niente e hanno capito ancora meno, si sono lasciate suggestionare e ora sono convintissime che ci siano due innocenti in carcere quando la vicenda ha ampiamente dimostrato che è il contrario. Non che conti granché, perché le assoluzioni o le condanne non si danno con il numero di like. Però ritengo un po’ pericolose le trasmissioni impostate così”, continua la Bruzzone. Qualcuno contesta: l’obiettivo della Leosini è indagare sulla psicologia dell’intervistato e non ricostruire i fatti: “Se devi indagare sulla psicologia, lo devi fare attraverso i fatti contestati e riconosciuti da tre atti di giudizio. Poi il programma è suo e faccia quel che vuole, ma lo trovo discutibile”. Bruzzone non ha neanche apprezzato certi vezzi linguistici della conduttrice idolatrata dal popolo del web ed eletta a icona. “Mi permetta: dopo il “ditino birichino” di Rudy Guede, mi aspettavo una maggiore sobrietà. Alcuni passaggi e alcune scelte lessicali le ho trovate discutibili, considerato che è morta una ragazzina di 15 anni. “Ha placato gli ardori lombari”, “si è rinforcato le mutande”: ma stiamo scherzando?”. Ancora: “Trovo stucchevole anche fare certe affermazioni culturali o certe citazioni complesse davanti a una ragazza che con ogni probabilità non ha un’estrazione socio-culturale compatibile. Perché andare a sbandierare una cultura che questa persona non ha? Perché metterla in difficoltà? Qual è l’obiettivo?”. Il nome “Roberta Bruzzone” è stato citato nel corso della trasmissione, in quanto l’avvocato è stata consulente della difesa di zio Michele (l’uomo poi accusò la criminologa di averlo indosso a incolpare la figlia Sabrina): “La Leosini detto che ho querelato Michele Misseri per calunnia, ma il processo è già iniziato due anni fa. Un conto è dire che io ho denunciato qualcuno. Sa, le denunce possono anche finire in cavalleria con l’archiviazione. Qui invece si parla di un processo che è in fase di ultimazione perché a giugno è prevista la sentenza finale. Siccome non penso che l’intervista sia stata fatta due anni fa, andava data un’informazione corretta”. Alla Bruzzone non è andata giù una opinione diversa dal plotone di esecuzione mediatico messo su da chi aveva un interesse particolare alla fucilazione delle vittime predestinate...

"Sono napoletana e ho nel DNA squarci di ironia che chi è nato al Nord probabilmente non possiede", scrive il 20/03/2018 "Huffington Post". Franca Leosini risponde alla Bruzzone: "Ognuno ha il suo lessico: io non entro mai nel merito delle sue scelte e neanche dei programmi a cui sceglie di partecipare". Leosini non abbastanza aggiornata, Storie Maledette condita di inesattezze ed errori rispetto alla ricostruzione del delitto di Avetrana: ecco il succo delle accuse che la criminologa Roberta Bruzzone aveva lanciato dal suo account Twitter contro la trasmissione crime di Rai 3 e della sua conduttrice. Oggi a controbattere giunge Franca Leosini in persona, intervistata durante il programma radiofonico Circo Massimo di Radio Capital. La conduttrice, criticata dalla Bruzzone anche per il lessico particolarmente ricercato delle sue narrazioni, ha dichiarato: "Io non entro mai nel merito delle scelte lessicali della dottoressa Bruzzone e neanche nel merito dei programmi televisivi a cui sceglie di partecipare. Ognuno ha il suo lessico: io sono napoletana e un narratore napoletano ha nel DNA squarci di ironia che chi è nato al Nord probabilmente non possiede". La Leosini ha risposto per le rime anche alle accuse di imprecisioni ed errori. "Ho detto ed ho ripetuto che la dottoressa Bruzzone ha sporto querela contro Michele Misseri, che si è in attesa di sentenza ed esprimo rispetto. Per carità. Io non potevo di certo ricapitolare ogni singolo dettaglio del processo. Io seguo l'asse portante. Per quanto riguarda le imprecisioni, rispetto il pensiero e la sapienza di Roberta Bruzzone."

“Sabrina, parlando con lei si resta soprattutto lacerati dall’ansia di crederle ma tormentati dal dubbio se sia giusto o sbagliato crederle. Porto con me questo tormento”. Franca Leosini, Storie maledette sul caso dell’assassinio di Sarah Scazzi.

Secondo appuntamento con il programma di Franca Leosini che prosegue nelle interviste a Sabrina Misseri e Cosima Serrano, ritenuti responsabili dell'omicidio di Sarah Scazzi, scrive Francesco La Rosa, Domenica 18 Marzo 2018 su "Marida Caterini". È andato in onda su Rai 3 il secondo appuntamento con Storie maledette, il programma ideato e condotto da Franca Leosini. Trasmessa la seconda parte dell’intervista a Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per l’omicidio ad Avetrana della piccola Sarah Scazzi, avvenuto nel 2010. Anteprima: servizio in cui Franca Leosini ricostruisce le tappe della triste vicenda della giovane pugliese: il suo racconto si ferma al ritrovamento del cellulare della ragazzina il 29 settembre 2010, proprio dove la prima puntata era terminata. La Leosini chiede ad entrambe il motivo che spinse Michele Misseri a far ritrovare il cellulare della nipote. La moglie: “Forse non ce la faceva più a tenere tutto questo peso dentro di sé”. “Non ho mai sospettato di lui”, dice Sabrina. La Serrano fa capire alla conduttrice che il marito ha riflettuto a fondo sulla volontà di far rinvenire il telefonino di Sarah. Misseri voleva che tutti i sospetti si concentrassero su di lui. Il 5 ottobre, alla vigilia del suo interrogatorio, l’uomo, nella sua auto, parlò tra sé e sé: un soliloquio sconclusionato probabilmente legato a quanto stava accadendo e interpretato diversamente da accusa e difesa nel processo. Il 6 ottobre, a Chi l’ha visto?, venne comunicata alla mamma di Sarah il ritrovamento del corpo della figlia e che il cognato aveva confessato l’omicidio della nipote. Franca Leosini chiede a Sabrina Misseri di ricostruire quei momenti: “Piansi per ore”, rivela. Tra lei e il padre ci fu una telefonata dopo quella diretta, nella quale chiese al genitore il perché del suo gesto. Misseri, stando ai documenti, disse: “Non lo so”.  La ragazza si proclama innocente e tra le lacrime dice: “Fino ad ora è stata proprio Sarah a non aver avuto giustizia”. Michele Misseri dichiarò in seguito anche di aver violentato la nipote dopo averla uccisa, affermazioni ritrattate più volte come noto. “Non so se Michele avrebbe potuto essere capace di abusare di Sarah”. La donna poi svela come negli ultimi periodi di matrimonio i rapporti tra loro non erano buoni, ricordando due episodi in cui il marito, durante altrettanti litigi, minacciò di aggredirla fisicamente. “Negli ultimi anni di matrimonio non lo consideravo una brava persona, era un po’ falso”, aggiunge. Dal maggio 2010 i due non dormivano più assieme: Michele Misseri dormiva su una sdraio e stando alle parole della moglie i due non avevano rapporti sessuali proprio da quel periodo. Rispetto alla puntata precedente, come immaginabile, la protagonista della serata è maggiormente Cosima Serrano. Il 15 ottobre 2010 Michele Misseri coinvolse nei fatti la figlia Sabrina. La ragazza confessa all’intervistatrice che il padre da un paio d’anni era cambiato sotto l’aspetto psicologico, come se qualcosa non andasse. “Perché papà avrebbe ucciso Sarah? Per un movente sessuale”, dice la ragazza che quindi ritiene colpevole il papà dell’omicidio della cugina, commesso nel garage di casa. Però poi ammette di non aver mai intuito possibili interessi sessuali del padre nei confronti della ragazzina. Poi si discolpa ulteriormente: “Lui ha dichiarato che io sono scesa in garage, cosa che però non ho fatto. Se avessi assistito alla scena avrei chiamato subito i Carabinieri”. In seguito, durante l’incidente probatorio, Michele Misseri cambiò nuovamente versione asserendo che era stata la figlia a far morire la nipote durante un gioco, finito tragicamente male. La Leosini sentenzia: “Questa è una dichiarazione di sontuosa imbecillità”: sulla stessa linea la Misseri figlia che dal canto suo definisce “recita” quella del padre. Anche Cosima Serrano pensa sostanzialmente che il marito abbia assassinato Sarah: “Non pensavo che fosse capace di uccidere, eppure è successo”. “Non siamo state né io né mia madre ad uccidere Sarah”, ribadisce la Misseri che non accetta la sentenza del tribunale e reputa anche poco convincente il movente di gelosia nei confronti di Sarah per il suo rapporto con Ivano Russo. La ragazza ribadisce che la ragazza non è entrata proprio in casa sua, sebbene la testimonianza di un imbianchino avesse visto la ragazzina intorno alle 13.45 andando nella direzione di casa Misseri. Dal canto suo, Cosima Serrano smentisce categoricamente la testimonianza di un fioraio locale che intorno al pomeriggio del giorno fatidico l’avrebbe vista strattonare la nipote e farla entrare bruscamente in auto. Il fioraio successivamente dichiarò di aver sognato tutto ciò. Dopo l’arresto ad ottobre 2010 di Sabrina Misseri, nel maggio successivo anche la madre Cosima Serrano subì la stessa sorte per concorso in omicidio, accusa che lei però continua a smentire. “Chi ha ucciso Sarah? Io e mia figlia certamente no”, dice. “Ai giudici non hanno dato scelta, hanno archiviato la posizione di quello che si era autoaccusato (il marito, ndr) e quindi qualcuno dovevano incolpare”, aggiunge, pur dicendo di non poter dichiarare con certezza che sia stato il consorte ad ammazzare la nipote. A spingere la Serrano a voler uccidere la nipote sarebbe stato il fatto che la donna fosse furiosa del pettegolezzo messo in giro da Sarah sul mancato rapporto sessuale tra Sabrina e Ivano Russo. Accusa che però lei non ha mai voluto accettare. Michele Misseri ha scritto numerose lettere alla figlia per chiederle perdono: la figlia dichiara di leggerle, ma non di avergli mai risposto. “Un giorno vorrò incontrarlo”, confessa. La ragazza, detenuta nel carcere di Taranto, spiega le sue attività nel carcere: sveglia alle 6.30, poi porta la colazione alle detenute e il pomeriggio frequenta anche un corso scolastico. È anche un’abile disegnatrice. “Il paradosso è che c’è molta più umanità qui dentro che fuori. Le altre detenute non mi hanno creato mai problemi e per questo le ringrazio”. Sabrina divide la cella con sua madre: “Non è facile aiutarsi a vicenda perché soffriamo entrambe. “. Cosima Serrano invece si dedica molto all’uncinetto: “È stata la mia salvezza”, dice. Attraverso queste domande, si cerca in questo momento di scoprire la quotidianità delle detenute, andando oltre i tragici eventi che hanno stravolto loro la vita. Alcuni parenti si sono allontanati, altri sono rimasti loro accanto così come alcuni amici. “A me piacerebbe molto parlare con mia zia Concetta (la madre di Sarah, ndr). Spesso in tribunale ho cercato il suo sguardo per farle capire che non potevo aver fatto ciò di cui ero accusato. Lei mi manca”, dice Sabrina in risposta ad una lettera della zia che ha dichiarato di desiderare la conversione al geovismo della ragazza, religione professata da Concetta Serrano. Cosima: “Rivedere mia sorella? Certo, così potremmo chiarirci”. Madre e figlia si dicono a posto con la coscienza. “Porto con me il tormento se sarebbe giusto crederle o no”, conclude Franca Leosini al termine di un’intervista che nella parte finale ha ancor più cercato di entrare nell’animo dell’interlocutrice.

Storie Maledette, le lacrime di Cosima e quel dettaglio sul marito Michele: aveva le mani nere.  Cosima Serrano, ribattezzata "la sfinge", si è lasciata andare per la prima volta alle lacrime davanti alle telecamere di Storie Maledette: a scatenare la commozione, il ricordo di come Michele Misseri si presentò davanti ai Carabinieri per fare la sua confessione, scrive Francesca Di Belardino il 19 marzo 2018 su "Funweek.it". Cosima Serrano è uno dei personaggi più controversi della cronaca nera italiana: una madre di famiglia all’apparenza distante e severa, che secondo l’accusa -ed anche secondo i giudici che l’hanno condannata all’ergastolo - non ha esitato ad aiutare fattivamente la figlia Sabrina ad uccidere la nipotina, Sarah Scazzi, figlia della sorella Concetta. Intervistata da Franca Leosini per Storie Maledette Cosima si è fatta conoscere, probabilmente per la prima volta, dal pubblico italiano: ha parlato della figlia Sabrina e del suo rapporto con Ivano, del suo ruolo in casa (“non comandavo, gestivo”), ma anche del matrimonio con Michele, dei litigi e dei rapporti intimi (assenti da un paio di mesi, ha spiegato a Franca Leosini). Cosima è stata ribattezzata “la sfinge”, per la sua apparente impertubabilità: a differenza di Sabrina di lacrime ne ha versate ben poche, anche durante l’intervista. Ma in un momento particolare si è lasciata andare alla commozione, evidentemente perchè il ricordo che riaffiorava era particolarmente doloroso: quando Michele è andato dai Carabinieri per l’interrogatorio durante il quale avrebbe confessato l’omicidio di Sarah, aveva “le mani nere”. Le mani nere di Michele - sporcate in modo quasi indelebile lavorando, cioè pulendo le noci senza guanti - sono apparse alla moglie una metafora della sua colpevolezza: “non aveva mai avuto le mani così nere, erano come la sua coscienza”, ha ripetuto Cosima, visibilmente emozionata. Quello è stato l’unico momento in cui Cosima ha mostrato commozione: va detto comunque che l’intervista di Franca Leosini, che non ha in nessun modo fatto sconti alle due ergastolane, ha riacceso parecchi dubbi tra i telespettatori sulla colpevolezza di Cosima e Sabrina.

Sabrina Misseri a Storie Maledette: “Con me più umanità in carcere che fuori”, scrive Michela Becciu il 19 marzo 2018 su "Urban Post". Sabrina Misseri a Storie Maledette intervistata da Franca Leosini è più volte scoppiata a piangere mentre ha rivissuto, raccontando la sua verità su quei terribili fatti, i drammatici momenti vissuti in prima persona relativamente all’omicidio della cugina Sarah Scazzi, di cui è stata ritenuta esecutrice materiale insieme alla madre, Cosima Serrano. Più volte la ragazza – condannata in via definitiva all’ergastolo insieme alla madre – ha preso le distanze dalle tre sentenze che l’hanno portata in carcere, smentendo la ricostruzione dei fatti e ribadendo “loro dicono così (i giudici ndr), in realtà le cose sono andate diversamente”. Sabrina, per quanto incredula inizialmente, oggi ritiene colpevole del delitto suo padre Michele Misseri – reo confesso ma ritenuto inattendibile dai giudici dopo una serie di ritrattazioni – si dichiara innocente: “Ho la coscienza a posto, io non c’entro con la morte di Sarah”. Idem dicasi per ciò che Cosima Serrano ha detto alla Leosini: “Peso più di 100 chili ma la coscienza ce l’ho pulita. Dentro mi sento leggera come una farfalla”, ha dichiarato la donna con la voce rotta dal pianto. Rarità, questa, per come siamo sempre stati abituati a vederla: reticente, glaciale e schiva davanti alle telecamere, diversamente dalla figlia e dal marito. “Sabrina, è stato suo padre a farvi finire in carcere, non se lo dimentichi”, ha sottolineato la Leosini. “Non ce l’ho tanto con mio padre”, ha detto Sabrina, “nel senso che comunque avevo fiducia nei giudici. Ero convinta che la verità sarebbe emersa invece …” (Piange). Un’infinità le lettere che Michele Misseri le scrive, lei ha ammesso di leggerle “ma non ce la faccio a rispondergli, penso a quello che ha fatto, a Sarah e non ci riesco, è più forte di me”. “Leggo le sue lettere per capire se effettivamente si è reso conto della gravità della situazione, ma secondo me non l’ha capito. Mi scrive per chiedermi perdono … ora non riesco a rispondergli, però in futuro vorrò un confronto con lui, questo sì”.

Sabrina Misseri a Storie Maledette: “Ho la coscienza a posto, io non c’entro con la morte di Sarah”, scrive il 20 marzo 2018 "Cagliaripost.com". Franca Leosini intervista per Storie Maledette, Sabrina Misseri, condannata in via definitiva all’ergastolo insieme alla madre per l’omicidio della cugina Sarah Scazzi, La ragazza è più volte scoppiata a piangere mentre raccontava la sua verità su quei terribili fatti di cui è stata ritenuta esecutrice materiale insieme alla madre, Cosima Serrano. Più volte ha preso le distanze dalle tre sentenze che l’hanno portata in carcere, smentendo la ricostruzione dei fatti e ribadendo “loro dicono così, in realtà le cose sono andate diversamente”. Sabrina ritiene colpevole del delitto suo padre Michele Misseri, reo confesso ma ritenuto inattendibile dai giudici dopo una serie di ritrattazioni, si dichiara innocente: “Ho la coscienza a posto, io non c’entro con la morte di Sarah”. Anche Cosima Serrano ha detto alla Leosini: “Peso più di 100 chili ma la coscienza ce l’ho pulita. Dentro mi sento leggera come una farfalla”, la donna che parlava con la voce rotta è apparsa scossa e diversa da come siamo sempre stati abituati a vederla: reticente, glaciale e schiva davanti alle telecamere, diversamente dalla figlia e dal marito. “Sabrina, è stato suo padre a farvi finire in carcere, non se lo dimentichi”, ha sottolineato la Leosini. “Non ce l’ho tanto con mio padre”, ha detto Sabrina, “nel senso che comunque avevo fiducia nei giudici. Ero convinta che la verità sarebbe emersa invece …”. Un’infinità le lettere che Michele Misseri le scrive, lei ha ammesso di leggerle “ma non ce la faccio a rispondergli, penso a quello che ha fatto, a Sarah e non ci riesco, è più forte di me”. “Leggo le sue lettere per capire se effettivamente si è reso conto della gravità della situazione, ma secondo me non l’ha capito. Mi scrive per chiedermi perdono … ora non riesco a rispondergli.” Sabrina ha anche espresso la volontà di poter parlare, prima o poi, con la zia Concetta, madre di Sarah. Si è detta dispiaciuta per il fatto che la donna crede nella colpevolezza sua e di Cosima. E sul carcere poi un’affermazione che di nuovo le ha provocato le lacrime agli occhi: “Il paradosso è che c’è più umanità qui che fuori”. La Leosini, dopo ore di interviste, ha chiosato con un’affermazione che conferma il persistere di molte ombre in questa vicenda giudiziaria, che molti dubbi su come siano andati davvero i fatti non li ha ancora fugati: “Sabrina, parlando con lei si resta soprattutto lacerati dall’ansia di crederle ma tormentati dal dubbio se sia giusto o sbagliato crederle. Porto con me questo tormento”.

Storie maledette, dopo la puntata pioggia di dubbi in rete sulla condanna di Sabrina, scrive Lunedì 19 Marzo 2018 "Il Quotidiano di Puglia". Finisce così, con un senso di sospensione della verità la seconda e ultima puntata di Storie Maledette dedicata al caso Scazzi. "Sabrina, parlando con lei si resta soprattutto lacerati dall'ansia di crederle ma tormentati dal dubbio se sia giusto o sbagliato crederle. Porto con me questo tormento". Con queste parole che pesano come un macigno il secondo appuntamento, in prima serata su Rai3, con il programma di Franca Leosini fa calare il sipario sul carcere di Taranto dove Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano - condannate per l'omicidio della quindicenne - per la prima volta hanno raccontato la loro verità su uno dei casi che maggiormente ha diviso e appassionato l'opinione pubblica: l'omicidio di Sarah. La prima parte del programma si era conclusa con il racconto del ritrovamento del cellulare di Sarah, nella seconda sono state raccontate le evoluzioni dell'indagini, le bugie, le accuse, le ritrattazioni e altri colpi di scena. “Questa vicenda si è articolata sin dall’inizio nel segno del paradosso. Da una parte suo padre che sostiene di avere la mani sporche di morte ma non viene creduto, dall’altra lei e sua madre che disperatamente vi dichiarate incolpevoli e non venite credute. “Con quel suo modo di esprimersi avventuroso, ruspante, monocorde, in “misserese”, suo padre ha rilasciato dichiarazioni talmente incoerenti tra loro da non rendere credibile nulla. Neppure quando ha detto la verità” dice la Leosini. Nel corso dell'intervista a Sabrina in tanti hanno affermato sul web di credere alla versione della giovane. In tanti tweettano i loro dubbi, tra loro anche Selvaggia Lucarelli commenta: "La sentenza Scazzi grida vendetta". La rete si divide tra innocentisti e colpevolisti. Emblematiche in merito le parole della conduttrice: "Porto con me questo tormento".

“Sabrina, parlando con lei si resta soprattutto lacerati dall’ansia di crederle ma tormentati dal dubbio se sia giusto o sbagliato crederle. Porto con me questo tormento”. Franca Leosini, Storie maledette sul caso dell’assassinio di Sarah Scazzi.

"E se Sabrina fosse innocente?". Effetto Leosini sui social: gli utenti "assolvono" la Misseri, scrive il 20/03/2018 Huffington Post. "Mi rimane difficile credere che abbia potuto uccidere la cugina. E vorrei che non fosse così, altrimenti con l’ergastolo sarebbe un secondo omicidio". "E se Sabrina fosse innocente?". La domanda aleggia tra i social, si fa insistente e diventa infine un'affermazione: Sabrina è innocente. Se ne sono convinti molti utenti dopo averla sentita raccontare la sua versione dei fatti nel programma "Storie Maledette". Franca Leosini ha dedicato due puntate all'omicidio di Avetrana, cercando di dar risposte, ma facendo sorgere ulteriori dubbi. Partono persino sondaggi su Twitter: credete sia innocente? La percentuale è nettamente a favore del sì. "Se lo fosse sarebbe terribile. Non sapremo mai com'è andata realmente. Sono sempre più confusa", scrive un utente. "Se davvero Sabrina fosse innocente, in carcere da quando aveva 22 anni sarebbe un dramma pari alla morte violenta di una ragazzina di 15 anni", aggiunge un altro. "Io ho paura che Sabrina sia innocente. E vorrei che non fosse così, altrimenti con l'ergastolo sarebbe un secondo omicidio", si legge in un commento. Tra le fila di post che assolvono la ragazza, che dubitano, che si domandano, spuntano quelli di chi racconta una certezza: è stata condannata all'ergastolo, al terzo grado di giudizio. La sentenza, dicono, non può esser stata emessa con leggerezza. Ricordano poi che spesso la ragazza è stata accusata di essere un'abilissima manipolatrice: la stessa abilità potrebbe esser emersa nel programma. Ad ogni modo, Franca Leosini sembra aver mostrato agli utenti un volto di Sabrina inaspettato, difficile da far coincidere con quello che l'immaginario attribuisce al "mostro che ha ucciso la cugina". La stessa Leosini, d'altronde, in una precedente intervista ha raccontato che è proprio quello lo scopo del suo programma: dare la possibilità di un restauro d'immagine, di mostrare la propria realtà umana. "Io vado alla ricerca delle ragioni profonde che hanno portato il protagonista di quella storia all'orrore di un gesto che non gli somiglia. Non sono persone che hanno la vita programmata al crimine, queste persone potremmo essere noi".

Il super-Pm sbotta: «Giudici, ora basta», scrive l'11 maggio 2015 Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Lo sapete tutti che nei manuali di giornalismo c’è scritto che una notizia è notizia quando l’uomo morde il cane, e non viceversa. Beh, stavolta è ancora più notizia: è il magistrato che morde il magistrato. Cosa mai vista, finora. E il magistrato in questione non è un tizio qualunque, ma è il Procuratore di Torino Armando Spataro, anni 67, carriera lunghissima, sempre impegnato in indagini molto delicate, prima la lotta al terrorismo di sinistra, nei primi anni ottanta, poi l’antimafia. Spataro è un’icona di coloro che amano i Pm. Duro, rigoroso, burbero, cattivo, non sorride mai. Uno sceriffo. E uno che parla chiaro, non si nasconde, te le grida in faccia. A occhio non è proprio il tipo del magistrato garantista. Ed è difficile trovare qualche sua frase di simpatia per i garantisti. Beh, ieri Spataro è andato a parlare nella tana del nemico, e cioè a un convegno organizzato dalla camere penali del Piemonte, e ha pronunciato una requisitoria delle sue, ma stavolta contro i suoi colleghi. Spataro ha tuonato contro i magistrati protagonisti, i magistrati presunti “eroi”, i magistrati moralisti, i magistrati maestri di storia, i magistrati faziosi, i magistrati narcisi eccetera eccetera. Ha messo nel mirino (senza mai nominarli) Ilda Boccassini, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Antonio Di Pietro (ma anche Borelli, D’Ambrosio e Colombo) forse anche Pignatone, sicuramente, e con durezza, il ministro Alfano. E poi ha disintegrato l’immagine dei giornalisti giudiziari, accusandoli di pigrizia e scarsa professionalità (ma anche un po’ di servilismo…). Ha pronunciato un discorso simile agli articoli che su questo giornale scrive Tiziana Maiolo…I casi sono due. O prendiamo questo sfogo di Armando Spataro come una boutade (o come semplice espressione della lotta interna tra le correnti della magistratura); oppure lo prendiamo sul serio ed esaminiamo una a una le cose che lui ha detto e immaginiamo che forse si è arrivati – nella vicenda del potere sempre più grande in mano alla magistratura – a quel punto di rottura che provoca reazioni, discussioni, dubbi, e che forse può portare a una inversione di tendenza. Speriamo. Naturalmente è chiaro che alcuni degli attacchi di Spataro possono essere effettivamente letti all’interno della lotta tra correnti della magistratura. Spataro ce l’ha sempre avuta con ”Magistratura Democratica” e oggi gli tira un po’ di frecce avvelenate. Così come è noto che Spataro non ha mai amato la Boccassini, che addirittura una volta fece pedinare degli indagati sui quali stava indagando, appunto, Spataro, che la prese molto male. Ed è anche noto che Spataro non ama il ministro Alfano e perciò – come vedrete – lo espone a impietosi paragoni con ministri dell’Interno del passato (Virginio Rognoni, in particolare) e lo maltratta in tutti i modi. Detto ciò, vediamo quali sono i sassolini che Spataro si toglie dalla scarpa. Trascrivendo pari pari le frasi che ha pronunciato a Torini, senza cambiare una virgola. «E’ una fortuna che sia finita l’era di mani pulite e l’era di Di Pietro. Rammento i giornalisti a frotte dietro i pubblici ministeri nei corridoi, e devo dire che alla fine qualche collega era più convinto dell’importanza della notizia in prima pagina che non dell’esito del processo…«Badate che non sto contestando il diritto e il dovere del magistrato di intervenire nel dibattito civile. E’ giusto che intervenga. Senza però dare alcun segnale di dipendenza o vicinanza politica…«Vi faccio qualche esempio di protagonismo non virtuoso: c’è un magistrato che a Palermo, dopo aver letto una sentenza che disattendeva le sue conclusioni, disse che se lui fosse stato un professore avrebbe dato quattro meno al giudice che aveva fatto quella sentenza (e qui si riferisce al dottor Vittorio Teresi, coordinatore del pool antimafia della Procura di Palermo, il quale pronunciò quella frase infelice commentando la sentenza del processo Mori, ndr); poi c’è chi ha detto che il Csm avrebbe dovuto valutare, al fine di designare il nuovo procuratore capo di Palermo, il grado di condivisione dei candidati con l’impostazione del processo sulla trattativa Stato mafia (e qui si riferisce ancora a Teresi, ma anche a Ingroia e più in generale a tutti i Pm che fanno capo all’ex Procuratore di Palermo De Matteo, ndr). Mi sembra una impostazione inaccettabile». «Poi c’è il caso di quei pubblici ministeri che a distanza di 20 anni dall’inizio dei processi di mafia al Nord, dicono: ”Finalmente arrivo io e indago sulle infiltrazioni di mafia al Nord”, oppure che continuamente fanno riferimenti a entità esterne, ai poteri forti…Il vizio più pesante della magistratura è la tendenza a porsi come moralisti, come storici, cioè pensare che tocca ai magistrati moralizzare la società e ricostruire un pezzo di storia». «Non sopporto più i colleghi che si propongono come gli unici eroi che lottano per il bene, mentre tutto attorno c’è male, e loro sono una sorta di Giovanna D’Arco, e sono alla continua denuncia dell’isolamento nel quale si trovano. Ma l’isolamento del magistrato non ha niente di eccezionale, è una condizione tipica del nostro lavoro. Non sopporto quelli che vanno in piazza per raccogliere firme di solidarietà». «Se si dovesse fare una riforma della Costituzione, vorrei che fosse inserita una norma che prevede l’indipendenza della stampa dal potere politico. Anni fa feci un viaggio negli Stati Uniti e chiesi al Procuratore federale di Chicago come facessero a mantenere l’indipendenza visto che sono nominati dal presidente degli Stati Uniti. Lui mi rispose: «Ma qui c’è la stampa», alludendo al ruolo della stampa e alla sua assoluta indipendenza. In Italia invece abbiamo degenerazioni di ogni tipo: magistrati che sfruttano il processo famoso per curare la propria icona, avvocati che tendono a trasferire il processo in Tv per auto-promuoversi, giornalisti che non cercano riscontri ma inseguono misteri, e ministri che inseguono slogan e telecamere. «Quando arrestammo Mario Moretti, il capo delle Br, non potrò mai scordarmi che mi telefonò l’allora ministro dell’Interno (Virginio Rognoni ). Avevo 31 anni, mi emozionai ( in verità ne aveva 33…anche lui bada un po’ alla sua immagine e si cala l’età…peccato veniale…, ndr). Il ministro mi chiamò per dirmi: ”lei sa quanto è importante per noi diffondere la notizia dell’arresto di Moretti, ma deve essere lei a dirmi che posso farlo, perché prima vengono le indagini”. Oggi avviene esattamente il contrario: notizie di operazioni contro il terrorismo internazionale vengono diffuse prima ancora che si realizzino, abbiamo notizie che vengono riprese senza alcun potere critico da parte della stampa, ad esempio quella sui terroristi che arrivano sui barconi dei migranti in Sicilia. Veicolare questa informazione interessa alla politica: possibile che non ci sia nessun giornalista che scriva che questa cosa non sta né in cielo né in terra?…» Questa è la sintesi del discorso di Spataro. Non mi è mai capitato di parlare bene di Spataro…Però questi suoi ragionamenti, se fossero ripresi da qualche altro Pm, potrebbero essere un punto di partenza per una discussione seria, no? Del resto sono convinto che la possibilità di fermare l’aggressività politica della magistratura (e del patto di ferro tra magistratura e giornalismo) , oggi esiste solo se la critica parte dall’interno della magistratura.

Gherardo Colombo: "Io, magistrato pentito, non credo più nella punizione". Il modello possibile della giustizia riparativa. Rispetto a un sistema che non riconosce le vittime e che crea solo inutile sofferenza. Rendendo più insicura la società. Ma i politici hanno un solo cruccio: aumentare le pene. Come nel caso - "fuori luogo" - dell'omicidio stradale. Parla il grande giudice e pm, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Gherardo Colombo: «Questa donna ha ragione. E va ascoltata. Perché se oggi il carcere svolge una funzione, è la vendetta». Prima giudice, poi pubblico ministero in inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come la Loggia P2 o Mani Pulite, Gherardo Colombo ha messo profondamente in discussione le sue idee: «Ero uno che le mandava le persone in prigione, convinto fosse utile. Ma da almeno quindici anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione».

Da uomo di legge, la sua è una posizione tanto netta quanto sorprendente.

«È concreta. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi, privando le persone della libertà senza dare loro quella possibilità di recupero sancita dalla Costituzione. Esistono esempi positivi, come il reparto “La Nave” per i tossicodipendenti a San Vittore, o il carcere di Bollate, ma sono minimi».

Molti dati mostrano la debolezza della rieducazione nei nostri penitenziari. Ma perché parlare addirittura di vendetta?

«Credo sia così. Pensiamo alle vittime: cosa riconosce la giustizia italiana alla vittima di un reato? Nulla. Niente; se vuole un risarcimento deve pagarsi l’avvocato. Così non gli resta che una sola compensazione: la vendetta, sapere che chi ha offeso sta soffrendo. La nostra è infatti una giustizia retributiva: che retribuisce cioè chi ha subito il danno con la sofferenza di chi gli ha fatto male».

Esistono esperienze alternative?

«Sì. In molti Paesi europei sono sperimentate da tempo le strade della “giustizia riparativa”, che cerca di compensare la vittima e far assumere al condannato la piena responsabilità del proprio gesto. Sono percorsi difficili, spesso più duri dei pomeriggi in cella. Ma dai risultati molto positivi».

Se questa possibilità è tracciata in Europa, perché un governo come quello attuale, così impegnato nelle riforme, non guarda anche alle carceri?

«Nei discorsi ufficiali sono tutti impegnati piuttosto ad aumentare le pene, a sostenere “condanne esemplari”, come sta succedendo per la legge sull’omicidio stradale - una prospettiva che trovo quasi fuori luogo: quale effetto deterrente avrebbe su un delitto colposo? Ma al di là del caso particolare, il problema è che i politici rispondono alla cultura dei loro elettori. Il pensiero comune è che al reato debba corrispondere una punizione, che è giusto consista nella sofferenza. Me ne accorgo quando parlo nelle scuole del mio libro, “Il perdono responsabile”: l’idea per cui chi ha sbagliato deve pagare è un assioma granitico, che solo attraverso un dialogo approfondito i ragazzi, al contrario di tanti adulti, riescono a superare. D’altronde il carcere è una risposta alla paura, e la paura è irrazionale, per cui è difficile discuterne».

È una paura comprensibile, però. Parliamo di persone che hanno rubato, spacciato, ucciso, corrotto.

«Ovviamente chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, nel rispetto delle condizioni di dignità spesso disattese nei nostri penitenziari. Ma solo chi è pericoloso. Ed è invece necessario pensare fin da subito, per tutti, alla riabilitazione. Anche perché queste persone, scontata la condanna, torneranno all’interno di quella società che li respinge».

Luigi Manconi: "Aboliamo il carcere". Inefficace, costoso e violento. Per questo il sistema penitenziario va cambiato. Le proposte in un libro appena uscito, continua Francesca Sironi. Primo: il carcere È inutile, perché sette detenuti su dieci tornano a compiere reati. Secondo: le galere non esistono da sempre. Terzo: le celle sono violente. Cambiare l’esecuzione della pena in Italia è l’obiettivo di un libro implacabile scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, appena pubblicato da Chiarelettere con il titolo: «Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini». Il volume raccoglie dati, storie e notizie su torture, recidiva, costi assurdi, sbagli e omissioni di un sistema che restituisce alla collettività criminali peggiori di quelli che aveva rinchiuso. Da questa analisi, scrive Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, emerge come «la pena si mostri in carcere nella sua essenzialità quale vera e propria vendetta. E in quanto tale priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea a quel fine che la Costituzione indica nella rieducazione del condannato». Per questo gli autori propongono dieci riforme possibili. A partire dall’idea che «il carcere da regola dovrebbe diventare eccezione, extrema ratio», come sostiene il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nella postfazione.

E l'ex procuratore disse: "Basta con la gogna". Piero Tony, per 45 anni magistrato (e dichiaratamente di sinistra), scrive un libro che è un durissimo j’accuse contro il populismo giudiziario, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. «Non ce la facevo più. Non potevo andare avanti in un mondo divenuto surreale, dove ogni giorno vedevo cose che non avrei mai voluto vedere. Così nel luglio 2014 ho preferito andarmene, a 73 anni, due in anticipo sulla pensione. E ora lancio questo tricche-tracche, un mortaretto in piccionaia». Sorride, Piero Tony. Ma non è un sorriso rassicurante. Per 45 anni magistrato, da ultimo procuratore della Repubblica a Prato, Tony ha appena pubblicato un libro, Io non posso tacere (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) e non è affatto un mortaretto: anzi, è una bomba atomica. Che in nome di un ineccepibile garantismo devasta, spiana, annienta tutte le parole d’ordine del populismo giudiziario. È tanto più potente, la bomba, in quanto a lanciarla è un serissimo, autorevolissimo ex procuratore che per di più è stato a volte definito «uomo di sinistra estrema»: per intenderci, uno che nei primi anni Ottanta s’è iscritto a Magistratura democratica e non ne è mai uscito.

Qualche frase del libro?

«È ovvio che molti magistrati giochino spesso con i giornalisti amici per amplificare gli effetti del processo: purtroppo, quando un pm è politicizzato, può utilizzare questo strumento in maniera anomala. Funziona così, negarlo sarebbe ipocrisia».

Ancora?

«Con la Legge Severino la politica ha delegato all’autorità giudiziaria il compito, anche retroattivamente, di decidere chi è candidabile e chi no a un’elezione». Continuiamo? «L’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta». Non vi basta? «Spesso si sceglie di mandare in gattabuia qualcuno, evitando altre misure cautelari, per far sì che paghi comunque e a prescindere».

Dottor Tony, lei lo sa che non gliela perdoneranno, vero?

«Il libro è intenzionalmente provocatorio. Perché vorrei sollecitare la discussione su una situazione che con tanti altri ritengo insostenibile, ma di cui si parla solo in certe paraconventicole. Nei miei 45 anni di professione ho visto una giustizia che è andata sempre più peggiorando: mi riferisco ai frequenti eccessi di custodia cautelare, ai rapporti troppo familiari tra alcuni pm e i mass media, e alla conseguente gogna, sempre più diffusa e intollerabile».

Lo sa che rischia attacchi feroci, vero?

«Amo troppo la magistratura per avere paura di rischiare. E poi  qualcuno deve pur dirlo che non è accettabile quella parte della giustizia che opera disinvoltamente rinvii di anni; che spiffera ai quattro venti le intercettazioni; che pubblica atti e carte in barba a tutti i divieti; che lancia inchieste fini a se stesse, che partono in quarta per poi sgonfiarsi; che anticipa le pene con misure cautelari «mediatizzate»».

Lei scrive che le correnti sono come partiti, e che «nel Csm si fa carriera soprattutto per meriti politici». Ma si rende conto di quel che rischia?

«Certo che me ne rendo conto, ma è così: le correnti oggi non sono lontane dalla compromissione politica. Sarebbe molto meglio che i membri togati del Csm fossero scelti per sorteggio. Qui ormai si fa carriera quasi solo con l’appartenenza, con criteri di parte. Io non riesco a criticare chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Ed è un dramma, negarlo sarebbe follia».

Lo dice lei, per una vita iscritto a Magistratura democratica?

«Nei primi anni Ottanta, almeno lì dentro, si respirava garantismo. Ahimé durò poco: oggi non faccio fatica a dire, purtroppo, che il garantismo è estraneo anche a Md. Perché garantismo e sospetti non sono compatibili. E nemmeno Md sa rinunciare al sospetto».

Il sospetto: è il tema tipico del concorso esterno in associazione mafiosa. Lei ne scrive che è «uno degli obbrobri del nostro sistema giudiziario».

«Peggio. Non è nel nostro sistema normativo: e fino a quando non interverrà il legislatore, come auspicato da tutti, è un vero mostro giuridico. Sono sicuro che se invece che a Zara fossi nato a Napoli, dove da giovane vissi per qualche anno, avrei corso il rischio di finire in una foto con un criminale. Ma un po’ per dolo, un po’ per sciatteria, in certe Procure c’è chi si accontenta di qualche prova anche rarefatta per accusare e per avviare un processo».

La Corte di Strasburgo ha da poco stabilito che Bruno Contrada fu condannato indebitamente per concorso esterno. Che ne dice?

«Non ho letto gli atti del suo processo, ma è notorio che negli anni Cinquanta e Sessanta il capo di una Squadra mobile aveva rapporti ambigui, spesso pericolosamente diretti e negoziatori, con la criminalità: rapporti che non di rado si prestavano a essere, quantomeno formalmente, d’interesse penale. Oggi Strasburgo ci fa fare un passo avanti nella civiltà giuridica: s’invoca il principio della irretroattività, nessuno può essere condannato per fatti compiuti prima che siano considerati reato. In questo caso, visto che il reato colpevolmente non è mai stato tipizzato dal legislatore, si dice che Contrada non poteva essere condannato per fatti compiuti prima che la Cassazione avesse stabilito bene che cosa fosse il concorso esterno, nel 1994».

Passiamo alle intercettazioni?

«Temo che restrizioni della nostra privacy saranno sempre più necessarie: non se ne può fare a meno, in una società atomizzata e nel contempo globalizzata. Ma è l’applicazione mediatica delle intercettazioni che in Italia è vergognosa, così come leggere sui giornali la frase di due  intercettati che dicono, per esempio: «Il tal sottosegretario ha strane abitudini sessuali». E quello non c’entra nulla con le indagini. È ciò che io chiamo «il bignè»».

Il bignè?

«Ma sì: l’ottimo bignè con la crema, regalato da certi pm ai giornalisti. E più sono i bignè offerti, più saranno i titoli sui giornali: quindi l’inchiesta sarà apprezzata dall’opinione pubblica, il pm diventerà famoso e l’indagato, o chiunque sia coinvolto, verrà seppellito dal fango. Non si può vivere in questo modo. La dignità umana è un diritto fondamentale, forse il primo».

Ha visto che ora alcuni suoi colleghi, da Edmondo Bruti Liberati a Giuseppe Pignatone, propongono una «stretta» nell’utilizzo delle intercettazioni?

«È sempre inutile aumentare le pene, visto che si delinque con la convinzione di farla franca, e vista anche la diffusa mancanza d’effettività della pena».

Qual è la sua soluzione, allora?

«Quando arrivai a Prato, nel 2006, prescrissi, anzi pregai i miei sostituti di fare un «riassunto» delle intercettazioni per qualsiasi richiesta di provvedimento, evitando ogni inserimento testuale delle trascrizioni. È il riassunto la soluzione: così i terzi indebitamente coinvolti restano automaticamente protetti, e nessuno, per restare all’esempio, conoscerà mai le «strane abitudini sessuali» del sottosegretario. Il fatto è che così il pm dovrebbe fare più fatica. Quindi preferisce il maledetto taglia-e-incolla. A parte i miei sostituti pratesi, ovviamente… E troppo spesso il taglia-e-incolla si trasforma in un ferro incandescente».

Ma è soltanto sciatteria?

«In genere sì. Solo le mele marce lo fanno con intenti sanzionatori o per motivi loro, che nulla hanno a che fare con la Giustizia, quella con la g maiuscola».

Cambierà qualcosa con la nuova responsabilità civile dei magistrati?

«La levata di scudi della categoria contro la riforma, in febbraio, è stata penosa. Sostenere che ora tutti i magistrati avranno paura d’incorrere in decurtazioni di stipendio, e per questo non lavoreranno più come una volta, è assurdo. Paralizzante sarebbe quindi il pericolo di una riduzione dello stipendio, e non piuttosto quello di danneggiare illegalmente un indagato, per dolo o per colpa grave? Ma di che cosa parlano?»

Che cosa si aspetta, ora che il suo libro è uscito?

«Spero che se ne discuta serenamente. Temo una sola cosa: l’incatalogabilità».

Cioè?

«Purtroppo, prima di elaborare un giudizio, sempre più ci si chiede: ma è un discorso di destra o di sinistra? E quello che ho scritto sicuramente non è allineato, anzi è eretico da qualsiasi parte lo si guardi. Ecco, in molti potrebbero avere paura di dare un giudizio perché, da destra come da sinistra, non riusciranno a catalogarmi. Io mi sono sempre ritenuto, e sono sempre stato ritenuto, di sinistra; anzi, sono praticamente «certificato» come tale. Questo non m’impedisce di pensare tutto quel che ho scritto, che è poi alla base delle garanzie della persona, dell’individuo. E non sono il solo».

Resta il fatto che il «populismo giudiziario», che lei avversa, oggi stia soprattutto a sinistra. O no?

«È di destra o di sinistra pensare che nessuna ragione al mondo può giustificare il sacrificio di diritti fondamentali di una persona, se non nei limiti stabiliti dalla legge democratica? È per questo che chi crede davvero nella civiltà giuridica non può accettare le troppe disfunzioni della giustizia italiana. Ed è per questo che io non potevo più tacere».

Soro, Garante della privacy: «Stop ai processi mediatici, ne va della vita delle persone», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. C’è una parola che Antonello Soro non si stanca di ripetere: «Dignità». A un certo punto tocca chiedergli: presidente, ma com’è possibile che non riusciamo a tenercela stretta, la dignità? Che abbiamo ridotto il processo penale a un rodeo in cui la persona è continuamente sbalzata per aria? E lui, che presiede l’Autorità garante della Privacy, può rispondere solo in un modo: siete pregati di scendere dalla giostra. La giostra del processo mediatico, s’intende. «È una degenerazione del sistema che può essere fermata in un modo: se ciascuna delle parti, stampa, magistrati, avvocati, evita di dare un’interpretazione un po’ radicale delle proprie funzioni. C’è un nuovo integralismo, attorno al processo, da cui bisogna affrancarsi. Anche perché la giustizia propriamente intesa si fonda sulla presunzione d’innocenza. Quella mediatica ha come stella polare la presunzione di colpevolezza».

Senta presidente Soro, ma non è che il processo mediatico è una droga di cui non possiamo più fare a meno, magari anche per alleviare i disagi di una condizione generale del Paese ancora non del tutto risollevata?

«Non credo che per spiegare le esasperazioni dell’incrocio tra media e giustizia sia necessario arrivare a una lettura del genere. Siamo in una fase, che ormai dura da molto, in cui prevale un nuovo integralismo, anche rispetto alla preminenza che ciascuno attribuisce al proprio ruolo. Succede in tutti gli ambiti, compreso quello giudiziario. Ciascuna delle parti si mostra poco disponibile ad affrontare le criticità del fenomeno che chiamiamo processo mediatico».

Be’, lei descrive una tendenza che brutalmente potremmo definire isteria forcaiola.

«È il risultato di atteggiamenti – che pure non rappresentano la norma – sviluppatisi tra i giornalisti e anche tra i magistrati, persino tra gli avvocati. Ciascuna di queste componenti finisce in alcuni casi per deformare la propria missione. Il tema è sicuramente complesso, io mi permetto sempre di suggerire che si lascino da parte i toni ultimativi, quando si affronta la questione. Lo sforzo che va fatto è proprio quello di trattenersi dall’esaltare la propria indispensabile funzione. Esaltare la propria si traduce fatalmente nel trascurare la funzione degli altri».

È una situazione di squilibrio in cui parecchi sembrano trovarsi a loro agio, tanto da difenderla. È il caso delle intercettazioni.

«Nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’utilità delle intercettazioni e il diritto dei cittadini all’informazione. Due elementi di rango differente ma ugualmente imprescindibili. Nessuno pensa di rinunciare né alle intercettazioni né all’informazione. Si tratta di valutare con il giusto spirito critico la funzione di entrambe».

E non dovrebbe volerci uno sforzo così grande, no?

«No. Però cosa abbiamo davanti? Paginate intere di intercettazioni, avvisi di garanzia anticipati ai giornali, interrogatori di indagati in stato detentivo di cui apprendiamo integralmente il contenuto, immagini di imputati in manette, processi che sembrano celebrarsi sui giornali più che nelle aule giudiziarie. E in più c’è una variabile moltiplicatrice».

Quale?

«La rete. E’ un tema tutt’altro che secondario. La diffusione in rete delle informazioni e della produzione giornalistica non è neppure specificamente disciplinata dal codice deontologico dei giornalisti, che risale al 1998, quando il peso oggi acquisito dal web non era ancora stimabile».

Qual è l’aspetto più pericoloso, da questo punto di vista?

«Basta riflettere su una differenza, quella tra archivi cartacei e risorse della rete. Su quest’ultima la notizia diviene eterna, non ha limiti temporali, ha la forza di produrre condizionamenti irreparabili nella vita delle persone».

La gogna della rete costituisce insomma un fine pena mai a prescindere da come finisce un processo.

«È uno degli aspetti che contribuiscono a rendere molto complesso il fenomeno dei processi mediatici. Tutto può essere riequilibrato, ma ora vedo scarsa attenzione per tutto quanto riguardi il bilanciamento tra i diritti fondamentali in gioco. Un bilanciamento che invece ritengo indispensabile quando riguarda la dignità delle persone».

È un principio di civiltà così elementare, presidente, che il fatto stesso di doverlo invocare fa venire i brividi. Di paura.

«Nel nostro sistema giuridico anche chi è condannato deve veder riconosciuta la propria dignità. Basterebbe recuperare questo principio. Che nella nostra Costituzione è centrale. Una comunità che rinuncia a questo presidio di civiltà ha qualche problema».

Com’è possibile che abbiamo rinunciato?

«Ripeto: stiamo dicendo per caso che dobbiamo eliminare l’uso delle tecnologie più sofisticate nelle indagini? No. Si pretende di negare il diritto all’informazione? Neppure. Si dovrebbe solo coniugare questi aspetti con la dignità delle persone, anche con riguardo alla loro vita privata. La privacy non è un lusso. Il fondamento della privacy è sempre la dignità della persona».

Se si prova a toccare le intercettazioni parte subito la retorica del bavaglio.

«Al giudice, in una prima fase, spetta la decisione sull’acquisizione delle intercettazioni rilevanti ai fini del procedimento, mentre al giornalista spetta, in seconda battuta, la scelta di quelle da pubblicare perché di interesse pubblico. Non è detto che il giornalista debba pubblicare tutti gli atti che ha raccolto compresi quelli irrilevanti ai fini del processo».

Spesso quelli irrilevanti sul piano penale sono i più succosi da servire al lettore.

«Guardi, è plausibile che alcune intercettazioni contengano elementi utili per la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti anche se non riguardano la persona indagata. Può avere senso che elementi del genere vengano resi pubblici. Ma altri che non hanno utilità ai fini del processo andrebbero vagliati con particolare rigore in funzione di un vero interesse pubblico. Prescinderei dai singoli episodi. Ma ricorderei due princìpi abbastanza trascurati. Da una parte, la conoscenza anche di un dettaglio della vita privata di un personaggio che riveste funzioni pubbliche può essere opportuna, se quel fatto rischia di condizionarne l’esercizio della funzione. È giusto che il cittadino conosca cose del genere».

Ad esempio, il fatto che Berlusconi ospitasse a casa sua molte giovani donne, alcune delle quali erano prostitute e lui neppure lo sapeva.

«Sì, però poi i dettagli sulle attività erotiche di un leader politico, tanto per dire, possono alimentare curiosità, ma è difficile riconoscerne il senso, in termini di diritto all’informazione. In altre parole: può essere utile sapere che quel leader, in momenti in cui esercita la propria funzione pubblica, compie atti che, ad esempio, lo espongono al ricatto; ma riportare atti giudiziari che entrano morbosamente nel dettaglio, diciamo così, va al di là di quell’informazione utile di cui sopra. A meno che non riferiscano comportamenti che costituiscono reato».

Negli ultimi anni l’inopportunità di certe divulgazioni spesso è emersa quand’era troppo tardi.

«E in proposito mi preoccupa ancor di più il dramma vissuto da privati cittadini casualmente intercettati ed esposti a una gogna molto pesante. E la gogna mediatica è una pena inappellabile, a prescindere da come finisce in tribunale. Ho segnalato più volte la situazione del cittadino Massimo Bossetti. Nel suo caso sono stati divulgati i dati genetici di tutta famiglia, i comportamenti del figlio minore e di tutti familiari, fino al filmato dell’arresto, all’ audio dell’interrogatorio e al colloquio con la moglie in carcere: tutto questo contrasta la legge sul diritto alla riservatezza. Che rappresenta una garanzia per i cittadini e che però viene travolta da una furia iconoclasta, funzionale al processo mediatico. Nel processo propriamente inteso vige la presunzione di innocenza, in quello mediatico si impone la presunzione di colpevolezza».

Come se ne esce?

«Tutti, magistrati, giornalisti, avvocati, cittadini, debbono cercare il punto di equilibrio più alto. E smetterla di pensare che qualche diritto debba essere cancellato. Anche perché oltre alla dignità delle persone è in gioco anche la terzietà del giudice».

Cosa intende?

«Chi siede in una Corte viene inondato da una valanga di informazioni dei media che finiscono per costruire un senso comune. In un ordinamento in cui esistono anche i giudici popolari c’è il rischio che questi non formino la loro convinzione in base alla lettura degli atti ma in base al processo mediatico, che ha deciso la condanna molto tempo prima, e non nella sede dovuta. Intercettazioni, atti e immagini divulgati dai media, non solo costituiscono uno stigma perenne per la persona, ma rischiano di condizionare anche l’esercizio della giurisdizione in condizioni di terzietà».

Ma non è che i magistrati alla fine spingono il processo mediatico perché pensano di acquisire in quel modo maggiore consenso?

«Guardi, quando un singolo magistrato ricerca il consenso può casomai far calare un po’ il consenso dell’intera magistratura. E questo lo hanno affermato negli ultimi tempi autorevoli magistrati, che hanno usato parole molto eloquenti nel criticare gli abusi di singoli colleghi. Mi riferisco in particolare al procuratore capo di Torino Armando Spataro quando dice che durante Mani pulite, per esempio, alcuni magistrati sembravano più preoccupati della formazione della notizia da prima pagina che della conclusione del processo. Ecco, la legittimazione che ha il magistrato viene messa in discussione proprio da quei comportamenti impropri. La ricerca del consenso non è propria della funzione del magistrato. Chi ha da decidere della giustizia ha un compito che da solo gratifica e impegna la vita. Io ho una grandissima considerazione di questo compito e credo vada preservato».

Nordio agita i colleghi in toga: "Niente multe, via i pm scarsi". Il procuratore di Venezia critica la scelta del governo sulla responsabilità civile: "Inutile, paga l'assicurazione", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. I magistrati hanno una gran fretta: per denunciare davanti alla Consulta l'incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile, varata solo a febbraio, non hanno aspettato che un cittadino chiedesse i danni a uno di loro. Hanno giocato d'anticipo. Per il giudice civile Massimo Vaccari del tribunale di Verona basta il timore di un giudizio di responsabilità per condizionare l'autonomia e l'indipendenza della toga, ledere i suoi diritti e privarla della necessaria serenità nel suo lavoro. Così, il 12 maggio ha inviato alla Corte costituzionale 17 pagine di ricorso, che sostengono contrasti con diversi articoli della Carta. La notizia arriva proprio mentre il Matteo Renzi ricorda su Twitter l'anniversario della morte di Enzo Tortora, sottolineando che da allora, e grazie a lui, le cose sono cambiate. «Ventisette anni dopo la morte di Tortora - scrive il premier-, abbiamo la legge sulla responsabilità civile dei giudici e una normativa diversa sulla custodia cautelare #lavoltabuona». Nella stessa giornata e proprio partendo dal tempestivo ricorso del giudice veronese, su Il Messaggero il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio firma un editoriale che certo non farà piacere ai suoi colleghi. Basta il titolo: «Il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato». Mentre le toghe, con l'Anm in testa, protestano aspramente per la legge, minacciano lo sciopero e si organizzano perché la Consulta la faccia a pezzi, Nordio sostiene dunque che le nuove norme sono troppo deboli e non risolvono i problemi, cioè le cause degli errori giudiziari: dall'«irresponsabile potere dei pm» a quello dei giudici di «riprocessare e condannare un cittadino assolto», con una «catena di sentenze». Il magistrato accusa governo e Parlamento di aver «risposto in modo emotivo» alle richieste dell'opinione pubblica, puntando sull'«effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie». Così, per Nordio, hanno fatto «una scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita». Denunciando davanti all'Alta corte, sostiene il pm, «la parte più ambigua della legge, quella che consente, o pare consentire, di far causa allo Stato prima che la causa sia definitivamente conclusa», paralizzando i processi, se ne otterrà forse una parziale abrogazione. E «i magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo». Vedremo se andrà proprio così. Intanto, il ricorso a bocce ferme del giudice veronese deve superare il giudizio di ammissibilità. Vaccari cita un precedente simile contro la legge del 1989, ma non è affatto detto che riesca nel suo intento. I magistrati, però, si sono organizzati da un pezzo per ricorsi singoli o collettivi e, se questo verrà bloccato, di certo alla Consulta ne arriveranno molti altri. L'ultima parola sarà anche stavolta dei giudici costituzionali.

Da Taranto a Lecce trasferito di carcere Michele Misseri, scrive il 23 marzo 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Non è più detenuto a Taranto ma nel carcere di Lecce Michele Misseri, l’agricoltore di Avetrana (Taranto) condannato in via definitiva ad otto anni di reclusione per soppressione di cadavere nell’ambito del processo per l’uccisione della nipote quindicenne Sarah Scazzi. Misseri il 21 febbraio scorso, dopo la sentenza della Cassazione, era stato tradotto nel carcere 'Carmelo Magli' di Taranto. Da lì è essere trasferito ai primi di marzo nella Casa circondariale di Borgo San Nicola a Lecce, dove dovrà scontare il resto della pena. Nel carcere di Taranto restano recluse la moglie, Cosima Serrano, e la figlia Sabrina Misseri, condannate all’ergastolo quali esecutrici materiali dell’omicidio. Misseri, come si apprende da fonti penitenziarie, è detenuto nella cella di una delle tre sezioni protette del penitenziario salentino. Con lui c'è un altro detenuto, anch’egli pugliese. Misseri è sottoposto a trattamento ordinario e beneficia del regime di socialità, può quindi spostarsi e passeggiare. Dalle stesse fonti si apprende che è in condizioni tranquille ed in buona salute. L’Ordine dei Giornalisti della Calabria, guidato dal presidente Giuseppe Soluri, esprime “incredulità e sconcerto per la vicenda che coinvolge il collega Filippo Marra Cutrupi il quale rischia di essere rinviato a giudizio per il reato di falsa testimonianza avendo opposto il segreto professionale alla richiesta di rivelare la fonte di una notizia pubblicata dall’agenzia di stampa per la quale lavora, scrive “Il Giornale di Calabria il 2 aprile 2017. Filippo Marra Cutrupi aveva seguito per la sua testata tutta la vicenda dell’omicidio di Sarah Scazzi e, tra le altre notizie, aveva pubblicato quella relativa alla richiesta di una rogatoria internazionale avanzata dalla Procura di Taranto all’autorità giudiziaria tedesca per l’audizione di una persona che la Procura riteneva “informata dei fatti”. La notizia, peraltro, era stata pubblicata già da vari giornali locali e da altre testate. Interrogato su quella che la Procura di Taranto riteneva una “fuga di notizie” e richiesto di rivelare la fonte – si legge nella nota stampa dell’Odg Calabria – Filippo Marra Cutrupi aveva opposto il diritto/dovere professionale di non rivelare la fonte stessa. Ora la Procura di Taranto gli ha notificato una informazione di garanzia con avviso di conclusione delle indagini preliminari invitandolo a nominare un difensore e, se lo ritiene, a chiedere di rendere interrogatorio. Va ricordato che il segreto professionale dei giornalisti è finalizzato a garantire i canali informativi del professionista al fine di portare vantaggio alla libertà e alla completezza della informazione”. “Il segreto giornalistico – sottolinea l’Ordine calabrese – non è dunque un privilegio della categoria ma uno strumento di tutela delle libertà democratiche e dei diritti individuali del cittadino. Non a caso il segreto giornalistico è salvaguardato da varie disposizioni di legge. Nel processo penale, in particolare, è richiamato dagli articoli 200, 256 e 362 del codice di procedura penale. E la giurisprudenza ormai consolidata ribadisce che se il giornalista oppone il segreto professionale rispetto ad informazioni che possono condurre alla identificazione della fonte della notizia non commette il reato di false dichiarazioni. Considerazioni ribadite recentemente da una sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta anche in relazione ad una vicenda che ha riguardato un giornalista pubblicista e non professionista. L’Ordine dei Giornalisti della Calabria si augura che, sulla base di una attenta e serena valutazione di norme e giurisprudenza, la vicenda del collega Filippo Marra Cutrupi, giornalista professionista, possa rapidamente concludersi con la presa d’atto, da parte della Procura di Taranto, che il reato contestato nella informazione di garanzia è, per così dire, “inesistente”. Non solo perchè varie norme penali, come detto, tutelano il segreto professionale dei giornalisti professionisti ma anche perchè addirittura lo impongono se è vero come è vero – conclude la nota stampa dell’Ordine dei giornalisti della Calabria – che il mantenimento del segreto è un preciso dovere professionale la cui violazione può portare all’avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del giornalista”.

Sarah Scazzi, fiction sull’omicidio: ecco chi interpreta la ragazzina uccisa da zia e cugina, scrive Nazareno Dinoi Domenica 9 Aprile 2017 su “Il Messaggero". Il giallo di Avetrana, con l’uccisione di Sarah Scazzi, gli strani rapporti tra cugine e infine l’uccisione della ragazzina per mano della zia e della cugina, sarà ricostruito in un docufiction prodotto da Mediaset. I lavori sono già iniziati a Manduria dove da due giorni una troupe di tecnici e regista venuti da Milano stanno girando le scene. A farsene carico e a commissionare il documentario è stata la produzione di «Terzo Indizio», il programma condotto da Barbara De Rossi (ex Amore criminale) che va in onda ogni martedì in prima serata su Rete Quattro. «Il terzo indizio» si basa su processi che hanno già attraversato i tre gradi di giudizio. Sentenze definitive che, nella finzione televisiva, attraverso l’interpretazione di attori professionisti, raccontano la verità giudiziaria. I protagonisti principali della triste storia, però, saranno attori del posto selezionati dalla scuola di recitazione «Scenic academy» di Manduria. Il format del programma è quello di ricostruire con i docufiction grandi casi di cronaca che, spesso, hanno diviso l’opinione pubblica. E nessuno come il caso Scazzi può rappresentare meglio questi canoni di divisibilità dei pareri. La produzione milanese che si è affidata alla rete di contatti di Apulia Film Commission, ha individuato nella città Messapica un appartamento che avesse le caratteristiche strutturali simili alla villa Misseri in via Grazia Deledda ad Avetrana. La scelta è caduta su un’abitazione situata alla periferia della città che è stata prestata da una famiglia disposta a trasformare per cinque giorni la propria casa in un set cinematografico. La parte principale, quella della vittima che sarà strangolata dalla cugina e dalla zia e gettata nel pozzo dallo zio Michele Misseri, sarà interpretata dalla manduriana Giulia Distratis, capelli biondi naturali, molto somigliante alla piccola Sarah. L’amica con cui il giorno della sua morte doveva andare al mare in compagnia della cugina Sabrina, Mariangela Spagnoletti, è stata invece rappresentata dall’attrice Francesca Scorrano, direttrice della «Scenic academy». Sarà del posto anche l’attore che darà il volto al personaggio più equivoco e pittoresco del noir. Michele Misseri, zio Michele, lo interpreta Claudio Carrozzo, anche lui manduriano con precedenti piccole esperienze nel mondo del cinema. Mistero assoluto, invece, su chi dovrà fare la parte delle assassine, Sabrina Misseri e Cosima Serrano che per la legge sono le assassine e per questo condannate all’ergastolo.

Michele Misseri lascia il carcere per un ricovero urgente in ospedale, scrive il 12 aprile 2017 "Giornale Notizie".  Ha accusato forti dolori al petto ed è stato trasportato d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale Fazzi di Lecce, a pochi chilometri dal carcere di Borgo San Nicola. E’ lì che Michele Misseri è detenuto dal 21 febbraio 2017, giorno in cui è diventata definitiva la condanna a otto anni di reclusione per la soppressione del cadavere della nipote Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa ad Avetrana il 26 agosto 2010. Ad assassinare la ragazzina furono Cosima Serrano e Sabrina Misseri, moglie e madre di Michele, condannate all’ergastolo. L’uomo, che per tutti e tre i gradi di giudizio ha continuato a professarsi colpevole del delitto, sta scontando la sua condanna nel penitenziario di Lecce. In cella è stato colto da un malore del quale sono stati immediatamente informati i medici in servizio nel carcere. Dopo una rapida visita è stato deciso di trasportarlo in ospedale a scopo precauzionale, considerato che nell’istituto di pena non ci sono tutte le attrezzature per effettuare gli accertamenti. Misseri è accompagnato da agenti della polizia penitenziaria ed è transitato attraverso il pronto soccorso del Fazzi, come è naturale nei casi di urgenza. Le precauzioni utilizzate dalle forze dell’ordine sono notevoli, anche in virtù dell’evasione dell’ergastolano Fabio Perrone, avvenuta nel dicembre 2015 durante una visita medica nello stesso ospedale. Fino al giorno dell’arresto Misseri ha continuato a ribadire che la moglie e la figlia sono innocenti e che non hanno nulla a che vedere con il brutale omicidio della ragazzina di Avetrana. Per i giudici di Taranto e poi per quelli della Cassazione, invece, Cosima e Sabrina hanno ucciso Sarah a causa di un risentimento personale mentre Michele, insieme col fratello Cosimo (condannato a quattro anni e undici mesi), ha cercato di far sparire il corpo. E’ stato proprio lui – a distanza di poche settimane – a consentire agli investigatori di ritrovare il cadavere.

Sabrina Misseri e mamma Cosima diventano artiste. L'installazione nel carcere di Taranto, scrive Peppe Aquaro il 10 maggio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Volendo sgomberare il campo dal gossip tra il rosa e il nero, diciamo subito che le due donne, mamma e figlia, hanno partecipato attivamente al laboratorio. «Sabrina era attentissima, e dopo poche settimane era in grado di riconoscere le differenze stilistiche tra un quadro di Picasso e uno di Max Ernst», dice Giulio De Mitri, l’artista e docente tarantino, insegnante all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro, autore di un laboratorio artistico all’interno della Casa circondariale «Carmelo Magli» di Taranto. Uno studio iniziato nell’autunno dello scorso anno e dedicato alle donne detenute nell’istituto penitenziario pugliese. Tra le venti donne recluse incuriosite dalla forza del gesto estetico dell’arte c’erano, appunto, Sabrina Misseri e sua mamma Cosima, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Cosa c’entri questo particolare con «L’altra città», il percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana, iniziato in queste ore e che andrà avanti fino al prossimo 15 giugno (info: 340/8227225 o laltracittanoievoi@gmail.com), è presto detto: dietro le sbarre, quando si chiudono i contatti con l’esterno, siamo tutti uguali. O per lo meno non siamo più ciò che credevamo d’essere. È l’assunto dal quale sono partiti il teorico e critico d’arte Achille Bonito Oliva e Giovanni Lamarca, comandante del reparto di Polizia penitenziaria della casa circondariale tarantina. Su Bonito Oliva, il personaggio, ci torneremo. Prima però è l’appassionato d’arte in divisa, Lamarca, collezionista a modo suo, e soprattutto attento osservatore dell’animo umano, il protagonista di questa vicenda: «L’idea del progetto mi è venuta qualche anno fa. Poi altre persone, come la sociologa Anna Paola Lacatena, l’artista De Mitri, il critico Roberto Lacarbonara, e l’attore Giovanni Guarino, mi hanno aiutato a dare consistenza a un’idea. Ma le vere protagoniste sono state le donne, qui dentro, in grado di raccontare, attraverso un’esperienza di pratica artistica, il loro vissuto detentivo. Emozionandosi e commuovendosi». Soprattutto quando hanno visto le loro facce con i rispettivi nomi sul catalogo della mostra, pubblicato da Gangemi editore, i cui proventi della vendita sono destinati all’associazione di volontariato penitenziario «Noi e Voi», ente promotore del progetto. Parliamo di donne coinvolte in reati che vanno dallo spaccio all’omicidio. La cui privacy, provando a definirla così, è stata «invasa» dalla società civile introdotta nell’ambiente carcerario. Il percorso compiuto dal visitatore (si è ammessi uno alla volta alla fruizione dell’installazione) è, infatti, all’interno della sezione femminile del carcere. Dopo aver superato una tenda nera, una sorta di filtro tra l’esterno e il carcere, ecco un corridoio completamente grigio, come le inferriate ai lati. Si passeggia su una pedana di plastica sotto la quale sono state poste le carte d’identità dei parenti dei detenuti. Ma il colpo d’occhio è subito dopo: in alto, dove sono state appese, a grappolo, un centinaio di foto delle recluse, da scansare con le mani mentre si cammina. «Ogni spazio della visita è sorvegliato da un poliziotto penitenziario: per l’occasione agenti in pensione, i quali, re-indossando la divisa, è come se interpretassero una parte non più loro», dice Lamarca, ricordando come gesti e frasi di questi addetti (un copione bello e buono) siano stati suggeriti dall’attore Guarino. Dopo, si entra nell’ufficio matricole, dove si è sottoposti all’impronta digitale del pollice e all’immatricolazione. «Perché lo spettatore è obbligato a sottoporsi a tutte le procedure di riconoscimento per entrare nel luogo fino a lui inaccessibile», ricorda Bonito Oliva, sottolineando che «mentre nelle mostre tradizionali la fruizione è collettiva e simultanea, qui, nel carcere, è una esperienza individuale che punta sull’isolamento e la riflessione». Un’altra tenda nera, dietro la quale c’è la «nostra» cella. Chiusura delle sbarre, giro della chiave da parte dell’agente penitenziario. Tre minuti da soli. In silenzio. Il passaggio successivo è nella cella «Nuovi giunti», circondati dalle frasi delle detenute. In fondo, su un materasso richiuso, il necessario per la prima accoglienza: gavetta, spazzolino e dentifricio. La terza cella è quella ordinaria, dove si trascorrerà la propria detenzione. Sulla parete, tra le carte processuali, è stata appesa una stampa del quadro di Francisco Goya, «Il Tribunale dell’Inquisizione». I necessari tre minuti, il giro di chiave da parte dell’agente, e si viene trasferiti nella cella d’isolamento, dipinta di nero. Qui si entra per una grave infrazione del regolamento. È il momento più intenso della visita. L’opposto della cosiddetta cella dimittendi. Le detenute-artiste hanno appeso al muro farfalle e rose realizzate col cartoncino. C’è una forte luce azzurra di speranza, oltre ad una clessidra, lenta, come il tempo che non passa mai. Ma sono «solo» tre minuti a separare il visitatore dal suo foglio di via, da ritirare dopo aver riattraversato la foresta di visi sulle pareti. L’altra città è ormai alle spalle.

La fiction tutta manduriana su Sarah Scazzi bocciata dai social e dal vicesindaco di Avetrana. Sicuramente di tutt’altro parere saranno stati i responsabili della trasmissione e della conduttrice Barbara De Rossi che hanno potuto comunque contare su un discreto 6,4% di share, scrive giovedì 18 gennaio 2018 "La Voce di Manduria" Non è piaciuta a molti la puntata dell’altro ieri dal titolo “Terzo indizio”, prodotta da Retequattro, dedicata al delitto di Sarah Scazzi. Tantissime le critiche circolate sui social soprattutto per la ricostruzione scenica del giallo affidata ad una produzione milanese con protagonisti e comparse del posto. Pessima è stata giudicata anche la descrizione storica degli eventi (quella investigativa e giudiziaria meglio non parlarne), in diversi punti irreali e non corrispondenti alla realtà. Nonostante gli sforzi degli “attori” manduriani, insomma, evidentemente mandati allo sbaraglio e vittime loro stessi di una sceneggiatura inappropriata e raffazzonata, il programma non è piaciuto per niente agli ascoltatori “locali”. Il primo a scagliarsi contro, in forma pubblica, è stato il vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia che sul suo profilo Facebook ha stroncato così la trasmissione di Retequattro. «E' evidente – scrive - che la produzione avrà speso al massimo 50 euro per montare quattro scene del cavolo. Attori poco realistici, luoghi molto lontani dal reale. Conduzione pessima, una brutta copia delle conduzioni dei programmi più importanti. Insomma – prosegue il numero due della giunta avetranese - pochi denari e spesi pure male! Un'offesa non proprio alla città di Avetrana – aggiunge -, ma alla magistratura che si è vista ridurre mesi e mesi di indagini in una trasmissione del ca..o». Sicuramente di tutt’altro parere saranno stati i responsabili della trasmissione e della conduttrice Barbara De Rossi che hanno potuto comunque contare su un discreto 6,4% di share e 1.484.000 spettatori. Pochi rispetto ad altre reti, ma abbastanza soddisfacenti per Retequattro e per la trasmissione che nelle passate edizioni aveva ottenuto ascolti inferiori con una media di un milione di spettatori e uno share del 5,5%. Sarah Scazzi e i personaggi del giallo di Avetrana, insomma, sono ancora una macchina di ascolti.

Sarah, dopo la fiction arriva l'intervista a Cosima e Sabrina, scrive Nazareno Dinoi Domenica 21 Gennaio 2018 su "Quotidiano di Puglia". Non si sono ancora sopite le polemiche di chi non ha gradito la docufiction sul delitto di Sarah Scazzi (in basso a sinistra), trasmessa mercoledì scorso dalle reti Mediaset nella prima puntata di “Terzo indizio”, ed ecco che il giallo di Avetrana torna prepotentemente in televisione con quello che si preannuncia come un nuovo terremoto mediatico: l’intervista in carcere a Sabrina Misseri e a sua madre Cosima Serrano (nella foto grande accanto). Le due donne, condannate all’ergastolo in via definitiva per l’uccisione della quindicenne loro parente, saranno le protagoniste della prima puntata della nuova seria del programma di Franca Leosini, “Storie maledette”. La troupe di Rai 3, con la conduttrice del programma, è già stata nel carcere di Taranto dove in una notte ha registrato tutto. Le due donne per diverse ore hanno raccontato per la prima volta, fuori dalle aule di giustizia, la loro verità. Dopo la condanna del carcere a vita confermata dalla Cassazione il 20 aprile dello scorso anno, le due ritenute assassine non hanno più parlato in pubblico. La Rai che ha deciso di anticipare il programma in prima serata, non ha ancora annunciato la data della “prima” che da indiscrezioni dovrebbe essere trasmessa tra l’11 e il 18 marzo prossimo. Rispettando il format della trasmissione, la puntata alternerà il dialogo in carcere tra la giornalista e le condannate, con scene interpretate da attori professionisti che ricostruiranno la storia nei suoi momenti più significativi. La conduttrice Leosini ha incontrato le due donne nello stile della doppia intervista. Con l’assistenza dei loro avvocati, Nicola Marseglia a Taranto e Franco Coppi a Roma per Sabrina e i leccesi Luigi Rella e Franco De Jaco per Cosima Serrano, le due condannate sperano in una revisione del processo su cui starebbero lavorando i legali. Le protagoniste del fatto di cronaca che ha diviso l’Italia tra innocentisti e colpevolisti, ripercorreranno minuto per minuto ciò che avvenne quel 26 agosto del 2010 quando la piccola Sarah fu strangolata e gettate in un pozzo in contrada Mosca. Il processo a loro carico è stato lungo e articolato e ha coinvolto 120 testi, 52 udienze, quasi 400 ore tra dibattimento, arringhe e requisitorie e 5 giorni di camera di consiglio. Scontato l’effetto che la diffusione del programma avrà sul territorio interessato al dramma. La messa in onda della fiction di Retequattro, ha fatto storcere il naso al vicesindaco di Avetrana, Alessandro Scarciglia, protagonista di un durissimo attacco su Facebook. «È evidente – ha scritto - che la produzione avrà speso al massimo 50 euro per montare quattro scene del cavolo. Attori poco realistici, luoghi molto lontani dal reale. Conduzione pessima, una brutta copia delle conduzioni dei programmi più importanti. Un’offesa non proprio alla città di Avetrana – concludeva il numero due della giunta di Avetrana -, ma alla magistratura che si è vista ridurre mesi e mesi di indagini in una trasmissione del cavolo». All’indomani di queste pesanti accuse il vicesindaco aveva chiesto scusa agli attori e a chi aveva lavorato per confezionare il mini film.

Tutta la verità su Sarah Scazzi. Tutta la verità su un processo:

che vede Michele Misseri condannato ad 8 anni per occultamento di cadavere, mentre da sempre si dichiara colpevole dell'omicidio di Sarah Scazzi;

che vede Cosima Serrano e Sabrina Misseri condannati all'ergastolo per un omicidio del quale si dichiarano innocenti;

dove la corda dello strangolamento si trasforma in cintura;

dove le pettegole (parole di Coppi) vengono credute;

dove i testimoni si intimidiscono (alla Spagnoletti: Sarah e Sabrina litigavano? Dì di sì);

dove i testimoni anticipano l'orario di uscita di Sarah: dalle ore 14.30 alle ore 14 circa, assecondando l'ipotesi accusatoria;

dove si fanno passare per fatti veri i sogni dei testimoni;

dove si induce Michele Misseri ad accusare la figlia Sabrina per l'ottenimento dello sconto di pena per entrambi.

Parla Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, Claudio Scazzi, Valentina Misseri, Ivano Russo.

Marialucia Monticelli, inviata del programma “Chi l’ha visto?”, Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”.

Walter Biscotti, Franco Coppi, Nicola Marseglia, Roberta Bruzzone.

La mamma di Sarah Scazzi: "Non ho capito il ruolo di mia sorella". Il delitto di Avetrana al centro di "Tutta la verità", trasmessa giovedì 26 aprile alle 21.25 sul canale Nove, scrive l'ANSA il 24 aprile 2018. "Non ho capito quale sia stato il ruolo di Cosima: se lei c'entrava, se lei lo fa per coprire sua figlia... Né Michele ha mai parlato di Cosima. C'è una ricostruzione però non sappiamo se corrisponde al vero": lo dice Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi, dichiarando alle telecamere di "Tutta la verità" seri dubbi sul ruolo di sua sorella nel delitto di Avetrana. Il secondo appuntamento della serie che racconta i più controversi e clamorosi fatti di cronaca, prodotta da Verve Media Company per Discovery Italia, andrà in onda in esclusiva sul NOVE giovedì 26 aprile alle 21.25. Dopo la prima puntata dedicata alla Strage di Erba, 'Tutta la verità' affronta il delitto di Avetrana, l’omicidio nell’agosto 2010 della quindicenne Sarah Scazzi, per cui sono state condannate in via definitiva la cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima Serrano, e per il quale lo zio Michele Misseri, che si dichiara unico responsabile dell’uccisione di Sarah, è stato invece condannato, per il solo occultamento di cadavere, a 8 anni di reclusione. Grazie ad un accurato e approfondito lavoro di ricerca compiuto dagli autori e registi ideatori del format, Cristiano Barbarossa e Fulvio Benelli, Tutta la verità ripercorre la cronologia delle indagini e la storia di uno dei processi mediaticamente più dibattuti della storia giudiziaria italiana. Lo fa attraverso nuove testimonianze, filmati inediti, audio originali delle intercettazioni e video degli interrogatori. In particolare, vengono approfonditi i rapporti all’interno della famiglia Misseri, che tanto hanno pesato sull’evolversi della vicenda e sulle contrastanti versioni fornite dallo zio Michele. Per farlo, Tutta la Verità intreccia il racconto dei protagonisti, il fratello di Sarah Claudio Scazzi, Ivano Russo, Roberta Bruzzone, Walter Biscotti e Marialucia Monticelli, l’inviata di Chi l’ha Visto? ad Avetrana, in quei primi drammatici giorni. Di particolare importanza la presenza di Valentina Misseri, sorella di Sabrina, che guida lo spettatore nella casa e nel garage al centro della vicenda, ripercorrendo i movimenti dei protagonisti ed evidenziando le discrepanze e le zone d’ombra delle diverse ricostruzioni, rivelando particolari inediti della famiglia Misseri. Si rivivono anche le drammatiche dirette televisive di quei giorni da casa Misseri, con l’evolversi degli eventi, e le concitate telefonate tra i parenti e gli amici di Sarah, i pressanti interrogatori di Michele Misseri e i colloqui in carcere tra lui, la figlia Valentina e la moglie Cosima. I fatti vengono analizzati attraverso le parole di giornalisti e avvocati che hanno seguito il caso in prima persona.

Il contributo più importante è l’inedita testimonianza di Concetta Serrano Scazzi che per la prima volta dichiara di nutrire seri dubbi sul ruolo di sua sorella Cosima. Un lavoro imponente per tentare di raccontare tutta la verità su questo caso estremamente complesso, che ha cambiato il modo di fare cronaca in Italia. Tutta la Verità ripercorre le zone d’ombra, cercando di rispondere ad una domanda cruciale: la sentenza è andata davvero al di là di ogni ragionevole dubbio, come chiede l’ordinamento del nostro Paese? O si è scelta la strada più semplice e più mediatica?

"Tutta la verità" sul delitto di Avetrana: i dubbi della mamma di Sarah Scazzi, scrive Marta Migliardi su "it.blastingnews.com" il 24/04/2018. Cosima Serrano voleva solo coprire la figlia Sabrina Misseri? Il 26 aprile in onda sul NOVE "Tutta la verità". Concetta Serrano, mamma di #sarah scazzi, ha rilasciato un'intervista per la realizzazione di Tutta la verità, il programma che andrà in onda in esclusiva sul NOVE giovedì 26 aprile alle 21.25. In questa seconda puntata, dopo aver affrontato nella prima la strage di Erba (che vede processualmente colpevoli Olindo e Rosa Bazzi), la trasmissione si occuperà del delitto di #avetrana. Un altro caso che ha scosso l'Italia intera. Protagonista di questa tragedia la giovane Sarah Scazzi, di 15 anni, uccisa il 26 agosto 2010, per cui sono state condannate in via definitiva la cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima Serrano. Le due donne stanno scontando l'ergastolo presso il carcere di Taranto. Proprio lo scorso marzo erano andate in onda le interviste alle due detenute, realizzate dalla giornalista Franca Leosini per il programma Storie Maledette. In tale circostanza #Cosima Serrano e Sabrina Misseri si erano coerentemente dichiarate innocenti, come del resto hanno fatto durante tutti i tre gradi di processo. La nuova trasmissione del canale NOVE, Tutta la Verità, andrà a ripercorrere i fatti di Avetrana partendo dalle dichiarazioni di Concetta Serrano, mamma di Sarah, la vittima, e sorella di Cosima, a tutti gli effetti per la legge, una delle assassine della quindicenne. Per la prima volta Concetta Serrano parlerà dei suoi dubbi circa il ruolo della sorella nelle dinamiche del delitto. Queste le sue dichiarazioni: “Non ho capito quale sia stato il ruolo di Cosima: se lei c’entrava, se lei lo fa per coprire sua figlia… Né Michele ha mai parlato di Cosima. C’è una ricostruzione però non sappiamo se corrisponde al vero” È innegabile che vi siano delle zone d'ombra per ciò che concerne il ruolo di Cosima nell'omicidio di Sarah Scazzi. In primis Michele Misseri, (balzato alla cronaca come zio Michele) marito di Cosima e padre di Sabrina, in tutte le sue dichiarazioni non ha mai coinvolto la moglie. Accusò, prima di ritrattare più volte e autodenunciarsi, la figlia Sabrina ma non fece mai alcun accenno circa il coinvolgimento della moglie Cosima. Inoltre la prova principale che determinò l'arresto di Cosima Serrano fu la testimonianza del fioraio di Avetrana, il signor Buccolieri che mise a verbale il 9 aprile del 2011 di aver visto, quel 26 agosto verso le 13.20, Cosima e Sabrina rincorrere Sarah con la loro macchina dove l'avrebbero, infine, fatta salire con la forza. Il fioraio in seguito ritrattò e disse di aver sognato tutto. Ed infine il 17 luglio del 2012 durante il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, Buccolieri si avvalse della facoltà di non rispondere. Sabrina Misseri e Cosima Serrano sono per la legge entrambe responsabili dell'omicidio della 15enne. Michele Misseri è stato condannato invece ad otto anni di carcere per occultamento di cadavere.

“Tutta la verità” sul delitto di Avetrana, le anticipazioni dello speciale su Sarah Scazzi, scrive il 24 aprile 2018 Elisabetta Francinella su "Velvetgossip.it". Giovedì 26 aprile torna in prima serata, alle ore 21.15 sul NOVE, il secondo speciale di “Tutta la verità”, il programma che ricostruisce i più controversi e clamorosi fatti di cronaca nera del nostro Paese, cercando di rispondere ad una domanda cruciale: la sentenza è andata davvero al di là di ogni ragionevole dubbio? O si è scelta la strada più semplice e più mediatica? Dopo la prima puntata dedicata alla strage di Erba, Tutta la verità torna il 26 aprile alle ore 21.15 sul NOVE e affronterà l’omicidio della quindicenne di Avetrana Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto del 2010, per cui sono state condannate in via definitiva all’ergastolo la cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima Serrano, e per il quale lo zio Michele Misseri, che si dichiara unico responsabile dell’uccisione di Sarah, è stato invece condannato per il solo occultamento di cadavere a 8 anni di reclusione. Anche questa volta, grazie ad un accurato e approfondito lavoro di ricerca compiuto dagli autori e registi Cristiano Barbarossa e Fulvio Benelli, Tutta la verità ripercorrerà la cronologia delle indagini e la storia di uno dei processi più dibattuti della storia giudiziaria italiana. Lo farà attraverso nuove testimonianze, filmati inediti, audio originali delle intercettazioni e video degli interrogatori. In particolare, verranno approfonditi i rapporti all’interno della famiglia Misseri, che tanto hanno pesato sull’evolversi della vicenda e sulle contrastanti versioni fornite dallo zio Michele. Per farlo, Tutta la Verità ha intrecciato il racconto dei protagonisti, il fratello di Sarah, Claudio Scazzi, l’amico Ivano Russo, la nota criminologa Roberta Bruzzone, l’avvocato Walter Biscotti e l’inviata di Chi l’ha visto? ad Avetrana in quei drammatici giorni Marialucia Monticelli. Di particolare importanza la presenza di Valentina Misseri, sorella di Sabrina, che guiderà lo spettatore nella casa e nel garage al centro della vicenda, ripercorrendo i movimenti dei protagonisti ed evidenziando le discrepanze e le zone d’ombra delle diverse ricostruzioni, rivelando particolari inediti della famiglia Misseri. Rivivremo le drammatiche dirette televisive di quei giorni da casa Misseri, seguiremo l’evolversi degli eventi ascoltando le concitate telefonate tra i parenti e gli amici di Sarah, i pressanti interrogatori di Michele Misseri e i colloqui in carcere tra lui, la figlia Valentina e la moglie Cosima. Analizzeremo i fatti attraverso le parole di giornalisti e avvocati che hanno seguito il caso in prima persona. Infine, ascolteremo l’inedita testimonianza di Concetta Serrano Scazzi, che per la prima volta dichiara di nutrire seri dubbi sul ruolo di sua sorella Cosima.

Delitto di Avetrana: dubbi sul ruolo di Cosima, parla la mamma di Sarah Scazzi, scrive il 26 aprile 2018 Elisabetta Francinella su "Velvetgossip.it". Torna questa sera, 26 aprile, in prima serata sul Nove il secondo speciale di Tutta la verità, il programma che ricostruisce i più controversi fatti di cronaca nera del nostro Paese con l’ausilio di documenti e interviste inedite. Oggetto della nuova puntata è l’omicidio della quindicenne Sarah Scazzi. A parlare in esclusiva sarà proprio la mamma della studentessa che ha confessato alcune perplessità sulla sorella Cosima Serrano. La mamma di Sarah Scazzi torna a parlare in tv in un’intervista esclusiva per il programma Tutta la verità, in onda questa sera, 26 aprile, sul Nove, alle ore 21.15. Proprio la testimonianza di Concetta Serrano Scazzi è il contributo più importante dello speciale sull’omicidio della figlia. La mamma della studentessa per la prima volta ha confessato di nutrire seri dubbi sul ruolo di sua sorella Cosima Serrano, condannata in via definitiva insieme alla figlia Sabrina Misseri all’ergastolo per aver ucciso Sarah Scazzi, mentre il marito, Michele Misseri, nonostante si sia dichiarato unico responsabile dell’uccisione della nipote, è stato invece condannato per il solo occultamento di cadavere a 8 anni di reclusione. “Non ho capito quale sia stato il ruolo di Cosima: se lei c’entrava, se lei lo fa per coprire sua figlia… Né Michele ha mai parlato di Cosima. C’è una ricostruzione che però non sappiamo se corrisponde al vero”, confessa la mamma di Sarah Scazzi, ai microfoni di Tutta la verità. Concetta Serranno non sarà la sola protagonista ad essere ascoltata, ai microfoni del programma interverrà anche il fratello di Sarah, Claudio Scazzi, l’amico Ivano Russo, la nota criminologa Roberta Bruzzone, l’avvocato Walter Biscotti e l’inviata di Chi l’ha visto? ad Avetrana in quei drammatici giorni Marialucia Monticelli. Di particolare importanza la presenza di Valentina Misseri, sorella di Sabrina, che guiderà lo spettatore nella casa e nel garage al centro della vicenda, ripercorrendo i movimenti dei protagonisti ed evidenziando le discrepanze e le zone d’ombra delle diverse ricostruzioni, rivelando particolari inediti della famiglia Misseri. Grazie ad un accurato e approfondito lavoro di ricerca compiuto dagli autori e registi ideatori del format, Cristiano Barbarossa e Fulvio Benelli, Tutta la verità ripercorrerà la cronologia delle indagini e la storia che si cela dietro l’omicidio di Sarah Scazzi. Attraverso nuove testimonianze, filmati inediti, audio originali delle intercettazioni e video degli interrogatori mostrerà tutta le verità su uno dei casi di cronaca nera italiana più dibattuti di sempre. In particolare, verranno approfonditi i rapporti all’interno della famiglia Misseri, che tanto hanno pesato sull’evolversi della vicenda e sulle contrastanti versioni fornite dallo zio Michele.

Omicidio Sarah Scazzi, "Sabrina Misseri potrebbe tornare in libertà", scrive il 5 settembre 2018 Unione Sarda. Sabrina Misseri potrebbe presto uscire dal carcere. A rivelare l'indiscrezione è la trasmissione "Pomeriggio 5", secondo cui la giovane - condannata dalla Cassazione all'ergastolo insieme alla madre Cosima Serrano per l'omicidio della cugina 15enne Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana (Taranto) nel 2010 - avrebbe presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che avrebbe giudicato l'istanza ammissibile. La Corte avrebbe infatti riscontrato elementi da rivedere nei tre gradi di giudizio. Inoltre da metà ottobre, Sabrina Misseri potrebbe godere di permessi premio, ottenuti grazie alla sua buona condotta in carcere. Continua a dichiararsi colpevole, invece, Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, che si è sempre detto autore del delitto. L'uomo è stato condannato in via definitiva a otto anni per i reati di soppressione di cadavere e inquinamento delle prove. In una lettera indirizzata all'inviata della trasmissione della D'Urso, Misseri ribadisce: "Sto bene fisicamente, ma con la mia coscienza no. Io sono il vero colpevole e non Sabrina e Cosima. Io non smetto mai di scrivere loro". Riferendosi poi alle due puntate della trasmissione Storie Maledette, durante le quali Franca Leosini ha incontrato Sabrina e Cosima, aggiunge: "Ho visto la loro intervista dal carcere e quello che hanno detto è tutto vero, sono stato tanto male. So cosa ho fatto alla piccola Sarah e non sono creduto da nessuno. Sono nelle mani di Dio, solo lui sa la verità".

Caso Scazzi. Ritenuto ammissibile il ricorso degli avvocati alla Corte europea, scrive il 6 settembre 2018 "Il Corriere del Giorno". Il ricorso presentato dall’avvocato Franco Coppi è stato accolto dalla Cedu. Attesa la data dell’udienza di discussione, ma i tempi per la trattazione non sono rapidi. La CEDU, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha reso noto l’ammissibilità del ricorso contro la sentenza all’ergastolo emessa il 21 febbraio del 2017 dalla Corte di Cassazione nei confronti di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano ritenute responsabili dell’omicidio della quindicenne di Avetrana Sarah Scazzi, che venne strangolata il 26 agosto del 2010 e gettata in un pozzo dove fu rinvenuta dopo 42 giorni di ricerche delle Forze dell’Ordine. Secondo i giudici della Suprema Corte di Cassazione che hanno confermato le sentenze dei due precedenti gradi di giudizio, Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano “non meritano sconti di pena per le modalità commissive del delitto” soprattutto per la “fredda pianificazione d’una strategia finalizzata, attraverso comportamenti spregiudicati, obliqui e fuorvianti, al conseguimento dell’impunità”. I difensori delle due donne, hanno sempre sostenuto la colpevolezza di Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima il quale dopo avere incolpato la figlia, si è successivamente autoaccusato di ogni responsabilità del delitto, non venendo però più creduto dai giudici. Michele Misseri attualmente sta scontando nel carcere di Lecce i suoi otto anni di carcere per la soppressione del cadavere di sua nipote Sarah Scazzi. La decisione di accogliere il ricorso presentato dagli avvocati Franco Coppi di Roma e del collega Nicola Marseglia del foro di Taranto, rappresenta una nuova speranza per le due condannate all’ergastolo. I tempi per la trattazione non sono rapidi.  “Esiste un colpevole ed invece ci sono due innocenti che stanno scontando la pena al suo posto, queste donne sono due sventurate” hanno dichiarato i legali. In questa fase processuale l’ammissibilità del ricorso, attesta esclusivamente la regolarità e rispetto delle rigide procedure da rispettare, ma soprattutto la concretezza delle motivazioni indicate nel ricorso. I giudici della Corte Europea al momento, chiaramente non sono ancora entrati nel merito. Statisticamente l’ottanta per cento circa delle domande di revisione processuale presentate alla CEDU viene rigettato o per inosservanza dell’iter o perchè la richiesta viene ritenuta inopportuna.

Da quanto appreso, il ricorso presentato dei legali di Sabrina Misseri si fonda sulla presunta violazione del diritto all’equo processo per carenza di contraddittorio e per la menomazione del diritto di difesa.  La Corte europea adesso dovrà stabilire se assegnare la trattazione alla Grande Camera, che è costituita dal presidente della Corte, dai vicepresidenti e da altri quattordici giudici per un totale di diciassette componenti per l’esame dei casi particolarmente complessi, o in alternativa ad una delle cinque sezioni. A differenza di una sentenza pronunciata dalle singole Camere che lo diventa esclusivamente alla scadenza dei termini per l’impugnazione, cioè allorquando sono scaduti tre mesi dalla pronuncia, senza che sia stato presentato un ricorso alla Gran Camera, la sentenza emessa dalla Gran Camera è sempre definitiva. 

 Omicidio Sarah Scazzi, nessun permesso premio per Sabrina Misseri. I permessi premio non arriveranno - spiega il legale. Non sono maturati ancora i dieci anni, alla Misseri non sono stati ancora riconosciuti quei famosi sconti di 45 giorni ogni 6 mesi e quindi, allo stato, non è nelle condizioni di poter usufruire di alcun permesso, scrive il 9 ottobre 2018 "Il Corriere della Sera". Non verranno accordati i permessi premio a Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Lo afferma Franco Coppi, avvocato della Misseri, in un’intervista su Rai1 a Storie Italiane di Eleonora Daniele. «I permessi premio non arriveranno - spiega Coppi -. Non sono maturati ancora i dieci anni, alla Misseri non sono stati ancora riconosciuti quei famosi sconti di 45 giorni ogni 6 mesi e quindi, allo stato, non è nelle condizioni di poter usufruire di alcun permesso». Nel frattempo, racconta Coppi, Sabrina Misseri dal carcere in «una corrispondenza che potrebbe ormai costituire oggetto di pubblicazione, un vero e proprio epistolario», parla anche del padre Michele Misseri e del rapporto con lui. «Nei confronti del padre non prova neanche risentimento - aggiunge l’avvocato - prova soltanto pietà e compassione. Naturalmente, voi potete capire, quale sia il suo stato d’animo di fronte a un padre che l’ha accusata, come lei ritiene e anche io ritengo, ingiustamente». Dopo l’ammissibilità notificata dalla Corte Europea dei Diritti Umani sul ricorso presentato dalla difesa, e sui cui ancora non c’è stata sentenza, Coppi infine chiarisce che «nell’ipotesi in cui Strasburgo dovesse riconoscere che sono stati consumate violazioni dei diritti della difesa, si porrà poi in Italia il problema di una riapertura del procedimento: è chiaro che puntiamo a questo, non ci interessa affatto una condanna dell’Italia al risarcimento dei danni».

SABRINA MISSERI, NESSUN PERMESSO PREMIO. "Non riconosciuti i 45 giorni ogni 6 mesi". Omicidio Sarah Scazzi, Sabrina Misseri e il ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo. L'avvocato Franco Coppi: “Ha superato la prima fase, siamo fiduciosi”, scrive Silvana Palazzolo il 9 ottobre 2018 su "Il Sussidiario". Al centro dell'intervista all'avvocato Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri, all'ergastolo insieme alla madre Cosima Serrano per il delitto della piccola Sarah Scazzi, anche i presunti permessi premio di cui potrebbe usufruire la sua assistita. Evenienza smentita dal legale che proprio nel corso del suo intervento alla trasmissione di Rai1 ha spiegato come la giovane non abbia ancora maturato gli anni sufficienti per poter usufruire sia di un possibile sconto di pena che di un permesso premio. "I permessi premio non arriveranno. Non sono maturati ancora i dieci anni", ha dichiarato l'avvocato Coppi che ha quindi spiegato come funziona tecnicamente questo aspetto importante. "Alla Misseri non sono stati ancora riconosciuti quei famosi sconti di 45 giorni ogni 6 mesi e quindi, allo stato, non è nelle condizioni di poter usufruire di alcun permesso", ha chiarito. Nel frattempo la Corte Europea dei Diritti Umani ha giudicato ammissibile il ricorso presentato dalla cugina della giovane vittima uccisa ad Avetrana nell'agosto 2010. Coppi ha chiarito ancora che nel caso in cui Strasburgo dovesse riconoscere eventuali violazioni dei diritti della difesa, potrebbe accadere la riapertura di un procedimento, al quale chiaramente la stessa difesa punta. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

L'AVVOCATO: “PUNTIAMO A RIAPERTURA PROCESSO”. Chi ha ucciso Sarah Scazzi? In tre gradi di giudizio la responsabilità dell’omicidio è stata attribuita a Sabrina Misseri e Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della ragazzina di Avetrana. Ma loro sostengono che sia stato Michele Misseri, il quale dal canto suo ha cambiato spesso versione. «Non prova risentimento per il padre, ma pietà e compassione. Potete capire lo stato d'animo di fronte ad un padre che l'ha accusata ingiustamente», ha dichiarato il legale di Sabrina Misseri, l’avvocato Fausto Coppi, a Storie Italiane. Non ha dubbi invece il legale di Concetta Serrano, la madre della vittima: «C’è stata la condanna all'ergastolo per tre gradi di giudizio. Questo processo resterà nella storia della giurisprudenza perché abbiamo 2800 pagine di motivazioni». Anche la criminologa Roberta Bruzzone è intervenuta per commentare le dichiarazioni di Coppi: «Definire questo un processo ingiusto è ingeneroso nei confronti di quello è successo». Ma il legale di Sabrina Misseri tira dritto: «Se la Corte di Strasburgo dovesse riconoscere che sono state consumate violazioni dei diritti della difesa, si porrà in Italia il problema della riapertura del processo, e noi puntiamo a questo». (agg. di Silvana Palazzo).

“SUO PADRE MICHELE È L'ASSASSINO DI SARAH SCAZZI”. Nel corso del suo intervento a Storie Italiane, l'avvocato di Sabrina Misseri ha riversato su Michele Misseri la responsabilità dell'omicidio di Sarah Scazzi. «Ha dichiarato di essere l'assassino. Se Sabrina fosse stata coinvolta avrebbe fatto sparire il telefonino, invece lei ha chiamato i carabinieri», ha dichiarato l'avvocato Fausto Coppi. E poi ha contestato il fatto che lo zio della vittima non sia stato ritenuto credibile perché ha cambiato continuamente versione: «Ma i cambiamenti non sono gratuiti e non credibili. Vera o falsa che sia la motivazione, ha sempre cercato di spiegare i suoi cambiamenti. Ad esempio ha dichiarato di essere stato indirizzato dall'avvocato Galloppa». Quest'ultimo, primo difensore di Michele Misseri, ha spiegato nello studio di Eleonora Daniele: «Mi accusò di avergli suggerito la versione che ha dato nel primo incidente probatorio. Dichiarò di aver subito pressioni da me e Roberta Bruzzone». E per questo Michele Misseri è accusato di calunnia. A tal proposito è intervenuta telefonicamente la criminologa Roberta Bruzzone, arrabbiata perché in studio si è detto che lei e Galloppa sono stati “cacciati” come team difensivo: «Ci tengo a precisare che io e Galoppa non siamo stati cacciati. Non mi ha cacciato nessuno. Michele Misseri è accusato di calunnia nei nostri confronti. Definire questo un processo ingiusto è ingeneroso nei confronti di quello è successo». (agg. di Silvana Palazzo).

OMICIDIO AVETRANA, SABRINA MISSERI E IL RICORSO A STRASBURGO. Sabrina Misseri fuori dal carcere grazie a permessi premio? Ve ne abbiamo parlato nelle scorse settimane, ma ora interviene l'avvocato Franco Coppi per smentire le voci che sono circolate in merito alla cugina di Sarah Scazzi, che il 26 agosto 2010 scomparve da Avetrana per poi essere ritrovata morta. «Non ci sarà alcun permesso premio, perché non sono ancora maturati i dieci anni visto che non sono stati riconosciuti sconti», ha chiarito il legale di Sabrina Misseri a Storie Italiane. Ma ha anche confermato di aver registrato segnali positivi in merito al ricorso presentato alla Corte europea dei diritti dell'uomo: «Abbiamo presentato ricorso a Strasburgo perché riteniamo che abbia subito un processo ingiusto. Ha superato il primo esame di ammissibilità, ma non è decisivo. Ci sono altri esami da affrontare, ma è confortante constatare che si sia concluso positivamente». L'avvocato Coppi ha aggiunto che ora resta in attesa, del resto anche i tempi della giustizia di Strasburgo sono molto lunghi.

“RICORSO MOLTO MOTIVATO”. Nella vicenda del ricorso presentato dalla difesa di Sabrina Misseri alla Corte europea dei diritti dell'uomo si inserisce quella di un fioraio, Giovanni Buccolieri, che dichiarò di aver visto Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri trascinare il corpo di Sarah Scazzi in auto il pomeriggio della sua scomparsa. Una dichiarazione che poi ritrattò, finendo per essere accusato di falsa testimonianza. Questa vicenda non è arrivata nel processo che ha portato alla condanna delle due donne, e proprio questa vicenda è finita all'interno del ricorso. Lo ha spiegato l'avvocato Franco Coppi a Storie Italiane: «Abbiamo presentato un ricorso molto motivato. Sabrina è stata condannata sulla base di prove non riscontrate, come le dichiarazioni di un fioraio che non è stato esaminato nel processo. Ci sono violazioni di diritti che riguardano la difesa. Non abbiamo esaminato la vicenda del fioraio, quindi ci sono state sottratte delle prove, il problema è questo».

Cosima a Sabrina "Perché piangi? Tanto lo sapevamo". Tutte bugie a favore di telecamera. Passi falsi commessi da chi ha creduto che la televisione potesse bonificare le villetta insanguinata, che il Truman Show potesse autoalimentarsi fino ad occultare la verità. L'opinione pubblica sarà anche stata accontentata, ma l'intera famiglia Misseri ha giocato col fuoco, scrive Domenico Marocchi, Giornalista tv, Rai1 su l'Huffingtonpost.it.  il 21/04/2013. "Perché piangi? Tanto lo sapevamo". Ancora una volta capofamiglia, ancora una volta è lei, Cosima, che indossa i pantaloni, la sfinge che non tradisce un'emozione ma che sa tutto. E sa che la parola ergastolo sarebbe stata pronunciata. Dopo 15 mesi di processo e 52 udienze Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri sono state condannate all'ergastolo per l'omicidio della quindicenne Sarah Scazzi. Quando il presidente della corte d'assise di Taranto Rina Trunfio ha pronunciato la sentenza, Sabrina è scoppiata in lacrime. L'ennesimo pianto di una ragazza che alle telecamere prima, e ai suoi legali poi, aveva sempre urlato la sua estraneità al delitto. Sua madre Cosima invece, è rimasta imperturbabile. Non ha battuto ciglio ma ha prontamente ripreso la figlia sul suo sgomento. "Tanto lo sapevamo", le ha detto. Davvero Cosima e Sabrina si aspettavano questa sentenza? Forse sì, considerando che l'avvocato Franco De Jaco, legale della moglie di Michele Misseri, ha puntato il dito contro i mezzi di comunicazione, che in questi mesi avrebbero condannato Cosima e Sabrina. "Questa è una sentenza che verrà ribaltata totalmente - ha detto De Jaco- con buona pace dei media e di chi ritiene che questa accusa abbia fondamento. Abbiamo accettato e accontentato l'opinione pubblica perché l'antipatia verso queste due donne era forte". Antipatia. Disprezzo e avversione. Quanto i media sono responsabili di questi sentimenti e quanto le stesse Cosima e Sabrina lo sono per averli utilizzati impropriamente? Sabrina infatti, era la ragazza che prima di rilasciare un'intervista chiedeva ai giornalisti "Quanto fai di share?" e che al termine degli interrogatori chiamava a casa per chiedere cosa avessero detto di lei in televisione. Sulla morte della piccola Sarah talvolta i media hanno speculato. Ma sono stati gli stessi inquilini della casa di via Deledda ad incrociare, volutamente, i loro sguardi con le telecamere. Michele Misseri ha mimato in maniera tragicomica l'omicidio con una corda davanti ad un'incredula inviata. Sabrina ha fissato appuntamenti ed interviste per raccontare decine e decine di volte quel maledetto 26 agosto, insinuando dubbi su Sarah, sulle frequentazioni del padre Giacomo Scazzi e sulla familiarità della quindicenne col mondo dei social network. Tutte bugie a favore di telecamera. Passi falsi commessi da chi ha creduto che la televisione potesse bonificare le villetta insanguinata, che il Truman Show potesse autoalimentarsi fino ad occultare la verità. L'opinione pubblica sarà anche stata accontentata, ma l'intera famiglia Misseri ha giocato col fuoco. E i mostri che hanno ucciso hanno fatto di tutto per guadagnarsi la lapidazione mediatica.

Io che ho conosciuto Misseri e ho raccontato il delitto di Avetrana, vi dico i miei dubbi. La notte dell'arresto di Sabrina Misseri io c'ero. Ero lì ad Avetrana, in via Deledda, per la diretta di Quarto Grado. Li ricordo bene quei momenti, con Sabrina portata in caserma a Taranto e noi a pochi passi dalla villetta in cui si era barricata la madre, Cosima Serrano. L'auto dei carabinieri continuava a passare, come fosse una ronda, sollevando ogni volta nei cronisti il dubbio: "stanno venendo a prendere anche lei?", scrive Simone Toscano, Inviato di cronaca di Mediaset il 21/02/2017 su l'Huffingtonpost.it.. La notte dell'arresto di Sabrina Misseri io c'ero. Ero lì ad Avetrana, in via Deledda, per la diretta di Quarto Grado. Li ricordo bene quei momenti, con Sabrina portata in caserma a Taranto e noi a pochi passi dalla villetta in cui si era barricata la madre, Cosima Serrano. L'auto dei carabinieri continuava a passare, come fosse una ronda, sollevando ogni volta nei cronisti il dubbio: "stanno venendo a prendere anche lei?". Passarono alcuni mesi prima dell'arresto, il 26 maggio del 2011. Quella sera non c'ero, ma conosco a memoria quelle immagini, viste decine di volte, analizzate nelle facce, nelle frasi urlate. Potrei dire uno per uno chi erano, quelli che quella sera correvano dietro alla volante urlando "assassina", fischiando, inveendo. Tra loro anche qualcuno di quei testimoni su cui la Procura ha basato la propria teoria accusatoria. C'ero invece nel famoso "Incidente probatorio". Un termine che per gli addetti ai lavori è il pane quotidiano ma che invece - me ne accorsi in quell'occasione - chi di mestiere fa tutt'altro ovviamente non conosce. Cosa vuol dire "incidente", mi chiedevano in tanti? E io giù a ripetere la solita spiegazione da bar, per cui "è una parentesi che si apre e si chiude, serve a cristallizzare una dichiarazione". Mi sono sempre chiesto: possibile che quando a Michele Misseri è stato chiesto "facciamo l'incidente", lui abbia capito che davvero dovesse cristallizzare le sue accuse? Oppure no, al contrario, possibile invece che un uomo dalla bassa scolarizzazione e i cui strumenti culturali non erano particolarmente coltivati, possa aver capito che aveva l'occasione giusta per dire che "si era trattato di un incidente"? Michele Misseri l'ho intervistato più volte. Una intervista su tutte credo che non la dimenticherò mai: era la sera del 25 agosto del 2011, mancavano poche ore a un anniversario triste e amaro. Mi trovavo ad Avetrana per realizzare un servizio - ancora per Quarto Grado - sul paese un anno dopo. Nulla di morboso, un pezzo "sociologico", con le facce di quel fazzoletto di terra ai margini del Salento e con le testimonianze dei protagonisti.

Passando davanti alla porta dell'ormai famoso garage, quello in cui Michele Misseri racconta di aver tolto la vita alla nipote, ci accorgiamo che è aperta. Ci fermiamo e io chiamo il "signor Misseri?". Una secchiata d'acqua ci sfiora, poi la porta sbatte. Passa un minuto e un'altra secchiata arriva sulla strada, andando anche questa a vuoto. Decido quindi di mettermi sotto la tettoia del cancello, al riparo, e inizio a parlare immaginando che Michele sia dentro. Me ne accorgo solo perché lo sento piangere: non vuole parlare e io rispetto la sua decisione, ma prima di andare decido di dirgli di cuore quello che sento. E cioè che "io non so cosa sia realmente successo, ma credo che lei abbia sbagliato a non spendere mai una parola per quella ragazza (...) E credo che sia stata una mancanza di rispetto nei confronti di Sarah e della sua famiglia quella di fare come prima dichiarazione, appena uscito dal carcere, una descrizione minuziosa del modo in cui l'avrebbe uccisa e calata nel pozzo". Mi sembrava mostruoso e gliel'ho detto, smettendo i panni del giornalista che chiede un intervista, ma che piuttosto si toglie un sassolino dalla scarpa. Michele a quel punto si fa vivo, decide di parlare, "non è vero che io a Sarah non ci penso e che le manco di rispetto", mi dice. "Ti faccio vedere una cosa che non conosce nessuno". Mi apre la porta, mi fa cenno di seguirlo. Per ora le telecamere restano fuori, poi entreranno. Entriamo nel garage, nel presunto luogo del delitto: è buio e non si vede nulla se non fosse per una fioca luce in fondo, alcuni metri sotto terra, finita la rampa in discesa.

D'improvviso chiude la porta e io ho paura. Ho paura. Come un pugile dilettante metto - al buio, non mi vede - i pugni davanti a me e gli dico "non faccia scherzi eh". Non ne fa, mi prende per un braccio e mi accompagna fino alla fine del garage, esattamente nel punto dove dice di aver ucciso Sarah, e mi mostra qualcosa che ancora oggi mi fa venire i brividi solo a pensarci: con del legno ha costruito una sorta di edicola sacra, un altarino alla nipote. Dentro ci sono foto ritagliate dai giornali "e per fare luce guarda cosa ho fatto, ho preso un caricabatterie del cellulare e l'ho collegato alla lampadina". Io rimango senza parole. Dopo un'ora di colloquio iniziamo una delle interviste più difficili di sempre, in cui una serie infinita di volte gli chiedo "ma lei si rende conto che è quasi blasfema come cosa?" e "cosa crede che una madre dovrebbe pensare di lei?". Di blasfemo in quell'altarino Michele non vedeva nulla. Continuava a piangere e a ripetermi di "quel calore alla testa, che non c'ho visto più", in quel primo pomeriggio del 26 agosto di un anno prima. Possibile che sia quest'uomo sicuramente dalla psicologia labile l'autore del delitto? Dopo i nostri incontri l'ho pensato, lo ammetto, e la stessa cosa la sostiene una criminologa - Anna Maria Casale - che con lui ha parlato molto a lungo, fino a stilare un ampio profilo psicologico finita tra le carte del processo. Prima non avevo dubbi sulla sua colpevolezza, ma da quel momento ho iniziato a leggere i faldoni dell'inchiesta in altro modo, sotto un altro punto di vista, ripulito dall'onda emotiva e colpevolista. Le ho passate in rassegna, quelle migliaia di pagine, senza riuscire a trovare la pistola fumante e i "tre indizi che fanno una prova", facendo difficoltà a immaginare una madre di famiglia che litiga con la nipote per difendere una figlia gelosa, poi la insegue quando quella scappa, la tira per un braccio e la riporta a casa per ucciderla. Come è possibile togliere la vita a una ragazza, che è quasi un'altra figlia per te, per un dolo d'impeto? E davvero è possibile che nessuno in quella via si sia accorto di nulla? È invece plausibile che ci sia stato un incidente, magari proprio tra le due ragazze ma senza la compartecipazione della madre, e che i tre abbiano provato a mettere a tacere tutto in maniera goffa senza riuscirci, insomma provando - come disse Michele in una intercettazione ambientale proprio con Cosima - "a fare i furbacchioni" senza esserne capaci? Oppure c'era altro, un "segreto inconfessabile" mai emerso finora, come movente di un omicidio tanto spietato? Un dato certo è che sulla Procura di Taranto si sia riversata una pressione mediatica che quell'ufficio non era forse in grado di sostenere. E che le indagini siano state viziate proprio dal comportamento di Michele Misseri, in un circolo vizioso da cui è difficile venire fuori. Mi continua a risuonare per la testa, anche ora che c'è finalmente una verità processuale certa- la solita domanda: nel dubbio è meglio avere due innocenti in carcere o due colpevoli in libertà? Evidentemente per i giudici della Cassazione quel dubbio non esisteva.

INTERVISTA A FRANCO COPPI.

Franco Coppi: «I tribunali? Gabbie di matti. Ho difeso la Juve con la cravatta romanista». L’avvocato: parlo con il mio cane, me l’ha regalato Ghedini. Da ragazzo credevo di poter contribuire alle sorti dell’arte. Poi non ho più preso in mano un pennello, non potevo permettermi la tentazione di distrarmi, scrive Giusi Fasano il 3 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Franco Coppi, 79 anni, con il golden retriever Rocky avuto in regalo dall’avvocato Niccolò Ghedini.

«Buongiorno professore». «Ossequi». «Carissimo prof, permette un saluto?». «I miei omaggi, avvocato». Più che un’intervista è uno slalom fra ammiratori. Franco Coppi, fra i più stimati e autorevoli avvocati italiani, è a casa sua, in Cassazione, e qui non c’è collega, giudice, cancelliere, usciere che non lo conosca. Anche perché dei suoi 79 anni ha passato più tempo in questo palazzo che in qualsiasi altro posto. E oggi è il re dei cassazionisti. Un’istituzione.

Prof, non le danno tregua con le riverenze. Come fa a dar retta a tutti?

«Io sono un noto chiacchierone e poi sarebbe disonesto dire che non fa piacere sentirsi apprezzati o vedere che i colleghi ti dimostrano considerazione e simpatia. Anche se, le confesso, avrei una voglia di smettere...»

Non dica così o farà venire un infarto ai suoi assistiti.

«Ma sì, invece. In questi ultimi anni ho sentito sulla mia pelle l’ingiustizia di alcune decisioni che sono diventate un peso insopportabile».

Neanche glielo chiedo. So che sta parlando di Sabrina Misseri e del suo ergastolo per l’omicidio di Avetrana.

«Esatto, non mi stancherò mai di ripetere che la sua è una pena ingiusta, mostruosa. Sapere di non essere riuscito a dimostrare la sua innocenza non mi fa dormire la notte».

Sta criticando una sentenza definitiva.

«E perché no? Chi lo dice che non si debba fare? Se la ritengo non giusta posso criticarla eccome! Quella condanna mi ha segnato così profondamente che ho pensato davvero di abbandonare la professione».

Cosa le ha fatto cambiare idea?

«Il senso di responsabilità verso i colleghi dello studio e le cause che sto seguendo. E poi una persona che stimo molto mi ha detto: in futuro quella ragazza potrebbe avere ancora bisogno di te, se te ne vai non la potrai più aiutare. È vero, e io spero ancora di esserle utile. Nel frattempo ci scriviamo. Lei sa del mio amore per gli animali e assieme alle lettere mi manda disegni di animali bellissimi che fa con le sue mani».

Ha detto animali ma lo sanno tutti: il suo amore più grande è per i cani.

«È vero ma ho avuto anche gatti e perfino una gazza ladra».

Era arrivata da lei come imputata? 

Ride. «No. Era venuta perché le piaceva il mio terrazzo, forse. Le abbiamo costruito una gabbia il più grande possibile ma spesso era libera, veniva a mangiare nel piatto e faceva il bagno nel lavello della cucina. È morta di vecchiaia. Ma nella mia vita ho sempre avuto accanto un cane, fin da piccolissimo».

Ne ha uno anche adesso?

«Sì. Dopo la morte del nostro Bruce io e mia moglie eravamo molto indecisi. Siamo anziani, sa com’è...E invece a Natale di due anni fa si presentò a casa mia con un cucciolo irresistibile di golden retriever l’avvocato Ghedini (con Coppi si occupò del caso Ruby in cui Berlusconi fu assolto, ndr)».

Un regalo post-assoluzione del Cavaliere?

«Era un regalo di Ghedini, graditissimo. Aveva già un nome, Rocco, che io ho cambiato in Rocky e poi gli ho dato anche un cognome».

Che sarebbe?

«Ghedini».

Chissà come sarà contento l’avvocato...

«È una persona intelligente, sono certo che capirà che non è un’offesa. Anzi, per me è un onore. Io e Rocky Ghedini ci facciamo passeggiate lunghissime, ci capiamo al volo con un’occhiata. Ogni tanto gli parlo, un giorno o l’altro mi risponderà».

Ancora passeggiate chilometriche anche dopo la caduta e la frattura alla spalla?

«Ora confesso una cosa: lì non stavo passeggiando. Correvo. Ho visto tutti quei ragazzi correre al parco e mi sono detto: ci provo anch’io. Ricordo che quando sono tornato in aula il presidente mi chiese “avvocato, cosa le è successo”? Gli ho risposto: se le dico com’è andata mi caccia per manifesta stupidità».

Torniamo alla sua professione. C’è il nome di Coppi nel caso Andreotti, nello scandalo Lockheed, nel Golpe Borghese, nelle difese di grandi gruppi industriali e in quelle di Niccolò Pollari, Antonio Fazio, Gianni De Gennaro, Berlusconi... Però lei ha sempre detto che la sua Corte preferita è quella d’Assise. Cosa ci trova di così appassionante in un omicidio?

«Ma scherza? I cosiddetti casi “di cronaca” consentono di vedere le sfaccettature della vita, capisci molto della natura umana, entri nei moventi dell’agire degli individui, scopri i meccanismi di giustificazione che le persone cercano per i propri comportamenti. È affascinante, ogni volta è quasi una lezione di psicologia».

Non starà esagerando?

«Beh, lo dico con il dovuto rispetto: i luoghi della giustizia spesso sono gabbie di matti. Lei sa, vero, che Eduardo De Filippo in molte delle sue commedie ha preso spunto dalla realtà nelle aule dei tribunali? Nella vita ho assistito a difese diciamo bizzarre, per usare un eufemismo».

Per esempio?

«Per esempio ricordo tanti anni fa l’arringa straordinaria di un collega che cercò di convincere tutti con un discorso aulico: “La vita di questo povero ragazzo è stata già messa duramente alla prova” disse indicando il suo assistito. E poi cose tipo: “Vivrà il resto dei suoi giorni senza avere più accanto i suoi genitori”. Erano parole accorate».

E cosa c’era di bizzarro in quella difesa?

«C’era che il presidente a un certo punto disse: ma avvocato, i genitori di ha ammazzati lui! E la risposta fu: “E che c’entra? Rimane pur sempre orfano”. Indimenticabile».

Rientra nel capitolo bizzarrie anche la sua cravatta giallorossa durante il processo in difesa della Juventus?

«Lì ho agito per chiarezza. Per evitare l’accusa di tradimento io, romanista, ho messo in chiaro le cose con la cravatta più adeguata».

A proposito, è vero che di cravatte ne ha un numero imbarazzante?

«Temo di sì»

Quante? Cento, duecento, di più?

«Non le ho mai contate ma credo di più...».

Tempo fa parlò di un segreto per il figlio di Borsellino. Gliel’ha poi svelato?

«Non l’ho mai incontrato. Più che un segreto era un ricordo di parole che mi disse suo padre. Eravamo a Roma, io camminavo accanto a lui e più avanti c’era Falcone. Borsellino indicò Falcone e mi disse: “Vede quell’uomo? Gli devo tutto, mi ha ridato la fiducia e il coraggio che stavo perdendo e ogni volta che sono accanto a mio figlio sento che gli posso trasmettere tutto il bene che Falcone mi ha passato”. Mi sono commosso, non ho mai dimenticato quelle parole».

Lei è nato in Libia per puro caso, giusto?

«Giusto. Mio padre Filippo, che ho perso quand’ero ragazzino, era un dirigente Fiat che andò lì a lavorare e mia madre, che era una casalinga, lo seguì. Così io e mia sorella Cecilia siamo nati laggiù. Avevo quattro anni quando scappammo da Tripoli con i magazzini in fiamme e i tedeschi che davano ordini alle auto in coda. Ricordo tutto come fosse qui, adesso. Non ci sono mai tornato».

Come ha conosciuto sua moglie?

«Fu mentre ero in vacanza a Capri, dove Anna Maria lavorava. Mi è piaciuta subito».

Corteggiamento?

«Una cosa semplice. Abbiamo cominciato a frequentarci e a un certo punto le ho detto: che ne diresti se ci sposassimo?»

Tutto qui?

«Beh, proprio tutto no».

Avete avuto tre figlie.

«Sì. Francesca fa l’avvocato nel mio studio, Alessandra è ingegnere e Giuliana è consigliere parlamentare. Ho avuto e ho una vita familiare felice. Sono fortunato».

E la vita da docente universitario?

«Ho cominciato nel ‘68 a Teramo e ho finito sei anni fa alla Sapienza. Insegnavo Diritto penale, un’esperienza bellissima di cui conservo molti ricordi».

C’è qualcosa nei suoi 79 anni che avrebbe voluto fare e non ha fatto?

«Adesso, da anziano, penso ai libri non letti, ai musei non visti, ai viaggi non fatti, assorbito com’ero dalla mia professione. Ma non sono rimpianti, solo malinconie postume».

E quel vecchio amore per la pittura? Nessun rimpianto neanche per quello?

«Da ragazzetto, a forza di girare per chiese e musei romani con mio padre, mi ero innamorato del bello e credevo di poter contribuire alle sorti dell’arte. Avevo frequentato corsi, l’avevo presa sul serio. Quando ho deciso di smettere non ho più guardato un pennello, non potevo permettermi tentazioni. Dalle tentazioni bisogna avere il coraggio di allontanarsi sennò chissà quanti motivi d’appello avrei lasciato scadere per dipingere i miei paesaggi...».

A fine intervista ce lo può svelare: erano eleganti le cene a casa Berlusconi?

«Anche. Non mi faccia aggiungere altro».

LA CONTROSTORIA.

Delitto di Avetrana: autopsia e dubbi. Malgrado al sentenza di Cassazione ci sono ancora dubbi sulla morte di Sarah Scazzi e la condanna di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, scrive Francesco Bonazzi il 19 novembre 2018 su "Panorama". Certo, c’è anche chi, come padre Gratien Alabi, a dicembre del 2017 è stato condannato in secondo grado a 27 anni per omicidio volontario, senza che il corpo della sua presunta vittima, Guerrina Piscaglia, sia mai stato trovato. Con il religioso congolese che si dichiara innocente e aspetta fiducioso la Cassazione. Ma a esaminare la frettolosa autopsia eseguita su Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana, in provincia di Taranto, sparita da casa nel primo pomeriggio di giovedì 26 agosto 2010, viene da dubitare che si tratti di lei. Nelle fotografie del cadavere, ritrovato dopo 40 giorni in grave stato di putrefazione, si vedono intorno ai polsi i segni tipici di una corda stretta con forza, nonostante Michele Misseri, lo zio, non abbia mai parlato di corde. E della cotoletta di pollo fritta, mangiata da Sarah poco prima di uscire da casa, come raccontato e confermato più volte dalla mamma Concetta Serrano, non c’è la minima traccia nello stomaco della ragazza. Come se un «cordon bleu» potesse essere digerito in mezz’ora. Sono solo due dei particolari, abbastanza macroscopici, che dovrebbero far dubitare che quel corpo esaminato dai medici legali nominati dalla procura di Taranto sia davvero quello di Sarah. E anche qui, le due condannate per l’omicidio, la cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima, si dicono totalmente innocenti, nonostante la sentenza definitiva della Cassazione arrivata lo scorso anno abbia confermato gli ergastoli. Il giudicato è sacro, per carità, ma gli errori sono errori, le incongruenze sono incongruenze e le piste abbandonate nei primi giorni dell’inchiesta a volte si scopre solo a distanza di anni che erano quelle giuste. Anche se chiunque, avvocato o investigatore, si oppone alla strada imboccata dall’inchiesta ufficiale, spesso finisce indagato per depistaggio. La consulenza del medico legale Luigi Strada, professore di Bari, eseguita per la procura di Taranto, viene depositata l’11 novembre 2010 e colpisce per la sua stringatezza: appena otto pagine, fotografie comprese. L’autopsia era stata eseguita il 7 ottobre, su quel corpo e nella perizia si legge: «Trattasi di soggetto di età femminile dell’apparente età di 15-16 anni, in avanzato stato di putrefazione». Del resto era stato trovato in un pozzo pieno d’acqua 40 giorni dopo la scomparsa di Sarah, su indicazione dello zio Michele Misseri, che verrà poi condannato a 8 anni di reclusione per «soppressione di cadavere» e, proprio in questi giorni, ad ulteriori tre anni in seguito a una denuncia per calunnia e diffamazione. La prima anomalia che balza agli occhi è che nelle foto a colori riportate nell’autopsia si vedono lividi evidenti su entrambe le braccia e dei segni intorno ai polsi che non sembrano aver a che fare con i classici fenomeni di putrefazione, ma sembrano richiamare l’uso di una o più corde. Si tratta di un particolare che però entra nettamente in contrasto con tutte le versioni rese in interrogatorio e al processo da Michele Misseri sul modo in cui sarebbe stato consumato l’omicidio e su come sarebbe stato poi occultato il cadavere. Versioni in cui si parla al massimo di una cintura intorno al collo, ma mai di corde ai polsi. In particolare, per restare ai racconti dell’agricoltore di Avetrana fatti ai pm prima dell’autopsia, ovvero in possesso del medico legale, c’è una prima versione che parla di Sarah che scende in garage mentre lo zio sta riparando il trattore, lo «stuzzica ai fianchi», e mentre lei si gira di spalle per andare via, Misseri prende una fune che stava sul trattore e la strangola. Poi l’uomo corregge i propri ricordi e il 25 ottobre 2010 racconta «di aver toccato Sarah» (un particolare che aveva sempre negato), di essersi preso per risposta un calcio dalla nipote e di averla quindi soffocata con la «solita» corda del trattore. Al processo di primo grado, nell’udienza del 3 luglio 2012, il medico legale Luigi Strada dirà che Sarah «fu strangolata con una cintura larga circa due centimetri e mezzo che ha lasciato un solco sul collo». E che la morte «sopraggiunse in due-tre minuti per asfissia». Ma le sentenze affermano che sono state Sabrina e la madre Cosima a stringere quella cintura. Resta il macroscopico dubbio che se davvero la nipote quindicenne è stata legata per i polsi con delle corde, come paiono dire quei vistosi lividi gialli ai quali l’autopsia non dedica nemmeno una riga, allora cambia completamente la dinamica del delitto. A meno che quel corpo su cui è stato condotto l’esame non sia il corpo di qualcun altro. E in effetti la seconda stranezza dell’inchiesta riguarda l’identificazione del cadavere trovato nel pozzo, in condizioni irriconoscibili. Da un lato i familiari di Sarah non hanno mai effettuato il riconoscimento del cadavere, dall’altro non hanno mai chiesto l’esame del Dna perché hanno sempre dato per scontato che si trattasse di Sarah e basta. Eppure questa superficialità è strana, o forse è frutto di ignoranza e cattivi consigli, perché i risultati dell’autopsia contrastano con quanto ha sempre dichiarato mamma Concetta sul veloce pranzo consumato da sua figlia, ovvero un «cordon bleu». Non proprio un pasto di facile digeribilità. Ma nell’esame medico si parla di contenuti gastrici che consistono solamente in «20 cc di liquido grigiastro». Sentito al processo di primo grado, nell’udienza del 3 luglio 2012, il professor Strada l’ha spiegata così: «L’acido cloridico può aver disgregato il cibo assunto da Sarah il giorno dell’omicidio. Il cordon bleu ha un peso di circa 120 grammi, ma può essere stato tranquillamente assorbito». In appena mezz’ora, il tempo che passa da quando la ragazza esce di casa e quando viene assassinata? O si deve anticipare l’ora del delitto di due ore, oppure quei liquidi gastrici sono di qualcun altro. Colpisce anche che il 26 novembre del 2010, uno degli avvocati difensori di Sabrina Misseri sottolinei in televisione, a Quarto Grado, come manchi la certezza assoluta sull’identificazione della vittima. E che pochi giorni dopo, la procura di Taranto decida improvvisamente di comparare il Dna di Concetta Serrano con quello della vittima, «al fine di stabilirne l’eventuale rapporto di filiazione poiché in sede di ricognizione la Serrano non è stata in grado di riconoscere la salma, come appartenuta in vita alla di lei figlia Scazzi Sarah». Quindi c’era un grosso problema nell’inchiesta: non si era certi di aver trovato il cadavere della vittima del reato. Ma agli atti dei tre processi non risultano depositati i risultati delle perizie del Ris dei carabinieri sul Dna e nella chiusura delle indagini non se ne trova traccia. Non solo, ma né la difesa né l’accusa hanno mai sollecitato il deposito della perizia che dovrebbe confermare che il corpo fatto trovare da Michele Misseri sia con certezza quello della nipote. A questa autopsia, che presenta tanti interrogativi, hanno lavorato anche altri operatori sanitari, ma nessuno di loro è mai stato ascoltato nei processi. Ricapitoliamo: nel «giallo di Avetrana», tra corde e cinture, ci sono incertezze sull’arma del delitto e sulle modalità della sua esecuzione. C’è il corpo in decomposizione di una ragazza che ha saltato il pranzo e, forse, non è neanche quello che si ipotizza. Fin da questo inizio, la storia ha troppe ombre.

Delitto di Avetrana: Sarah Scazzi e il mistero delle feste al mare. All'inizio delle indagini, i carabinieri scoprirono che la vittima, sei giorni prima di sparire, aveva preso parte a un party in una villetta sulla spiaggia di Torre Colimena. E che lì girava cocaina. Perché la pista non è stata approfondita? Scrive Francesco Bonazzi il 27 novembre 2018 su "Panorama". C’è un misterioso villino sul mare, vicino ad Avetrana, dove sono state organizzate feste: e almeno a una ha partecipato anche Sarah Scazzi. In una stanza di quel villino sono state rinvenute tracce di cocaina, e attrezzi per tagliare la droga. E sulle serate trascorse al villino c’è una frase ambigua al telefono che il fidanzato di Sarah, Ivano Russo, si fa scappare: «Qualcuno di noi ha parlato». Ma c’è anche la strana storia dei due assegni di zio Michele Misseri, il teste dalle mille versioni che alla fine, con le sue parole, ha spedito all’ergastolo la figlia Sabrina e la moglie Cosima: la mattina del 26 agosto 2010, e cioè il giorno in cui Sarah scompare, zu' Michele corre in banca e versa due assegni falsificando la firma della moglie. Se non è la versione salentina del film Piccoli omicidi tra amici, certo un po’ ci somiglia. 

Tanti dubbi e due piste trascurate. Sono sempre più ingombranti, oggi, i dubbi sul caso giudiziario per l’omicidio di Sarah Scazzi: la povera ragazza pugliese sul cui cadavere non c’è neppure la certezza di un vero riconoscimento, come Panorama ha raccontato la scorsa settimana. Nel febbraio 2017 la Cassazione ha chiuso per sempre un processo che in sette anni aveva riempito centinaia di pagine di giornale, e ore di palinsesti televisivi. Nei suoi 15 anni, Sarah era una biondina minuta e sempre pallida, in omaggio all’estetica dark che l’aveva conquistata: un’adolescente inquieta come tante sue coetanee, che in testa aveva la voglia di frequentare ragazzi molto più grandi di lei, e nel cuore la speranza di lasciare Avetrana il prima possibile. Quell’estate di otto anni fa, grazie alla presenza del fratello Claudio che era appena tornato in paese dalla Lombardia (era andato ad abitare a San Vittore Olona, in provincia di Milano), Sarah aveva potuto uscire con maggiore libertà, anche di sera, in compagnia di un gruppo di venticinquenni. Claudio un po’ vigilava su di lei, ma non s’era accorto che la sorellina aveva un legame con il suo amico Ivano Russo, il quale piaceva molto anche alla cugina di Sarah, Sabrina Misseri. Sabrina e la madre, alla fine di una telenovela anche giudiziaria, si sono viste infliggere il carcere a vita, mentre zio Michele è stato condannato a otto anni per soppressione di cadavere. Ma davvero il delitto di Avetrana va circoscritto alla famiglia di Sarah? Davvero il movente va individuato solo nei rapporti al suo interno, anaffettivi e in parte morbosi, a partire dalla relazione tra le due cugine? Le sentenze questo affermano, ma a rileggere le carte dell’inchiesta (soprattutto quelle iniziali) emergono almeno due piste trascurate, oppure seguite con giustificato interesse dai carabinieri di Taranto, ma poi scartate senza un vero perché dalla Procura. Quelle piste, in realtà, spingono a ipotizzare che la vicenda coinvolga un giro di persone più ampio di quello familiare.

La pista delle feste nel villino con il fratello. Il 7 settembre 2010, cioè 22 giorni prima del ritrovamento del corpo di Sarah nel pozzo di raccolta delle acque in Contrada Mosca, nelle campagne di Avetrana, i carabinieri del nucleo investigativo di Taranto consegnano ai pm un’informativa nella quale chiedono, e ottengono, l’intercettazione urgente del telefonino di Claudio Scazzi: «Desta sospetto» scrivono i carabinieri «che il giovane, tornato a San Vittore Olona il 21 agosto dopo un breve periodo di ferie ad Avetrana, non abbia avvertito la necessità di rientrare in Puglia per informarsi direttamente delle sorti della sorella (scomparsa il 26 agosto, ndr), a cui per altro era molto legato, anche per dare e/o ricevere conforto dai suoi cari». In una nuova informativa, datata 9 settembre, i militari dell’Arma aggiungono un secondo, ottimo motivo per intercettare il gruppo dei nuovi amici di Sarah: «Il ritrovamento di un taglierino, di un bilancino e di ritagli di una busta di cellophane intrisi di tracce di cocaina, cioè il classico materiale in uso allo spacciatore, che venivano scoperti all’interno della casa al mare della famiglia Scazzi, a Torre Colimena di Avetrana». In realtà, la villetta al mare di cui scrivono i carabinieri appartiene a uno zio adottivo di mamma Concetta: Cosimo Spagnolo, che in quel periodo è gravemente malato e viene seguito giorno e notte da una badante romena. Il risultato è che nella casa di Torre Colimena i ragazzi della compagnia hanno campo libero. E Sarah ci va sicuramente almeno il 20 agosto per una festa, come risulta da varie testimonianze; quella sera con lei c’è anche il fratello Claudio, che proprio una settimana prima le ha regalato un cellulare, come racconterà il papà Giacomo ai pm. Incredibilmente, invece, non è dato sapere che cosa succeda in quel villino, e se giri anche la droga. Interrogato dai carabinieri il 20 ottobre 2010, Claudio cita tra «i vari amici» presenti soltanto Giovanni Copertino, Angela Cimino e suo cugino, Ivano Russo. E Sarah? Nel primo interrogatorio, subìto il 10 settembre, Claudio sostiene che «dopo Ferragosto non si era più recata nel villino». Il 20 ottobre, invece, si contraddice e afferma che c’era anche lei. Ma il giovane dà più versioni sulla propria presenza a Torre Colimena, e su quella degli amici. Mentre dalle intercettazioni emerge che la sera del 20 agosto, alla vigilia della partenza di Claudio per il Nord, nel villino Angela Cimino e Giovanni Copertino non c’erano. Sulle feste a Torre Colimena, comunque, la compagnia di Claudio e di Ivano Russo si chiuderà a riccio, per motivi che gli inquirenti non approfondiranno mai. A metà del dicembre 2010, intervenendo alla trasmissione Pomeriggio 5, lo psichiatra Alessandro Meluzzi parla di «una festa in un villino», alla quale sarebbe stata presente la vittima e nel corso della quale «sarebbe girata droga». Claudio Scazzi chiama subito il suo avvocato, gli dice che bisogna querelare Meluzzi e che lui il 20 agosto non è stato al villino, smentendo i suoi stessi verbali. Alla trasmissione di Canale 5, in realtà, Meluzzi non fa nomi, eppure l’allarme scatta lo stesso. La sera del 16 dicembre 2010, poco dopo la trasmissione, anche Ivano Russo parla delle feste al villino: intercettato, Ivano dialoga con un amico, Alessio Pisello, e pronuncia una frase inquietante: «Qualcuno di noi ha parlato». Parlato di che cosa? Nella villetta al mare c’è forse un segreto da nascondere? Anche il 29 novembre, sempre intercettati, Ivano e i suoi amici discutono animatamente di quanto dovranno dire agli inquirenti, di che cosa vada corretto e di che cosa andrebbe nascosto. A un certo punto Ivano se la prende con Claudio, che lo pressa: «Senti Claudio» sbotta «non mi rompere i coglioni! Quello che ho detto, ho detto: e ora come lo dobbiamo nascondere?». Mentre gli inquirenti imboccano altre piste, le «cimici» nascoste nella Ford Fiesta di Ivano captano brandelli di una verità interessante, che pure verrà trascurata. È il 5 gennaio 2011 quando la mamma del ragazzo conteso da Sabrina e Sarah racconta a un’amica: «La droga, di chi è, non lo so… Forse hanno tolto di mezzo questa ragazza (cioè Sarah, ndr) che ha visto qualcosa… Al villino di don Cosimo hanno fatto festa, ma io non so come hanno fatto festa». In effetti nessuno saprà mai come i ragazzi abbiano «fatto festa» a Torre Colimena, perché otto anni fa nessuno ha ritenuto d’indagare approfonditamente. Eppure, in zona, non mancavano precedenti inquietanti. Nel 1996, per dirne una, la Procura di Gallipoli aveva scoperto un giro di messe nere e di orge in un paesino dell’entroterra, con tanto di ragazze minorenni, professionisti e perfino qualche magistrato. 

La pista dei due assegni versati da Michele Misseri. Va invece contro una delle regole base di ogni buona indagine, e cioè «seguire sempre i soldi», quello che è accaduto con le operazioni bancarie di Michele Misseri. Un documento della Banca di credito cooperativo di Avetrana, in possesso di Panorama, dice che a mezzogiorno del 26 agosto 2010 lo zio di Sarah va in banca e versa due assegni tratti sull’Unicredit di Roma per 2.500 euro e per 1.369,57 euro sul conto numero 84711 intestato alla primogenita Valentina e alla moglie Cosima, della quale falsifica la firma. Questi due assegni non sono mai stati acquisiti agli atti, nonostante le richieste della difesa delle due donne, e non si sa nemmeno chi li abbia emessi. Di sicuro non il Consorzio agricolo, come si era ipotizzato in un primo tempo, perché a una verifica dei carabinieri non risultavano rimborsi di tale entità. Oggi, forse, sarebbe interessante scoprire chi ha dato quei 3.869 euro al contadino Michele, proprio il giorno in cui spariva Sarah e alla vigilia di una sarabanda di bugie, depistaggi e ritrattazioni. (Articolo pubblicato nel n° 49 di Panorama in edicola dal 21 novembre 2018 con il titolo "Sarah e il mistero delle feste al mare")

Delitto Avetrana: quel superteste imbottito di farmaci. E se le dichiarazioni caotiche di Michele Misseri fossero causate da psicofarmaci? Scrive Francesco Bonazzi il 4 dicembre 2018 su "Panorama". In molte carceri lo chiamano «il carrello della felicità». È quello che passa la sera, ma per alcuni anche la mattina e all’ora di pranzo, con un vasto assortimento di psicofarmaci. Medicine che servono a far dormire, ma anche a evitare crisi di panico, convulsioni, sbalzi di umore pericolosi. Il problema è che la «pace chimica» di massa, indubbiamente comoda per uno Stato che fatica a gestire le sue prigioni in modo civile, crea dipendenze ed effetti nefasti anche a distanza di anni. Oltre al fatto che il recluso imbottito di pilloline di ogni tipo e colore, se è in custodia cautelare, poi può avere seri problemi a presentarsi agli interrogatori in condizioni decenti. E Michele Misseri, il «mostro di Avetrana», che nell’ottobre 2010 prima confessa di aver ucciso la nipote quindicenne Sarah Scazzi e poi invece ritratta e accusa la figlia Sabrina, diventando nei superficiali talk show del pomeriggio una specie di «scemo del villaggio», quello che non si ricorda nulla e cambia continuamente versione, ecco: Michele Misseri è un detenuto che ha pescato a piene mani dal carrello della felicità. Tanto da lamentarsene ai colloqui in carcere con l’altra figlia, Valentina, e con la moglie Cosima. Tanto da implorare di non essere imbottito di psicofarmaci almeno alla vigilia degli interrogatori con il pubblico ministero. Tanto che, nonostante Misseri sia in isolamento, un compagno di detenzione si preoccupa del suo rimbambimento e lo descrive accuratamente su un quaderno. Gli agenti della polizia penitenziaria trovano quel quaderno e interrogano anche il suo autore. Ma non serve a niente, tutti gli altri si voltano dall’altra parte e non si curano del fatto che il superteste sia un fantasma rintontito, che non mangia, barcolla e straparla. Tutta questa storia, a volerne raccogliere i pezzi da terra, è agli atti dei tre processi che alla fine, nel febbraio 2017, hanno condannato all’ergastolo Sabrina e Cosima Misseri per l’omicidio di Sarah, scomparsa da casa quel maledetto 26 agosto 2010. Alla fine del procedimento anche Zio Michele verrà condannato, per occultamento e soppressione di cadavere, ma all’inizio è lui che si addossa tutte le colpe. Solo che la Procura di Taranto non gli crede. Intanto, però, lo tiene in isolamento, come si fa con chi si accusa di reati infamanti, anche se il carcere (a sorpresa) emette subito la sua sentenza di assoluzione e i detenuti fanno addirittura una colletta per comprargli gli occhiali. Per l’eterogenesi dei fini, le stesse microspie che - poste nella cella di Michele - dovrebbero agevolare l’accusa contro di lui, in realtà finiscono soprattutto per registrare gli effetti delle pillole su questo contadino di 56 anni. Il 25 ottobre 2010, per esempio, Michele incontra sua figlia Valentina. Sono passati dieci giorni dal fermo di Sabrina. Il colloquio è trascritto dai carabinieri e Valentina, all’inizio un po’ aggressiva, sostanzialmente interroga suo padre. Ma pian piano, di fronte a un uomo che non ricorda nulla o sragiona, cerca di aiutarlo. Ed esce ben presto il motivo di tutta quella confusione mentale. «Però, il fatto che tu non ti stai ricordando niente...», si spazientisce lei a un certo punto. E Michele si scusa: «Non mi ricordo per il fatto dei farmaci… è normale». A Valentina, però, la cosa non sembra affatto «normale» e insiste: «Ma perché ti danno questi farmaci?». E Michele dà la classica risposta del prigioniero, prima psichico e poi fisico: «Me li devono dare per forza. Hanno detto che li devo prendere». La figlia a questo punto taglia corto e dice che riferirà tutto all’avvocato, ma il padre aggiunge altri particolari: «Già per quattro volte non ho preso le medicine e mi hanno rimproverato». Poi chiede alla figlia di far arrivare un messaggio ai pm: «Che mi eliminano queste cose qua, che se no metto l’avvocato di fiducia». Anche dopo aver provato per mezz’ora a ricostruire la scena dell’omicidio di Sarah, che singolarmente padre e figlia chiamano sempre «la ragazza», Michele torna sul tema che lo angoscia di più: «Io non sto solo male di testa, sto male pure che quell’innocente sta pure là...», dice riferendosi alla figlia Sabrina, arrestata dieci giorni prima proprio per la chiamata in correo di Michele. E a quel punto Valentina gli intima: «Questo lo devi dire, che se tu devi essere lucido... Magari te li prendi mo’, ma quando sanno che ti devono fare un interrogatorio per quattro o cinque giorni non ti prendi nulla». Tanto per chiarire che questa non è la lamentela di un giorno più storto degli altri, anche nel colloquio intercettato il 22 ottobre 2010 Misseri dice alla figlia, che lo rimprovera di aver accusato Sabrina: «Io imbottito stavo! Erano dei farmaci per fare effetto la notte, ma la notte non hanno fatto proprio niente... hanno fatto effetto la mattina e pensa che un altro po’ prima di andare all’interrogatorio buttavano la porta a terra... Io non ci stavo capendo niente. Io non sapevo proprio cos’era». Il peggio, però, deve ancora avvenire. Il 22 novembre 2010, Misseri racconta alla moglie e a Valentina che il suo stesso avvocato e alcuni consulenti di parte lo avrebbero indotto a sostenere una versione addomesticata nell’interrogatorio del 5 novembre e nell’incidente probatorio. Sempre intercettato, Michele affronta le domande della figlia, che a un certo punto gli chiede: «Come t’è uscito di dire il nome della Sabrina? Te lo hanno inculcato gli altri?». E qui il padre dimostra tutta la sua drammatica confusione mentale: «No, i criminologi lo hanno detto. Hanno detto: “O ci dici così, la Sabrina tra poco esce. Se non dici, non esce”». La moglie e la figlia, esterrefatte, lo incalzano per sapere chi gli abbia consigliato l’ultima versione e Misseri risponde: «La criminologa, l’avvocato e un altro». La criminologa è Roberta Bruzzone, l’avvocato è Daniele Galoppa (poi sostituito) e la terza persona è un inquirente di cui Misseri non ricorda il nome. Al termine di questo incontro, Valentina, allibita, cerca un’ultima volta di far ragionare il papà: «Ma come esce (quella frase, ndr)? Se tu hai detto che ha ucciso, come cazzo esce?». E lui, come un disco rotto: «Esce. Esce». E quando esce, insistono le due donne? «Mi hanno detto che Sabrina, due anni ed esce». Conclusione amara di Valentina: «Papà, ti hanno proprio plagiato bene!». Dopo questa discussione con Michele, Valentina Misseri e la madre Cosima vanno in caserma dal capitano dei carabinieri Nicola Abbasciano, per denunciare quanto hanno appreso durante il colloquio. Al momento questa denuncia è rimasta cristallizzata nel fascicolo a carico di Sabrina Misseri, senza alcuna iscrizione nel registro degli indagati per i denunciati, né per calunnia a carico della denunciante Valentina. Va detto che invece Michele è stato appena condannato anche per calunnia, perché aveva ripetuto quelle affermazioni in un’udienza. Il 26 gennaio 2011, il mistero s’infittisce. Gli agenti trovano un diario nella cella di un detenuto, Clemente Di Crescenzo, dove si parla di Misseri. Di Crescenzo rende subito dichiarazioni spontanee agli agenti, e spiega che lui scrive sempre le cose più importanti della giornata: «Spero di non aver fatto nulla di male» dice. «Mi aiuta a scaricare la tensione e non ho fini diversi». Facendo le pulizie nell’infermeria, il recluso dichiara di avere parlato più volte con Michele, che gli ha immediatamente fatto compassione. Gli ha spesso compilato le «domandine», cioè le istanze rivolte alla direzione del carcere, «perché lui non è capace». Aggiunge Di Crescenzo: «Mi faceva molta pena perché ha sempre gli occhi lucidi, come se volesse piangere». Con Clemente, zio Michele si è confidato, ha raccontato della sua vita di contadino, di quando faceva l’operaio in Germania, «e che non aveva stima di suo nipote Claudio, perché quando successe la disgrazia di sua sorella Sarah non scese da Milano a cercarla». Ed ecco che cosa poi scrive Clemente, tutto in stampatello, sul suo diario: «Si dispiaceva che Sabrina stava in carcere da innocente, perché lui aveva fatto quelle dichiarazioni solo perché confuso dagli psicofarmaci». Nel diario, subito sequestrato e consegnato ai magistrati con il verbale di Di Crescenzo, si legge anche: «Michele paragona la sua vicenda a quella di Barabba e Gesù, perché dice che alla fine Barabba fu assolto e Gesù crocefisso. Non è una persona di cultura, ma in questo luogo dove mi trovo non ho ancora conosciuto una persona più mite di Michele». Non ce n’è abbastanza per nutrire qualche dubbio sulle confessioni di un uomo? 

Delitto di Avetrana: le 4 piste abbandonate troppo presto. La quarta puntata della controinchiesta di Panorama sull'omicidio di Sarah Scazzi fa emergere nuovi dubbi sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, scrive Francesco Bonazzi l'11 dicembre 2018 su "Panorama". Magari ci fosse sempre una sola verità. Ma se in ogni inchiesta per omicidio tutti i testimoni che forniscono informazioni che non collimano con la tesi dei pm venissero accusati di depistaggio, saremmo 60 milioni di indagati. Ad Avetrana, per l’assassinio di Sarah Scazzi, i difensori di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano, condannate all’ergastolo con sentenza definitiva il 21 febbraio 2017, hanno dovuto fare lo slalom fra i possibili testimoni a favore che via via sono stati delegittimati. Tuttavia, sia le indagini difensive sia quelle dei carabinieri di Avetrana e Taranto avevano offerto molti spunti per piste alternative. Piste che avrebbero potuto condurre lontano dalla famiglia Misseri, come Panorama numero 50 ha raccontato nella seconda puntata di questa controinchiesta («Sarah e il mistero delle feste al mare»), oppure convergere su una colpevolezza piena di zio Michele, che prima si era accusato dell’assassinio della nipote quindicenne e poi invece ha mandato all’ergastolo moglie e figlia, nella convinzione, come risulta da un’intercettazione, che tanto se la sarebbero cavata «con due anni di prigione». Con due ergastoli inferti alle due donne, una delle quali, Sabrina, è entrata in carcere a soli 22 anni, è difficile sorvolare su queste strade non imboccate o lasciate troppo presto. A cominciare dall’improvvisa attività telefonica di Michele poche ore prima della scomparsa di Sarah, con una serie di chiamate con il fratello Carmine e il nipote Cosimo, pregiudicato. E poi, seconda pista non battuta dai pm, ecco una vicina di casa, Anna Lucia Morleo, che parla degli uomini che frequentavano ogni giorno il garage di casa Misseri, ma finisce a sua volta indagata. Oppure, terza anomalia, macroscopica, quella del fioraio Giovanni Buccolieri, che prima accusa Sabrina e la madre Cosima di avere rapito e ucciso Sarah, ma subito dopo si pente e spiega che le ha solo sognate. E infine, l’ora del delitto, che i pm fissano alle 13,30 (orario che «salva» Michele), nonostante una serie di testimoni sostenga di aver visto la quindicenne tra le 14 e le 16.

Un vortice di telefonate. La prima pista malamente abbandonata è la più banale: quella del telefono di Michele. In quell’agosto del 2010, Misseri è un contadino di 56 anni, che si spacca la schiena nei campi. È un uomo semplice, descritto da tutti i compaesani come una persona mite. Le giornate di Michele ad Avetrana, nella bella stagione, sono sempre uguali: sveglia alle 3 e mezza; lavoro nei campi; rientro nella villetta di via Deledda; pranzo, intorno alle 2, quasi sempre da solo; riposino, anche di un paio d’ore; qualche lavoro in garage; poi, di nuovo nei campi fino a cena. L’esame del tabulato del suo cellulare nelle giornate del 24 e del 25 agosto di otto anni fa, ovvero alla vigilia della scomparsa di Sarah, ci consegna un dato coerente con il personaggio: zero telefonate e zero sms, a parte una comunicazione ricevuta da Vodafone. Invece, il 26 agosto 2010, sul suo cellulare inizia un vorticoso traffico di chiamate, e questo ben prima che Sabrina, che con un’amica aspetta la cuginetta per andare al mare alle 14,30, lanci l’allarme. Tra le 5,10 e le 11,40 si registrano sei chiamate, in entrata e uscita. Poi dalle 14,55 quando Michele chiama Sabrina, seguono altre 24 telefonate. E anche nei due giorni seguenti, lo zio sembra un adolescente al quale hanno appena regalato il telefonino. Quelle sei comunicazioni prima di mezzogiorno sono interessanti. Avvengono con il fratello di Michele, Carmine Misseri, e il nipote Cosimo «Mimino» Cosma, che aveva precedenti penali.

Quella vicina di casa mai ascoltata. Anche la seconda pista scartata ha a che fare con Mimino. Nell’ambito delle indagini difensive per Sabrina e la madre Cosima, spunta ancora lui, insieme con altre persone che frequentavano il garage di zu’ Michele. Secondo il racconto della vicina di casa, Anna Lucia Morleo, avevano l’abitudine di andarsene o fare immediatamente silenzio quando arrivava un estraneo. Costoro scompaiono dalla scena della villetta di Avetrana due giorni prima del ritrovamento del cellulare di Sarah, avvenuto il 29 settembre nei campi lungo la strada che collega Avetrana con Nardò. La signora Morleo non è stata mai ascoltata dagli inquirenti, mentre altri vicini di casa sono stati sentiti più volte. La sua attendibilità è stata delegittimata dall'inchiesta per falsa testimonianza, iniziata dalla Procura di Taranto nei confronti suoi e di altri testimoni che hanno reso dichiarazioni favorevoli a Sabrina Misseri durante il giudizio di primo grado. E per falsa testimonianza sono stati processati anche Cosima Prudenzano e Giuseppe Nigro, rispettivamente la suocera e il cognato del fioraio di Avetrana, Giovanni Buccolieri, sul cui racconto si fonda la condanna di primo grado. In secondo grado, invece, suocera e cognato vengono assolti dall’accusa di depistaggio. Che cosa avevano fatto?

Il sogno (o la realtà) del fioraio. Tecnicamente la storia del fioraio, forse, non è una «pista», ma è comunque un significativo campanello d’allarme per i pm. Buccolieri viene chiamato perché i pm vengono informati che ha visto Cosima e Sabrina caricare in macchina, a forza, Sarah, per portarla chissà dove. La signora Prudenzano riferisce il racconto di Buccolieri a sua mamma, Anna Pisanò, e costei lo racconta a un carabiniere. Il fioraio viene convocato dai pm e gli viene chiesto che cosa sappia. Buccolieri racconta tutto come un fatto reale; dopo due giorni, però, contesta l’accuratezza del verbale, parla di «suggestioni», afferma che è stato solo un sogno. Per questo viene imputato per false dichiarazioni. Ma tiene duro, non ritratta e, come racconta la giornalista Maria Corbi sulla Stampa del 27 luglio 2015, anche nel processo d’appello conferma: «Io non voglio andare all’inferno per aver fatto condannare due innocenti». Lo hanno almeno processato, Buccolieri? Sì, l'hanno anche condannato in primo grado per falsa testimonianza a due anni e otto e mesi. Ma solo il 22 novembre 2017. È molto probabile che il dibattimento non arrivi al secondo grado per via della prescrizione. La morale giudiziaria è: buono il sogno, ma non il sognatore.

Un orario da rivedere. La quarta pista scartata tocca uno degli elementi chiave di ogni inchiesta: l’ora del delitto. Mimino Cosma, il nipote di Michele, è stato di nuovo coinvolto dal compaesano Vito Antonio Palmisano, che nelle sue quattro deposizioni ripete di aver visto un’auto amaranto, guidata da un uomo che poi identifica in Mimino, tra le 14,30 e le 15, nei pressi della casa dei Misseri. Le dichiarazioni di Palmisano trovano conferma in quelle rese da sua moglie Anna Rita Panzuto, che estende però l’arco di tempo tra le 14 e le 16. Se hanno ragione questi due testimoni, allora crolla la tesi della Procura di Taranto, secondo la quale Sarah sarebbe sparita alle 13,30. L’anticipo degli orari, che scagionerà Michele Misseri e manderà all’ergastolo Cosima e Sabrina, si deve fondamentalmente al supertestimone dei pm, Antonio Petarra. Il quale, però, all’inizio mette a verbale una versione completamente diversa e con orari spostati sul primo pomeriggio. L’avvistamento di Mimino sarebbe stata una pista importante, ma i pm si orientano su Sabrina e Cosima, mentre fratello e nipote di Michele verranno sì indagati e condannati, ma solo per averlo aiutato a disfarsi del cadavere. Mimino morirà poi di tumore a 46 anni, nell’aprile del 2014, dopo la condanna di primo grado a sei anni di reclusione. Anche Sabrina è accusata di depistaggio. Quando viene trovato sul suo cellulare un sms anonimo («Mamma sto bene, non ti preoccupare»), che il giudice delle indagini preliminari ipotizza auto-inviato da Sabrina. Poi, però, saranno i carabinieri a scoprire che il messaggio era stato spedito «in un momento di follia» dalla scheda intestata a una certa Maristella Rizzato, compagna del pluripregiudicato Luis Antonio Caponio, all’epoca detenuto nel carcere di Lecce e affiliato alla Sacra corona unita, la mafia pugliese. Per un caso della vita, anche il proprietario dell’uliveto dove viene ritrovato il corpo di Sarah si chiama Rizzato, ed è uno dei pochi a conoscere l’esistenza di quella cisterna.

Ricapitolando i passi di questa controinchiesta:

1) non c’è la certezza che il cadavere nel pozzo sia quello di Sarah Scazzi;

2) l’uomo che prima accusa se stesso e poi scarica tutto su moglie e figlia, Michele Misseri, è imbottito di psicofarmaci;

3) c’è un villino dove gli amici del fratello di Sarah, Claudio, fanno delle feste (e c’è anche la droga) e che deve restare un segreto assoluto;

4) ci sono parenti e amici di Michele su cui non si è quasi indagato, e anche qualche pregiudicato di troppo sulla scena del delitto, o ai suoi margini;

5) ci sono testimoni che offrono squarci di verità diverse da quella sposata dalla Procura, e che finiscono nei guai. C’è infine un avvocato di grande fama ed esperienza come Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri in Cassazione, che dieci mesi dopo la condanna definitiva, il 4 dicembre 2017, dirà al Corriere della Sera: «Ho pensato addirittura di abbandonare la professione. (…) Non mi stancherò mai di ripetere che la sua è una pena ingiusta, mostruosa. Sapere di non essere riuscito a dimostrare la sua innocenza non mi fa dormire la notte». Se il presupposto di ogni condanna, secondo il Codice penale, è che la colpevolezza risulti «al di là di ogni ragionevole dubbio», ecco: ad Avetrana di dubbi ce ne sono un po’ troppi.

Delitto di Avetrana: "C'è un'altra verità". La prima legale di Sabrina Misseri è sicura che gli assassini di Sarah Scazzi siano ancora in libertà, scrive Francesco Bonazzi il 18 dicembre 2018 su "Panorama". E’ sempre un sollievo quando «i colpevoli sono stati assicurati alla giustizia». Perché i fatti di sangue, specie se gravi o gravissimi, come l’omicidio della quindicenne Sarah Scazzi, aprono anche una ferita nella comunità nella quale avvengono. Ma nonostante tre gradi di giudizio, due ergastoli definitivi (a Sabrina e Cosima Misseri) e una condanna a otto anni per occultamento di cadavere (a Michele Misseri), sul giallo di Avetrana non tutti sono convinti che vada messa la parola «fine». E una lunga serie di incongruenze e piste alternative, lasciate cadere forse un po’ troppo in fretta, ma raccontate da Panorama nelle precedenti quattro puntate di questa controinchiesta, insieme alla sistematica messa in fuori gioco di avvocati e testimoni con verità difformi rispetto a quelle della Procura di Taranto, a nove anni dalla scomparsa di Sarah impediscono di sentirsi rassicurati. Come racconta Emilia Velletri, il primo legale di Sabrina Misseri, condannata con la madre per la morte della cugina. «Non solo non ci dormo la notte perché sono sicura che ci sono due innocenti in carcere, ma sono convinta che gli assassini di Sarah siano in giro, siano tra noi», spiega tutto d’un fiato l’avvocata tarantina, 40 anni, tre figli e una vita che da allora non è stata più la stessa. Difendeva Sabrina con il marito Vito Russo junior, che ha poi subito una condanna a un anno e mezzo per favoreggiamento, ma che è stato anche assolto dalla Cassazione insieme all’ex moglie dall’accusa di aver «distrutto» il verbale di un’indagine difensiva. Intanto, però, quel matrimonio è finito in pezzi, mentre la Velletri veniva assolta con formula piena e usciva definitivamente dal tritacarne personale e professionale nel settembre del 2015, quando il Procuratore generale di Taranto rinunciava a fare appello per l’evidente inconsistenza dell’ipotesi accusatoria di depistaggio e la Corte d’appello l’ha assolta definitivamente, insieme ad altri due colleghi.

Velletri ha per questo dovuto affrontare anche un procedimento disciplinare dell’ordine degli avvocati di Taranto, dal quale è uscita candida come un giglio, ma intanto ha dovuto aprire uno studio anche a Roma e rifarsi una vita. Con la sensazione, probabilmente, di aver attraversato la strada sbagliata nel momento sbagliato. Com’è successo anche a qualche investigatore, che probabilmente è stato creduto meno del tele-criminologo di turno. Perché Avetrana è stato anche questo, un impazzimento mediatico talmente fuori controllo, a partire da quell’agosto del 2010, da esemplificare alla perfezione il rischio che un’indagine possa deragliare in diretta televisiva, quando passa dal tribunale al bar dello sport. «Tra le tante assurdità che mi hanno contestato in sede disciplinare, c’è quella che sarei andata troppo in televisione e avrei fatto una difesa di Sabrina mediatica» ricorda Velletri. «Ma io ci sono andata sei volte in quattro mesi, a fronte di una ventina di richieste di intervista al giorno». Eppure a Taranto, dove ha sempre fatto la penalista fin dalla laurea, lei ha la fama di quella che si studia tutte le carte una per una e approfondisce la parte di dottrina. E poi la Velletri, finché non è stata «sterilizzata» con accuse poi rivelatesi false, andava di continuo in carcere a parlare con la sua assistita, che all’epoca aveva solo 22 anni. E forse sono state queste «troppe» ore con la futura ergastolana, accusata dal padre dopo mille giravolte, che hanno creato una qualche incomprensione, per non dire irritazione, con i pm Mariano Buccoliero e il procuratore capo Pietro Argentino, poi trasferitosi in una procura più defilata come quella di Matera. Nella fattispecie, la buccia di banana sulla quale doveva scivolare Emilia Velletri era un interrogatorio difensivo di Ivano Russo, l’amico-fidanzato di Sabrina, che sarebbe stato interrotto e cestinato al momento in cui avrebbe virato verso una «verità» sfavorevole alla ragazza. Nella sentenza di assoluzione della legale tarantina, il tribunale (con decisione poi confermata dalla Corte d’appello di Lecce) nel settembre del 2015 dichiara che «il fatto non sussiste» sia per lei sia per gli altri due penalisti. In una situazione del genere, la Velletri ha poi consigliato alla famiglia Misseri di rivolgersi a un fuoriclasse come il professor Franco Coppi. «Non lo conoscevo personalmente, ma quando ha letto i motivi del riesame di Sabrina si è molto complimentato e questa per me è stata, oltre che una grande emozione, una delle poche cose positive di tutto questo processo» ricorda Emilia Velletri. L’ergastolo in Cassazione, però, è arrivato lo stesso nel 2017. Lo storico difensore di Giulio Andreotti, con una spiccata sensibilità per le inchieste «anomale», ovvero che danno da pensare sul corretto funzionamento della giustizia, ha poi dichiarato al Corriere della Sera di «non dormire la notte per la convinzione che ci siano due innocenti in carcere» e di aver addirittura pensato per qualche tempo di abbandonare la toga (4 dicembre 2017). «Io non sono Coppi, ma nel mio piccolo la penso alla stessa maniera. A Taranto abbiamo visto un film assurdo» aggiunge la Velletri. Più che un film, direttamente un horror della Giustizia con la «g» non troppo maiuscola. E allora, di tutte le anomalie raccontate in queste settimane, Velletri sottolinea con convinzione quella che riguarda le feste nel villino di Torre Colimena, a pochi chilometri da Avetrana: «Ancora adesso, sono molto colpita dalla mancanza di indagini su quelle feste dove almeno una volta è andata anche Sarah, poco prima di sparire; i carabinieri hanno trovato anche la droga e ancora oggi non sappiamo chi vi partecipava. Ma sappiamo con certezza che Sabrina non era tra le invitate». Altro tema che «impressiona molto» l’avvocato Velletri è quello di tutte le piste che avrebbero portato lontano dalla famiglia Misseri, forse verso destinazioni più «eccellenti». Le ultime parole sono per Sabrina, Cosima e la sicurezza di chi sta fuori: «Abbiamo due innocenti in carcere e i colpevoli in giro». Al plurale, perché in effetti, in questa storia dove «l’oltre ragionevole dubbio» richiesto dal Codice penale per ogni sentenza di colpevolezza non sembra tanto raggiunto, molti elementi fanno pensare che Sarah sia finita in un girone di mostri. Con una giustizia che né assicura, né rassicura.

Omicidio Sarah Scazzi, accolta richiesta liberazione anticipata per Sabrina Misseri, scrive Franco Falco il 16 dicembre 2018 su Dea Notizie. Il tribunale di sorveglianza di Taranto ha concesso a Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo in via definitiva per l’omicidio della cugina Sarah Scazzi, 495 giorni di liberazione anticipata, pari a un anno e quattro mesi, per il periodo di detenzione dal 15 ottobre 2010 al 15 ottobre 2016. A riferirlo sono Messaggero e Tgcom24. Su istanza del difensore che aveva impugnato il primo no del magistrato di sorveglianza, la decisione è stata presa per “attiva partecipazione all’opera di rieducazione”. Anche la madre di Sabrina, Cosima Serrano, condannata anche lei all’ergastolo, beneficia di tale misura. Sabrina Misseri, come è stato dimostrato, durante la detenzione si è mostrata “collaborativa e disponibile al dialogo”, conseguendo il diploma di scuola superiore e partecipando a progetti di rieducazione. I giorni di liberazione anticipata così concessi, anche se la condannata non ha mai ammesso proprie responsabilità per l’omicidio della cugina, potranno essere sommati ad altri giorni per il 2017, il 2018 e gli anni successivi, sempre che il difensore presenti istanza.

Omicidio Sarah Scazzi: Sabrina Misseri rilasciata in anticipo. “Da Pasqua uscirà in permesso premio”. Delitto Avetrana, Sabrina Misseri (cugina di Sarah Scazzi) liberata “in anticipo”: ultime notizie, “attiva opera di rieducazione”. Non è uno sconto di pena: ecco perchè, scrive il 13.12.2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Ha fatto il giro del web creando non poche polemiche la notizia secondo cui Sabrina Misseri, in carcere per l’omicidio di Sarah Scazzi, verrà liberata in anticipo rispetto a quanto stabilita. La ragazza ha infatti ricevuto un anno e mezzo di permessi premio, che le sono stati “regalati” per la buona condotta in carcere. Nulla di eclatante comunque, visto che è normale che un detenuto che si comporta bene in cella, riceve appunto dei permessi premi. Nel dettaglio si tratta di 45 giorni di sconto ogni 6 mesi di detenzione, maturati dalla Misseri grazie al fatto di partecipare a numerose le attività all’interno della struttura detentiva, e a seguito dell’ottenimento del diploma con ottimi voti. Tutte questioni di cui il magistrato tiene conto al momento appunto dell’assegnazione degli sconti. Come ha spiegato l’inviata di Pomeriggio 5, Monica Arcadio, lo “sconto” potrà partire fra poco: «A partire da Pasqua –ha detto – fra circa tre/quatto mesi, Sabrina Misseri potrebbe usufruire di permessi premio ammontati a circa un anno e mezzo». (aggiornamento di Davide Giancristofaro)

SABRINA MISSERI: SCONTO SULLA PENA. Dopo la notizia relativa alla richiesta di liberazione anticipata per Sabrina Misseri, cugina di Sarah Scazzi, condannata con la madre all’ergastolo per l’omicidio della 15enne di Avetrana, a Fanpage.it è intervenuto oggi Walter Biscotti, legale di Concetta Serrano, madre della piccola vittima. L’avvocato, parlando di Sabrina ha spiegato: “Resta condannata all’ergastolo e in carcere resterà per i prossimi anni”. A suo dire non ci sarebbe nulla di strano rispetto alla notizia trapelata nelle passate ore: “come ogni detenuto Sabrina ha maturato annualmente dei giorni che, sommandosi, hanno portato al piccolo bonus di cui si è sentito parlare, ma non cambia la sua posizione. Purtroppo, tuttavia, ogni volta che spunta una notizia sul caso di Sarah a mamma Concetta si spezza il cuore di nuovo”, ha commentato ancora l’avvocato. Nonostante quanto detto, dunque, non ci sarà nessuna liberazione anticipata e al momento nessuna novità nel caso, anche per quanto riguarda il ricorso presentato dai legali di Sabrina Misseri e Cosima Serrano alla Corte di Strasburgo. “Nulla è cambiato, c’è una sentenza definitiva della Cassazione che condanna le due donne per l’omicidio della piccola Sarah, per quanto riguarda la giustizia la parola fine è stata scritta”, ha chiosato l’avvocato Biscotti. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

SABRINA MISSERI LIBERATA IN ANTICIPO? Il delitto di Avetrana ancora una volta fa parlare di sé con la memoria di Sarah Scazzi che non riesce fino in fondo ad essere “lasciata in pace”: il Tribunale di Sorveglianza di Taranto ha concesso a Sabrina Misseri (cugina di Sarah e condannata all’ergastolo in via definitiva assieme alla madre Cosima Serrano) la libertà anticipata per 495 giorni (un anno e quattro mesi) ottenuta per il periodo di detenzione dal 15 ottobre 2010 al 25 ottobre 2016. A spiegarlo sono le fonti del Messaggero che riporta anche l’iter di questa complicata e non d’immediata comprensione decisione giuridica: su istanza presentata del difensore di Sabrina Misseri che aveva impugnato il primo no del magistrato di sorveglianza, la scelta è stata presa per «attiva partecipazione all’opera di rieducazione». Secondo il Messaggero anche la mamma di Sabrina, Cosima Serrano, dovrebbe beneficerà di tale misura: secondo quanto riportato in aula del Tribunale tarantino, Sabrina Misseri si è dimostrata durante la detenzione «collaborativa e disponibile al dialogo» nei vari progetti di rieducazione, come ad esempio conseguendo il diploma di scuola superiore.

L’AVVOCATO DI CONCETTA SERRANO: “NON È UNO SCONTO DI PENA”. È evidente che la decisione dei giudici solleva non poche polemiche in uno dei casi più seguiti dalla cronaca italiana negli ultimi 20 anni: stando ancora al Messaggero, i giorni di liberazione anticipata a Sabrina Misseri – anche se la condannata non ha mai ammesso nessuna responsabilità per l’omicidio di Sarah Scazzi – potrebbero essere sommati ad altri “raggiunti” tra il 2017 e il 2018 e per i prossimi anni successivi (qualora però l’avvocato presenti istanza, ndr). Per provare a fare più chiarezza, Fanpage ha contattato l’avvocato di Concetta Serrano (mamma di Sarah e zia di Sabrina): «Che dire, non c’è nulla di strano: come ogni detenuto Sabrina ha maturato annualmente dei giorni che, sommandosi, hanno portato al piccolo bonus di cui si è sentito parlare, ma non cambia la sua posizione. Purtroppo, tuttavia, ogni volta che spunta una notizia sul caso di Sarah a mamma Concetta si spezza il cuore di nuovo», spiega il legale Walter Biscotti che conferma, «Sabrina resta condannata all’ergastolo e in carcere resterà per i prossimi anni». 

CASO SCAZZI, IL LIBRO RIVELAZIONE: "PROCESSO TUTTO DA RIFARE, VI SVELO IL RETROSCENA CHE CONDANNA SOLO MICHELE". Scrive il 4 dicembre 2018 la Redazione di Il24.it. Caso Scazzi, il libro rivelazione: "Processo tutto da rifare, vi svelo il retroscena che condanna solo Michele". Tre libri sul caso Sarah Scazzi. Interi reportage che raccontano un omicidio “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keaton dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande. Risultato? “Un processo da rifare e due persone, Sabrina e Cosima, non legalmente in carcere indipendentemente dal fatto che siano colpevoli o no”. Un analisi approfondita, quella dello scrittore, dalle confessioni ai processi, dall’analisi dei personaggi alle intercettazioni ambientali e telefoniche. Giangrande è anche presidente dell’associazione Contro tutte le mafie ed è da anni che si occupa del caso Scazzi e di altri processi che ritiene “non correttamente svolti”.

Ha scritto tre libri sul caso Scazzi. Su cosa si è basato?

«Nei miei libri su Sarah racconto i fatti attraverso tutti i documenti del processo e riporto, citandone gli autori, questioni interessanti affrontate in modo imparziale.

Imparziale? In che senso?

«Faccio una considerazione per renderne l’idea. Il processo, per opportunità, non doveva tenersi a Taranto, ma solo l’avvocato Coppi ha avuto il coraggio di chiedere la rimessione del processo in altra sede per legittimo sospetto che i giudici non fossero sereni nel giudicare. La Cassazione ha respinto. Non tutti sanno, però, che la norma in oggetto è sempre disapplicata dagli ermellini. Sia mai che si leda l’infallibilità delle toghe. Comunque tutti gli avvocati di Sabrina, e ne ha cambiati tanti, son concordi nel credere alla sua innocenza, compresa Francesca Conte».

Quindi giudici non sereni, e gli avvocati?

«Per quanto riguarda gli avvocati mi chiedo come abbiano fatto tutti i principi del foro ad arrivare ad Avetrana ed a proporsi in modo gratuito. L’avvocato Russo è stato convocato a rendere conto del suo operato, gli altri, no. Per quanto riguarda i consulenti tecnici invece, c’è da dire che chi è partito a sostenere una parte è finito ad avvantaggiarne un’altra. La criminologa Roberta Bruzzone, con il primo avvocato di Michele Misseri, Daniele Galoppa, è accusata dallo zio Michele di averlo indotto a dire il falso ed ad accusare la figlia. Alessando Meluzzi consulente della famiglia Scazzi, sicuro della colpevolezza di Sabrina, cambia repentinamente idea e da tempo è convinto della sua innocenza».

Insomma dubbi sulla serenità di giudizio. Li ha potuti verificare in altre occasioni?

«La Corte di Appello aveva accolto la richiesta dell’accusa di sospendere i termini di custodia cautelare. Strano. La dottoressa Montanaro, non appena aveva avuto la parola dal giudice, si è premurata di chiedere di far restare le due donne in carcere. A suo dire la richiesta è d’obbligo perché il processo sarà particolarmente complesso. In un secondo grado di giudizio di natura cartolare e con ampie richieste delle difese respinte, come si fa a dire che il processo sarà particolarmente complesso, anziché chiedere al giudice di verificare, più avanti, se davvero il processo sarà talmente complesso da superare i termini di custodia cautelare? Motivo per cui la sua richiesta sarebbe dovuta essere respinta anche se le difese hanno obiettato solo con un gesto simbolico, con una reprimenda per l’intempestiva richiesta della PG».

Ma questo non porta a dire che le due donne, condannate in primo grado e in secondo grado all’ergastolo, siano in carcere ingiustamente. Ci sono elementi invece che potrebbero sostenere questa tesi?

«Ovviamente. In un processo indiziario, appunto gli indizi, per formare una prova devono essere gravi, precisi e concordanti. E questo non risulta. Orari tirati da tutte le parti; testimonianze dubbie e/o oniriche, perizie contestate ed incomplete. Ma non stiamo qui ad arzigogolare su veri o presunti indizi fonte di condanna, o veritieri o meno convincimenti personali di magistrati, avvocati e consulenti tecnici e sorvoliamo su efficaci o meno interpretazioni delle intercettazioni ambientali e telefoniche. Soffermiamoci su un fatto in particolare e fondamentale».

Quindi c’è un fattore più importante di tutti questi?

«Certo. In ogni Ordinamento Giuridico mondiale la confessione di un evento di cui se ne dichiari la paternità è considerata la prova regina. Ad Avetrana abbiamo un reo confesso che, a sostegno inequivocabile della sua confessione, ha fatto trovare il corpo della vittima del reato da lui confessato. Tale confessione è reputata dall’accusa e dalle parti civili e dichiarata dalla Corte d’Assise di primo grado inattendibile. Diverso è invece l’atteggiamento nei confronti della versione accusatoria nei confronti di Sabrina: attendibilissima. Le dichiarazioni di Michele sono credibili solo a convenienza».

E così sarebbe Michele l’assassino?

«Non posso dirlo ma una cosa in particolare mi preme affermare. Michele può essere considerato responsabile reo confesso del delitto o bugiardo patentato. Sabrina può essere considerata efferata assassina o innocente sacrificale. Tutto ciò è opinabile basando il giudizio su vani indizi: non precisi, non certi, non concordanti. Ma su Cosima cosa c’è? Il sogno di un fioraio. E ciò basta a far marcire in carcere un essere umano».

Quindi Cosima sarebbe un’altra vera vittima di tutto questo?

«Io credo che, siano essi innocenti o colpevoli, i protagonisti della vicenda meriterebbero un processo equo da parte di magistrati non influenzati per colleganza di Foro da eventuali errori commessi nelle fasi precedenti dai colleghi d’accusa e di giudizio. Anche nella prospettazione del reato. Si è escluso per principio l’omicidio colposo o l’omicidio preterintenzionale. Perché? Perché di esseri umani discutiamo in questa intervista e si discute nei fascicoli di causa. Non di inchiostro nero su carta bianca. E perché solo di verità si nutre la giustizia e la rimembranza della povera piccola Sarah».

Ma lei si ritiene innocentista?

«Io non sono innocentista. Non sono neanche colpevolista. Ma da degno giurista sono un semplice garantista e spero, nel profondo del cuore, che lo siano Magistrati e Media. Ed ognuno, con la propria verità, siano molto vicini alla verità storica. Purtroppo io dispero. Sin dalle prime fasi, ripeto a dire, che tutti saranno condannati a Taranto, in primo ed in secondo grado. E sarà la Cassazione a Roma, in lontani lidi, a non rinfrancare la giustizia».