Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

Sarah Scazzi

 

Il Delitto di Avetrana

 

La Condanna

 

e

 

L’Appello

 

 

 

 

Di Antonio Giangrande

 

 

 

 

 

 

SARAH SCAZZI

LA CONDANNA E L’APPELLO

 

 

SARAH SCAZZI: IL DELITTO DI AVETRANA

IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

Di Antonio Giangrande

 

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

 

SARAH SCAZZI

IL DELITTO DI AVETRANA

IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE

LA CONDANNA E L’APPELLO

 

 

 

 

 

 

 

 

SOMMARIO

 

L’ITALIA CHE SIAMO.

L’AVETRANA CHE SIAMO.

INTRODUZIONE

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

I PENTITI DEL GOSSIP GIUSTIZIALISTA.

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

AVETRANA. UN PAESE NORMALE.

IL CASO DI AVETRANA.

SARAH SCAZZI. DAI SEGRETI DI FAMIGLIA DI ROBERTA BRUZZONE AL RESOCONTO DI UN AVETRANESE DI ANTONIO GIANGRANDE

SARAH UCCISA DALLA GELOSIA? SABRINA CONDANNATA DALL’INVIDIA?

IL PROTRARSI DELL’APPELLO E LE LUNGAGGINI DEL PROCESSO. NELL’ATTESA DELLE MOTIVAZIONI CHE NON ARRIVANO MAI. I GIUDICI, DOPO MESI, SE LA PRENDONO COMODA PER STILARE LE MOTIVAZIONI SCONTATE.

GOGNA MEDIATICA E PROCESSI IN TV. QUANDO LA DEONTOLOGIA E LA LEGALITA’ VANNO A FARSI FOTTERE.

MEDIA. DALLA PARTE DELLE VITTIME? NO! DALLA PARTE DEI MAGISTRATI.

LETTERA APERTA A QUARTO GRADO.

GUERRA MEDIASET-LA7. LA GUERRA DEI GOSSIPPARI GIUSTIZIALISTI.

PARLA IL COMPAGNO DI CARCERE DI MICHELE MISSERI.

DELITTI DI STATO ED OMERTA’ MEDIATICA.

COSIMO COSMA. LA MORALE DEL NIPOTE DI ZIO MICHELE.

L’OLTRAGGIO ALLA PUBBLICA MEMORIA, AL PUBBLICO PUDORE ED ALLA PUBBLICA DECENZA.

L’ULTIMO INSULTO PER SARAH. LA SUA FOTO SUL SITO DI INCONTRI.

I PRESUNTI TESTIMONI MAI CHIAMATI.

GLI ORARI CONTRASTANTI.

LE MOTIVAZIONI DELLE CONDANNE…..11 MESI DOPO.

L’APPELLO ED IL TRAVISAMENTO DELLE PROVE.

LA SENTENZA E LE MOTIVAZIONI SBAGLIATE.

NON CHIAMATEMI ASSASSINA.

LA FUNZIONE DELLA TELEVISIONE.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

MAGISTRATI POCO ONOREVOLI. A TARANTO GUERRA DI TOGHE.

CONSULENTI PENTITI E RICREDUTI.

L’APPELLO. MICHELE E LA SUA MENTE.

TESTIMONE DI GEOVA? NO GRAZIE!!!

L’AVV. BISCOTTI, LA CRONACA NERA E LA SINDROME MEDIATICA.

GERMANIA, IL PARADISO DELLA MAFIA. ITALIA, IL PARADISO DEI MAGISTRATI.

GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.

SENSITIVI E MEDIUM ALLE VECI DI SARAH.

GIORNALISTI ALLA SBARRA.

COLPEVOLE DI ESSERE INNOCENTE.

I MAGISTRATI E LA SINDROME DELLA MENZOGNA.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

L’OMICIDIO MASSONICO. L’OMICIDIO DEI BAMBINI.

ANNIVERSARI AMARI.

LA SORTE DI COSIMO COSMA, PRESUNTO INNOCENTE.

IL PROCESSO A VITO RUSSO.

IL PROCESSO AD ANGELO MILIZIA.

PARLIAMO DI GIOVANNI BUCCOLIERI.

PARLIAMO DEL DELITTO DI PORTO CESAREO.

UN CASO SIMILARE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA. IL CASO BERLUSCONI.

MAI DIRE ANTIMAFIA.

COSI’ SI UCCIDE UN ITALIANO. FABRIZIO QUATTROCCHI.

UN CASO SIMILARE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA. IL CASO CORONA.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO.

CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

COSI' HANNO TRUFFATO DI BELLA.

GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI  E PER SEMPRE.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

CARCERI. MORIRE DI STATO.

PERITI DEI PM, BEN PAGATI E CONDIZIONABILI.

COSI’ SI INCASTRA UN IMPUTATO.

CHI L’HA VISTO? LA GOGNA IN TV.

QUARTO GRADO, LA GOGNA IN TV.

QUELLA VERITA' NON DEVE ESSERE DETTA.

ALESSANDRO MELUZZI: SABRINA COLPEVOLE….., ANZI, NO…..!

LA MORTE DI SARAH. C’E’ UN’ALTRA VERITA’.

TUTTI CONDANNATI….COME PREVISTO.

CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……

VENERDI’ 14 NOVEMBRE 2014. TARANTO. INIZIA IL PROCESSO DI APPELLO PER IL DELITTO DI SARAH SCAZZI. SI ACCENDA LA TELEVISIONE.  

VENERDI’ 21 NOVEMBRE 2014. SECONDA UDIENZA D’APPELLO: SABRINA E COSIMA RESTANO IN CARCERE.

VENERDI’ 12 DICEMBRE 2014. TERZA UDIENZA D’APPELLO. I NODI DEL PETTINE ED I CRIMINOLOGI: FENOMENI DA PALCOSCENICO.

VENERDI’ 23 GENNAIO 2015. QUARTA UDIENZA DI APPELLO. PERCHE’ STAMPA E TV TACCIONO SULLA BRUZZONE?

VENERDI’ 27 FEBBRAIO 2015. QUINTA UDIENZA DI APPELLO. FINALMENTE PARLA COSIMA SERRANO, MA CHI LE CREDE?

VENERDI’ 13 MARZO 2015. SESTA UDIENZA DI APPELLO. SI PARLA DI CELLA…TELEFONICA.

VENERDI’ 27 MARZO 2015. SETTIMA UDIENZA DI APPELLO. PERIZIA SULLA CELLA…TELEFONICA.

VENERDI’ 10 APRILE 2015. OTTAVA UDIENZA DI APPELLO. INCARICO PER LA PERIZIA SULLA CELLA…TELEFONICA.

VENERDI’ 5 GIUGNO 2015. NONA UDIENZA DI APPELLO. RISULTATI DELLA PERIZIA SULLA CELLA…TELEFONICA.

VENERDI’ 12 GIUGNO 2015. DECIMA UDIENZA DI APPELLO. REQUISITORIA DELLA PROCURA GENERALE.

LUNEDI’ 15 GIUGNO 2015. UNDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGHE DEI DIFENSORI DELLE PARTI CIVILI E DI CARMINE E MICHELE MISSERI.

MERCOLEDI’ 17 GIUGNO 2015: DODICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGA DELLE DIFESE DI SABRINA MISSERI E COSIMA SERRANO.

VENERDI’ 19 GIUGNO 2015: TREDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGA DELLE DIFESE DI SABRINA MISSERI E COSIMA SERRANO.

MERCOLEDI’ 1 LUGLIO 2015: QUATTORDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGA DELLE DIFESE DEGLI ALTRI IMPUTATI MINORI.

SABATO 18 LUGLIO 2015: QUINDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. LE REPLICHE DI ACCUSA E DIFESE.

VENERDI’ 24 LUGLIO 2015: SEDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ULTIME REPLICHE E CAMERA DI CONSIGLIO.

LUNEDI’ 27 LUGLIO 2015: LA SENTENZA DI APPELLO.

LE TAPPE DEL PROCESSO.

PROCESSO SARAH SCAZZI: UNA CONDANNA SENZA PROVE E SENZA INDIZI.

I TESTIMONI DELL'ACCUSA: MICHELE MISSERI, GIOVANNI BUCCOLIERI, ANNA PISANO'. SE LI CONOSCI LI EVITI.

CHI SONO GLI ACCUSATORI? SE LI CONOSCI LI EVITI!

RAFFAELE E' STATO AIUTATO DAL SIGNORE IDDIO!

OSSESSIONE AMANDA.

LA VERSIONE DI AMANDA.

RAFFAELE SOLLECITO: NON CHIAMATEMI MAI PIU' ASSASSINO.

CHE RAZZA DI INDAGINI...

PROCESSO AL PROCESSO!

IL DELITTO DI PERUGIA E LE FIGURACCE DEI MAGISTRATI.

IL MONDO RIDE DELLA GIUSTIZIA ITALIANA.

L'ITALIA DEI PROCESSI INFINITI DAI COSTI INCALCOLABILI.

FORCAIOLI: ORA TACETE!

RAFFAELE SOLLECITO E LA PROSSIMITA’ SEMANTICA.

LA MALEDIZIONE DEL DELITTO DI PERUGIA.

INGIUSTIZIA A PERUGIA. Il Caso Meredith Kercher.

AMANDA E RAFFAELE: PERUGIA VI ODIA.

IL DELITTO DI PERUGIA. UNA STORIACCIA.

RESPONSABILITA’: DOV’E’ FINITA?

STRAGE DI MILANO. QUANTE VITTIME DELLA GIUSTIZIA PERDONO LA TESTA?

REATO DI TORTURA: PER CHI?

LA PICCOLA EGUAGLIANZA, IL POPULISMO E LA CADUTA PARZIALE DEGLI DEI (I MAGISTRATI).

CONCLUSIONI.

SARAH SCAZZI: TUTTI I NUMERI DEL CASO.

ASPETTANDO LE MOTIVAZIONI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!     

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana

di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

La Ballata ti l'Aitrana

di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

 L’INGIUSTIZIA VIENE DA LONTANO.

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

"Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata". "Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate".

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Avetrana. 11 gennaio 2014. Alle 10 circa del mattino in paese si sente un gran frastuono di sirene. Immediatamente circola la voce che Michele Misseri si è impiccato. Sul web una notizia del genere ci mette poco a diffondersi viralmente, ma per fortuna, basta una telefonata alla compagnia dei carabinieri di Avetrana per scoprire che è tutta una bufala. Molti cercano anche Antonio Giangrande, l’autore del libro sul delitto di Avetrana. Questa volta non sono di scherno per aver preso una posizione neutra rispetto ai protagonisti della vicenda, o di minaccia per essere il presidente di una associazione antimafia. Il telefono fisso ed il cellulare squillano senza soluzione di continuità. Arrivano le telefonate per chieder conferma. Nulla di vero. E’ solo una malevola diceria. Qualcuno giura di aver visto Michele, in mattinata, alla guida di un trattore. La notizia-bufala ha fatto il giro del web e poi delle redazioni scatenando un infernale giro di telefonate alla ricerca dell’ufficialità che naturalmente non esisteva.  A confermarlo fonti investigative. Infatti, dopo che un sito aveva diffuso la notizia, una pattuglia dei carabinieri si è recata nella casa dell'uomo nella cittadina jonica, in via Deledda, accertando che Misseri sta bene e che la notizia è priva di fondamento. Così la falsa notizia della morte di Michele Misseri per impiccagione ha intasato il centralino della caserma dei carabinieri di Avetrana e i contatti privati dei militari della caserma costretti anche loro a verificare la drammatica notizia. Ma il contadino, all’insaputa di tutto, si trovava beatamente nella sua villetta bunker di via Grazia Deledda. A diffondere la bufala è stato il sito «Il Corriere del Mattino», con tanto di immagini della scena della tragedia: forze dell’ordine e vigili del fuoco che recuperano un corpo da un albero di pino. Ecco come i burloni del blogger hanno raccontato la falsa notizia: «E’ stato trovato morto oggi nelle campagne del Salento in contrada Macchie alle ore 16,30 circa. L’anziano si è tolto la vita impiccandosi ad un albero di pino, nei pressi della masseria Montefiore non lontano dalla ferrovia. Sul posto sono intervenute tempestivamente le forze dell’ordine. Il medico legale ha subito constatato il decesso. L’anziano, più volte aveva minacciato il suicidio a causa dell’enorme depressione scaturita dalle vicende di cui è stato protagonista negli ultimi tempi. La scoperta è stata fatta da una coppia di fidanzati della zona che si era appartata nelle vicinanze. La sua auto presenta vistose ammaccature sulla fiancata destra e sul paraurti posteriore. Il RIS dei carabinieri della locale stazione sta indagando su possibili cause diverse dal suicidio, in quanto il cadavere presenta inoltre alcune ferite sul volto». Naturalmente non esiste nessuna contrada Macchie, né una masseria Montefiore, né una ferrovia nei dintorni di Avetrana. E nessun impiccato. In molti ci sono cascati. Eppure bastava leggere fino in fondo la pagina del fantomatico «Corriere del Mattino» per capire tutto: «Giornale del Corriere è un sito satirico, e dunque alcuni articoli contenuti in esso sono da ritenere tali. La redazione non vuole offendere nessuno» . Uno scherzo che potrebbe costare caro ai suoi autori se è vero che le autorità stanno valutando l’ipotesi di aprire un fascicolo per procurato allarme. Senza contare la reazione che avrà lo stesso Misseri. La notizia è stata lanciata per prima da oggi.it, che ha citato una fonte confidenziale, spiegando come non si conoscessero ulteriori dettagli sul suicidio. Per qualche ora è sembrato tutto confermato, almeno finché, ai carabinieri di Avetrana, non è giunta la smentita del diretto interessato, il quale ha dimostrato in questo modo di essere vivo e vegeto. Per questo la redazione di Oggi.it ha chiesto scusa: “Giallo di Avetrana, la fonte di oggi.it che sabato mattina aveva confermato che Michele Misseri si era suicidato, si è rivelata destituita di qualsiasi fondamento a ulteriori e più approfondite verifiche da parte della redazione. Chiediamo scusa ai nostri lettori e all’interessato. Il contadino che si era autoaccusato dell’omicidio di Sarah Scazzi, in realtà, è tuttora nella sua casa.” Michele Misseri non si è tolto la vita. La bufala del suicidio, lanciata da un sito web (con la foto di un impiccato), è stata ripresa la mattina dopo anche dal sito di un noto settimanale nazionale che, comunque, ha usato il condizionale nel riferire del presunto suicidio del contadino per impiccagione. Lo zio di Sarah Scazzi non si è tolto la vita, come ha confermato il suo difensore, avvocato Luca La Tanza, contattato telefonicamente dal “Corriere del Giorno” : «Il signor Misseri è vivo e vegeto. Non c’è stato nessun suicidio nè consumato nè tentato. Questa mattina si è recato in campagna, come di consueto, per svolgere il suo lavoro di agricoltore. Ha dimenticato il cellulare a casa e forse, quando qualcuno ha chiamato, lui non ha risposto e questo potrebbe aver ingenerato un equivoco. Al suo ritorno mi ha telefonato manifestandomi il suo sconcerto per quanto gli era stato riferito.  Tutto qui. Si tratta, quindi, di una notizia falsa, frutto, evidentemente, del cinismo di chi vuole ancora speculare su questa vicenda». Questa mattina, ad Avetrana, da abitanti del posto sono state notate pattuglie dei carabinieri e ambulanze del 118 nei pressi dell’abitazione di Michele che, in quel frangente, non era in casa, ma, da quanto si è appreso, era nei campi. E soprattutto non per togliersi la vita ma per lavorare. Per il caso di Avetrana questa non è certo una novità considerando che poco dopo la scarcerazione di Michele Misseri, a giugno 2011, qualche tv nazionale ha diffuso la notizia della sua scomparsa. Invece, era a Lecce dall’avvocato della moglie. Le motivazioni della sentenza, emessa il 20 aprile 2012 dalla Corte d’assise di Taranto, sono attese entro la fine di gennaio. Intanto, le bufale imperversano sul web. Al contrario, nessuno si chiede come mai i magistrati di Taranto dopo 10 mesi dalla sentenza di condanna generale, agli imputati nel processo Scazzi, non siano ancora stati capaci di scriverne le motivazioni, utili per presentare appello, contro quelle condanne che, ad alcuni sembrano ingiuste. Tanto chi se ne fotte di quelle donne chiuse in cella, che per legge sono da considerasi innocenti.

La Cancellieri non serve, scrive Filippo Facci su “Liberto Quotidiano. Le lagne di chi non vuole cambiare il carcere preventivo sono vergognose e basta, non c’è da fare dibattiti, non è uno scontro tra visioni procedurali: è uno scontro ventennale tra chi vuole tentare di migliorare le cose e chi invece non vuole cambiare nulla, anzi, vuole continuare a servirsi comodamente del potere più delicato del mondo - togliere la libertà altrui - per coprire le proprie pigrizie investigative e per vellicare le depressioni del forcaiolo italiota, del servo di procura, dell’infangatore professionale. È da trent’anni che la custodia cautelare dovrebbe essere «extrema ratio» e invece è regola: e questo perché i magistrati se ne fottono, punto, tanto nessuno li punisce, ri-punto: nelle nostre galere ci sono 13mila persone metà delle quali, statisticamente, sarà assolta dopo il primo grado e dopo ingiusta detenzione. Abbiamo 27mila detenuti in attesa di giudizio (anche se l’Italia ha un tasso di criminalità tra i più bassi d’Europa) e il perché lo sappiamo tutti: perché i magistrati usano il carcere per dare anticipi di pena o per costringere a confessioni, talvolta per finire sui giornali: mentre pm e giudici stanno solo attenti a non pestarsi troppo i piedi e propongono, per risolvere il dramma della carcerazione preventiva, esattamente questo: niente. Ora hanno paura che si rompa il giocattolo, ma stiano tranquilli: la riforma allo studio è un decimo di quanto servirebbe. La Cancellieri non serve, ne servono dieci.

Va bene così, continua Filippo Facci. Le quotidiane cronache di malagiustizia e detenuti umiliati fanno notizia solo di mezzo c'è un appello a Napolitano. Quel che resta è un recondito senso di schifo. F.Z. ha ottenuto il permesso di far visita alla sua bambina di dieci anni, morente per un tumore all’intestino, ma solo per due ore e rigorosamente in manette. C.F. ha potuto presenziare ai funerali del figlio ma pure lui in manette. R.L. doveva essere trasferita in un ospedale carcerario, essendo gravemente malata, ma per 15 giorni nessuno ha eseguito il provvedimento: ed è morta in cella. A.M. ebbe un malore, e attese i medici per tre ore, poi ebbe un secondo malore ma in infermeria non riscontrarono nulla - pur risultando cardiopatica - e dopo un terzo malore morì in cella. G.d.G. era pure cardiopatico, aveva una valvola mitrale artificiale, era cirrotico e attendeva un trapianto di fegato: gli negarono gli arresti ospedalieri e morì in carcere. Potrei continuare: sono tutti casi che ho raccolto negli anni e che interessavano a politici e direttori a seconda del momento e dell’orientamento del giornale in cui scrivevo. Ieri un paio di giornaloni hanno sollevato un nuovo caso - un malato terminale che non vuole morire in galera, e che si è appellato a Napolitano - e va bene così. Senza Napolitano di mezzo, la storia non sarebbe esistita: ma va bene così. Funziona così, ed è meglio che niente. Anche se un recondito senso di schifo, questa banale e ineluttabile dinamica mediatica, te lo lascia sempre appiccicato addosso. 

La difesa: “Scarcerate Sabrina Misseri”. L’avvocato Coppi: «Dopo 9 mesi non conosce le motivazioni della condanna». Se la sua richiesta venisse respinta pronti i ricorsi in Riesame e Cassazione, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. «Scarcerate Sabrina Misseri». L’avvocato Franco Coppi insieme a Nicola Marseglia firmano e depositano il 14 gennaio 2014 una istanza per la rimessione in libertà della loro assistita, condannata in primo grado all’ergastolo con una sentenza di nove mesi fa. Da allora il silenzio. Ancora non si conosce la motivazione. La legge dispone 90 giorni ma poi ci sono le proroghe. E arriviamo a oggi. «E’ contrario a ogni principio giuridico che una persona debba aspettare la fine del processo in carcere senza che ci siano le esigenze cautelari, spiega il professor Coppi. «E soprattutto in questo caso dove dopo 9 mesi ancora non conosce le motivazioni della sua condanna». Secondo l’accusa il delitto di cui si sarebbe macchiata Sabrina è stato di impeto e motivato dalla gelosia per la cuginetta Sarah. «Dunque anche per l’accusa non ci può essere la reiterazione del reato», dice Coppi spiegando il venir meno delle esigenze cautelari. «E non parliamo della fuga. Dove vuoi che possa andare una persona come Sabrina ormai conosciuta ovunque, senza mezzi e sola». Il professor Coppi è molto preoccupato delle condizioni di salute e psichiche di Sabrina. «Sta male è distrutta nel corpo e nell’anima». Nicola Marseglia, che la difende insieme al professor Coppi, va spesso a trovarla e ogni volta la trova peggio. Spesso Sabrina rifiuta anche i colloqui telefonici con la sorella Valentina. Vorrebbe vedere di più lo psicologo ma anche questo spesso le viene negato. Chiede continuamente a Marseglia quando usciranno le motivazioni. Solo allora i sui legali potranno fare appello e per lei si riaprirà la speranza. «Sono innocente», grida dal carcere alle poche persone che possono sentirla. Lo scrive nelle lettere alla sorella e lo ripete ai suoi avvocati. Se la corte di Assise di primo grado rifiuterà di scarcerare Sabrina (come sembra probabile) gli avvocati faranno appello al Tribunale del Riesame e se anche questa risposta dovesse essere negativa si rivolgerebbero alla Cassazione che già due volte ha chiarito in due diverse sentenze che non sussistono gravi indizi di colpevolezza. Certo questa volta è intervenuta una condanna in primo grado, ma i supremi giudizi potrebbero non apprezzare questa lunghissima carcerazione preventiva per una ragazza così giovane. Una mossa della difesa di Sabrina per provare a ridare la luce alla loro assistita ma anche per sollecitare i giudici a depositare la sentenza. Il professor Coppi vuole arrivare presto in appello per dimostrare l’innocenza di Sabrina. «Questo ergastolo è il più grande cruccio della mia carriera», ha spiegato in un’intervista alla giornalista Ilaria Cavo. «Ci sto consumando la mia vita, perché sapere che una ragazza di 23 anni – per me innocente – sta marcendo in carcere con una condanna all’ergastolo, mi toglie il sonno».

Franco Coppi è anche a Taranto il difensore dei Riva. La Cassazione ha annullato senza rinvio il sequestro preventivo per 8,1 miliardi di euro nei confronti della Riva Fire, la Holding che controlla l’Ilva spa. La sesta sezione penale ha accolto il ricorso presentato di legali dei Riva, Coppi e Paliero, e ha disposto la restituzione alle Holding di tutto i beni.

La lunga attesa delle motivazioni. Nove mesi esatti il 20 gennaio, abbondantemente oltre i canonici 90 giorni (scaduti a luglio).  I difensori della ragazza, avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia, hanno depositato l’istanza ma la Procura non ha perso tempo e ha già messo il “veto” alla scarcerazione. I pm Mariano Buccoliero e Pietro Argentino hanno espresso parere negativo. Il parere della Procura non è vincolante ai fini della decisione. Coppi e Marseglia evidenziano l’assenza delle esigenze cautelari. Esigenze che, scrivono, non possono essere motivate soltanto dalla gravità del reato di omicidio e dal massimo della pena, l’ergastolo ma, sottolineano, anche di altri elementi, come la definizione del processo di primo grado. «Persino la conclusione del giudizio di primo grado può essere opposta come “fatto nuovo” per motivare l’oggettiva insussistenza del pericolo di inquinamento della prova e, tantomeno, di quello relativo alla sua genuina acquisizione». Inoltre, sostiene la difesa di Sabrina, non c’è il rischio di reiterazione del reato in considerazione dell’incontrovertibile eccezionalità dei reati per i quali è stata condannata con la madre. «E’ fuori dubbio che il mantenimento della misura custodiale, dopo circa tre anni e tre mesi di detenzione carceraria, non è giustificato dall’effettiva permanenza di esigenze cautelari la cui sussistenza – rimarcano – non è mai stata adeguatamente motivata». Alla valutazione dei giudici, i legali sottopongono anche le condizioni di salute della ragazza, «da tempo sottoposta ad osservazione psichiatrica in conseguenza dell’oggettivo stato depressivo in cui versa». "Sabrina sta male solamente perché ha la coscienza sporca. Se decide di confessare non potrà che stare meglio". Lo afferma Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa il 26 agosto 2010 ad Avetrana (Taranto). Le parole della donna sono riferite dai soliti legali della famiglia Scazzi, Nicodemo Gentile e Antonio Cozza. Legali che a quanto sembra hanno ottimi rapporti con i giornalisti di stampa e tv. La Corte d’assise, intanto, il 16 gennaio 2014 ha respinto la richiesta di revoca dell’obbligo di dimora a cui è sottoposto Michele dall’autunno del 2011. Quindi, non può lasciare Avetrana. Il legale, avvocato Luca La Tanza ha chiesto la libertà e, in subordine, la revoca dell’obbligo di rimanere in casa dalle 7 di sera alle 7 del mattino successivo, sostenendo la totale insussistenza delle esigenze cautelari. La Corte, dal canto suo, è rimasta sulle stesse posizioni di alcuni mesi fa: sussistono sia il rischio di reiterazione del reato di soppressione del cadavere (Michele è stato condannato a 8 anni di reclusione) sia il pericolo di fuga. Forse, il contadino di Avetrana fuggirebbe soltanto per una diretta televisiva, considerando i suoi “precedenti”. «Misseri è sottoposto ad una sorta di detenzione domiciliare, considerando le ore della giornata che è obbligato a trascorrere in casa. Ma, al contrario di un detenuto ai domiciliari – fa notare il suo difensore – il periodo in cui viene privato della libertà non sarà decurtato dalla condanna definitiva che un giorno dovrà scontare». 

Valentina Misseri: “Mia sorella sta male. Paga per errori che non ha commesso”. «Mi dice sempre che vorrebbe addormentarsi e svegliarsi quando un giudice capirà finalmente che è innocente. Il danno che le è stato fatto è irreparabile», scrive ancora Maria Corbi.

Valentina ci spera questa volta che sua sorella possa essere scarcerata?

«Non ci spero perché a decidere sono le stesse persone che hanno dato l’ergastolo. E non riesco a capire come mai tutto questo tempo per scrivere le motivazioni. Un ergastolo si dà quando si è certi e tutto è chiaro. Questa lentezza non può non farmi pensare ». 

Come sta Sabrina?

«Sabrina sta malissimo, fisicamente e psichicamente. Ha bisogno di aiuto e sono molto preoccupata. Vomita continuamente, non dorme, spero che la facciamo parlare con uno psichiatra».

Le scrive?

«Si, ma non mi chiama quasi mai perché dopo piange e sta peggio. E’ innocente ed è la dentro da 3 anni e tre mesi, sono quattro Natali che è in cella, anni che non gli ridarà più nessuno. Era una bimba, 22 anni, quando è entrata e tra pochi giorni, il 10 febbraio ne compirà 26».

E’ stata condannata all’ergastolo. Per molte persone è colpevole.

«Non è colpevole, e le dico che a volte preferirei che lo fosse in modo che questa tortura fosse almeno comprensibile. Sicuramente più tollerabile. Ma io lo so, i fatti lo dicono, che Sabrina è innocente e sta sopportando un’ingiustizia enorme Ripete che quello che le sta capitando è assurdo, vuole credere nella giustizia ma ha paura nell’errore giudiziario».

Ti ha mai detto cosa ha provato quando è stata pronunciata in aula la paura «ergastolo»?

«L’avevano preparata ma sperava che non fosse così. Mi dice sempre che vorrebbe addormentarsi e svegliarsi quando un giudice capirà finalmente che è innocente».

Sabrina vede la tv? I talk show che la crocifiggono?

«Quando parlano di lei in quel modo ci sta male. Prova dolore e rabbia».

Lei ha ancora speranza?

«Si, certo, spero che alla fine la verità vinca sulle menzogne, ma con la consapevolezza che il male che è stato fatto non potrà essere compensato. Sarah, che per me e Sabrina era una sorella non c’è più. E Sabrina non si riprenderà comunque mai, il danno che le è stato fatto è irreparabile».

Sabrina Misseri: visto che non si riesce a motivare la sua condanna gli avvocati chiedono che possa affrontare i prossimi gradi di giudizio fuori dal carcere... scrive Massimo Prati sul suo blog, Volandocontrovento. Un tempo, a volte accade ancora, sulle navi prive di un comandante carismatico e capace di tenere a bada il proprio equipaggio c'era chi non eseguiva gli ordini e non di rado chi si ammutinava. Se rapportassimo questo ai giorni nostri, potremmo capire che quando lo Stato latita, quando i "capi" mancano di carisma, molti suoi adepti perdono l'ideologia originaria e smettono di rispettare le regole vigenti inventandosi un nuovo tipo di democrazia. Come i topi che ballano quando il gatto dorme. In un'epoca in cui la politica si rende ridicola, perché usata da approfittatori che non aiutano i cittadini ma fanno a gara per spartirsi le postazioni migliori e le miliardarie fette di torte all'euro, può un intero equipaggio rispettare le consegne e le regole stabilite? No. La storia ci insegna che in un simile contesto è l'instabilità a farla da padrone. E di questa instabilità soffrono tutti gli organi che dovrebbero servire lo Stato, quegli apparati istituzionali di cui non può fare a meno una nazione e che contribuiscono a mantenerla sana. Parto da qui per parlare di una parte della magistratura (magistratura che da tempo immemore nasce dalle costole dei partiti politici), di quella parte che usa a modo suo la legge e lo fa per imporre nuovi parametri di giudizio e nuove ideologie. Molte volte ci pare di vederla andare alla deriva, l'Europa ce lo ricorda spesso multandoci per gli errori di quei magistrati che non usano rispettare le regole, anche se a sbagliare è solo la minoranza, tantissimi sono i procuratori e i giudici che rispettano l'imputato e seguono il giusto input, quella minoranza spesso ingiusta che usa ogni mezzo pur di legittimare le proprie idee agli occhi della massa: anche l'appoggio mediatico dei giornalisti mediocri che preferiscono l'audience al doveroso, sacrosanto e democratico, dovere di critica.

L'articolo 2 della Costituzione italiana cita: "La Repubblica garantisce i diritti inviolabili dell'uomo". Nell'articolo 3 è scritto: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge", mentre l'articolo 10 garantisce che: "L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute".

Che la giustizia italiana non sia conforme alle norme del diritto internazionale lo dimostrano le continue sanzioni che Strasburgo commina alla nostra nazione a causa di magistrati che se ne fregano dell'Italia, degli italiani che pagheranno le multe al posto loro e di quanto dicono di noi i garantisti europei. Ma non soffermiamoci troppo, potremmo sentirci male al pensiero di dover pagare una nuova tassa sulla giustizia, e vediamo l'articolo 111 in cui si impone il rispetto delle regole: "Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata". Lo stesso articolo vuole che le regole per i presidenti di Corte non cessino dopo l'emissione della sentenza, infatti si trova anche scritto che: "Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati". In base a questo spesso ci si chiede quanto tempo abbia un giudice per motivare una sentenza.

La risposta ce la dà l'art.544 del codice di procedura penale:

1. Conclusa la deliberazione, il presidente redige e sottoscrive il dispositivo. Subito dopo è redatta una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la sentenza è fondata.

2. Qualora non sia possibile procedere alla redazione immediata dei motivi in camera di consiglio, vi si provvede non oltre il quindicesimo giorno da quello della pronuncia.

3. Quando la stesura della motivazione è particolarmente complessa per il numero delle parti o per il numero e la gravità delle imputazioni, il giudice, se ritiene di non poter depositare la sentenza nel termine previsto dal comma 2, può indicare nel dispositivo un termine più lungo, non eccedente comunque il novantesimo giorno da quello della pronuncia.

Questa lunga premessa ora la rapporto a quanto fatto in questi anni dai magistrati di Taranto. Iniziamo dal principio dunque, da quando ci hanno obbligati ad osservare la forza di procuratori, usata su una ragazza di 22 anni carcerata senza vere prove nella speranza di una sua confessione, che senza neppure verificare le dichiarazioni del padre decisero di "agire" a modo loro usando insoliti giochi di prestigio, sia procedurali che investigativi. Giochi messi in atto anche con l'aiuto di infiltrati del popolo, a cui i carabinieri affidavano registratori dell'Arma completi di audio-cassette, e di un perito che stabiliva di volta in volta quanto serviva di stabilire (la corda usata dal Misseri, quando lui era l'assassino, diventata cintura quando si è deciso di spostare la mira sulla figlia). Proseguiamo per scoprire che in pochi mesi ci hanno abituati a pensare che fosse normale credere a un sogno e su questo si potesse basare un processo. Normale anche il fatto che gli imputati si moltiplicassero, che gli avvocati fastidiosi venissero inquisiti affinché si togliessero di mezzo, che magicamente cambiassero sia le scene che le ambientazioni in cui collocare l'omicidio della piccola Scazzi. A questi fatti incolliamo il gip Martino Rosati che ha sempre convalidato le tesi dei Pm tarantini e, dopo aver scritto in un atto di arresto che Michele Misseri era un assassino abietto e pericoloso, ha ritrattato e incensato in un altro atto il contadino, pover'uomo, fino a liberarlo, su proposta dei Pm, perché di fronte a lui si era presentato impacciato e, quindi, aveva dimostrato di non sapere come Sarah fosse morta. Un gip in grado di considerare rilevante qualsiasi cosa gli portasse la procura, sia il nulla investigativo che i sogni, e irrilevanti le rimostranze dei difensori. Un gip che ha pure obbligato la Difesa ad interrogare il contadino solo a determinate condizioni: l'avvocato Coppi poteva incontrare il Misseri, ma in presenza dei procuratori e senza porgli domande che riguardassero l'omicidio di Sarah. Solo bizzarro?

Forse no. Forse qualcuno temeva che già a metà gennaio 2011 Michele Misseri potesse svelare all'opinione pubblica la sua nuova verità, il motivo per cui aveva accusato la figlia. In fondo quanto ha affermato tempo dopo già lo lasciava intuire nelle sue prime lettere, in fondo non c'era nulla di veramente serio che potesse incriminare la cugina di Sarah: pochi indizi e tante illazioni nate da una ipotetica gelosia sfociata in un altrettanto ipotetico litigio. E che vi fossero pochi indizi colpevolisti era chiaro, anche se i media ne giustificavano la mancanza con l'alta probabilità che i procuratori avessero assi e re nascosti nelle maniche (assi e re rivelatisi a processo dei semplici cavallucci... se non dei miseri fantocci). Ma proseguiamo ancora ed arriviamo al 2012, a quando il pericolo incombeva sul tribunale dei due mari e lo stesso gip si presentò in prima serata agli italiani, addirittura al TG1 delle 20.00. Non è mai accaduto, da quando esiste la Repubblica italiana, che a processo imminente un gip andasse in televisione per perorare cause innocentiste e colpevoliste; è indubbiamente un fatto fuori da ogni regola giuridica e morale che andrebbe sanzionato, visto che il principio di imparzialità dei giudici è stabilito in diverse norme costituzionali. Invece Martino Rosati, seduto comodo sulla sua poltrona, in tutta tranquillità si mise a propagandare sia la bontà del tribunale della sua città, così che il processo rimanesse a Taranto e la Cassazione non decidesse di affidarlo ad altre realtà giuridiche, sia la certa innocenza del contadino. Aggiungendo a questa propaganda, quando si parlò di Sabrina Misseri, una frase che suonava così: "spero per lei che ci siamo sbagliati...". E' questo che un giudice deve andare a dire sul piccolo schermo prima ancora che l'imputata sia giudicata in tribunale da altri giudici, non ultimi quelli popolari, a milioni di persone?

Anche grazie a lui, quando la Cassazione decise di lasciare il processo al tribunale di Taranto, la procura brindò perché l'ergastolo si poteva già considerare blindato. Questo a causa della visibilità mediatica montata in chiave colpevolista, anche dal gip, che i fidi delfini della carta stampata locale avevano propagandato per quasi due anni sia in Puglia che in tutta Italia. Non ci credete? Ragionate con me usando la logica: a Taranto i sei giudici popolari di un processo penale si estraggono a sorte fra 420 delle persone che hanno accettato di essere iscritte nel registro del tribunale. Paragoniamo a questi numeri l'enorme esposizione mediatica di allora (ancora oggi la maggioranza dell'opinione pubblica italiana considera Sabrina Misseri certa colpevole... e a Taranto la percentuale si alza) e facendo un rapido calcolo statistico non usciamo dalla realtà se diciamo che dei 420 potenziali giudici popolari tarantini, solo un centinaio non avevano una pregressa convinzione colpevolista mentre, al contrario, più di trecento, anche a causa dei media locali, erano vittime di un pregiudizio e non potevano in alcun modo essere imparziali. Per cui la probabilità di portare in aula sei giudici popolari neutrali era pressoché nulla. Da questo si capisce che lasciare il processo a Taranto significava non dar modo alle Difese di far assolvere le imputate. E sarà così anche per l'appello.

Mettiamo da parte il modo poco ortodosso e molto pregiudizievole usato dai media per trattare un caso così delicato, pur se anche grazie ai tanti giornalisti del pregiudizio non si è garantito uno svolgimento processuale in condizioni di parità di fronte a giudici terzi, e facciamo un piccolo ripasso su un processo presentatosi in formato kolossal. Purtroppo kolossal lo è stato solo per la sua durata, dato che già all'inizio si è mostrato per quanto in realtà era: un infimo film di terza categoria distribuito solo perché pubblicizzato a un pubblico fidelizzato. Ricordate che un giudice popolare è stato cambiato a causa di quanto in aula diceva sulle imputate? Ricordate di aver visto e ascoltato i giudici togati, compresa la presidente di Corte, ciarlare sottovoce contro le stesse imputate e i testimoni a loro favore? Ricordate di aver visto e sentito il pubblico ministero fare nell'arringa finale una descrizione del crimine sulla falsariga di quanto accaduto in Psycho? Chiaramente per ottenere il ribrezzo dei giudici popolari, già mentalmente predisposti a causa di quanto ascoltato e visto in video nei tre anni precedenti, e la condanna di chi il 26 agosto 2010 per la procura albergava nella penombra di una camera del Bates Motel in attesa dell'arrivo di Sarah. Mi son lasciato trasportare, chiedo scusa, intendevo dire: albergava nella penombra di una camera della villetta dei Misseri in attesa dell'arrivo di Sarah. In fondo, si potrebbe dire, non chiedeva neppure tanto. Pretendeva solo la stessa condanna già ottenuta a livello mediatico grazie ai fidi scudieri della carta stampata locale che da buoni uomini di chiesa avevano già imposto all'opinione pubblica il loro vangelo, quello di Giuda.

Insomma, non credo di sbagliarmi nel pensare che la Costituzione italiana a Taranto, ma è capitato anche in altri luoghi, in questi anni non ha goduto di giusta considerazione. Appurato questo, dobbiamo purtroppo constatare che forse non solo la Costituzione si è rivelata un optional irrilevante, ma che lo si sia pensato anche della legge. E a quanto pare il giudice Cesarina Trunfio segue la tradizione dei tanti giudici che hanno contribuito, senza rimetterci neppure un cent di tasca propria, a farci sanzionare dall'Europa, a far pagare ai soliti italioti multe milionarie. E quando non è l'Europa a farci pagare, è la parte sana della magistratura che scopre le magagne della insana e rimborsa chi ingiustamente è finito in galera (vedi foto). Fa male pensare che un giudice a cui lo Stato dà ogni anno più di 100.000 euro (Stato che in cambio gli chiede solo di sentenziare in base alle prove, codice penale alla mano, e motivare nei giusti tempi le sentenze), non pare essere in grado di trovare nei tempi previsti i ragionevoli motivi che giustifichino i due ergastoli che lui stesso ha comminato. Il giudice Trunfio ha troppo lavoro? Se sì che segua le regole e pensi, prima che ad altro, a chi si dichiara innocente e si ritrova in carcere da trentanove mesi. A chi, a causa delle motivazioni mancanti, non può appellarsi per cercare di dimostrare che chi lo considera colpevole si sbaglia. Non è possibile non trovare il tempo, se si pensa che a Milano un giudice ha preferito lasciare in libertà un dentista stupratore pur di motivare in soli 15 giorni la condanna inflitta a Silvio Berlusconi. Volere è potere, diceva un tale anni fa. E la legge dice che un giudice deve per forza trovare il tempo e dare la precedenza alle motivazioni più urgenti.

Che ci siano motivi diversi ad impedire la stesura delle motivazioni? Altri giochi di prestigio? Non si sa, di certo chi impedisce ad un imputato di difendersi nei tempi e nei modi giusti, dimostra di non rispettare né gli uomini né la Costituzione. Forse anche per questo il 14 Gennaio scorso gli avvocati Coppi e Marseglia hanno depositato un'istanza di rimessione in libertà per Sabrina Misseri. E l'hanno fatto perché, come dichiarato da Franco Coppi: "E’ contrario a ogni principio giuridico che una persona debba aspettare la fine del processo in carcere senza che ci siano le esigenze cautelari. Dato che nel caso in questione non esiste né la possibilità di reiterare il reato né quella di fuggire e, soprattutto, dato che son passati ben nove mesi dalla prima sentenza e ancora non si conoscono le motivazioni della condanna".

Ora la palla torna alla base, ai giudici di Corte d'Assise. "Ma - ribadisce l'avvocato - se le rifiuteranno la libertà (e, questo lo dico io, non ci vuole una sfera di cristallo per sapere che gliela rifiuteranno) ci rivolgeremo al tribunale del riesame e poi alla Cassazione".

Vedremo presto come il Palazzo dei Sogni tarantino tratterà questo nuovo capitolo. Vedremo se l'istanza della Difesa darà una spinta giusta al giudice. Vedremo se quanto non si è motivato in nove mesi si riuscirà a motivare in quindici giorni...

Ed appunto il "no" della Corte è stato fulmineo, ma le motivazioni non ci sono ancora. La Trunfio è stata velocissima ad opporsi alla scarcerazione, però ancora non è riuscita ancora a motivare la condanna. Sabrina Misseri resta in carcere: "Può scappare o inquinare prove". La corte d'assise di Taranto ha respinto la richiesta dei domiciliari presentata dai legali della cugina di Sarah Scazzi: "Non sono cambiate le esigenze cautelari", scrive Mario Diliberto su “La Repubblica”. Sabrina Misseri può uccidere ancora. Ma può anche fuggire all'estero, sfruttando l'eventuale complicità di amici e familiari stabilmente residenti in paesi stranieri. E non è vero che il suo volto è conosciuto e che costituirebbe un ostacolo alla eventuale latitanza. Perchè ora il viso della ragazza è molto cambiato rispetto a quando compariva in tv, subito dopo la scomparsa di Sarah, sostenendo di essere alla ricerca della cugina svanita nel nulla. Così la Corte di Assise ha motivato il suo no alla liberazione e agli arresti domiciliari per la giovane condannata all'ergastolo, insieme alla madre Cosima Serrano, per l'omicidio della cugina Sarah Scazzi, assassinata il 26 agosto del 2010 ad Avetrana. La Corte, presieduta dal giudice Cesarina Trunfio ha racchiuso in sei pagine gli argomenti con i quali ha respinto la richiesta di scarcerazione, avanzata la scorsa settimana dai difensori della ventiquattrenne. Secondo i giudici, per Sabrina esiste il pericolo di reiterazione di reati violenti contro la persona, il pericolo di fuga e quello di inquinamento probatorio. Sul rischio di latitanza, stando a quanto si è appreso, la Corte ha fatto esplicito riferimento a familiari e amici residenti in Germania e in Polonia che potrebbero fornire un aiuto concreto in caso di fuga. I giudici hanno anche respinto le osservazioni della difesa sul fatto che la ragazza è troppo conosciuta per fuggire. Sabrina non è più la giunonica ragazza che era protagonista delle trasmissioni televisive, subito dopo la scomparsa di Sarah. Ora è dimagrita, ha i capelli lunghi e porta gli occhiali. Un aspetto che, quindi, potrebbe consentirle di passare inosservata. Sul pericolo di inquinamento probatorio, infine, la Corte lo ha ritenuto fondato in caso di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello. Un riferimento implicito alla possibilità di intervenire su un'eventuale nuova deposizione, in secondo grado, del padre Michele Misseri, l'uomo che continua a professarsi unico colpevole dello spietato delitto.

Il professor Franco Coppi non molla la presa sul caso Scazzi. A otto giorni dal deposito dell’ordinanza con la quale la corte d’assise ha respinto la richiesta di scarcerazione per Sabrina Misseri, il 28 gennaio 2014 mattina nella cancelleria del tribunale dell’appello è stato depositato il ricorso firmato dallo stesso Coppi e dall’avvocato Nicola Marseglia. Gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia che hanno difeso Sabrina Misseri nel processo in Corte d’assise per l’uccisione di Sarah Scazzi, concluso con la condanna all’ergastolo per la ragazza e sua madre Cosima Serrano, hanno presentato ricorso al tribunale dell’appello contro la decisione della presidente Rina Trunfio che ha respinto la precedente richiesta di scarcerazione della loro assistita. «Sabrina è innocente» continua a sostenere Coppi in tutte le sedi, anche quando si occupa di vicende complesse e complicate come quelle dell’ex premier Silvio Berlusconi oppure, restando in ambito tarantino, dell’Ilva, visto che difende delle società della famiglia Riva (fatto che lo porterà a rinnovare il duello con gli stessi pm e probabilmente con gli stessi giudici togati della corte d’assise). La difesa dopo il rigetto della scorsa settimana non si è arresa ed è tornata alla carica impugnando dinanzi al tribunale dell’appello cautelare l’ordinanza con cui la Corte d’assise di Taranto ha respinto la richiesta di libertà «con argomentazioni suggestive ma assolutamente non condivisibili». I legali sostengono che non esistono più i presupposti per la detenzione della cugina di Sarah poiché non può più inquinare le prove, tentare la fuga o commettere altri reati simili a quello per il quale è stata condannata. Secondo gli avvocati Coppi e Marseglia le esigenze cautelari poste alla base della detenzione in carcere di Sabrina Misseri possono essere tutelate anche concedendo alla giovane di Avetrana - in carcere dal 15 ottobre del 2010 - gli arresti domiciliari, anche perché - sostengono i due legali - Sabrina sta male. Di parere diverso la presidente della Corte d’assise che non ha ancora depositato le motivazioni della sentenza di primo grado. La giudice, nelle sei pagine con cui ha respinto la domanda di scarcerazione della giovane condannata, ritiene ancora valide i tre presupposti per la carcerazione.  In attesa che il tribunale dell’appello fissi l’udienza per esaminare il ricorso, va detto che proprio sulle condizioni di salute di Sabrina Misseri la corte d’assise ha usato parole nette, sbarrando la strada alla difesa. Per i giudici, gli avvocati di Sabrina Misseri non hanno voluto realmente «sottoporre all'attenzione di questa corte alcuna questione afferente la salute della imputata: è stata la stessa difesa, infatti, ad ancorare l’indicato oggettivo stato depressivo della Misseri al suo stato detentivo e non anche ad altre patologie. Inoltre, tale stato depressivo è solo asserito e non documentato da alcuna certificazione sanitaria, che, ove fosse stata esistente, come correttamente osservato dal pubblico ministero, sarebbe stata inoltrata dalla casa circondariale alla autorità giudiziaria per le determinazioni di competenza». Secondo il presidente Rina Trunfio e i giudici della Corte, Sabrina deve rimanere in carcere in quanto sussistono il pericolo di fuga e il rischio di reiterazione del reato. Riguardo al primo punto, gli avvocati Nicola Marseglia e Franco Coppi, confutano tali conclusioni sostenendo che «la Misseri è totalmente priva di mezzi e non si vede come e dove potrebbe fuggire». In Germania, dove risiedono dei cugini, c’è l’estradizione e, fra l’altro, non c’è nulla che dimostri che i familiari siano costretti ad accoglierla. Mentre, proseguono i legali, la sua amica Liala Nigro, a quanto pare, non è più a Varsavia. Inoltre, il suo aspetto non è cambiato al punto tale da renderla irriconoscibile e agevolarne la fuga. Il suo volto è stato ripreso e le immagini sono state diffuse malgrado il suo divieto (sono andate in onda in tv anche molto prima della sentenza malgrado il divieto della Corte).
Trattandosi di un omicidio d’impeto determinato, secondo l’accusa, da un movente passionale, si tratta di un fatto isolato, fa notare la difesa, legato ad una circostanza particolare. Pertanto, «sorprendenti sono le considerazioni sul rischio di reiterazione di altri reati fondate sul fatto che colei non ha desistito dall’impresa criminosa nonostante l’uccisione di Sarah Scazzi abbia richiesto alcuni minuti per la sua esecuzione. Data e non concessa la ricostruzione dei fatti compiuta dall’ordinanza impugnata, resta il fatto che il delitto di cui è imputata la Misseri costituisce un fatto isolato motivato da impulsi intimi e passionali». Gli argomenti a sostegno del rigetto, «al di là dell’enfasi stilistica e formale, sono assolutamente inconsistenti», lamenta la difesa che chiede la scarcerazione anche alla luce delle condizioni precarie della ragazza, sollecitando i giudici a disporre accertamenti medici tesi a valutare il suo stato di salute fisico e psichico. Alla luce di tutto ciò, «l’istanza di revoca o di sostituzione della misura cautelare in atto è dettata da un’esigenza di civiltà». Sabrina, insieme alla madre Cosima, è stata condannata all’ergastolo per concorso in sequestro di persona, omicidio e soppressione di cadavere, a conclusione di un processo indiziario con molte zone d’ombra, considerando la tesi accusatoria lacunosa, scrive Annalisa Latartara su “Il Corriere del Giorno”. Sembra che l’azione delittuosa sia circoscritta alle due donne (per il semplice fatto che Michele viene escluso dal delitto) ma manca totalmente la ricostruzione della fase cruciale: quei quattro o cinque minuti in cui Sarah è stata strangolata. Non ci sono elementi per stabilire i ruoli e le responsabilità delle due donne. Non è stato chiarito quale sia stata l’arma del delitto, se Sarah sia stata strangolata con una cintura (secondo la perizia medico-legale del pm), oppure con una tracolla dello zaino o addirittura con una corda, secondo una delle tante versioni Michele Misseri e secondo la perizia di scienza del consulente della difesa della ragazza, il professor Paolo Arbarello. Il dibattimento ha lasciato una serie di dubbi alla camera di consiglio stando alle dichiarazioni irritualmente rilasciate da un giudice popolare ad un quotidiano subito dopo la lettura del dispositivo della sentenza. Dalle dichiarazioni non si evince come quei dubbi sono stati superati. Per saperlo bisognerà attendere ancora. Stando a indiscrezioni, fino a metà febbraio 2014.

Parte l'udienza del 18 febbraio 2014 al Tribunale d'appello per la richiesta di scarcerazione di Sabrina Misseri, condannata all'ergastolo in primo grado per l'omicidio della cugina Sarah Scazzi. E' durata circa un'ora a Taranto l'udienza del Tribunale del Riesame durante la quale è stata discussa a porte chiuse l'istanza di appello contro la decisione della Corte di Assise del capoluogo jonico che il 20 gennaio 2014 ha respinto la richiesta di scarcerazione di Sabrina Misseri, condannata ad aprile 2013 all'ergastolo (insieme alla madre Cosima Serrano) per l'omicidio della cugina Sarah Scazzi, 15 anni, avvenuto ad Avetrana il 26 agosto del 2010. In aula sono intervenuti uno dei difensori dell'imputata, l'avvocato Nicola Marseglia (mentre era assente l'avvocato Franco Coppi), e il pm della Procura di Taranto Mariano Buccoliero. Secondo la difesa di Sabrina non ci sono le esigenze cautelari per tenere la giovane donna in carcere, tra le quali il pericolo di reiterazione del reato e di fuga. Il Tribunale del riesame si è riservata una decisione ma i termini entro cui dovrà decidere non sono perentori, anzi aleatori, così come tutti i tempi adottati dalla magistratura tarantina per questa vicenda. «Credo che abbia deciso di venire in tribunale per assistere all'udienza esclusivamente per prendere aria, per uscire dalla cella, per vedere la strada che separa la casa circondariale da Palazzo di giustizia, per guardare due alberi, vedere qualcosa». Lo ha detto l'avvocato di Sabrina, Nicola Marseglia. «Il fatto che, a distanza di dieci mesi dalla sentenza, la Corte d'Assise non abbia ancora depositato le motivazioni - ha aggiunto Marseglia - è un motivo di sofferenza perchè tutto questo ritarda, congela, i tempi processuali, dilata nel tempo la celebrazione del processo di secondo grado. Però, non abbiamo rimedi dal punto di vista formale. Anche il fatto di aver presentato questo ricorso, in qualche modo è conseguente al ritardo nel deposito delle motivazioni della sentenza. Non si può - ha obiettato il legale - aspettare sempre tutto e tutti per esercitare a pieno il diritto di difesa». Prima di sciogliere la riserva sull'istanza dei difensori, il collegio composto da giudici De Tomasi (presidente), De Michele e Incalza, acquisirà la cartella medica di Sabrina Misseri. Per i legali della 26enne estetista di Avetrana non sussistono esigenze cautelari. «Secondo la stessa impostazione accusatoria – ha detto Marseglia – questo è un delitto d’impeto e, quindi, irripetibile. Noi siamo persuasi dell’assoluta innocenza di Sabrina e non per ipotesi di lavoro ma per convinzione personale. Se si volesse privilegiare una volta tanto la presunzione di non colpevolezza in un processo indiziario come questo – ha aggiunto – io credo che l'accoglimento della nostra istanza, e quindi della nostra impugnazione, sia nelle cose, sia nel rispetto della legge». Per comprendere le ragioni che hanno indotto la Corte d’Assise a decretare le condanne bisognerà attendere il deposito delle motivazioni della sentenza. Dalla lettura del dispositivo sono trascorsi dieci mesi. Gli avvocati ritengono che la Misseri non ha possibilità di fuggire, di commettere altri reati e di inquinare le prove. Inoltre le sue condizioni psico-fisiche non sono compatibili col carcere. Per la procura ionica, invece, ci sono tutti gli elementi a sostegno della custodia cautelare: Sabrina potrebbe facilmente fuggire all’estero con l’aiuto di parenti ed amici, potrebbe inquinare le prove ed avvicinare il padre fornendogli una versione del delitto più credibile (Michele Misseri ha più volte cercato di accusarsi dell’omicidio ma non è stato ritenuto credibile ed è stato condannato solo per la soppressione del cadavere) e potrebbe commettere nuovi reati vista l’efferatezza ed i futili motivi del delitto di cui è accusata.

Dopo 10 mesi non è ancora stata depositata la motivazione della sentenza di Avetrana. Dal 20 aprile 2013 ad oggi sono passati dieci mesi e ancora la Corte d'assise di Taranto non ha depositato le motivazioni della sentenza con la quale quel giorno ha condannato Sabrina Misseri e sua madre Cosima all'ergastolo come colpevoli dell'uccisione della cugina e nipote Sarah Scazzi. E' l'ennesima, clamorosa, scoraggiante prova di come funziona la giustizia in Italia. Anzi, di come non funziona, scrive “L’Altro Quotidiano”. E pensare che quella è una condanna fondata non su prove, ma solo su indizi che devono essere spiegati, motivati, suffragati; quindi i magistrati giudicanti hanno l'obbligo, oltre che professionale, anche morale di dare ai difensori delle due imputate gli elementi da esaminare e valutare per poterle contestare in sede di appello. La notizia di questo inammissibile ritardo si è diffusa oggi, quando Sabrina Misseri è comparsa nel palazzo di giustizia di Taranto per assistere all'udienza sul ricorso contro la decisione della Corte d'Assise di rigettare l'istanza di scarcerazione presentata dai suoi legali.  Ricordiamo che il delitto avvenne il 26 agosto 2010 ad Avetrana (Taranto) e che molti giorni dopo lo zio di Sarah (padre di Sabrina e marito di Cosima), Michele Misseri, fece ritrovare il cadavere della povera ragazzina quindicenne nella buca in campagna dove lo aveva nascosto e confessò di essere lui stesso l'assassino e di aver straziato il cadavere. Poi ritrattò accusando la figlia, ma successivamente ritrattò ancora per confermare la sua responsabilità, su cui ha ripetutamente insistito. Ma i giudici lo scarcerarono, propendendo per la tesi, che ha ottenuto ovviamente molto maggiore attenzione dai mass media, che a commettere l'atroce delitto  fossero le due donne, inutilmente proclamatesi innocenti.

Il 3 marzo 2014, come volevasi dimostrare con l’istanza di rimessione del processo per legittimo sospetto che i magistrati dell’accusa ed i giudici giudicanti fossero una cosa sola rispetto alle esigenze giustizialiste della massa, il Tribunale del riesame di Taranto ha respinto l’istanza di scarcerazione di Sabrina Misseri, la 23enne di Avetrana condannata l’anno scorso all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Taranto per aver ucciso, il 26 agosto del 2010, la cugina Sarah Scazzi. Insieme a Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo per lo stesso delitto anche la madre, Cosima Serrano. I giudici dell’appello del tribunale di Taranto hanno respinto la richiesta di scarcerazione di Sabrina Misseri. Dopo la Procura e la Corte d’assise, dunque, anche per i giudici di appello la giovane è ancora pericolosa, potrebbe macchiarsi di nuovo di episodi di violenza, potrebbe fuggire ed inquinare le prove, pertanto deve rimanere in carcere. Respinta anche al richiesta degli arresti domiciliari. Quanto infine ai presunti problemi di depressione denunciati dai difensori, i magistrati rilevano (come già la Corte d’Assise) che non è stata presentata alcuna documentazione clinica sullo stato di salute della Misseri. Per i magistrati restano invariati i gravi indizi di colpevolezza a carico della Misseri ed i rischi di reiterazione del reato, fuga e inquinamento delle prove. La difesa sosteneva che pur condividendo le tesi che portarono alla condanna, si trattò di un fatto isolato e motivato da impulsi intimi e passionali. Per i giudici, invece, il rischio di recidiva è dettato dalla stessa dinamica del tragico delitto: dopo aver carpito la buona fede della cugina, la Misseri avrebbe agito per futili motivi di gelosia dimostrando una personalità aggressiva, inseguendo la vittima, strangolandola per un periodo non inferiore ai due minuti (alcuni consulenti sostengono anche 4-5 minuti) agendo con lucidità e poi con estrema freddezza ha cercato di procurarsi un alibi utilizzando il cellulare della vittima subito dopo il delitto, contribuendo infine alla soppressione del cadavere e calunniando la badante di casa per depistare le indagini. Inoltre il Tribunale fa presente che da parte della difesa della detenuta non è stata prodotta alcuna documentazione medica che attesti uno stato di salute della ragazza incompatibile con il regime carcerario. Nell'appello i legali di Sabrina, gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia, avevano chiesto la scarcerazione della loro assistita sostenendo, tra l'altro, che la ragazza si trova in un profondo stato di depressione. Sabrina Misseri è detenuta nel carcere di Taranto dal 15 ottobre 2010. La sentenza di condanna all'ergastolo è stata emessa dalla Corte di Assise di Taranto nell'aprile 2013. Le motivazioni della sentenza, a quasi un anno dalla condanna, non sono state ancora depositate. “Sabrina Misseri è a pezzi e va scarcerata perché non ci sono le esigenze cautelari”. Così aveva detto al Tribunale del Riesame l’avvocato Nicola Marseglia che insieme a Franco Coppi difende Sabrina Misseri. All’udienza aveva partecipato anche Sabrina, ma solo “per prendere aria e guardare due alberi” aveva poi aggiunto il legale. Finiti gli interventi della difesa, i giudici del Riesame – chiamati a decidere se confermare la custodia cautelare in carcere, come aveva già stabilito la Corte d’Assise respingendo un precedente ricorso, oppure liberare la ragazza – si erano ritirati per emettere il provvedimento. Che è arrivato appunto oggi ed è sfavorevole per Sabrina, che resta così in carcere A distanza di dieci mesi dalla condanna in primo grado e in attesa delle motivazioni della sentenza, Sabrina Misseri – aveva ripetuto in quell’occasione la difesa – potrebbe lasciare il carcere e attendere l’esito del giudizio fino alla Cassazione, magari ai domiciliari. Nel provvedimento con il quale la Corte d’Assise aveva rigettato la richiesta di scarcerazione, i giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini hanno spiegato motivi per i quali la ragazza non poteva essere liberata.

“Sabrina Misseri – hanno scritto i giudici dell’Assise De Tomasi, De Michele e Incalza, così come riportato da “Il Paese Nuovo” – ha ucciso Sarah Scazzi per motivi futili e socialmente riprovevoli che non possono giustificare e nemmeno attenuare la gravità di un omicidio: lo ha fatto perché la ragazzina si era intromessa nel rapporto, sentimentale e sessuale, che la imputata aveva con Ivano Russo, portandolo alla definitiva rottura”. Inoltre, hanno detto ancora i giudici della Corte d’Assise, Sabrina avrebbe ucciso anche perchè Sarah, “in quella prima meta dell’agosto 2010 aveva in alcune occasioni messo in ridicolo la cugina anche davanti ad altri ragazzi della comitiva; perchè in una circostanza la ragazzina aveva svelato al fratello Claudio un rapporto sessuale tra la Misseri ed il predetto Russo”. Ancora: Sabrina Misseri, nell’uccisione della cugina Sarah Scazzi – omicidio avvenuto ad Avetrana – avrebbe evidenziato “una freddezza, una lucidità ed una capacità organizzativa logicocriminale senza dubbio fuori dal comune” soprattutto nei minuti successivi all’omicidio quando “ha effettuato, utilizzando il cellulare della cugina ormai morta, una sequenza di sms e squilli che avrebbe dovuto dimostrare la esistenza in vita della Scazzi”. A tutto ciò infine, hanno detto ancora i giudici dell’Assise, si aggiunge che “la ragione principale per ritenere ancora concreta ed attuale la esigenza di cautela in questione è rappresentata dalla “gestione” che l’imputata prima – e la madre poi – hanno fatto di Michele Misseri il quale, nonostante con tutte le sue forze si accusi dell’omicidio, non riesce ad essere credibile. Ebbene se Sabrina Misseri fosse rimessa in libertà forse riuscirebbe nell’indottrinamento del padre meglio di chiunque, prima di lei, ci abbia provato”.

PER SABRINA FINE PENA MAI, ANCHE SE PRESUNTA INNOCENTE.

La prima sezione penale della Cassazione ha confermato la custodia in carcere per Sabrina Misseri, la ragazza condannata all'ergastolo dalla Corte d'assise di Taranto, in primo grado, per l'omicidio di sua cugina Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana il 26 agosto 2010. Lo ha deciso la prima sezione penale della suprema corte. In particolare, i supremi giudici, hanno respinto il ricorso dei legali di Sabrina Misseri contro l'ordinanza con la quale il tribunale del Riesame di Taranto, lo scorso 18 febbraio, aveva confermato la custodia in carcere disposta dalla corte d'assise di Taranto a carico della Misseri, bocciando il ricorso presentato dalla difesa di Sabrina che chiedeva la detenzione domiciliare. In particolare, il ricorso della difesa della giovane rappresentata da Franco Coppi e da Nicola Marseglia era volto a ribaltare l'ordinanza del Tribunale della libertà di Taranto dello scorso 18 febbraio. Anche il sostituto procuratore generale della Cassazione Antonio Gialanella, aveva chiesto il rigetto del ricorso presentato dal professor Franco Coppi e l'avvocato Nicola Marseglia. L'udienza si è svolta in Camera di consiglio lo scorso venerdì 27 e l'esito si è appreso stamani 30 giugno 2014. Secondo i legali Sabrina in carcere sta male e non ci sono esigenze cautelari che le impongano di aspettare il processo di secondo grado in cella. Per i difensori Sabrina non può commettere altri delitti (visto che anche secondo l’accusa si è trattato di un omicidio di impeto), né fuggire o inquinare le prove.

Per i magistrati tarantini, invece, Sabrina potrebbe fuggire all’estero con l’aiuto di parenti ed amici, potrebbe inquinare le prove ed avvicinare il padre fornendogli una versione del delitto più credibile (Michele Misseri ha più volte cercato di accusarsi dell’omicidio ma non è stato ritenuto credibile ed è stato condannato ad otto anni solo per la soppressione del cadavere) e potrebbe commettere nuovi reati vista l’efferatezza ed i futili motivi del delitto di cui è accusata.

Per i giudici il rischio di recidiva è dettato dalla stessa dinamica del tragico delitto: dopo aver carpito la buona fede della cugina, la Misseri avrebbe agito per futili motivi di gelosia dimostrando una personalità aggressiva, inseguendo la vittima, strangolandola per un periodo non inferiore ai due minuti (alcuni consulenti sostengono anche 4-5 minuti) agendo con lucidità e poi con estrema freddezza ha cercato di procurarsi un alibi utilizzando il cellulare della vittima subito dopo il delitto, contribuendo infine alla soppressione del cadavere e calunniando la badante di casa per depistare le indagini. Niente da fare per Sabrina Misseri: la detenzione a cui si trova sottoposta dall’ottobre del 2010 per l’omicidio della cugina Sarah Scazzi dovrà proseguire, scrive “Il Corriere del Giorno”. Dopo il rigetto dell’istanza di libertà disposto dalla Corte d’Assise lo scorso gennaio, la nuova “doccia fredda” per la giovane imputata è arrivata ieri mattina, quando i giudici dell’Appello hanno depositato il loro parere sulla seconda richiesta di scarcerazione. Preso atto di quanto illustrato da pubblica accusa e difesa in occasione dell’udienza tenuta il 18 febbraio, l’organo giudicante non ha ravvisato gli estremi per procedere ad una variazione dell’attuale stato cautelare dell’inquisita. A giudizio dei magistrati chiamati a decidere sulla questione, gli indizi di colpevolezza a carico della Misseri rimangono inalterati. Così come le esigenze da salvaguardare. Fra queste ultime il Tribunale ha fatto specifico riferimento alla necessità di scongiurare un’eventuale reiterazione del reato per il quale Sabrina è stata condannata all’ergastolo. Nel suo provvedimento, il collegio giudicante ha posto in risalto come “ La sussistenza di recidiva specifica è giustificata, infatti, dalla natura del tragico episodio delittuoso ascritto alla Misseri di cui è rimasta vittima la giovane cugina di 15 anni la cui buona fede la ricorrente ha slealmente carpito abusando dei rapporti di amicizia e parentela”. L’omicidio, continua il Tribunale, sarebbe stato commesso per un motivo futile come quello della gelosia per Ivano Russo con cui la Misseri aveva avuto rapporti sentimentali, rapporti in cui la povera Sarah si era intromessa fino al punto da rivelare pure alcuni particolari ad amici. Ciò che hanno rimarcato i giudici dell’Appello (presidente il dott. Alessandro de Tomasi, a latere la dott.ssa Paola Incalza ed il dott. Massimo De Michele) è stata anche “la personalità aggressiva concretamente rivelata dalla Misseri e la compulsività dell’agire”, una situazione che ha indotto i magistrati a ritenere attuale la possibilità che, qualora scarcerata, Sabrina possa reiterare i fatti per i quali è stata riconosciuta colpevole. Il quadro che è stato delineato nel provvedimento ha poi tenuto conto del pericolo di fuga e di inquinamento probatorio (a tal proposito, il Tribunale ha ricordato alcuni passaggi evidenziati dalle indagini, in cui l’imputata avrebbe depistato l’attività investigativa arrivando ad adombrare, nei giorni in cui il cadavere non era stato ancora ritrovato, la possibilità che Sarah potesse esser stata rapita). Alla luce di tutto questo, i giudici hanno rilevato come quella della Misseri sia “una personalità scaltra e disinvolta che non esiterebbe certamente a sottrarsi all’esecuzione della pena dell’ergastolo così violando le prescrizioni dei domiciliari”. A nulla poi è valso, per l’eventuale modifica dello stato cautelare, l’argomento relativo alle condizioni di salute dell’imputata. La difesa della giovane inquisita (avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia) ha evidenziato come la propria cliente versi in una situazione depressiva chiaramente incompatibile con il regime carcerario. Ma sul punto i giudici hanno obiettato che nessun tipo di certificazione è risultata in grado di confermare questo stato di cose. Secondo il Tribunale dell’Appello, l’imputata non versa in condizioni di salute di particolare gravità. “Nel caso in esame – si legge nel provvedimento – la difesa della Misseri ha rappresentato unicamente uno stato depressivo, direttamente ed esclusivamente collegato alla detenzione in carcere, che ha richiesto la necessità di osservazione e assistenza psichiatrica. Premesso che l’asserita inadeguatezza delle modalità di queste ultime sono di esclusiva competenza dell’Amministrazione penitenziaria ed esulano da quella dell’Autorità Giudiziaria, com’è noto la patologia psichica più frequentemente riscontrabile in ambito carcerario è rappresentata da stati ansioso-depressivi reattivi alla detenzione.” I giudici sostengono che “l’ingresso in carcere rappresenta inequivocabilmente un sovvertimento sostanziale delle abitudini e dello stile di vita della persona per cui è da considerarsi implicito un grado di sofferenza psichica.” Da tutto questo, l’organo giudicante ha rilevato elementi per considerare le condizioni di salute della Misseri rientranti in una situazione ordinaria che “non necessita, allo stato, di ulteriori approfondimenti.”

Una attesa senza soluzione di continuità.

La sentenza di primo grado: 8 anni per Michele Misseri, rendiconta Maria Corbi. Una lunghissima attesa, cinque giorni, e alla fine il verdetto: colpevoli. Sabrina e Cosima condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi, Michele Misseri a otto anni per concorso nella soppressione del cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Un applauso è partito dal pubblico alla lettura della pena. La presidente della Corte ha interrotto un attimo la lettura della sentenza per richiamare tutti all’ordine e ha poi proseguito. La corte di Assise ha condannato a sei anni di reclusione ciascuno per concorso in soppressione di cadavere Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello e nipote di Michele Misseri. Un processo che è durato 15 mesi, con accusa e difesa che si sono confrontate senza esclusione di colpi sulla ricostruzione del delitto di Sarah Scazzi, uccisa nel garage della villetta di via Deledda ad Avetrana. Da Michele o invece dalle donne di casa? In questa domanda quindici mesi di udienze. Un giallo che adesso ha una soluzione giudiziaria, seppure solo in primo grado, una storia che ha stravolto un paese e appassionato milioni di telespettatori di talk show. Tutto è iniziato il 26 agosto quando Sarah, esce da casa dopo pranzo per andare al mare con la cugina Sabrina e l’amica Mariangela. Ma non arriverà mai. Le ricerche sono serrate ma non portano a nulla fino a che Michele Misseri il 29 settembre dice di trovare il cellulare della nipotina in campagna. Pochi giorni e il 6 ottobre dopo 9 ore di interrogatorio confessa spiegando non solo di avere ucciso ma anche di aver violato il cadavere. Gli inquirenti però sono convinti che in questa confessione manchi qualcosa, l’aiuto di Sabrina. E a un certo punto Michele cambia versione, e negando il vilipendio del cadavere tira dentro la figlia che viene arrestata il 15 ottobre. Prima dice che Sabrina teneva Sarah mentre lui la strangolava, poi che Sabrina ha chiesto il suo aiuto solo per occultare il cadavere, e all’incidente probatorio che in garage Sarah è stata vittima di un incidente mentre Sabrina giocava a cavalluccio. Quando scopre dalle guardie penitenziarie che Sabrina è stata arrestata chiede di parlare con i pubblici ministeri, vuole ritrattare. Ma i pm non lo ascoltano e allora lui inizia a scrivere lettere alla figlia chiedendo scusa e spiegando che ha «fatto la falsa» perchè gli avrebbero promesso che sarebbero usciti entrambi in pochi anni. Non c’è niente da fare. A Michele i pm non credono nonostante lui confermi la sua colpevolezza davanti all’avvocato Franco Coppi, che nel frattempo è intervenuto a difesa di Sabrina. Due sentenze della Cassazione sanciscono che non ci sono elementi sufficienti che giustifichino la carcerazione di Sabrina, ma il Tribunale del riesame di Taranto non modifica la sua linea: Sabrina resta in carcere. E sarà raggiunta il 26 maggio 2011 da sua madre Cosima. Ad accusarla il sogno di un fioraio secondo cui Cosima e Sabrina avrebbero prelevato Sarah per strada trascinandola in auto. E’ la madre della commessa del fioraio a raccontare il sogno ai carabinieri. Il fioraio va alla caserma e lo racconta, ma le sue dichiarazioni vengono verbalizzate come fossero realtà. Quando se ne accorge l’uomo pretende che il verbale sia corretto. Lo fanno, ma lui viene denunciato per false dichiarazioni. Finisce sotto processo lui e altri suoi 5 parenti e amici che confermano ai pm di aver sempre saputo che quel racconto si riferiva a un sogno. Ma Cosima resta in carcere Cosima e Sabrina coabitano in carcere, nella stessa cella, mentre Michele rimane libero nonostante continui a dire che è stato lui e solo lui a uccidere Sarah. La sua posizione nel processo rimarrà solo per occultamento e soppressione di cadavere. Inizia il processo il 10 gennaio del 2012. Il 31 gennaio viene sentito il teste Ivano Russo, il «Ridge» di Avetrana e secondo i pubblici ministeri il movente. Sabrina sarebbe stata gelosa delle attenzioni che il ragazzo aveva per la cuginetta che stava diventando una magnifica donna. «Con Sabrina - dice Russo - si instaurò mano a mano un rapporto confidenziale. Ad un certo punto però vidi da parte sua atteggiamenti ambigui, complimenti che andavano oltre. Le ho chiesto se per lei era ancora amicizia o qualcos’altro, e lei mi disse che era amicizia». Il movente della gelosia ossessiva viene smentito e Ivano finisce nei guai (insieme ad altri 7 testi) accusato di false dichiarazioni al pm. Il 20 novembre viene ascoltata Sabrina: «Reputavo Sarah una sorella minore, non una cugina, e la trattavo di conseguenza. Qualche rimprovero sì, ma non litigi». Michele Misseri il 5 dicembre conferma in aula: «Ho ucciso io Sarah, questo rimorso non lo posso più portare dentro di me». Un processo nervoso. Il 29 gennaio uno dei sei giudici popolari viene «pescato» mentre esprime giudizi poco lusinghieri su una testimone favorevole alla difesa di Sabrina durante la deposizione di quest’ultima. Si astiene ufficialmente e viene sostituito con un giudice supplente. Il 25 febbraio inizia la requisitoria dell’accusa. Il 5 marzo le richieste di condanna: ergastolo per Sabrina e Cosima, nove anni per Michele Misseri, otto anni per Carmine Misseri e Cosimo Cosma, pene minori per altri quattro imputati. Il 25 marzo, prima che inizino le arringhe della difesa di Sabrina, un video «fuori onda» tra presidente della Corte e giudice a latere, risalente al 19 marzo, induce la difesa di Sabrina a chiedere alla Corte se non intenda astenersi dal processo. Secondo la difesa quei commenti (tra cui «non potranno negare in radice») possono rappresentare un pregiudizio. Il 26 marzo la Corte d’Assise decide di astenersi dal processo, rimettendo gi atti al presidente del Tribunale, che il giorno dopo rigetta l’astensione e dispone la prosecuzione del processo. Il 15 aprile si chiudono le repliche dei difensori e alle 17.30 la Corte si ritira in camera di consiglio. Oggi, 20 aprile 2013, la sentenza.

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui". Molti di questi studi si basano sulla teoria del confronto sociale, l'idea è che quando le persone intorno a noi hanno avuto eventi sfortunati, guardiamo meglio noi stessi. Altri ricercatori hanno scoperto che le persone con una bassa autostima sono più propensi a provare Schadenfreude rispetto a persone che hanno una grande autostima. Schadenfreude. Alzi la mano chi sa che cos’è. Quasi nessuno? Strano. Perché se chiedessi chi l’ha provata, tutti dovremmo alzare non una ma entrambe le mani. Non me la voglio tirare: so che cosa sia la Schadenfreude solo perché ne ho sentito parlare per radio e, ravanando un po’ su Google, sono poi riuscito a risalire alla pagina di Wikipedia che ne parla. Il termine è tedesco, e indica il piacere infame provocato dalla sfortuna altrui. Pensate che occorra essere precisi come i tedeschi per dare un nome a un sentimento così meschino e diffuso? Errorissimo. In lingue diverse ha nomi diversi, dall’arabo al cinese, e compare in numerosi proverbi che spiegano come la Schadenfreude sia l’unica vera gioia, quella che arriva dal più profondo del profondo. Ma perché si gode delle disgrazie degli altri? Studi basati sulla teoria del confronto sociale affermano che se intorno a noi ci sono persone maltrattate dalla sfortuna, si finisce col guardare meglio a se stessi. Ci si sente migliori, in altre parole. Altri ricercatori hanno invece notato che le persone con un’autostima sotto i piedi provano più facilmente la Schadenfreude rispetto a chi ha di sé un’immagine più positiva. Per far capire ancora meglio che cosa sia la Schadenfreude voglio citare un esempio per comporre il quale è stata indispensabile l’enciclopedica conoscenza del calcio del mio amico Luca Ceste. Che, da juventino qual è, specifica che i “cugini” granata son più contenti quando perde la Juve che quando vince il Toro (non che godano spesso, nell’uno o nell’altro caso...). Comunque: al termine del campionato 1999- 2000 il Toro è condannato alla serie B. Ma all’ultima giornata la Juventus è sconfitta nella “piscina di Perugia”, il campo allagato da un violento nubifragio. La Lazio invece vince, sorpassa i bianconeri e acchiappa lo scudetto: sai che Schadenfreude per i torinisti! Ognuno provi a chiedersi quand’è l’ultima volta che ha provato Schadenfreude. E poi se lo tenga per sé, dato che probabilmente non sarà cosa di cui vantarsi. E infatti il filosofo Arthur Schopenhauer ci ricorda che «Provare invidia è umano, godere della Schadenfreude è diabolico». Come opposto voglio invece citare il concetto di mudita che, nel Buddhismo, è la felicità per la buona sorte dell’altro. E’ la forma più perfetta dell’amore: come il marito che è contento per il successo della moglie o il genitore che gioisce per la felicità del figlio. Perciò credo che le cose andrebbero meglio per tutti, se nel nostro quotidiano ci fosse più mudita e meno Schadenfreude.

Gli americani a volte usano l’espressione «Roman holiday», con un chiaro riferimento ai crudeli giochi gladiatori. I tedeschi hanno un termine ancora più preciso per descrivere la gioia malevola che si può provare davanti alle sofferenze degli altri. Schadenfreude, scrive Anna Meldolesi su “Il Corriere della Sera”. È il rovescio della medaglia dell’empatia, e probabilmente il più vigliacco dei sentimenti. In italiano non esiste una parola del genere, ma non c’è dubbio che anche noi siamo capaci di avvertire un perverso piacere quando vediamo cadere qualcuno nel fango. Tanto più se era potente e riverito prima di finire in disgrazia, e se a difenderlo non c’è rimasto nessuno. È una miscela tossica di insoddisfazione di sé, risentimento e sadismo, che a volte sporca il più nobile dei sentimenti: il desiderio di giustizia sociale. Pensiamo ai blitz della guardia di finanza a Cortina e nei luoghi della movida milanese. Erano utili e necessari, anche dal punto di vista simbolico. Ma quanti di noi, invece di limitarsi ad approvare l’operato dell’Agenzia delle entrate, hanno gongolato? Oppure prendiamo la tragedia della Costa Concordia. Davvero i balbettii di Schettino, mentre veniva strigliato dall’implacabile De Falco, andavano trasmessi e ascoltati tutte quelle volte, morbosamente, fino a diventare uno slogan da t-shirt? E la pioggia dimonetine fuori dal Raphael ai tempi di Tangentopoli, era isterica rivolta morale o linciaggio puro? Storici e primatologi testimoniano che un maschio alfa può essere deposto da una coalizione di primati di basso rango. Gli psicologi sociali, d’altronde, sanno che i gruppi possono esprimere una violenza che moltiplica i tassi di aggressività individuali. Ma il piacere per le sventure altrui è già annidato nel cervello dei singoli, in ciascuno di noi. Soprattutto in chi ha una bassa autostima, come confermano diversi lavori scientifici, l’ultimo dei quali pubblicato a dicembre su «Emotion». I neuroscienziati che lo studiano hanno adottato la parola tedesca nata dalla fusione di avversità e gioia (Schaden più Freude) e hanno appurato che la Schadenfreude è parente stretta di uno dei sette peccati capitali: l’invidia. I meccanismi cognitivi dello shakespeariano mostro dagli occhi verdi sono stati rivelati sulla rivista «Science» da Hidehiko Takahashi, con l’aiuto della risonanza magnetica funzionale. Il gruppo giapponese ha scoperto che quando si è invidiosi del successo di qualcuno si attiva la corteccia cingolata anteriore, nel circuito neurale del dolore. Quando si gioisce della sfortuna altrui, invece, si attiva lo striato, che fa parte del circuito della ricompensa. Lo stesso che dispensa dopamina e piacere quando ci concediamo vizi e svaghi gratificanti. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche inmodo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Quando sentiamo piagnucolare un comandante che ha abbandonato la nave per primo, chiunque può pensare: io valgo di più. Ma resta il fatto che non tutti ce ne compiaciamo allo stesso modo. I soggetti studiati da Takahashi mostrano gradi variabili di attivazione dei centri dell’invidia, una volta messi di fronte a un soggetto che possiede qualità superiori alle proprie, così come dei centri della Schadenfreude quando il loro termine di paragone cade in disgrazia. Chi più soffre nella prima fase, più gioisce nella seconda. Spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro, come spiega la neuropsicologa olandese Margriet Sitskoorn nel suo I sette peccati capitali del cervello, appena pubblicato da Orme. Se Otello è il simbolo universale della gelosia, l’invidia ha le sembianze di Iago. È invidioso del potere, delle virtù, della bella moglie del moro di Venezia, ed è invidioso di Cassio che è stato promosso al suo posto. Per salvare l’amor proprio, trasforma la felicità altrui in tragedia. Nella realtà, le dimostrazioni di questo perverso gioco di dolore e piacere possono essere ben più banali: piacciono le foto delle star immortalate senza trucco, piace vedere una multa sul cruscotto di un Suv. Ma non sempre l’invidia è così sciocca o così pericolosa. A volte l’attenzione ossessiva verso le qualità e i difetti degli altri diventa una molla per migliorare. Altre volte quella che sembra invidia è piuttosto un risentimento per le ingiustizie subite. Sono celebri gli esperimenti in cui Frans de Waal ha dimostrato che sia gli scimpanzé che le scimmie cappuccine si ribellano ai trattamenti iniqui. Se gli si offre un pezzo di cocomero come premio per aver svolto un compito, gli animali sono ben contenti. Ma se si accorgono che a un altro esemplare viene data dell’uva, non sono più disposti ad accettare una ricompensa che considerano meno appetibile. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più. Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. E allora diventa facile pensare: quel politico non ha il mio curriculum e guarda dov’è arrivato. Se viene travolto da uno scandalo, non ce ne rammarichiamo più di tanto. Secondo Sitskoorn, comunque, l’invidia non ha a che fare tanto con l’ingiustizia quanto, più in generale, con la disuguaglianza. Scatta soprattutto quando l’altro possiede più di noi perché è migliore di noi, anche se non sempre siamo disposti ad ammetterlo. Attenzione, ammonisce la neuropsicologa, il travestimento dell’invidia con i panni dell’ingiustizia può risultare talmente perfetto che alla lunga finiamo noi stessi per crederci.

I PENTITI DEL GOSSIP GIUSTIZIALISTA.

"Scrivete la verità" perché altrimenti è un male. E' l'appello lanciato dal fuciliere di Marina, Massimiliano Latorre, parlando con i cronisti all'ambasciata italiana a New Delhi. "Ci sono due inchieste aperte. Non posso essere io a chiarire le cose", ha aggiunto. Il marò, trattenuto in India dal febbraio 2012 assieme al suo collega Salvatore Girone, in una conversazione con i giornalisti che hanno accompagnato la delegazione di parlamentari italiani in missione a New Delhi ha invitato poi "a riascoltare l'intervista al comandante in seconda della petroliera Enrica Lexie Noviello" per avere un quadro più chiaro sulla loro complicata vicenda. Raggiunto al telefono nel marzo scorso, il comandante Noviello aveva definito "un'invenzione" la morte dei pescatori indiani. Secondo la sua ricostruzione, infatti, i due marò avrebbero sì sparato ma dei colpi di avvertimento in acqua, secondo le procedure previste. Lo scontro a fuoco ci sarebbe effettivamente stato ma all'interno del porto di Kochi e senza il coinvolgimento dell'Enrica Lexie, bensì tra la guardia costiera locale e l'imbarcazione sospetta che stava tentando l'approccio alla nave su cui si trovavano i fucilieri della marina italiana.

La disinformazione, l’arroganza e la permalosità dei giornalisti è nota.

Ed eccolo, quell’articolo su Repubblica contro Giovanni Falcone, scrive Ciro Pellegrino. Abbiamo recuperato l'introvabile articolo di Sandro Viola che nel gennaio 1992 si scagliava contro Giovanni Falcone, accusandolo di essere un "guitto televisivo". Qualche giorno dopo sullo stesso giornale Giuseppe D'Avanzo difendeva il giudice antimafia: "Non ha mai avuto una vita facile". È il 9 gennaio del 1992, un giovedì. Il quotidiano la Repubblica in quel periodo vende mediamente circa 750mila copie. Nella pagina dedicata ai commenti viene pubblicato un articolo dal titolo “Falcone, che peccato…” vergato da Sandro Viola, firma di punta del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. L’argomento del commento è il giudice antimafia che Viola prende di mira per via della sua esposizione mediatica. Un pezzo durissimo che oggi, a vent’anni dalla strage di Capaci che fece saltare in aria Falcone, la moglie e la scorta, ritorna a galla con la violenza d’una colpa. L’articolo, introvabile nell’archivio online di Repubblica, è oggetto di discussione in queste ore sulla Rete, ma nessuno l’ha pubblicato integralmente, in maniera da consentire al lettore un’autonoma valutazione.

Eccolo, l’articolo, in versione integrale: recuperato grazie all’Emeroteca Tucci di Napoli. Che ognuno faccia le sue valutazioni dopo averlo letto. Viola attacca definendo Giovanni Falcone “magistrato che alla metà degli anni Ottanta inflisse alcuni duri colpi alla mafia”. Una definizione quanto meno riduttiva per l’anima del maxi-processo di Palermo, per colui che, lo dicono i suoi colleghi magistrati, individuò nuove tecniche e nuovi metodi per l’approccio alla questione mafiosa. Continua Viola: “da qualche tempo sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato”. Poi, l’accusa di essere diventato una sorta di esternatore, al pari dell’allora Capo dello Stato, il “picconatore” Francesco Cossiga: “Egli è stato preso – scrive Viola su Repubblica – infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, che divora tanti personaggi della vita italiana – a cominciare, sfortunatamente per la Repubblica, dal Presidente della Repubblica”. La preoccupazione dell’editorialista è che Giovanni Falcone abbia perso il suo equilibrio. Gli chiede di lasciare la magistratura viste le sue rubriche sulle pagine dei giornali: “Perché nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l’attività pubblicistica”. “Quel che temo, tuttavia – continua il pezzo – è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe più placarsi con un paio di interviste all’anno. La logica e le trappole dell’informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva tendono a trasformare in ansiosi esibizionisti anche uomini che erano, all’origine, del tutto equilibrati”. Poi si passa all’analisi, anzi alla demolizione, del libro ‘Cose di cosa nostra’ scritto da Falcone con la giornalista francese Marcelle Padovani pure lei nel mirino della penna al vetriolo di Viola: “E scorrendo il libro-intervista di Falcone ‘Cose di cosa nostra’ s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi”. Nel finale, Viola, pur ammettendo di trovarsi davanti ad un “valoroso magistrato” si chiede “come mai desideri essere un mediocre pubblicista”. Il giornalista ignorava che il giudice aveva intuito qualcosa: la necessità di comunicare ad una platea più vasta, da magistrato, la mentalità mafiosa. Inoculare il virus ai giovani come un vaccino, in maniera da renderli resistenti al fascino della cultura dell’omertà e della morte. “Non ha mai avuto una vita facile e anche stavolta c’è chi farà di tutto per rendergliela difficile”: qualche giorno dopo, dalle colonne della stessa Repubblica, qualcuno scriveva questa frase, riferendosi a Giovanni Falcone. Quel qualcuno si chiamava Giuseppe D’Avanzo.

L'articolo del gennaio 1992 firmato da Sandro Viola su Repubblica contro Giovanni Falcone.

“D’un uomo come Giovanni Falcone, il magistrato che alla metà degli anni Ottanta, dal suo posto alla Procura di Palermo, inflisse alcuni duri colpi alla mafia, si vorrebbe dire tutto il bene possibile. O quanto meno, per evitare di trovarsi nella pessima compagnia di certi suoi detrattori, non si vorrebbe dire male. E tuttavia, da qualche tempo sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s’era guadagnato. Egli è stato preso, infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell’impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più implacabile dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, che divora tanti personaggi della vita italiana – a cominciare, sfortunatamente per la Repubblica, dal presidente della Repubblica – spingendoli a gareggiare con i comici del sabato sera, con il prof. Sgarbi, con i leaders di partito, con i conduttori di «talkshows», con gli allenatori di calcio, insomma con tutti coloro che ci affliggono quotidianamente, nei giornali e alla televisione, con le loro fumose, insopportabili logorree. Ecco quindi il magistrato Falcone, oggi ad uno dei posti di vertice del ministero di Grazia e Giustizia, divenuto uno dei più loquaci e prolifici componenti del carrozzone pubblicitario italiano. Articoli, interviste, sortite radiofoniche, comparse televisive. E come se non bastasse, libri: è uscito da poco, infatti, un suo libro-intervista dal titolo accattivante, un titolo metà Sciascia e metà «serial» televisivo, «Cose di cosa nostra», che con il suo suono leggero, la sua graziosa allitterazione, a tutto fa pensare meno che ai cadaveri seminati dalla mafia. Concludendo: ecco il giudice Falcone entrato a far parte di quella scalcinata compagnia di giro degli autori di «istant books», degli «opinionisti al minuto», dei «noti esperti», degli «ospiti in studio», che sera dopo sera, a sera inoltrata – quasi un «memento mori» –, s’affacciano dagli schermi televisivi. Né il giudice Falcone può invocare la sua esperienza del crimine, e del crimine mafioso in particolare, come giustificazione di tanti interventi. Certo, ci sono materie in cui la parola va data al «noto esperto»: la gastronomia, poniamo, il giardinaggio, il salvataggio dei monumenti. Nulla osta, infatti, acché queste materie vengano trattate in tutta libertà, col più esplicito dei linguaggi. Ma parlare del crimine quando si ricopre un’altissima carica nell’amministrazione della giustizia, è diverso. Intanto, si pone il problema formale della compatibilità tra la funzione nell’apparato statale e l’attività pubblicistica. E poi c’è un elemento sostanziale. Trattare la materia mafiosa quando si è, allo stesso tempo, un magistrato coinvolto a fondo nella lotta alla mafia, impone un riserbo. Costringe, se non proprio all’evasività a discorsi generici. Infatti, dal dr. Falcone lo spettatore televisivo, il lettore dei suoi articoli, ricaverà quasi sempre molto poco. Perché quello che il direttore degli Affari Penali sa, non può certo essere detto interamente, e quello che pensa – se appena l’argomento è un po’ delicato – va detto con estrema cautela.

Il risultato è che le esternazioni del dr. Falcone risultano quanto mai nebulose. Così, qualcuno penserà che egli non sa niente di niente sulla criminalità organizzata, un altro crederà che lancia messaggi trasversali, un altro ancora riterrà che ciurla nel manico, un ultimo sospetterà che non sa

esprimersi. E dunque che senso può avere pronunciarsi (come il giudice Falcone fa così di frequente), quando il decoro della funzione giudiziaria, gli obblighi di discrezione connessi alla carica, impediscono giustamente di non essere troppo espliciti? Non si potrebbe rispondere alle segretarie di redazione del Tg2 e del Tg3 che telefonano per organizzare una trasmissione, «Grazie, ma sono occupato»? Beninteso, rimproverare al giudice Falcone di contribuire senza risparmio al «ronzio incessante di commenti estetici, di opinioni al minuto, di giudizi pontificali pre-imballati che invadono l’etere», sarebbe più pertinente a un altro paese che non l’Italia. Il Italia, si sa come stanno le cose. Il primo a violare giornalmente ogni obbligo di riserbo, di misura, di rispetto per la propria funzione, è il primo cittadino della Repubblica. E di fronte a tanto disprezzo delle regole da parte di chi, per primo, dovrebbe servire da esempio, illustrando le virtù della discrezione e della compostezza, prendersela col dr. Falcone può risultare ozioso. Ma è il passato del giudice Falcone che induce alla critica. Non lo si tirerebbe in ballo se egli fosse uno dei tanti magistrati che si sono messi a far politica, ad ammorbare con la loro prosa indigeribile le pagine dell’ «Unità», ad esibire le loro parlantine in televisione. Ma la capacità con cui egli svolse i suoi incarichi alla procura di Palermo, la stima che suscitò in tanti di noi, costringono a esprimere uno stupore, una riserva, sull’eccesso di verbosità con cui egli va conducendo questa seconda parte della sua carriera. Perché nessuna regola o consuetudine prevede che i magistrati tengano una «rubrica fissa» sul crimine. Perché nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura con l’attività pubblicistica. E dunque non si capisce come mai il dr. Falcone, se proprio tiene tanto al suo nuovo ruolo di «esperto in criminalità mafiosa», non ne faccia la sua professione definitiva, abbandonando (questo sì, sarebbe inevitabile) la magistratura.

Qualcuno mi dice che le continue sortite del giudice palermitano avrebbero uno scopo, peraltro apprezzabile: quello di illustrare, propagandare, i due organismi varati recentemente per combattere meglio la mafia, la cosiddetta Superprocura e la Dia. Personalmente, considero la Superprocura e la Dia due misure sensate (e che mi auguro risultino efficaci), mentre mi sfuggono le ragioni di chi invece le avversa. Ma quanto al propagandarle, il direttore degli Affari penali avrebbe altro modo che non il presenzialismo di cui s’è detto. Due interviste all’anno – chiare e circostanziate – sarebbero infatti più che sufficienti. Quel che temo, tuttavia, è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe più placarsi con un paio di interviste all’anno. La logica e le trappole dell’informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva tendono a trasformare in ansiosi esibizionisti anche uomini che erano, all’origine, del tutto equilibrati. L’apparire, il pronunciarsi ingenerano ad un certo momento come una «dipendenza», il timore lancinante che il non esibirsi sia lo stesso che non esistere. E scorrendo il libro-intervista di Falcone, «Cose di cosa nostra», s’avverte (anche per il concorso di una intervistatrice adorante) proprio questo: l’eruzione di una vanità, d’una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministro De Michelis o dei guitti televisivi. E, si capisce, la fatuità fa declinare la capacità d’autocritica. Solo così si spiegano le melensaggini di «Cose di cosa nostra». Frasi come: «Questa è la Sicilia, l’isola del potere e della patologia del potere»; oppure: «Al tribunale di Palermo sono stato oggetto di una serie di microsismi…»; oppure ancora: «Ho sempre saputo che per dare battaglia bisogna lavorare a più non posso e non m’erano necessarie particolari illuminazioni per capire che la mafia era un’organizzazione criminale». Dio, che linguaggio. A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o «tre particolari

illuminazioni»: così da capire, o avvicinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista.”

Salvo Sottile: “Per scoprire gli assassini non basta solo la prova del DNA”, scrive Gossip Day. La notizia in apparenza confortante? Nel 2012, in Italia, ci sono stati “solo” 526 omicidi: il minimo storico negli ultimi quarantanni, secondo il rapporto Eures-Ansa. Quella cattiva? Un delitto su due resta impunito. Ciò non attenua l’attenzione della gente per le indagini e per i processi, che non di rado ribaltano certezze e sentenze, riportando i casi al punto di partenza. Molte persone hanno per la cronaca nera una vera passione, che li porta a seguire le inchieste e gli scoop di riviste come Giallo o di programmi come Linea gialla, condotto da Salvo Sottile su La7: ripartirà martedì 14 gennaio, alle 21.10, dopo la pausa natalizia. Proprio al giornalista siciliano Nuovo chiede di fare il punto sui delitti irrisolti che terranno banco nel 2014. «Scarsi indizi contro Sabrina e Cosima» Sottile, qual è il primo caso per il quale è lecito attendersi novità quest’anno? «Quello sulla scomparsa di Roberta Ragusa vicino a Pisa, due anni fa. Io mi aspetto l’archiviazione per il marito, Antonio Logli». Perché si chiuderà il caso? «Lui è indagato per omicidio volontario e occultamento di cadavere, ma a suo carico non hanno trovato nulla. Fino a prova contraria, è una donna di cui non si trova il corpo». E gli altri casi più caldi? «Ci sono scadenze importanti: il processo d’appello per l’omicidio di Sarah Scazzi e il giudizio della Cassazione su Salvatore Parolisi per l’omicidio di Melania Rea. E poi c’è il caso di Garlasco: la Suprema Corte ha deciso che va rifatto il processo d’appello, rivalutando gli indizi considerati a carico di Alberto Stasi». Come finirà il processo per la morte di Sarah Scazzi? «Potrebbe succedere che Sabrina Misseri, la cugina di Sarah, e sua madre Cosima Serrano, condannate all’ergastolo, escano di prigione. Perché non c’è niente contro di loro». Su quali presupposti verrebbero liberate? «E un processo indiziario. Le tengono dentro per una serie di indizi che, messi insieme, potrebbero avere valore di prova. In realtà, non ci sono prove contro di loro. C’è un movente ricostruito dai magistrati sulla base di deduzioni: Sabrina avrebbe ucciso Sarah perché gelosa di Ivano, un ragazzo di Avetrana. Ma manca l’arma del delitto e soprattutto il peggior nemico delle indagini è il tempo: il corpo di Sarah è stato recuperato nell’acqua, che ha cancellato ogni traccia dell’assassino». Un fioraio ha detto di aver visto Cosima inseguire Sarah e farla salire su un’auto… «Sì, ma dopo ha detto che l’aveva visto in un sogno, dunque è una testimonianza facilmente smontabile da parte degli avvocati difensori. E in più assistiamo a un caso clamoroso, più unico che raro: un uomo che dice di essere l’assassino ed è fuori. Cioè Michele Misseri, il marito di Cosima. Se non emergeranno prove schiaccianti, lei e Sabrina saranno liberate». Veniamo a Parolisi, condannato in appello a 30 anni. Le prove sembra che ci siano. «Sì, qui l’impianto accusatorio è molto più consistente, per varie ragioni: la prima è che sua moglie Melania non poteva finire a Ripe di Civitella, il luogo del delitto, dove il caporal maggiore Parolisi faceva addestramento, se non con lui. E anche il modo in cui è stato trovato il corpo, con i pantaloni abbassati, fa capire che Parolisi è l’assassino: lei non si sarebbe svestita in questo modo prima di essere ammazzata. Ci sono poi testimonianze e riscontri. Per esempio, nel parco in cui lui dice di essere arrivato con la moglie, Parolisi ci è andato da solo con la figlia: nessuno ha mai visto Melania con loro». Per un delitto che potrebbe essere risolto, ce n’è un altro dove la verità è sembrata più volte a un passo, per poi svanire: Tassassimo di Yara. «Yara rischia di non avere giustizia. Ci sono due piste. Quella del cantiere di Mapello, dove si sono subito indirizzate le indagini e dove oggi c’è un centro commerciale, che ha cancellato ogni traccia. E quella del dna, col cosiddetto “ignoto 1” che sarebbe il figlio illegittimo di un autista di pullman di Gorno: per ora non ha portato da nessuna parte. La Procura di Bergamo ha speso milioni di euro per mappare il dna degli abitanti in diversi paesi, senza alcun risultato. È probabile che chi ha ucciso Yara sia qualcuno arrivato lì per caso, magari un operaio stagionale che lavorava in nero. A questo punto, non lo potranno mai beccare, perché è passato troppo tempo». «Guede sa tutto sul rebus di Perugia» E le recenti preoccupazioni della mamma di Yara? «Vede che le indagini sono al capolinea e chiede aiuto perché su Yara non cada il silenzio». Il figlio illegittimo dell’autista esiste… «Sì, ma come lo trovi? Bene che vada, ha il cognome della madre. E poi sul corpo di Yara è stato trovato il dna di questo uomo. Ma può essere uno che, uscito dalla vicina discoteca, ha fatto lì, per caso, la pipì. Senza essere colui che l’ha uccisa». Il dna, però, sembra determinante nelle indagini sui delitti di Garlasco e di Perugia. «Il destino della Knox e di Sollecito non è legato al dna o alle indagini scientifiche, anche perché c’è stata una contaminazione delle prove. Piuttosto direi che è legato a Guede, l’unico che può risolvere questo rebus: era certamente sulla scena del crimine, ma i suoi avvocati gli hanno consigliato di non parlare e dunque lui non dirà mai la verità. Il dna di Amanda trovato sul coltello in casa di Sollecito non dimostra nulla, se non che lei lo abbia maneggiato. Come è normale che avvenga in una cucina. Ciò non significa che sia l’assassina». Guede è stato condannato a 16 anni per omicidio in concorso con altri. Perché non fa i nomi dei complici? «Magari protegge qualcuno». E sul fronte di Garlasco? «Servono prove. Anche qui la scena del crimine è stata alterata; pare, addirittura, che un gatto sia stato lasciato nella casa. Il dna di Chiara sulla bici di Alberto Stasi non significa nulla. E non si capisce come Alberto, camminando sulla scena del crimine, non abbia lasciato tracce. O si è cambiato o non è stato lui a ucciderla». Si riparla di Lidia Macchi, la scout ventenne uccisa nel 1987 in un bosco del Varesotto. Il colpevole potrebbe essere l’uomo che ha ucciso una pensionata quattro anni fa. Sarà il dna a incastrarlo? «Può fare la differenza. Ma, per colpa delle risorse insufficienti, le nostre polizie non si sono attrezzate per catalogare i dna. Serve una banca dati delle vittime e anche dei potenziali assassini, in modo da poter utilizzare il dna anche dopo moltissimo tempo. Si scoprirebbe la verità su tanti casi destinati a restare irrisolti. Invece siamo indietro di vent’anni». Oggi, nelle indagini, si confida troppo nel dna? «Trent’anni fa si cercava di incastrare l’assassino indagando in modo corretto, valutando le testimonianze e cercando le prove. Oggi o parla qualcuno o si trova il dna. Così molti casi si trascinano per anni. Non ricordo un solo caso di omicidio risolto in tempi brevi. Tutto gira attorno al dilemma del dna. Aiuta a risolvere un caso di omicidio? No, quasi mai!».

Cronaca di un tentato suicidio che non è mai avvenuto, arricchita da analisi e giudizi su cause e motivazioni inesistenti, proprio perché l’episodio non si è mai verificato.

Il 30 giugno 2014 Vito Mancini, ex concorrente di Avetrana del Grande Fratello, si è ritrovato, suo malgrado, sulle pagine di diversi giornali, sia cartacei che in versione telematica, che riferivano di un suo presunto tentato suicidio. Mancini, che dopo l’esperienza del Grande Fratello, studia recitazione e spesso è impegnato nel cast di importanti compagnie teatrali, smentisce con decisione la notizia e stigmatizza il polverone mediatico montato ad arte.

«Alla luce di quanto scritto, letto e condiviso sul web, mi sembra opportuno ritornare sull’accaduto» afferma Vito Mancini a “Manduria Oggi”. «Da un po’ di tempo a questa parte, alcuni motivi personali mi hanno portato ad affrontare momenti difficili, come può capitare a chiunque altro. Domenica, durante l’ennesima crisi di panico, ho ritenuto opportuno affrontare la situazione con l’ausilio dei medici. Da qui è partita una inutile, spietata, se non meglio morbosa, costruzione di una tragedia, ormai classica per un certo tipo di giornalismo, con l’aggiunta di dettagli ad hoc, a dir poco macabri, degni della bruttissima copia di Jessica Fletcher».

Vito Mancini è contrariato soprattutto perché qualcuno ha anche tirato in ballo persone a lui vicine.

«Non mi importa molto cosa si dice o si voglia dire su di me o sugli eventi della mia vita» dichiara ancora Mancini, «che comunque ritengo privata e degna del rispetto di tutti, nessuno escluso. Ma ciò che non sopporto è l’accanimento, la cattiveria e, torno a dire, la morbosità con cui ci si spinge ad accusare la gente che mi è intorno e a cui voglio bene, cercando di trovare il colpevole di una storia già inventata di suo, come se si potesse trovare la verità, quella famosa verità, che i più credono di avere in tasca, quando in realtà hanno solo pietre pronte a lapidare gente ignara e innocente per il solo motivo di sentirsi superiori, maestri di vita senza ombra di peccato. Ma, si sa, come diceva il grande De Andrè, “la gente dà buoni consigli sentendosi come Gesù nel tempio, se non può dare cattivo esempio”».

La Cancellieri non serve, scrive Filippo Facci su “Liberto Quotidiano. Le lagne di chi non vuole cambiare il carcere preventivo sono vergognose e basta, non c’è da fare dibattiti, non è uno scontro tra visioni procedurali: è uno scontro ventennale tra chi vuole tentare di migliorare le cose e chi invece non vuole cambiare nulla, anzi, vuole continuare a servirsi comodamente del potere più delicato del mondo - togliere la libertà altrui - per coprire le proprie pigrizie investigative e per vellicare le depressioni del forcaiolo italiota, del servo di procura, dell’infangatore professionale. È da trent’anni che la custodia cautelare dovrebbe essere «extrema ratio» e invece è regola: e questo perché i magistrati se ne fottono, punto, tanto nessuno li punisce, ri-punto: nelle nostre galere ci sono 13mila persone metà delle quali, statisticamente, sarà assolta dopo il primo grado e dopo ingiusta detenzione. Abbiamo 27mila detenuti in attesa di giudizio (anche se l’Italia ha un tasso di criminalità tra i più bassi d’Europa) e il perché lo sappiamo tutti: perché i magistrati usano il carcere per dare anticipi di pena o per costringere a confessioni, talvolta per finire sui giornali: mentre pm e giudici stanno solo attenti a non pestarsi troppo i piedi e propongono, per risolvere il dramma della carcerazione preventiva, esattamente questo: niente. Ora hanno paura che si rompa il giocattolo, ma stiano tranquilli: la riforma allo studio è un decimo di quanto servirebbe. La Cancellieri non serve, ne servono dieci.

Un esempio? Si parla di insabbiamenti? Mostro di Firenze, perquisiti gli inquirenti. Tutto è partito da un’accusa di «insabbiamento» risultata infondata, scrive Antonella Mollica  su “Il Giornale”. Indagini che si intrecciano e magistrati che si dividono. Sullo sfondo la solita vicenda infinita del Mostro di Firenze con i suoi mille misteri e le pochissime certezze che sembrano frantumarsi ogni volta che un nuovo tassello si aggiunge al mosaico: una doppia perquisizione, effettuata nella Procura di Perugia e negli uffici del Gides, lo speciale gruppo investigativo che si occupa dei delitti delle coppiette che insanguinarono le colline di Firenze dal 1968 al 1985. È stata la Procura di Firenze ad aprire l’ennesimo fascicolo su uno dei mille rivoli che si dipanano da quelle morti che ancora aspettano giustizia. Nella sede del Gides si è presentato il pm Gabriele Mazzotta in persona, accompagnato dal capo della squadra mobile Filippo Ferri e da uomini della sezione di polizia giudiziaria della polizia. Una perquisizione che è durata quasi otto ore e che è servita a mettere i sigilli ai documenti che sono conservati negli uffici, frutto di anni e anni di lavoro sull’indagine più lunga che la storia giudiziaria italiana conosca. In contemporanea il pm Luca Turco, accompagnato da altri uomini della sezione di polizia giudiziaria, si è presentato alla Procura di Perugia nell’ufficio del pm Giuliano Mignini, titolare dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, coinvolto nell’inchiesta sul Mostro di Firenze. Anche lì è stata acquisita diversa documentazione che ora dovrà essere passata al setaccio. L’inchiesta della Procura di Firenze è solo l’ultima tappa di una vicenda che parte da lontano: dalla registrazione di una conversazione avvenuta nel 2002 tra Michele Giuttari, capo del Gides, e il pm Paolo Canessa, titolare dell’inchiesta sul Mostro. Canessa di quella registrazione non ha mai saputo nulla fino a quando il pm Mignini non ha inviato un esposto a Genova contro il procuratore capo di Firenze Ubaldo Nannucci. In quell’esposto si puntava il dito contro Nannucci, accusandolo di voler rallentare le indagini sul Mostro. A sostegno dell’accusa si riportava una frase attribuita a Canessa («quello non è un uomo libero») riferita a Nannucci. Il Tribunale di Genova, su richiesta della stessa procura, ha archiviato il procedimento contro Nannucci: nessun tentativo di insabbiamento. «Tutte le accuse contro Nannucci - hanno scritto il procuratore capo di Genova Giancarlo Pellegrino e il sostituto Francesco Pinto - partono dalla presunzione che le indagini sui mandanti degli omicidi si identifichino con Giuttari, unico baluardo contro insabbiamenti, ostacoli, depistaggi, posti in essere da magistrati, giornalisti e poteri forti». La Procura di Genova, nell’archiviare la posizione di Nannucci, affidò una perizia sulla cassetta: la conclusione fu che quella frase non era stata pronunciata da Canessa. Per questo Giuttari e due suoi collaboratori che effettuarono la trascrizione di quella conversazione sono finiti sotto inchiesta per falso. Ma la storia non è finita così: Giuttari è passato all’attacco e ha denunciato alla Procura di Torino i pm Canessa e Pinto e lo stesso perito di Genova: «Quella consulenza è incompleta, superficiale e fortemente inesatta». In tutto questo vortice di denunce e controdenunce si inserisce l’inchiesta che ha portato alle perquisizioni: il 19 maggio scorso il perito era stato convocato dal pm Giuliano Mignini. Una procedura quantomeno insolita questa su cui la Procura di Firenze ora vuol vedere chiaro.

I pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto-scrittore Michele Giuttari sono stati condannati dal tribunale di Firenze rispettivamente a un anno e quattro mesi e un anno e sei mesi con l'accusa di abuso d'ufficio in concorso in un'inchiesta collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze, scrive “Il Corriere della Sera”. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell'inchiesta sull'omicidio di Meredith Kercher: la vicenda della studentessa inglese non ha comunque niente a che fare con il processo che si è chiuso ora. Michele Giuttari è stato a capo del Gides (gruppo investigativo delitti seriali) che ha condotto con le procure fiorentina e perugina le indagini sul mostro di Firenze. L'abuso d'ufficio per il quale sono stati condannati riguarda una serie di indagini svolte su giornalisti e funzionari delle forze dell'ordine per, secondo l'accusa, condizionare le loro attività riguardo l'inchiesta perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che sarebbe collegata alle vicende del mostro di Firenze. Il pm fiorentino titolare delle indagini, Luca Turco, aveva chiesto condanne a 10 mesi per Mignini e a due anni e mezzo per Giuttari. Secondo la procura di Firenze, Giuttari e Mignini avrebbero svolto indagini illecite - con intercettazioni o con l'apertura di fascicoli - su alcuni funzionari di polizia (come l'ex questore di Firenze Giuseppe De Donno e l'ex direttore dell'ufficio relazione esterne Roberto Sgalla) e giornalisti (come Vincenzo Tessandori, Gennaro De Stefano e Roberto Fiasconaro) con intento punitivo o per condizionarli nel loro lavoro, perché avrebbero tenuto atteggiamenti critici riguardo il comportamento di Giuttari con la stampa o riguardo l'inchiesta sulla morte del medico perugino Francesco Narducci. Mignini e Giuttari sono stati invece assolti «perché il fatto non sussiste» dall'accusa di abuso di ufficio (e Mignini anche di favoreggiamento nei confronti di Giuttari), relativa ad accertamenti 'paralleli' a quelli della procura di Genova, che stava indagando Giuttari per falso, in merito a una sua registrazione di un colloquio fra lui e il pm fiorentino Paolo Canessa. All'epoca Giuttari era a capo del Gides, mentre Canessa coordinava la parte toscana dell'inchiesta sul mostro di Firenze. «Sono sconcertato» commenta il pm perugino Mignini. A chi gli chiedeva se la sentenza possa gettare un'ombra sul lavoro svolto sul caso Meredith, Mignini ha risposto ricordando che a Perugia «ci sono stati giudici che hanno giudicato sul caso Meredith. La sentenza di oggi, invece, riguarda me». Il difensore di Mignini, Mauro Ronco, spiega che «Giuttari e Mignini sono stati assolti dalla parte principale del processo e, di fatto, questo smentisce tutto l'impianto accusatorio». A chi gli chiedeva se l'interdizione dai pubblici uffici - come pena accessoria - possa avere effetti sulla professione di Mignini, Ronco ha ricordato che «ovviamente, la pena è sospesa per la condizionale e questo vale anche per l'interdizione».  Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith. Giuttari, già capo del gruppo investigativo delitti seriali, che lavorò fianco a fianco con la procura fiorentina e quella perugina è sempre in tv a parlare dei delitti eccellenti.

Nel proseguo la Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato l’incompetenza territoriale fiorentina per quanto riguarda il procedimento a carico del pm di Perugia Giuliano Mignini e il poliziotto scrittore Michele Giuttari, scrive “Umbria 24”. La Corte ha quindi annullato la sentenza di primo grado con cui nel gennaio del 2010 Mignini e Giuttari vennero condannati rispettivamente ad un anno e 4 mesi e a 6 mesi per abuso d’ufficio in concorso. La vicenda è collegata alle indagini perugine legate al mostro di Firenze. La Corte d’Appello ha quindi disposto la trasmissione degli atti alla Procura di Torino, competente perché fra le persone offese nel procedimento fiorentino c’è un magistrato di Genova. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sulla morte del medico Francesco Narducci, che la Procura umbra riteneva collegata alle vicende del mostro di Firenze. Giuttari era il poliziotto che si occupava delle indagini. L’abuso di ufficio per il quale erano stati condannati riguarda una serie di indagini su giornalisti e funzionari delle forze dell’ordine svolte, secondo l’accusa, per condizionarli, perché avevano tenuto atteggiamenti critici riguardo l’inchiesta sulla morte di Narducci. Mignini è stato il magistrato titolare a Perugia dell’inchiesta sull’omicidio di Meredith Kercher. Giuttari, andato in pensione dalla polizia, adesso svolge l’attività di avvocato-investigativo ed è uno scrittore di gialli. «È una decisione obbligata. Fin all’inizio non potevano trattare questo procedimento a Firenze. Questo trasferimento doveva esserci prima». Lo ha detto il pm Giuliano Mignini commentando la sentenza d’appello che ha annullato la condanna del magistrato in primo grado e ha ordinato il trasferimento degli atti da Firenze a Torino. Mignini, rispondendo ai giornalisti, ha poi confermato che il reato (abuso d’ufficio) potrebbe cadere in prescrizione. Con lui è imputato il poliziotto-scrittore Michele Giuttari. Anche per lui c’è stato l’annullamento della condanna di primo grado e la dichiarazione di incompetenza territoriale. «Da investigatore ho un’amarezza – ha detto Giuttari – Questa attività svolta da Firenze bloccò l’indagine perugina sulla morte del medico Francesco Narducci che si riteneva collegata al mostro di Firenze. Vennero sequestrati gli atti di quell’indagine, di fatto bloccandola». A Perugia, il pubblico ministero Giuliano Mignini aspetta le motivazioni con cui il gup Paolo Micheli prosciolse tutti i familiari di Narducci, colpevoli secondo il pm di aver architettato un colossale depistaggio sulla morte del medico perugino.

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

Il moralista spesso è disonesto. Peire Cardenal diceva che gli intellettuali si fanno predicatori morali, assassini che sembrano santi. Il moralista che dice: Ricchi perché disonesti. Ricchi perché spietati. Ricchi in quanto senza morale oppure, peggio, furbi. Il moralista è un comune esemplare appartenente alla fauna urbana che infesta reality show, programmi scandalistici tipo pomeriggio cinque e persino ristoranti di lusso. Pratiche diffuse tra i moralisti sono il rompimento di coglioni, la predica e la sentenza. Chiunque può diventare un moralista. Purtroppo, anche tu dato che sembrerebbe che nessuno di questi sia munito di buon senso e intelletto. Un moralista è uno scrittore che propone, in maniera discontinua, riflessioni sui costumi, le usanze e i modi di essere degli uomini, i loro caratteri e modi di vivere. Il moralista, in senso generico, è anche colui che «per carattere, per educazione o per cultura è portato a esaminare e valutare l’aspetto morale di qualsiasi questione o situazione» o chi, nel senso di "moralizzatore", pretende, attraverso le sue parole, presunti insegnamenti e, più raramente, il suo esempio, di dare lezioni di comportamento morale.

La moda del moralismo, scrive Gianni Pardo. La morale ha come base le necessità fondamentali del genere umano. L'intelligenza della nostra specie ci ha inoltre fatto capire che staremo tutti meglio se osserveremo un numero molto maggiore di regole rispetto a quelle che ci detta la natura: dal non fare rumore la notte per non disturbare i vicini al pagare le tasse; dal fare la coda allo sportello evitando discussioni alla cura dei vecchi, visto che vecchi diventiamo tutti (si spera) una volta o l'altra. Questo affinamento dei doveri consigliati dalla convivenza è molto meno cogente dell'istinto e infatti in questo ambito le società non sono tutte uguali. Si potrebbe dire che esistono società più o meno morali. Mezzo secolo fa chiesi ad una ragazzina, in Francia, che cosa avrebbe pensato di una compagnetta che a scuola avesse copiato il compito. E lei non ebbe dubbi: "Qu'elle est malhonnête", che è disonesta. Da noi invece anche i candidati al concorso per magistrato cercano di copiare. Dunque "la società scolastica francese è (era?) più morale dell'italiana". La morale nasce dalla società ma diviene un fatto individuale. Chi è abituato ad un certo comportamento finisce col considerarlo naturale. Quella bambina non si strapazzò a dichiarare che lei non avrebbe mai copiato come in Italia nessuno oggi si vanta dicendo: "Io non sputo per terra".  Eppure un secolo fa tanta gente lo faceva. L'uomo morale lo è senza proclami, mentre il moralista si considera degno di particolare stima. E questo è preoccupante. Chi dice mai: "Io non rubo" se non chi ha frequentato dei ladri o chi deve lottare contro la tentazione di rubare? Per questo Ernest Renan ha scritto: "Ho conosciuto molte canaglie che non erano moraliste, non ho conosciuto moralisti che non fossero canaglie". L'Italia, per cause remote, è poco morale. Il rispetto della collettività è evanescente; il sentimento religioso è tenue; il senso civico pressoché inesistente; le regole si rispettano se non se ne può fare a meno. In compenso, in passato i costumi erano tolleranti. Gli italiani (e i cinesi) furono sbalorditi quando gli americani pretesero le dimissioni di Richard Nixon solo perché aveva mentito. Dall'alto di una saggezza e di un pessimismo millenari trattavamo con indulgenza gli errori e i peccati altrui. Pensavamo, con Terenzio, che non ci è alieno niente che sia umano. Purtroppo nell'ultimo mezzo secolo noi italiani non siamo diventati più morali ma solo meno tolleranti. Dei vizi altrui. Fra i più accaniti moralisti ci sono coloro che non hanno molte possibilità di comportarsi male: per esempio i professori. Non possono imbrogliare sul peso, emettere fatture false o frodare il fisco e perciò sono più arcigni e severi di Girolamo Savonarola. Nel frattempo non si accorgono che le raccomandazioni sono un atto di disonestà. Non capiscono che, se danno una lezione privata e non la dichiarano al fisco, sono evasori, come lo sono quando non chiedono la fattura all'idraulico per non pagare l'Iva. "Per somme minime!", esclamano. Come se si fossero volontariamente astenuti dall'ingannare il fisco per milioni di euro. Il moralismo italiano è una moda. Dimentichiamo le lezioni della storia e arriviamo all'assurdo di sostenere che i politici "devono dare l'esempio". Per non interferire col corso della Giustizia (più infallibile di Salomone) devono rinunciare a quella prescrizione cui nessun cittadino rinuncerebbe. A cominciare dai moralisti. Gli statisti non che arricchirsi dovrebbero rimetterci; gli amministratori degli enti pubblici dovrebbero essere impermeabili alle raccomandazioni per gli appalti mentre i privati raccomandano i figli a scuola e gli amici per qualche impiego. Ognuno depreca vivamente i peccati che, per una ragione o per l'altra, non può commettere, e scusa quelli che commette con la solita, imbattibile giustificazione: "Lo fanno tutti". I moralisti sono quelli che vorrebbero imporre a tutti gli altri una virtù sublime mentre usano un diverso metro per sé e per i loro cari. Il mondo dei media è pieno di questa fastidiosa genia. Siamo al punto che coloro che sono sul serio eccezionalmente morali non dovrebbero mai predicare la virtù: nessuno potrebbe distinguerli dai moralisti.

I moralisti che raccomandano agli uomini di soffocare le passioni e di dominare i desideri per essere felici, non conoscono affatto il cammino della felicità. Émilie du Châtelet, Discorso sulla felicità, 1779.

Non c'è un solo moralista che non possa essere convertito in un precursore di Freud. Emil Cioran, L'inconveniente di essere nati, 1973.

Colui che predica la morale limita di solito le sue funzioni a quelle d'un trombettiere di reggimento, che dopo aver sonata la carica e fatto molto rumore, si crede dispensato di pagar di persona. Charles Lemesle, Misophilanthropopanutopies, 1833.

Un moralista è il contrario di un predicatore di morale; è un pensatore che vede la morale come sospetta, dubbiosa, insomma come un problema. Mi spiace di dover aggiungere che il moralista, per questa stessa ragione, è lui stesso una persona sospetta. Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 1869/89.

Quando t'imbatti in un moralista, consideralo con rispetto, ad una prudente distanza, perché la morale è come la trichina: vive nella carne del porco. Pitigrilli (Dino Segre).

I moralisti han torto. La sessualità non si vince soltanto con l'astinenza ma anche con la lussuria. Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, 1913.

Diventerò moralista il giorno in cui uno mi dimostrerà di aver pensato durante il coito alla generazione futura. Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, 1913.

La ferocia dei moralisti [...] è superata soltanto dalla loro profonda stupidità. Filippo Turati, Discorso parlamentare, 1907.

Un uomo che moraleggia è di solito un ipocrita, una donna che moraleggia è invariabilmente brutta. Oscar Wilde, Il ventaglio di lady Windermere, 1892.

Citazioni sulla morale.

Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante. (Indro Montanelli).

Di conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che sia degno di lode o di biasimo sono condizionate da tutte le molteplici cause che ne influenzano i desideri riguardanti l'altrui condotta [...]. Dovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità di classe. (John Stuart Mill).

Fino ad ora, sulla morale ho appreso soltanto che una cosa è morale se ti fa sentire bene dopo averla fatta, e che è immorale se ti fa star male. (Ernest Hemingway).

Ho sempre sentito che avevo delle responsabilità. Quel senso del dovere, poi, che avevo sempre addosso, quel senso che, insomma, era giusto fare certe cose o non farle. Ma non ero io... era che non c'era niente di più importante nella mia vita, non c'era niente di più grande, sai... sono uno che non ha mai fatto compromessi. Non ne ho avuto forse un grande bisogno, ma avevo una ripulsione per i compromessi e se questa la vuoi chiamare moralità, sì. (Tiziano Terzani).

Il moralista borghese è l'uomo della lettera anonima (Mario Mariani).

Il peggior criminale che abbia mai camminato su questa terra è moralmente superiore al giudice che lo condanna alla forca. (George Orwell).

Il peso materiale rende prezioso l'oro, quello morale l'uomo. (Baltasar Gracián y Morales).

L'onestà è lo stato allotropico della morale. (Carlo Maria Franzero).

La ferocia dei moralisti [...] è superata soltanto dalla loro profonda stupidità! (Filippo Turati).

La loro moralità, i loro principi, sono uno stupido scherzo. Li mollano non appena cominciano i problemi. Sono bravi solo quanto il mondo permette loro di esserlo. Te lo dimostro: quando le cose vanno male, queste... persone "civili" e "perbene", si sbranano tra di loro. Vedi, io non sono un mostro; sono in anticipo sul percorso. (Il cavaliere oscuro).

La morale comune cambia, a seconda di dove si vive. (Allan Prior).

La morale è l'intera scienza del soggettivo e dell'obbiettivo morale. – La conoscenza del dovere per ciò che è dovere senza alcun riguardo a qualsiasi conseguenza. (Victor Cousin).

La morale è la cognizione de' nostri veri e solidi interessi. (Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy).

La morale è la debolezza del cervello. (Arthur Rimbaud).

La morale è semplicemente l'atteggiamento che adottiamo nei confronti di individui che, personalmente, non ci piacciono. (Oscar Wilde).

La morale è sempre la stessa, non si modifica a seconda del suo essere applicata alla sfera pubblica o alla sfera privata. Ma la morale tiene sempre conto dell'oggetto, della realtà a cui si applica. (Georges Marie Martin Cottier).

La morale è un fondo sociale che viene accresciuto lungo il doloroso corso delle epoche. (Jack London).

La morale non è altro che l'arte attiva e pratica di viver bene. (Pierre Gassendi).

La moralità, ciò che la società chiama «morale» di per sé non esiste. (Carlo Maria Franzero).

La moralità consiste nel rispettare le cose con la volontà, secondo il pregio ch'elle hanno. (Augusto Conti).

La moralità è il rapporto tra il gesto e la concezione del tutto in esso implicato. (Luigi Giussani).

La ricerca esclusiva dell'avere diventa un ostacolo alla crescita dell'essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l'avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale. (Papa Paolo VI).

La Rivoluzione sociale sarà morale, oppure non ci sarà. (Charles Péguy).

La vera moralità consiste non già nel seguire il sentiero battuto, ma nel trovare la propria strada e seguirla coraggiosamente. (Mahatma Gandhi).

La vergogna è un sentimento fondamentale. Vergogna viene da vere orgognam: tempo l'esposizione. Oggi l'esposizione non la si teme più. E allora cosa succede: se io mi comporto in una modalità trasgressiva, bè che male c'è. Vado incontro ai desideri nascosti di ciascuno di noi e li espongo, quanto son bravo. E allora a questo punto non sono più visibili con chiarezza i codici del bene e del male. C'era Kant che diceva che il bene e il male ognuno le sente naturalmente da sé, usava la parola sentimento. Oggi non è più vero. Semplicemente se uno ha il coraggio anche di mostrarsi vizioso, se ha il coraggio anche di mostrarsi trasgressivo è un uomo di valore, almeno lui ha il coraggio, ha interpretato i sentimenti nascosti di ciascuno di noi. Questo ormai significa, non dico il collasso della morale collettiva, ma persino di quella individuale, quella interna, quella psichica. Quindi la fine dei tempi. (Umberto Galimberti).

L'entusiasmo non è altro che ubriachezza morale. (George Gordon Byron).

Le passioni umane si fermano solo dinanzi a una potenza morale che rispettino. Se manca una qualsiasi autorità di questo tipo, la legge del più forte regna e, latente o acuto, lo stato di guerra è necessariamente cronico. (Émile Durkheim).

L'etica è più una questione di opinioni che una scienza. La morale è una consuetudine più che una legge naturale. (Robert Heinlein).

Il cedimento morale di tanti cristiani anzi, la crisi stessa della Chiesa hanno una causa. E questa causa è, per dirla chiara, l'indebolimento della fede. È impossibile vivere la morale cattolica se non si è più convinti, e fino in fondo, che Gesù Cristo è il figlio di Dio e che nel vangelo è contenuto il progetto divino per l'uomo. (Benedetto XVI).

L'indignazione morale è in molti casi al 2 per cento morale, al 48 per cento indignazione, e al 50 per cento invidia. (Vittorio De Sica).

L'intelligenza è una categoria morale. (Theodor Adorno).

Nella morale come nell'arte, nulla è dire, tutto è fare. (Ernest Renan).

Non può esserci agire morale, lì do­ve non ci sia l'altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. (Bruno Forte).

Non resta altro mezzo per rimettere in onore la politica, si devono come prima cosa impiccare i moralisti. (Friedrich Nietzsche).

Non si può essere felici finché intorno a noi tutti soffrono e si infliggono sofferenze; non si può essere morali fintantoché il procedere delle cose umane viene deciso da violenza, inganno e ingiustizia; non si può neppure essere saggi fintantoché l'umanità non si sia impegnata nella gara della saggezza e non introduca l'uomo alla vita e al sapere del più saggio dei modi. (Friedrich Nietzsche).

Ogni disordine morale è un atto di guerra. (Carlo Gnocchi).

Ogni moralità trae la sua origine dalla religione, perché la religione è soltanto la formula della moralità. (Fëdor Dostoevskij).

Pensavi che potessimo essere persone per bene in questi tempi in cui tutto è male, ma ti sbagliavi. Il mondo è spietato, e l'unica moralità in un mondo spietato è il caso. Imparziale, senza pregiudizi, equo. (Il cavaliere oscuro).

Per i moralisti, tu sei naturalmente cattivo. La bontà sarà una disciplina imposta dall'esterno. Tu sei un caos e l'ordine deve essere instaurato da loro; saranno loro a portare l'ordine. E hanno fatto del mondo intero un pasticcio, una confusione, un manicomio, perché hanno continuato a fare ordine per secoli e secoli, a disciplinare per secoli e secoli. Hanno insegnato così tanto che coloro cui è stato insegnato sono impazziti. (Osho Rajneesh).

Per mettere in chiaro i veri princìpi della morale, gli uomini non hanno bisogno né di teologia, né di rivelazione, né di divinità: hanno bisogno solamente del buon senso. (Paul Henri Thiry d'Holbach).

Per morale o etica particolare od applicata s'intende quella parte di morale, la quale tratta del sommo bene e dell'onesto, ovvero dei doveri e della virtù in tutte le loro applicazioni e relazioni. Questa parte è la morale veramente pratica, quella che per alcuni forma tutta la scienza dell'etica, appunto perché in essa deve apprendere lo spirito ad operare. (Baldassarre Poli).

Più profittevole al mondo è chi abbia lasciato un solo precetto di morale, una sola sentenza riguardante la vita, che non un geometra, avesse egli pure scoperte le più belle proprietà del triangolo. (François-René de Chateaubriand).

Quando il tempo è denaro, sembra morale risparmiare tempo, specialmente il proprio. (Theodor Adorno).

Quando mi trovavo a Motiers andavo a degli incontri mondani dai miei vicini portandomi in tasca sempre un bilboquet per giocarci per tutto il tempo per non parlare quando non avevo niente da dire. Se ognuno facesse altrettanto, gli uomini diventerebbero meno malvagi, i loro commerci diventerebbero più sicuri, e io penso, più agevoli. Infine, che qualcuno rida se vuole, ma io sostengo che la sola morale disponibile nei tempi odierni sia la morale del bilboquet. (Jean Jacques Rousseau).

Quando t'imbatti in un moralista, consideralo con rispetto, ad una prudente distanza, perché la morale è come la trichina: vive nella carne del porco. (Pitigrilli).

Quello che diciamo praticamente morale, non è altro da quello che teoricamente diciamo filosofia. La distinzione deriva, a nostro modo di vedere, dal concepire astrattamente il bene, che è oggetto della morale, e la verità, che è oggetto della filosofia. (Giovanni Gentile).

Rivoltatela come più vi pare, | prima viene lo stomaco, poi viene la morale. (Bertolt Brecht).

Se la morale non urtasse, non verrebbe lesa. (Karl Kraus).

Si diventa morali non appena si è infelici. (Marcel Proust).

Tutti noi abbiamo bisogno di un coinvolgimento morale che vada oltre le meschine contingenze della vita quotidiana: dovremmo prepararci a difendere attivamente questi valori ovunque siano scarsamente sviluppati o siano minacciati. Anche la morale cosmopolita deve essere mossa dalla passione; nessuno di noi avrebbe nulla per cui vivere se non avessimo qualcosa per cui valga la pena morire. (Anthony Giddens).

Vilfredo Pareto: I precetti morali sono spesso volti ad assodare il potere della classe dominante, spessissimo a temperarlo. La morale tipo è stata considerata come alcunché di assoluto; rivelata od imposta da Dio, secondo il maggior numero; sorgente dall'indole dell'uomo, secondo alcuni filosofi. Se ci sono popoli i quali non la seguono ed usano, è perché la ignorano, e i missionari hanno l'ufficio di insegnarla ad essi e di aprire gli occhi di quei miseri alla luce del vero; oppure i filosofi si daranno briga di togliere i densi veli che impediscono ai deboli mortali di conoscere il Vero, il Bello, il Bene, assoluti; i quali vocaboli sono spesso usati sebbene nessuno abbia mai saputo cosa significassero, né a quali cose reali corrispondessero. Vi sono certi fenomeni ai quali nelle nostre società si dà il nome di ETICI o MORALI, che tutti credono conoscere perfettamente, e che nessuno ha mai saputo rigorosamente definire. Non sono mai stati studiati da un punto di vista interamente oggettivo. Chi se ne occupa ha una qualche norma che vorrebbe imporre altrui, e da lui stimata superiore ad ogni altra.

Quando si giudica, prima pensa, poi parla, perché parole poco pensate portano pena. Quando ci sentiamo particolarmente superiori a qualcuno e vogliamo dimostrarlo agli altri cominciamo ad offendere, questo atteggiamento ci fa sentire meglio ma ci chiediamo mai cosa prova e come si sente chi è vittima di offese e scerno?

Di seguito si presentano alcuni aforismi, appunto, per meditare.

Se si aspettasse di sapere prima di parlare non si aprirebbe mai bocca. Henri Frédéric Amiel, Diario intimo, 1839/81 (postumo, 1976/94).

Se saprai tacere, saprai parlare. Il silenzio del savio è un gran libro chiuso. Ambrogio Bazzero, Lacrime e sorrisi, 1873.

Colui che parla chiaro, ha chiaro l'animo suo. Bernardino da Siena, Prediche volgari, 1427.

Gli uomini camminano insieme, parlano insieme, dormono insieme, ma non si conoscono. Se gli uomini si conoscessero non camminerebbero insieme, non parlerebbero insieme, non dormirebbero insieme. Thomas Bernhard, Perturbamento, 1967.

Se i cani fossero in grado di parlare, forse troveremmo altrettanto difficile andare d'accordo con loro come con la gente. Karel Čapek (Fonte sconosciuta).

Parliamoci, finché siamo in vita. Dopo non è detto che sia possibile. Pino Caruso, Ho dei pensieri che non condivido, 2009.

Di solito non amo parlare con gli estranei, il chiacchierare formale e gentile senza conseguenze di persone che non si conoscono. Ma a volte, come ora, quando qualcuno che conosci ti ha procurato un dolore nei recessi della mente, è un sollievo incrociare qualcuno che non si conosce e che ha voglia di parlare. Aidan Chambers, Danza sulla mia tomba, 1982.

Parlare è la peggiore forma di comunicazione. L'uomo non si esprime pienamente che attraverso i suoi silenzi. Frédéric Dard, Maman les petits bateaux, 1974.

È bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio. Joseph Antoine Dinouart, L'arte di tacere, 1771.

È proprio dell'uomo coraggioso parlare poco e compiere grandi imprese; è proprio dell'uomo di buon senso parlare poco e dire sempre cose ragionevoli. Joseph Antoine Dinouart, L'arte di tacere, 1771.

Solo quando si sarà imparato a mantenere il silenzio, si potrà imparare a parlare rettamente. Joseph Antoine Dinouart, L'arte di tacere, 1771.

Per bene che si parli, quando si parla troppo, si finisce sempre per dire delle bestialità. Alexandre Dumas (padre), Il cavaliere d'Harmental, 1842.

Parlare dei propri mali è già una consolazione. Alexandre Dumas (padre), Il conte di Montecristo, 1844/46.

Perché osservi la pagliuzza nell'occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave nel tuo occhio? O come potrai dire a tuo fratello: voglio togliere la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nel tuo occhio c'è una trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi vedrai in modo chiaro, per poter togliere la pagliuzza dall'occhio di tuo fratello. (Gesù).

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare, chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità. (Pablo Neruda).

La civiltà non è né il numero né la forza, né il denaro. La civiltà è il desiderio paziente, appassionato, ostinato, che vi siano sulla terra meno ingiustizie, meno dolori, meno sventure. La civiltà è amarsi. (Raoul Follereau).

Vi è molto di folle nella vostra cosiddetta civiltà. Come pazzi voi uomini bianchi correte dietro al denaro, fino a che ne avete così tanto, che non potete vivere potete vivere abbastanza a lungo per spenderlo. Voi saccheggiate i boschi e la terra, sprecate i combustibili naturali. Come se dopo di voi non venisse più alcuna generazione, che ha altrettanto bisogno di tutto questo. Voi parlate sempre di un mondo migliore mentre costruite bombe sempre più potenti per distruggere quel mondo che ora avete. (Tatanga Mani, capo indiano della tribù degli Siux Oglala, meglio conosciuto con il nome di “Toro Seduto”).

Oh Grande Spirito, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, e la Saggezza di capirne la differenza. (Preghiera Cherokee).

Il corpo muore. Il corpo è semplicemente ciò che l'anima materialmente possiede. E' il suo involucro. L'anima prosegue la sua vita. (Susie Billie, 102 anni, Seminole).

Nascere uomo su questa terra è un incarico sacro. Abbiamo una responsabilità sacra, dovuta a questo dono eccezionale che ci è stato fatto, ben al di sopra del dono meraviglioso che è la vita delle piante, dei pesci, dei boschi, degli uccelli e di tutte le creature che vivono sulla terra. Noi siamo in grado di prenderci cura di loro. (SHENANDOAH, ONONDAGA).

Non lasciamo che i nostri ideali ci rendano soddisfatti di noi stessi. Ognuno di noi, in scala più o meno grande contribuisce allo sfruttamento e alla distruzione della terra, allo spreco e all'inquinamento. Abbiamo semplicemente la possibilità di camminare più vicino alla Buona Strada. Non di colpo, ma tappa per tappa in questa direzione, finchè non riusciamo a tornare su questo sentiero. Per coloro che sanno ascoltare, le voci parlano ancora. (SAUPAQUANT, WAMPANOAG).

Gli anziani Dakota erano saggi. Sapevano che il cuore di ogni essere umano che si allontana dalla natura si inasprisce. Sapevano che la mancanza di profondo rispetto per gli esseri viventi e per tutto ciò che cresce, conduce in fretta alla mancanza di rispetto per gli uomini. Per questa ragione il contatto con la natura, che rende i giovani capaci di sentimenti profondi, era un elemento importante della loro formazione. (Luther Standing Bear, Orso in Piedi, Lakota).

La terra fu creata con l'aiuto del sole, e tale dovrebbe restare... La terra fu fatta senza linee di demarcazione, e non spetta all'uomo dividerla... Io non ho mai detto che la terra è mia per farne ciò che mi pare. L'unico che ha il diritto di disporne è chi l'ha creata. Io chiedo il diritto di vivere sulla mia terra e di accordare a voi il privilegio di vivere sulla vostra. (Heinmont Tooyalaket (Capo Giuseppe) dei Nez Percés).

Il denaro non rappresenta se non una nuova forma di schiavitù impersonale, al posto dell'antica schiavitù personale. (Tolstoi).

L'uomo non tesse la ragnatela della vita, di cui è soltanto un filo. Qualunque cosa fa alla ragnatela, la fa a se stesso. (American Chief Seathl).

L'illusione degli uomini, di trovare spiegazioni nelle religioni artefatte e gioia nelle cose materiali, somiglia a quella dei bambini che credono di poppare il latte mentre si succhiano il pollice » {Anonimo}.

Quando un uomo desidera tante cose, non ha sé stesso. (Confucio - I Dialoghi).

Servire gli altri, essere di qualche utilità alla famiglia, alla comunità, alla nazione o al mondo é uno degli scopi principali per i quali gli esseri umani sono stati creati. Non ti riempire di affari personali dimenticando i tuoi compiti più importanti. La vera felicità é solo per chi dedica la propria vita al servizio degli altri. (dagli insegnamenti dell'Albero Sacro dei Nativi Americani).

L'uomo felice è colui che fa del bene agli altri, l'uomo infelice è colui che si aspetta il bene dagli altri. (Hazrat Inayat Khan).

Cerca Dio in tutte le anime, buone e cattive, sagge e stupide, simpatiche e antipatiche; nel profondo di ciascuno c'è Dio. (Hazrat Inayat Khan).

Dio, cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me. Siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L'unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l'unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi. Difendere fino all'ultimo la tua casa in noi. (Etty Hillesum).

La vita qui non consuma troppo le mie forze più profonde. Fisicamente si va forse un po' giù e spesso si è immensamente tristi, ma il nostro nucleo interiore diventa sempre più forte. Vorrei che fosse così anche per voi. Perciò vi raccomando: rimanete al vostro posto di guardia, se ne avete già uno dentro di voi".(Etty Hillesum).

Il cervello si esprime mediante le parole; il cuore mediante lo sguardo degli occhi, e l'anima mediante una radiazione che carica l'atmosfera e magnetizza tutto. (Hazrat Inayat Khan).

Non fare niente con paura e non aver paura in tutto quello che fai. (Hazrat Inayat Khan).

La sincerità è il gioiello che si forma all'interno del cuore. (Hazrat Inayat Khan).

Il prete dà una benedizione dalla chiesa, i rami dell'albero danno la benedizione da Dio. (Hazrat Inayat Khan).

Dio è Verità e la Verità è Dio. (Hazrat Inayat Khan).

L'uomo è più vicino a Dio di quanto lo siano i pesci all'oceano. (Hazrat Inayat Khan).

Dal male non può nascere il bene, come un fico non nasce da un olivo: il frutto corrisponde al seme. (Sèneca).

Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo. (Mohandas Karamchand Gandh).

E’ l’animo che devi cambiare, non il cielo sotto cui vivi. (Seneca).

Non puoi cambiare il mondo, ma puoi cambiare te stesso. Il mondo cambierà. (Anonimo).

Ciò che vuoi che un altro taccia, tacilo tu per primo. (Sèneca).

Abbiamo davanti agli occhi i vizi degli altri, mentre i nostri ci stanno dietro. (Seneca).

Acquistiamo il diritto di criticare severamente una persona solo quando siamo riusciti a convincerla del nostro affetto e della lealtà del nostro giudizio, e quando siamo sicuri di non rimanere assolutamente irritati se il nostro giudizio non viene accettato o rispettato. In altre parole, per poter criticare, si dovrebbe avere un'amorevole capacità, una chiara intuizione e un'assoluta tolleranza. (Gandhi).

Dato che non penseremo mai nello stesso modo e vedremo la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la regola della nostra condotta è la tolleranza reciproca. (Gandhi).

La coscienza non è la stessa per tutti. Quindi, mentre essa rappresenta una buona guida per la condotta individuale, I'imposizione di questa condotta a tutti sarebbe un'insopportaibile interferenza nella libertà di coscienza di ognuno. (Gandhi).

Grande Spirito, preservami dal giudicare un uomo non prima di aver percorso un miglio nei suoi mocassini. (Guerriero Apache anonimo).

Chi dice male degli altri udrà parlare di sé sempre peggio. (Baltasar Gracian).

Tutti pensano di cambiare il mondo, nessuno di cambiare se stesso. (Lev Tolstoj).

Perchè mai tutti sparlano di tutti? Credono di rimetterci qualcosa se riconoscono il più piccolo merito a qualcuno. (Goethe).

Finché ci sono macelli ci saranno anche campi di battaglia. (Tolstoi).

Ci sono cose per cui sono disposto a morire, ma non ce ne è nessuna per cui sarei disposto ad uccidere. (Gandhi).

Le avversità non le affrontiamo perché sono difficili, ma sono difficili perché non le affrontiamo. (Sèneca).

Se vuoi essere amato, ama. (Sèneca).

Come una candela ne accende un'altra e così si trovano accese migliaia di candele, così un cuore ne accende un altro e così si accendono migliaia di cuori. (Tolstoi).

Il solo Tempio veramente sacro è il mondo degli uomini uniti dall'amore. (Tolstoi).

Non è la letteratura né il vasto sapere che fa l'uomo, ma la sua educazione alla vita reale. Che importanza avrebbe che noi fossimo arche di scienza, se poi non sapessimo vivere in fraternità con il nostro prossimo? (Gandhi).

Non importa quanto lontano sei andato su una strada sbagliata: torna indietro. (Proverbio turco).

Sono io il padrone del mio destino, il capitano della mia anima (William Ernest Henley).

Il sapiente non si lascia entusiasmare dalla buona fortuna né abbattere dall'avversa. (Sèneca).

Il medico abile è un uomo che sa divertire con successo i suoi pazienti, mentre la Natura li sta curando. (Voltaire).

Il corpo umano è un tempio e come tale va curato e rispettato, sempre. (Ippocrate).

La vita non è vivere, ma vivere in buona salute. (Marziale).

Chi perde il bambino che ha dentro di sé, lo rimpiangerà per il resto della vita. (P.Neruda).

L'uomo grande è colui che non perde il suo cuore di fanciullo. (Mencio).

Proteggetemi dalla sapienza che non piange, dalla filosofia che non ride e dalla grandezza che non si inchina davanti ai bambini. (Gibran Khail Gibran).

L'unica cosa necessaria per la tranquillità del mondo, é che ogni bimbo possa crescere felice.(Dan George).

Quando insegnano, gli uomini imparano. (Seneca).

L'insegnante è uno che ti insegna qualcosa, il Maestro è uno che ti aiuta a disimparare tutto quello che hai imparato. (Osho).

Ci sono persone che sanno tutto e purtroppo è tutto quello che sanno. (Oscar Wilde).

C'è un solo bene, il sapere, e un solo male, l'ignoranza. (Socrate).

Essere coscienti della propria ignoranza è un grande passo verso la sapienza. (Benjamin Disraeli).

Le difficoltà rafforzano la mente e la fatica rafforza il corpo. (Seneca).

Un grande pilota sa navigare anche con la vela rotta. (Seneca).

Non è mai esistito ingegno senza un poco di pazzia. (Seneca).

Talvolta ci vuole coraggio anche a vivere. (Seneca).

Il vento è sempre favorevole per chi sa dove va. (Seneca).

La virtù diffonde i suoi effetti anche da lontano e stando nascosta. (Seneca).

Non è mai poco quello che è abbastanza. (Seneca).

E' più facile disintegrare l'atomo che un pregiudizio. (Albert Einstein).

Moltissime persone credono di pensare quando stanno semplicemente riorganizzando i propri pregiudizi. (William James).

La vera scelta non è tra nonviolenza e violenza ma tra nonviolenza e non esistenza. Se non riusciremo a vivere come fratelli moriremo tutti come stolti. (Martin Luther King).

Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe. (Mark Twain).

Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta. (Socrate).

Non volendo pensare a quello che mi porterà il domani, mi sento libero come un uccello. (Gandhi).

Un oggetto, anche se non ottenuto con il furto, è tuttavia come rubato se non se ne ha bisogno. (Gandhi).

La felicità e la pace del cuore nascono dalla coscienza di fare ciò che riteniamo giusto e doveroso, non dal fare ciò che gli altri dicono e fanno. (Gandhi).

La vita sulla terra è solo un bolla di sapone. (Gandhi).

La televisione è un mezzo di intrattenimento che permette a milioni di persone di ascoltare contemporaneamente la stessa barzelletta, e rimanere egualmente sole. (George Eliot).

I mass media sono grandi aziende possedute da società ancora più grandi. (Noam Chomsky).

Non è forte colui che non cade mai, ma colui che cadendo si rialza. (Johann Wolfgang Goethe).

Solo i deboli hanno paura di essere influenzati. (Johann Wolfgang Goethe).

Un'abitudine, se non contrastata, presto diventa una necessità. (Sant'Agostino).

Gesù disse: "Se coloro che vi guidano vi diranno, 'Sì, il Regno è nei cieli', allora gli uccelli dei cieli vi precederanno. Se vi diranno, 'È nei mari', allora i pesci saranno in vantaggio su di voi. Il Regno è invece dentro voi e fuori di voi. Quando conoscerete voi stessi, allora sarete consci, e comprenderete di essere figli del Padre vivente. Ma se non vi conoscerete, allora dimorerete nella povertà, e sarete la povertà stessa".

Gesù disse: "Io sono la luce che è su tutte le cose. Io sono tutto: da me tutto proviene, e in me tutto si compie. Tagliate un ciocco di legno; io sono lì. Sollevate la pietra, e mi troverete."

Gesù disse: "Colui che cerca non desista dal cercare fino a quando non avrà trovato e quando troverà sarà commosso e si stupirà, e così commosso contemplerà e regnerà sul Tutto."

È così grande la malvagità del mondo che devi consumarti le gambe a forza di correre per evitare che te le freghino. (Bertolt Brecht).

Il destino è un'invenzione della gente fiacca e rassegnata. (Ignazio Silone).

La vita è un ponte, non costruirci la casa sopra. (Anonimo).

Ciò che avete imparato ascoltando le parole altrui lo dimenticherete molto rapidamente; ciò che avete imparato con tutto il vostro corpo lo ricorderete per il resto della vostra vita.. (Gichin Funakoshi - Karate-Do).

Votate ogni volta che fate la spesa, ogni volta che schiacciate il telecomando, ogni volta che andate in banca sono voti che date al sistema. (Alex Zanotelli, missionario).

Chi conosce gli altri uomini è sapiente, chi conosce se stesso è illuminato, chi vince gli altri ha forza, chi vince se stesso è più forte (Lao-Tse).

Abbiamo bisogno di una grande quantità di energia e la dissipiamo nella paura, ma quando c’è l’energia che deriva dall'essere libero da ogni forma di paura viviamo una radicale rivoluzione interiore.  (Libertà dal conosciuto- Jiddu Krishnamurti).

Giorno verrà in cui gli uomini conosceranno l'intimo animo delle bestie e, quel giorno, un delitto contro un animale sarà considerato un delitto contro l'Umanità. (Leonardo da Vinci).

Quando uno è contento di se stesso, ama l'umanità. (Luigi Pirandello).

Lo sguardo disonesto è l'indizio di un cuore disonesto. (Sant'Agostino).

Gli uomini hanno bisogno di qualche attività esterna perché sono inattivi di dentro. (Arthur Schopenhauer).

Tutta la gioia del mondo nasce dal desiderio di gioia per gli altri, tutto il dolore dal desiderio di gioia per sè. (Shanti Deva, mistico buddista medioevale).

Non esiste una strada per la Pace, la Pace è la strada. (Thich Nhat Hanh. monaco buddista vietnamita).

L'abnegazione è il vero miracolo da cui derivano tutti i cosiddetti miracoli. (Ralph Waldo Emerson).

Non bisogna far violenza alla natura, ma persuaderla. (Epicuro).

É difficile decidere quando la stupidità assume le sembianze della furfanteria e quando la furfanteria assume quelle della stupidità. Perciò sarà sempre difficile giudicare equamente i politici. (Arthur Schnitzler).

Il gentiluomo è uno che non ferisce mai involontariamente i sentimenti altrui. (Oliver Herford).

Parlami di Dio, dissi al mandorlo. E il mandorlo fiorì. (Nikos Kazantzais).

Vota per colui che ha promesso meno di tutti. Sarà il meno deludente! (Bernard Baruch, 1960).

Noi non siamo nati soltanto dalla nostra madre, anche la terra è nostra madre, che penetra in noi ogni giorno con ogni boccone che mangiamo. (Paracelso).

Eppure soffia

E l'acqua si riempie di schiuma il cielo di fumi

la chimica lebbra distrugge la vita nei fiumi

uccelli che volano a stento malati di morte

il freddo interesse alla vita ha sbarrato le porte

un'isola intera ha trovato nel mare una tomba

il falso progresso ha voluto provare una bomba

poi pioggia che toglie la sete alla terra che è vita

invece le porta la morte perché è radioattiva

Eppure il vento soffia ancora

spruzza l'acqua alle navi sulla prora

e sussurra canzoni tra le foglie

bacia i fiori li bacia e non li coglie

Un giorno il denaro ha scoperto la guerra mondiale

ha dato il suo putrido segno all'istinto bestiale

ha ucciso, bruciato, distrutto in un triste rosario

e tutta la terra si è avvolta di un nero sudario

e presto la chiave nascosta di nuovi segreti

così copriranno di fango persino i pianeti

vorranno inquinare le stelle la guerra tra i soli

i crimini contro la vita li chiamano errori

Eppure il vento soffia ancora

spruzza l'acqua alle navi sulla prora

e sussurra canzoni tra le foglie

bacia i fiori li bacia e non li coglie

eppure sfiora le campagne

accarezza sui fianchi le montagne

e scompiglia le donne fra i capelli

corre a gara in volo con gli uccelli

Eppure il vento soffia ancora!!!

(Pier Angelo Bertoli)

Non esiste degradazione della dignità umana che non provochi, allo stesso tempo, ferite nell'essere di Dio. (Oscar Vèlez Isaza).

La più grande religione che possa esistere è lo studio della vita e non esiste uno studio più grande o interessante. (Hazrat Inayat Khan).

Non importa quante operazioni hai subito, prima o poi, se vuoi guarire davvero, è necessario che ascolti il dolore...Lo scopo di qualsiasi malattia o dolore è quello di insegnarti a stare meglio di prima, crescere, guarire, imparare ad amare te stesso e scoprire una parte migliore di te. Tutto ciò richiede una mente aperta, fede e molto coraggio. (Art Brownstein).

Non aderisco all'opinione di nessun uomo: ne ho qualcuna per conto mio. (Ivan Turgenev).

Una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta. (Socrate).

Molto peggio che star male è dover dire come si sta a tutti coloro che ci fanno visita. (Filemone).

Alla fin fine la scienza consiste nel sapere che sai quello che sai e che non sai quello che non sai. (Confucio).

É proprio di un grande animo dimenticare un'offesa. (Seneca).

Beato colui che non si aspetta nulla perchè non sarà mai deluso. (Alexander Pope).

Le scienze si possono imparare meccanicamente, la saggezza no. (Laurence Sterne - Tristram Shandy).

Il perdono non è debolezza, non è bontà, soltanto saggezza: l'unica possibilità di respingere al mittente il male ricevuto. (Marco Scaldaferro).

La psicoanalisi è quella malattia mentale di cui ritiene di esserne la terapia. (Karl Kraus).

C'è una sola religione: la Religione dell'Amore. C'è una sola casta: la Casta dell'Umanità. C'è un solo linguaggio: il Linguaggio del Cuore. C'è un solo Dio: Egli è onnipervadente. (Sai Baba).

Dio è dentro di Te. Scoprilo! (Sai Baba).

Se nel cuore c'è rettitudine, c'è bellezza nel carattere e armonia nella famiglia. Se c'è armonia nelle famiglie, ci sarà ordine nelle nazioni. Se c'è ordine nelle nazioni, ci sarà pace nel mondo! (Sai Baba).

È diritto di ogni uomo ascoltare la propria coscienza ed è suo dovere agire secondo i suoi dettami. (Albert Einstein).

Nulla sarà più benefico per la salute umana e aumenterà le possibilità di sopravvivenza della terra, dell'evoluzione verso una dieta vegetariana. (Albert Einstein).

La misura dell'amore è amare senza misura. (Sant' Agostino).

La felicità è amore, nient'altro. (Hermann Hesse).

Pace non è solo il contrario di guerra, non è solo lo spazio temporale tra due guerre, pace è di più. Pace è la legge della vita umana. Pace è quando noi agiamo in modo giusto e quando tra ogni singolo essere umano regna la giustizia. Detto dei Mohawk (indiani Irochesi).

Non è vero che il ricercatore insegue la verità, è quasi sempre la verità che insegue il ricercatore. (Robert Musil).

Non c'è mai stata una buona guerra o una cattiva pace. (Benjamin Franklin).

Mettere gli occhiali a un bambino è ciò che serve a far piangere gli angeli. (William Bates).

Non c'è niente che tu non sappia fare, ci sono solo cose che non hai ancora imparato a fare.(Martin Brofman).

La violenza non è forza ma debolezza, né può mai essere creatrice di cosa alcuna ma soltanto distruggitrice. (Benedetto Croce).

Ogni cosa che puoi immaginare, la natura l'ha già creata. (Albert Einstein).

I medici sono dei privilegiati. I loro successi sono sotto gli occhi di tutti, i loro errori sono coperti dalla terra. (Michel de Montaigne - Essais).

Se non è giusto non farlo, se non è vero non dirlo. (Marco Aurelio).

Più uno sta in alto, meno è libero. (Sallustro).

Le liti non durerebbero a lungo se il torto fosse solo da una parte. (Françoise de la Rochefoucauld).

Non ammiro il coraggio dei domatori: chiusi in gabbia sono al riparo dagli uomini. (George Bernard Shaw).

Quando non si ama troppo, non si ama abbastanza. (Bussy-Rabutin).

Amare significa non dover mai dire mi dispiace. (Eric Segal).

Il momento giusto per fare una cosa che ci rende migliori è quando viene in mente di farla. (Anonimo).

Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario. (George Orwell).

La vita è lo strumento con il quale sperimentiamo la verità. (Thich Nhat Hanh).

Com'è il cibo così è la mente, com'è la mente così sono i pensieri, come sono i pensieri così è la condotta, com'è la condotta così è la salute. (Sai Baba).

Vivere felici e secondo Natura è un tutt'uno. (Seneca).

L'uomo deve capire e ricordare che la verità non può mai venire scoperta tutta, ma si rivela piano piano alla gente e si rivela soltanto a coloro che la cercano e non credono a tutto ciò che gli dicono intermediari falsamente "santi" i quali pensano di possederla, perciò l'uomo non deve considerare nessuno come un maestro che non può mai sbagliare, ma deve cercare la verità dovunque in tutte le tradizioni umane e controllare poi con la sua ragione. (L. Tolstoj).

La maggior parte dei professori hanno definitivamente corredato il loro cervello come una casa nella quale si conti di passare comodamente tutto il resto della vita. Da ogni minimo accenno di dubbio vi diventano nemici velenosissimi, presi da una folle paura di dover ripensare il già pensato e doversi rimettere al lavoro. Per salvare dalla morte le loro idee preferiscono consacrarsi, essi, alla morte dell'intelletto. (Benedetto Croce).

La ricchezza somiglia all'acqua di mare: quanto più se ne beve, tanto più si ha sete. (Arthur Schopenhauer).

Lasciate i bambini alla nostra educazione fino a dieci anni poi fatene quello che volete, tanto rimarranno sempre nostri. (De Maistre).

Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre portato al volere dei capi. È facile. Tutto quello che dovete fare è dir loro che sono attaccati, e denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo e per esporre il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in tutti i paesi. (Hermann Goering, gerarca nazista, al processo di Norimberga).

Ciò che è facile è giusto, ciò che è giusto è facile. (Lao Tzu).

Taci molto per aver qualcosa da dire che valga la pena di essere sentita. Ma ancora taci, per ascoltare te stesso. (Lanza Del Vasto).

A colui che dimostrava che il moto è impossibile, il saggio rispose senza parole: semplicemente, camminando. I troppo intelligenti vorranno dimostrarti che Dio non esiste? E tu non rispondere con parole: va a pregare. (Lanza del Vasto).

Se rafforzate l'intelletto senza purificare il cuore, armerete i demoni che faranno il loro nido in questo cuore. (Lanza del Vasto).

La preghiera non viene presentata a Dio per fargli conoscere qualcosa che Egli non sa, ma per spingere verso Dio l'animo di chi prega. (S. Tommaso d'Aquino).

Non c'è preghiera perfetta se il religioso si accorge di stare pregando. (S. Antonio eremita).

L'eccessivo valore che diamo ai minuti, la fretta, che sta alla base del nostro vivere, è senza dubbio il peggior nemico del piacere. (Hermann Hesse).

La vita di un uomo puro e generoso è sempre una cosa sacra e miracolosa, da cui si sprigionano forze inaudite che operano anche in lontananza. (Hermann Hesse).

Chi possiede coraggio e carattere, è sempre molto inquietante per chi gli sta vicino. (Hermann Hesse).

La terra non è un dono dei nostri padri, bensì un prestito dei nostri figli. (Detto tibetano).

Ogni qualvolta inquiniamo il pianeta, il suo respiro di vita si appesantisce. E' così stanca la terra di accettare i soprusi che l'uomo "incoscientemente" le propone. Il futuro è adesso, la terra siamo noi. (Siang).

Lasciare la vita scorrere liberamente sarà il primo passo verso la libertà e verso la pace sulla terra. (Wilhelm Reich).

Se c'è un qualche cosa che vogliamo cambiare nel bambino, prima dovremmo esaminarlo bene e vedere se non è un qualche cosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi. {Carl Gustav Jung}.

Mio caro gemello non sperare che qualcuno possa venirci a salvare, qualcuno possa venire a tirarci fuori dal nostro inferno, perché nessun Dio può farlo, perché quel Dio che cerchiamo disperatamente non è al di là di noi stessi, non è lontano, irraggiungibile da noi stessi, perché quel Dio non è nostro padre, quel Dio non è il nostro creatore, perché quel Dio che ti hanno insegnato ad amare e adorare, sei tu stesso, perché tu sei il Padre, tu sei il Figlio, tu sei lo Spirito Santo, perché sei tu Dio, il grande creatore, il grande spirito, il grande oceano di energia che ha creato la vita sulla terra, per tentare di darsi una forma, per tentare di avere un corpo, per tornare a percepire se stesso. E tu sei quel tentativo, quella possibilità, che è nata dentro una piccola cellula che è cresciuta e ha moltiplicato se stessa in miliardi di tentativi, miliardi di possibilità, miliardi di vite, tutte diverse nella forma, tutte uguali nel profondo, che si sono uccise, sbranate, fatte a pezzi, mangiate tra di loro perché volevano sopravvivere, volevano continuare la corsa, sangue dopo sangue, orrore dopo orrore, perché non si riconoscevano, non ricordavano di essere la stessa immagine. Miliardi, miliardi, miliardi di possibilità che l'universo si è creato per arrivare alla meta, arrivare disperatamente a percepire se stesso. Lo capisci mio caro gemello qual è il senso di questa corsa sfrenata che è partita dall'universo ed è arrivata fino a te...? (Bruno Franchi).

Le lacrime sono lo sciogliersi del ghiaccio dell'anima. (Hermann Hesse).

Il conto corrente è un'offerta volontaria al mantenimento della vostra banca. (Ambrose Bierce).

La malattia è il prezzo che l'anima paga per l'occupazione del corpo, come un inquilino paga un affitto per l'appartamento che abita. (Shri Ramakrishna).

Non si desidera ciò che è facile ottenere. (Ovidio).

L'insuccesso di un desiderio non si verifica perché Dio ti ha abbandonato, ma perché Dio ha una soluzione migliore per te. (Sai Baba).

Il senso della nostra esistenza terrena è tuttavia quello di riconoscere noi stessi e di sistemare i nostri difetti, ossia i nostri peccati, con l'aiuto dello Spirito di Dio, in modo da divenire a poco a poco veritieri. Allora si scioglieranno anche i legami e la necessità di appoggiarsi. Il nostro rapporto con i nostri simili sarà basato sempre più sull'indipendenza e sulla libertà. Da ciò risultano sovranità e forza interiore. (Anonimo).

Il nostro compito è guardare il mondo e vederlo intero. Occorre vivere più semplicemente per permettere agli altri semplicemente di vivere. (E.F. Schumacher).

L'errore non diventa verità solo perché si propaga e si moltiplica. E la verità non diventa errore solo perché nessuno la vede". (Mahatma Gandhi).

Le gioie sono doni del destino e il loro valore è nel presente, ma i dolori sono la sorgente della conoscenza e il loro significato si mostra nel futuro. (Rudolf Steiner).

Avendo riflettuto su queste frasi, pensiamo a quello che succede nella realtà.

I bambini che giocano su un albero di fico spoglio. Di fronte, quella casa, in via Ferrari 13 a Caselle Torinese, ormai diventata per tutti la villetta degli orrori, scrive Marta Tondo su “Nuova Società” . Vita e morte si incontrano e si mescidano in quella danza macabra in un tempo che si è fermato, in uno spazio che non sarai mai più come prima. Tutto è cambiato da qualche sera fa. Una follia omicida che ha portato qualcuno a uccidere a coltellate Claudio Allione, 66 anni, ex dipendente della Sagat, la ditta che gestisce i servizi dell’aeroporto di Torino, Maria Angela Greggio, 65 anni, ex professoressa in pensione, e la madre di lei, la novantenne Emilia Campo Dall’Orto. La lucidità di ripulire ogni cosa, senza lasciare alcuna traccia di sangue. I corpi della coppia sono stati trovati nel corridoio mentre quello dell’anziana riverso sul letto immobilizzato per sempre nel disperato tentativo di difendersi. Nessuna traccia come detto, tanto che in un primo momento si era pensato a una morte per inalazione di monossido di carbonio. L’analisi dei corpi però ha svelato quei segni di arma da taglio, letali. Ora la traccia, quella che sfugge sempre perché in fondo l’omicidio perfetto non esiste, quell’indizio che inchioderà l’assassino o gli assassini, dovrà essere trovato dai carabinieri del Ris di Parma, il Reparto Investigazioni Scientifiche, arrivato nel paesino per compiere il primo sopralluogo. Dovranno esaminare ogni singolo centimetro di quell’abitazione. Una villa che è già diventata meta di quel turismo del macabro che abbiamo già visto in Italia. Come le foto scattate ad Avetrana in Puglia dove è stata uccisa la piccola Sarah Scazzi o sul molo di fronte al relitto della Costa Concordia sull’Isola del Giglio e ancora prima a Cogne dove Anna Maria Franzoni trucidò il figlio, il piccolo Samuele. Infatti davanti a quel cancello c’erano famiglie con i loro bambini con cui parlavano di quanto avvenuto. Un’Italia in miniatura accorsa in quel tratto di strada sterrata in cui le scarpe affondano nel fango. E poi ci sono gli occhi indiscreti e volti che si affacciano timidamente alle finestre per vedere questo insolito via vai di gente. Massimo Reina, che vive a poche case di distanza dalla villetta degli orrori, si dice stupito: «Una famiglia come tante, quella degli Allione – dice con gli occhi bassi – Siamo sconvolti e increduli. Non pensavamo mai più che sarebbe successa una cosa del genere. Non qui da noi». «La signora Dall’Orto – racconta ancora – passava spesso di qui e si fermava a fare due chiacchiere. Nonostante gli oltre novant’anni andava ancora in bicicletta». In via Ferrari è tutto immobile, un fermo immagine. I sigilli alle porte, un grosso block notes sul tavolo davanti alla porta del garage in cui il figlio suonava la batteria, le tende rosa di una finestra scostate, forse quelle della cucina, Frammenti di un qualcosa che non sarà più. Tutto congelato, come l’erba del terreno che circonda la grossa villa. Tutto fermo come i lavori all’ultimo piano della struttura, iniziati oltre due anni fa. Un terzo piano costruito per il loro figlio Maurizio Allione, maturità scientifica conseguita al Liceo Gobetti, magazziniere carrellista fino a ottobre alla Delphi srl, e da allora disoccupato. Ed è proprio lui, il 29enne, ad aver lanciato l’allarme. Secondo quanto ha raccontato agli investigatori, al momento della strage, si sarebbe trovato in Valle d’Aosta con la fidanzata per le feste. Preoccupato poiché non sentiva i genitori da due giorni ha telefonato a una vicina e poi ha chiesto a un amico di andare a vedere cosa fosse successo. È questo quanto emerso dalle tredici ore di interrogatorio nella caserma dei carabinieri. Una ricostruzione però che non convince del tutto gli inquirenti: oggi la perquisizione nell’abitazione del giovane che viveva a Torino nel quartiere Falchera in cui è stata trovata della marijuana e per questo è stato denunciato a piede libero. Fino a ora l’unica cosa che hanno trovato di “insolito” sull’uomo. Nella lista degli interrogati ci sono finiti anche i nomi degli operai che lavoravano alla ristrutturazione perché il delitto è stato commesso da chi conosceva bene la casa. Il killer sapeva bene come muoversi. Anche quei cani, due pastori tedeschi, di cui un cartello appeso al cancello avverte la pericolosità, sono stati trovati chiusi in uno scantinato. Si sono fidati, anch’essi, come i loro padroni, di quella mano che invece di essere amica si è rivelata assassina.

Alle volte sembra di aver ricomposto tutti i tasselli della vicenda ma in realtà come in ogni caso di cronaca nera la tela del ragno è più fitta di quanto ci si aspetti. Il rischio è di dare per scontato ma alla fine ci si ritrova con un pugno di mosche in mano e con tanti interrogativi che non hanno avuto risposta. Maurizio Allione per tutti era il killer, vox populi vox dei, e noi stessi cronisti abbiamo rispolverato i vecchi casi per avvallare questa tesi: l’assassino doveva per forza essere uno di famiglia. Una strage. Quasi immediatamente tutti i riflettori puntano sul figlio Maurizio, interrogato per oltre dieci ore lunedì scorso, e per cinque ore ieri. E gli elementi per costruire una storia già vista c’erano tutti: lui disoccupato, litigi in famiglia, una fidanzata che gli ha fatto perdere la testa al punto da fargli cambiare completamente vita, quei cento grammi di marijuana, i tanti soldi e quell’eredità che rischia di non arrivare. Anche il ritrovamento delle tazzine puzzava di bruciato. Troppo strano e ricorda quel telefonino bruciato rinvenuto dallo zio di Sarah Scazzi Michele Misseri, nell’omicidio di Avetrana. Così la trama sbagliata viene intessuta, filo dopo filo, traccia dopo traccia. Il presidente dell'Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino critica duramente quei cronisti che scrivendo del triplice omicidio di Caselle Torinese, prima della notizia della confessione dell'omicida - il convivente dell'ex domestica delle vittime - hanno puntato il dito contro il figlio della coppia uccisa facendo chiare allusioni e riferimenti sulla sua presunta colpevolezza. Scrive Iacopino sulla sua pagina Facebook: "Ora che l'autore ha confessato, vorrei sapere come si sentono quanti hanno pubblicato la foto del figlio di due delle vittime in un contesto pieno di allusioni che ha toccato, proprio stamattina, una vetta ineguagliabile: il richiamo a "zio Michele" ("zio" di chi?) che nella strage di Avetrana (Sarah Scazzi) "rinvenne" il cellulare della ragazzina che aveva assassinato. Il giovane aveva ritrovato e consegnato una tazzina, una caffettiera e un guanto in lattice, in una buca vicino casa, mentre portava a passeggio i suoi cani. Complimenti. Non solo ai carabinieri. E se provassimo a trarre un qualche insegnamento da episodi come questo, tentando di avere rispetto per le persone?.

Caselle Torinese, per il Corriere della Sera il colpevole era il figlio, scrive “Libero Quotidiano”. Non è stato il figlio. No, l'omicida di Caselle Torinese è il compagno dell'ex domestica della famiglia sterminata. Maurizio Allione, 28 anni, il super-sospettato, non c'entrava nulla. Inutile negare che in molti avessero pensato che dietro quelle tre morti ci fosse proprio lui, sotto torchio per due volte negli ultimi giorni, il colpevole quasi perfetto. Però tra sospetto e certezza c'è un oceano di mezzo. Un oceano che il Corriere della Sera s'è bevuto tutto di un fiato, trasformando il sospetto in una sostanziale certezza. L'operazione è stata portata a termine in un lungo articolo, un "colloquio" con il giovane Maurizio, in cui si indugiava sulla mano destra che "trema in modo vistoso, lo stato di agitazione è evidente, dagli occhi accerchiati di rosso, dal gesticolare nervoso". "A ogni frase che pronuncia la mano tormenta il lobo di un orecchio, con un gesto ripetuto del quale non ha consapevolezza". Si parla di lui e di lei, la fidanzatina Milena, due che "a vederli da vicino (...) sembrano invece due ragazzi spaventati e fragili". "Invece" rispetto a cosa, vien da chiedersi. "Lei voleva fare la giornalista, ha studiato alla scuola della curia torinese, lui suona la batteria in gruppo hardcore punk, e quando qualcuno gli nomina Henry Rollins e Bad Religion, numi tutelari del genere, si lascia andare a quel sorriso di riconoscenza. E poi viene da pensare che questo è solo un lato della luna, ci sono i sospetti, le indagini che convergono, gli alibi che forse non tengono, le mezze frasi degli inquirenti che suggeriscono come le altre piste, insomma, meglio lasciarle perdere". Insomma, sull'"altro lato della luna" la sentenza è scritta a caratteri cubitali: colpevole, Maurizio ha trucidato madre, padre e nonna. Le certezze del Corsera vengono poi riconfermate in un ultimo, tostissimo, paragrafo. "Massimo e Milena stavano passeggiando e l'occhio è caduto proprio su quel dettaglio". Si parla delle tazzine di caffè, parte della refurtiva, ritrovate dal figlio in un fosso. "E d'accordo, il caso ci può anche stare, ma alzi la mano chi non ha pensato allo zio Michele di Avetrana che mentre lavora in un campo grande due ettari si imbatte, guarda un po', nel cellulare di Sarah Scazzi". Il Corsera, sicuro, quella mano l'ha alzata. "E così il lento pomeriggio davanti alla caserma con curiosi e giornalisti a scrutare oltre le inferriate, a chiedere lumi non su cosa sta accadendo, ma su quando accadrà, sembra a tutti una conseguenza, un tributo d'attesa da pagare a un finale in apparenza annunciato, quasi ineluttabile". Il finale ineluttabile è la colpevolezza di Maurizio. Resta solo da chiedersi "quando accadrà". La risposta: mai. Ma il Corriere della Sera era certo che così sarebbe stato: l'unico ineluttabile finale che si è presentato, invece, è la clamorosa topica di via Solferino.

Alle undici del mattino Maurizio Allione si sente stretto. «Non trovo altro modo per descrivere quel che provo. Come avere un cappio alla gola, mi manca l’aria». L’uomo che tutti cercano, il sospettato unico e per molti già in odore di colpevolezza, appare dove nessuno si aspetta di vederlo, eppure si tratta anche del luogo più logico. E’ la scena di un crimine orrendo, è anche casa sua. Gli abitanti di via Ferrari lo guardano come mai avevano fatto prima, qualche signora strabuzza gli occhi, in pochi lo salutano. Lui e la fidanzata Milena camminano con i due pastori tedeschi al guinzaglio. Hanno entrambi la faccia stravolta, ma non si nascondono, non scappano, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera”. «Piacere, Maurizio». La mano destra trema in modo vistoso, lo stato di agitazione è evidente, dagli occhi cerchiati di rosso, dal gesticolare nervoso. «Adesso scriverete che anche questa è una prova contro di me, senza pensare che avrei ogni diritto stare male, con quel che mi è successo. Non ho avuto il coraggio di entrare in casa, non so neppure se i carabinieri mi avrebbero dato il permesso. Mi sorvegliano e mi ascoltano, lo so. Io rispetto il loro lavoro, ma loro sono molto pressanti, mi stanno addosso. Capisco di essere sospettato, ma ci sarà pure qualcun altro in giro che può avere fatto questa cosa. Perché io proprio non sono stato». La strana giornata di Maurizio e Milena comincia con loro due che passeggiano tenendosi stretti per mano, quasi a darsi coraggio, intabarrati in spesse giacche di pile, e finisce in due stanze diverse della caserma dei carabinieri di Caselle, uno lontano dall’altro, l’interrogatorio avanti ad oltranza, confrontare versioni, verificare discrepanze, invitare alla riduzione del danno giudiziario in attesa di una confessione che non arriva. Non è una sorpresa, non per lui almeno. Se lo aspettava, poche ore prima aveva anticipato il seguito della sua prima uscita pubblica dopo la morte dei genitori e della nonna. «Con me non hanno finito. Credono che abbia ammazzato i miei per i soldi. Ma perché avrei dovuto farlo? Mi aiutavano quando ne avevo bisogno. Ogni tanto papà mi pagava l’assicurazione della macchina, e quando non ce la facevo, la nonna mi dava i soldi per le spese condominiali. Come fanno tutti». Milena si rivolge solo al suo fidanzato, con espressione sempre più corrucciata e occhi sbarrati. Il suo linguaggio del corpo trasmette una idea di autodifesa, non si fida di chi ha davanti, e in fondo ci sarebbe anche da capirla, comunque vada. Maurizio continua a tremare, a ogni frase che pronuncia la mano tormenta il lobo di un orecchio, con un gesto ripetuto del quale non ha consapevolezza. Ma non dà l’impressione di concedersi, di fare un favore, piuttosto sembra quasi sollevato, e vai a capire se è una posa, questa esibita disponibilità, oppure una necessità che gli viene da dentro, ormai anche lui dovrebbe sapere di camminare sul filo, perché oggi le parole e gli sguardi della gente che lo incrocia sono dure, prive di compassione, e con il passare del tempo, con il crescere dell’attesa, non andrà a migliorare. I due fidanzati cambiano itinerario della passeggiata con i cani, quasi percepissero il clima ostile del vicinato. Appena girano l’angolo e imboccano strada Caldano e i prati oltre la carreggiata, le voci riprendono a correre. Anna Uras, domicilio a due villette di distanza da quella della strage, racconta di liti, minacce, urla. «Ogni volta che Maurizio li andava a trovare c’erano sempre delle discussioni. Lui alzava così tanto il tono con la mamma che le sue urlate si sentivano in tutto il circondario, altroché». Sembra un canovaccio già recitato, già sentito, in altre villette simili a questa, in altri apparenti idilli domestici che solo dopo la tragedia non si rivelano più tali. All’inizio c’è la fase che prevede il peana della «famiglia normale», poi una volta passata l’impressione per quel crimine così vicino e individuato un presunto colpevole, all’improvviso tutti si ricordano di qualcosa che, «a pensarci bene», non andava, non funzionava. Mimma Filippelli, altra vicina di casa, sostiene di poter soltanto intuire i motivi delle discussioni continue tra padre e figlio. «Maurizio non lavorava e questo non fa mai piacere a un genitore perbene. Comunque sia litigavano spesso e le grida si sentivano dalla strada». Ieri c’era riserbo, oggi si sono rotti gli argini della discrezione, c’è solo da scegliere. La comunità di via Defendente Ferrari ha il verdetto in tasca. Una signora - «mi raccomando l’anonimato» - racconta che sabato sera i cani dei signori Allione erano liberi in giardino ma meno vitali del solito, «come se qualcuno gli avesse dato della droga». A vederli da vicino, con Milena che preme sul braccio di lui per suggerirgli di fermarsi, basta parlare, sembrano invece due ragazzi spaventati e fragili, di un pallore che li rende quasi di carta velina. Lei voleva fare la giornalista, ha studiato alla scuola della curia torinese, lui suona la batteria in un gruppo hardcore punk, e quando qualcuno gli nomina Henry Rollins e Bad Religion, numi tutelari del genere, si lascia andare a un sorriso quasi di riconoscenza. E poi viene da pensare che questo è solo un lato della luna, ci sono i sospetti, le indagini che convergono, gli alibi che forse non tengono, le mezze frasi degli inquirenti che suggeriscono come le altre piste, insomma, meglio lasciarle perdere. Gli unici a non rendersi conto dell’ambiguità di questi giorni sospesi sono loro. Maurizio racconta dettagli con una sobrietà che può anche essere scambiata per freddezza. «Di solito i miei non chiudevano mai la porta. Lasciavano dentro la chiave, senza dare mandate. Per loro bastavano i cani che abbaiavano. Se qualcuno voleva entrare dall’esterno bastava che cercasse il tastino elettrico accanto alla porta ed era dentro». La pressione di Milena sul suo braccio si è accentuata, ormai diventa quasi una morsa. E’ ora di andare. Salutano e attraversano la strada. Passa mezz’ora e le agenzie battono la notizia del ritrovamento di oggetti rubati alla famiglia Allione, in un fosso, al bordo di un ponticello di scolo davanti al portone di un’altra villetta. Massimo e Milena stavano passeggiando e l’occhio è caduto proprio su quel dettaglio, e d’accordo, il caso ci può anche stare, ma alzi la mano chi non ha pensato allo zio Michele di Avetrana che mentre lavora in un campo grande due ettari si imbatte, guarda un po’, nel cellulare di Sarah Scazzi. E così il lento pomeriggio davanti alla caserma con curiosi e giornalisti a scrutare oltre le inferriate, a chiedere lumi non su cosa sta accadendo, ma su quando accadrà, sembra a tutti una conseguenza, un tributo d’attesa da pagare a un finale in apparenza annunciato, quasi ineluttabile. I due fidanzati di Caselle restano chiusi là dentro fino a notte fonda, ognuno per sé, sempre più stretti.

Strage di Caselle. Come giornalista chiedo scusa a Maurizio Allione, scrive Andrea Doi su L’huffingtonpost.it. Capita a tutti di fare dei grossi sbagli nel proprio lavoro. Ma quando questi procurano dei danni a degli innocenti diventano errori imperdonabili. In questi giorni molti cronisti hanno sbagliato. Compreso il sottoscritto. Troppo frettolosamente abbiamo pensato bene che l'autore della strage di Caselle Torinese dove sono stati massacrati, venerdì 3 gennaio, nella loro villa Claudio Allione, 66 anni, Maria Angela Greggio, 65 anni, e la madre della donna, Emilia Dall'Orto, 93 anni, fosse il figlio, Maurizio. Corrotti da vecchi fatti di cronaca nera abbiamo sbattuto la sua vita, dopo averla spulciata per benino, in prima pagina, in pasto ai lettori e fomentando un odio nei suoi confronti di gran parte degli abitanti del piccolo centro alle porte di Torino. Abbiamo dato per scontato che avesse ucciso e che poi si fosse inventato tutto. In fondo era il cattivo perfetto: disoccupato, rockettaro, dedito al consumo di droghe leggere e chissà quali altri vizi. Abbiamo dedotto. Alibi falso che pensavamo di smontare noi prima degli inquirenti. L'aveva ben costruito, dicevamo, ma crollerà perché è debole. Eravamo convinti che lui, magari aiutato dalla sua fidanzata (sarà lei la mente che lo ha spinto a farlo, le donne fanno perdere la ragione) o da qualche amico, avesse prima massacrato padre, madre e nonna e poi, avendo fatto tesoro dei film degli ultimi tempi, Csi ad esempio, avesse ripulito ogni sua traccia dalla villetta degli orrori. Voleva subito l'eredità...ma noi non gli daremo scampo fino a quando non verrà arrestato...Già sognavamo il titolone sulla coppia diabolica. Secondo noi aveva pure esagerato nel far ritrovare quella refurtiva, rappresentata da alcune tazzine, giusto per avvallare la sua tesi agli occhi degli investigatori che ad uccidere era stato uno che era li per rubare. Figuriamoci. Poi, dopo una giornata intesa, ci siamo risvegliati con il vero assassino, reo confesso. Giorgio Palmieri. A questo punto il 26enne l'abbiamo dimenticato. Non ci serviva più. Nessuno di noi, dei cronisti che hanno seguito a Caselle il caso dalla scoperta dei corpi, si è preoccupato di fare un passo indietro. Ci siamo occupati del killer, sezionando ora la sua di vita. Senza chiedere scusa a Maurizio Allione, ai suoi amici e alla sua compagna. Abbiamo sbagliato quindi due volte: incolpandolo, mettendolo alla gogna prima e non dicendo "siamo dei fessi" dopo . E se Maurizio oggi è vittima lo è non solo perché ha perso la sua famiglia, ma anche perché noi, perdendo tutti quanti la misura, lo abbiamo vergognosamente trasformato in un mostro assassino. Tutti, dicevo all'inizio, fanno degli errori. Il nostro è sempre lo stesso, come in fondo era già accaduto. Sentirci giudici e sputare sentenze. Senza renderci conto che in quei panni abbiamo ancora una volta fatto una figuraccia. Che chi deve informare non può permettersi di fare.

Quei "mostri" per un giorno rovinati da errori e sospetti. Maurizio Allione è finito nel tritacarne, ma non c'entrava nulla. Proprio come Lumumba o Azouz. Per finire sotto i riflettori da innocenti bastano indagini incerte e un viso da presunto colpevole, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Adesso può permettersi il lusso di piangere e di dedicare un breve «grazie» ai carabinieri. Maurizio Allione indossa finalmente il lutto dell'uomo cui hanno sterminato padre, madre e nonna. Terrificante. Ma ancora più devastante era il sospetto che l'aveva avvolto come un sacco nero: era lui, per molti, il mostro di Caselle Torinese. E nel girare per il paese offriva gli occhi rossi e la mano tremante. I sospetti, le suggestioni, le voci della strada, tutto cospirava per cucirgli addosso il profilo del possibile killer. Non è la prima volta. La storia della cronaca nera italiana è anche un elenco di misteri, pasticci, colpi di scena che disorientano. E di disgraziati spinti sotto i riflettori prima di essere issati a forza sul palco dell'indignazione corale. Come è successo a Patrick Lumumba nella vicenda, ancora in svolgimento, del delitto di Perugia. Amanda Knox, la conturbante americana, punta il dito contro Patrick Lumumba, il padrone del pub in cui lei lavora, e gli stringe un cappio intorno al collo. Lo arrestano, poi piano piano la verità viene ristabilita. Lumumba ha due sole cose: un pub e la faccia da presunto colpevole. Può andar bene in quel puzzle, anzi andrebbe benissimo, peccato non c'entri nulla. Quella di Amanda è una calunnia, l'indagine subisce una torsione e punta proprio sulla presunta supertestimone. Il mostro è solo un poveraccio. E semmai si dovrebbe capire il perché di quella falsa delazione. Probabilmente per nascondere altre responsabilità. Del resto ci si può ritrovare nella scomodissima posizione di Lumumba e Allione per una serie di ragioni. O perché l'inchiesta è mal impostata e al posto di indizi e prove ci sono pregiudizi e tabù. Peggio, la colpevolezza sembra lombrosianamente dipinta sul viso e non ci sono a portata di mano alibi cui attaccarsi. Ancora, al crocevia degli snodi investigativi, certi personaggi, deboli, anzi fragili e indifesi sembrano adatti a ricoprire quel ruolo tremendo. Le loro mosse, chissà perché, combaciano a spanne con quelle dei killer. E così restano sulla giostra per anni, fra servizi televisivi, talk-show col plastico, intercettazioni ambigue. Roberto Iacono, per esempio, è un nome che ha resistito al tempo ed è diventato l'indagato storico per l'omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, avvenuto il 10 luglio 1991. La sua colpa? Era l'insegnante d'inglese dei figli della nobildonna, era nella villa al momento del delitto, era una persona con le sue fragilità. Iacono è rimasto per vent'anni nel limbo, in quella terra di nessuno in cui gli avevano appiccicato una sinistra etichetta. Provvisoria ed eterna. Non avessero preso come nei romanzi gialli il maggiordomo, il filippino Manuel Winston, oggi Iacono avrebbe ancora sulle spalle il suo fardello. Non mostro dichiarato, ma terminale inevitabile di chiacchiere e veleni. La galleria degli infelici che hanno portato la croce in Italia è lunghissima: ecco Azouz, il tunisino, braccato subito dopo il massacro di Erba con tanto di proclami della procura: «L'assassino viaggia su un furgone bianco, sappiamo dov'è. È in fuga». In effetti in quelle ore la procura di Como rischia di prendere una cantonata storica. Poi entrano in scena Olindo e Rosa, Azouz passa dalla parte delle vittime. La giustizia aggiusta il tiro. Un copione che si ripete troppe volte. Mohamed Fikri viene fermato mentre è a bordo di una nave che fa rotta verso l'Africa. Lo acciuffano in mare aperto con un'azione che sembra una cartolina della vecchia pirateria. E invece è un blitz per catturare il mostro, altra parola non si può usare, che ha ucciso l'innocenza di Yara. C'è di mezzo una frase carpita dalle microspie che diventa un rompicapo per gli investigatori: «L'hanno uccisa davanti al cancello». Viene tradotta ora in un modo ora nell'altro, sedici volte. E alla fine alla lotteria del sistema penale, Fikri pesca la casella giusta. Altre volte è la sorte a scagionare il mostro: Filippo Pappalardi esce dalla scena della tragedia di Gravina quando un bambino cade nel buco in cui erano precipitati e spariti Ciccio e Tore. I figli di Pappalardi.

Io, arrestato preventivamente quattro volte e assolto dopo dieci anni: «La nascita di mio figlio mi ha salvato», scrive Francesco Amicone su “Tempi”. Antonio Lattanzi racconta l’errore giudiziario subito, un dramma per lui e per la sua famiglia. Ai carcerati «non una, non dieci, ma migliaia di volte passa l’idea di farla finita». Quella di Antonio Lattanzi è una delle tante storie che gettano luce sul malfunzionamento e sulle assurdità della giustizia in Italia. Pochi giorni dopo aver ottenuto il risarcimento dello Stato italiano per l’errore giudiziario subito, ha deciso di raccontarla sabato, all’incontro “Giustizia? Esperienze a confronto per una riforma“, organizzato da Tempi e Panorama e trasmesso da Radio Radicale. Nel 2002, Lattanzi, allora assessore comunale in un paese abruzzese, fu accusato di tentata concussione dalla Procura dell’Aquila e arrestato. Fu scarcerato dal Riesame «a causa della mancanza di gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari», ma il gip emise altre tre distinte ordinanze riportandolo in galera (ordinanze anch’esse in seguito annullate dal Riesame per le stessa motivazioni della prima). In pratica, «sono stato arrestato quattro volte», spiega Lattanzi: il gip lo metteva agli arresti, il Riesame annullava la carcerazione preventiva, il gip lo arrestava di nuovo. In questo modo, Lattanzi passò ottantatré giorni in carcere da innocente. «Immaginatevi voi essere arrestato davanti alla moglie. Davanti a due figli, che allora avevano quattro e due anni». Lattanzi ha rievocato durante l’incontro il suo imbarazzo di fronte ai bambini. «Ogni volta che uscivo da casa, prima degli arresti, li salutavo con un bacio. Per tre volte non li ho potuti baciare. Mi chiedevano dove stessi andando insieme ai carabinieri. Cosa avrei potuto dire?». La quarta ordinanza di custodia cautelare gli fu notificata in prigione il giorno prima dell’annullamento della terza. «Praticamente il gip mi diceva: “Devi stare in carcere, ammettere le tue colpe” (che non c’erano)». «Ottantatré giorni al cospetto di certe situazioni sono nulla», ha detto Lattanzi, alludendo a chi è stato per anni in carcere da innocente, ma sono comunque durissimi. Il dramma della carcerazione preventiva coinvolse non solo lui, ma tutta la famiglia. «Io e mia moglie perdevamo sempre più la forza di reagire». Quando si parlavano nella sala colloqui del carcere («intercettavano pure quelle parole», ricorda con rabbia Lattanzi), «lei diceva che stava abbastanza bene, io dicevo che stavo discretamente». In realtà «stavamo sprofondando». «Sapevamo tutte e due di fingere» ma era un tentativo di darsi la forza necessaria per scongiurare il peggio. Perché, spiega Lattanzi, «a chi sta in carcere non una, non dieci, ma migliaia di volte passa l’idea di farla finita». Quando le forze ormai stavano venendo meno, «per paura che non riuscissi a reagire, dissi a mia moglie: “Troviamo qualcosa, aggrappiamoci a qualcosa”». Così decisero di avere il terzo figlio: «Perché quando un domani ci fossimo girati a guardare il dramma passato non ne avremmo sofferto». «Ora c’è una vita nuova: Francesco». La sua nascita «è stata l’ancora di salvezza che ci ha impedito di naufragare». Lattanzi fu assolto in primo grado. Il pubblico ministero fece appello, chiedendo la prescrizione del reato. Benché potesse avvalersene, Lattanzi ricorse in Cassazione per avere una sentenza che lo scagionasse pienamente. E fu assolto. «Ho mantenuto la mia attività grazie al mio socio», spiega, «ma la gogna mediatica, l’onta di aver varcato la prigione non ce la si scrolla di dosso». Moltissimi perdono il lavoro», ricorda. «Io ho ottenuto la riparazione per ingiusta detenzione, ma c’è qualcuno che neanche questo riesce a ottenere». «Per questo», conclude, «non solo bisogna riformare la giustizia, la custodia cautelare e far rispettare il referendum degli anni Ottanta che chiedeva la responsabilità civile dei giudici, bisognerebbe anche inserire le vittime degli errori giudiziari nelle categorie protette».

Mala Giustizia. 22300 errori giudiziari accertati ad oggi. I dati depositati presso il Ministero dell’Economia e Finanze e che pochi hanno il coraggio di denunciare, scrive Giovanni D'Agata. Un fenomeno di massa che ha fatto nascere associazioni, siti specializzati, blog e movimenti d’opinione perché ha riguardato e continua a riguardare milioni d’italiani e di cittadini residenti sul territorio nazionale. Parliamo degli errori giudiziari che nel corso degli anni hanno comportato esborsi milionari da parte dello Stato per gli indennizzi aventi valore riparatorio che sono stati concretamente versati. Anche se migliaia di vittime della malagiustizia non sono mai state risarcite perché, o non hanno fatto apposita richiesta, forse perché quasi mai l’indennizzo versato dallo Stato può riparare i danni che un errore può portare ad una vita e a quella dei propri cari, o perché le proprie istanze indennitarie sono state rigettate. E così sono passati oltre 24 anni dall’introduzione dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, ed oggi ciò che colpisce profondamente è il dato relativo al numero di persone rimasti vittime della giustizia dal Dopoguerra: oltre 5 milioni. Non si tratta solo di errori giudiziari o ingiuste detenzioni in senso stretto, quanto di uomini e donne finiti nelle maglie della giustizia e poi usciti assolti o prosciolti completamente. I dati precisi relativi agli individui per i quali è stato accertato che sono finiti ingiustamente in carcere, o hanno subito incolpevolmente una misura restrittiva ed ai quali è stato “concesso” l’indennizzo previsto dallo Stato, sono depositati presso l’Ufficio IX del Ministero dell’Economia e delle Finanze e fino ad oggi pochi sono andati a spulciarli e altrettanto pochi ne hanno denunciato le dimensioni. Sono circa 50 mila, infatti, i cittadini che hanno ricevuto il relativo indennizzo per una spesa complessiva che tocca quasi i 600 milioni di euro. Correva l’anno 1988 quando, finalmente, lo Stato si decise ad introdurre una misura che potesse almeno lenire le conseguenze di palesi ingiustizie: fu così creato l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione introducendo due specifici articoli il 314 ed il 315 nel codice di procedura penale. Le prime liquidazioni, però sono arrivate solo tre anni più tardi, ossia nel 1991 e contabilizzati nel 1992: nel periodo compreso tra il 91 ed oggi, a distanza di 22 anni, dunque, sono oltre 22 mila e 300, per la precisione 22.323, le persone per le quali è stata accertata l’ingiusta detenzione o un errore giudiziario per il quale è stato riconosciuto il relativo indennizzo. Secondo alcuni analisti, però le cifre sarebbero destinate più che a raddoppiare se si contano anche coloro che fanno richiesta del risarcimento che viene rigettata. Corrisponderebbero solo ad un terzo, al massimo due terzi, le domande che hanno un esito positivo. Anche il dato complessivo degli esborsi è esorbitante: oltre mezzo miliardo di euro. Tra riparazioni per ingiusta detenzione e indennizzi per gli errori giudiziari veri e propri (quelli cioè sanciti dopo un processo di revisione nei confronti di un condannato con sentenza definitiva, da cui quest’ultimo è stato dichiarato innocente), lo Stato ha sborsato dal 1991 (anno dei primi 5 casi di risarcimento contabilizzati) a oggi ben 575.698.145 euro. Quasi tutto (545.460.908) per risarcire le decine di migliaia di ingiuste detenzioni scontate da innocenti in carcere o agli arresti domiciliari. Basta scorrere gli anni gli nella tabella del ministero dell’Economia e delle Finanze per verificare che sono stati spesi oltre 56 milioni del 2004, 49 milioni e passa nel 2002, più di 47 milioni nel 2011. Il dato più basso riguarda il 1997 con un milione e mezzo di euro complessivamente registrati. Si tratta in media di circa 30 milioni di euro all’anno che sono stati prelevati dalle casse dello Stato per indennizzare le vittime d’ingiuste detenzioni e di errori giudiziari. Nella colonna degli importi pagati per errore giudiziario, per esempio, balza agli occhi come il 2012 sia stato l’anno in cui più si è speso per i soli errori (poco meno di 7 milioni di euro). Ciò che colpisce ulteriormente è però ciò che sta accadendo negli ultimi anni nei quali la famigerata spending review sta colpendo anche questo settore nel quale lo Stato dovrebbe farsi garante degli errori commessi a danno dei cittadini senza consentirsi alcun risparmio sulla pelle di chi ha sofferto e soffre. Fonti del Ministero dell’Economia e delle Finanze riferiscono che negli ultimi due anni, gli importi liquidati e le domande di risarcimento sono nettamente diminuiti quali conseguenza diretta della ridotta disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio, con ulteriore probabile effetto di una stretta nella valutazione delle istanze di risarcimento.

Nessuno si era mai preso la briga di contare le persone che, dall’introduzione dell’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, sono state coinvolte da episodi di malagiustizia, scrive “Affari Italiani”. Ebbene, secondo le stime raccolte, si parla di 50.000 persone. Senza dimenticare gli oltre 600 milioni di euro che sono stati spesi per rifondere le vittime di errori grossolani in sede giudiziaria. L’analisi, svolta dal sito errorigiudiziari.com, ha dimostrato senza possibilità di smentita la gravità della situazione e di come una giustizia “ingiusta” sia un gravissimo peso per un paese che cerca in ogni modo di ritrovare la via maestra. Il dato complessivo – riporta ancora Errorigiudiziari.com – lascia senza parole: circa 50 mila persone, per una spesa complessiva che sfiora i 600 milioni di euro. L’istituto della riparazione per ingiusta detenzione è stato introdotto con il codice di procedura penale del 1988 agli artt. 314 e 315, ma i primi pagamenti – spiegano dal Ministero – sono avvenuti solo nel 1991 e contabilizzati l’anno successivo: in soli 22 anni, dunque, oltre 22 mila e 300 persone sono state vittima di ingiusta detenzione o errore giudiziario vero e proprio. Come arriviamo allora alla soglia dei 50 mila? Semplice: perché non tutti coloro che fanno richiesta del risarcimento, vengono soddisfatti. Solo un terzo, al massimo due terzi delle domande (le fonti non concordano) vengono accolte e dunque liquidate. Ciò significa che il totale delle persone che avrebbero diritto all’indennizzo previsto per legge, sarebbero molte di più delle 22.323 fino a oggi soddisfatte: appunto, circa 50 mila. Pensateci: un numero enorme, uno stadio pieno, l’intera popolazione di una città come Ascoli Piceno o Chieti o Frosinone. Tra riparazioni per ingiusta detenzione e indennizzi per gli errori giudiziari veri e propri (quelli cioè sanciti dopo un processo di revisione nei confronti di un condannato con sentenza definitiva, da cui quest’ultimo è stato dichiarato innocente), lo Stato ha speso dal 1991 (anno dei primi 5 casi di risarcimento contabilizzati) a oggi ben 575.698.145 euro. Quasi tutto (545.460.908) per risarcire le decine di migliaia di ingiuste detenzioni scontate da innocenti in carcere o agli arresti domiciliari. Facendo una media grossolana, ogni anno dalle casse statali sono usciti 30 milioni di euro come indennizzo per ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. Con punte molto più elevate: come gli oltre 56 milioni del 2004, i 49 milioni e passa del 2002, i 47 milioni abbondanti del 2011. Il dato più basso si fece registrare nel 1997 (circa un milione e mezzo di euro, tra ingiuste detenzioni ed errori giudiziari). La tabella del ministero dell’Economia e delle Finanze è tutta da leggere: nella colonna degli importi pagati per errore giudiziario, per esempio, balza agli occhi come il 2012 sia stato l’anno in cui più si è speso per i soli errori (poco meno di 7 milioni di euro). Interessante notare un particolare. Negli ultimi due anni – conclude Errorigiudiziari.com –, gli importi liquidati e le domande di risarcimento sono nettamente diminuiti. Stato più virtuoso? Meno innocenti in carcere? No, il vero motivo è un altro. Lo spiegano gli stessi esperti del ministero dell’Economia e delle Finanze: le diminuzioni degli importi corrisposti a titolo di R. I. D. (Riparazione per Ingiusta Detenzione) soprattutto negli ultimi anni non sono conseguenza di una riduzione delle ordinanze, bensì della disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio non adeguata. Insomma: in tempi di spending review, la necessità di tagliare i fondi ha portato a una diminuzione di denaro a disposizione dei risarcimenti. E, con molta probabilità, anche a una stretta nella valutazione delle istanze di risarcimento.

AVETRANA. UN PAESE NORMALE.

Caso Sarah Scazzi: “Nel meridione hanno una predisposizione genetica per simili crimini". Continua il razzismo di Radio Padania, scrive Valerio Rizzo su “Info Oggi”. Un’altra pagina nera per l’Italia, un’ennesima ondata razzista che ha come trampolino di lancio la solita Radio Padania. Il Blog di Daniele Sensi  segnala i commenti di alcuni militanti leghisti che vedono nelle cause dell’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa ad Avetrana, le “predisposizione genetica” per compiere simili crimini. Infatti l’utente Iperboreo75 scrive (non hanno nemmeno il coraggio di identificarsi e si nascondono dietro l’anonimato): “un livello di ignoranza, di cultura sociale così sottosviluppato, di mentalità così cattiva porta a questi eventi”; oppure Maxx Ebn scrive: “condivido in pieno quello scritto da Iperboreo75 per la predisposizione genetica degli abitanti di certe regioni d’Italia”. Infine Pittix afferma: “a Sud ci sono più crimini passionali e i delitti avvengono in famiglia, noi del Nord invece siamo più miti, gentili e malinconici”. E’ dunque la pura esaltazione della razza! Anche se c’è da precisare che negli ultimi vent’anni i più efferati delitti sono avvenuti in località decisamente lontane dalle regioni del Sud: ad esempio Erba, Cogne e Novi Ligure, per citarne alcune. Ma soprattutto ancora una volta non c’è nessun moderatore della radio che “richiami all’ordine” i militanti o che almeno crei un contraddittorio, specialmente se il suo direttore, Matteo Salvini, diventa il segretario nazionale dei leghisti di questo stampo. Fa male leggere queste cose, il Metternich due secoli fa affermava che non esistevano gli italiani e che l’Italia era solamente una mera espressione geografica. Ancora oggi è purtroppo così! Esistono ancora gli stronzi ignoranti barbari.

Razzismo: sono meridionale ma..., scrive Vincenza Perilli su “Agora Vox”. Molti dei commenti giornalistici seguiti all'omicidio di una ragazzina di quindici anni pugnalata e poi bruciata viva dal suo fidanzato la scorsa settimana in Calabria, hanno portato alla ribalta la persistenza, in Italia, di tutta una serie di pregiudizi e stereotipi razzisti verso il Sud. Seppur denegata dal persistente mito secondo il quale "gli italiani non sono razzisti" infatti, esiste una storia del razzismo italiano, in cui uno spazio non trascurabile occupa - insieme all'antigiudaismo cattolico, antisemitismo e leggi razziali del '38, colonialismo - il razzismo antimeridionale. L'Italia infatti, quando giunge (in ritardo rispetto ad altri paesi europei) sullo scacchiere coloniale, può vantare già una lunga tradizione di “razzismo interno”, che aveva trovato il suo culmine nella cosiddetta “guerra al brigantaggio”, che come ci ricorda lo storico Angelo Del Boca “fu anche 'una guerra coloniale', che anticipò, per le inaudite violenze e il disprezzo per gli avversari, quelle combattute in seguito in Africa. Non fu forse il generale d'armata Enrico Cialdini, luogotenente di re Vittorio Emanuele II a Napoli, a dichiarare: 'Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele'?”. Questa storia ha lasciato le sue tracce. La cronaca degli ultimi anni è piena di episodi inquietanti, che testimoniano la persistenza di un immaginario razzista che si traduce in molteplici forme: dal ragazzino di origini napoletane angariato dai compagni di scuola in provincia di Treviso fino a meditare il suicidio, ai commenti che riconducevano l'omicido di Sarah Scazzi a una presunta "cultura meridionale", ad una delle campagne pubblicitarie dell’operatore telefonico Italiacom in cui alcuni uomini siciliani venivano rappresentati facendo ricorso ad alcuni dei classici stereotipi razzisti anti-meridionali... Ma nei commenti all'omicidio di Fabiana Luzzi è possibile cogliere un ulteriore aspetto: la maggioranza degli articoli sono scritti da persone, uomini e donne, che si dichiarano meridionali prima di prendere le distanze da una certa cultura, descritta di volta in volta come barbara, arretrata, oppressiva. Sembra quasi che il dichiararsi meridionali serva a testimoniare l'autenticità di quanto si afferma o forse ad allontanare ogni sospetto di razzismo. Per chi ha letto Fanon invece - e soprattutto le pagine che egli dedica ai meccanismi dell’oppressione e dell’alienazione degli oppressi, che "dipendono" in modo ambiguo e contraddittorio dai loro oppressori e in cui la dominazione è possibile solo se l’oppresso finisce per identificarsi con chi lo disumanizza, prendendo le distanze dagli altri colonizzati, credendo di "emanciparsi" -, questo aspetto acquista un senso inquietante.

Avetrana, la terra del rimorso che brucia diavoli e streghe. L'omicidio di una ragazzina, l'assedio delle tv, i veleni e i nuovi sospetti. Viaggio nel paese dove ha vissuto (ed è morta) Sarah Scazzi. Mai la crudeltà era stata così invadente. Mai un omicidio era diventato così tanto una colpa collettiva, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”.  Ogni giorno ad Avetrana bruciano un diavolo o una strega. All'uscita della scuola Morleo, oggi il fuoco tocca a Sabrina: "Le braccia e le mani! Avete visto in tv come le muoveva? Come se non fossero più sue". La signora Cosima parla ad un'altra signora che si chiama pure Cosima, e mentre parlano diventano persino brutte, somigliano a quei diavoli che vogliono cacciare ma che invece si portano dentro. E all'oratorio anche i ragazzi si scoprono razzisti verso i testimoni di Geova: "La mamma di Sarah, la signora Concetta, pensa più alla Bibbia che a Sarah. Qui ad Avetrana essere testimone di Geova è uno stile di vita, un modo di stare in società, come a Gallipoli iscriversi al club della vela". All'ufficio del Comune di Manduria la dottoressa Addolorata Palumbo, pediatra, racconta di "quel rapporto diabolico che nella campagne della nostra Puglia c'è tra padri e figlie: non so se è amore, io credo che si avvelenano a vicenda". Al bar Centrale una folla di vecchi aspetta il collegamento in diretta di "Studio aperto" che inquadra la casa degli orrori, sul tavolo birra e lupini; di fronte, nella Cartolibreria Marcucci, in vetrina c'è un libro della Newton Compton, di Mastronardi e Villanova: "Madri assassine". Mai l'atrocità e la crudeltà e l'orrore erano stati così invadenti, mai un delitto, a partire dal modo oscenamente televisivo in cui è stato scoperto, era riuscito a diventare sino a questo punto colpa collettiva e inespiabile. Il preside Bruno Leo, una bella faccia laica, ricorda manzonianamente "la funesta docilità" e la feroce passione dei linciaggi e si rifiuta di passare sia davanti alla casa dove Sarah abitava sia davanti alla casa della famiglia assassina: "Ci vada da solo, se vuole". All'improvviso è colto da un disagio che forse - penso - è coraggio civile. Perciò ferma l'auto. Con noi c'è pure il professore Tommaso Nigro, che ha insegnato italiano anche a Sarah. "Lasciamo perdere" mi dice infastidito dalla propria emozione: "Arrivano dalla capitale come stormi di corvi, come stormi di morte. In Italia i linciaggi li fa la televisione". Eppure è qui che gli altri avetranesi vanno, perché è qui che si tengono le udienze del teleprocesso quotidiano a tutti i diavoli di Avetrana, che vuol dire "città dei veterani", città dei vecchi soldati in riposo, dei reduci, settemila abitanti, due chiese, niente uomini illustri, niente parlamentari. Mi presentano un ragazzo che studia Diritto a Bari, si chiama Angelo, era stato alla scuola elementare con il fratello di Sarah, Claudio, che ora fa il postino a Milano: "I delitti premeditati sono quelli che non si commettono". Eccone un altro che vuole avere ragione di un delitto fuori della ragione. Prevede che nessuno saprà mai veramente come è andata, "ci saranno tante verità, il solito gioco dell'apparire contro l'essere", il padre contro la figlia e viceversa, la sorella contro la sorella, gli zii contro la nipote. "Pensi - mi racconta don Dario - che Concetta, la mamma di Sarah, è stata adottata da un zio, una guardia campestre che si chiamava Spagnolo ed era detto "Speranza"". Lo zio, mi vuole forse dire, in questo mondo di caratteri forti è il padre reale che si affianca al padre naturale. E invece qui saltano tutti gli avamposti della famiglia tradizionale: non più familismo amorale ma familismo immorale. E non si tratta di un'eccezione ma, se mai, di un caso limite. Basta leggere le statistiche sulle violenze alle donne e ai bambini nella famiglia italiana, soprattutto nelle campagne e non solo al Sud. Eppure quando il cadavere di Sarah non era ancora stato trovato, i vicini, i reporter, i blog dicevano che la famiglia Misseri era una buona famiglia, che la moglie Cosima e le figlie Sabrina e Valentina, che vive a Roma dove ha sposato un portinaio, avevano salvato Michele da una naturale malinconia, che "si amavano di un amore fatto di silenzi". In un primo tempo dunque la villetta che Michele aveva comprato con i soldi guadagnati in Germania era come un pianeta di pochi ettari, solitario e protetto, un frammento di felicità familiare staccato dal mondo. E i vicini insistevano sulla privacy che Misseri aveva difeso con grande dignità in questo piccolo paese dove tutti conoscono tutti, e non solo perché tutti si spiano. Una sola volta don Dario era stato invitato a bere un caffè in casa e Sabrina gli era parsa paffuta e vivace, ricca di ingegno e di sentimento. Ma poi ha cambiato faccia Misseri, l'assassino, che non è stato sempre un diavolo, e anzi per Giuseppe, il vicino di casa, la sua indole che oggi è "oscura e malata" allora era "riservata e lunatica". E subito una vicina ricordò di averli sentiti litigare. Dunque Michele è diventato rude e forse beveva e forse segretamente abusava della figlia. Ma altri dicono che invece no, non è così. Erano madre e figlia che lo dominavano, ne controllavano le pulsioni sessuali e allora la faccia di Michele cambia di nuovo, malato sì ma vittima, schiavo di una dispotica tirannia femminile, arcaico e prelogico, che è poi la linea degli avvocati difensori, la linea dell'autodistruzione e della follia. Non succede spesso, neppure in questi territori dell'incesto contadino, che padre e figlia si dividano in modo così violento. Certo, sono situazioni limite ma serviranno per capire come si consuma il distacco che è vero perché avviene tra cose che sono veramente attaccate, spaccatura interna, strazio. Sabrina-Michele saranno oggetto di studio, è probabile che Sabrina scriva le sue memorie, ubriaca di televisione, anzi "tarantolata" di vanità mediatica com'è. Mi dice il preside: "E senza l'eco di pietà, di misericordia, se non, astrattamente, solo per la morta che comunque è già dimenticata. Ho chiesto a don Dario, il parroco che ha officiato il funerale, se pensa di farne un'altra Santa Maria Goretti". Ebbene "è una cosa delicata" ha risposto don Dario. E speriamo che l'acqua benedetta non sia olio sul fuoco perché sempre, quando si arriva al dessert della ragione, ci si rifugia nel santino, nella tonaca, e anche la croce diventa un amuleto. È dunque qui che abitava Sarah, in quest'anonima casetta di periferia, queste erano le scale che saliva e scendeva ogni giorno e questa era l'atmosfera modesta che le rimaneva incollata ai vestiti quando andava in giro con la cugina Sabrina, che forse l'ha uccisa, e con Mariangela, l'amica che ora accusa Sabrina. Persino al supermercato "Tutto a mille" gli animi si accendono contro Sabrina, la strega di turno: "Concetta l'affidava alla cugina di 22 anni. Sette anni di differenza: era come una seconda mamma". Ma il confronto con quelle ragazzone larghe ed eccessive rendeva Sarah più piccola dei suoi 15 anni, "un soldo di cacio di quaranta chili, un metro e cinquanta, e malgrado tutta la buona volontà che ci metteva per rendersi attraente, parlava pochissimo, proprio come lo zio che prima l'ha uccisa e poi forse l'ha violentata". Sullo zio, la piccola folla del supermercato ricorda solo le brevi frasi piene e rare e poi il silenzio, inteso come categoria dello spirito: "suoni gutturali che somigliano a benevoli grugniti, mezzi sorrisi, monosillabi di circostanza", la parola come spreco. Certamente questa gente che somiglia agli olivi saraceni del Salento ha qualcosa di nodoso e solitario, uomini e donne che hanno dietro le spalle generazioni di mutismo, l'infanzia trascorsa in un mondo che proclama l'inutilità della parola. Mi dice il mio amico preside: "Dire niente in maniera incomprensibile è probabilmente un esercizio troppo diffuso. Ma riesce difficile accettare l'antidoto del dire niente per essere compresi". Dunque vado da solo anche davanti alla casa della morte. È qui che Sarah muore e rimuore, tra rumori di auto, rombi di moto, riflettori puntati su una porta, e poi noi giornalisti, "giornalisti cannibali e sparvieri, ma anche poveracci" sta scritto con lo spray nero sul muro che circonda la fabbrica del tonno Torre Colimena, l'industria più moderna, la perla del signor Scarciglia detto Meazza. È sera e sta piovendo. Assisto all'intervista che Enrico Lucci delle "Iene" fa a Giuseppe, il vicino di casa: "Lei è d'accordo con la tesi di Crepet o con quella di Morelli? Non mi dica che non li ha visti da Vespa?". E lo sventurato risponde: "Io ho una mia tesi, e l'ho scritta in una lettera". A chi l'ha spedita? "La darò a qualcuno di voi, a qualcuno della televisione". Mi faccio forza e abbordo anche io i vicini. A fatica le strappo il nome: Lucia. È alta, magra, bruna, è stata bella. Mi guarda e, con gli occhi, mi fa capire che lei non se la beve, che non crede al rito dell'informazione, ma poi si lascia andare tra sentimento e risentimento: "Misseri era silenzioso, è vero, lavorava la terra e lo chiamavano "ciucciu di fatica", ma secondo lei la riservatezza e il lavoro sono indizi d'accusa o di difesa? Un contadino tutto terra e famiglia è un selvaggio o un poeta?". Vado al cimitero dove la tomba è un letto di fiori e di angeli di ceramica, c'è una donna in raccoglimento, chissà se prega. Mi avvicino: parente? Risponde: "Per carità!". Può dirmi il suo nome?. "No. Sono stata una maestra di Sarah. Ma non ho nulla da dire perché non c'è niente da dire. Mi creda". Don Dario, che pure al funerale ha invocato la giustizia di Dio e la vergogna degli uomini, non vuole che al rogo finisca l'intera Avetrana: "Ogni volta che accade un delitto in un posto si finisce con il dire che il vero colpevole è il posto". È possibile che per un'adolescente non sia particolarmente piacevole vivere ad Avetrana, ed è ovvio che un povero abbia meno opportunità e sia più tentato dal crimine di un ricco "ma è insopportabile questa spocchia saputella che fa di Avetrana l'inferno nelle caverne". E però - gli dico - occorre che ci sia il diavolo perché l'acqua santa sia santa. Risponde: "Lo scriva che qui non ci sono cinema né discoteche. Ma non dimentichi di aggiungere "per grazia di Dio"". Don Dario racconta che Sarah non era battezzata perché la madre è appunto testimone di Geova: "Ma la ragazza voleva farsi cattolica. Non avrei permesso il funerale cattolico se non avessi consegnato alla Santa Sede la certificazione di quello che dico". Certificazione? "Testimonianze scritte e firmate". La mamma al funerale non c'era. "Sì, ma alla fine è venuta. Ha capito che la Chiesa si era fatta madre". Vado a trovare Mimmo Scalzo, detto "il vescovo" perché tra i testimoni di Geova di Avetrana è quello con lo stato di anzianità più lungo. E ho subito la sorpresa di trovare un imprenditore che potrebbe stare a Firenze o a Berlino, bella la casa e bella la famiglia, due figli, un ristorante che però "in questi giorni di folla non ho voluto aprire perché non voglio speculare sulla morte di Sarah, sul dolore di Concetta". Paradossalmente in un posto così marginale i Testimoni di Geova sono una possibile, incredibile risposta illuminista alla miseria culturale. Dice Scalzo: "No. Sarah non era testimone di Geova. Mi permetta di aggiungere che, se lo fosse stata, forse non sarebbe finita in quell'inferno, in quella gabbia mentale dove l'hanno rinchiusa zii e cugina". Questa è la terra degli studi sui tarantolati, la zona della magia, e sulla strada statale che attraversa i mille paesini tutti uguali ci sono ancora molti centri di devozione, tollerati anche se non ufficialmente riconosciuti dalla chiesa, come la statuetta di gesso di san Cosimo, vicino Manduria, e la madonna vestita di bianco che appare il 23 di ogni mese, ma solo una signora del posto può vederla. La religione e il sacrificio di una bambina, il mistero delle donne, tutte queste facce strane, il sordido e il magico sono gli stessi ingredienti del film di Sergio Rubini, "La terra", con Fabrizio Bentivoglio e Claudia Gerini, ambientato nella medievale Mesagne, a 20 chilometri da Avetrana. E proprio qui, nell'entroterra salentino, Ernesto De Martino scoprì la crisi della ragione, la superstizione, i residui preilluministici, la morte e il pianto.... "Mancava solo la sconcezza della televisione" mi dice il preside. Da Avetrana in poi la tv entrerà per sempre nel pasticcio meridionale. In sé non è colpevole e non è innocente, ma, avamposto della modernità nella selvatichezza di tutte le Avetrana d'Italia, ha sostituito la magia come risposta alla deiezione dell'essere, all'angoscia della marginalità: la televisione come doping, la televisione è la nuova "terra del rimorso".

Viaggio nel paese di Sarah. Un paese normale. Prima che si accendesse il Grande fratello dell'orrore di Nino Ciravegna su “Il Sole 24 ore”. Ad Avetrana facevano magliette e abbigliamento di fascia bassa, una manciata di aziende, qualche centinaia di dipendenti e altrettante casalinghe a cucire per i conto terzisti, senza orari, contributi e guadagni adeguati. Poi, qualche anno fa il made in China ha spazzato via tutto. Ad Avetrana hanno piantato ulivi ovunque, quasi mezzo milione di piante. Si guadagnava fino a quando le olive di Marocco, Tunisia, Algeria hanno invaso la Ue attraverso la Spagna. I prezzi sono crollati. E molti olivicoltori risparmiano nell'unico modo possibile: non raccolgono le olive, niente potature, i braccianti a casa. La globalizzazione vista da Avetrana,il paese pugliese catapultato nel circo mediatico per il dramma di Sarah Scazzi, ha la faccia feroce che stravolge un'economia fragile. Mazzate che vanno ad aggiungersi al ridimensionamento dei fondi statali ed europei. L'emigrazione è ripartita, i giovani non hanno prospettive. Avetrana è in drammatica crisi. Una parte degli abitanti, minima, non ha trovato di meglio che cadenzare la giornata seguendo i palinsesti delle trasmissioni in diretta, una sorta di Grande fratello dell'orrore. Dal benzinaio, dai barbieri e nei bar non si parla d'altro, molti si sono improvvisati investigatori, ognuno ha la sua versione e i suoi sospetti. Ma larga parte degli avetranesi si è sentita offesa nelle descrizioni mediatiche del paese. E mal sopporta i turisti dell'orrore che vagolano tra la casa di Sarah e la cantina-garage dello zio Michele. Una scritta sul muro, per una volta non atto vandalico, sintetizza l'esistente: «Questo non è Holliwood». Il circo mediatico abbandonerà Avetrana, lasciando in crisi di astinenza improvvisate comparse e aspiranti intervistandi, i furgoni con le antenne per le dirette tv andranno a ravanare spazzatura altrove, negli studios i soliti tuttologi cambieranno cappello per spiegare psicologie e dinamiche di altri casi. Avetrana resterà con i suoi problemi. Tanti. Le case sono tenute bene, in un confuso reticolo senza piano regolatore, la delinquenza è limitata a sporadici furti, la criminalità organizzata è assente. I cafoni, è ovvio, ci sono, lo vedi anche dal cartello appeso al distributore delle sigarette: «I signori clienti sono pregati di non tirare calci e pugni alla macchinetta». I prezzi sono bassi, orate a 6 euro al chilo, una villetta a schiera costa 115mila euro. Molte associazioni di volontariato dicono che il paese non si è sfaldato. In questi giorni i tre vigili urbani hanno potuto contare sulla cinquantina di volontari della Protezione civile. Ci sono volontari per visite guidate e mostre culturali. E tanto sport. Don Dario De Stefano, da otto anni alla parrocchia del Sacro Cuore, ne è sicuro: «Ho iniziato il mio sacerdozio nella periferia romana, poi sono stato in centri pugliesi più grandi, posso fare il paragone. Il tessuto di Avetrana resiste: le famiglie seguono i ragazzi e il volontariato è vivo. Non siamo villaggio da terzo mondo o terra del nulla». L'ottimismo della fede è forte, la provincia italiana ci ha abituati a miracoli di resistenza e arte di arrangiarsi. La strada di Avetrana non è terra di nessuno, ma di confine sì. È in Puglia, regione di confine, è al limite della provincia di Taranto. Il dialetto è vicino al leccese con influenze brindisine e tarantine. Terra di confine anche per il gap generazionale, giovani e vecchi vivono quasi mondi separati. Nel paese ci sono 238 laureati e, secondo le rilevazioni Istat, 364 analfabeti, di cui un centinaio con meno di 65 anni. Ci sono 1.146 diplomati e 996 risultano senza titolo di studio. Laureati e diplomati vedono il mondo attraverso internet e la tv, leggono poco: le cinque edicole vendono 62 quotidiani al giorno, saliti a 151 in questi giorni. I giovani non sanno capacitarsi alla vita senza prospettive. Molti emigrano. In paese ci sono 7.117 abitanti, nel 1991 erano 8.600. In realtà ci vivono in poco meno di 5.500, gli altri sono a lavorare al Nord, soprattutto i giovani diplomati o laureati. Ci sono anche una quarantina di extracomunitari, per lo più dell'Europa dell'Est, così sfigati da cercare fortuna in un posto che ha poco da dare. Avetrana è vicina al Salento, ma non ha sfruttato il boom delle masserie di lusso, è a pochi chilometri dal mare, ma non ha un metro di spiaggia, i turisti affollano Porto Cesareo. Settemila abitanti, 73 chilometri quadrati, con uliveti e poco altro. Alle scuole superiori si va a Manduria o a Lecce, all'università a Roma o Milano, da qualche anno anche nella capitale salentina, pochissimi a Bari. La multisala più vicina si trova a Nardò, 32 chilometri. Discoteche idem, Nardò o Lecce. Non c'è ospedale o ricovero per anziani, per prendere il treno delle ferrovie devi andare a Erchie, a dieci chilometri. C'è l'autobus per Taranto, un'ora e mezzo abbondante per 50 chilometri. La diocesi è quella di Oria, nel Brindisino, il protettore è San Biagio, per le feste patronali si fanno prestare le reliquie del martire dal santuario di Maratea. Redditi da fascia povera. I guadagni stentano, il reddito medio del 2008 è stato di 6.126 euro, il più basso della disastrata provincia di Taranto (sono 9mila e rotti in Puglia). Le dichiarazioni fiscali sono poche, al fisco risultano sei "paperoni" che hanno dichiarato oltre centomila euro d'imponibile (probabilmente proprietari di grandi tenute e di una manciata di masserie trasformate in strutture ricettive), 34 "ricchi" in una fascia compresa tra i 50 e i centomila euro, la gran parte dei contribuenti è sotto i 10mila euro. Internet per pochi. Su 2.660 famiglie ci sono 2mila linee telefoniche fisse (il 10% è per negozi, imprese e studi professionali), sei telefoni pubblici e meno di 500 connessioni Adsl: se togliamo pubblica amministrazione, associazioni e aziende, internet è in una famiglia su dieci. Non a caso Sarah andava in biblioteca per navigare su Facebook. In compenso i cellulari sembrano diffusissimi (anche se la copertura non è delle migliori), puoi fare le ricariche in bar, tabaccherie, ricevitorie del lotto e negozi. Secondo i dati, 800 famiglie non hanno l'apparecchio tv, ma su questo pesa l'evasione del canone Rai. Tanti ulivi, le olive restano sull'albero. Avetrana è il comune d'Italia con la maggior parte del territorio piantato a uliveto, 50 chilometri quadrati su 73. Nicola Spagnuolo, presidente della Cia per il comprensorio, fa conti rapidi: «Un bravo bracciante raccoglie fino a quattro quintali di olive al giorno, mi costa 40 euro cui devo aggiungere 26 euro di contributi, poi devo affrontare le spese di molitura e trasporto, altri 12-15 euro di costi. Per quei quattro quintali incasso 60 euro, le olive sono quotate 15 centesimi al chilo, che non bastano neanche per pagare il bracciante, senza contare le spese sostenute per arature, diserbi e potature». Nel 2009 Spagnuolo non ha raccolto; quest'anno saranno molti di più a lasciare le olive sugli alberi. E lancia l'allarme: «Tremonti a inizio estate ha negato la proroga della fiscalizzazione degli oneri contributivi, da 11-12 euro sono passati a 26, per un trattorista si arriva a 30 euro al giorno. Una situazione insostenibile, scenderemo in piazza, Avetrana è stato il primo paese a bloccare le strade negli anni 90 per protestare contro la politica Ue». Gli espianti delle vigne. Un migliaio di ettari sono coltivati a vitigno. Il Primitivo è di recente scoperta, valorizzato dai grandi sommelier, vendite e qualità sono in crescita. Ma i prezzi delle uve avetrane, usate spesso per tagliare i vini del Nord, calano e molti proprietari stanno espiantando i vigneti. Non ce la possono fare le 850 aziende agricole del paese, anche se molti agricoltori fanno parte del registro camerale solo per avere la benzina agricola agevolata. Secondo stime, che nessuno conferma, sono meno di 350 le imprese agricole vere. Il tufo abbandonato. Avetrana ha vissuto un periodo favorevole negli anni 60 con le cave di tufo. Erano decine, hanno perforato e crivellato tutto il possibile, ora ne sono rimaste pochissime, perché il tufo è bello, ma assorbe l'umidità. Welfare a larga diffusione. L'Inps è probabilmente la principale fonte di incassi ad Avetrana. Ai settemila abitanti eroga 1.114 pensioni di vecchiaia e 393 di reversibilità. Paga 421 assegni d'invalidità, 194 indennità d'accompagnamento, sostiene 708 disoccupati dell'agricoltura e 120 senza lavoro degli altri settori, più una cinquantina di pensioni sociali e assegni vari. Le indennità per i cassintegrati sono a parte, ma non sono disponibili dati disaggregati. Gli under 50 sono 4.571: contando che molti assegni si possono cumulare, si può stimare che una metà abbondante degli avetranesi con più di 50 anni passa ogni mese dall'Inps per l'incasso. Risparmi lontani dalla finanza. Lavoro e redditi sono quello che sono, gli assegni Inps non arricchiscono, ma gli avetranesi sono risparmiosi, non si fanno tentare dalla finanza. Nel paese ci sono due sportelli bancari, quello della Popolare pugliese e quello del vero leader di mercato, la Banca di credito cooperativo di Avetrana, fondata nel 1957. Il presidente Michele Pignatelli elenca i risultati del bilancio 2009: sui conti correnti sono depositati 90 milioni, i risparmiatori hanno 8,6 milioni di obbligazioni, 38 milioni sono stati prestati per mutui ipotecari. Le "attività deteriorate", come sofferenze e incagli, sono limitate a 2,4 milioni. Partiti effervescenti e litigiosi. La sede del Pd è in piazza Giovanni XXIII, sulla bacheca c'è un cartello sulla scomparsa di Sarah e l'avviso che il pullman per la manifestazione nazionale della Fiom (sabato scorso) parte alle 4,30. Vicino c'è il ritrovo dell'Udc, e, in disuso, la sede di Alleanza nazionale. A pochi passi c'è il Pdl, Sinistra & libertà, che ha promosso l'autoriduzione delle bollette del gas, più avanti La fabbrica di Nichi (Vendola). La sera, prima di cena le sedi sono affollate, scontri verbali tra i gruppi mentre sulle panchine i braccianti aspettano una chiamata per il giorno dopo. Una partecipazione forte, sconosciuta nelle grandi città. I temi non mancano: il Pd accusa la giunta di centro-destra di avere accumulato un deficit extrabilancio di 500mila euro per lavori senza gare d'appalto, il Pdl ribatte che i comunisti vogliono frenare lo sviluppo appigliandosi alla forma. C'è da ristrutturare il cimitero e costruire il depuratore: la maggioranza si oppone al progetto regionale che prevede di versare in mare le acque chiarificate, vuole utilizzare una vasca mai entrata in funzione per riutilizzare le acque in agricoltura. La guerra delle spiagge. Il leit motiv di Avetrana è uno: lo sviluppo è nel turismo. Da metà anni 90 il consiglio comunale pressa la regione per entrare in possesso di 6 chilometri di spiaggia, strappandoli a Manduria (che ne ha 18 in totale). Si tratta di una zona senza servizi essenziali - dicono - abitata per lo più da avetranesi, perché non possiamo sfruttarla noi? La regione non ha mai risposto, ora il Tar le ha imposto di dare una risposta motivata entro 90 giorni. Niente solare, manca la linea. La Puglia è piena di parchi eolici e solari, ad Avetrana neanche uno: la linea ad alta tensione per assorbire l'energia rinnovabile è lontana. Un proprietario terriero era pronto a investire 1,6 milioni per produrre un megawatt e mezzo su quattro ettari di terreno. Ma ha desistito quando ha scoperto di dover spendere 600mila euro per allacciarsi alla linea dell'Enel, distante chilometri, perdendo ogni minima redditività. Quei capannoni nella zona industriale. In periferia un cartello indica la zona che andrebbe definita artigianale: nove capannoni, di cui due chiusi, quattro in costruzione, un centro vendita. C'è chi taglia pietre e marmi, chi produce serramenti. Francesco Scarciglia, proprietario di un apprezzato ristorante a Torre Colimena, paesino sul mare a pochi chilometri da Avetrana, lavora il tonno. «Lavoriamo in 12, utilizziamo solo il tonno che peschiamo con la nostra barca o quello della cooperativa Pescatori di Porto Cesareo, che ha 160 soci e 70 barche. La nostra è una scommessa, vogliamo vedere se il mercato apprezza la qualità oppure guarda solo al prezzo». Una tonnellata di prodotto l'anno, vasetti che costano 4-5 euro, più del doppio delle normali lattine: «Il nostro è un tonno a chilometro zero, pescato nello Ionio e subito lavorato. Gli altri fanno più chilometri da morti che nuotando, pescati in qualche oceano, lavorati in Thailandia e venduti da noi». Il proprietario del Tonno Colimena è ottimista: «Abbiamo cominciato con il mercato locale, ora puntiamo su Roma e Milano. Lavoriamo con il freno tirato, ma se le cose vanno nel modo giusto siamo attrezzati per arrivare a 30 dipendenti». Calcio femminile all'oratorio. Avetrana ha due parrocchie, San Giovanni Battista e la più recente, dedicata al Sacro Cuore. E due oratori. Belli, grandi e attrezzati, veri punti di riferimento per giovani e ragazzi. Unici punti di aggregazione, 360 ragazzi e giovani tesserati, più una nutrita squadra di educatori e allenatori. C'è la squadra, Sant'Antonio Avetrana, che milita nel campionato di seconda categoria, domenica scorsa è finita 0-0 contro l'Imperial Francavilla nella giornata dedicata al ricordo di Sarah. Gli oratori hanno sale giochi, campi di calcetto per i piccoli, team di calcio femminile, basket, pallavolo, financo corsi di sepak taraw, un nuovo sport che incrocia calcio e pallavolo. E poi laboratori artistici, corsi di chitarra e di tecniche recitative. «L'oratorio - spiega don Dario - si occupa del tempo libero, ma anche e soprattutto della formazione, con corsi per ragazzi e adolescenti. Per i più grandi organizziamo incontri di gruppo ma anche dialoghi personalizzati per andare a fondo dei problemi: quando uno ha un problema, la prima porta che bussa è quella della parrocchia».

IL CASO DI AVETRANA.

Un viaggio senza ritorno: il caso di Avetrana, è il titolo del reportage di Sara Di Bisceglie su “La Gazzetta Di Lucca. Il fatto che il turismo dell’orrore stia prendendo sempre più campo è piuttosto evidente soprattutto dalle ultime tragedie italiane. In particolare l’omicidio della piccola Sarah Scazzi ad Avetrana, Taranto, ha suscitato la curiosità di molti tanto da essere uno degli argomenti cult italiani e da aver attivato un nuovo flusso turistico. Il 26 agosto 2010 la mamma Concetta Serrano denuncia la scomparsa della quindicenne, la quale sembra sparita nel nulla. Sarah è uscita di casa quel pomeriggio alle 14.30 per raggiungere la casa della cugina Sabrina, distante dalla sua solo poche centinaia di metri. Sarebbe dovuta andare al mare con lei e un’altra amica, ma da quel momento si perdono le sue tracce. Inizialmente le indagini della polizia sono orientate sull’ipotesi di una fuga volontaria della ragazza e a sostenere questa teoria è soprattutto Sabrina, mentre la mamma di Sarah è convinta che si tratti di un rapimento. Dopo circa un mese di ricerche, il 29 settembre viene ritrovato il cellulare di Sarah in un campo vicino la sua abitazione. A ritrovarlo è lo zio di Sarah, Michele Misseri, nonché padre di Sabrina, e questo contribuisce ad alimentare alcuni sospetti che già gli inquirenti hanno nei suoi confronti. Il 6 ottobre, però, durante un interrogatorio durato più di nove ore, Misseri confessa di aver ucciso la nipote strangolandola nel suo garage con una cordicella mentre lei era di spalle e di aver abusato di lei dopo che era morta. La notizia della morte e del ritrovamento del cadavere di Sarah in un pozzo di campagna viene comunicato ai familiari in diretta TV dalla trasmissione Chi l’ha visto?. Nei giorni successivi Misseri modifica la confessione iniziale più volte, fornendo diverse versioni contraddittorie tra loro fino a che dichiara ai magistrati il coinvolgimento nell’omicidio della figlia Sabrina, colpevole di aver attirato Sarah nel garage e di averla mantenuta mentre lui la strangolava. Sabrina, dunque, viene posta in stato di fermo dal GIP di Taranto con l’accusa di sequestro di persona e concorso in omicidio. Al principio il movente di Sabrina viene individuato nella volontà di impedire a Sarah di denunciare le molestie sessuali subite dallo zio, ma successivamente viene presa in considerazione come possibile movente la gelosia di Sabrina nei confronti del rapporto di amicizia tra sua cugina e Ivano Russo, un ventenne del quale Sabrina è innamorata e da cui viene respinta. Dopo l’autopsia eseguita sul corpo di Sarah attraverso cui non viene confermato l’abuso da parte dello zio, Misseri cambia nuovamente la versione dei fatti accusando la figlia dell’omicidio e di averlo coinvolto solamente nell’occultamento del cadavere. A febbraio 2011 vengono arrestati in custodia cautelare anche il fratello e il nipote di Michele Misseri con l’accusa di concorso in soppressione di cadavere, ma questi vengono scarcerati circa un mese dopo per mancanza di prove. Il 26 maggio 2011, invece, viene arrestata Cosima Serrano, moglie di Misseri e madre di Sabrina, accusata di concorso in omicidio. Decisivo per il suo arresto è la testimonianza di un fioraio di Avetrana, Giovanni Buccolieri, il quale racconta di aver visto Cosima il pomeriggio del 26 Agosto 2010 imporre a Sarah di salire sulla sua auto. Cinque giorni dopo l’arresto di Cosima Serrano, Michele Misseri viene scarcerato poiché scaduti i termini della custodia cautelare per il reato di soppressione di cadavere. Le indagini preliminari si sono concluse il 1 luglio con l’accusa del reato di omicidio per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, le quali verranno processate nel tribunale di Taranto. Le due imputate continuano a dichiararsi innocenti, mentre Michele Misseri si proclama unico colpevole e responsabile dell’omicidio accusando nel frattempo il suo ex avvocato Daniele Galoppa e la sua ex consulente Roberta Bruzzone di averlo indotto, tramite minacce, ad incolpare ingiustamente sua figlia. Le dichiarazioni di Misseri non vengono ritenute valide in quanto egli non fornisce nessuna ricostruzione dei fatti. In seguito a questa vicenda si stanno prendendo in considerazione due ipotesi: la prima è quella di procedere contro Michele Misseri per calunnia nei confronti dell’avvocato e della consulente e nei confronti di Misseri stesso; la seconda è di indagare nuovamente su Michele per concorso in omicidio, prendendo per buone le dichiarazioni auto accusatorie e rivalutando inevitabilmente la posizione della moglie Cosima Serrano e della figlia Sabrina.

L’influenza mediatica e il fenomeno turistico. L’attenzione che i media hanno rivolto all’omicidio di Avetrana, sin dai primi sviluppi della vicenda ovvero dalla scomparsa della ragazza, è stata parallela all’interesse del pubblico. A dare il via a questo coinvolgimento mediatico e di conseguenza degli spettatori è la comunicazione in diretta televisiva alla famiglia Scazzi del ritrovamento del corpo di Sarah.  Successivamente l’attenzione si concentra attraverso Internet sulla vita privata di Sarah, analizzando il suo profilo di Facebook e addirittura pubblicando in rete parti del suo diario segreto e sms scambiati tra sua cugina Sabrina e l’amico Ivano Russo. Poi, seguendo di pari passo le indagini e gli sviluppi giudiziari, c’è stato un proliferare di servizi giornalistici e televisivi che hanno messo letteralmente sotto assedio una famiglia e un’intera cittadina, fino ad allora entrambe estranee alla fama mediatica. Accade così che il delitto diventa un argomento di discussione di talk show su tutti i programmi tv. I cronisti si mescolano tra criminologi e inquirenti, gli studi televisivi diventano aule di tribunale dove si cercano prove, si formulano ipotesi e si traccia il profilo del presunto colpevole. La televisione e i giornali vengono utilizzati per informare sui fatti, ma anche per depistare le prove e addirittura fornirne di nuove. Il delitto comincia a prendere, dunque, quasi la forma di una fiction: la madre che nasconde le sue lacrime in diretta tv, il fratello di Sarah ospite in numerose trasmissioni televisive, lo zio Michele con le sue molteplici versioni dell’omicidio e le frequenti interviste quasi come fosse una star. Tutti diventano perciò interpreti protagonisti di una vicenda che ormai è entrata in un terribile circuito mediatico, ha coinvolto totalmente l’opinione pubblica e sta sfociando in un tremendo atto di sciacallaggio: tutti pronti a parlare e a trasmettere l’orrore, a mostrare i particolari morbosi e macabri del delitto, ad invadere la vita di una famiglia che vive una tragedia ancora irrisolta.

Questo fervore da parte dei mezzi di comunicazione si è trasformato in pubblicità, la quale ha dato vita alle famose gite dell’orrore. Si è parlato tanto di turisti provenienti da tutta Italia che preferivano trascorrere i loro fine settimana ad Avetrana piuttosto che recarsi al mare o in montagna; di viaggi in autobus organizzati da agenzie calabresi e pugliesi con tanto di tour all inclusive dei luoghi del delitto; di una folla di curiosi che non vedeva l’ora di raggiungere personalmente via Deledda, sbirciare attraverso il cancello di casa Misseri, fermarsi davanti al garage per scattare una foto ricordo, percorrere la strada che la vittima ha intrapreso prima di essere uccisa e visitare il pozzo dove è stato ritrovato il corpo di Sarah. Questo caotico turismo dell’orrore descritto, e quindi alimentato, da giornali e tv non ha sempre rispecchiato la verità avetranese. Prima di tutto non è vero che il paese pugliese non è mai stato una meta turistica prima del fatto di omicidio, come è stato spesso dichiarato dai media: negli ultimi dieci anni, infatti, Avetrana ha avuto un notevole incremento turistico grazie alla sua vicinanza al mare e alle maggiori città del Salento e quindi, per far fronte alla crescente domanda, sono stata create piccole strutture ricettive. In secondo luogo Avetrana è stata sommersa dal disordine scatenato dal turismo nero solamente in tre situazioni precise: la prima subito dopo il ritrovamento del cadavere, quando curiosi provenienti soprattutto dai paesi limitrofi si recavano nella campagna di Manduria ad osservare il famoso pozzo dell’orrore; la seconda corrispondente alla scarcerazione di Misseri, quando i curiosi facevano visita alla sua villetta; l’ultima un anno dopo il ritrovamento del corpo, durante la celebrazione commemorativa di Sarah, quando numerosi turisti si sono recati al cimitero per pregare sulla tomba della ragazza.  Naturalmente la presenza degli “stranieri” (così come li chiamano ad Avetrana) non è sempre stata legata a queste particolari ricorrenze, anzi non sono state poche le situazioni in cui gli abitanti sono stati fermati dai turisti che avevano bisogno di indicazioni per raggiungere la villa di Misseri. Da un’analisi diretta sul luogo, l’aspetto emergente è una speculazione economica, soprattutto da parte delle autorità, di tutta la tragica vicenda legata al turismo. Si cerca infatti di sfruttare al massimo i mezzi di comunicazione e la pubblicità che da questi si ricava per accrescere ulteriormente il turismo e, di conseguenza, l’economia ad Avetrana. Contrariamente a quanto sperato dagli speculatori, l’effetto ottenuto dallo sciacallaggio turistico e informatico è proprio l’opposto: invece di incrementare il turismo, le reiterate visioni del paese associate all’atroce delitto hanno leso l’immagine stessa di Avetrana la quale adesso deve fare i conti con un terribile calo di presenze turistiche che tanto era riuscita a guadagnarsi durante l’arco di questi ultimi dieci anni. E’ un turismo dell’orrore che cerca di fare audience e di spingere la gente ad intraprendere un pellegrinaggio verso Avetrana utilizzando il giallo e i luoghi ad esso legati come fossero immagini pubblicitarie e sfruttando i media come mezzi di promozione turistica. Ciò che era inimmaginabile da un punto di vista turistico della cronaca nera sta quindi diventando una realtà dell’horror business. Non dovremmo perciò meravigliarci se un giorno leggessimo un annuncio simile a quello descritto tragicamente da Raimondo Moncada in Ti tocca anche se ti tocchi, il suo libro che affronta con sarcasmo l’evento che coinvolge indistintamente ogni essere umano, la morte appunto: «Agenzia viaggi organizza gite turistiche per Avetrana. Serietà, cortesia, divertimento, professionalità. Prezzi concorrenziali. Si assicura tour nei luoghi dell’orrore. Si mettono a disposizione guide ed esperti di ogni tipo: criminologi, opinionisti, psicologi, psicoterapeuti, indovini, maghi, semiologi, somatologi, esperti del macabro, esperti di espressione facciale, esperti di fisiologia delle emozioni e menzogna, massaggiatori, moralisti… Si garantisce posto in prima fila nelle postazioni delle dirette televisive di Rai, Mediaset, La7 o tv locali. In regalo macchine fotografiche digitali per scattare foto ricordo. In dono anche telecamere per riprendersi e montare il film della vita. No perditempo. Soddisfatti o rimborsati. Per i tour, si mettono a disposizione autobus e pullman gran turismo dotati di tutti i confort. Si noleggiano scooter, fuoristrada, macchine di grossa cilindrata per fregare sul tempo gli altri numerosi curiosi e morbosi in assalto. Si organizzano anche gite scolastiche di fine anno da tutt’Italia e tour su caratteristici carretti trainati da cavalli. Prezzi stracciati con sconti allettanti in caso di comitive e famiglie. Ci si riserva di organizzare dei treni speciali. »

L’impatto della vicenda sulla popolazione di Avetrana. Le gite dell’orrore ad Avetrana, accompagnate dalla pressione mediatica, hanno avuto inevitabilmente una forte influenza sul comportamento dei cittadini avetranesi. L’impatto sociale che questa forma di turismo ha provocato consiste in una sostanziale trasformazione del comportamento e dello stile di vita della popolazione, nel momento in cui questa si trova a stretto contatto con il caso turistico e soprattutto con la presenza stessa dei turisti. Se in un primo momento tutta la vicenda dell’omicidio, l’abnorme interesse mediatico e il conseguente flusso turistico macabro hanno prodotto un’apparente eccitazione negli avetranesi, i quali hanno cominciato a sentirti protagonisti della vicenda, poco dopo gli stessi abitanti hanno dimostrato di non essere affatto orgogliosi di un dramma che ha trasformato il paese in una delle mete del circuito del dark tourism e soprattutto nella destinazione più ambita dai giornalisti. I residenti hanno subito compreso che in troppi stavano approfittando della situazione e hanno iniziato a sentirsi pressati, privati della propria spontaneità, quasi costretti a dover recitare un copione come se facessero parte di un reality show dell’orrore. La gente sembra aver superato la soglia di tolleranza e ora presenta dei sintomi di stanchezza e irritazione verso tutta la tragedia che l’ha coinvolta. Gli avetranesi protestano contro l’invadenza e l’invasione dei giornalisti e dei turisti, si sentono offesi perché descritti come gli abitanti di un ‘paese del terzo mondo’, sono stanchi di sentir pronunciare il nome di Michele e Sabrina Misseri e di essere spesso associati all’immagine diffusa dei parenti-mostri. Ormai sopportano con fatica i turisti che vagano dalla casa di Sarah al garage di zio Michele e dei quali non hanno mai compreso la motivazione che li spinge a fare questo tour. Particolarmente significativa è una scritta sul muro trovata non lontano da casa Misseri, la quale è una sintesi perfetta del sentimento comune della popolazione di Avetrana: Qui non è Hollywood. Sin da subito le forze dell’ordine hanno cercato di scoraggiare i turisti dell’orrore e i giornalisti che hanno assediato i luoghi del delitto. Per fermare i curiosi, per tutelare la privacy e la tranquillità delle famiglie coinvolte e specialmente per riportare alla normalità la comunità pugliese, il sindaco di Avetrana Mario De Marco ha emanato due ordinanze, una il 27 ottobre 2010, una il 6 giugno 2011. Nella prima (vedi Appendice n.1) il sindaco scrive che, per limitare i disagi causati dalle riprese televisive e dalla conseguente affluenza di numerosi cittadini curiosi davanti alle ville delle famiglie Misseri e Scazzi, le emittenti televisive sono invitate a spostarsi nel parcheggio antistante lo stadio comunale e a svolgere la loro attività esclusivamente in quel luogo in modo tale da limitare la difficoltà di circolazione nel paese. Nella seconda ordinanza (vedi Appendice n.2), invece, dopo aver premesso che la scarcerazione di Michele Misseri e la sua prescrizione dell’obbligo di presentazione giornaliera presso la stazione dei carabinieri di Avetrana hanno destato una forte risonanza in tutta Italia dando luogo ad un’affluenza di giornalisti, operatori televisivi e curiosi, il sindaco dichiara che è vietato sostare o circolare in via Deledda, via Pirandello, via Raffaele Sanzio e via Bernini per chiunque eccetto per i residenti e che la violazione di questo provvedimento comporta una sanzione di € 500,00. Quest’ultima ordinanza è attualmente ancora in vigore e la polizia municipale di Avetrana ha perciò il compito di vigilare nel rispetto dell’ordinanza sindacale stessa in modo tale da far cessare l’arrivo degli affascinati dell’orrore e bloccare un fenomeno diventato fastidioso e insopportabile per l’intera comunità. Sembra che questi provvedimenti stiano finalmente avendo gli obiettivi auspicati. 

Conclusione. Molti degli eventi considerati di competenza del turismo dell’orrore sono entrati nel circuito di mercificazione basato principalmente su una forte copertura mediatica e su un fascino verso la morte che, come ampiamente descritto, trasformano gli eventi in prodotti turistici e motivano il turista nell’intraprendere un viaggio inusuale. Questo comportamento suggerisce che stiamo diventando sempre più una cultura che cerca incontri con la morte. L’origine di questa fascinazione può essere attribuita alla curiosità umana nei confronti dell’ignoto, la morte appunto, che in alcuni casi è  fondamentale per comprendere la natura della nostra esistenza. Il patrimonio dell’orrore, essendo proprio strettamente legato al concetto di morte, potrebbe quindi essere identificato come qualcosa di tangibile che aiuti alla comprensione della morte stessa e che appaghi quel senso di fascino e curiosità che tanto tormenta l’uomo.

Di conseguenza, il patrimonio del dark tourism offre uno stimolo a sfruttare il potenziale commerciale del fenomeno tanto da far aumentare il numero delle visite e dei viaggi organizzati verso le mete dell’orrore. Tuttavia questo sfruttamento dell’orrore e del dolore ha dato luogo a critiche le quali mettono in discussione l’etica del fare turismo macabro, quindi i suoi confini tra realtà e rappresentazione, tra giusto e sbagliato, tra rispetto e invadenza. Non è possibile cercare delle risposte e dei margini assoluti in grado di spiegare e giustificare il turismo macabro perché l’attitudine a viaggiare verso luoghi oscuri e la comprensione del patrimonio dell’orrore possono cambiare a seconda della nostra personalità, della nostra cultura, della nostra psiche, influenzando il nostro coinvolgimento. Non è altrettanto semplice dare dei giudizi morali a riguardo. Quello che però si può auspicare da un tipo di vacanza come quelle precedentemente descritte è un tentativo di evocare, tramite la visita turistica, un punto di vista più emotivo e cosciente su determinati eventi, luoghi, persone e oggetti. E’ possibile perciò affermare che la conservazione del patrimonio macabro e dei luoghi dell’orrore è importante per preservare alcuni aspetti del passato che riteniamo degni di ricordo, come quelli legati alle guerre, all’olocausto, ai massacri, agli attacchi terroristici. Questi siti devono quindi incoraggiare un’esperienza significativa dal punto di vista emotivo, suscitando per esempio sentimenti di dolore e compassione. Pertanto l’educazione si rivela essere un elemento chiave alla base del viaggio dark, al fine di aumentare la consapevolezza della sofferenza protagonista di certi avvenimenti tragici, di fare in modo che la memoria di questi venga conservata e soprattutto, attraverso il viaggio, di educare il turista prima di tutto a non ripetere le tragedie del passato e in secondo luogo a rispettare e cogliere l’essenza di ciò che andrà a visitare. Allora se il turismo dell’orrore resta entro certi limiti precisi, ovvero è quel turismo che permette ai turisti di visitare luoghi storici come può esserlo un campo di concentramento, un campo di battaglia, un cimitero o una città distrutta, può probabilmente avere più opportunità di essere definito moralmente corretto. Se invece il turismo sfocia nel morboso interesse nei confronti di quella che è chiamata morte individuale, e qui il rifermento va specialmente ai casi di omicidio come quello di Avetrana, allora ci si trova di fronte ad una situazione di profonda intromissione nella vita privata altrui, niente a che vedere con l’aspetto storico, educativo e culturale che dovrebbe caratterizzare un viaggio. 

APPENDICE

1. Ordinanza n. 01/2010 del Comune di Avetrana

IL SINDACO, considerato:

che le riprese televisive su via Deledda e su Vico Verdi, ove insistono le residenze delle famiglie Misseri e Scazzi, non accennano a diminuire nonostante il notevole lasso di tempo trascorso dalla scomparsa della giovane Sarah;

che le riprese medesime costituiscono motivo di attrattiva da parte di numerosi cittadini che ivi affluiscono anche dai paesi vicini;

che la presenza numerosa degli automezzi atti ai collegamenti televisivi in sosta sulle indicate vie oltre che sulle vie adiacenti, limita fortemente la circolazione stradale;

che l’occupazione delle vie che gli indicati automezzi unitamente alla numerosa affluenza di cittadini determina forti disagi agli abitanti della zona, non più disponibili a tollerare questa situazione, tant’è che nella giornata di domenica u.s. il Comando dei Vigili Urbani riferiva essersi verificate da parte dei residenti, in più momenti, vibrate proteste rivolte non solo ai cameramen ma anche ai numerosi visitatori;

che, quindi, allo stato sussistono tutte quante le avvisaglie per ritenere che vi siano concreti pericoli di turbativa dell’ordine pubblico.

Tanto considerato, il SINDACO, anche nella veste di Ufficiale di P.S.

INVITA

le emittenti televisive a rimuovere gli automezzi ed ogni altra strumentazione fissa e mobile disposta su via Deledda e su Vico Verdi oltre che sulle vie e sugli spazi pubblici ad essi adiacenti. Considerato che il presente provvedimento non intende in alcun modo limitare i mezzi di informazione, utile difesa della nostra democrazia; ed altresì, considerato in proficuo contributo dato dai giornalisti allo sviluppo delle indagini, cui il Paese tutto, in attesa dell’accertamento delle reali responsabilità, esprime gratitudine;

DISPONE

che la zona a parcheggio antistante lo Stadio Comunale nel tratto compreso tra via L. Ariosto, via Kennedy sia riservata esclusivamente alle emittenti televisive ed alle loro strumentazioni, ivi inclusi gli automezzi e quant’altro alle stesse necessità per lo svolgimento delle loro attività.

RACCOMANDA

che nell’uso dell’indicata zona a parcheggio non sia arrecato intralcio alcuno alla viabilità circostante. Il presente provvedimento avrà validità sino alla sua espressa revoca. Dalla Casa Comunale oggi 27.10.2010

Il Sindaco avv. Mario De Marco 

2. Ordinanza n. 28/2011 del Comune di Avetrana

IL SINDACO, Premesso:

Che il giudice per le Indagini preliminari del tribunale di Taranto Dott. Martino Rosati con propria ordinanza disponeva la scarcerazione del Misseri Antonio Michele;

Che questi risiede presso la propria abitazione sita in via G. Deledda, con prescrizione dell’obbligo di presentazione giornaliera presso la Stazione dei Carabinieri di Avetrana;

Che detta disposizione destava forte risonanza in tutta Italia e dava luogo ad una notevole affluenza di giornalisti, operatori televisivi e di curiosi;

Che la presenza eccessiva di operatori televisivi e curiosi ha reso inattuabile la prescrizione del Giudice a recarsi presso la suddetta Stazione per apporre la firma di rito a causa della costante presenza a volte asfissiante delle succitate persone;

Rilevata la necessità di evitare l’ulteriore spettacolarizzazione della vicenda;

Visto l’art. 50 e 54 del D. Lgs. 18.08.2000 n.267, come novellato dalla Legge 24. 07. 2008 n. 125;

Visto l’art. 7 bis D. Lgs. 18.08.2000 n.267;

Visto l’art. 16 della L. 24 novembre 1981 n.689, così come modificato dall’art.6 bis della Legge 24.07.2008 n.125;

Visto il decreto del Ministero dell’Interno del 5 agosto 2008 di attuazione delle previsioni contenute nella legge 24 luglio 2008 n.125 “Misure urgenti in materia di sicurezza urbana”;

Visto il D. Lgs. Del 30.06.2003 n.196 “Codice in materia di protezione dei dati personali”;

ORDINA

E’ fatto divieto a chiunque di stazionare in via G. Deledda, via Pirandello, via Raffaello Sanzio e via Bernini ed in particolare ai giornalisti, operatori e strutture per la produzione e la trasmissione di immagini televisive. E’ fatto altresì, divieto a tutti i veicoli a motore in genere di circolare sulle predette vie eccetto i residenti. La violazione alla presente ordinanza, fermi i limiti edittali stabiliti per le violazioni a questi provvedimenti, come enunciato dall’art. 7 del D. Lgs. 18.08.2000 n. 267, comporta l’applicazione di una sanzione amministrativa di € 500,00 con facoltà per il trasgressore di estinguere l’illecito mediante il pagamento di detta somma. La presente ordinanza, preventivamente comunicata al Prefetto, è resa pubblica mediante affissione all’Albo Pretorio Comunale e immediatamente esecutiva. Avverso il presente provvedimento è ammesso, entro 60 giorni dalla pubblicazione all’Albo pretorio, ricorso al Tribunale Amministrativo competente per il territorio, in via alternativa, ricorso straordinario al Presidente della Repubblica da proporre entro 120 giorni dalla data di pubblicazione.

DEMANDA agli Organi di Polizia l’applicazione del presente provvedimento. Dalla Residenza Municipale 08.06.2011

Il Sindaco avv. Mario De Marco.

SARAH SCAZZI. DAI SEGRETI DI FAMIGLIA DI ROBERTA BRUZZONE AL RESOCONTO DI UN AVETRANESE DI ANTONIO GIANGRANDE

Sarah Scazzi: dai segreti di famiglia di Roberta Bruzzone al resoconto di un avetranese di Antonio Giangrande, scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando Controvento”. Roberta Bruzzone ha pubblicato un libro intitolato: “Segreti di famiglia - Il delitto di Sarah Scazzi". Co-autori: Giuseppe Centonze e Filomena Cavallaro, co-fondatori del Gruppo Facebook: "Verità e Giustizia per Sarah". Nel libro, a cui non manca la visibilità mediatica, si racconta l’omicidio della quindicenne di Avetrana per come l'hanno vissuto e visto l'autrice e i co-autori. La criminologa nel libro parla di prove e ritiene che la sentenza emessa dalla corte d’assise di Taranto sia il risultato di un ottimo lavoro condotto dalla magistratura. Ora non vale la pena entrare in questioni etiche o morali per capire quanto sia giusto pubblicare un libro che parla anche di depistaggi e lacrime di plastica (definizioni coniate dall'Accusa per definire i comportamenti e i pianti di Sabrina Misseri) nel bel mezzo di un processo che deve essere celebrato in altri due gradi di giudizio. E non ne vale la pena perché c'è chi su Avetrana e Sarah Scazzi ha pubblicato libri a pochi mesi dall'omicidio. Però si può parlare del fatto che il processo ha visto protagonista chi ha firmato "Segreti di famiglia". La dottoressa Bruzzone infatti, ricordiamolo, ha partecipato a un'udienza come teste dell'Accusa. Udienza in cui la Difesa di Sabrina Misseri ha contestato, giustamente, il plurimo status. Giustamente perché la criminologa prima di essere un teste per la procura fu consulente di Michele Misseri, consulente assunta dall'avvocato Daniele Galoppa. Lui è il legale scelto per il contadino reo confesso dal procuratore Pietro Argentino (ma qualcuno non aveva detto in tivù che era stato scelto a caso da un centralino?). Di questo fatto molto strano ne parla lo stesso Misseri a processo (e il procuratore in aula non lo ha smentito)... e dico che è molto strano perché è assurdo che sia l'accusatore a scegliere l'avvocato che lo dovrà poi contrastare. Ma lasciamo perdere ciò che nessun giornalista ha mai evidenziato e torniamo alla Bruzzone. Lei ad un certo punto, nonostante l'astio che nutre per gli imputati, passa da consulente della Difesa a testimone d'accusa. Può essere neutrale chi si ritiene "persona offesa", chi ha avviato un procedimento penale per calunnia e diffamazione contro Michele Misseri: l'uomo che a più riprese l'ha accusata di averlo indotto, in associazione con l'avvocato Daniele Galoppa, ad incolpare la figlia? Accusa dunque incontestabile quella di plurimo status, visto che da consulente per la Difesa è passata a testimone per l'accusa e nel contempo ha in essere un procedimento penale che la vede contrapposta all'imputato sul quale è stata chiamata a testimoniare. Accusa rivolta a Roberta Bruzzone dall'avvocato Nicola Marseglia, accusa che può far intendere minata l’imparzialità di giudizio della criminologa; minata dal fatto che nel caso in questione ha ricoperto, e sta ancora ricoprendo, ruoli diversi e in antitesi fra loro. Ora mettiamo i puntini sulle i. Nessuno vuole toglierle i meriti, dovesse averne, o le briciole di gloria che può ottenere da una pubblicazione che la obbliga a parlare in pubblico del caso in questione. La dottoressa Bruzzone è libera di fare quanto meglio crede senza sottostare a nessuna pressione e critica fumosa (lo vuole la democrazia). A me preme solo evidenziare quanto poco possa apparire imparziale un libro scritto da chi ha conflitti di interesse sulla vicenda che tratta. Sarebbe come se Mondadori pubblicasse un dossier su Berlusconi scritto dalla Boccassini, o da un fan della procuratrice milanese, prima della sentenza della Corte di Cassazione. Chiaramente sarebbe un'opera di parte. Pubblicabile, sì, ma per non dar adito a dubbi dovrebbe andare in stampa con un titolo che non coinvolgesse nessun altro se non la stessa scrittrice. Andrebbe bene, ad esempio, se il titolo fosse: "La mia verità su Silvio Berlusconi". Invece l'ipotizzare segreti familiari, tutti ancora da provare, è una forzatura che stona in questo momento temporale che di stabile non ha neppure la sentenza del giudice Trunfio, visti i due gradi di giudizio che dovrà superare per diventare definitiva. In ogni caso, ormai siamo abituati ai tanti luoghi comuni. La storiella sui segreti di casa Misseri, ad esempio, è un cavallo di battaglia usato da tanti opinionisti che si son mostrati, e ancora si mostrano in video, solo per ipotizzare, grazie alla solita parzialità dei media, senza mai dare riferimenti o prove che rendano verificabili le loro parole (forse perché non esistono?). Dalla loro parte hanno la forza dell'audience, che li premia proprio perché colpevolisti, e quella della stampa, che ha un suo peso quando deve pubblicizzare una qualsiasi cosa o convincere di un'idea pregiudizievole senza arte né basi solide. Stampa che per etica professionale dovrebbe restare al centro e non parlare solo a favore di una tesi. Stampa che da decenni ha dimenticato questa regola basilare. Meno male che la "rete" non è solo un fenomeno mediatico unilaterale. Proprio per questo, dopo aver parlato del libro di Roberta Bruzzone, che potrete acquistare in ogni libreria italiana, ora parlo di un libro che si contrappone al suo. Quello scritto dal dottor Antonio Giangrande, non coinvolto nel caso né come teste né come ex consulente né come querelante, è un libro-dossier che racconta in maniera schietta, atti e testimonianze alla mano, l’omicidio della quindicenne di Avetrana in tutti i suoi dettagli, anche quelli più sconosciuti o tralasciati artatamente dai mendicanti della cronaca. Racconta la verità storica conosciuta che va oltre la verità mediatica e giudiziaria, quella che tutti accettano senza remore perché inculcata nel tempo da alcuni giornalisti ossequiosi al potere e al loro tornaconto. “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Quello che non si osa dire”, si può trovare su www.controtuttelemafie.it, su Amazon in Ebook, su Lulu in cartaceo e su Google libri. E' il racconto di ciò che un avetranese come il dottor Giangrande ha visto sin dal primo giorno, senza la mediazione della stampa. Un libro in cui si tiene conto del vissuto e del contesto ambientale ed istituzionale del luogo in cui si è svolta la vicenda criminale. E' una verità scomoda che neppure le tv e i giornali locali non vogliono, o non possono, divulgare. Non è la verità del Giangrande, è la verità incontestabile che si evince chiaramente guardando le puntate registrate da “Un Giorno in Pretura”. L'unica trasmissione che non può raccontare fandonie, visto che verrebbero subito smentite dai filmati registrati nelle varie udienze. Basta guardarli per rendersi conto di quale sia la differenza tra quello che veramente è successo in aula e quanto, invece, hanno riportato i tanti giornalisti (??) ossequiosi durante le loro cronache d’udienza (??). Quelle registrazioni sono la prova di come, stravolgendo la realtà dei fatti, negli ultimi anni i media abbiano influenzato in negativo, con toni sempre e solo colpevolisti, tutta l'opinione pubblica. Quelle registrazioni, di cui ancora oggi nessuno tiene conto (vanno contro la verità mediatica e sono andate in onda in orari impossibili), dimostrano di cosa siano capaci i media quando entrano a piedi uniti su tutta la collettività.

Roberta Bruzzone è ormai un volto e un nome noto. La si vede dappertutto. La 37enne che appare da mesi in tv è la criminologa che difende Michele Misseri, scrive Benedetta Sangirardi su Affaritaliani.it. Affaritaliani.it, qualche tempo fa, ne fece un ritratto esaltando il suo curriculum (e la sua immagine di criminologa da fiction). Una criminologa da fiction. Trentasette anni, bionda, alta, bella. Chi l'ha vista circolare tra Taranto e Avetrana, da quando è consulente della difesa di Michele Misseri assicura: "E' rifatta, dalla testa ai piedi. Le labbra sicuramente". Chrurgia o no, Roberta Bruzzone non è passata inosservata tra i protagonisti del delitto di Avetrana. Anche perché, appena un mese fa, in un'intervista a La 7, parlando dell'arresto dello zio di Sarah, aveva detto: "E' un pedofilo assassino", salvo poi entrare a far parte della sua difesa qualche giorno dopo. E aveva continuato: "Questo tipo di soggetti difficilmente hanno ingresso a quell'età  nella vita criminale. C'è da indagare in modo più approfondito nella vita di questa persona e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti". Psicologa (iscritta all’albo degli psicologi della Liguria) e Criminologa, Perfezionata in Psicologia e Psicopatologia Forense, Perfezionata in Scienze Forensi, esperta in Psicologia Investigativa, Analisi della scena del crimine, Criminalistica e Criminal Profiling. Il curriculum ce l'ha, e non solo per quel che riguarda lo studio e la carriera. Internet è tappezzato di sue immagini modello book fotografico, in cui sembra più un'attrice del telefilm "Ris - Delitti imperfetti" che una criminologa con tanto di esperienza sul campo. E già, perchè nessuno se la ricorda, ma la Bruzzone ha fatto anche parte della difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi, nella strage di Erba. La sua formazione viene dagli Usa. Ha conseguito in USA il titolo di E.C.S. - Evidence Collector Specialist (esperto di ricerca e repertamento tracce sulla scena del crimine certificato dall'American Institute of Applied Sciences) con gli standards statunitensi della Sirchie Fingerprint Laboratories. E’ esperta - si legge nel suo curriculum - di tecniche di analisi, valutazione e diagnosi di abuso nei confronti di minori e nell’ambito della violenza sulle donne. Dall’Università di California, dove ha fatto “un periodo di training”, passando  per la Duke University (North Carolina – USA), dove è stata ricercatrice. Ha frequentato anche l’Università del Texas e di Philadelphia. Per non parlare, poi, dei suoi innumerevoli titoli (Presidente dell’Accademia Internazionale di Scienze Forensi, membro dell’ International Association of Crime Analysts e molti, molti altri). Insomma, una carriera di tutto rispetto, senza dimenticare che la bionda criminologa è anche autrice e conduttrice televisiva. Ma da qualche giorno circola un documento tra i giornalisti, e non solo, che “smonta” il suo curriculum: tutto falso. O meglio, una enorme parte delle sue esperienze non sarebbero mai state fatte. Tutto da verificare, certo, ma nello scritto ci sarebbero anche alcune testimonianze, smentite poi da Roberta Bruzzone nell’intervista ad Affari. Alcuni esempi. Nel documento si legge che, contattata l’Università della California (Sede di San Francisco), la risposta è stata: “Non risulta che Roberta Bruzzone abbia frequentato masters o altri corsi di formazione presso la nostra Università”. La Vidocq Society Philadelphia (Prof. Bill Fleisher) dichiara: “La Signora Bruzzone non ha alcun tipo di connessione con la nostra Società scientifica”. E ancora, l’American Embassy in Rome: “Il Direttore della BSU di Quantico ha comunicato che non conoscono la Dottoressa Bruzzone e che non hanno mai avuto contatti per attività di ricerca con lei”. Stessa risposta dal Vancouver Police Department: “La Signora Roberta Bruzzone non ha mai sviluppato progetti di ricerca con questo Dipartimento”. Il Bloodstain Evidence Institute (Dr. Herbert Leon MacDonell, invece, ammette che la Bruzzone abbia partecipato a un breve corso introduttivo di 5 giorni presso il nostro Istituto”, ma assicura che “non ha superato il pur facile esame finale”. L’istituto di criminologia, si legge nel documento, pare abbia già ricevuto segnalazioni sul “finto curriculum” della 37enne, decidendo di diffidala “dal pubblicizzare in Italia la sua esperienza in BPA e di essersi formata presso il nostro Istituto”. Ma non è finita. Il rettore della Duke University assicura che “non risulta che Roberta Bruzzone si sia formata presso la nostra Università ne abbia svolto attività di ricerca con noi”. Infine la Texas State University, nella persona del Prof. Kim Rossmo conclude assicurando che “la Signora Roberta Bruzzone non ha contribuito in nessun modo allo sviluppo del software Rigel e non ha nessuna connessione con la Texas State University”. Insomma, Roberta, secondo il documento che circola tra i giornalisti, avrebbe falsificato e gonfiato le sue esperienze. La criminologa che prima del caso Avetrana aveva fatto parte del processo a carico di Rosa Bazzi e Olindo Romano, dice un sacco di bugie, stando al documento. D’altra parte, nella pagina di Facebook a lei dedicata scrive: “Meglio avere a che fare con gli assassini che con i giornalisti”. E forse su questo ha ragione. Ma quando aggiunge, sempre sul social network, che “se sei bella ma non sei una escort vanno tutti in crisi in Italia, certo averlo saputo prima che per fare il mio lavoro bastavano occhi azzurri, capelli biondi e fisico ‘lussureggiante’ me li risparmiavo tutti gli studi fatti, le specializzazioni e i continui aggiornamenti in giro per il mondo”, allora sorgono i dubbi.

La rettifica piccata di Roberta Bruzzone. «Gent.ma, devo ammettere, con amarezza, che leggendo il suo articolo sono stupita anche io del mio CV. Innanzitutto perchè nel secondo capoverso si legge "ha frequentato anche la Università del Texas e Philadelphia" quando io non ho MAI frequentato ne ho MAI sostenuto di aver frequentato nessuna delle due, come si evince chiaramente dalla lettera che le ho inviato e dalla lettura del mio cv pubblicato sul sito www.accademiascienzeforensi.it (cliccando su ROBERTA BRUZZONE) L'articolo da lei scritto appare assolutamente tendenzioso e non rispetta i parametri di continenza, pertinenza e verità della notizia. Tant'è che in maniera molto VAGA lei parla della mail anonima che è arrivata in relazione definendola "documento" ma le ricordo che trattasi di una MAIL ANONIMA. Parla poi di testimonianze riferendosi a quelle 4 frasi virgolettate che sono state attribuite dal mittente ai vari soggetti indicati che SAREBBERO stati contattati. Lei NON ha verificato la notizia, NON ha contattato i vari soggetti benchè nella mail vi sono stati forniti i recapiti dei medesimi. Come lo so? Se lo avesse fatto avrebbe sicuramente saputo che Jim Gocke Direttore della Sirchie e Presidente dell'American Institute of Applied Science, aveva già parlato con TOM Curtis garantendo la mia formazione presso l'istituto nel 2008 e la collaborazione formativa che va avanti dal 2009. Se poi si fosse presa la briga di leggere il mio vero cv prima di scrivere il suo articolo avrebbe visto che io MAI ho vantato collaborazione con Vidocq Society o la frequentazione di master o corsi presso il Bloodstain Evidence Institute. Ma se io scrivessi all'università di Londra "La Dr.ssa Sangirardi ha frequentato un master di giornalismo presso di voi?" l'Università di Londra cosa mi dovrebbe rispondere se non l'hanno mai conosciuta??? e se dopo pubblicassi la loro risposta negativa alla mia indagine su di lei che cosa succederebbe???? Avrei montato un caso del tutto privo di fondamento, esattamente come sta facendo lei. Il suo articolo, se scritto in buona fede e nel rispetto dei doveri etici del giornalista, avrebbe dovuto avere un tenore diverso ed essere scritto con obiettività, posto che, mentre quello che ho dichiarato e che dichiaro io è supportato da evidenze (e lei le ha viste tutte perchè io gliele ho inviate), quello che è scritto nella lettera da voi ricevuta e divulgata non ha uno straccio di prova a corredo e non è nemmeno stata verificata la bontà del contenuto. E allora cosa è accaduto??? E' accaduto che una giornalista, ansiosa di fare uno scoop evidentemente, non ha aspettato di leggere tutto quanto in suo possesso ma ha dovuto scrivere subito tanto per fare polemica attribuendo all'oggetto dell'articolo (che questa volta purtroppo sono io) delle notizie del tutto false, infondate e diffamatorie. Le sorge il dubbio che quello che scrivo sui giornalisti sia vero???? Prima lo scoop poi il dovere di cronaca. E lei non fa eccezione. Mi lasci sottolineare un'altra cosa, IO NON LE HO MAI RILASCIATO NESSUNA INTERVISTA diversamente non avrei impiegato 2 ore del mio tempo per scrivere una lettera. Si è presa quelle 4 notizie che le ho dato in via confidenziale per contenere l'impatto delle accuse che mi muoveva e ci ha costruito attorno un'intervista del tutto fuorviante, riportando notizie false che io non ho mai fornito poichè non ho mai detto che c'è un processo per stalking ma un PROCEDIMENTO, nè ho mai detto che il 21 dicembre ci sarà la prima SENTENZA ma ho detto che ci sarà un'UDIENZA, il che è ben diverso. Le sembrerà una sciocchezza ma per chi lavora nel mondo giudiziario la differenza è enorme. Le rappresento altresì che questa sua "scelta" giornalistica si inserisce in una vicenda di estrema delicatezza e anche i giornalisti dovrebbero avere a cuore l'incolumità delle persone. Io le ho raccontato che sono vittima di stalking e lei ci ha riso sopra. Complimenti per la sensibilità. La invito e diffido pertanto a pubblicare immediatamente, con il GIUSTO RISALTO, questa mia comunicazione in forma integrale, riservandomi ogni azione a tutela del mio buon nome nei confronti suoi e del Direttore Responsabile nelle opportune sedi giudiziarie. A tal riguardo leggono in copia anche i miei legali. Roberta Bruzzone».

SECONDA LETTERA AD AFFARI

«Il Curriculum vitae allegato alla mail priva di firma ma proveniente dall’indirizzo giovanni.eroma@hotmail.it è stato estratto dal blog www.godownbaby.wordpress.com e NON si tratta del mio CV. Nell’estratto che è stato inviato a diverse testate giornalistiche vengono riportati titoli che io non ho mai vantato. L’unico CV ufficiale è quello pubblicato sul sito www.accademiascienzeforensi.it ed evidenziabile cliccando sulla voce ROBERTA BRUZZONE. E’ naturale che se si vanno a contattare interlocutori con cui un soggetto non ha mai avuto niente a che fare e/o per ragioni che NON corrispondono a quelle da lui chiaramente indicate, le risposte non posso che essere negative. Faccio un esempio. Io non ho mai sostenuto nè scritto di essermi laureata alla DUKE University, ma di aver collaborato per circa 3 anni con la Prof.ssa Silvia Ferrari,  al progetto NNPCP per l’applicazione dell’intelligenza artificiale al criminal profiling, come testimoniato da una serie di pubblicazioni internazionali che sono disponibile a fornire e che, peraltro, sono anche facilmente reperibili su internet in formato abstract. C’e’ una bella differenza, no??? Ma andiamo Avanti. Io non ho mai sostenuto di aver contribuito allo sviluppo del software di geoprofiling Rigel di Kim Rossmo nè tantomeno di aver studiato alla Texas State University. Io affermo di aver collaborato con Rossmo all’analisi geografica sul caso dell’Unabomber del nordest e di aver applicato e adattato il suo software per la prima e unica volta ad un caso italiano. Tale lavoro è stato pubblicato nel testo edito da Aliberti “Chi è Unabomber” nel 2007 di cui sono coautore. Anche qui c’è una bella differenza, no???? E potrei continuare così per ciascuno dei punti elencati nella mail “anonima” inviata dall’account Giovanni.eroma@hotmail.it. La vera domanda è, perchè questo signore è così interessato a manipolare il mio curriculum vitae al solo fine di screditarmi affermando il falso??? Allora ho iniziato a fare una piccola indagine personale, ma molto piccola perchè non ho tempo da perdere nè ce ne voglio perdere, e ho scoperto che su facebook c’è un’account aperto da un certo Giovanni Eroma proprio il giorno dell’invio della mail anonima (ma guarda caso….. Ho guardato un po’ la sua bacheca, visto che tanto e’ aperta e ho visto che l’unica cosa che ha fatto e’ inserire un commento sulla bacheca di un certo Libero Arbitrio che si diverte a raccogliere notizie che mi diffamano e a postarle su alcune bacheche specifiche. Il post commentato da Giovanni Eroma era proprio relativo a me e, sempre guarda caso, era un link al solito www.godownbaby.wordpress.com….Quando poi ho visto che Giovanni Eroma aveva solo 3 amici, nel leggere i nominativi ho ho capito tutto….siamo alle solite… Ovviamente ho già provveduto ad acquisire in maniera forense tutto il materiale che andrà ad integrare il già copioso fascicolo sul tavolo del Pubblico Ministero. Comunque, visto che me lo avete domandato, vi allego alcuni documenti che provano l’autenticità dei miei titoli. Non sono però tutti perchè alcuni attestati sono rimasti a casa del mio ex convivente e non riesco a riaverli perchè, nonostante gli abbia richiesti in più occasioni e nonostante lo abbia anche denunciato per appropriazione indebita, lui non me li ha mai restituiti. Però va a dire in giro che io non posseggo tali titoli…..ma rispetto a ciò che ha fatto dal momento in cui l’ho lasciato questo è il meno. Roberta Bruzzone»

Affari risponde alla Bruzzone. Per completezza di informazione... «Gentilissima dott.ssa Bruzzone, mi spiace per quello che è accaduto. Il mio pezzo non voleva essere assolutamente diffamatorio. E anzi Affaritaliani.it, appena ricevuta la lettera anonima, l'ha immediatamente contattata per una sua replica. Replica che è stata data con ampio spazio su Affaritaliani.it, attraverso l'intervista che Lei ha rilasciato alla collega Floriana Rullo, e attraverso la sua lunga lettera che abbiamo pubblicato. In nessun modo abbiamo pensato che Lei dicesse il falso e che la mail che abbiamo ricevuto dicesse il vero. Se le può far piacere, il mio pezzo è stato in parte modificato eliminando la parola documento e inserendo la parola lettera anonima. La Sua lettera di rettifica è stata pubblicata su Affari Italiani, interamente. Questo a dimostrazione del fatto che siamo corretti nei suoi confronti e crediamo a lei, più che a una lettera anonima ricevuta. Non avevamo intenzione di fare nessuno scoop, se proprio vuole sapere la verità. Al contrario, abbiamo tentato di far capire ai lettori, e a chi diffonde questa mail, che lei è la vittima di una situazione che va avanti da due anni. Per quanto riguarda il curriculum, nel mio primo pezzo di quasi un mese fa io ho fatto riferimento a questo cv: http://www.studiolegalegassani.it/roberta-bruzzone.asp. Quanto da Lei richiesto, è stato messo online da Affari Italiani, anche la rettifica. Saluti. Benedetta Sangirardi»

Certo è che se la cautela pretesa per sè dalla Bruzzone fosse la stessa applicata al caso di Sarah Scazzi ed alle accuse professate a destra ed a manca, forse libri non se ne sarebbero scritti e notorietà non ne sarebbe scaturita.

SARAH UCCISA DALLA GELOSIA? SABRINA CONDANNATA DALL’INVIDIA?

Ha parlato il fratello di Sarah Scazzi, Claudio e ha analizzato il difficile momento della sua famiglia dopo l'omicidio di sua sorella. «Già solo una decina di giorni dopo che Sarah è scomparsa tanti hanno buttato fango su mia sorella e la mia famiglia, mettendo nero su bianco dicerie e chiacchiere da bar solo perchè faceva effetto. Quando a ottobre si è cominciato a capire quello che era successo le cose si sono un pò calmate, ma anche oggi su internet c'è una certa tendenza a parlare di mia sorella solo perchè fa titolo». Lo dice Claudio Scazzi, fratello della ragazza uccisa ad Avetrana e autore del libro 'Per Sarah', parlando di lei in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Questo, ha aggiunto Claudio Scazzi, «porta via tante forze» e «lascia sbigottiti che nonostante le nostre denunce non abbiamo ricevuto una rettifica». «L'immagine di Sarah - ha detto ad un convegno organizzato dall'Aics (associazione italiana cultura sport) a Palazzo San Macuto - si può restituire facendola conoscere come una ragazzina di 15 anni come tante altre, che faceva quello che fanno le ragazze della sua età, e non ha avuto la possibilità di avere un futuro». Per lui e la sua famiglia «i primi 6-7 mesi sono stati davvero stressanti, il dolore per la morte di tua sorella, poi era stata arrestata della gente (la famiglia Misseri). Mia mamma per diversi mesi è stata malissimo, e non è stata più lei. Io ho avuto problemi anche a livello lavorativo. È stato - ha concluso - come se ti passasse addosso un uragano».

«Il processo Scazzi, che in realtà è il processo a Sabrina Misseri, è l'angoscia della mia vita, mi è costato un dolore infinito». Lo ha dichiarato alla stampa l'avvocato Franco Coppi, difensore della 23enne di Avetrana condannata all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Taranto insieme con la madre Cosima Serrano per l'omicidio della cugina 15enne Sarah Scazzi, uccisa il 26 agosto 2010. «È una sentenza che mi ha colpito profondamente - ha detto l'avvocato Coppi -. È un impegno che ho con me stesso per un fatto di giustizia, non ci sono altri motivi, di continuare questa battaglia fino in fondo. Aspettiamo che venga depositata la sentenza per conoscere le motivazioni - ha concluso il legale - e poi riprenderemo la battaglia in grado d'appello».

Se i magistrati requirenti e giudicanti di Taranto hanno rilevato che ad uccidere Sarah Scazzi è stata la Gelosia di Sabrina nei suoi confronti. Si può dire anche che l’Invidia della massa ha condannato Sabrina e di conseguenza Cosima alla pena civile, prima che giudiziaria. Pene che forse non meritavano.

Sabrina Misseri, conosciuta in tutto il mondo. Troppa grazia per una ragazzotta di provincia, anzi di campagna, anzi di un paese omertoso e retrogrado…... Tutte le luci della ribalta per lei e sua madre. Più della povera vittima. Tutte le tv per lei, ad inseguirla, a supplicarla. Le stesse telecamere che poi le si sono rivoltate contro. “Dalle all’untrice, sempre e comunque e come referente privilegiato la parte offesa. Non la vittima, ma i suoi familiari. Anzi i loro legali venuti chissà da dove. Anche gli altri protagonisti e la stessa Avetrana sono state vittime dello stesso trattamento: la denigrazione. La loro colpa è la notorietà acquisita.

La paura di perdere ciò che si ha e il desiderio di possedere ciò che non si ha: gelosia e invidia sono le emozioni più legate al possesso e intervengono in molti dei nostri pensieri, progetti, rimpianti, soddisfazioni e delusioni. In definitiva, influiscono in modo significativo sul nostro grado di benessere. Perché, quando e in quali forme si manifestano nella nostra vita?

"Gelosia ed invidia", con il loro seguito di pettegolezzi, non sono solo sentimenti antichi, ma si ripropongono "ogni giorno nel nostro cuore e nelle nostre comunità". E' quanto sottolinea Papa Francesco - riprendendo dopo la pausa estiva la celebrazione della messa mattutina nella cappella della domus Santa Marta in Vaticano - avvertendo che "una comunità, una famiglia, viene distrutta per l'invidia che semina il diavolo nel cuore e fa che uno parli male dell'altro e così si distrugga". Ammonisce il Papa: "Mai uccidere il prossimo con la nostra lingua. Perché sia pace in una comunità, in una famiglia, in un paese, nel mondo, dobbiamo essere con il Signore e dov'è il Signore non c'è invidia, non c'è la criminalità, non c'è l'odio, non ci sono le gelosie ma c'è fratellanza". Francesco stigmatizza consolidate abitudini in base alle quali "il primo giorno si parla bene di chi viene da noi, il secondo non tanto, il terzo si incomincia a spettegolare e poi si finisce spellandolo" e accusa: "Quelli che in una comunità fanno chiacchiere sui fratelli, sui membri della comunità, vogliono uccidere", ricordando il versetto dell'apostolo Giovanni dove dice "quello che odia nel suo cuore suo fratello è un omicida. Noi siamo abituati alle chiacchiere e ai pettegolezzi ma - lamenta il Papa - quante volte le nostre comunità e anche la nostra famiglia sono un inferno, dove si gestisce questa criminalità di uccidere il fratello e la sorella con la lingua!".

Non confondiamo gelosia e invidia, la cura è  diversa scrive Francesco Alberoni su “Il Corriere della Sera”.  Molte persone confondono gelosia e invidia. Per esempio dicono: "Mario è  geloso di Luigi perché ha avuto una promozione". "Rosanna è gelosa di Giulia perché è  più bella". In realtà si tratta di invidia. Queste confusioni sono pericolose perché i sentimenti non sono solo degli stati emotivi, sono dei processi mentali e dei sistemi di relazioni sociali. Confonderli vuol dire non capire che cosa succede e fare le azioni sbagliate. Vediamo più attentamente in cosa differiscono invidia e gelosia. Nella gelosia ci viene sottratto un oggetto d' amore che noi consideravamo nostro. Ma non ci viene portato via, a forza, da un ladro o da un rapitore. Il nostro amato è d'accordo nel farsi portare via, sta dalla parte del rapitore. La gelosia, perciò, ha la forma di un triangolo in cui al vertice ci siamo noi e all' altro lato loro: la persona che amiamo e il rivale, uniti dalla complicità. L' espressione "sono geloso di" si riferisce tanto al primo quanto al secondo. La gelosia non ha un solo oggetto, ne ha sempre due. Invece è assente il pubblico, la folla, la società. Io posso essere geloso anche nella più assoluta solitudine. L' invidia, invece, ha un oggetto solo e, in compenso, ha bisogno di un pubblico. Io sono invidioso di qualcuno che mi ha superato davanti a una collettività, a un'opinione pubblica che applaude lui e non me. Prima eravamo allo stesso livello, avevamo lo stesso valore sociale. Per esempio, io pensavo di essere simpatico e di cantare bene come Fiorello. Invece lui, a un certo punto, ha successo e io no. Lui va in televisione, è ammirato da tutti, e io no. Allora mi domando perchè. Che cosa ha in più di me? Che cosa gli fa meritare tutto quel successo? Non c'è una ragione. Vuol dire che il mondo non premia in base ai meriti, alle capacità. Provo un senso di impotenza e di ingiustizia. Mi tormento e cerco di dire a me stesso che gli altri sbagliano. Ma loro continuano ad applaudirlo. Allora cerco di convincerli del contrario, cerco di screditarlo. Lo faccio anche per convincere me stesso. Ma è una lotta impari, nessuno mi crede. Allora anch'io sono preso dal dubbio. E mi vergogno di quello che faccio. Mi vergogno di essere invidioso. Se la gelosia e l'invidia sono così diverse, sarà molto diverso il loro effetto sulla vita di coppia. Se io mi accorgo che mia moglie mi tradisce con un altro, mi sento una nullità. Vuol dire che lei trova nell' altro delle qualità, dei valori che non trova in me. Io posso comunque battermi contro il rivale, impegnare con lui un duello seduttivo. Cercare di riconquistarla al mio amore, rendendomi più interessante, più gradevole di lui. Passiamo all'invidia. Nella coppia, l'invidia compare quando uno ha successo, fa carriera, e l'altro no. Non ci sono rivali. E' la società che, con i suoi premi e i suoi giudizi, irrompe nella vita della coppia, e rende disuguali due persone che, in forza del loro amore, si consideravano di uguale valore. Come possiamo reagire a questo pericolo? Stringendoci insieme, presentandoci uniti davanti agli altri. Chi è stato portato in alto deve valorizzare l'altro, ringraziarlo, elogiarlo sia in pubblico sia in privato. Non deve mai considerare il suo successo come un fatto personale, ma come il risultato di una vittoria collettiva. E chi resta indietro deve aiutare l' altro nella lotta perché è anche la sua lotta. Come se fossero una setta, un partito, una lega.

Molte persone confondono gelosia e invidia. Sono entrambi sentimenti, ma la gelosia nasce dal dolore personale, l'invidia invece può essere collettiva, scrive ancora Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Molte persone confondono gelosia e invidia. Per esempio dicono: «Mario è geloso di Luigi perché ha avuto una promozione». «Rosanna è gelosa di Giulia perché è più bella». In realtà si tratta di invidia. La gelosia ha la forma di un triangolo al cui vertice ci siamo noi (gelosi), mentre agli altri due angoli la persona che amiamo e il rivale che temiamo possa portarcela via. L'espressione «sono geloso di» si riferisce tanto all'amato quanto al rivale. La gelosia non ha un solo oggetto, ma due, invece è assente il pubblico, io posso essere geloso anche nella più assoluta solitudine. L'invidia, invece, ha un oggetto solo e, in compenso, ha bisogno di un pubblico. Io e un mio amico ci siamo laureati insieme in medicina, ma mentre io non ho clienti, lui ne ha tanti e guadagna molto. Questo vuol dire che la gente (il pubblico) preferisce lui a me, lo giudica più bravo di me. Io non lo sopporto, lo invidio e allora cerco di sminuire il suo valore, mi sforzo di screditarlo. Ma non riesco a cambiare l'opinione pubblica, anzi mi dicono che sono invidioso. L'invidia è massima fra coloro che hanno attività simili ed uno sopravanza l'altro. Quindi il medico invidia un altro medico, lo scrittore un altro scrittore, il calciatore un altro calciatore e così via. E un politico? Anche il politico invidia un altro politico che ha avuto più successo di lui. Ma, a differenza dei casi precedenti, il politico può attaccare, criticare, diffamare colui che invidia senza che nessuno gli dica che è invidioso. Perché le sue critiche e i suoi insulti vengono sempre giustificati con una diversa visione politica o ideologica, come ricerca di giustizia, insomma con una motivazione nobile e razionale. Nella realtà, invece, molti politici possono essere mossi da una vera invidia personale che, in certi casi, diventa odio.

Sono entrambi sentimenti, ma la gelosia nasce dal dolore personale e riguarda solo le relazioni private. L'invidia invece può essere collettiva e alimentare una ideologia rivolta contro una classe, un gruppo etnico, un partito, una nazione o una persona salita troppo in alto e che conserva una posizione eminente.

IL PROTRARSI DELL’APPELLO E LE LUNGAGGINI DEL PROCESSO. NELL’ATTESA DELLE MOTIVAZIONI CHE NON ARRIVANO MAI. I GIUDICI, DOPO MESI, SE LA PRENDONO COMODA PER STILARE LE MOTIVAZIONI SCONTATE.

Intanto nell’attesa lungo il languido passar del tempo, in quel di Taranto altri processi si aggrovigliano. Se ne lamenta Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno. Dove appena qualche mese l’ingresso era possibile soltanto tramite accredito o visto della polizia, ieri mattina c’erano solo due cronisti per la requisitoria del pm Remo Epifani nel processo per i 250 milioni di euro di Boc contratti nel 2004 dal Comune di Taranto con l’allora banca Opi: 250 milioni di euro, un quarto del buco procurato al Comune di Taranto da giunte di centrodestra, tanto da portare nel 2006 alla dichiarazione di dissesto per un miliardo di euro, il dissesto più grande d’Italia. Nell’aula dedicata al giudice Emilio Alessandrini, ucciso dai terroristi rossi il 29 gennaio del 1979 a Milano, e solitamente riservata ai processi della corte d’assise come quello per morte di Sarah Scazzi, teletrasmesso in mondovisione, era plastica la rappresentazione della oraziana molle tarentum. Il poeta era innamorato della città dei due mari e si inebriava nelle sue onde calme, placide. Molli, appunto. L’accezione molle tarentum era insomma positiva ma la consuetudine ormai secolare restituisce un altro significato, ovvero che la città di Taranto si affloscia nel giorno in cui dovrebbe invece essere protagonista. Nell’aula Alessandrini ieri mattina non c’era nessuno, a parte gli addetti ai lavori, la tribunetta riservata al pubblico era desolatamente deserta, e così il dottor Remo Epifani, titolare delle principali inchieste sul Comune di Taranto quando l’ente (2000-2006) era guidato dal sindaco Rossana Di Bello (Forza Italia), non ha potuto non cominciare la sua discussione con il rammarico per quel deserto, per quell’indifferenza verso una vicenda che pure ha avuto un ruolo fondamentale sulla città e i suoi cittadini. Perché Taranto è sicuramente la città del caso Ilva, dei veleni emessi dagli impianti dell’area a caldo, dell’attenzione con la quale il Governo e altri poteri forti guardano al futuro dello stabilimento siderurgico, ma è anche la città delle tasse salite al massimo per far fronte ai debiti miliardari accumulati dal Comune, dei servizi ridotti al minimo, degli asili chiusi, dei cantieri bloccati per assenza di liquidità, dei contratti integrativi disdettati, dei concorsi pubblici bloccati sine-die malgrado le evidenti lacune di organico, specie tra i vigili urbani. Il prezzo del dissesto viene pagato ancora oggi da tutti i tarantini, impegnando, malgrado gli anni trascorsi, una parte consistente del bilancio comunale e dunque limitando il raggio d’azione dell’ente. Ma sembra tutto vecchio, una storia passata, archiviata, finita nel dimenticatoio. Certo, i tempi della giustizia non aiutano quasi mai la memoria e non accendono la passione popolare, visto che il trascorrere degli anni non solo ha portato ormai alla seconda legislatura Stefàno, il sindaco di sinistra eletto a furor di popolo nel 2007 e confermato nel 2012, ma rischia di far finire tutti i processi sull’era-Di Bello in prescrizione. Ma Taranto anche quando la scansione degli atti giudiziari è stata più immediata, vicina alle pulsioni dei tarantini come l’esplosione del caso Ilva e i suoi sequestri, arresti, verbali, intercettazioni, è mancata agli appuntamenti. Il flop del referendum consultivo del 14 aprile scorso sulla proposta di chiusura dell’area a caldo dell’Ilva e la partecipazione alle manifestazioni anti-siderurgica di una minoranza, rumorosa autorevole e spesso dotata di argomenti convincenti ma sempre minoranza, restituiscono in maniera efficace l’immagine della «molle e imbelle Tarentum» tratteggiata da Orazio oltre 2000 anni fa. Allora era molle e imbelle perché da tanto tempo non faceva più guerre ed era diventata addirittura luogo di villeggiatura. Oggi lascia finalmente, ma di poco, l’ultimo posto nella classifica della qualità della vita, ma continua a farsi scivolare tutto (e tutti) addosso, tra menefreghismo (il classico ce me ne futt’a mme?) e, forse, rassegnazione.

Prima di iniziare a parlare del proseguo del processo sul delitto di Sarah Scazzi da porre è una domanda semplice e preliminare:

I PRINCIPI DEL FORO, VENUTI DA OGNI DOVE, HANNO VERIFICATO SE IL LORO ASSISTITO HA DIRITTO AL GRATUITO PATROCINIO A SPESE DELLO STATO E PER GLI EFFETTI FARLO ACCEDERE AL BENEFICIO SENZA SVENARSI PER PAGARE IL LORO AVVOCATO?

“Tutti d’accordo sull’ergastolo a Sabrina”, scrive Maria Corbi, inviata ad Avetrana da “La Stampa”. Un giudice rivela: “In Camera di Consiglio c’è stata unanimità”. La tomba di Sarah, monumento al dolore di una comunità, è lì, nel cimitero di Avetrana che si prepara alla festa del patrono, San Biagio. Ma non c’è stata la processione che in molti si aspettavano il giorno dopo la sentenza che ha condannato all’ergastolo Cosima e Sabrina Misseri. Nessuno ha portato un mazzo di fiori.  Per le strade di Avetrana, ancora segnate dal lutto, in pochi vogliono parlare dopo l’orgia mediatica di questi anni che ha dipinto il paese come un luogo oscuro di delitti, misteri e faide. Insieme a Sabrina e Cosima sono stati condannati anche parenti e amici del fioraio che sognò le due donne rapire Sarah. Un «favoreggiamento» per avere detto in aula di aver sempre saputo che quel rapimento si riferiva a un sogno. I giudici ritengono che mentano e d’altronde solo trasformando quel sogno in realtà di poteva condannare Cosima. Un anno ad Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano (cognato e suocera del fioraio Buccolieri), un anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, proprietario di una masseria nota ad Avetrana per le feste di nozze. Non vogliono più sentire parlare di giornalisti, ma agli amici raccontano lo sconcerto per questa condanna. E in questi discorsi è sempre sottintesa la domanda: e se anche loro fossero innocenti? «Non so nulla, non ho seguito il processo», rispondono in molti. Ma la condanna all’ergastolo è come se avesse dato il gong, riportando i fatti dalla fiction alla realtà. La pettegola del paese viene scansata e non ci sono più le folle festanti in piazza dell’arresto di Cosima, la pagina più nera di questo romanzo popolare. Una donna all’ingresso della chiesa si chiede: «E se fossero innocenti? ». In mano ha un giornale locale. Non deve avere avuto dubbi invece il giudice popolare che sul Corriere del Giorno, a sentenza fresca, rilascia un’intervista raccontando i segreti della Camera di Consiglio: siamo sempre stati unanimi. Sarebbe vietato, ma in questa storia le regole sono un optional. Un paese lacerato tra colpevolisti e innocentisti, tra pettegole/i e gente che vuole farsi solo i fatti suoi. Una folla sotto inchiesta in questo paesone stretto tra le province di Brindisi, Taranto e Lecce. La Corte d’Assise ha trasmesso gli atti in procura per falsa testimonianza nei confronti di Ivano Russo, il latin lover della zona, considerato il movente del delitto, e Alessio Pissello, amico di Sabrina. Ma anche Anna Scredo, Annalucia Picchierri, Dora Serrano (la sorella che ha rivelato un tentativo di molestia subìto oltre trent’anni fa da Michele Misseri), Emma Serrano e Giuseppe Olivieri, il datore di lavoro della moglie di Peterra, il testimone che vide Sarah diretta verso casa Misseri prima delle 14 del 26 agosto 2010. «Insomma chiunque abbia riferito fatti e ricordi favorevoli alle tesi difensive adesso rischia di trovarsi sotto processo» commenta Franco De Jaco, difensore di Cosima. Su Avetrana una cappa di dubbi, dolore e rabbia. Mentre a via Deledda, la strada della villetta Misseri, continua il via vai di telecamere e curiosi. Michele accoglie e si fa fare compagnia, mostra il video delle nozze della figlia Valentina, le interviste di Sabrina. «Sono colpevole», ripete tra una distrazione e l’altra. E sono parole che pesano di più, dopo la sentenza e due ergastoli. 

Le motivazioni della condanna devono partire da un dato di fatto.

«Perché non me lo hai detto subito che eri stato tu, papà?». Queste sono state le prime parole pronunciate da Sabrina Misseri, parlando al telefonino con suo padre, la notte del suo arresto. Certamente dialogo non premeditato. Infatti, la notte della prima confessione di Michele Misseri in cui fece ritrovare Sarah, la giovane condannata all’ergastolo insieme alla madre per l’omicidio della cugina Sarah Scazzi, parlò con suo padre. Prima di non parlarsi mai più, infatti, la ragazza e suo padre Michele Misseri, 59 anni, si scambiarono una drammatica telefonata nella notte in cui il contadino di Avetrana fece ritrovare il corpo della nipote uccisa confessandone il delitto (che ritrattò in parte una settimana dopo). In quella breve e ultima conversazione tra padre e figlia, è contenuto l’epilogo della sconvolgente notte, tra il 6 e il 7 ottobre del 2010, che fece perdere le speranze di ritrovare viva la 15enne scomparsa misteriosamente il 26 agosto dello stesso anno. Mentre i due si parlavano, l’orecchio elettronico degli investigatori ascoltava e registrava minuziosamente ogni parola. «Perché non me lo hai detto subito papà? », chiedeva la ragazza al padre. Erano le 3.47. Tutte le edizioni notturne dei telegiornali nazionali avevano già diffuso l’angosciante notizia dell’uccisione di Sarah Scazzi e della confessione dello zio-orco. Anche i giornali avevano già dato alle stampe quella che per diversi giorni sarebbe stata la notizia d’apertura. Il reo confesso aspettava nella caserma dei carabinieri di Manduria di essere trasferito nel carcere di Taranto. Aveva appena firmato il suo primo interrogatorio da indagato (qualche ora prima, quando era crollato, era ancora considerato “persona informata sui fatti”). Il carabiniere che lo teneva d’occhio gli consegnò il telefonino che durante l’interrogatorio aveva squillato più volte. A chiamare era stata sempre Sabrina, sua figlia. Ed era ancora suo il nome che cominciò a lampeggiare sul display alle 3.47 in punto. Michele Misseri guardò il militare, che con un cenno gli fece capire che poteva rispondere alla telefonata. Fu quella una mossa studiata a tavolino dagli investigatori, ai quali interessava molto ascoltare (e registrare) l’inattesa conversazione tra padre e figlia. Sabrina Misseri, dall’altra parte del telefono, si trovava nella villetta in via Deledda ad Avetrana con la sorella Valentina, 28 anni, e la madre Cosima Serrano, 58 anni. Sapevano la stessa cosa che ormai tutti avevano appreso in quelle ore: ad ammazzare Sarah era stato zio Michele. Questo aveva confessato Michele. Aveva dichiarato di aver strangolata Sarah nel garage sotto casa per poi caricarla sull’auto per far sparire il corpo come un animale morto. Per tutti ormai era lui il mostro. Lo era anche per Sabrina, che appena ebbe l’occasione di parlargli non concesse al padre nessun dubbio, nessuna titubanza circa la sua certa colpevolezza: «Perché non me lo hai detto subito papà?» (“che eri stato tu a uccidere Sarah?”, è la naturale continuazione della frase).

Sabrina: «Perché non me lo hai detto subito papà?»

Michele : «… [incomprensibile]… non mi aspettare più.»

Sabrina: «Sì, va bene papà, … io ti voglio parlare, però poi…»

Michele: «Ma chissà quando…»

Sabrina: «No, ma chissà quando…! Vedi che puoi decidere quando vuoi tu per parlare con noi…»

Michele: «Sì, però, se il telefonino lo lasciano a me!»

Sabrina: «Va bene… e tu non ti preoccupare che se tu vuoi parlare con noi alla fine loro ti fanno parlare.»

Michele: «Il telefonino no, stasera è l’ultima telefonata… il telefonino me lo tolgono …»

Sabrina: «Ho capito papà… però gli avvocati poi alla fine gli danno il coso per farti parlare…»

Michele: «Sì.»

Sabrina: «Però; papà, perché lo hai fatto? Io non me lo so spiegare proprio… tu non hai fatto mai niente di male… perché in quel momento … cosa ti è venuto?»

Michele: «Non lo so.»

Sabrina: «Poi parliamo…»

Michele: «Sì.»

Sabrina: «Ciao.»

Michele: «Ciao.»

Esattamente una settimana dopo quella sconvolgente e chiara ultima conversazione da cui traspare la palese responsabilità, cioè il 15 ottobre 2010, Michele Misseri raccontò la sua seconda verità, coinvolgendo anche la figlia nel delitto della povera Sarah. Sabrina da quel momento in poi si è sempre rifiutata di parlare con il padre e di rispondere alle sue numerosissime lettere scritte e inviatele prima dal carcere e poi da casa. L’uomo ha poi ritrattato quelle confessioni che coinvolgevano la figlia, perché, a suo dire, era stato indotto alla falsa confessione dalla consulente Bruzzone e dall’avvocato Galoppa. Michele, successivamente e per sempre ha continuato ad accusarsi dell’omicidio, ma i giudici non gli credono più e lo hanno condannalo “solo” per il reato di occultamento di cadavere.

Questo succede perché, forse in Italia la legge non è uguale per tutti?

La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Le motivazioni nell’oblio della (In)Giustizia. Mesi in attesa di secumele scontate, laddove, nel limbo della prigione, vi sono persone che potrebbero essere innocenti. E nessuno se ne duole. In attesa delle motivazioni della sentenza di primo grado par di capire che i giudici si debbano barcamenare tra orari e testimoni.

Devono dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il rapimento onirico di Sarah, avvenuto su una traversa di via Verdi, sia più plausibile dei testimoni che hanno visto la ragazza libera di andare a casa della cugina lungo la via per mare.

Devono dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’orario anticipato di alcuni testimoni sia più plausibile rispetto all’orario posticipato di altri.

Devono dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che le auto viste da qualcuno siano più plausibili dei furgoni visti da altri.

Devono dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che nel 2010, ove sussistesse il sentimento della gelosia, questo possa essere elevato a movente.

Devono dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che una famiglia normale, sia invece un nido di “Macare” o “Masciare”, ossia streghe crudeli, pronte e capaci a nascondere i loro efferati delitti.

Devono dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che chi si professa da sempre colpevole, sia invece un loro fido e succube servitore.

Insomma, i giudici togati (i popolari poco contano nel vaglio dei convincimenti)  devono dimostrare agli esperti di diritto e non al popolino, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Sarah Scazzi sia morta il giorno, nel luogo, per il motivo e con lo strumento ipotizzato dalla Procura.  Pretese di loro pari a cui è difficile dire di no.

Sarah Scazzi. Aspettando le motivazioni chiediamoci se “ci unu non c’era ulutu cu bai” può aprire la strada a una nuova ipotesi...si chiede Massimo Prati. Per quale motivo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano sono state condannate all'ergastolo? Volendo provare ad anticipare le tanto bramate motivazioni del giudice Cesarina Trunfio, difficili da aggiustare alla sentenza, si può (quasi) tranquillamente affermare che due capisaldi risulteranno il sequestro sognato e chi il sogno lo ha fatto diventare realtà e raccontato: la donna di oltre quarant'anni che si è fatta passare per l'amica confidente di una ragazza di venti. Di Anna Cosima Pisanò ormai se ne sono dette di tutti i colori. Appare l'attore misero di questa drammatica vicenda, quasi una maschera, che non si fa scrupolo, coscientemente o in maniera autosuggestiva, di interpretare le parole degli altri a favore delle teorie della procura (nonché del giustizialismo dei media). Parole a volte stravolte, che se riferite in altra maniera si potevano leggere in modo totalmente contrario, diventate colonne portanti dell’accusa. Lei durante le indagini era l'orecchio della procura, che ascoltava e riportava il chiacchiericcio locale, che si prestava ad effettuare intercettazioni ambientali per conto e con la strumentazione dei Carabinieri. Forse credeva di guadagnare la fiducia di qualcuno? O forse le serviva un aiuto? Il giorno della sua deposizione - 8 maggio 2012 - in lei si è notata chiaramente, quando ad interrogarla erano i procuratori, una sicumera che non ammetteva repliche. E' solo all'entrata in campo dei difensori che ha vacillato fino a cadere più volte nel ridicolo. A quel punto ha perso la calma e forse, fin quando i Pm non hanno potuto aiutarla, si è sentita isolata e non protetta a dovere. La figlia, affermò la Pisanò davanti al pubblico ministero, le disse il 17 marzo 2011 che ad aver visto il sequestro di Sarah era Giovanni Buccolieri, il suo ex datore di lavoro (il nome ai carabinieri però lei lo fece il 5 aprile), ma a chi la contro-interrogò chiedendole il motivo per cui il 4 di aprile, verbalizzata per due ore e mezza sempre dai carabinieri, non avesse fatto il nome del fiorista, disse che quel giorno ancora il nome non lo sapeva (come?, non s'era detto che l'aveva saputo il 17 marzo?). Ma quando allora ne è venuta a conoscenza, le chiese l'avvocato Marseglia. Andando lì dai carabinieri io dissi tutto il racconto, ma non sapevo, ho detto: giuro, non so il nome, se verrò a saperlo ve lo riferirò. Il giorno dopo io premendo mia figlia e girandola e rigirandola, mi disse il nome. E io andai dai carabinieri e dissi: ora posso dirvi il nome. Una contraddizione evidente, dunque, che anche l'avvocato Rella riprese contestandole il verbale del 5 aprile in cui, sempre ai carabinieri, aveva detto di aver saputo che si trattava del fioraio qualche giorno prima... e non il giorno prima. Al che l'avvocato insistette e chiese: ma che intendeva con "qualche giorno fa"?. E la Pisanò a ripetere: il 17 marzo, quando mia figlia è partita per la Germania. Ed ancora il Rella: quindi il 4 aprile lei sapeva il nome del fioraio, perché non lo ha riferito il 4 aprile?. Ed ancora la testimone: ma sono andata a dirlo, ma non sapevo chi era la persona. E qui, alla frase del legale: per me basta così, valuterà la corte d'appello (lapsus che è tutto dire sulle speranze nulle di una assoluzione in primo grado e che dimostra come la mente dell'avvocato fosse già impegnata a valutare i dati da portare al secondo) l'attendibilità di quello che dice. A questa frase la Pisanò immaginò di non essere stata d'aiuto e si scaldò accusando chi la interrogava di volerla imbrogliare. E per davvero in quel frangente era in difficoltà... tanto da costringere sia il dottor Buccoliero che il dottor Argentino ad intervenire più volte per obiettare e interrompere le domande dei difensori. Quindi, a quanto fa intendere la sua testimonianza, la Pisanò si è comportata da agente infiltrato non facendosi scrupolo di raccontare, coscientemente o in maniera autosuggestiva, tutto ciò che ascoltava. Ad esempio, lasciando perdere il tanto riportato sui Misseri, incalza costantemente la figlia che non vuol far nomi e registra la voce della signora Tondo che il giorno in cui le disse di aver visto un fiorista alla Masseria Grottella fu chiamata dagli uomini dell'Arma. Il registratore per questa delicata operazione le viene fornito dai carabinieri la mattina stessa. Questo ammette a processo il brigadiere Biagio Blaiotta che dice di averglielo addirittura portato a casa in vespa, dopo aver acquistato il nastro magnetico che mancava, su sollecitazione di un suo superiore. La Pisanò, invece, a processo dice che si è trattato di un caso, che era in caserma e ha chiesto il registratore, non sapendo neppure se lo avessero, e che i carabinieri glielo hanno dato perché lei era stanca di essere additata in un paese dove nessuno le credeva. E' chiaro che fra i due il più credibile è il brigadiere Blaiotta. Anche perché quanto testimonia, la signora si incasina e pare racconti fatti che non ricorda, in altri pare che ricordi male e perda la memoria fra le tante volte in cui si è presentata in caserma. Però, a parte le varie contraddizioni, c'è un punto nel suo racconto che fa pensare e in cui nessuno è entrato a gamba tesa. Sto parlando del giorno in cui per la prima volta la figlia le parla di quanto ascoltato dal fiorista. La Pisanò dice che è stato a settembre, il 23 o il 24, quindi prima ancora del ritrovamento del cellulare (avvenuto il 29 settembre), e che Vanessa lo sapeva già da quindici giorni. La figlia, interrogata in Germania, sul punto non ricorda. Dice che era ancora caldo e che sua madre ha una memoria migliore. Quindi la data che fornisce la Pisanò, 23 o 24 settembre, per lei può essere giusta. Ora lasciamo perdere il fatto che glielo abbia raccontato quando faceva ancora caldo, perché nel 2010 a Taranto c'erano 27 gradi anche ad ottobre inoltrato, e lasciamo perdere anche la testimonianza della moglie del fiorista, che come ammesso dalla Cerra fu la prima a sapere del sogno e a processo dice che il marito gliene parlò ad ottobre. Lasciamo perdere tutto ma non il fatto certo che la Pisanò, come rimarcato dagli avvocati difensori, abbia comunque continuato a frequentare in amicizia la casa di Cosima e Sabrina... e questo fino al 27 ottobre. Se davvero avesse saputo che qualcuno, chiunque fosse, aveva visto Cosima Serrano far entrare Sarah a forza nella sua auto, in via Raffaello Sanzio e proprio nelle ore in cui si diceva fosse scomparsa, come avrebbe potuto frequentare casa Misseri dal 23 settembre in poi? Come avrebbe potuto considerarsi ufficialmente amica di Sabrina (è la stessa Pisanò a parlare di amicizia in Corte d’Assise) e andarla a consolare (pure la sera della confessione di Michele Misseri) fin quando non fu arrestata e anche dopo tramite gli sms inviati alla sorella Valentina? Ed ancora: perché la Pisanò non parlò del rapimento il 27 ottobre, quando con intento accusatorio narrò ai carabinieri le circostanze come da lei vissute nella mattina del 26 agosto (Sarah non era affatto allegra), nella notte del 6 ottobre (lo sfogo di Sabrina dopo l'arresto del padre) e nel giorno del funerale (il nutella party in casa Misseri)? Quel 27 ottobre riferì anche il discorso della collega di Cosima in merito al fatto che la stessa non fosse andata al lavoro. Perché dunque parlare di tutto e non parlare del “rapimento": evento ben più grave di quella nutella mangiata dopo un funerale, visto che coinvolgeva direttamente Cosima e difficilmente non poteva prevedere una partecipazione di Sabrina Misseri? A queste domande si possono dare solo due risposte. O il 27 ottobre la Pisanò non sapeva del "rapimento", quindi mente o ricorda male quando dice di averlo saputo il 23 o il 24 settembre (e in questo caso per quanto riguarda le date e il sogno hanno ragione il fiorista e i suoi familiari), o ne era a conoscenza ma in maniera diversa: in pratica la voce di un rapimento le era giunta veramente, ma non le era giunto né il nome di chi aveva parlato del sequestro, né quello di Cosima Serrano... e questo ha detto ai carabinieri. Perché non è credibile che la Pisanò, per come l'abbiamo imparata a conoscere, sia riuscita per tanti mesi a tenersi dentro un simile segreto. Visto che già aveva affossato Sabrina Misseri, visto che ancora oggi quando pensa a Sarah le vengono i brividi e sta male (parole sue al processo), se davvero avesse saputo di una Cosima Serrano sequestratrice non sarebbe andata ad aprile a raccontarlo, ma ne avrebbe parlato subito ed avrebbe anche smesso di andare in via Deledda a consolare gli aguzzini della ragazzina. Per cui, anche non avendo un nome da fare, la logica dice che lei la storia ai carabinieri l'ha raccontata subito per come l'ha saputa. A questo punto, dato che il resto lo ha verbalizzato a inizio aprile, c'è da pensare che dopo la sua prima soffiata siano sorti dei problemi. C'è da pensare che se Vanessa insisteva per non farle il nome del fiorista, non fosse in realtà perché aveva giurato sul suo gatto morto di non parlarne a nessuno, ma per motivi ben più pericolosi (per il fiorista e forse anche per lei). Questo perché, guarda caso, il nome del fioraio e il segreto di pulcinella sono usciti dopo la partenza della Cerra dall'Italia, proprio nel periodo in cui tutta Avetrana stava implodendo e voleva Cosima Serrano arrestata perché regista suprema del delitto. E guarda ancora il caso, l'avvento del fioraio fece in teoria anche quadrare il cerchio dei procuratori che senza sogni e fiori erano in alto mare. Inoltre, come è strano sto caso, il fatto che quel 4 aprile la Pisanò non abbia fatto il nome del fioraio, ma anche che non l'abbia fatto subito dopo averlo saputo, il 17 marzo, fa sospettare che il tempo trascorso fra informazione ricevuta e informazione verbalizzata le servisse per far altro, magari a concordare una sorta di salvacondotto per la figlia (chiaramente non lo poteva avere subito, prima si doveva informare chi di dovere e ricevere risposta). Alimentano questo facile sospetto i riscontri su come è stata condotta la deposizione di Vanessa Cerra in Germania (presenti solamente i Pm di Taranto) e la stranezza della sua mancanza in Corte d'Assise, dopo una prima assenza giustificata: quasi che la figlia della Pisanò fosse un testimone marginale che non serviva di ascoltare e si potesse anche esimere da un contro-esame dalle difese. E questo dopo aver ascoltato mezza Avetrana e aver multato di 500 euro l'amica di Sabrina che studiava in Polonia e non si era presentata in tribunale (seppure la difesa fosse disposta a rinunciare all'interrogatorio). E' così impossibile, dunque, che il fioraio abbia assistito a un rapimento in via Raffaello Sanzio? E' così impossibile, in alternativa, che abbia saputo del sequestro da altri, visto che in tanti ad Avetrana sapevano e parlavano? Naturalmente non di un rapimento messo in atto da Cosima Serrano, ma da persone che in zona nessuno può e vuole denunciare. Prima di ipotizzare cerchiamo riscontri che ci aiutino a capire qualcosa in più nelle testimonianze e negli avvenimenti accaduti.

- il 23 novembre 2010 venne ascoltato il geometra La Stella, il quale raccontò che poco prima delle 14.30 del 26 agosto aveva visto "una sagoma esile" provenire da via Verdi mentre un’auto chiara stava compiendo strane manovre all'incrocio tra via Raffaello Sanzio e viale Kennedy (e quindi nei pressi della scuola Briganti). Testimone eccezionale il La Stella, uno dei pochissimi a non aver piegato con il tempo la propria testimonianza a favore della tesi accusatoria. Forse per questo è stato trascurato... o forse di quanto ha detto non si è tenuto conto a causa della "sagoma esile": avesse affermato di aver visto una ragazza poi riconosciuta in Sarah, a quest'ora le due donne forse sarebbero libere.

- il 14 e 15 novembre 2010 vengono ascoltati dai Carabinieri Giusy Nardelli ed il fidanzato Fedele Giangrande, i quali riferiscono di aver visto Sarah in un orario compreso tra le 14.00 e le 14.30 (anche se nei primi video avevano affermato con sicurezza, orologi alla mano, le 14.30) camminare a passo svelto lungo viale Kennedy davanti alla palestra della scuola Briganti, quindi a pochi metri dell’incrocio con via Raffaello Sanzio.

Parlando di testimonianze, nell'ipotesi che sto inseguendo queste due risultano fondamentali perché concordano bene con il racconto giunto alle orecchie della Pisanò. E volendo qualche indagine seria la si poteva fare subito, visto che erano già entrate a far parte degli atti ben prima dell'aprile 2011 quando, tirato in ballo all'improvviso, il fioraio il suo racconto lo cambiò radicalmente spostandolo, probabilmente per paura, in un'altra via. Ma di chi in realtà il Buccolieri poteva avere timore dopo la scomparsa di Sarah? Non certo di Cosima Serrano (a meno di non pensare che la famiglia Misseri ad Avetrana sia l'equivalente di corleonesi e casalesi), perché non è assolutamente credibile neppure il pensiero che avesse paura di lei. Eppure, sempre ragionando nell'ipotesi di un qualcuno che ha rapito Sarah, il fiorista di paura ne aveva talmente tanta che per far in modo di rendersi incredibile, sette mesi dopo spostò l'evento e lo rese incompatibile con quanto raccontato da Vanessa a sua madre... ma soprattutto da quanto verbalizzato dal La Stella e dai fidanzati, visto che lo spostò in una zona di Avetrana incompatibile coi loro avvistamenti. Così facendo si assicurò una certa tranquillità e calmò la sua paura. Paura che di sicuro non aveva delle Misseri, visto che coinvolse Cosima nel rapimento e insinuò che Sabrina fosse sul sedile posteriore. Ma perché inserire proprio loro? Proviamo a far mente locale e a ragionare con quanto sappiamo. La Pisanò a processo disse che quando andava in casa degli avetranesi per chiedere le firme che servivano ad allargare le ricerche, la gente si rifiutava e le diceva di chiedere a Sabrina dove fosse Sarah, che lei l'aveva ammazzata... che tutti dicevano così. Si parla di inizio settembre (ricorderete tutti l'appello di Concetta al Presidente della Repubblica). Quindi, ad ascoltare Anna Pisanò, dello stesso periodo in cui sua figlia Vanessa già sapeva del sequestro. E a questo punto, se in paese si parlava di una Sabrina assassina, del rapimento in via Sanzio non lo sapevano solo il fioraio e la Cerra... o forse ad Avetrana in tanti avevano sognato la stessa cosa? Certo, c'è da chiedersi il motivo per cui la Pisanò, che sempre riportava alle Misseri quanto dicevano gli avetranesi, anche che "per tutti" Sabrina aveva ucciso Sarah, abbia invece taciuto su quanto confidatole dalla figlia. Perché non ha detto a Cosima del sequestro che si diceva avesse compiuto in via Raffaello Sanzio? Come disse loro: "Sai che tutti mi dicono che è stata Sabrina ad uccidere Sarah?", poteva ben dire anche: "Sai che mi han detto che Cosima ha sequestrato Sarah?". Ma la mia è un'ipotesi che non necessita di riscontri o di testimoni validi. E' solo un'ipotesi, quindi su questo punto posso soprassedere, anche se per scrupolo e onestà devo parlare delle tante probabilità che il racconto sul sequestro, poi entrato nelle orecchie degli avetranesi che a settembre dicevano alla Pisanò che l'assassina era Sabrina, potrebbe essere nato, poi propagato a macchia d'olio ma sottovoce, da una colossale chiacchiera partita in ambienti ben informati. Dalla caserma, quindi. In fondo il La Stella aveva visto una figura esile (Sarah?) uscire da via Verdi. In fondo i fidanzati avevano visto Sarah a un passo da via Raffaello Sanzio. In fondo in quei giorni si parlava solo di un rapimento e tutti cercavano risposte investigative. Per cui se di sequestro di persona si trattava, dove poteva essere avvenuto se non in via Raffaello Sanzio? E chi potevano essere i sequestratori? Se non si trattava di loschi individui da non nominare o da sussurrare a bassa voce fra le mura di casa, in una storia del genere si adattavano solo le persone che Sarah frequentava: quindi gli amici grandi, la zia o la cugina. E non mi si dica che i carabinieri a settembre non avessero già pensato a un possibile rapimento in quella via! E non mi si dica che in un paesone dove i brigadieri vanno in vespa a casa degli abitanti, dove ogni famiglia ha almeno un amico o un parente nell'Arma, non ci sia stato nemmeno un carabiniere che a qualche amico o parente ha parlato di questa ipotesi. C'è dunque da chiedersi se il fiorista raccontasse fatti visti coi suoi occhi o saputi da altri. Fatti in cui aveva inserito, riportando quanto ascoltato come l'avesse vissuto in prima persona, le figure più vicine a Sarah. Mica poteva dire che aveva visto il tal pregiudicato (e se gli fosse entrato nel negozio con una scatola di cerini?), mica poteva dire che aveva visto il droghiere o la farmacista (che a malapena conoscevano Sarah), gli unici nomi da fare erano quelli delle Misseri o degli "amici di Sarah". Per questo, sapendo di mentire e per paura che si allargasse la sua chiacchiera, aveva chiesto alla Cerra di mantenere il segreto? Oppure aveva visto davvero la scena descritta e cambiato i personaggi per paura? Se fosse così si spiegherebbe il motivo per cui a un paio di giorni dal suo primo verbale, sentendosi in colpa per aver tirato in ballo Cosima al posto di altri, trasformò quanto visto in un sogno, in un ricordo quasi inconscio, al limite tra realtà e immaginazione onirica. Un sogno pieno zeppo di dettagli il suo, ma pur sempre un sogno che si scontra con chi dichiara di aver saputo di un fatto realmente accaduto. Una posizione quella di Buccolieri e della sua famiglia ribadita "eroicamente" anche a processo a costo di essere incriminati per falsa testimonianza. Naturalmente la Cerra, che ha dato il via al tutto confidandosi con la madre e non coi carabinieri, non ha questi problemi, si intende. Lei è ben tranquilla in quel di Germania: la Pisanò non l'ha messa in mezzo quando ha ricevuto la confidenza e quando, se davvero voleva giustizia per Sarah, doveva farlo. Se lo avesse fatto i carabinieri avrebbero saputo subito del fioraio, molto prima del ritrovamento del cellulare, noi saremmo stati certi della "verità" dichiarata dalla Pisanò sette mesi dopo e le indagini di quel settembre al buio, in cui una Concetta disperata chiedeva aiuto a tutti, si sarebbero illuminate. Ma la Cerra il nome non lo fece, e questo fa pensare se si parla di realtà e non di sogno, ed ora è in una botte di ferro grazie a un provvidenziale intervento della madre che, la logica ci da alte probabilità, per lei ha concordato una sorta di amnistia, visto che non è stata accusata di favoreggiamento (tutti quelli orbitanti attorno al fioraio lo sono stati), e neppure obbligata a testimoniare al processo, questo è strano, nonostante abbia nascosto per mesi informazioni utili alle indagini. L'accusa minore che dovrebbe caderle addosso, se in futuro il sogno per i giudici risulterà reale e il fiorista venisse condannato per falsa testimonianza e intralcio alle indagini. Ma quale sarebbe in realtà la falsa testimonianza del Buccolieri? Quella di aver detto che si era sempre trattato di un sogno, o quella di aver spostato il racconto da via Sanzio a via Umberto I in un orario differente e compatibile unicamente con le altre ritrattazioni, ma non con le testimonianze del La Stella e dei fidanzati? Perché se il fiorista avesse realmente visto il rapimento di Sarah ad opera di personaggi ignoti (o troppo noti e magari pericolosi) lungo la via Raffaello Sanzio intorno alle 14.30, si spiegherebbero allora i timori che lo frenano e che gli hanno impedito di andare dai Carabinieri. Si spiegherebbe il repentino, non appena coinvolto, cambio da racconto reale a sogno che ha portato all'arresto di Cosima ed alle condanne. C'è in Avetrana e dintorni qualcuno che può essersi sentito tranquillizzato dal suo dietrofront, che ha comunque permesso di far quadrare il cerchio alla procura e di archiviare qualsiasi altra indagine che non coinvolgesse i Misseri? In teoria è possibile. E sempre in teoria si può quindi ipotizzare che un sequestro di persona, ad opera di ignoti in via Sanzio, possa essere avvenuto. Sicuramente tanti di voi, se non tutti, si domanderanno: "Se col sequestro non c'entrano né Cosima né Sabrina, Michele Misseri come entra in questa fantasiosa ipotesi? Come avrebbe potuto sapere del cadavere di Sarah in quel pozzo? Perché avrebbe dovuto confessare un delitto non compiuto? Perché avrebbe dovuto coinvolgere in un secondo tempo la figlia? Come mai era in possesso del cellulare di Sarah?". Per cercare di dare risposte proviamo a ripercorrere quanto fatto da Michele Misseri ipotizzando che Sarah sia stata rapita da qualcuno estraneo alla sua famiglia, quindi accantoniamo le sue poliedriche confessioni e ragioniamo su quanto è uscito agli atti. Stando alle testimonianze, il Misseri quasi ogni pomeriggio andava ad aiutare il cognato a raccogliere i fagiolini nel campo confinante con casa sua (sulle 15.00 o poco più). Quel 26 agosto fino alle 14.55 lo si trova ad armeggiare con la macchina parcheggiata davanti al garage e agli occhi della figlia pare tranquillo, tanto che per due volte le dice di non aver visto Sarah. Quindi, almeno apparentemente, non manifesta stati d’animo alterati. Poi, però, improvvisamente si allontana dicendo a Sabrina, al telefono, che sta andando in campagna (non ai fagiolini) e alla moglie che deve andare in una masseria da dove sono scappati dei cavalli. In realtà, non considerando vera la confessione sull'istantaneo occultamento, non si sa dove si sia recato. Non vi sono testimoni che l'abbiano visto o incrociato e lui sparisce per 45/50 minuti. Infatti solo alle 15.50 si unisce al cognato nella raccolta dei fagiolini, a quel punto quasi terminata, ed anche in quel frangente sembra tranquillo. Ora, non avendo certezze (neppure sull'orario del suo arrivo ai fagiolini), se non qualche telefonata partita o arrivata al suo cellulare che lo posizionano fuori Avetrana dalle 15.00 alle 16.00 circa, possiamo ipotizzare che quel periodo di assenza abbia a che fare con la scomparsa di Sarah. Ma è un tempo esiguo per farci star dentro sia la scampagnata con un corpo nel bagagliaio, andata e ritorno, sia la pulizia della parte esterna della cisterna, sia l'occultamento del cadavere che la successiva focarina, fra l'altro da lui osservata fino a trasformazione dei solidi in cenere (oltre alle varie ed eventuali: abiti tolti messi e ritolti). Però, in realtà, non sappiamo neppure cosa abbia fatto dopo la raccolta dei fagiolini. Non viene notato da nessuno e solo il suo cellulare, in orari diversi, lo colloca in Avetrana. Il padre di Mariangela dichiara di avergli parlato davanti alla villetta, presumibilmente verso le 16.30, e il Misseri gli avrebbe detto che si sarebbe recato alla Riforma o a Contrada Centonze per cercare notizie di Sarah dai suoi parenti (Cosimo Cosma abita in contrada Centonze). Non vi sono però conferme al fatto che abbia telefonato in loro presenza, a meno che le 16.30 non siano in realtà le 18.28, ora in cui zio e nipote si sono sentiti al telefono. Ma l'orario non coincide, quindi il contadino quel pomeriggio è scomparso nuovamente dalla scena. Dove è andato? Alla Riforma? In Contrada Mosca? Anche questo è impossibile da sapere. Come è impossibile sapere se davvero verso sera fosse già in possesso del cellulare di Sarah, visto che le testimonianze sulla sim sono contraddittorie. Per cui, ipotizzando che il Misseri non c'entri con l'omicidio, come d'altronde dice e vuole la procura, ma anche che non abbia sequestrato e ucciso la nipote fra le 14.28 (orario dello squillo inviato Sarah alla cugina che in teoria poteva anche indicare un suo arrivo di fronte al cancellino) e le 14.40 (orario in cui in via Deledda arriva Mariangela Spagnoletti), è probabile che durante la sua prima o seconda assenza da Avetrana abbia, in alternativa:

- assistito o partecipato all'omicidio di Sarah, sia in modo non volontario che attivo, impossessandosi del cellulare e degli oggetti personali per un futuro fuoco liberatorio (poi evitato al telefonino).

- ritrovato il cadavere di Sarah occupandosi di calarlo nel pozzo dietro indicazione del vero assassino (soggetto pericoloso che minaccia lui e la sua famiglia?) e quindi recuperando, forse di nascosto, il cellulare dal falò degli indumenti e degli oggetti personali.

- ritrovato il cellulare di Sarah senza però sapere cosa capitato alla nipote, venendone a conoscenza solamente in un secondo tempo.

- chiesto a qualcuno di informarsi per sapere se qualche personaggio poco raccomandabile avesse fatto del male al Sarah.

Pur ammettendo altre possibili soluzioni, è comunque ipotizzabile che il 26 agosto il Misseri fosse perfettamente conscio che per la nipote ci fossero poche speranze e forse che sapesse già anche il nome di chi l'aveva rapita. Tuttavia, a causa del suo carattere normalmente schivo, nessuno si accorse di un suo turbamento o stato emotivo alterato. Ora, ammesso che non fosse direttamente coinvolto nell'omicidio, se non avvenuto nel primo pomeriggio ma in un secondo tempo, ma sapesse della morte di Sarah, com'è possibile che non abbia cercato di indirizzare, magari in forma anonima, le ricerche e le indagini? Le uniche risposte possibili sono tre: che si trovasse vincolato a non farlo perché sotto pesante minaccia, che non volesse farlo perché qualche scheletro sarebbe uscito dal suo armadio, o, in alternativa, perché avrebbe dovuto coinvolgere persone con le quali aveva forti legami e segreti in comune. Comunque sia, dal 27 agosto il Misseri entra in un periodo di limbo durante il quale di lui non si sa quasi nulla, se non l’immagine fornitaci dai media: quella di uno zio preoccupato per la nipote. E questo fino alle prime ore del 29 settembre, quando mette in scena la pantomima del ritrovamento casuale del cellulare tra i resti di un piccolo falò da lui stesso appiccato il giorno precedente. Ma per quale incredibile motivo il Misseri volle a tutti i costi far ritrovare il telefonino? Tante risposte sono state date e tutte sempre contrarie ai membri della sua famiglia. Ma ipotizzando un sequestro avvenuto in via Sanzio e una morte successiva al 26 agosto... non è invece probabile che lui sperasse, dando il cellulare agli inquirenti, che da quell'oggetto i carabinieri potessero risalire agli assassini della nipote? Mentre accompagna il brigadiere a recuperare il cellulare bruciato, ma anche in altre occasioni si evince questo timore, una delle sue preoccupazioni riguarda le impronte digitali, quasi che grazie a quelle si potesse avere nome e cognome di chi aveva ucciso la nipote. Ma era anche preoccupato che si trovassero solamente le sue di impronte, visto che ad un certo punto aveva dovuto toccarlo a mani nude, come dice al brigadiere e si evince da un'intercettazione in carcere, mentre in precedenza si era premurato di evitare tale contatto. In un passaggio della sua prima confessione parla di un dettaglio assolutamente non compatibile con lo stato d’animo di chi ha appena ucciso una ragazzina: afferma di aver avvolto il cellulare in una pezza di stoffa e di averlo messo nell'abitacolo della sua auto. Perché? Cosa doveva preservare con quello straccio? Quindi, sempre nell'ipotesi, “chiamiamola fantasiosa”, di Sarah rapita e uccisa da "estranei" alla famiglia Misseri, è molto probabile che i reali colpevoli non sapessero che il cellulare fosse in possesso del contadino e che solamente dopo il ritrovamento abbiano avuto timore di venire scoperti... cominciando così solo dal 29 settembre in poi a fare forti pressioni su di lui (minacce di ritorsioni contro le sue figlie). Se fantasticando si ipotizza in questa ottica, risulta molto interessante l'analisi del famoso “soliloquio” del 5 ottobre, quando fu intercettato all'interno della sua auto. L’intercettazione avviene il giorno prima della convocazione in Procura e il giorno dopo la comunicazione della stessa. Potevano esserne al corrente anche gli assassini? E’ probabile che "qualcuno" li abbia informati o che ne abbiano avuto conoscenza diretta aumentando ulteriormente le pressioni e le minacce. Difatti le parole del Misseri, pronunciate in italiano misto a dialetto, potrebbero anche essere lette sotto una luce differente. Lui disse:

“Mi dispiace per la mia familia... (2 sec di pausa) ci onu (termini incomprensibili) io mò li scoprirò... (5 sec di pausa) ce ola diciunu, diciunu quiri, ce la bolunu a fannu, fannu... a filiata... iu no li creu... (45 sec di pausa) ci unu non c’era ulutu cu bai...”

Che sinora è stato tradotto in questo modo:

“Mi dispiace per la mia famiglia... (2 sec di pausa) se vanno (termini incomprensibili) io adesso li scoprirò... (5 sec di pausa) cosa vogliano dire, dicano quelli, che vogliono fare, fanno... a tua figlia... io non li credo (45 sec di pausa) se uno non fosse voluto andare...”.

Non entrando in sottili traduzioni dal dialetto avetranese (o di Manduria), ci si può attenere alla traduzione fornita dai Carabinieri e notare come il Misseri dica di non voler credere a qualcuno (io non li credo). Ma a chi non avrebbe dovuto credere? Inoltre, sebbene si sia detto che il contadino sovente confonda singolare con plurale, dice proprio di voler “scoprire” più soggetti maschili (io adesso li scoprirò), e non la moglie e la figlia perché in questo caso avrebbe usato il femminile e detto: io adesso le scoprirò (non credo che in dialetto il contadino faccia gli stessi errori che fa quando parla in italiano). E se i “soggetti” del soliloquio fossero proprio i reali assassini della nipote che lo avevano, probabilmente, prima coinvolto e poi minacciato? Si spiegherebbe allora il timore che possa accadere qualcosa a sua figlia, magari la stessa sorte toccata a Sarah. Poi ci sono le ultime parole che molto dicono; “...se uno non fosse voluto andare” lascia decisamente pensare che sia stato chiamato sul luogo del crimine ed abbia "solo" partecipato all'occultamento del cadavere. Questo spiegherebbe la maggiore credibilità della sua confessione sull’occultamento.

Ed ora, dopo la lunga premessa per intonare i pensieri a nuove idee, è giunto il momento di chiederci cosa può essere accaduto quel 26 agosto. Noi non c'eravamo, ma questo non ci vieta di ipotizzare. Quindi proviamo a fantasticare e a pensare alla vita di Michele Misseri, a un contadino che passa una buona fetta della sua giornata fuori casa in una zona in cui la delinquenza non manca, come d'altronde non manca in tutte le altre zone d'Italia e del mondo, e che da qualche mese è cambiato, è diverso, è più nervoso, tanto che con la moglie litiga per qualsiasi cosa. Non gli pare di vivere in famiglia e si chiude ancora di più in sé stesso, o trova una valvola di sfogo nella frequentazione con altri, con persone che prima vedeva di rado e non considerava, persone che magari frequentavano la sua sfera parentale ma non la sua casa? Proviamo a pensare per un attimo che questo sia vero e che a quelle persone, in quel periodo o anche precedentemente, abbia fatto qualche favore... parlo di favori che gli hanno fatto entrare scheletri schifosi nell'armadio. Proviamo quindi a pensare che in discorsi scambiati in sua presenza, qualcuno poco raccomandabile abbia inserito la nipotina bionda che stava crescendo. Che una frase recepita in maniera allarmante, o anche in maniera scherzosa a cui non aveva dato peso, gli sia tornata alla mente alle 15.50 del 26 agosto, quando Sabrina gli disse che Sarah non si trovava. Fino a quel momento era nel suo garage tranquillo, il trattore non partiva e lui, come quasi ogni giorno, sulle tre sarebbe andato a raccogliere i fagiolini. Ma quando viene a sapere che Sarah non è né a casa sua, né per strada, tutto cambia. La frase recepita in maniera allarmante o scherzosa, o un qualsiasi altro discorso ascoltato in precedenza sulla nipote, gli torna alla mente... ed ecco che decide di andare a verificare di persona. Dice alla moglie che va in campagna e chiama il fratello: gli serve un nome, un indirizzo o un aiuto perché le persone da cui deve recarsi non sono delle più tranquille? Comunque sia, per scrupolo si reca a cercare conferme o smentite. Le trova in quell'ora scarsa in cui il suo cellulare risulta fuori Avetrana, o non le trova e lascia a chi è più avvezzo a trattare con certe persone l'incarico di trovarle? Una persona di fiducia che poi lo informerà? Quando viene a sapere cosa è successo a Sarah? Il 26 stesso, o, come può essere anche possibile, il 27 agosto? Cosa accade quando si trova di fronte al cadavere della nipote? Lui è solo e gli altri sono personaggi pericolosi? Non può essere che venga costretto a seppellire il corpo, per renderlo partecipe al crimine, con la minaccia di far fare a Sabrina la stessa fine di Sarah? Minaccia reiterata per far sì che non parli a nessuno di quanto sa? Minaccia che si unisce allo scheletro che si ritrova nell'armadio? Per cui, se così fosse, viene imbrigliato in una storia da cui non sa come uscire. Ma Sarah è in quella cisterna, la sogna, il senso di colpa lo stordisce e vuol farla uscire. Ma come fare a denunciare i veri colpevoli senza parlarne ai carabinieri? Senza metterci il suo volto e senza far rischiare la sua famiglia? Ed ecco che, forse, crede di aver trovato la soluzione. Lui non parlerà, non può farlo, ma le impronte che crede si trovino sul cellulare di Sara, quello che non ha bruciato ma avvolto in uno straccio, forse sì. Per cui lo lascia in ogni posto sperando che qualcuno lo porti ai carabinieri. Ma il tempo passa e a nessuno pare interessare quel cellulare... ed allora si espone facendolo trovare. Crede che ci siano le impronte, che una volta rilevate i colpevoli salteranno fuori senza il suo aiuto. Ma non è così che funziona. Subito si viene a sapere che il telefonino lo ha fatto trovare lo zio e qualcuno si incazza di brutto. In quel momento tutti hanno paura di lui. Il nipote preferito sparisce e il fratello lo chiama solo per avere informazioni, sia 29 settembre dopo il ritrovamento del cellulare, sia il 6 ottobre prima che entri nell'ufficio dei Pm. Prima che, dopo ore di contraddizioni, confessi il delitto inventando una dinamica stringata alla quale non è facile credere perché troppo piena di lacune e imprecisioni, troppo piena dei suggerimenti di chi lo interroga e di tempistiche improbabili. L'unico punto in cui è davvero credibile riguarda l'occultamento del cadavere. E per quanto inverosimile, nella ipotesi fantasiosa che sto inseguendo si incastra perfettamente anche la confessione sul vilipendio. Se difatti il Misseri fosse giunto sulla scena del crimine, perché chiamato o portato, ed avesse trovato a terra il corpo nudo della nipote, sarebbe stato istintivo per lui pensare ad una violenza carnale. E confessando l'omicidio, per risultare credibile doveva assumersene la paternità... visto che non sapeva cosa avrebbe accertato l'autopsia. Da quella sua ricostruzione lacunosa si passa al lavoro svolto dal suo avvocato, Daniele Galoppa, che per attenuarne la responsabilità cercò di spostare l'asticella portandola sulla casella dell'omicidio colposo commesso dalla figlia. Senza però accordarsi in precedenza con Sabrina, senza chiederle se fosse d'accordo a farsi passare per assassina e a stare un paio d'anni in carcere al posto di suo padre. Il caos nato successivamente lo conosciamo e dopo aver letto le trascrizioni delle udienze non è difficile ammettere che la procura a processo non ha portato alcuna vera certezza. Solo illazioni ed ipotesi prive di conferme. Anch'io fantasticando ho fatto illazioni, seppure seguendo altre ricostruzioni, illazioni che se fatte a settembre da chi poteva unirle alle testimonianze del La Stella e dei fidanzati, ovvero all'ipotesi su un sequestro compiuto da estranei in via Raffaello Sanzio, avrebbero spostato il baricentro investigativo decisamente su altri soggetti. E già che si possano fare illazioni e ipotesi diverse da quelle accettate a processo dai giudici, significa che non c'è sicurezza di nulla e si è condannato in base a convincimenti personali. Perché comminare ergastoli senza avere le giuste sicurezze non è ciò che vuole il nostro Codice Penale. In ogni caso non è detto che questa idea sia quella giusta, non è detto che il tutto lasci pensare alla malavita organizzata locale, maestra nel far scomparire nei pozzi i cadaveri delle vittime (anche se quando le ricerche si ampliano, i giornalisti pullulano e a cercar cadaveri son tanti, è sempre meglio trovare una cisterna sicura), perché ci potrebbero stare pure indagini similari orientate verso un'altra cerchia di conoscenze del Misseri. E qui mi fermo, perché avventurarsi in simili illazioni potrebbe diventare molto rischioso e altamente diffamante...

Eppure c’è chi è sicura della sua verità.

GOGNA MEDIATICA E PROCESSI IN TV. QUANDO LA DEONTOLOGIA E LA LEGALITA’ VANNO A FARSI FOTTERE.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione.

Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

La stampa di Taranto e i corrispondenti locali di testate nazionali, salvo qualche rara eccezione in provincia, sono stati il megafono della procura di Taranto, sposandone in toto la strategia giudiziaria. Sono stati i primi a denigrare Avetrana; i primi a condannare senza processo i protagonisti della vicenda, iniziando proprio dalla vittima: da Sarah Scazzi. Mai una critica ai magistrati su come sono state svolte ricerche ed indagini. Critiche devolute addirittura dal supremo organo di giustizia. Poco spazio alle difese, salvo che non fossero quelle dedicate “alla ricerca della verità” (attività, questa, però, propria della magistratura). Sin dall’inizio vi sono state indiscrezioni a danno degli indagati, frutto di fughe di notizie. Nessuno come i giornalisti tarantini hanno violato la deontologia. Si impari da Maria Corbi de “La Stampa” come si redigono i servizi asettici e cos’è la coerenza. Ella non usa e getta. La vicenda di Sarah Scazzi culmina con la gogna mediatica dell’arresto di Cosima Serrano, con claque a seguito, in concomitanza con la chiusura dei salotti in tv. L’arresto preannunciato per dare tempo alle troupe televisive di ritornare ad Avetrana e stazionare in via Deledda per riprendere in diretta Cosima in manette. Evento atteso da mesi. Anche i mostri, quando sono tali, meritano il dovuto rispetto. Avetrana non è quella latrante contro Cosima. Avetrana è quella che pretende giusta pena in giusto processo, senza gogna mediatica, né tintinnar di manette.

L´intervista di “Positano News” a l´associazione Scienza per Amore perseguitata perchè impegnata in un progetto umanitario? Il“Bits of Future: Food for All”, promosso dall'associazione Scienza per Amore, hanno già aderito sette Paesi Africani, ha ricevuto il plauso e l'interesse della Presidenza della Repubblica Italiana e di importanti istituzioni e organizzazioni estere (FAO, IFAD, Banca Mondiale e Banca Africana di Sviluppo), il fine del Progetto è la concessione in comodato d'uso gratuito delle installazioni Hyst ai Paesi africani". Patrizia Vitale, dell'associazione Scienza per Amore, è entusiasta di Bits of Future.

Cos'è la tecnologia Hyst…

«La tecnologia Hyst produce, attraverso il trattamento di biomasse di scarto e residui agricoli, diversi prodotti
da destinare all'alimentazione umana, zootecnica e alla produzione di biocarburanti. I risultati delle applicazioni della Hyst sono stati analizzati dall'Università di Milano e riconosciuti dai Ministeri preposti (Ministero della Salute, Ministero delle Politiche Agricole) e da altre Università italiane tra cui La Sapienza di Roma».

Sembra tutto molto interessante, purtroppo...

«Questo progetto sta subendo da oltre 4 anni una continua persecuzione attraverso parole di fango che cercano di contrastare la realtà dei fatti che è comprovata da certezze scientifiche. L'associazione e tutti noi, quasi duecento membri. Siamo stati oggetto di una pesante gogna mediatica. Una situazione che ha causato danni materiali e morali, non solo a noi, ma a tutti coloro che hanno aderito al Progetto, a partire dai Paesi Africani che, con l'uso della Hyst, in questi 4 anni avrebbero potuto far fronte ai gravi problemi di carenza alimentare ed energetica che li affliggono».

Cosa è successo?

«Accuse  partite nel mese di luglio del 2009, inizialmente a carico del primo promotore del progetto (ed allora presidente della ex-associazione R.E. Maya), poi anche verso alcuni soci che si sono adoperati per il progetto, a Danilo Speranza sono stati attribuiti reati di riduzione in schiavitù dei soci della ex- R.E. Maya, che è stata definita una “setta” con a capo un “guru”, Danilo Speranza, secondo i denuncianti, aveva inventato l'esistenza di uno scienziato, di una tecnologia e di un progetto umanitario con il fine di arricchirsi tramite i contributi volontari estorti agli associati».

E che altro?

«A suo carico sono giunte simultaneamente anche accuse di violenza sessuale da parte di due ragazze minorenni, figlie di due associate, tutte le prove scientifiche lo scagionano completamente da queste accuse. Le varie denunce sono state depositate stranamente il giorno prima della firma che sanciva l’acquisizione della tecnologia da parte dell'Associazione. Sarebbe dovuto essere un momento storico per tutta l'Associazione, ma così non è stato. Dopo più di tre anni di indagini, le accuse non sono state supportate da alcun riscontro scientifico né da alcuna prova concreta, ma hanno solo rallentato l'avvio del progetto umanitario, forse nella speranza di una rinuncia da parte dell'Associazione a far valere i propri diritti. Sono stati aperti quindi due procedimenti: uno a Tivoli per abusi e uno a Roma per truffa. Gli stessi inquirenti hanno collegato tali procedimenti consegnando ai due tribunali la stessa documentazione. Le accuse, che si basano su “tesi mutanti”, inizialmente mettevano in dubbio l'esistenza stessa della tecnologia. Quando invece è stata dimostrata l'esistenza degli impianti e quindi della Hyst, le accuse, depositate a più riprese, sono modificate dichiarando che “la tecnologia produce veleni”. Ovviamente menzogne. Inoltre, la consulenza tecnica della ASL disposta dal P.M. non ha trovato traccia di alcun veleno; e la stessa ha anche confermato i risultati positivi relativi ai prodotti Hyst così come già rilevato dall'Università di Milano. La consulenza disposta dal P.M. è stata gravemente manipolata. Le indagini relative al caso da qualche mese sono state affidate a un altro procuratore poiché il precedente PM è stato arrestato. Ora la chiusura delle indagini - "Notificata la chiusura delle indagini", con art. 415 bis cpp, nella quale compaiono 17 indagati: persone che, come me, hanno dedicato parte della loro vita ad un Progetto Umanitario. La chiusura delle indagini del procedimento a Roma ha dato il via ad una nuova gogna mediatica, da parte di alcuni giornalisti, disonesti intellettualmente, incapaci di condurre un'inchiesta seria. Noi siamo tutti in attesa che qualcuno ci ascolti e che la magistratura esamini le certificazioni e le prove scientifiche. La nostra speranza è quella di vedere il prima possibile un impianto Hyst in funzione in uno di quei Paesi africani in cui sarebbe così utile. I Paesi in Via di Sviluppo hanno compreso la vitale importanza della Hyst e ce la stanno chiedendo a gran voce».

Siete molto preoccupati?

«Saremmo dei marziani se non fosse così».

Le baby squillo dei Parioli e l'ultima gogna giudiziaria. Per una settimana un dirigente della banca d'Italia è stato indicato come uno dei clienti pedofili. Tutto falso, era un errore. Ma non è ora di finirla? Si chiede Maurizio Tortorella su “Panorama”. La gogna mediatico-giudiziaria, crudele istituzione italiana, torna a fare danni irreparabili. Per oltre una settimana il vicecapo del Dipartimento d'informatica della Banca d'Italia, Andrea Cividini, 58 anni, è stato descritto dalle cronache nazionali come uno dei clienti delle due ragazzine «parioline» di 14 e 15 anni, che si prostituivano a Roma. I giornali, evidentemente attingendo a informazioni in mano agli inquirenti romani, hanno scritto e ri-scritto che il telefono di Cividini era tra i 40/50 che si collegavano con maggiore assiduità a quello delle due squillo minorenni. Le cronache sono state severe, indignate; e i commenti anche peggio: Gad Lerner è stato tra i più duri. Ecco che cosa ha scritto venerdì 14 marzo: «Escono con il contagocce, sempre per via delle speciali reticenze loro concesse dal nostro turbamento, i nomi dei clienti delle baby-prostitute dei Parioli. Definirli pedofili? Macché, il marchio non si applica se la “merce-corpo” desiderata e comprata ha apparenze maggiorenni: credevo avesse 19 anni come scriveva nella sua vetrina sul web… Dopo Mauro Floriani, il fascista-maiale marito della fascista col nome famoso, che ha infine ammesso ciò che prima tentò di negare, da oggi conosciamo anche il nome di un dirigente della Banca d’Italia: è Andrea Cividini, 58 anni...». Vicenda davvero paradossale: perché nel suo scritto Lerner critica quasi come una indebita, vergognosa autocensura la «reticenza» dei giornali sui nomi dei futuri, potenziali indagati. È invece bastato aspettare sei giorni e si è scoperto che Cividini non c'entrava nulla. Perché il cellulare «incriminato» non era suo, ma apparteneva alla Banca d'Italia, e l'ente non lo aveva dato in uso a lui, bensì a un collega (il cui nome per fortuna viene ora un po' più accortamente coperto dal segreto, forse per paura di nuovi, possibili, disastrosi errori di persona...). Il punto è che, mentre in prima battuta il nome di Cividini veniva scritto nei sommari degli articoli ed esposto nemmeno fosse una preda, nel momento in cui s'è capito che era stato accusato ingiustamente tutto è stato nascosto nel corpo degli articoli. Uno si domanda come debba sentirsi il malcapitato, o che cosa debba avere patito lui, la sua famiglia. Viene da domandarsi anche se Cividini abbia figli, e che cosa sia accaduto loro a scuola... Ma sono problemi che evidentemente non sfiorano quanti sono convinti che garanzie e tutele degli indagati, ma un po' anche la prudenza, siano soltanto una «speciale reticenza». Purtroppo sono in tanti. 

La gogna di Maurizio Tortorella. Casa editrice:  Boroli. Data pubblicazione:  luglio 2011. Come i processi mediatici e di piazza hanno ucciso il garantismo in Italia. Quando i processi si trasferiscono dalle aule di giustizia ai mezzi d'informazione, con pressanti campagne di stampa, vi è il rischio che risulti compromesso il principio costituzionale della presunzione d'innocenza, e che i “processi mediatici” si trasformino in un anticipo di condanna, senza possibilità di appello. Calogero Mannino, il ministro "mafioso", e il suo calvario durato quasi due decenni. Guido Bertolaso, condannato sui giornali ancora prima che il processo abbia avuto inizio. Silvio Scaglia, l'imprenditore sbattuto in cella e distrutto per una maxifrode fiscale da 2 miliardi di euro che, di fatto, non esiste. Giuseppe Roteili, il "re delle cliniche private" accusato per quattro anni di un'odiosa truffa sanitaria, ma poi assolto quasi in silenzio. Ottaviano Del Turco, il governatore abruzzese azzoppato per una tangente di cui ancora non c'è traccia. Antonio Saladino e le folli follie dell'inchiesta Why Not. Alfredo Romeo, gli assessori e la mezza bolla di sapone del caso "Magnanapoli". Sette recenti casi giudiziari, sette storie di grande attualità raccontate attraverso le carte processuali e le relative cronache giornalistiche trasformate in condanne preventive. Calogero Mannino, il ministro «mafioso», e il suo calvario durato 18 anni. Guido Bertolaso, condannato sui giornali ancora prima che il processo avesse inizio. Silvio Scaglia, l’imprenditore sbattuto in cella e distrutto per una maxi-frode fiscale da 2 miliardi di euro che, di fatto, non esiste. Giuseppe Rotelli, il «re delle cliniche private» accusato per quattro anni di un’odiosa truffa sanitaria, ma poi assolto in totale silenzio. Ottaviano Del Turco, il governatore abruzzese azzoppato per una tangente di cui ancora non c’è traccia. Antonio Saladino e le folli follie dell’inchiesta Why Not dell’ex pm Luigi De Magistris. Alfredo Romeo, gli assessori e la mezza bolla di sapone del caso Magnanapoli. Racconta le loro vicende «La Gogna» (Boroli editore, 160 pagine, 14 euro), il libro scritto dal vicedirettore del settimanale «Panorama», Maurizio Tortorella.  Sette recenti casi giudiziari, sette storie esemplari che raccontano i perché della morte del garantismo in Italia. In realtà, è dai tempi di Mani pulite, quando parte dei tribunali e delle redazioni cominciarono a piegarsi alla strumentalizzazione politica, che la gogna non ha mai smesso di funzionare: da allora, reclama sempre nuove vittime. E anche con la pubblicazione di migliaia d’intercettazioni la cronaca giudiziaria, che dovrebbe esercitare anche un qualche controllo sull’attività inquisitoria, si è trasformata in strumento, se non in megafono, delle procure.  Ogni inchiesta, quando se ne appropriano i mass media, si trasforma in un massacro senza salvezza, anche per il più saldo degli indagati. Vincono sempre le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il mostro che si nasconde nell’espressione «opinione pubblica», portato al guinzaglio da chi ne sa condizionare le pulsioni, reagisce sempre allo stesso modo di fronte all’apertura di un’indagine: ogni volta prevale una presunzione di colpevolezza che è l’esatto contrario del precetto costituzionale. Per questo «La Gogna» è un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura e pezzi dell’informazione. Tortorella, come inviato speciale di «Panorama», dai primi anni Novanta, ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i processi che ne sono derivati. È coautore di «L’ultimo dei Gucci» (1995, MarcoTropea Editore e 2002, Mondadori) e di «Rapita dalla giustizia» (2009, Rizzoli).

Scrive Giulia De Matteo per "Il Foglio”. La perp walk italiana comincia con un avviso di garanzia e interminabili chilometri di carta in cui ci si sbizzarrisce a interpretare ogni parola strappata alle intercettazioni, in cui si costruiscono teoremi fatti di parole d'ordine ("cricca", "la rete di relazioni", "appaltopoli", "l'affare") da cui si ricavano accuse vaghe ma efficaci a relegare l'indagato nell'angolo dei cattivi. Il cammino è destinato a concludersi nella dimenticanza generale, a luci spente, tra l'indifferenza dei quotidiani e delle televisioni, animatori inferociti alla partenza. Maurizio Tortorella ha raccolto le storie più eclatanti di questa dinamica nel libro "La Gogna" (Boroli Editori), in cui smonta fase per fase la catena di montaggio della diffamazione che prelude i processi ai personaggi pubblici, attraverso un'analisi a freddo delle storie su cui ormai si sono spenti i bollori mediatici e si è fatta strada la verità processuale. C'è per esempio la vicenda di Guido Bertolaso, ex capo della Protezione civile, raggiunto dall'accusa di corruzione negli appalti sui lavori straordinari per il G8 sull'isola della Maddalena (poi spostato a L'Aquila) il 10 febbraio 2010. Tortorella racconta i giorni seguenti l'apertura delle indagini attraverso i titoli dei giornali e le ricostruzioni della vicenda. Così tra le intercettazioni pubblicate sui giornali quella in cui Bertolaso racconta il piacere suscitato da un certo massaggio fattogli da una tal Francesca diventa l'indizio che alimenta il sospetto del coinvolgimento di Bertolaso in un giro di escort usate a mo' di tangente nel giro di favori fra i potenti dei grandi appalti. Quando si scopre che Francesca è una fisioterapista professionista di quarantadue anni è troppo tardi. Soprattutto non interessa più: gli untori degli scandali hanno già impresso il loro sigillo (quello che conta per l'opinione pubblica). Il 5 aprile 2010 si è aperto il procedimento che tratta degli abusi edilizi e da allora non una riga è stata più scritta. Difficile dire quando questo selvaggio rito giudiziario sia iniziato in Italia, sicuramente la sua massima celebrazione è stata Tangentopoli: l'età della presunzione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Dalla caduta della Prima Repubblica, è sorta la Seconda e i nuovi decisori, scampati al tritacarne giustizialista, hanno riscritto l'articolo 111 della Costituzione, ispirandosi ai principi di tutela dell'indagato e dell'imputato delle carte europee, adeguato il codice penale ai principi del giusto processo e adottato il modello accusatorio. Ma poco di questa mano di vernice garantista è riuscita a incidere sulla mentalità comune. Soprattutto non ha impregnato il sistema mediatico che ha continuato a riversare, con il sostegno dei gestori dei processi, il solito appannaggio culturale collaudato durante Mani pulite. L'apertura di un'indagine, a cui segue in automatico la carcerazione preventiva, giustificata da un uso pervertito dell'articolo 56 del codice di procedure penale, è il vero fulcro della vicenda processuale. I dati citati da Tortorella parlano di 37.591 condannati definitivi su un totale di 67.000 detenuti in carcere: 43 detenuti su 100 sono in cella senza che sia stata ancora pronunciata una sentenza di condanna definitiva. E' questa fase che dà il via a fiumi di inchiostro, ad approfondimenti televisivi in cui si alimenta lo scandalo con gli indizi raccolti nella indagini. La ricerca della verità è secondaria rispetto alla foga di emettere un verdetto di popolo. Tutto questo dura fino al rinvio a giudizio. Poi i riflettori si spengono e la farraginosa, lenta e poco accessibile ai non addetti ai lavori macchina processuale comincia. "La Gogna" come un occhio di bue ha seguito alcuni figuranti del circuito mediatico-giudiziario prima e dopo il rinvio a giudizio, ricostruendo le vicende giudiziarie di Alfredo Romeo, Ottaviano Del Turco, Calogero Mannino, Silvio Scaglia, Antonio Saladino (al centro dell'operazione "Why Not"). Leggete le loro storie e capirete meglio in che senso Tortorella usa la parola gogna.

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Come nell’affaire Formigoni?

«Sì. Fa parte dello stesso gioco».

Tutto questo nonostante il potere mediatico si sia dato una parvenza di legalità. Naturalmente intervento inattuato!!

Codice Tv e Giustizia. Agcom: stop ai processi show in tv. I diritti inviolabili della persona pietra angolare del lavoro giornalistico. Così scrive Franco Abruzzo. Ordine dei giornalisti, Fnsi, Rai, Mediaset ed emittenti radio tv hanno firmato il CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive. Il Codice trova fondamento nei diritti - garantiti dalla Costituzione - di libertà di espressione del pensiero da un lato e di rispetto dei diritti della persona dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. L'informazione sulle vicende giudiziarie in corso dovrà rispettare i diritti inviolabili della persona, rendere chiare le differenze fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, e adottare modalità che consentano un'adeguata comprensione. Sarà l'Authority a irrogare le sanzioni nei confronti delle emittenti radiotelevisive, che a loro volta potranno rivalersi sui presunti responsabili (registi, programmisti registi, autori testi, presentatori, conduttori, showman, ecc.) che fino ad oggi la passavano franca. In caso di trasgressione da parte dei giornalisti le eventuali sanzioni resteranno, invece, affidate esclusivamente al giudizio dell'Ordine regionale territorialmente competente.

Roma, 21 maggio 2009. Stop a i processi scimmiottati in tv o trasferiti impropriamente dalle aule di giustizia al piccolo schermo: l'informazione sulle vicende giudiziarie in corso dovrà rispettare i diritti inviolabili della persona, rendere chiare le differenze fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, e adottare modalità che consentano un'adeguata comprensione. E' stato siglato ieri pomeriggio a Roma, nella sede dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive. A sottoscrivere l'intesa sono state le principali emittenti nazionali (Rai, Mediaset, T.I. Media), la Federazione Radio Televisioni, l'Aeranti-Corallo, l'Ordine nazionale dei giornalisti, la Federazione nazionale della Stampa e l'Agcom. Il Codice, che esegue un atto di indirizzo dell’Agcom del gennaio 2008 e che è frutto di 18 mesi di paziente lavoro intorno ad un tavolo comune cui hanno partecipato tra gli altri i Presidenti emeriti della Corte Costituzionale Riccardo Chieppa e Cesare Ruperto, autorevoli giuristi e rappresentanti del Csm, entrerà in vigore entro il 30 giugno 2009 dopo la costituzione di Comitato di controllo cui spetterà il compito di accertare eventuali violazioni e proporre le misure del caso. Sarà poi l'Authority a irrogare le sanzioni nei confronti delle emittenti radiotelevisive, che a loro volta potranno rivalersi sui presunti responsabili (registi, programmisti registi, autori testi, presentatori, conduttori, showman, ecc.) che fino ad oggi la passavano franca. In caso di trasgressione da parte dei giornalisti le eventuali sanzioni resteranno, invece, affidate esclusivamente al giudizio dell'Ordine regionale territorialmente competente. E’ stato così finalmente attuato quanto più volte sollecitato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano “contro il rischio di un sovrapporsi della televisione alla funzione della giustizia attraverso la tecnica della spettacolarizzazione dei processi e la suggestione di teoremi giudiziari alternativi".  Oltre al Presidente Agcom, Corrado Calabrò, erano presenti il Presidente della Rai Paolo Garimberti, il Presidente Mediaset Fedele Confalonieri, il Vice Presidente RTI Gina Nieri, l’Amministratore delegato di Telecom Italia Media Mauro Nanni, il Presidente FRT-Federazione Radio Televisioni Filippo Rebecchini, il Presidente Aeranti-Corallo Marco Rossignoli, il Presidente della Federazione Nazionale della Stampa, Roberto Natale e il consigliere Pierluigi Roesler Franz per l’Ordine nazionale dei giornalisti. «E' una svolta nella comunicazione – ha detto il Presidente dell'Agcom, Corrado Calabrò, presente alla firma in veste di "notaio" - Non si vuole assolutamente limitare la libertà d'informazione, ma bisogna rispettare i diritti fondamentali della persona, evitando rappresentazioni dei processi che possono distorcere, come è accaduto più di una volta, la reale comprensione dei fatti. Vedere che tutte le emittenti hanno aderito, anche a costo di rinunciare a qualche punto di share, è positivo per tutta la società civile». Garimberti ha parlato di «opera meritoria», Confalonieri e Nanni hanno evidenziato il «valore dell'autoregolamentazione». Natale ha detto: «Oggi firmiamo e insieme traiamo nuovo impulso nella determinazione ad opporci a norme che tendono a limitare il diritto di cronaca, come il ddl intercettazioni».  Il Codice trova fondamento nei diritti - garantiti dalla Costituzione - di libertà di espressione del pensiero da un lato e di rispetto dei diritti della persona dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. Con tale atto le parti s’impegnano ad osservare le seguenti regole nelle trasmissioni televisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie in corso:

a) curare che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi;

b) diffondere un’informazione che, attenendosi alla presunzione di non colpevolezza dell’indagato e dell’imputato, soddisfi comunque l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;

c) adottare modalità espressive e tecniche comunicative che consentano al telespettatore un’adeguata comprensione della vicenda, attraverso la rappresentazione e la illustrazione delle diverse posizioni delle parti in contesa, tenendo ponderatamente conto dell’effetto divulgativo ed esplicativo del mezzo televisivo che, pur ampliando la dialettica fra i soggetti processuali, può indurre il rischio di alterare la percezione dei fatti;

d) rispettare complessivamente il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo - e rispettando il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;

e) controllare, nell’esercizio del diritto di cronaca, la verità dei fatti narrati mediante accurata verifica delle fonti, avvertendo o comunque rendendo chiaro che le persone indagate o accusate si presumono non colpevoli fino alla sentenza irrevocabile di condanna e che pertanto la veridicità delle notizie concernenti ipotesi investigative o accusatorie attiene al fatto che le ipotesi sono state formulate come tali dagli organi competenti nel corso delle indagini e del processo e non anche alla sussistenza della responsabilità degli indagati o degli imputati;

f) non rivelare dati sensibili, o che ledano la riservatezza, la dignità e il decoro altrui, ed in special modo della vittima o di altri soggetti non indagati, la cui diffusione sia inidonea a soddisfare alcuno specifico interesse pubblico.

ALLEGATO A

CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE IN MATERIA DI RAPPRESENTAZIONE DI VICENDE GIUDIZIARIE  NELLE TRASMISSIONI RADIOTELEVISIVE

Le emittenti radiotelevisive pubblica e private, nazionali e locali e i fornitori di contenuti radiotelevisivi firmatari o aderenti alle associazioni firmatarie, l’Ordine nazionale dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa italiana, d’ora in avanti indicate come parti

VISTI gli articoli 2, 3, 10, 11, 15, 21, 24, 25, 27, 101, 102 e 111 della Costituzione italiana e gli articoli 1, 7, 11, 47, 48 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;

VISTO l’articolo 3 del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, recante “Testo unico della radiotelevisione”, secondo il quale sono principi fondamentali del sistema radiotelevisivo la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva, la tutela della libertà di espressione di ogni individuo, inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza limiti di frontiere, l’obiettività, la completezza, la lealtà e l’imparzialità dell’informazione, l’apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose e la salvaguardia delle diversità etniche e culturali, nel rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali della persona, in particolare della dignità della persona e dell’armonico sviluppo fisico, psichico e morale del minore, garantiti dalla Costituzione, dal diritto comunitario, dalle norme internazionali e dalle leggi statali e regionali;

CONSIDERATO che ai sensi dell’articolo 2 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, istitutiva dell’Ordine dei giornalisti “E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”;

CONSIDERATO che ai sensi dell’art. 471, comma 1, del codice di procedura penale “l’udienza è pubblica a pena di nullità”, e che l’art. 147 del decreto legislativo 28 luglio 1989 n. 271, nel consentire la ripresa e la diffusione dei dibattimenti processuali, ne esplicita ed accentua la naturale destinazione alla pubblica conoscenza;

VISTA la Raccomandazione approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 luglio 2003 (R(2003)13) relativa all’informazione fornita dai media rispetto a procedimenti penali, la quale, nel ricordare i principi fondamentali in materia quali il diritto alla libera manifestazione del pensiero, il diritto di rettifica o di replica, il diritto al giusto processo, la tutela della dignità della persona e della vita privata e familiare, elenca i principi ispiratori dell’attività giornalistica in rapporto ai procedimenti penali e invita gli Stati membri a promuovere, anche attraverso gli organi di autodisciplina, il rispetto da parte dei media dei citati principi; nonché il Protocollo n. 11 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali;

VISTA la Carta dei Doveri dei Giornalisti sottoscritta da CNOG e FNSI l’8 luglio 1993, la Carta di Treviso del 5 ottobre 1990, il Vademecum Carta di Treviso del 25 novembre 1995, la Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli operatori del Servizio Pubblico Televisivo, il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il Codice di autoregolamentazione Tv e Minori approvato il 29 gennaio 2002 e il Codice Etico approvato dal Consiglio di Amministrazione della Rai;

VISTO l’“Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive” approvato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con delibera n. 13/08/CSP, il quale, nel declinare i principi e i criteri relativi alle trasmissioni che hanno ad oggetto la rappresentazione di vicende e fatti costituenti materia di procedimenti giudiziari in corso, invita i soggetti interessati a redigere un codice di autoregolamentazione al fine di individuare regole di autodisciplina idonee a dare concreta attuazione ai predetti principi e criteri;

CONSIDERATO che il principio costituzionale secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo titolare della sovranità, che può anche direttamente parteciparvi, esige che la collettività in cui il popolo consiste sia informata nel modo più ampio possibile dei fatti attinenti a vicende giudiziarie nonché dell’andamento delle medesime e dei modi in cui in relazione ad esse la giustizia sia in concreto amministrata in suo nome;

CONSIDERATO altresì che l’esigenza informativa è assolta primariamente dai mezzi di comunicazione di massa che, a norma dell’art. 21 della Costituzione come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, concorrono a fornire alla pubblica opinione un’informazione completa, obiettiva, imparziale e pluralistica;

RILEVATO che l’attività professionale dei giornalisti e in genere degli operatori dell’informazione, in quanto comporta la necessità di raccogliere e valutare fatti ed indizi, vagliarne l’attendibilità, organizzarli secondo logica e assumerli o rifiutarli come elementi di convincimento per l’espressione del proprio pensiero in forma assimilabile al giudizio, il quale ultimo però si svolge secondo puntuali regole procedurali e trova parametri valutativi prefissati in precise norme, che tuttavia sono suscettibili di interpretazione al pari dei fatti ai quali esse vanno applicate, lasciando dunque inevitabili margini di opinabilità che comportano una relazione solo presuntiva di corrispondenza tra il giudicato e la verità dei fatti stessi.

RILEVATO, ancora, che l’attività informativa in forma di cronaca e critica giudiziaria su fatti oggetto di accertamento giurisdizionale si svolge inevitabilmente in stretto parallelismo con questo, solo così potendo assicurare il raggiungimento dello scopo suo proprio, che è quello di rendere edotta la comunità mediante la formazione della pubblica opinione sugli eventi e sulle persone nei cui confronti, in suo nome, la giustizia è amministrata;

CONSIDERATO che tale andamento parallelo determina le condizioni di un circuito virtuoso potendo, in particolare, dare impulso ad iniziative processuali della difesa e degli stessi organi giudicanti nella prospettiva dell’espansione degli spazi di garanzia degli indagati e degli imputati, della completezza delle indagini e della maturazione del libero convincimento dei giudici;

CONSIDERATO che l’essenziale funzione di informazione accompagna ma non sostituisce la funzione giurisdizionale, rispettando l’esigenza di evitare la celebrazione in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori i processi in corso;

CONSIDERATA la necessità costituzionale di preservare la libertà di manifestazione del pensiero degli operatori dell’informazione e dei mezzi di comunicazione di massa da ogni forma di pressione o censura, anche a garanzia del diritto dei consociati a ricevere informazioni complete, veritiere e pluralistiche;

CONSIDERATO altresì l’inderogabile dovere di rispettare, nell’esercizio di tale libertà, i diritti inviolabili alla dignità, alla onorabilità e alla riservatezza, specificamente tutelati dalla presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 27 Cost., delle persone, specie se soggetti deboli in ragione dell’età minore o per altre cause, a qualunque titolo aventi parte in vicende giudiziarie o che, pur a queste estranee, possano in qualsiasi modo con esse trovarsi in occasionale rapporto di connessione; dovere da valutare, quanto alla esigibilità del suo corretto adempimento, in connessione con l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;

PRESO ATTO che la peculiarità del mezzo radiotelevisivo, destinato alla narrazione per immagini in movimento, implica la modalità espressiva della rappresentazione scenica – comune peraltro agli aspetti “liturgici” della celebrazione processuale - la quale, se non contenuta in ragionevoli limiti di proporzionalità, può trascendere in forme espressive suscettibili di alterare la reale figura dell’indagato o imputato e di altri soggetti processuali o estranei al processo;

CONDIVIDENDO l’esigenza segnalata nella delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 13/08/CSP di disciplinare le modalità di rappresentazione televisiva delle vicende giudiziarie in corso, attraverso una scelta di autoregolamentazione da parte dei soggetti titolari del diritto costituzionale di liberamente manifestare il pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, anche a garanzia della formazione di una libera e consapevole opinione pubblica quale fondamento del sistema democratico;

IN CONTINUITÀ con un’autonoma tradizione di autodisciplina, ispirata al comune intendimento di assicurare il massimo grado possibile di effettività ai valori costituzionali sopra richiamati che, a partire dalla Carta di Treviso e dalla Carta dei doveri del giornalista, ha consolidato nel tempo l’acquisizione e l’attuazione dei criteri di un ponderato bilanciamento tra diritto-dovere dell’informazione, i diritti alla dignità, all’onore, alla reputazione e alla riservatezza della persona umana e i principi del giusto processo;

dopo ampio confronto in sede di “tavolo tecnico” istituito con la citata delibera AGCOM e ricevuta dalla Autorità per le garanzie nelle comunicazioni l’attestazione che il testo elaborato risponde compiutamente ed in modo satisfattivo alle indicazioni da essa ivi formulate, che ne rimangono pertanto attuate

ADOTTANO

il presente Codice di autoregolamentazione di seguito denominato “Codice in materia di rappresentazione delle vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive”.

Articolo 1

1. Le parti, ferma la salvaguardia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione in sé e a garanzia del diritto dei cittadini ad essere tempestivamente e compiutamente informati, e ferma altresì la tutela della libertà individuale di manifestazione del pensiero, che implica quella di ricercare, acquisire, ricevere, comunicare e diffondere informazioni e si esprime segnatamente nelle forme della cronaca, dell’opinione e della critica anche in riferimento all’organizzazione, al funzionamento e agli atti dei pubblici poteri incluso l’Ordine giurisdizionale, si impegnano ad adottare nelle trasmissioni televisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie in corso le misure atte ad assicurare l’osservanza dei principi di obiettività, completezza, e imparzialità, rapportati ai fatti e agli atti risultanti dallo stato in cui si trova il procedimento nel momento in cui ha luogo la trasmissione, e a rispettare i diritti alla dignità, all’onore, alla reputazione e alla riservatezza costituzionalmente garantiti alle persone direttamente, indirettamente od occasionalmente coinvolte nelle indagini e nel processo.

2. Ai fini di cui al comma 1, nelle trasmissioni radiotelevisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie, le parti si impegnano a:

a) curare che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi;

b) diffondere un’informazione che, attenendosi alla presunzione di non colpevolezza dell’indagato e dell’imputato, soddisfi comunque l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;

c) adottare modalità espressive e tecniche comunicative che consentano al telespettatore una adeguata comprensione della vicenda, attraverso la rappresentazione e la illustrazione delle diverse posizioni delle parti in contesa, tenendo ponderatamente conto dell’effetto divulgativo ed esplicativo del mezzo televisivo che, pur ampliando la dialettica fra i soggetti processuali, può indurre il rischio di alterare la percezione dei fatti;

d) rispettare complessivamente il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo - e rispettando il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;

e) controllare, nell’esercizio del diritto di cronaca, la verità dei fatti narrati mediante accurata verifica delle fonti, avvertendo o comunque rendendo chiaro che le persone indagate o accusate si presumono non colpevoli fino alla sentenza irrevocabile di condanna e che pertanto la veridicità delle notizie concernenti ipotesi investigative o accusatorie attiene al fatto che le ipotesi sono state formulate come tali dagli organi competenti nel corso delle indagini e del processo e non anche alla sussistenza della responsabilità degli indagati o degli imputati;

f) non rivelare dati sensibili o che ledano la riservatezza, la dignità e il decoro altrui, ed in special modo della vittima o di altri soggetti non indagati, la cui diffusione sia inidonea a soddisfare alcuno specifico interesse pubblico.

Articolo 2

1. L’accertamento delle violazioni del presente Codice, comprensivo delle indicazioni formulate con la citata delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni , alle quali esso compiutamente risponde, e l’adozione delle eventuali misure correttive sono riservati alla competenza di un apposito Comitato che le parti sottoscrittrici ed aderenti si impegnano a costituire entro il 30 giugno 2009.

2. In ogni caso per i giornalisti eventualmente coinvolti la competenza resta riservata all’Ordine professionale.

Articolo 3

1. Il presente Codice è aperto all'adesione da parte di altri soggetti iscritti al ROC presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e a loro associazioni e consorzi.

2. L’adesione comporta la piena accettazione del presente Codice.

Articolo 4

Il presente Codice entra in vigore all’atto di costituzione del Comitato di cui all’art. 2.

Roma, 21 maggio 2009

Per Rai – Radiotelevisione Italiana Spa: Dott. Paolo Garimberti, Presidente; Prof. Mauro Masi, Direttore Generale

Per RTI – Reti Televisive Italiane Spa: Dott. Fedele Confalonieri, Presidente Mediaset; D.ssa Gina Nieri, Vice Presidente R.T.I.

Per Telecom Italia Media Spa: Dott. Mauro Nanni, Amministratore Delegato

Per l’Associazione Aeranti – Corallo: Avv. Marco Rossignoli, Presidente e Coordinatore Aeranti – Corallo

Per l’Associazione FRT – Federazione Radio e Televisioni: Dott. Filippo Rebecchini, Presidente

Per l’Ordine Nazionale dei Giornalisti: Dott. Pierluigi Roesler Franz, Consigliere Nazionale

Per la Federazione Nazionale della Stampa: Dott. Roberto Natale, Presidente

ALLEGATO B

Gazzetta Ufficiale N. 39 del 15 Febbraio 2008 AUTORITA' PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI  DELIBERAZIONE 31 gennaio 2008. Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive. (Deliberazione n. 13/08/CSP).

L'AUTORITA'

Nella riunione della Commissione per i servizi ed i prodotti del 31 gennaio 2008;

Visti gli articoli 2, 3, 21, 24, 25, 27, 101 e 111 della Costituzione italiana;

Visti gli articoli 1, 7, 11, 47, 48 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;

Vista la legge 31 luglio 1997, n. 249, pubblicata nel supplemento ordinario n. 154/L alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 177 del 31 luglio 1997, ed in particolare l'art. 1, comma 6, lettera b), n. 6;

Visto il decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, recante «Testo unico della radiotelevisione», pubblicato nel Supplemento Ordinario n. 150/L alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 208 del 7 settembre 2006, ed in particolare i suoi articoli 3, 4 e 34, che delineano quali fondamentali principi dell'informazione, tra gli altri, quelli della lealtà ed imparzialità, della salvaguardia dei diritti fondamentali e della dignità della persona, della tutela dei minori;

Visto l'Atto di indirizzo sulle garanzie del pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo approvato dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi nella seduta dell'11 marzo 2003, secondo il quale, in particolare:

«1. Tutte le trasmissioni di informazione - dai telegiornali ai programmi di approfondimento - devono rispettare rigorosamente, con la completezza dell'informazione, la pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio; ai direttori, ai conduttori, a tutti i giornalisti che operano nell'azienda concessionaria del servizio pubblico, si chiede di orientare la loro attività al rispetto dell'imparzialità, avendo come unico criterio quello di fornire ai cittadini utenti il massimo di informazioni, verificate e fondate, con il massimo della chiarezza... .... omissis.... 4. Considerato che la legge garantisce agli imputati e alla loro difesa di tacere quando loro può nuocere; considerati altresì i vincoli ai quali la legge obbliga i magistrati, sia requirenti che giudicanti nel rapporto con i mezzi di informazione, in tutte le fasi del giudizio; nei programmi della concessionaria del servizio pubblico aventi ad oggetto procedimenti giudiziari in corso, l'esercizio del diritto di cronaca, come l'obbligatorio confronto tra le diverse tesi dovrà essere garantito da soggetti diversi dalle parti che sono coinvolte e si confrontano nel processo. La scelta di questi soggetti - la cui delicatezza è evidente – appartiene esclusivamente alle decisioni dei responsabili dei programmi»;

Visti i codici di autoregolamentazione applicabili alla comunicazione radiotelevisiva, e, in particolare, la «Carta di Treviso sul rapporto Informazione-Minori» del 5 ottobre 1990 e il suo addendum del 25 novembre 1995, la «Carta dei doveri del giornalista «sottoscritta dal Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della Stampa italiana in data 8 luglio 1993, la «Carta dell'informazione e della programmazione a garanzia degli utenti e degli operatori del servizio pubblico - RAI» del dicembre 1995, il «Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attivita' giornalistica» (allegato A1 del codice in materia di protezione dei dati personali approvato con decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196);

Considerato quanto segue:

1. Alcuni programmi televisivi mostrano la tendenza a trasmettere in forma spettacolare vere e proprie ricostruzioni di vicende giudiziarie in corso, impossessandosi di schemi, riti e tesi tipicamente processuali che vengono riprodotti, peraltro, con i tempi, le modalità e il linguaggio propri del mezzo televisivo, i quali si sostituiscono a quelli, ben diversi, del procedimento giurisdizionale. Si crea cosi' un foro «mediatico» alternativo alla sede naturale del processo, dove non si svolge semplicemente un dibattito equilibrato tra le opposte tesi, ma si assiste a una sorta di rappresentazione paraprocessuale, che giunge a volte perfino all'esame analitico e ricapitolativo del materiale probatorio, cosi' da pervenire, con l'immediatezza propria della comunicazione televisiva, ad una sorta di convincimento pubblico, in apparenza degno di fede, sulla fondatezza o meno di una certa ipotesi accusatoria. Tanto più accreditato risulta tale convincimento quanto più, nella percezione di massa, la comunicazione televisiva svolge una sorta di funzione di validazione della realtà. In tal modo la televisione rischia seriamente di sovrapporsi alla funzione della giustizia: e può accadere che effetti «coloriti» o «teoremi giudiziari alternativi» o rappresentazioni suggestive (a volte persino con l'utilizzazione di figuranti) prevalgano sull'obiettiva e comprovata informazione, con il concreto rischio di precostituire presso l'opinione pubblica un preciso giudizio sul caso concreto, basato su una «verità virtuale» che può influire, se non prevalere, sulla «verità processuale», destinata per sua natura ad emergere solo da una laboriosa verifica che richiede tempi più lunghi, portando addirittura, in casi deteriori, a un giustizialismo emotivo e sbrigativo, talora non alieno da tratti morbosi.

2. La tecnica della spettacolarizzazione dei processi, che le trasmissioni televisive utilizzano a fini di audience, amplifica a dismisura la risonanza di iniziative giudiziarie che, per il loro carattere spesso semplicemente prodromico e cautelare, potrebbero nel prosieguo del processo anche rivelarsi infondate e risultare quindi superate, con il rischio della degenerazione della trasmissione in una sorta di «gogna mediatica» a scapito della presunzione di non colpevolezza dell'imputato e, in ultima analisi, della tutela della dignità  umana e del diritto al «giusto processo», garantiti dalla nostra Costituzione e dai principi comunitari. E la «gogna mediatica» può  diventare già  essa stessa una condanna preventiva, inappellabile e indelebile.

3. Il livello di civiltà di uno Stato si misura innanzitutto dal rispetto per la giustizia. E da un sistema giudiziario indipendente ed efficiente. Tuttavia, non si può supplire ai tempi troppo lunghi della giustizia trasferendo il giudizio dalle aule giudiziarie alla televisione, in violazione del canone della centralità del processo, quello vero, quale unica sede deputata dall'ordinamento alla ricerca e all'accertamento della «verità». La cronaca può indubbiamente riferire del processo, ma non può spingersi a crearne un surrogato che, nella pretesa di ricostruire la vicenda delittuosa, ne amplifichi a dismisura e - in un certo senso - ne rinnovi e incrudisca gli effetti lesivi. Il processo deve essere svolto dal giudice competente, l'accusa va sostenuta dal pubblico ministero, la difesa va fatta da avvocati che conoscano il diritto e gli incartamenti processuali: il tutto secondo regole che garantiscano il regolare e appropriato svolgimento del processo e i diritti fondamentali della persona. Non e' pertanto ammissibile - e contrasta con gli indirizzi dettati dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi sul pluralismo informativo - che il ruolo di giudici, accusatori e difensori sia svolto da giornalisti o conduttori televisivi o, comunque, da soggetti estranei, senza quelle garanzie che nella cultura giuridica del Paese rappresentano un caposaldo dello Stato di diritto.

4. L'attenzione distorta, insistente e talora parossistica dedicata a taluni pur gravi fatti delittuosi comporta notevoli rischi di alterazione, anche perché l'estremizzazione mediatica dell'indagine nel suo farsi processo da un lato inevitabilmente amplifica le sofferenze della vittima e dei suoi congiunti (trasformando il dolore della persona in spettacolo pubblico, in contrasto con elementari istanze di tutela della persona), e dall'altro enfatizza, spettacolarizzandolo, il ruolo dell'imputato, che esce dall'anonimato per venire oggettivamente proposto come un vero e proprio protagonista della vita sociale «mediatica», con risultati abnormi e talora aberranti, vuoi sul versante della deturpazione dell'immagine vuoi sul versante di un'enfatizzata notorietà che regala a protagonisti negativi una celebrità distorsiva dei valori di una società civile.

5. Né è da escludere o da sottovalutare il pericolo che una siffatta rappresentazione «mediatica» del processo - ispirata più dall'amore per l'audience che dall'amore per la verità in programmi delle principali emittenti televisive che occupano con grande ascolto la prima e la seconda serata - possa influenzare indebitamente il regolare e sereno esercizio della funzione di giustizia. Esiste, in particolare, il pericolo dell'identificazione dell'organo giurisdizionale con la «platea dei telespettatori» che rischia di mettere a repentaglio l'indipendenza psicologica del giudicante (anch'essa valore costituzionalmente rilevante), facendo risentire la pressione di un processo di piazza dei nostri tempi sul processo nella sede giudiziaria. Con la conseguenza che, quando il processo reale approderà al suo esito giudiziario, la sentenza, se conforme all'esito della rappresentazione televisiva, appaia nient'altro che la tardiva rimasticatura di quell'esito tempestivamente raggiunto e, se difforme, venga contaminata dal sospetto di una distorsione dal giusto esito che, per frange non trascurabili del pubblico, rimane quello del processo celebrato in TV, impressosi ormai nella memoria dei telespettatori. Per altro verso, un'attenzione sproporzionata a un certo «caso» può determinare una «personalizzazione» delle indagini che competono al giudice, esponendo così il singolo magistrato a tentazioni di protagonismo mediatico (oltre che a rischi personali) e sottoponendolo ad una sovra-pressione che può mettere a repentaglio la correttezza delle dinamiche di funzionamento del processo.

6. La problematica rappresentata, nei suoi molteplici risvolti, e' di estrema delicatezza, in quanto in essa confluisce la considerazione di plurimi valori costituzionalmente garantiti: in sintesi, da un lato la libertà di espressione e di opinione, il diritto di informare e di ricevere e comunicare informazioni - comprensivo anche del diritto di cronaca - che costituiscono estrinsecazione della libertà di manifestazione del pensiero affermata dall'art. 21 della Costituzione; dall'altra la salvaguardia delle libertà individuali e della tutela della dignità umana e dei diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost.), nonché il diritto al «giusto processo» tutelato dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (art. 6) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 47). Il compito di contemperare i contrapposti interessi in gioco e' difficile e sfuggente, dovendosi ben ponderare, nella loro relazione reciproca, valori ciascuno di per sé meritevole di considerazione, di rispetto e di tutela.

7. La vigente disciplina delle riprese audiovisive dei dibattimenti (art. 147 decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) già fornisce una misura - ed un caveat sulla necessità - di contemperamento degli interessi in gioco: garanzia del diritto di cronaca, ma anche salvaguardia delle personalità individuali. Omologo al diritto di cronaca e' il principio della pubblicità delle udienze, immediatamente riconducibile al disposto dell'art. 101 della Costituzione: in un sistema democratico che garantisce la sovranità popolare, e nel quale la giustizia e' amministrata in nome del popolo, devono esistere meccanismi di controllo sui modi di esercizio della giurisdizione. Dall'altra parte vi sono però i valori connessi al rispetto di alcune importanti prerogative dell'individuo, tra cui l'onore e la riservatezza. La norma dianzi citata prevede che ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca il giudice, se le parti consentono, può autorizzare in tutto o in parte la ripresa audiovisiva del dibattimento, purchè non ne derivi un pregiudizio al regolare svolgimento dell'udienza o della decisione. L'autorizzazione può essere data pure senza il consenso delle parti «quando esiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento». Anche quando autorizza la trasmissione, il presidente vieta la ripresa delle immagini di parti e testimoni, periti, consulenti ed altri soggetti presenti, se i medesimi non vi consentono. Infine, non possono essere autorizzate le trasmissioni di processi che si svolgono a «porte chiuse». Secondo autorevole dottrina, la norma testè esaminata non ha fugato i dubbi che il dibattito sulla «cronaca giudiziaria» ha sollevato. Come vi e' un interesse sociale alla conoscenza del dibattimento, infatti, vi e' anche un interesse generale a non turbare lo svolgimento del processo.

8. La vigente normativa sul sistema radiotelevisivo pone tra i principi fondamentali del settore la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione, la tutela della libertà di espressione di ogni individuo (inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o di comunicare informazioni), l'obiettività, la completezza, la lealtà e l'imparzialità dell'informazione, nel rispetto delle libertà e dei diritti, in particolare della dignità della persona e dell'armonico sviluppo dei minori, garantiti dalla Costituzione, dalle regole di base dell'Unione europea, dalle norme e convenzioni internazionali e dalle leggi nazionali. Ne deriva che nell'ordinamento della comunicazione i principi rappresentati dalla libertà di espressione, di opinione e di ricevere e comunicare informazioni - comprensivi certo anche del diritto di cronaca, costituzionalmente garantito, - devono pur sempre conciliarsi con il rispetto delle libertà e dei diritti, e in particolare della dignità della persona; ne discende che a tale rispetto non e' possibile derogare neanche nel caso in cui la persona sia sottoposta a procedimento giudiziario o sia stata condannata con sentenza definitiva.

9. Ferma la necessità di evitare ogni menomazione ed ogni ingiustificato limite al diritto di informazione, si ritiene, pertanto, che la rappresentazione in televisione di temi di cronaca giudiziaria non possa reputarsi totalmente esente da regole, ma debba osservare una serie di limiti modali, riconducibili in primis all'ambito della deontologia professionale, tali da evitare il rischio che attraverso la spettacolarizzazione di vicende delittuose e giudiziarie vengano compromessi i principi di correttezza, lealtà, equità e completezza dell'informazione, nonchè i valori del rispetto della dignità umana e del diritto al «giusto processo».

Considerato che ai sensi dell'art. 7 del «Testo unico della radiotelevisione» l'attività di informazione radiotelevisiva, da qualunque emittente o fornitore di contenuti esercitata, costituisce un servizio di interesse generale e deve garantire il rispetto dei principi ivi recati, la cui osservanza e' resa effettiva dall'Autorità attraverso le regole dalla stessa stabilite.

Ritenuta la necessità che - in considerazione della delicatezza e degli aspetti marginali di opinabilità del problema - al soddisfacimento delle esigenze di correttezza della rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive si proceda attraverso un'opportuna e responsabile scelta di autoregolamentazione degli operatori interessati, in considerazione del valore costituzionalmente garantito della libertà di espressione del pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, valore che si traduce nell'esigenza che la democrazia sia basata su una libera opinione pubblica. Ravvisata, pertanto, l'utilità dell'istituzione di un apposito tavolo tecnico presso l'Autorità con l'obiettivo di promuovere la redazione, da parte degli operatori, di un corpo di regole di autodisciplina in tale materia.

Ritenuta, peraltro, necessaria al corretto dispiegarsi delle dinamiche autoregolamentari l'individuazione di criteri a presidio degli interessi tutelati dalle norme vigenti nella materia.

Ritenuta, pertanto, l'opportunità di adottare in questa sede un apposito atto di indirizzo sui criteri relativi alle corrette modalità di rappresentazione della materia delle indagini e dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive, anche in vista del successivo impegno autoregolamentare dei soggetti interessati. Udita la relazione dei Commissari Giancarlo Innocenzi Botti e Michele Lauria, relatori ai sensi dell'art. 29 del regolamento concernente l'organizzazione ed il funzionamento dell'Autorità.

Delibera:

Art. 1. Criteri sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive.

1. Le emittenti radiotelevisive pubbliche e private, nazionali e locali, e i fornitori di contenuti radiotelevisivi su frequenze terrestri, via satellite e via cavo - ferme la garanzia della libertà d'informazione e del pluralismo dei mezzi di comunicazione nonchè la salvaguardia della libertà di espressione di ogni individuo, inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o comunicare informazioni - sono tenuti a garantire l'osservanza dei principi normativi di obiettività, completezza, lealtà e imparzialità dell'informazione, rispetto delle libertà e dei diritti individuali, ed in particolare della dignità della persona e della tutela dei minori, in tutte le trasmissioni che hanno ad oggetto la rappresentazione di vicende e fatti costituenti materia di procedimenti giudiziari in corso, quale che sia la fase in cui gli stessi si trovino.

2. I soggetti di cui al comma 1, al fine di garantire l'osservanza dei suddetti principi, si attengono, in particolare, ai seguenti criteri:

a) va evitata un'esposizione mediatica sproporzionata, eccessiva e/o artificiosamente suggestiva, anche per le modalità adoperate, delle vicende di giustizia, che non possono in alcun modo divenire oggetto di «processi» condotti fuori dal processo. In particolare vanno evitati «processi mediatici», che, perseguendo il fine di un incremento di audience, rendano difficile al telespettatore l'appropriata comprensione della vicenda e che potrebbero andare a detrimento dei diritti individuali tutelati dalla Costituzione e delle garanzie del «giusto processo;

b) l'informazione, fermo restando il diritto di cronaca, deve fornire notizie con modalità tali da mettere in luce la valenza centrale del processo, celebrato nella sede sua propria, quale luogo deputato alla ricerca e all'accertamento della «verità»: dovranno pertanto essere seguite modalità tali da tenere conto della presunzione di innocenza dell'imputato e dei vari gradi esperibili di giudizio, evitando in particolare che una misura cautelare o una comunicazione di «garanzia» possano rivestire presso l'opinione pubblica un significato e una concludenza che per legge non hanno;

c) la cronaca giudiziaria deve sempre rispettare i principi di obiettività, completezza, correttezza e imparzialità dell'informazione e di tutela della dignità umana, evitando tra l'altro di trasformare il dolore privato in uno spettacolo pubblico che amplifichi le sofferenze delle vittime e rifuggendo da aspetti di spettacolarizzazione suscettibili di portare a qualsivoglia forma di «divizzazione» dell'indagato, dell'imputato o di altri soggetti del processo; deve inoltre porre sempre in essere una tutela rafforzata quando sono coinvolti minori, dei quali va salvaguardato lo sviluppo fisico, psichico e morale;

d) restando salva la facoltà di sviluppare sui temi in esame dibattiti tra soggetti diversi dalle parti del processo nel rispetto del principio del contraddittorio ed assicurando pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti intervenienti, vanno evitate le manipolazioni tese a rappresentare una realtà virtuale del processo tale da ingenerare suggestione o confusione nel telespettatore con nocumento dei principi di lealtà, obiettività e buona fede nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;

e) quando la trasmissione possa inferire sui diritti della persona, l'informazione sulle vicende processuali deve svolgersi in aderenza a principi di «proporzionalità», accordando pertanto alle informative e alle analisi uno spazio equilibratamente commisurato alla presenza e all'entità dell'interesse pubblico leso e raccordando la comunicazione al grado di sviluppo dell'iter giudiziario, e quindi al livello di attendibilità delle indicazioni disponibili sulla verità dei fatti.

Art. 2. Codice di autoregolamentazione

1. I soggetti di cui all'art. 1, comma 1, singolarmente o attraverso le proprie associazioni rappresentative, sono invitati a redigere un codice di autoregolamentazione, con il concorso dell'Ordine dei Giornalisti e delle organizzazioni rappresentative delle professionalità della stampa, al fine di individuare regole di autodisciplina idonee a dare concreta attuazione ai principi e ai criteri individuati nel presente atto di indirizzo.

2. L'Autorità, con separato provvedimento, provvederà ad istituire un tavolo tecnico in funzione di promozione ed ausilio rispetto alla elaborazione del codice e alla definizione delle modalità della sua redazione e sottoscrizione.

3. L'Autorità, nell'ambito della propria competenza, uniformerà la propria attività di vigilanza in materia al rispetto delle norme e dei principi richiamati, avendo specifico riguardo alle disposizione del codice di autoregolamentazione.

La presente delibera e' pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e nel Bollettino ufficiale e sul sito web dell'Autorità ed e' trasmessa alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.

Napoli, 31 gennaio 2008

Il presidente Calabro'. I commissari relatori Innocenzi Botti – Lauria

Pierluigi Franz replica al presidente dei cronisti Guido Columba: “Il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive trova fondamento nei diritti, garantiti dalla Costituzione, di libertà di espressione del pensiero, da un lato, e di rispetto  dei diritti dei cittadini, dall’altro. “Il codice  riconosce la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare, nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. E soprattutto di riaffermare il principio costituzionalmente garantito della presunzione di innocenza delle persone indagate, evitando la celebrazione in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori, dei processi in corso”.

Caro Presidente,  sono rimasto assolutamente sconcertato dal Tuo farneticante comunicato odierno: "Processi Tv: da Fnsi e Ordine nuovo cappio alla cronaca. - Hanno sottoscritto il Codice di autoregolamentazione Agcom - Soltanto lo scorso febbraio avevano formalmente deciso esattamente l'opposto" (Allegato A). E mi meraviglio che un cronista bravo ed esperto come Te sia riuscito a mettere insieme così tante inesattezze e imprecisioni senza neppure leggere l'ampio ed articolato preambolo al Codice, ricco di citazioni di numerose norme in vigore che soprattutto i giornalisti devono comunque conoscere e rispettare. Ad esempio, quando affermi nel titolo che "Fnsi e Ordine hanno sottoscritto il Codice di autoregolamentazione Agcom, mentre soltanto nello scorso febbraio avevano formalmente deciso esattamente l'opposto" dimentichi un particolare tutt'altro che trascurabile. Difatti, successivamente - anche grazie al mio modesto contributo - il testo del Codice é stato del tutto modificato su un passaggio chiave per i giornalisti iscritti all'Albo. Si tratta in particolare dell'art. 2, secondo comma, che prevede testualmente che "In ogni caso per i giornalisti eventualmente coinvolti la competenza resta riservata all'Ordine professionale". Di conseguenza mentre fino a febbraio scorso concordavo pienamente con te e con i colleghi del Consiglio nazionale contrari all'approvazione di quella prima Bozza del Codice perché non potevano essere varate nuove regole a carico dei giornalisti in aggiunta a tutte quelle già esistenti (Costituzione della Repubblica, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Raccomandazione approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 luglio 2003 (R(2003)13 -relativa all’informazione fornita dai media rispetto a procedimenti penali - nonché il Protocollo n. 11 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali, codice penale, codice di procedura penale, codice civile, legge sulla stampa del 1948, legge n. 69 del 1963, Carta dei doveri, Carta di Treviso, Codice della Privacy, Testo unico della radiotelevisione, Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli operatori del Servizio Pubblico Televisivo, il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il Codice di autoregolamentazione Tv e Minori approvato il 29 gennaio 2002 e il Codice Etico approvato dal Consiglio di Amministrazione della Rai; ecc.), la nuova formulazione accolta dal tavolo tecnico e dal Presidente dell'Authority Corrado Calabrò ha ovviamente ribaltato la situazione perché mantiene l'esclusiva competenza degli Ordini regionali territorialmente competenti così come era già avvenuto per il Codice di autoregolamentazione dell'informazione sportiva "Codice media e sport". E nell'ultima seduta del Cnog del 6-7 maggio 2009 se ne é preso atto, come delle dichiarazioni anch'esse favorevoli del Presidente della Fnsi Roberto Natale. Appare quindi del tutto inverosimile e fuorviante il sottotitolo "biforcuta" (come, cioé, se l'Ordine nazionale dei giornalisti e la Fnsi avessero la lingua biforcuta di indiana memoria) al Tuo comunicato "Processi Tv: da Fnsi e Ordine nuovo cappio alla cronaca" quando dovresti sapere che non é affatto vero, anzi é l'esatto contrario. E te lo dice uno come me come ha trascorso più di 30 anni in Cassazione, che si é letto una montagna di Gazzette Ufficiali e circa 600 mila sentenze della Suprema Corte e della Consulta, e che conosce circa 220mila tra leggi, codici e Trattati internazionali. A mio parere il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive, cui hanno lavorato tra gli altri due ex Presidenti della Corte Costituzionale Riccardo Chieppa e Cesare Ruperto, fa, invece, finalmente chiarezza su una materia delicatissima che era stata più volte al centro di discussioni e polemiche. Mi limito solo a ricordarTi che:

1) il 30 gennaio scorso il Primo Presidente della Cassazione Vincenzo Carbone nella sua relazione sull'amministrazione della giustizia nella cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2009 al "Palazzaccio" di piazza Cavour a Roma aveva sottolineato la necessità di "evitare la realizzazione di veri e propri processi mediatici, simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre é ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali. La giustizia deve essere trasparente, ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria";

2) il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo intervento dello scorso anno al Consiglio Superiore della Magistratura si era richiamato ai principi affermati dalla nostra Costituzione e insiti sia nell'ordinamento nazionale, sia in quello comunitario, osservando che l'indirizzo rivolto il 31 gennaio 2008 dal Presidente dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni Calabrò costituisce "un atto puntuale e fermo contro il rischio di un sovrapporsi della televisione alla funzione della giustizia attraverso la tecnica della spettacolarizzazione dei processi e la suggestione di teoremi giudiziari alternativi";

3) il Presidente dell'Agcom, Corrado Calabrò, presente ieri alla firma in veste di "notaio" ha ribadito che il Codice rappresenta «una svolta nella comunicazione. Non si vuole assolutamente limitare la libertà d'informazione, ma bisogna rispettare i diritti fondamentali della persona, evitando rappresentazioni dei processi che possono distorcere, come è accaduto più di una volta, la reale comprensione dei fatti. Vedere che tutte le emittenti hanno aderito, anche a costo di rinunciare a qualche punto di share, è positivo per tutta la società civile»;

4) Il presidente della Rai Paolo Garimberti ha parlato di «opera meritoria», il Presidente di Mediaset Fedele Confalonieri e l’Amministratore delegato di Telecom Italia Media Mauro Nanni hanno evidenziato il «valore dell'autoregolamentazione», mentre Roberto Natale ha detto: «Oggi firmiamo e insieme traiamo nuovo impulso nella determinazione ad opporci a norme che tendono a limitare il diritto di cronaca, come il ddl intercettazioni».

In conclusione ti ricordo che contrariamente a quanto affermi nel Tuo comunicato il Codice trova fondamento nei diritti, garantiti dalla Costituzione, di libertà di espressione del pensiero, da un lato, e di rispetto dei diritti dei cittadini, dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. E soprattutto di riaffermare il principio costituzionalmente garantito della presunzione di innocenza delle persone indagate, evitando la celebrazione, in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori, dei processi in corso. Ti sarei molto grato se volessi rendere nota questa mia richiesta di rettifica del Tuo comunicato, essendo gravemente lesivo della mia onorabilità. Cordialmente. Pierluigi Roesler Franz, Consigliere nazionale dell'Ordine dei Giornalisti.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

MEDIA. DALLA PARTE DELLE VITTIME? NO! DALLA PARTE DEI MAGISTRATI.

“No. Più che altro avrei voluto che avesse seguito la mia religione. Io appartengo ai Testimoni di Geova e avrei voluto che restasse tra noi fratelli, come noi Testimoni di Geova ci chiamiamo l’un l’altro: tra noi sarebbe stata più al sicuro. Noi Testimoni di Geova nemmeno nella fantasia possiamo pensare di uccidere una persona, figuriamoci realmente. Lo dicevo sempre a mia figlia che chi non ama Dio non può amare te. Non l’ho mai obbligata a seguirmi, forse in questo ho sbagliato?” Così Concetta Serrano, la mamma di Sarah Scazzi, in un’intervista. Fervente Testimone di Geova che spingeva la figlia ad abbracciare la sua stessa fede, ma Sarah non voleva saperne, scrive “Articolo 3”. Inquietanti le coincidenze che ricorrono nella vita di due giovani scomparse o massacrate ed i Testimoni di Geova. Un’atra Sara al centro di un giallo ancora irrisolto, la scomparsa di Roberta Ragusa.  Si tratta di Sara Calzolaio, la giovane amante di Antonio Logli, il marito della giovane donna. Sara è stata allontanata dai Testimoni di Geova, dopo la scoperta della relazione con Logli. Dissociazione, la definiscono, una specie di morte civile, morti agli occhi della comunità e dannati in eterno per una delle colpe, a loro dire, più gravi: l’adulterio, aggravato dal fatto che sia stato commesso con un partner al di fuori della comunità, chissà poi perché. Sembra che anche Roberta, da ragazzina, avesse bazzicato nella comunità, della quale probabilmente la madre era un’adepta, e si racconta che ultimamente si fosse riavvicinata alla comunità. Un universo sessuofobo, quello dei Testimoni di Geova, e di sesso dietro ai misteri di Sarah e Roberta ce n’è tanto. Un mondo chiuso, greve, che non conosce vie di mezzo, fatto di minacce e maledizioni, in cui il perdono è vocabolo ed esercizio sconosciuto.

«Vorrei incontrare Sabrina: mi piacerebbe aiutarla ad iniziare un cammino giusto agli occhi di Dio. Farle capire che la scena di questo mondo sta per cambiare e resta poco tempo per farsi perdonare. Geova Dio, nella sua misericordia, è pronto a perdonarla nel momento in cui lei compie i passi richiesti». È quanto scrive Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, nella mail inviata al proprio avvocato Antonio Cozza e letta a «Quarto Grado», su Retequattro. «Sarah al momento non c’è, ma è viva agli occhi di Dio. Sabrina c’è, ma vive una vita priva di tranquillità - prosegue la lettera - . vorrei incontrarla, non per chiederle se ha ucciso Sarah, anzi... sarà un discorso che non farò mai, se lei non lo vorrà. Tra breve Sarah sarà riportata in vita, qui sulla Terra. Per me sarebbe davvero bello rivedere le due cugine nel "Nuovo Mondo", governato da Cristo Gesù, che si abbracciano, dimenticando il male che ha portato a questa tragica situazione, così che tutte e due possano vivere una vera vita. Sabrina potrà ottenere questo e tante altre benedizioni, se ubbidirà alla parola di Geova Dio».

«Incontrerei Concetta, ma senza telecamere, privatamente. La vedo passare qualche volta vicino casa e mi dispiace. Faccio finta di non guardarla, perchè ci rimango male. Non è giusto quello che è stato fatto. Quello che ho fatto. Le ridirei che sono colpevole, che non copro nessuno». Lo ha detto Michele Misseri in un’intervista rilasciata il 25 ottobre 3013 a "Quarto Grado", su Retequattro. L'uomo – che si proclama autore dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi, condannato a otto anni di carcere per occultamento di cadavere – spiega il motivo per il quale richiede di essere ripreso di spalle dalle telecamere: «Non voglio più essere ripreso dalla televisione, mi hanno sempre bastonato perchè vado in tv, dicendomi che sono un pupazzo, un burattino. Per far emergere la verità, ho subìto tutte queste cose che fanno male. Per prima cosa chiederei perdono a Concetta. – prosegue Misseri – Mi scuserei per quello che è successo: non l’ho fatto apposta. Questa è la verità. Se lei mi guardasse negli occhi, si convincerebbe che sto dicendo veramente la verità. Non volevo uccidere Sarah. Non so nemmeno perchè l’ho fatto. Non mi hanno mai creduto, perchè non mi ricordo come ho fatto con la corda. Piango sempre quando ci penso. – aggiunge – Dovevo stare benone adesso e, invece, ho distrutto la mia famiglia e quella degli altri. Ero un uomo conosciuto da tutti e ora sono tra i più miserabili che esistano. Anche che se Concetta mi perdonasse, quel che ho fatto mi rimarrà sempre sulla coscienza». Alla domanda se si recasse a casa di Concetta, Michele Misseri replica: «Se Concetta me lo chiede, io ci vado, ma non spontaneamente perchè mi vergogno» Sulle accuse di Concetta, Misseri dice: «Non sono un furbacchione. Non è detto che Concetta mi debba credere per forza, ma io dico la mia verità». Riguardo all’eventuale perdono della madre di Sarah nei confronti della figlia, Misseri afferma: «Cosa deve perdonare Concetta a Sabrina, se mia figlia non ha commesso niente? Ha fatto tre anni da innocente». Non ha dubbi, invece, Concetta Serrano, che sarebbe disposta a perdonare, ma solo a certe condizioni, la nipote Sabrina, accusata di aver ucciso Sarah e condannata in primo grado all'ergastolo. «Perdonerei Sabrina solo se si mettesse nella condizione di essere perdonata: se si pentisse. Non basta piangere o disperarsi. E' una condizione di cuore e di mente. Se Michele venisse a casa mia da solo, non gli aprirei la porta. Ho ascoltato la sua intervista e dice: io dico la mia verità. E, infatti, sta dicendo la "sua" verità».

LETTERA APERTA A QUARTO GRADO.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Eppure si continua a mestare nel torbido.

«Avevo ragione io e, finalmente, la verità sta venendo a galla. Mia figlia Sarah aveva scoperto che qui ad Avetrana si celebrano terribili riti satanici, nei quali è coinvolta anche Sabrina. Adesso mia nipote deve dire tutto quello che sa. Deve spiegare dove e cosa avveniva in quel misterioso casolare di cui parla nella telefonata che è stata intercettata dai carabinieri». Chi parla con Giallo è Concetta Serrano Scazzi, 52 anni, mamma di Sarah Scazzi, scrive Luca Zecca su “Menti Informatiche”. La donna, sconvolta, mentre si sfoga tiene tra le mani un documento che potrebbe segnare una svolta nelle indagini di uno dei casi di cronaca più sconvolgenti degli ultimi anni: l’omicidio di sua figlia Sarah, appunto. Su questo foglio, finora mai pubblicato, è trascritta una misteriosa conversazione telefonica, intercettata dai carabinieri, tra la nipote Sabrina Misseri, condannata in primo Sarah, e un suo amico, Alessio Pisello. Questa conversazione risale ai primissimi giorni dopo la scomparsa di Sarah, avvenuta il 26 agosto 2010. Era il 4 settembre e Avetrana era ancora una tranquilla cittadina della costa pugliese, pochi, ancora, sapevano della scomparsa di Sarah, il cui corpo fu ritrovato più di un mese dopo, il 7 ottobre. Nei primi giorni dopo la scomparsa della ragazzina, i carabinieri seguivano principalmente la pista dell’allontanamento volontario. Tutti i telefoni delle persone che ruotavano intorno a Sarah erano dunque sotto controllo: il sospetto infatti era che qualcuno scoprisse la sua fuga. Alle 9,45 di quel 4 settembre, a soli sette giorni dalla sparizione di Sarah, Sabrina Misseri, mentre si trovava a casa con la sorella, chiamò al telefono il suo amico Alessio Pisello e disse: «Hei, Alè, ma tu lo hai detto ai carabinieri di quella masseria? ». Pisello rispose: «No, ancora no, perché non c erano. Non ti preoccupare… tanto ce chi sta andando prima di loro… Non ti preoccupare». Stanno andando, stanno andando… un paio di amici, in massa». Concetta guarda fisso il documento e stringe i denti per la rabbia. Dice la donna, con la solita calma che, però, tradisce l’emozione: «Adesso dobbiamo scoprire dove questo posto e, soprattutto, capire perché mia nipote non voleva che carabinieri andassero prima dei suoi amici. Cosa aveva da nascondere li?». E’ dilaniata, la povera Cosima. Da una parte ha paura di scoprire gli aspetti più nascosti della vita della sua bambina. Dall’altra, però, sa che questa nuova intercettazione non fa che confermare i suoi sospetti iniziali: «Ora ne sono sicura, lì avveniva qualcosa di losco che mia figlia sapeva e che non doveva raccontare a nessuno. Io l’ho sempre detto». Concetta, infatti, fin dall’inizio ha parlato di “riti malefici e messe nere” di ceri accesi che allungano le ombre dei muri devastati e sporchi di vecchi casolari. Oppure, di luoghi dove si consumavano sporchi giochi di lussuria e del vizio. Continua Concetta Scazzi: «L’ho sempre pensato leggendo i diari di mia figlia e vedendo i poster che appendeva nella sua stanza. Non mi sono mai piaciuti». In effetti, Sarah era attratta da tutto ciò che si accostava all’esoterismo, il mistero, l’eccesso. La sua stanza era tappezzata di foto di Marilyn Manson, il chiacchierato cantante statunitense bocciato dalla chiesa come l’Anticristo. Lei stessa amava presentarsi con il volto cereo e gli occhi truccati pesantemente e vestiva quasi sempre di nero. Ed è un caso che, poco prima di morire, Sarah avesse preso in prestito dalla biblioteca di Avetrana un libro su alcune sparizioni misteriose, dall’inquietante titolo Segreti di morte? Certo è che quale sia il luogo a cui si riferiscono Sabrina Misseri e il suo amico Alessio Pisello nell’intercettazione, rimane un mistero. Nessuno degli investigatori, infatti, ne ha mai chiesto conto ai protagonisti. Se lo chiede oggi mamma Concetta: «Perché non glielo hanno chiesto? E perché non glielo chiedono adesso a questi due? Mia nipote deve spiegare dove si trova quel luogo e cosa centra con la morte della mia Sarah. Io devo sapere cosa è successo». Ed ecco che, a tre anni di distanza da quei fatti, un altro mistero confonde le poche certezze dell orrendo delitto di Avetrana. Gli ingredienti del giallo, ancora una volta, ci sono tutti: un casolare abbandonato tra gli infiniti uliveti che circondano il piccolo paese sul confine delle tre province di Taranto, Lecce e Brindisi. Il desiderio di una presunta assassina che vuole tenere il più possibile lontano da quel posto le persone impegnate nelle ricerche della cugina scomparsa. E la tenacia di una madre che, per dare un senso al proprio, immenso, dolore, non si arrende. Concetta Serrano, infatti, non si è mai accontentata dell’unico movente che, secondo i giudici, avrebbe spinto Sabrina a uccidere la cugina: la sua gelosia nei confronti della cugina Sarah. Concetta non vuole escludere nessuna pista alternativa. Nemmeno quella, terribile, secondo cui Sarah sarebbe stata uccisa perché era venuta a conoscenza dei riti satanici che si svolgevano ad Avetrana. E’ proprio questo il secondo movente a cui si riferiva il pubblico ministero Mariano Buccoliero nel processo contro Sabrina e Cosima Misseri? In quell’occasione, infatti, l’uomo sostenne che era difficile pensare che Sabrina avesse ucciso sua cugina solo per la sua gelosia nei confronti di Ivano Russo, 26 anni, il ragazzo conteso tra le due. Il pubblico ministero fece riferimento a «qualcosa di grave legato allo stato di tensione tra le due cugine, la pubblicità dei rapporti intimi tra Sabrina e Ivano, e discussioni tra Sabrina e la madre per quello che avrebbe detto la gente». Cosa non doveva dire la ragazzina alla gente? Il pubblico ministero non lo disse chiaramente, ma lo lasciò intendere: «Se Cosima Misseri è uscita e ha preso lauto per riprendere Sarah, vuol dire che era necessario impedire che la ragazza tornasse a casa e raccontasse le ragioni del litigio e tutto ciò che era accaduto in casa Misseri». Cose che Sarah non avrebbe dovuto raccontare? Forse ciò che accadeva nelle campagne di Avetrana nelle sere dedicate a Satana? Questo è quello di cui è convinta Concetta. D’altra parte, anche Avetrana è piena di misteri e di casolari sparsi nelle campagne dove sono evidenti le tracce di sinistre attività. Uno, in particolare, è frequentato dalle coppiette e da alcuni ragazzi, tra i quali gli amici di Sarah e Sabrina. Questo casolare è pieno di scritte e graffiti dall’inequivocabile significato esoterico. In paese lo chiamano “la casa dell’Africa”. Si dice che proprio qui, molti anni fa, la giovane figlia di una nobile famiglia che ci abitava morì cadendo in un pozzo. E questa la masseria che tanto preoccupava Sabrina Misseri al telefono?

Intanto sull’argomento Concetta Serrano Spagnolo ribadisce una cosa. "Non ho mai detto che 'Sabrina faceva riti satanicì e che ha ucciso Sarah per farla tacere. Lo dichiara in una nota Concetta Serrano Spagnolo, mamma di Sarah Scazzi – la 15enne di Avetrana uccisa il 26 agosto 2010, delitto per il quale sono state condannate all’ergastolo in primo grado la cugina Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano – riferendosi ad alcune dichiarazioni a lei attribuite ("ma da lei mai rilasciate") da organi di stampa. "Non ho mai detto – prosegue la mamma di Sarah nella nota, diffusa dal legale di famiglia Luigi Palmieri – che mia figlia Sarah aveva scoperto che qui ad Avetrana si celebrano terribili riti satanici, nei quali è coinvolta anche Sabrinà, nè tantomeno di essere sicura che lì avveniva qualcosa di losco che mia figlia sapeva e non doveva raccontare a nessuno. E ciò semplicemente – ma fondamentalmente – perchè non sono a conoscenza di tali fatti e circostanze". Concetta Serrano sottolinea che "in caso contrario, trattandosi di mia figlia e del processo che riguarda la sua tragica fine, non avrei esitato nemmeno un istante nel riferire tali dati ai miei avvocati, alla Procura e alla Corte di assise, quando sono stata sentita, ed in ogni udienza a cui ho partecipato; avvocati, Procura e Corte di assise del cui lavoro, professionalità e serietà non ho mai dubitato". La mamma di Sarah spiega così "l'esigenza di puntualizzare" il suo "reale" pensiero: "tutelare me stessa e preservare il corretto andamento del processo in tutti i gradi di giudizio. Tutto ciò – conclude Concetta Serrano – in nome di una verità che io ho sempre incessantemente cercato, nel processo, e, come madre, auspicato di conoscere dalla parola di Sabrina e Cosima".

Palmieri, Gentile e Biscotti, ospiti fissi di Quarto Grado per perorare la loro causa. Nella puntata del 18 ottobre 2013 ancora a chiedersi quando saranno trasmesse ai difensori le motivazioni della sentenza di condanna emessa il 20 aprile 2013 per poter proporre appello. “Fine anno” è la risposta, l’anno nuovo per la presentazione della richiesta di appello e chissà quando il nuovo procedimento inizierà. Certo è che nessuna anima candida si turba nel considerare il fatto che si perda tempo inutilmente nonostante, nell’attesa, vi siano persone ancora presunte innocenti in carcere. Motivare una condanna preventivata dalla circostanze ambientali e non dall’istruttoria probatoria lascia, inoltre, il tempo che trova.

A distanza di tre anni dall'omicidio di Sarah Scazzi Linea Gialla è tornata ad Avetrana per cercare di capire cosa è rimasto di questa storia. Non è stato facile perché quello che prima sembrava un reality, un teatro dell'assurdo ha chiuso i battenti ingoiando tutti, vittime, carnefici, testimoni. Tutti nello stesso limbo.

Nessuno vuole parlare più con i giornalisti. E questi, bramosi ed allucinati, si chiedono anche il perché.

Non è perché questi signori giornalisti stravolgano la realtà senza senso della misura per accontentare il loro disgustoso ed infimo pubblico. Oltretutto con l’immancabile ospitata degli Scazzi e dei loro difensori senza il contraltare dei rappresentanti degli imputati?

Nella puntata del 29/10/2013 di Linea Gialla, il programma condotto da Salvo Sottile su La 7, pur di fare audience si cerca di far passare il messaggio che nell'omicidio di Sarah Scazzi, il ruolo di Sabrina Misseri è risultato ambiguo fin da subito, ancora prima che il corpo di Sarah venisse trovato. Secondo Salvo Sottile ed i magistrati dell'accusa Sabrina tenta di condizionare gli altri testimoni. Ecco cosa dice in effetti all'amica Mariangela all'interno di una caserma dei Carabinieri prima di un interrogatorio. Dalla lettura attenta della  intercettazione tra Sabrina Misseri e Mariangela Spagnoletti si deve percepire realmente il senso della conversazione e quale valenza probatoria possa avere.

S. «Non mi ricordo, ho detto….Io non mi ricordo il messaggio a che ora ho guardato: 14.32….»

M. «No, e 39…»

S. «E 39? Tu mi hai detto e 32…»

M. «E 39….»

S. «Io mi ricordo del messaggio, non mi ricordo a che ora….Io so detto che mi ricordo 2 e 35…»

M. «Meno venti erano, ma perché tu non ti ricordi….sempre quello è stato l’orario.. »

S. «Ma secondo me tu….non ti sei accorta….hai parcheggiato…non ti accorgi dell’asciugamano nella borsa….stavi aspettando nella macchina…»

M. «Perché tu stavi dentro? »

S. «Sotto la veranda…..»

M. «No….»

S. «Seduta sotto la veranda stavo, sai?!? »

M. «No, Sabrì…»

S. «No, tu ti stai ricordando proprio male….»

M. «Noni, Sabrì…»

S. «Ma se stavo seduta….»

M. «Noni, non stavi seduta. L’ultima volta stavi seduta. Quando sono arrivata, tu stavi e avevi pure chiuso il cancello. E io ho detto…E che? E Sarah? »

S. «No, io ti ho detto a te…Hai incontrato Sarah? »

M. «Io sotto…sul sedile seduta stavo…e mia sorella nella macchina.. »

S. «Vedi che ti stai sbagliando, tua sorella.. »

M. «Vabbè, come dici tu.. »

S. «Io mi ricordo perfettamente come è stato…tu ti ricordi l’asciugamano, forse l’ho dato a…»

M. «Lo tenevi in mano già.. »

S. «All’ingresso l’ho preso io Marià…»

M. «Non sei proprio entrata in casa Sabrì….non sei entrata proprio.. »

GUERRA MEDIASET-LA7. LA GUERRA DEI GOSSIPPARI GIUSTIZIALISTI.

Gianluigi Nuzzi e Salvo Sottile si sono di fatto scambiati la poltrona e conducono due programmi simili, Quarto Grado e Linea Gialla. In una puntata di quest'ultimo sono stati utilizzati filmati già usati a Rete4 l'anno prima. Mediaset non ci sta e diffida per utilizzo illecito. Non c’erano stati particolari screzi in merito all’avvicendamento di Gianluigi Nuzzi e Salvo Sottile, rispettivamente passati da La7 a Rete 4 e viceversa. In pratica i due si sono di fatto scambiati di ruolo. Ma adesso, dopo l’utilizzo da parte di Salvo Sottile di alcune registrazioni già andate in onda a Quarto Grado durante la scorsa stagione inerenti al caso Scazzi, Mediaset ha diffidato La 7 ed il programma Linea Gialla dal perseverare nell’utilizzo di materiale esclusiva dell’azienda Rti-Mediaset. Il Biscione ha diffidato l’editore di La7 Urbano Cairo per la diffusione non autorizzata di alcuni filmati di proprietà esclusiva di Rti-Mediaset nella trasmissione “Linea Gialla” del 29 ottobre 2013 condotta da Salvo Sottile. I filmati sostiene Mediaset erano già stati trasmessi dal programma di Retequattro “Quarto Grado” ed erano relativi al caso di Sarah Scazzi, oltre a immagini di Annamaria Franzoni. Nella diffida, Mediaset si riserva di agire in sede giudiziaria al fine di tutelare i propri diritti esclusivi, chiede a La7 di rimuovere immediatamente dal sito dell’emittente i brani audiovisivi illecitamente utilizzati da “Linea Gialla” e di cessare ogni altro loro utilizzo.

“Trovo sorprendete e censurabile utilizzare così il lavoro di altri giornalisti. Ho visto quelle immagini e sono rimasto abbastanza sconcertato”, è il commento di Gianluigi Nuzzi, conduttore di “Quarto Grado”. “Condivido e sostengo tutte le iniziative di Mediaset che tutelano la mia squadra”. E Nuzzi guarda avanti e non ha nemmeno chiamato il collega Sottile per chiedere spiegazioni.

Sorpresa, però, da Fremantlemedia Italia Spa, società produttrice per conto di La7 del programma di Salvo Sottile “Linea Gialla”. “Le immagini relative all’intervista concessa da Annamaria Franzoni al “Maurizio Costanzo Show”, trasmesse dal programma “Linea Gialla” martedì scorso, sono state regolarmente richieste alle strutture competenti di Mediaset e da queste ultime consegnate alla produzione nell’ambito di accordi vigenti tra La7 e Mediaset. Non è stata invece utilizzata alcuna immagine della stessa Franzoni tratta dal Tg4. Non vi è dunque alcuna violazione dei diritti relativi all’utilizzo di tali immagini, nè i presupposti per alcuna diffida. Quanto alle immagini relative al caso di Sarah Scazzi, si precisa che tali immagini non sono di proprietà esclusiva di Rti trattandosi di immagini amatoriali mai cedute in esclusiva ad alcuno. Contrariamente a quanto affermato in alcune ricostruzioni di stampa, infine, Salvo Sottile è estraneo a tutte le procedure di acquisizione delle immagini del programma. Sia Salvo Sottile, sia Fremantlemedia si riservano a loro volta di intraprendere ogni opportuna iniziativa legale a tutela del proprio operato e della propria onorabilità”.

Giù le mani dai miei filmati intima Mediaset a La7. E che filmati e che audio, niente meno che quelli di e su Sarah Scazzi e Annamaria Franzoni, commenta “Blitz Quotidiano”. Materiale televisivo con cui a suo tempo Quarto Grado su Retequattro costruì una piccola-grande fortuna in termini di audience e consolidò un format televisivo, quello dell’indagine a cuore aperto e alla casareccia sul delitto, meglio se di famiglia. Un format, una serialità televisiva che quasi si identificò nel conduttore: Salvo Sottile. Solo che poi Salvo Sottile da Mediaset è passato a La7, da Quarto Grado a Linea Gialla. E si è portato dietro memoria, stile, attitudini, contatti, abilità e…E, sostiene Mediaset, nelle tasche di Sottile è rimasto anche qualcosa di esclusiva proprietà di Mediaset, appunto i brani audio-video della migliore cronaca nera dibattuta in salotto/osteria/bar/Cassazione televisivi. Quindi Mediaset ha inviato “diffida formale” a La7, diffida dall’utilizzare ancora il materiale che Sottile ha già mandato-rimandato in onda (prima su Mediaset e ora su La7). Diffida a rimuovere quel materiale dal sito di Linea Gialla. Diffida a smetterla, altrimenti arrivano gli avvocati con la richiesta di risarcimenti. Presto saranno prevedibilmente gli avvocati a confrontarsi. A noi resta una curiosità: nei contratti tra le aziende televisive e i conduttori, contratti che spesso prevedono un costo, un prezzo a puntata, piuttosto alto in media ma “tutto compreso”, a chi viene attribuita, riconosciuta la proprietà del materiale informativo? Al team del conduttore che l’ha raccolto o alla televisione che lo paga e compra “tutto compreso”? E poi il diritto d’immagine a tutti coloro che appaiono o sono intervistati è riconosciuto? Insomma è Mediaset che cerca di vendicarsi di un “tradimento”, che lascia intravedere qualche difficoltà nella successione di Gianluigi Nuzzi a Salvo Sottile, che indirettamente confessa un risentimento, che cerca un pretesto? Oppure è il conduttore Salvo Sottile che nel trasloco si è portato a casa nuova anche biancheria e stoviglie della ex convivente facendo finta fossero sue?

Da che pulpito vengono le prediche!!

PARLA IL COMPAGNO DI CARCERE DI MICHELE MISSERI.

Michele Misseri: in carcere trattato da pascià.

Come si chiama, da dove viene, quale lavoro svolgeva e se ha una famiglia? Quale è la sua condizione familiare ora e se ci sono state conseguenze per lei e la sua famiglia? C’è qualcuno che l’ha aiutata in questa fase della sua vita? Per quale reato è stato condannato? Ritiene di aver avuto un giusto processo ed una valida difesa e se avendone diritto ha usufruito del gratuito patrocinio? Perché era detenuto nel carcere di Taranto?

«Mi chiamo Clemente Di Crescenzo. Svolgo l’attività di bar. Sono sposato e ho un bimbo nato durante questa mia prima detenzione. Ho 36 anni e sono di Caserta. Sono stato arrestato per strage, poi il reato è stato derubricato in minacce:  5 anni con il rito abbreviato e legge sulle armi a 8 mesi, nonostante non sono stato in possesso di armi. Trovarono una bomba inesplosa sotto la casa di una famiglia ritenuta dagli inquirenti, malavitosa. Secondo gli inquirenti la mancata strage fu dovuta a seguito l'agguato che fecero a mio fratello d'avanti agli occhi di sua figlia di un anno e sua moglie, che erano in auto. Mio fratello aveva 28 anni ed era titolare di un bar come me ed ex pugile professionista come  me. Per gli inquirenti volevo vendicare mio fratello. Un mio coimputato è morto per infarto durante questa detenzione. Ora sono un semilibero e un sorvegliato speciale.»

Come ha conosciuto Michele Misseri e come ha fatto, tenuto conto che Michele Misseri era in isolamento e sorvegliato speciale per paura di atti inconsulti?

«Ho conosciuto Misseri Michele perchè facevo il lavorante nel reparto infermeria,dove lui era isolato e guardato a vista notte e giorno dalle guardie piantonate fuori la sua stanza. Trovavo sempre il modo di dialogare con Misseri. Spesso quando Misseri dialogava con me le guardie involontariamente erano distratte a fare altro. Misseri non era molto capace di compilare domandine e quindi le guardie mi chiedevano la cortesia di compilarle per lui.»

Perché la stampa ha scritto che lei era in cella con Michele Misseri?

«Credo che la stampa diede anche notizie false su di me, comunicando che stavo in cella con Misseri anche perché voleva coprire la disattenzione avuta dalle guardie che lo sorvegliavano.»

Michele Misseri è stato oggetto di privilegi e trattamenti di favore e, se sì, quali e per quanto tempo?

«Misseri è stato sicuramente oggetto di privilegi. A Taranto non ho mai visto un superiore salire sui piani per fare gli auguri di natale ad un detenuto, mentre un ispettrice salì di sera in infermeria per fare gli auguri personalmente a Misseri Michele. Io la incrociai per il corridoio, visto che stava aperto per lavoro, ma lei nemmeno mi guardò, come se fossi io che ero accusato di quel terribile delitto.»

Com’è è la vita di un detenuto nel carcere di Taranto?

«Per lavorare a Taranto devi metterti in lista e poi magari dopo 2 anni ti chiamano, mentre per lavorare all'aperto nell'orto oltre ad aspettare 2 anni ,devi avere un reato non pesante ma di poco conto. Praticamente la vita per un detenuto a Taranto è molto dura. Non vi è possibilità di nessun inserimento e svago. Solo il passeggio e basta. Mentre a Misseri lo facevano lavorare nell'orto. Per non farlo intravedere dai lavoranti che passavano per i corridori, misero i vetri oscurati proprio sulla vetrata che affacciava all'orto dove stava Misseri.»

Lei era amico di Michele Misseri, perché con lei si confidava? Cosa le ha raccontato Michele Misseri durante le sue confidenze riguardo la famiglia, i magistrati, gli avvocati ed in particolar modo riguardo il delitto di Sarah Scazzi?

«Io sono stato l'unico detenuto che ha avuto modo di parlare con Misseri, forse anche per questo nei momenti tristi della giornata lui si lasciava nei suoi sfoghi. Io l’ho visto quando lo portarono e quando è uscito. I primi giorni chiedeva solo informazioni di come si stava nel penitenziario di Taranto, della legge sui benefici, del lavoro all'interno ecc, poi mi diceva che tutta la sua famiglia lo stava abbandonando, fin quando non mi incominciò a dire quello che poi in seguito disse a tutti, cioè che lui era colpevole di tutto. Mi disse che gli avevano garantito che continuava a lavorare nell'orto che tanto gli piaceva,che la figlia e moglie a seguito la condanna potevano usufruire di benefici ed altro. Insomma lo rassicurarono dicendogli che la migliore soluzione era dire la verità. Infatti in quel periodo vidi un via vai di esperti e psicologi.»

Lei ha parlato con qualcun altro detenuto coinvolto nel procedimento penale sul delitto di Sarah Scazzi? Lei, le confidenze di Michele Misseri, le ha scritte da qualche parte?

«Io mi feci un mio diario personale, quando lui dichiarò che gli avevano garantito che sua figlia usciva dopo 2 anni e che a lui lo mandavano nel convento. Io già lo avevo annotato sul mio diario personale. Tempo prima stava sereno anche con l'aiuto dei psicofarmaci e perché credeva di stare per fare la cosa giusta, poi lui aveva intuito che era tutto un tranello per fargli confessare il falso. A parte che poi non lo facevano nemmeno più uscire per fare l'orto. Appena intuito questo cambiò tutta la sua versione agli inquirenti. Avevo capito perché aveva incominciato a dubitare anche dei suoi legali e mi chiedeva parere su chi poteva nominare come avvocato. Questo prima delle sue dichiarazioni cioè quelle che si autoaccusava e che poi diede la colpa a tutti. Ebbi poi modo anche di parlare con il fratello di Misseri Michele, sembra Carmine, che mi chiedeva cosa era successo all'interno del carcere visto che cambiava di continuo versioni.»

Che fine hanno fatto gli scritti dove lei riportava quanto diceva Michele Misseri? Lei ritiene di aver avuto guai nell’essere amico di Michele Misseri e di essere stato depositario delle sue confidenze? Lei è stato chiamato a testimoniare nel processo sulla morte di Sarah Scazzi, ci sono cose che gli è stato impedito di dire o non le hanno chiesto?

«Riguardo a me, stava un mio compagno di cella che fu sorpreso dalle guardie mentre attaccava lettere ritagliate dai giornali, facendo lettere anonime. Io stavo lavorando per i corridoi, così fecero una perquisizione accurata, ma nella perquisizione notarono anche il mio diario e lo sequestrarono. Mi chiusero dal lavoro e la mia detenzione fu un inferno da quel giorno. Un brigadiere mi disse che le guardie potevano finire nei guai, perchè non mi dovevano far avvicinare a Misseri,che i medici potevano finire nei guai, se non avevano dichiarato tutti i psicofarmaci dati a Misseri. Inoltre avevo scritto sul mio diario anche le tante cose illegali che succedono all'interno del carcere e che ho visto personalmente anche grazie al lavoro che svolgevo in infermeria. Scrivevo tutto perchè non pensavo che poi mi potevano sequestrare i miei scritti. Ovviamente fui citato nella 17esima udienza dove mi fecero visionare il mio diario e dire se era mio. Notai che furono strappati dei fogli, dove annotai anche le cose a mio parere illegali che avevo visto e avevo scritto, compreso che in quel carcere esisteva la cosiddetta squadretta. Praticamente un gruppetto di guardie e un brigadiere che ti assalgono. Circa 10 persone. Ho vissuto personalmente questa esperienza. Funziona che ti portano nel reparto isolamento. Una specie di sottoscala o piano sotterraneo. Poi inizia il linciaggio. I medici sono al corrente di tutto. Infatti, quando stai in quel reparto, loro camminano facendo finta di non vedere e sentire. In infermeria, poi, ne ho viste di tutti i colori. La maggior parte dei detenuti non parla perché hanno paura di essere trasferiti lontano.»  

In effetti, tale intervista esclusiva conferma quanto già dichiarato in aula, a parte le violenze. L’accusa di Michele Misseri a sua figlia Sabrina?  Secondo Clemente Di Crescenzo, detenuto nello stesso carcere di Michele, sarebbero frutto di un “imbroglio”, realizzato in un momento in cui lo zio di  Sarah era fragile e prendeva psicofarmaci. Di Crescenzo riferendosi alle confidenze che gli avrebbe fatto in carcere Michele Misseri e che lui annotava su un diario ha spiegato:  “Mi disse che lo avevano imbrogliato, lo avevano confuso e convinto ad accusare ingiustamente la figlia nel periodo in cui assumeva gli psicofarmaci”.  Il riferimento è al primo difensore di Michele Misseri, avv.Daniele Galoppa, e alla criminologa ingaggiata da Galoppa come consulente, Roberta Bruzzone. ”Nei giorni delle festività natalizie del 2010 – ha precisato Di Crescenzo – mi chiamò mentre facevo le pulizie, era molto triste e mi disse che stava scrivendo alla figlia Sabrina perché l’aveva incolpata. Diceva che Galoppa e Bruzzone lo avevano convinto ad accusarla perché in questo modo sarebbe andato ai domiciliari in un convento a curare un orto e sarebbe uscito dopo due anni. Mi chiedeva anche in che modo poteva revocare l’avv. Galoppa perchè diceva che era stato il legale a creare il processo”.

“Il 7 ottobre Michele Misseri fu alloggiato in un cella d’isolamento e guardato a vista. Poi il 18 dicembre lo spostammo al primo piano, nella cella numero 10, dove fu recluso fino al 26 gennaio 2011”. Lo ha riferito Giovanni Lamarca, comandante della Polizia penitenziaria del carcere di Taranto nel corso del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi.

”Un giorno prima, il 25 gennaio, un agente della sezione mentre faceva una normale ispezione – ha ricordato Lamarca – verificò che un detenuto, nella cella dove c’era anche Clemente Di Crescenzo, che faceva le pulizie nel corridoio, stava tagliando pagine di giornali e componendo delle lettere. Scoprimmo che stava scrivendo una missiva anonima con lettere ritagliate da giornali”. Quel componimento fu sequestrato. ”Il giorno dopo – ha aggiunto il comandante delle guardie penitenziarie – decidemmo di fare una perquisizione accurata della cella e in tale occasione fu ritrovato aperto un quaderno di computisteria scritto non da quel detenuto ma da Di Crescenzo, dove risultava più volte scritto il nome di Michele Misseri. Ci rendemmo contro che De Crescenzo aveva un diario delle conversazioni che aveva avuto in un mese e mezzo con Michele Misseri. Una specie di memoriale”.

Ha qualcosa da aggiungere a questa intervista esclusiva, della quale mi autorizza la pubblicazione nel mio libro e sugli organi di stampa?

«Come le dicevo lavorando in infermeria ho visto molti casi di violenza,una volta parlando con un dottore mi disse che lui purtroppo era un ospite in istituto e quindi se mandava una segnalazione alle autorità si trovava poi trasferito chissà dove. Poi vedevo che arrivavano diversi prodotti farmaceutici, ma subito messi in scatoloni e fatti sparire. Infatti, a parte psicofarmaci, non è che avevamo prodotti farmaceutici in caso di richiesta. Sono stato, in questi quasi 5 anni passati,  4 a Taranto, a Poggioreale e poi a Livorno. Notai che anche a Poggioreale ci stava la squadretta, con un ispettore che la dirigeva, ma solo a Taranto ho appurato il massimo della legalità, forse perchè lavoravo in infermeria. Posso dire che in casi disperati oppure in caso di un detenuto che tenta il suicidio, mettono codesto detenuto in una cella in infermeria, isolato nudo completamene e senza coperte. Li vedevo morti dal freddo mentre mangiavano nudi sopra un materasso. Cose da non credere. A parte Misseri ci fu un detenuto che aveva non proprio i massimi privilegi di Misseri ma quasi Era l'ex sindaco di Taranto. Mi sembra si chiamasse Cito Giancarlo. Nel reparto isolamento invece mandano i detenuti che devono scontare una sanzione disciplinare, solo che ti fanno firmare un foglio dove riporta che in quei giorni devi stare senza fare attività in comune, ma non sta scritto che non puoi fare il passeggio all'aperto, che non puoi avere tavolo, sedie, scopa e prodotti per pulizie, fornelli per cucinare. Pensate che la domenica pomeriggio stavi digiuno visto che a Taranto la domenica il carrello con il cibo non passa. Stai senza le coperte e sei fortunato se ti portano il materasso. Quando avevano bisogno di organizzare anche in infermeria una cella così, mi chiamavano le guardie e mi ordinavano di far diventare la stanza una cella liscia. Consiste di smontare tutto, compreso la branda per dormire, che te la restituiscono poi se ti comporti bene e sottostai a quelle condizioni. Ovviamente stai senza ricambi intimi e asciugamani e nemmeno penna e foglio, per non farti fare domandine e istanza alla direttrice o al comandante. Quando vuoi un ricambio intimo devi chiamare la guardia, ma la devi chiamare a sgolarti per 2 ore minimo, visto che quando stai in quelle condizioni le guardie non passano assolutamente vicino la tua stanza oppure al reparto isolamento. Praticamente dove ci sono i detenuti puniti.  Quando menano un detenuto e gli rimangono i segni sul corpo, non ti portano in sezione, ma ti mettono in una stanza in infermeria per aspettare che i lividi scompaiono e se ti metti a visita medica il dottore non viene ma aspetta che ti passano i lividi. Una volta vidi un fatto che mi traumatizzò. Portarono un detenuto in infermeria perchè si lamentava che l'infermiere non gli aveva fatto bene la medicazione Era di origine marocchina. L'infermiere chiamò la squadretta che appena arrivò lo riempirono di botte quasi a morire. Infatti il marocchino non riuscì a camminare per mesi. Quando videro che il marocchino non si riprese lo trasferirono. Io, durante l'esecuzione punitiva fatta al marrocchino, cercai di calmare le guardie. Alla fine mi misi in posizione di guardia, visto che sono un ex pugile professionista, ma solo per tentare di intimidirli Oovviamente continuarono a menarlo d'avanti a medici e infermieri che facevano finta di niente. Poi mi chiamò il brigadiere della squadretta e mi disse che non dovevo più fare l'eroe perchè li comandava lui e non io e che la prossima volta che mi intromettevo mi chiudeva dal lavoro e mi sbatteva nel reparto isolamento per 10 gg. Come già vi ho accennato poi ci sono finito per d'avvero, perché trovarono il mio diario personale che parlava di Misseri. Io, sapendo della vita disumana che si viveva in isolamento, non ci volevo andare li sotto. Gli dissi che volevo almeno il materasso e le mie cose personali e di cancelleria, penne e foglio per scrivere e passare il tempo. Loro accettarono, ma solo per farmi scendere. Quando stavo lungo il corridoio dell'isolamento mi accompagnò una guardia, ma mi vidi arrivare la squadretta. Questa volta non erano in 4 come di loro solito, ma 8. Si avventarono all'improvviso. A questo punto mi ribellai ma senza colpirli, anche perchè poi era ancora peggio per me. Schivai più colpi possibile, ma i loro anfibi facevano male. Fu l'incontro più duro della mia vita, anche perché dovevo solo difendermi ma senza colpirli, altrimenti poi sarebbe stata la fine. Mi spinsero in quella cella. Accettai la sfida: indurii gambe e piedi ben piantati a terra e prima che riuscissero a spingermi dentro li feci sudare. Trascorsero 10 giorni senza cuscino e materasso. Solo al colloquio con la famiglia riuscii a farmi dare dalle guardie i miei vestiti puliti. Allo scadere dei 10 giorni mi comunicarono che ne dovevo fare altri 10 e poi altri 10. Alla fine ne scontai 30, ma la cosa più strana è stata l’omertà dei dottori ed infermieri. Solo il sacerdote era una grandissima persona. Quando facevo il lavorante in infermeria le guardie mi dicevano che loro avevano la squadretta da quando fu uccisa una guardia fuori dal carcere. Si chiamava Carmelo Magli, come si chiamava il carcere. Sono dispiaciuto per questa guardia, ma non era il modo. Io non sono un santo, ma non immaginavo che esisteva tanto male gratuito e tanta ingiustizia. Ho capito che era tutto illegale, perché quando sapevano che era in arrivo la visita di qualche politico, chiamavano i lavoranti e soprattutto me, che ero il lavorante di un reparto più a vista. Si iniziava ad organizzare tutto. Arrivava la pittura, che si diceva che non arrivava per via della mancanza di fondi. Arrivavano prodotti per le pulizie e tutto l’occorrente per far diventare alcuni punti pulitissimi e brillanti. Poi li facevano passare per quei punti, ovviamente. Quando capitava che intervistavano un detenuto era tutto preparato prima. Chiamavano un detenuto che aveva la possibilità di lavorare e che era della zona e che, quindi, non voleva finire in Sicilia. Misseri diceva che Taranto era un albergo a 5 stelle, eppure era accusato di cose orrende.

Ogni volta che si ricevevano visite da politici o chicchessia, mi ordinavano di rendere vivibile il più possibile l'ambiente dell'infermeria circa 4 giorni prima della visita. Inoltre nelle visite dei politici veniva chiuso il reparto isolamento e venivano rifatti salire i detenuti in sezione, dicendo che il reparto isolamento è inagibile e quindi deve essere chiuso. Poi appena finisce la visita politica,vengono risbattuti nell'isolamento a cella liscia. Gli animali vivono meglio.»

Per rendere più credibile questa testimonianza, andiamo sull’altra sponda: «Io secondino ho assistito a torture in carcere». Tre giorni senza mangiare, botte dalla mattina alla sera, detenuti legati al letto. Eccezionale testimonianza di una guardia carceraria di Asti che non vuole essere più complice di criminali in divisa, scrive Franco Fracassi. «Il carcere è un mondo a sé. E non ci sono testimonianze. C'è la testimonianza mia, c'è la testimonianza di alcuni detenuti, qualche filmato dell'interno di un carcere che si è riusciti a mostrare. La violenza e l'omertà sono la regola dentro una prigione». Andrea Fruncillo è un'ex guardia carceraria della prigione di Asti. «Non ce la facevo più a convivere con tutto questo stando zitto. Quello delle carceri è un mondo di merda. È ora di iniziare a spalarla». Ecco un esempio del livello di conversazioni che avvengono all'interno di quel carcere. Cinque poliziotti sono stati messi sotto inchiesta per aver abusato di due detenuti. Questa è una delle intercettazioni che li hanno incastrati: «Poi vengono solo quando sono in quattro o cinque. Così è facile picchiare le persone». «È bello». «Ma che uomo sei. Devi avere pure le palle. Lo devi picchiare. Lo becchi da solo e lo picchi. Io, la maggior parte che ho picchiato, li ho picchiati da solo. Ma perché comunque qua non c'hai grattacapi. Non c'è niente. Perché con questa gente di merda. Hai capito?». Fruncillo ha lavorato ad Asti tredici anni. È stato l'unico a testimoniare delle torture che avvenivano nella cella di isolamento: «Quando arriva qualcuno che ha aggredito un agente, anche fuori dal carcere, non importa. Questa persona arriva già con una lettera di raccomandazioni. Questo ha sbagliato. Fino a che c'ha il processo lasciatelo stare. Poi, finite le udienze dategli una sistemata. Lo sistemavano. Lo portavano lì e prendeva botte dalla mattina alla sera. Ma quello è il minimo. Perché poi non li facevamo mangiare. Lo lasciavi pure due tre giorni senza mangiare. Gli mettevamo il piatto lì davanti alla cella. Lui non ci arrivava. E non lo facevamo mangiare. Ho assistito a tanti pestaggi. Quante volte è capitato che stavo in servizio e mi dicevano: "Andrea mi prepari una cella che stiamo portando uno". All'entrata dell'isolamento non funzionano le telecamere. Un'anticamera davanti a una delle celle. Quando arrivavano lì venivano denudati e picchiati. Era un vanto. "Io ho fatto quella cosa lì. Io ho fatto quella cosa là". Era un vanto. E lo è tuttora penso. Un detenuto non può fare nulla. Perché tanto non viene mai ascoltato». Perché tanta violenza? «Quando arrivi all'esasperazioni picchi. Quando c'hai i problemi a casa. Più i problemi che ti creano in carcere. Più quello che ti rompe le scatole. Da qualche parte ti devi sfogare», spiega l'ex secondino. Per essere ancora più chiaro, Fruncillo racconta un episodio di cui è stato testimone: «È entrato questo ragazzo. Viene messo in isolamento. Non c'era modo di avvicinarsi e di aprirgli la cella. Come aprivi la cella picchiava tutti. Perché lui si dichiarava innocente. Al che per debilitarlo era stato deciso di farlo mangiare di meno, di non dargli le razioni, in modo che gli fossero venute a mancare le energie. Il ragionamento era: "Se dobbiamo spostarlo, se arriva l'avvocato non gli possiamo dire: No, non te lo faccio uscire dalla cella". È stato fatto così, finché non si è debilitato un po'. Una sera è stata fatta un'ordinanza per mandarlo all'ospedale psichiatrico a Reggio Emilia. A Reggio Emilia quando arrivano tipi come lui, che sono animali ti legano al letto. È tornato da noi debilitato. È stato portato in cella in carrozzella. Magro, secco come un chiodo. Non ce la faceva neanche a mangiare. Quando arrivavano il pranzo e la cena mandavamo un altro detenuto per farlo imboccare. Fino a che non lo hanno scarcerato e dopo due giorni è morto. Un giorno parlando del più e del meno con un collega si è detto: "Ve lo ricordate quel ragazzo? Ma lo sai che alla fine era innocente veramente. Lo hanno assolto". Lo hanno trattato così perché diceva che era innocente. Non gli ha creduto nessuno. Alla fine è morto. La mamma ce lo disse. La mamma».

Altra testimonianza. Poggioreale: «Nudo, umiliato e picchiato dalle guardie». Le denunce dei carcerati al Garante dei detenuti che scrive alla procura: «Nel carcere di Napoli squadre di agenti penitenziari compiono violenze di notte. Nella “cella zero” pareti sporche di sangue», scrive Patrizia Capua su “L’Espresso”. Squadracce di agenti penitenziari che massacrano i detenuti in una camera chiamata "cella zero". Violenze gratuite, trattamenti disumani, abusi continui e pareti macchiate dal sangue dei carcerati picchiati. Benvenuti nell'inferno del carcere di Poggioreale, Napoli. Un luogo dell'orrore che somiglia ad Abu Ghraib, almeno a leggere la terribile denuncia che il garante della Regione Campania per i diritti dei detenuti ha mandato alla procura partenopea. E che "L'Espresso" ha letto in esclusiva, intervistando - a pochi giorni dalla denuncia del presidente della Cassazione sulle condizioni inumane dei carcerati italiani - anche uno dei detenuti picchiati. È il garante Adriana Tocco ad aver raccolto una serie di storie agghiaccianti che ha inviato tramite esposto al procuratore aggiunto della Repubblica di Napoli Giovanni Melillo. «Le comunico – si legge nel documento - le gravi notizie di reato che mi sono pervenute e ho apprese durante alcuni colloqui intercorsi con i detenuti del carcere di Poggioreale». La Garante riferisce che «moltissimi detenuti lamentano abusi consistiti in violentissime percosse, spesso cagionanti lesioni gravi, che si consumano di notte ad opera di alcuni agenti penitenziari riuniti in “piccole squadre”. Alcuni mi hanno riferito i nomi degli agenti coinvolti. La maggior parte dei reclusi ha paura di denunciare le violenze subite per timore di ritorsioni». I racconti sarebbero tutti coerenti,  «ed evidenziano alcuni elementi comuni: i detenuti raccontano di essere stati prelevati dalle loro celle senza criterio, il fine univoco degli agenti chiaramente tra loro programmato, è dare sfogo alla loro violenza gratuita e costringerli a subire trattamenti disumani». Il racconto di un quarantaduenne che ha deciso di denunciare la violenza subita da alcuni agenti penitenziari mentre si trovava nel carcere napoletano. I dettagli sono drammatici: «La cella in cui si consumano tali atrocità è stata denominata “cella zero”: molti raccontano che le pareti sono spesso macchiate dal sangue dei detenuti percossi, che dopo gli abusi questi vengano abbandonati per ore e poi riaccompagnati al reparto di appartenenza. Molti compagni di cella confermano lo stato di agitazione, mortificazione e soggezione degli sfortunati deportati», che rientrano gonfiati di botte. Nell’esposto Tocco si dice convinta che «subire abusi così atroci costituisca una possibile causa concorrente ad altri fattori determinanti l’aumento del rischio di suicidi, rilevato il precario stato psicologico di tanti detenuti che ascolto». E chiede la punizione dei responsabili. Uno dei carcerati picchiati si chiama Luigi (è un nome di fantasia). E' stato condannato a due anni e dieci mesi, nel marzo 2011, per ricettazione di buoni pasto per un valore di trentamila euro. Durante la permanenza nel carcere di Poggioreale è stato vittima di atti di violenza da parte di tre guardie penitenziarie: trascinato di notte in una cella isolata dell’istituto di pena, ha spiegato di esser stato costretto a denudarsi completamente per poi essere percosso con pugni e calci. L’ex detenuto è uscito dall'istituto di pena lo scorso 10 gennaio, ma già dietro le sbarre aveva deciso di denunciare le violenze subite. Luigi, 42 anni, comproprietario di una salumeria a Napoli, sposato con figli adolescenti, dopo un primo periodo detentivo, in appello ottiene gli arresti domiciliari con successiva autorizzazione a riprendere il lavoro. Un giorno, andando al negozio, fa tardi e sfora l’orario assegnato dai giudici. Per lui ricominciano i guai. La Corte di appello aggrava la misura restrittiva e così Luigi finisce di nuovo a Poggioreale. Nei due mesi e mezzo di detenzione che deve ancora scontare gli capita un incidente: cade dal letto a castello, un terzo piano a quattro metri dal pavimento, e si frattura una caviglia. Poi, in una notte di luglio arriva il pestaggio da parte di tre agenti penitenziari. Scontata la pena e tornato libero, Luigi ha messo nero su bianco il racconto dei maltrattamenti subiti dietro le sbarre. Lo ha fatto per se stesso e, sottolinea, soprattutto nell’interesse dei suoi compagni di reclusione ancora in cella. E attende di essere convocato dal magistrato per fare nomi e cognomi. Una vicenda, questa napoletana, che richiama alla mente le dichiarazioni sull’indulto del primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce nella relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario: “In attesa di "riforme di sistema" non c’è altra via che l’indulto per ridurre subito il numero dei detenuti”, scarcerando chi “non merita di stare in carcere ed essere trattato in modo inumano e degradante”.

DELITTI DI STATO ED OMERTA’ MEDIATICA.

Quando la Legge e l’Ordine Pubblico diventano violenza gratuita e reato impunito del Potere.

Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.

C’è violenza e violenza. C’è la violenza agevolata, come quella degli stalkers, fenomeno che sui media si fa un gran parlare. Stalkers che sono lasciati liberi di uccidere, in quanto, pur in presenza di denunce specifiche, non vengono arrestati, se non dopo aver ucciso coniuge e figli. C’è la violenza fisica che ti lede il corpo. C’è quella psicologica che ti devasta la mente, come per esempio l’essere vittima di concorsi pubblici od esami di abilitazione truccati o il considerare le tasse come “pizzo” o tangente allo Stato.

O come per esempio c’è la violenza su Silvio Berlusconi: un vero e proprio ricatto…. anzi è un’estorsione “mafiosa” a detta di Berlusconi. Libero di fare la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi interventi pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come fa con regolarità da vent'anni a questa parte) potrà venirgli revocato l'affido ai servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Antonio Lamanna, come racconta la stampa, nell'udienza di giovedì 10 marzo 2014, ha sottolineato che se il Cavaliere dovesse diffamare i singoli giudici l'affidamento potrebbe essere revocato. Un bavaglio a Berlusconi: se dovesse parlare male della magistratura, verrà sbattuto agli arresti domiciliari. Lamanna, nel corso dell'udienza, ha portato in aula un articolo del Corriere della Sera dello scorso 7 marzo 2014, in cui veniva riportato che Berlusconi avrebbe detto, in vista delle decisione del Tribunale di Sorveglianza: "Sono qui a dipendere da una mafia di giudici". Dunque Lamanna ha commentato: "Noi non siamo né angeli vendicatori né angeli custodi, ma siamo qui per far applicare la legge", e successivamente ha ribadito al Cavaliere la minaccia (abbassare i toni, oppure addio ai servizi).

O come per esempio c’è la violenza su Anna Maria Franzoni. Quattordici anni dopo l'omicidio del figlio Samuele Lorenzi in Annamaria Franzoni ci sono ancora condizioni di pericolosità sociale e la donna ha bisogno di una psicoterapia di supporto. Sapete perché: perché si dichiara innocente. E se lo fosse davvero? In questa Italia, se condannati da innocenti, bisogna subire e tacere. Questo è il sunto della perizia psichiatrica redatta dal professor Augusto Balloni, esperto incaricato dal tribunale di Sorveglianza di Bologna di valutare ancora una volta la personalità della donna per decidere sulla richiesta di detenzione domiciliare. La perizia ha circa 80 pagine ed è il frutto di una decina di incontri in oltre due mesi con le conclusioni, depositate prima di Pasqua 2014. Secondo quanto rivelato dalla trasmissione “Quarto grado”, la perizia sostiene che Franzoni, che sta scontando una condanna a 16 anni (e non a 30 anni, così come previsto per un omicidio efferato), è socialmente pericolosa: soffre di un "disturbo di adattamento" per "preoccupazione, facilità al pianto, problemi di interazione con il sistema carcerario" perché continua a proclamarsi innocente.

Poi c’è la violenza fisica. Tutti a lavarsi la bocca con il termine legalità. Mai nessuno ad indicare i responsabili delle malefatte se trattasi dei poteri forti. Così si muore nelle “celle zero” italiane.  Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili. Di questo parla Antonio Crispino nel suo articolo su “Il Corriere della Sera” del 5 febbraio 2014.

Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove.

Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».

Qui si parla di morti che hanno commesso il reato di farsa. Ossia: colpevoli di essere innocenti. Di chi è stato arrestato è poi in caserma picchiato fine a morirne, se ne parla come eccezione. Ma nessuno parla di chi subisce violenza o muore durante le fasi dell’arresto.

Foto e filmati, raccolti e rilanciati sul web, compongono una moviola con pochi margini d’interpretazione: colpi di manganello contro persone a terra, calci, quel terribile gesto di salire con gli scarponi sull’addome di una ragazza rannicchiata sull’asfalto con il suo ragazzo che le sta sopra per proteggerla.

E poi loro. “Quello che è successo a Magherini ripropone tragedie che sembrano richiamare situazioni simili e comportamenti analoghi a quelli già visti come nel caso di Aldrovandi e di Ferulli. Si teme l’abuso di Stato. Una persona che grida aiuto e una persona in divisa sopra di lui che effettua la cosiddetta azione di contenimento, un termine pudico e ipocrita.” Questo ha detto duramente il senatore Manconi, che parla di evidenze documentate (un video ripreso dall’alto) dei comportamenti illegali da parte delle forze dell’ordine.

PRESADIRETTA ha raccontato nell’ignavia generale le storie dei meno conosciuti: Michele Ferrulli, morto a Milano durante un fermo di polizia mentre ballava per strada con gli amici, Riccardo Rasman, rimasto ucciso durante un’irruzione della polizia nel suo appartamento dopo essere stato legato e incaprettato col fil di ferro, Stefano Brunetti, morto il giorno dopo essere stato arrestato col corpo devastato dai lividi. A PRESADIRETTA hanno fatto ascoltare i racconti scioccanti dei “sopravvissuti” come Paolo Scaroni, in coma per due mesi dopo le percosse subite durante le cariche della polizia contro gli ultras del Brescia, Luigi Morneghini, sfigurato dai calci in faccia di due agenti fuori servizio e delle altre vittime che ad oggi aspettano ancora giustizia. Ma quante sono invece le storie di chi non ha avuto il coraggio di denunciare e si è tenuto le botte, le umiliazioni pur di non mettersi contro le forze dell’ordine e dello Stato? Noi pensiamo di vivere in un Paese democratico dove i diritti della persona sono inviolabili, è veramente così? “Morti di Stato” è un racconto di Riccardo Iacona e Giulia Bosetti. Morti di Stato”, l’inchiesta giornalistica che non fa sconti.

Ottima la prima per la nuova serie di “Presadiretta” di Riccardo Iacona, scrive su Articolo 21 del 7 gennaio 2014. “Morti di Stato” una puntata dura e senza sconti a cui si vorrebbe ne seguisse subito un’altra, fatta anche di risposte, smentite, precisazioni. Ma difficilmente sarà. Chi scrive conosce bene il lungo travaglio che ha preceduto e ha partorito questa trasmissione. Come spesso fino ad ora è accaduto,  “i coinvolti” preferiranno tacere, eludere,  rispondere non con le parole, ma semmai con “gli avvertimenti giudiziari” dei loro avvocati. Perché qui sta la prima e paradossale differenza:  l’inchiesta giornalistica,  quella vera, quella che nonostante tutto dunque non è morta, ha un nome e un cognome, un responsabile che si firma e si assume ogni responsabilità; il reato penale commesso dallo Stato è coperto dall’anonimato, da una divisa e da un casco,  da omissioni complicità..  Per questo tanto tenace e insuperabile è il muro che si oppone all’introduzione del codice identificativo sulle divise e del reato di tortura, da 25 anni  inadempienti  nonostante il protocollo firmato davanti alla Convenzione dell’Onu. Ma c’è un duplice reato di tortura: il primo è  quello delle vittime non di incidenti o di colluttazioni avvenute sulla strada, bensì di violenze gratuite avvenute durante  un fermo, un controllo, in manette o nel chiuso delle caserme o delle carceri; il secondo è quello dei familiari delle vittime,  costrette ad un terribile e doloroso percorso per ottenere scampoli di una giustizia che non ce la fa  ad essere normale. Anche chi condannato in via definitiva per reati compiuti con modalità gravissime,  sancite da motivazioni trancianti contenute in tre sentenze, come nel caso dell’omicidio di Federico Aldrovandi, ha diritto ad indossare  ancora la divisa, quasi che un quarto silenzioso grado di giudizio garantisse chi di quella stessa divisa abusa e con quella divisa infanga il giuramento  fatto davanti alla Costituzione.. Non solo e tanto di “mele marce” si è occupata questa puntata di Presadiretta, ma di un sistema malato che queste mele alleva , copre e difende., secondo il principio non nuovo che dalla polizia non si decade, ma semmai si viene promossi. Grazie a Presadiretta e a Raitre di avercelo raccontato con tanta efficacia, nel nome delle vittime note e ignote, per una volta non ignorate.

Le Forze dell’Ordine usano delle tecniche apposite di bloccaggio delle persone esagitate che li si vuol portare alla calma o all’esser arrestate. Di questo parla la Relazione della 360 SYSTEM della Polizia di Stato.

Primo contatto. La pressione come strumento per apprestare la difesa, l’armonia del movimento e la elasticità, non irrigidirsi in situazioni di stress, aumento del carattere e dell’aggressività quando sottoposti ad attacchi.

Ammanettare l’avversario. Come eseguire una corretta e veloce procedura di bloccaggio a terra e successivo ammanettamento in situazione di uno contro uno, tecniche per portare a terra l’avversario in sicurezza e controllo dell’avversario a terra.

Probabilmente, come tutte le cose italiane, il corso non è frequentato e quindi ogni agente adopera una sua propria tecnica personale, spesso, letale e che per forza di cose passa per buona ed efficace.

La versione ufficiale pareva chiara. Riccardo Magherini, 40 anni, figlio dell’ex stella del Palermo Guido Magherini, è morto due mesi fa a Firenze, qualche istante dopo essere stato arrestato a causa di un arresto cardiaco, scrive nel suo articolo Alessandro Bisconti su “Sicilia Informazioni” del 27 aprile 2014. Vagava seminudo e in stato di shock in Borgo San Frediano a Firenze. Aveva appena sfondato la porta di una pizzeria, portando via il cellulare a un pizzaiolo. Chiedeva aiuto, diceva di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo. Poi è entrato nell’auto di una ragazza mentre lei scappava. Quindi sono arrivati i carabinieri che dopo averlo immobilizzato, hanno chiamato il 118, visto lo stato di agitazione di Magherini. Dieci minuti dopo è arrivato il medico che ha trovato l’uomo in arresto cardiaco. Un’ora più tardi Magherini è morto in ospedale. Adesso il fratello di Riccardo Magherini accompagnato dal suo legale e dal senatore del PD Luigi Manconi hanno presentato in Senato le immagini inedite del corpo dell’uomo, sulla morte del quale chiedono che sia fatta chiarezza, sospettando un abuso di polizia simile ad altri che hanno funestato le cronache recenti. Ci sono però numerose testimonianze (e un video) che raccontano di un uomo preso a calci a lungo, in particolare calci al fianco e all’addome, mentre era sdraiato a terra e di soccorsi chiamati quando ormai non reagiva più. “Per una quarantina di minuti Riccardo è stato steso a terra immobilizzato dai carabinieri con un ginocchio sulla schiena. Era ammanettato ed è stato percosso e intanto Riccardo urlava: ‘Sto morendo, sto morendo’” ha raccontato un testimone alla trasmissione Chi l’ha visto, ma in tanti sostengono questa ricostruzione. I video e le foto sono appena stati presentati in Senato. Il papà Guido, 62 anni, ha disputato tre stagioni con la maglia del Palermo, nella seconda metà degli anni Settanta, diventando presto un semi-idolo (18 gol). Lui, Riccardo, ha provato a seguire le orme del padre. Inizio promettente, con la vittoria del torneo di Viareggio in maglia viola, da protagonista. Era considerato una promessa del calcio fiorentino. Poi si è perso per strada. Tante delusioni, anche nella vita. Fino alla separazione, recente, con la moglie e all’ultima, folle, serata.

Morì d’infarto durante l’ arresto il cinquantunenne milanese Michele Ferulli, deceduto la sera del 30 giugno 2011, dopo esser stato percosso da alcuni agenti di polizia che lo stavano ammanettando. E’ quanto emerge dalla perizia redatta dal tecnico incaricato dai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Milano, Fabio Carlo Marangoni, che ha potuto visionare ben 4 filmati di quei tragici momenti. Gli uomini delle forze dell’ordine, intervenuti dopo una segnalazione per schiamazzi notturni in via Varsavia, nel capoluogo lombardo, stavano procedendo al fermo della vittima, e secondo la relazione peritale uno di loro “percuoteva ripetutamente sulla spalla e sulla scapola destra” l’individuo in procinto di essere arrestato. Ferulli venne colto, forse per la concitazione, da un arresto cardiaco che gli sarebbe risultato fatale. Nel procedimento giudiziario in corso risultano imputati i quattro poliziotti intervenuti sul posto durante quella serata maledetta. Per loro l’accusa è di omicidio preterintenzionale. Stando a quanto risulta dal lavoro depositato da Marangoni, per ben 2 volte Ferulli invocò esplicitamente aiuto.

L’abominevole morte di Luigi Marinelli è l’articolo di Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali” del 15 ottobre 2012. Sempre più spesso sentiamo nominare Cucchi, Aldrovandi, Bianzino, Uva.... Nomi diventati tristemente familiari, evocatori di arbitrio, brutalità, violenza, morte, denegata giustizia. Il muro dell’omertà e del silenzio poco alla volta si rompe, le famiglie coraggiose non si rassegnano al dolore della perdita, facebook e internet fanno il resto, obbligando la carta stampata ad adeguarsi e a rispettare il dovere di cronaca. Così, uno dopo l’altro, altri nomi e altre vicende emergono dall’oscurità e assurgono alla dignità di “casi”. La lista si allunga, nuovi nomi si aggiungono, con le loro storie di ordinaria follia. Alla presentazione del libro-denuncia di Luca Pietrafesa “Chi ha ucciso Stefano Cucchi?” (Reality Book, 180 pagine) tenuta nei giorni scorsi nella sede del Partito radicale a Roma, ha finalmente trovato la forza interiore di parlare l’avv. Vittorio Marinelli, che con voce rotta dall’emozione ha raccontato la morte abominevole, letteralmente “assurda” di suo fratello Luigi. Luigi Marinelli era schizofrenico, con invalidità riconosciuta al 100%. Si sottoponeva di buon grado alle terapie che lo tenevano sotto controllo, dopo un passato burrascoso che lo aveva portato in un paio di ospedali psichiatrico-giudiziari. Spendaccione, disturbato, invadente fino alle soglie della molestia, divideva la sua vita fra gli amici, la sua band e qualche spinello. Era completamente incapace di amministrarsi. Ricevuta in eredità dal padre una certa somma, la madre e i fratelli gliela passavano a rate, per evitare che la sperperasse tutta e subito. Rimasto senza soldi, la mattina del 5 settembre 2011 Luigi va dalla madre, esige il denaro rimanente; si altera, dà in escandescenze, minaccia, le strappa la cornetta dalle mani – ma non ha mai messo le mani addosso a sua madre, mai, neppure una sola volta nel corso della sua infelice esistenza. Messa alle strette, la madre chiama Luisa (la fidanzata di Luigi, anch’ella schizofrenica) chiama l’altro figlio Vittorio, chiama la polizia e quest’ultima decisione si rivelerà fatale. Arrivano due volanti - poi diventeranno addirittura tre o quattro - trovano Luigi che straparla come suo solito semi-sdraiato sulla poltrona, esausto ma in fin dei conti calmo. Gli agenti chiamano il 118 per richiedere un ricovero coatto. Arriva Vittorio, mette pace in famiglia, madre e figlio si riconciliano, Luigi riceve in assegno il denaro che gli appartiene e fa per andarsene. Ma la polizia ha bloccato la porta e non lo lascia uscire, dapprima con le buone poi, di fronte alle crescenti rimostranze, con l’uso della forza. Luigi è massiccio, obeso, tre poliziotti non bastano, ne arriva un quarto enorme e forzuto. Costui blocca lo sventurato contro il muro, lo piega a terra, lo schiaccia con un ginocchio sul dorso, gli torce le braccia dietro la schiena e lo ammanetta, mentre Vittorio invita invano gli agenti a calmarsi e a desistere. “Non fate così, lo ammazzate...!” dice lui, “Si allontani!” sbraitano quelli. Vittorio vede il fratello diventare cianotico, si accorge che non riesce a respirare, lo guarda mentre viene a mancare. Allontanato a forza, telefona per chiedere aiuto al 118 ma dopo due o tre minuti sono i poliziotti a richiamarlo. Luigi ormai non respira più ma ha le braccia sempre bloccate dietro alla schiena: le chiavi delle manette.... non si trovano! La porta di casa è bloccata, non si sa da dove passare, un agente riesce finalmente a trovare la porta di servizio, scende alle auto ma le chiavi ancora non saltano fuori. “Gli faccia la respirazione bocca a bocca!” gridano gli agenti in preda nel panico (Luigi è bavoso e sdentato, a loro fa schifo, poverini). Liberano infine le braccia ma ormai non c’è più niente da fare. Il volto di Luigi è nero. E’ morto. Arriva l’ambulanza, gli infermieri si trovano davanti a un cadavere ma, presi da parte e adeguatamente istruiti, vengono convinti dagli agenti a portare via il corpo per tentare (o meglio: per fingere) la rianimazione. Il resto di questa storia presenta il solito squallido corollario di omertà, ipocrisia, menzogne, mistificazioni. Gli agenti si inventano di avere ricevuto calci e pugni per giustificare l’ammanettamento, il magistrato di turno avalla la tesi della “collutazione”. L’autopsia riscontra la frattura di ben 12 costole e la presenza di sangue nell’addome, la Tac rivela di distacco del bacino, evidenti conseguenze dello schiacciamento del corpo. Le analisi tossicologiche indicano una presenza di sostanze stupefacenti del tutto insignificante. A marzo il pm chiede l’archiviazione sostenendo che la causa della morte è stata una crisi cardiaca. La famiglia presenta opposizione. Qual è stata la causa della crisi cardiaca? Perché è stato immobilizzato? Era forse in stato d’arresto? In questo caso, per quale reato? Le varie versioni degli agenti, mutate a più riprese, sono in patente contraddizione. “Gli venivano subito tolte le manette” è scritto spudoratamente nel verbale, mentre in verità gli sono state tenute per almeno 10 minuti, forse un quarto d’ora. L’ultima volante dei Carabinieri, sopraggiunta sul posto, descrive nel verbale “un uomo riverso a terra ancora ammanettato”. Ma quando Vittorio Marinelli fa notare al magistrato che questa è evidentemente la “causa prima efficiente” dell’arresto cardiaco, si sente rispondere dal leguleio che “la sua è un’inferenza”. Resta il fatto che prima di essere ammanettato Luigi Marinelli era vivo, dopo è morto. Queste sono le cosiddette forze del cosiddetto ordine, questa è la magistratura dell’Italia di oggi. Tornano alla mente le parole pronunciate da Marco Pannella in una conferenza stampa di un paio di anni fa: “Presidente Napolitano, tu sei il Capo di uno Stato di merda”.

Ferrara, via dell’Ippodromo. All’alba del 25 settembre 2005 muore a seguito di un controllo di polizia Federico Aldrovandi, 18 anni, scrive “Zic” il 15 febbario 2014. Dopo due anni di coperture e reticenze, durante i quali le versioni ufficiali sposavano la tesi della morte per overdose e dell’innocenza dei tutori dell’ordine, il 20 ottobre 2007 è iniziato il processo a quattro agenti, a novembre 2008 il “colpo di scena”, agli atti del processo una foto che mostrerebbe inequivocabilmente come causa di morte sia un ematoma cardiaco causato da una pressione sul torace, escludendo ogni altra ipotesi. Su questa immagine è acceso il dibattito, nelle ultime udienze della fase istruttoria, tra i periti chiamati a deporre dai legali dalla famiglia e quelli della difesa. Infine, il 6 luglio 2009, la condanna degli agenti. Il giudice: «Ucciso senza una ragione», imputati condannati a 3 anni e mezzo per eccesso colposo in omicidio colposo. Nel nostro speciale i resoconti di tutte le udienze. Altri agenti condannati nell’ambito del processo-bis, per i depistaggi dei primi giorni di indagine; una poliziotto condannato anche nel processo-ter. Il 9 ottobre 2010 il Viminale risarcisce alla famiglia due milioni di euro, una cifra che nel 2014 la Corte dei conti chiederà che venga pagata dai poliziotti. L’10 giugno 2011 si chiude il processo d’appello con la conferma delle condanne. Durissima la requisitoria della pg: “In quattro contro un’inerme, una situazione abnorme”. Gli agenti fanno ricorso in Cassazione che il 21 giugno 2012 rigetta, le condanne sono definitive (ma c’è l’indulto). Pg: “Schegge impazzite in preda al delirio”. A marzo 2013 provocazione del Coisp, un sindacatino di polizia che strappa il proprio quarto d’ora di notorietà manifestando sotto le finestre dell’ufficio di Patrizia Moretti. La città in piazza: “Lo scatto d’orgoglio”, A inizio 2013 poliziotti in carcere per scontare i 6 mesi di pena residua, Lino Aldrovandi a Zeroincondotta: “Non voglio nemmeno pensare che non li licenzino”, ma un anno dopo stanno per tornare in servizio. Il 15 febbraio 2014 manifestano in cinquemila: “Via la divisa”.

COSIMO COSMA. LA MORALE DEL NIPOTE DI ZIO MICHELE.

Avrebbe picchiato un uomo “reo” di aver molestato la nipote 16enne e lo avrebbe fatto in concorso con due parenti, per le vie di Erchie. Cosimo Cosma è stato ritenuto responsabile dal Tribunale di Brindisi in composizione monocratica di lesioni aggravate, in concorso con  Agata e Cosimo Ferrara, madre e zio della presunta vittima degli abusi. Cosimo Cosma è il presunto “complice” di zio Michele. Il giudizio di primo grado lo ha condannato a sei anni per aver aiutato Misseri a buttare il cadavere di Sarah Scazzi in una cisterna. Per tutti la pena decisa dal giudice monocratico è pari a un anno e quattro mesi. I fatti per cui i tre sono stati giudicati a Brindisi risalgono al 28 aprile 2008 e sono avvenuti appunto ad Erchie. La ragazzina, che ora è adulta, racconta di essere stata importunata dall’uomo di Erchie, paese di poche anime in cui ci si conosce tutti. La vittima denunciò ai carabinieri quanto accaduto e raccontò tutto ai suoi famigliari che, presi da un moto d’ira, vollero “chiarire” con il diretto interessato, poi imputato per violenza sessuale proprio in danno della 16enne, cioè colui il quale aveva avuto atteggiamenti censurabili, vista anche l’età di colei che li aveva subiti. Lo picchiarono e anch’egli decise di rivolgersi ai militari dell’Arma, con un referto alla mano. Due sono le inchieste sorte dai fatti verificatisi in tre giorni e altrettanti i processi. Alla sbarra per molestie ed abusi sessuali c’è Giuseppe Rizzo, parte civile nell’altro processo a carico dei tre, per lesioni, che si è concluso dinanzi al Tribunale di Brindisi con una sentenza che condanna i tre famigliari dell’adolescente. Il Rizzo si è costituito parte civile nel processo per lesioni e ha ottenuto dal giudice una provvisionale di 5mila euro, a carico di ognuno dei tre imputati che potranno beneficiare della sospensione condizionale della pena solo dopo aver pagato i danni.

L’OLTRAGGIO ALLA PUBBLICA MEMORIA, AL PUBBLICO PUDORE ED ALLA PUBBLICA DECENZA.

L’oltraggio, ossia il fatto di superare un limite; l’eccesso: Da quinci innanzi il mio veder fu maggio Che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede, E cede la memoria a tanto oltraggio (Dante).

Offesa grave all’onore, alla dignità, al prestigio di una persona (o di un’istituzione), con atti o con parole: fare, recare oltraggio; colpa d’Atride, Che fece a Crise sacerdote oltraggio (V. Monti); Vergin di servo encomio E di codardo oltraggio. (Manzoni);

«Sarah Sticazzi». La famiglia della 15enne di Avetrana contro Nonciclopedia. Dal web. Dopo il falso profilo creato su un sito di incontri online da un utente che si era registrata utilizzando l’immagine della piccola Sarah, adesso la famiglia Scazzi è costretta ad affrontare un altro episodio, accaduto ancora volta su internet, che offende la memoria della 15enne. Sotto accusa finisce Nonciclopedia, la versione satirica di Wikipedia, scrive “Lecce News24”. Da un lato c’è Nonciclopedia, dall’altro la famiglia di Sarah Scazzi. L’uno contro l’altro. Già in passato l’enciclopedia satirica più irriverente del web era finita al centro dei riflettori mediatici per alcune battute poco “simpatiche” che avevano scatenato l’ira e la rabbia non solo dei diretti interessati. Era accaduto con Vasco Rossi, si era ripetuto poco dopo con Marco Simoncelli quando sul sito vennero pubblicate alcune frasi che ironizzano sulla morte del motociclista, scomparso tragicamente in un incidente durante la gara del Gp di Sepang, in Malesia. «Ennesima caduta per Marco Simoncelli. Ma ha promesso che questa è l'ultima» questa la frase incriminata che sdegnò il popolo social. Come in una soap a puntate, anche nel contesto 2.0, si alternano “notizie” che dividono, fanno discutere e tengono con il fiato sospeso i lettori. Ma quando indignano ed offendono la memoria di chi non c’è più la storia cambia. Ma facciamo un passo indietro: questa volta nel mirino della versione/parodia Wikipedia è finita Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa il 26 agosto del 2010 e poi ritrovata in un pozzo in contrada Mosca. A segnalare il contenuto ritenuto offensivo della pagina web è la stessa famiglia della ragazzina che ha voluto affidare ad una nota stampa tutta l’amarezza per l’ennesimo schiaffo alla memoria della piccola, vittima ancora una volta delle “speculazioni” fatte sulla sua memoria. Pensavamo di aver visto tutto dopo che una donna aveva utilizzato le foto di Sarah per aprire un profilo su Badoo ed invece «al peggio - come si suol dire - non c’è mai fine». Perché l’insulto al suo ricordo, in questo caso, va ben oltre il "buon senso" o meglio il "cattivo gusto". Mamma Concetta, che sempre si è battuta per conoscere la verità ha fatto sapere che  chiederà, per via giudiziaria, la rimozione immediata della pagina web che avrebbe dovuto, almeno nelle intenzioni ricostruire in chiave sarcastica la tragedia.

«La nostra famiglia, ancora una volta, è costretta a subire ingiustificate offese alla memoria di Sarah da parte del sito web denominato Nonciclopedia». E' quanto afferma in una nota la famiglia di Sarah Scazzi, la ragazzina di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010, che annuncia che chiederà per via giudiziaria la rimozione della pagina web. La pagina in questione dovrebbe essere una ricostruzione satirica della tragedia di Sarah Scazzi, ribattezzata Samarah, in stile con quasi tutte le pagine di Nonciclopedia che si auto definisce «l'enciclopedia libidinosa», rifacendo il verso in burla della più famosa Wikipedia. Non è il primo caso in cui una delle pagine di Nonciclopedia viene contestata sino a coinvolgere l'autorità giudiziaria, ad esempio è ancora in corso il ricorso di Vasco Rossi. Questa volta è la famiglia di Sarah Scazzi a sentirsi offesa. «Dobbiamo sopportare l’ennesimo attacco – è detto nella nota della famiglia Scazzi - da parte di chi utilizza internet con la pretesa e l’arroganza di presentare come satira quel che è, e rimane, solo ed esclusivamente un insulto gratuito, fatto di espressioni ingiuriose ed immagini deplorevoli. Espressioni ed immagini che, si ripete, non possono certamente ritenersi manifestazione del diritto di satira. Episodi del genere, intollerabili, specie se ripetuti e continuati nel tempo – è detto ancora – non fanno che rinnovare un dolore mai sopito ed infangare ulteriormente il ricordo di Sarah». «Abbiamo deciso, a questo punto – conclude la nota – di intraprendere tutte le necessarie ed opportune iniziative giudiziarie interessando le competenti Autorità finalizzate a porre fine a questa ennesima e gratuita mortificazione del nostro dramma, anche attraverso la rimozione della pagina incriminata».

La famiglia ha affidato la propria posizione ad una nota nella quale attacca coloro che dietro alla scusa della satira insultano gratuitamente la vittima del delitto infangando il ricordo della ragazza uccisa il 26 agosto 2010 rinnovando il dolore della famiglia. E per questo si chiede l’intervento della magistratura affinché venga rimossa la pagina incriminata. La pagina in questione è ricca di riferimenti relativi all’omicidio che più di un lettore potrebbe trovare di cattivo gusto.

(Samarah Scazzi da Nonciclopedia, l'enciclopedia liberatoria. NonNotizie contiene diffamazioni e disinformazioni riguardanti Sarah Scazzi. Risolto l'omicidio di Sarah Sticazzi. Sarah Sticazzi (la cui h è spesso considerata un optional) era una ragazza chiave nell'evento del suo omicidio. Il 26 agosto 2010 era scomparsa da Taranto, in provincia di Lussemburgo come le altre mille persone che spariscono senza ragione. Probabilmente a causa del suo cognome che fa notizia, è saltata più all'occhio degli altri e per giorni è stata cercata da Chi l'ha visto? (che non l'hanno vista), i parenti, la polizia e Roberto Giacobbo, che insisteva si trattasse di una leggenda maya.  Sarah Scazzi, campionessa italiana di nascondino. Chi avrebbe mai pensato di cercarla in un pozzo: Geniale. La Mediaset ha già acquistato i diritti per farne una fiction televisiva.

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“La ragazza è scomparsa... chiamate se l'avete vista... ora passiamo alla madre che ha ucciso il fig... cosa? Cosa? Signori e signore, in diretta, lo zio ha confessato! L'ha uccisa e stuprata! La madre, inquadrate la madre, sta soffrendo! La polizia ha trovato il corpo! Gli fanno un monumento! L'INDICE D'ASCOLTO CRESCE!!!”  Puntata serale di Chi l'ha visto?

Questa è una vera tragedia, *sniff* *sniff*... sono triste... *sob* *sob*... e davvero, non... *sigh* *sob*... *sniff* *sob* *sob* *sigh* *sigh* *sniff* *sniff* *sob* *sob*...” Lo zio di Sarah in evidente disperazione.

“Per me può ancora avere figli”Silvio Berlusconi su Sarah.

“E la cantina buia dove noi, respiravamo piano!” Michele Misseri al karaoke del carcere.

“Oddio, non ci capisco più nulla!” Sherlock Holmes sul caso Scazzi.

La scomparsa

Il 26 agosto 2010 nel tranquillo paesino di montagna di Taranto era una giornata come tante. La madre di Sarah, come fanno tutte le madri normali con una figlia di 15 anni, l'ha fatta uscire la sera alle 10 aspettandola per le 5 del mattino. Ma alle 5 e un minuto del mattino, Sarah non è tornata a casa. Immediatamente, vengono chiamati in ordine: Studio Aperto per una notizia dell'ultimo minuto, il Papa per le condoglianze, Chi l'ha visto? per l'esclusiva e la polizia perché il padre era curioso di chiedere dove vendono le uniformi blu. Il tutto è iniziato con molta calma, finché non sono stati tirati in ballo elementi su cui i giornalisti si sono fiondati: un cognome equivoco, una ragazza figa e la sua pagina di facebook.

Le ricerche

La madre di Sarah depistò la polizia mostrando inutili foto della figlia a cinque anni. La polizia si è messa a cercare la ragazza in tutti i casolari della zona, tattica delle forze dell'ordine sin dagli anni '90. Le indagini, hanno avuto, infine, i risvolti desiderati: dopo estenuanti ricerche erano disponibili per tutti foto esclusive della ragazza tuttora reperibili. Della ragazza, però, nessuna traccia, escludendo un vecchio cellulare che, secondo gli esami, non vale un euro.

Durante le indagini le forze dell'ordine hanno fatto affidamento alla maggior parte delle serie poliziesche italiane senza riscontrare casi simili. Dopo 3 giorni dalla scomparsa un medium informa parenti, poliziotti e curiosoni che la ragazza era scomparsa.  Chi l'ha visto? non è stato ovviamente fermo a guardare, e ha messo in scena una super puntatona che ha catalizzato tutta l'attenzione degli spettatori battendo sul tempo Studio Aperto e Porta a porta, il primo concentrato sull'annoso problema dei koala sessualmente inattivi, il secondo impossibilitato a procedere per mancanza di un plastico. "Chi l'ha visto?" si è quindi rimboccato le maniche e per aiutare le indagini ha ottenuto diverse interviste esclusive strappalacrime coi parenti, di cui ricordiamo il povero zio Michele che si è commosso solo a vedere la telecamera. Cioè, si è commosso solo quando ha visto che lo stavano inquadrando.

- Appuntato: “Mia madre dice sempre che quando si cerca qualcosa di solito è più vicina di quanto ci si aspetti”.

- Commissario: “Io ho già guardato nelle tasche, ma ci ho trovato solo 50 cent.”.

Le ricerche sono continuate per tutto settembre, in particolar modo su Facebook, MySpace, NetLog e Nonciclopedia, alla ricerca di adescatori di minorenni. Ne hanno trovati a centinaia, ma nessuno coinvolto nella scomparsa di Sarah.

Gli scienziati della NASA hanno quindi attivato una sonda mobile su Marte. Hanno trovato vulcani, letti di fiumi, UFO e persino l'acqua, ma nessuna traccia della biondina.

La popolarità

I giornalisti sono soliti a trattare questi argomenti con delicatezza. Perché fin che dura è meglio approfittare. A causa degli svariati motivi già elencati mille volte, il caso Sticazzi ha avuto parecchia rilevanza mediatica. Oltre ad aver occupato il 99% delle notizie del telegiornale (levando spazio alla notizia dell'indipendenza di Busto Arsizio e a omicidi di ragazze meno bone), il caso ha portato alla creazione di tantissimi video su YouTube dedicati alla ragazza, prevalentemente composti dalle cinque/sei foto disponibili in rete, una musica straziante e quotatissimi commenti di "non ti dimenticheremo mai", "adesso sei un angelo" o "consolati!". Su fessbook ci sono poi gruppi di affetto e ricordi, cosa che suona strana in quanto nessuno la conosceva e nessuno sapeva chi era, ma adesso tutti dicono di essere sempre stati con lei. Inoltre, le verrà dedicato un monumento nel cimitero di Avetrana per aver... per... per essere stata uccisa brutalmente e violentata dopo la sua morte. Speriamo che la posa in cui verrà scolpita sia almeno di gloria.

Le reazioni del popolo di Facebook. Viene poi proposto un video caricato su Youtube contenente i commenti della rete nei confronti di Michele Misseri pubblicati poco dopo la sua ammissione di aver ucciso la ragazza, commenti in cui si auspicavano per lui le peggiori violenze e torture.

L'esplosione del caso: la confessione dello zio. Lo zio Michele mentre simula egregiamente il dolore per la nipote.

Durante la diretta di Chi l'ha visto? si è concluso l'interrogatorio di svariate ore (i carabinieri dicono undici, ma alla domanda di quanti minuti siano undici ore, si sono corretti con due ore) allo zio della ragazza, Michele Misseri. Sembra che dopo averlo costretto a leggere uno ad uno ogni singolo link condiviso dalla nipote su Facebook si sia arreso (e questo spiega la durata dell'interrogatorio). Lo zio ha confessato di averci provato con la nipote, che lei l'aveva respinto, che lui ci aveva riprovato, che Brock si era sposato con la cugina e tanti intrighi così. Alla fine, ha deciso di ucciderla cancellandole le musiche sull'mp3. Lo shock è stato così forte da averla fatta schiattare sul colpo. Già che c'era, lo zio ha fatto quello che tanto voleva fare nella cantina di casa sua. Poi, uscendo indisturbato con un sacco di un cadavere sulle spalle si è diretto al classico pozzo che tutti gli assassini hanno vicino casa e lanciato il corpo, dove è rimasto per 42 giorni. Ricordiamo Michele per aver simulato immensa depressione alle telecamere durante svariate interviste. Ad esempio, la sua prima intervista andò all'incirca così:

Michele: Ma è accesa quella telecamera?

Intervistatrice: Sì.

Michele: Aaaaaaaahhhh, la mia povera nipote, aaaahhh.... venite qua che vi racconto tutto io…

Intervistatrice: Oh, dica, buon uomo.

Michele: Vede... mi dispiace, mi dispiace moltissimo... io... io posso darle degli indizi, anche... vede, c'era una... una...

Intervistatrice: Chi c'era?

Michele: Una... una... mmmmhhh.... macchina! Sì, una macchina!

Intervistatrice: C'era una macchina a casa sua?

Michele: Sì! Cioè, no! A casa della mia nipote, non mia! Oooooooohhhh, le volevo bene, tanto bene...

Intervistatrice: Ha detto una macchina? Ne è sicuro?

Michele: Sì, una macchina... una... una macchina rossa! Rossa, con... due fanali, sì, una macchina... brutta, cattiva. Una macchina che ha a che fare qualcosa, dico io! Secondo me, dovreste indagare su quella macchina.

Intervistatrice: Come fa a ricordarsi bene di quella macchina in particolare? E in che direzione andava?

Michele: Beh, era una macchina... brutta, cattiva. Cattivissima. Da non dimenticare. E andava... il più lontano possibile da casa mia.

Intervistatrice: Grazie mille, e cosa ci dice riguardo alle voci su di lei?

Michele:……..

Intervistatrice: ...signore?

Michele: Ooooooh, che dolore, non posso parlare, mi si stringe il cuore, mi dispiace, tanto bene le volevo, che dolore, non parlo più, arrivederci. *Chiude porta*

 Intervistatrice: Che uomo addolorato, amici telespettatori.

Chi ha ucciso Sarah Scazzi?Descrizione: http://slot1.images.wikia.nocookie.net/__cb1393609173/common/skins/common/images/magnify-clip.png

Ci sono alte probabilità che l'assassino sia Bruno Vespa, in quanto dopo cinque secondi dall'annuncio della morte lui aveva già costruito un plastico di casa Misseri con l'intenzione di mostrarci dove trovare parcheggio.Descrizione: http://slot1.images.wikia.nocookie.net/__cb1393609173/common/skins/common/images/magnify-clip.png La locandina del nuovo film per il cinema distribuito da Merdaset. Da lunedì 21 dicembre 2012, in onda su Merdaset si terrà un nuovo reality show, condotto da Alessia Marcuzzi, intitolato "Chi ha ucciso Sarah Scazzi?". Il programma sarà per la maggior parte un polpettone mediatico che riassume tutte le vaccate sparate finora sul caso dai programmi di attualità e continuerà a seguire il caso col fiato sul collo. Grazie alla partecipazione di criminologi, psscologi, proctologi e giudice e giuria della corte suprema, sarà possibile studiare il caso in ogni (irrilevante) dettaglio e formulare accuse a vanvera contro chiunque sia vagamente collegato alla vicenda! Le puntate in onda previste sono:

Sarah è sparita, ma dove è andata?

Sarah è stata trovata, ma morta, perché?

Due ore di "cosa prova la madre"?

Lunga visione di ogni video-ricordo di YouTube.

Un monumento nel cimitero comunale: meglio equestre o no?

Fare Sarah santa? E perché, visto che non era cristiana?

Funerale, almeno quello, privato.

Lo zio ha confessato! L'ha violentata e uccisa!

Particolari della scientifica su come è stata consumata la violenza.

Spulciamo impudentemente nel diario della morta.

Gli psicologi affermano che sapevano che lo zio mentiva.

Ricostruzione con attori reali dell'interrogatorio dello zio.

Il numero di fiori davanti alla casa di Sarah cresce.

Foto della casa del delitto, criminologi ne parlano.

Vespa costruisce un modellino della casa, perché le disgrazie non vengono mai da sole.

Un'ora di rosik per una pagina sul caso su Nonciclopedia.

Processo allo zio: al rogo o alla gogna?

La madre mostra senza motivo le foto della figlia.

Il numero di fiori davanti a casa di Sarah blocca il traffico.

La cugina è scioccata perché il padre è l'assassino.

La cugina non convince che sia scioccata perché il padre è l'assassino.

Potrebbe essere stata la cugina!!! Parliamone.

La cugina ha sempre provato rancore verso Sarah, ma lo scopriamo solo ora.

Gli psicologi affermano che sapevano fin dall'inizio che la cugina mentiva.

Nel diario di Sarah c'è la parola "cugina". Le indagini proseguono.

Postata su Facebook una foto di Sarah "in visita" all'obitorio. Sospettato Corona.

Il numero di fiori davanti alla casa di Sarah inghiottono cinque persone vive.

Interviste al sindaco della città, alle amiche di Sarah e al maggiordomo, sospettato colpevole.

Massì che è stata la cugina: al rogo o alla gogna?

Lo zio dopotutto non era cattivo.

Lo zio ha comunque violentato Sarah!

Lo zio: alla forca o lapidato?

Apre la prevendita per fare un giro in bus alla casa della morta.

La cugina avrebbe trattenuto Sarah mentre moriva: si, no o aiuto del pubblico?

Ma la zia? Lei potrebbe centrare qualcosa!

Gli pissicologi affermano che sapevano fin dall'inizio che la zia mentiva.

No, la zia è innocente.

Gli pissicologi affermano che si sono dati all'ippica.

Il numero di fiori davanti alla casa di Sarah ha superato la Torre Eiffel: grandi festeggiamenti a Pomeriggio Cinque.

La cugina era invidiosa delle curve di Sarah, mentre lei era più come un'autostrada.

La cugina aveva improvvisato uno strip davanti al bello della compagnia, venendo rifiutata: potrebbe essere un movente?

Salta fuori qualche "troppo caso mediatico", ma la notizia è offuscata da quelle sul caso mediatico.

Indagine: Sarah potrebbe non essere stata stuprata. Scusa, adesso lo scoprite?

Abbiamo già parlato di Ivano, l'amico di Sarah? Magari centra qualcosa, il nome non convince!

Nah, non c'entra niente.

Sarah ha rubato il diario della cugina! Ma quanti diari ci sono?

Sarah aveva legato con un randagio e l'aveva chiamato Saetta. Parliamone, anche se non c'entra niente.

E se fosse stato Saetta?

Forse abbiamo calcato troppo la mano, torniamo sulla cugina.

Il numero di fiori davanti alla casa di Sarah è fuori controllo: avanza la proposta di appiccare un incendio.

Il papà di Sarah dice che vuole una pena giusta, ma non si spreca sui media.

La mamma della cugina scrive alla mamma della vittima: la ricetta della torta di mele e che Sabrina è innocente.

La zia di Sarah concede un'intervista: mia figlia è innocente, mio marito è colpevole e la mia ricetta del sugo non la do a nessuno.

La tv allenta la pressione sul caso. Questo è talmente strano che fa subito scoppiare un caso mediatico.

Quando Sarah era uscita aveva addosso gli auricolari, dove sono finiti? Intervista strappalacrime alla mamma degli auricolari.

La tv inizia a perdere interesse sul caso, a causa dell'ultima cazzata detta da Berlusconi sui gay.

Teodoro Errico, un pizzaiolo che non c'entra nulla, salta fuori come testimone. Non dice nulla di interessante, quindi arrivederci.

La polizia interroga gli altri abitanti della via.

La polizia interroga anche gli amici di Sarah.

Interrogato il cugino di un'amica di infanzia della compagna di banco di Sarah: la polizia brancola nel buio.

Dopo la morte di Sarah arrivò una misteriosa telefonata dal 118. Di chi era? E soprattutto perché è saltata fuori mesi dopo?

I fiori davanti alla casa di Sarah marciscono, e visto che la tv dimentica il caso nessuno mette più fiori.

C'è un misterioso buco di 40 minuti nel caso Sarah. Speriamo non l'abbia violentato lo zio.

Lo zio ritratta la versione dei fatti davanti al PM: include Willy il Coyote e svariate incudini.

Nella nuova versione, Sabrina ha detto allo zio di "aver fatto un casino". I media si stanno davvero attaccando a tutto per tirare avanti disperatamente la vicenda.

Viene mandato in onda un telegiornale che non contiene notizie sul caso Scazzi. Migliaia di fan rimangono delusi.

La mamma di Sabrina ha accusato un malore ed è sfuggita all'interrogatorio. I giornalisti hanno accusato malori per raggiungerla in ospedale.

Ivano aveva rifiutato l'amore di Sabrina. Delitto passionale: questa è nuova nel caso.

C'è voluto un po' di tempo (e tanti speciali), ma Sabrina è in carcere.

Il Grande Fratello contatta Ivano: ma che cazzo vuole?

Michele Misseri accusa un malore, ma il malore accusa Michele di averlo violentato.

Michele Misseri adesso dice che non ha violentato la nipote. Come diavolo fai a non essere sicuro di aver violentato una nipote!?

Il procuratore afferma che l'inchiesta è ancora aperta, rassicurando i telespettatori.

Roberta Bruzzone la "criminologa" che aveva sostenuto inizialmente la colpevolezza di Misseri con frasi del tipo "è un pedofilo assassino", lo va a difendere. Che coerenza.

La cintura di Sarah è un'unisex con probabili cuciture laterali, di altezza media di 2,6 centimetri... si, e allora?

Oramai non ci sono più fiori davanti alla casa di Sarah Scazzi... aspetta, chi? Ah già, quella che è morta.

Lo zietto Michele accusa la figlia nella versione definitiva dei fatti: l'ha uccisa in biblioteca, con la chiave inglese.

Nasce l'associazione "SARAH PER SEMPRE". Troppo tardi, mi dispiace.

Il sindaco di Avetrana vuole intitolare un canile a Sarah. Non che "Canile Scazzi" suoni invitante, però.

Una troupe francese segue la vicenda. Si vede che come da noi non hanno proprio niente da dire.

Nella casa di Zia Emma spunta una corda nascosta. Proprio quella che serviva ai giornalisti per tirarsela.

Il racconto di Michele non convince. La notizia è talmente generica che viene tirata avanti settimane, in versioni differenti.

Sarah Scazzi aveva mangiato un sofficino verso le 13... che sia questa la causa del decesso?

Il 26 novembre, nel Bargamasco, scompare la 13enne Yara Gambirasio. Ne parlano tutti i TG: Sarah Scazzi muore così per la seconda volta, dopo mesi di agonia.

Se volete partecipare al linciaggio mediatico e giudicare i seguenti colpevoli, mandate un sms al 48666, oppure telefonate al numero 166-666-116: Chi ha ucciso Sarah Scazzi?

Digita 1: per il porco zio

Digita 2: per la cuggina Sabrina

Digita 3: per la nobiltà nera

Digita 4: per gli alieni

Digita 5: per le scie chimiche

Digita 6: per il maggiordomo

Il sondaggio è stato creato alle ore 22:26 del nov 16, 2010, e finora 12416 persone hanno votato.

Vota! Attendere prego, il tuo voto è in elaborazione ... servizio offerto da Merdemol S.P.A il costo della chiamata sarà pari a millemila euri/sec. L'attesa potrà essere lunga, si prega di non riagganciare.

Note: Chi avrebbe mai pensato di cercarla in un pozzo?! Geniale!)

Ora toccherà alla magistratura valutare il da farsi.

Ed ancora…… D’altro canto, per essere condivisa l’informazione deve essere omologata e conformata. Non sentivamo la mancanza dell’ennesimo programma che sparla di questioni di giustizia. Eppure è arrivato. Un viaggio, "il varietà della mente", come lo ha definito lo stesso Carrisi. Un’avventura nei meandri della nostra mente, grazie al supporto della consulenza scientifica del neurofisiologo Marcello Massimini, documenti, filmati ed esperimenti sui meccanismi inconsci della mente umana. Si cercherà di comprendere i tanti dubbi che affollano la nostra mente: Siamo padroni di noi stessi? Perché diciamo bugie? Perché non riusciamo a tenere un segreto? In studio ci saranno diversi ospiti. Nella prima puntata sarà presente Giuliana Mazzoni, docente di psicologia cognitiva in Inghilterra.

Sabato 1 marzo 2014, debutta in prima serata, alle 21.30 su Rai 3, il programma in sei puntate, Il sesto senso. Sottotitolo: Quello che non ti aspetti dalla tua mente. Il conduttore-narratore è Donato Carrisi, noto per aver scritto alcuni romanzi di genere thriller. In questa trasmissione, si cercherà di capire come funziona la mente umana, delle sue potenzialità, ma anche degli scherzi del pensiero. Uno straordinario viaggio su come funziona il cervello. Si prenderà spunto anche da alcuni casi di cronaca. In una puntata, si tornerà a parlare, ad esempio del caso della morte di Sarah Scazzi e di Michele Misseri. Delle ragioni che lo hanno spinto a comportarsi in quel modo, fino a scoprire che la ragazza era morta. Il programma si occuperà anche di altre vicende, come quella di un uomo, che diversi anni fa, negli Stati Uniti, dopo aver sparato alla folla, si buttò da una torre. Dopo aver effettuato l'autopsia, si scoprì che l'uomo aveva un tumore al cervello. Ci si potrebbe chiedere quanto abbia influito, questo suo stato, nella decisione di voler ammazzare delle persone. Si parlerà anche dei grandi criminali della storia, come Hitler. La trasmissione, che va in onda dal Centro di produzione della Rai di Torino, farà vedere anche nuovi filmati. Si avvarrà della consulenza scientifica di un noto neurofisiologo, che è Marcello Massimini. Ogni settimana ci saranno poi degli ospiti in studio, nella prima puntata ci sarà Giuliana Mazzoni, che insegna psicologia cognitiva ed è esperta di problematiche che riguardano la memoria.

Ma chi meglio di lui, di Donato Carrisi, può raccontarci che cos’è "Il sesto senso"?

“Il sesto senso non esiste e lo spiego con le storie che racconto. In questi anni ci siamo dimenticati della potenza delle parole e tutto parte da lì. Come i miei libri e le mie sceneggiature, il programma è composto come un puzzle in 3D in cui voglio fare entrare il pubblico. Per esempio propongono la foto in bianco e nero di un bambino di tre anni. E’ buono o cattivo? E’ Adolf Hitler”.

Verranno affrontati anche fatti di cronaca? Carrisi spiega che si affronterà il caso di Sarah Scazzi e si cercherà di capire perché Michele Misseri ha confessato, "come e perché la sua mente si è convinta a parlare". Non solo.

"Andremo indietro nel tempo, fino al 1966 con il caso di un uomo che, negli Stati Uniti, salito sulla torre dell’università ha cominciato a sparare sulla folla. Sapeva di essere ucciso, per questo ha lasciato diverse lettere in cui chiedeva che sul suo corpo venisse eseguita un’autopsia. Venne fatta e si dimostrò che quest’uomo aveva un tumore che aveva invaso la regione della mente preposta al controllo dell’emozione e dell’aggressività. Era davvero colpevole?".

Questo viaggio si preannuncia sicuramente interessante e voi che farete, salirete a bordo? Lo guarderete?

Ma al peggio non c’è mai fine.

Sgarbi Vs Bruzzone. Lite a "Linea gialla"......il critico non si rialza, scrive Claudio Raccagni  su “Agora Magazine”. Un articolo palesemente a favore della Bruzzone che ne tesse le lodi e ne pubblicizza il libro. “Vittorio Sgarbi attacca gratuitamente la criminologa Roberta Bruzzone, ma la reazione della Signora non era prevista. Brutta esperienza per il critico Vittorio Sgarbi, che durante la trasmissione "Linea Gialla" del 5 Febbraio, condotta da Salvo Sottile, attacca gratuitamente la criminologa colpevole d'aver sottolineato come l’intervento di Sgarbi fosse fuori luogo rispetto alle tematiche trattate, ma la reazione composta e diretta della Bruzzone spiazza il critico stesso, che si ritrova muto e ferito.

Tutto parte dall’argomento della puntata in cui si parlava di "Amori malati" e femminicidio. Durante i vari interventi Vittorio Sgarbi interviene con tesi personali al di fuori della serata in questione, parlando del delitto di Avetrana e con considerazioni che banalizzavano la gravità dei reati di cui si parlava in trasmissione. Non solo, ma messo alle strette dal disappunto della criminologa e delle ospiti femminili in studio, si lasciava andare a esempi rozzi, come suo solito, evidenziando come fosse diversa la reazione se una donna avesse toccato il culo di Salvo Sottile in autobus (cosi diceva Sgarbi) e se invece fosse stato Sgarbi a toccare la Bruzzone. Atteggiamento e parole scurrili, totalmente fuori luogo in una puntata dove si parlava di omicidi, di femminicidio, di violenze gratuite. Atteggiamento che la criminologa non gradisce e risponde a dovere. Il critico non incontra simpatia dal suo atteggiamento e se ne rende conto, evidenziando già un primo nervosismo, che lo porta a forzare il suo quadro critico sulla problematica del femminicidio e riportando l’argomento sul delitto di Avetrana. Non solo, ma lo stesso Sgarbi è platealmente ripreso sul fatto che non sappia che il reato di femminicidio non esista, ma sia invece una classificazione di reato. Lo stesso Sgarbi non è al corrente dei dati che provano un aumento delle denuncie da parte di uomini verso le donne, per reati di stalking. Continua quindi il nervosismo del critico. La criminologa invita a non fare "Caciara" con le argomentazioni, ma Sgarbi non gradisce l’aggettivo e reagisce in modo spropositato, come suo solito fare. Roberta Bruzzone però reagisce in modo maturo e diretto al provocatore, dandogli poi della capra, cosa che il critico stesso è norma dare agli altri, ma raramente si sente ripreso al suo stesso modo. La rabbia di Sgarbi cade nel penoso con frasi tipo "Non mi dici caciara; chi cazzo sei tu; non sei nessuno; sei una lumaca", ma la criminologa tiene a bada lo stesso Sgarbi, che probabilmente non era pronto ad una reazione di petto. Lo scontro è un netto KO contro il critico, che evidenzia una tensione visiva acuta e un silenzio che sottolineano il non aver assorbito il colpo da campione della criminologa, che continua subito il suo intervento in trasmissione tranquillamente con il suo solito carattere combattivo. Di fronte invece resta un Vittorio Sgarbi silenzioso, che non torna all’attacco, probabilmente provato emotivamente dall’attacco della Bruzzone. Da sottolineare come Vittorio Sgarbi abbia attaccato con frasi come quelle riportate precedentemente una criminologa di fama internazionale; sempre al lavoro nella preparazione dei suoi studenti e sempre sul luogo del delitto o di studio. Recentemente premiata con il premio Falcone-Borsellino 2013 per la corposa attività scientifica e divulgativa nelle scienze criminologiche, quale imprescindibile ausilio alle attività di indagine. Roberta Bruzzone, laureata in psicologia clinica, è psicologa forense, criminologa, criminalista, analista della scena del crimine, esperta in Scienze Forensi, docente presso gli Istituti di Formazione della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri. È consulente tecnico forense ed ambasciatrice del Telefono Rosa Onlus. È autrice di diverse trasmissioni televisive tra cui “La scena del crimine” e “Donne mortali” di cui è anche conduttrice. Dal 2013 è docente e direttore scientifico del master in Criminologia Investigativa, Scienze Forensi e Analisi della Scena del Crimine presso l’Università degli Studi Niccolò Cusano. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: “Manuale Investigativo degli abusi sui minori”, Nuovo Studio Tecna Edizioni 2006, “Chi è l’assassino - Diario di una criminologa”, Mondadori 2012, e “Segreti di famiglia - Il delitto di Sarah Scazzi”, Aracne Editrice 2013.” Complimenti all’autore. Questi articoli non saranno mai censurati ed avranno la gratitudine delle beneficiaria!!

L’ULTIMO INSULTO PER SARAH. LA SUA FOTO SUL SITO DI INCONTRI.

E proprio da Erchie viene l’ultimo insulto per Sarah. Su Badoo.it l’ultimo insulto alla memoria di Sarah Scazzi. Sul famoso sito di incontri, infatti, circola l’immagine della ragazzina di Avetrana uccisa il 26 agosto del 2010. A usare l’immagine di Sarah Scazzi, come foto profilo, è la 42enne Maria Rosa, di Erchie, paesino in provincia di Brindisi. La signora cerca così di catturare nella rete l’interesse di uomini con cui intraprendere relazioni sentimentali. Badoo, che conta più di 196 milioni di iscritti, ha permesso tale appropriazione di immagine e di identità. Naturalmente la famiglia della ragazza uccisa è all’oscuro di tutto. Il volto di Sarah Scazzi, la quindicenne uccisa ad Avetrana nell’estate del 2010, utilizzato per adescare uomini sul noto sito di incontri Badoo. A pubblicare sul suo profilo la foto della ragazzina, una donna di 42 anni di Erchie, comune in provincia di Brindisi poco distante da Avetrana, dove venne ritrovato il cadavere della minorenne. “Maria Rosa vuole fare amicizia”: questa la scritta associata alla foto sulla piattaforma virtuale d’incontri che, ovviamente, è totalmente estranea al contenuto delle pubblicazioni. La notizia non è stata commentata dalla famiglia Scazzi che era all’oscuro di quanto accaduto. Si tratta solo dell’ultimo episodio di questo tipo. Qualche mese addietro, infatti, su Facebook furono pubblicate le foto di una ragazzina canadese che l’anno prima si era tolta la vita dopo aver subito violenza sessuale. Erchie, paesino in provincia di Brindisi sul cui confine con Avetrana si trova la tristemente famosa contrada Mosca dove la notte del 6 ottobre  2010 fu trovato il corpo della quindicenne. Badoo appunto, conta più di 196 milioni di iscritti in 180 paesi ed è tra i siti più frequentati dove la semplice amicizia tende a fare da preludio a incontri molto reali. Il nome e le immagini di Sarah Scazzi sono tra i più cliccati del web. Il motore di ricerca Google offre ben 641.000 pagine dedicate alla tragedia di Avetrana. Migliaia anche le foto presenti nella sezione «immagini» dello stesso motore.

I PRESUNTI TESTIMONI MAI CHIAMATI.

Oltre a Valentino Castriota, l’addetto stampa della prima ora a servizio della famiglia Scazzi, potrebbe esserci un altro testimone. Qualcuno che ha visto Sarah Scazzi pochi minuti prima dell’omicidio, nel pomeriggio del 26 agosto 2010, alle due meno un quarto. E’ quanto si legge nelle 5466 pagine delle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche e ambientali effettuate durante le indagini sul delitto di Avetrana. Quella frase pronunciata il 10 gennaio 2011, “il testimone Giovanni, il genero è stato, che l’ha vista alle due meno un quarto” e ribadita nello stesso colloquio, “ha detto che quello l’ha vista alle due meno un quarto”, quindi, va presa con le dovute cautele. Chi è Giovanni? Non si tratta del fioraio, bensì sembra riferirsi a Giovanni Cucci, genero di Anna Pisanò. Il contadino sembra voler indicare il genero di Anna Pisanò (della quale si parla poco prima nel colloquio). Il riferimento sembra a Giovanni Cucci, che con la figlia della supertestimone Anna Pisanò abitava ad Avetrana, in via Deledda, nei pressi di casa Misseri, fino a marzo 2011, quando si è trasferito in Germania con la moglie Vanessa Cerra. Cucci è stato sentito dagli investigatori nell’autunno 2010 ma non su questa circostanza. E’ stata interrogata la moglie Vanessa Cerra, raggiunta in Germania dagli inquirenti, ma soltanto sulle dichiarazioni del fioraio. A quanto pare, su quella frase di Michele nessuno ha cercato riscontri, nemmeno durante il processo. Anche in una seconda visita della moglie, il 17 gennaio, Michele ripete quella che sembra una sua convinzione. Ma questa volta la “cimice” non capta integralmente la frase: «Eh … e il (incomprensibile) che ha visto alle due meno un quarto…», è la trascrizione del perito Giovanni Leo. Anche questa frase viene pronunciata in un analogo contesto, mentre si parla della superteste Pisanò. Cosima,, però, stando alle frasi pronunciate, sembra mettere in dubbio le parole del marito.

GLI ORARI CONTRASTANTI.

Gli orari. L’accusa ritiene che Sarah sia uscita di casa alle 13.45, la difesa ritiene che l’orario giusto sia intorno alle 14.30. La tesi è suffragata dal fatto che ci sono i messaggi inviati dal cellulare da Sabrina a Sarah ed alla Spagnoletti e le testimonianze concordanti dei fidanzatini intervistati più volte e del geometra La Stella che come punto di riferimento certo ha l’orario di spegnimento del suo computer. Avallata anche dalla testimonianze della famiglia di Sarah e della sua badante. Inoltre la vi è la consulenza della biologa Valeria Scazzeri, che ha eseguito una perizia di parte, affidatale dall'avvocato Raffaele Missere, difensore di Cosimo Cosma, in relazione alla durata della digestione delle vittima, prima che venisse uccisa. Secondo la consulente, l’orario della morte di Sarah Scazzi andrebbe posticipato di un'ora e mezza-due ore e quindi indicato tra le 15.30-16 e non fissato alle 14-14.30, come stabilito dalla Procura. Sarah, il 26 agosto 2010, prima di raggiungere casa della cugina Sabrina Misseri, mangiò nella propria abitazione in tutta fretta un «cordon bleu». Secondo quanto asserito dalla biologa, per digerire l'alimento la ragazzina avrebbe dovuto impiegare 90-120 minuti, e non è possibile che lo abbia digerito in 30-40 minuti come affermato dal medico legale Luigi Strada nella perizia autoptica disposta dalla Procura. Nel corpo di Sarah in avanzato stato di decomposizione venne rinvenuta, secondo la perizia autoptica, solo una piccola quantità di liquido grigiastro, forse derivante dalla putrefazione di una mucosa, mentre la biologa ha contestato l'assenza dell'esame dell'intestino della vittima da parte del medico legale. Secondo la biologa, se al momento di ingerire il «cordon blue» l'intestino di Sarah era completamente libero, per digerirlo completamente sarebbero potute occorrere anche 6-7 ore dal momento dell' ingestione. Ed ancora, Donato Massari, papà di Francesca, amica intima di Sarah Scazzi, ha deciso di togliersi «il peso dallo stomaco» che non lo fa dormire da cinque mesi. Da quel maledetto giovedì 26 agosto, per la precisione, quando Sarah fu uccisa in casa degli zii e quando lui, più o meno all'ora del delitto, fece quello strano incontro. «Un furgone blu guidato da una persona con la parrucca e una Opel Astra station wagon come quella della mamma di Sabrina». «Tornavo da Torre Colimena ed erano passate da poco le 14 e 40. Entrando in paese passavo da uno dei primi incroci sulla sinistra (da lì si arriva da via Deledda, casa dei Misseri), dove vidi un furgone di colore blu modello Ford Galaxy affiancato ad una Opel Astra station wagon grigio.

Orari ballerini. Eppure la tesi dell’accusa si basa solo su quanto ha detto un solo testimone. Sarah Scazzi, il 26 agosto 2010, transitò a piedi in via Verdi, ad Avetrana, intorno alle 13,45 - 13,50 e si dirigesse verso viale Kennedy, che è anche in direzione di casa Misseri, in via Deledda. Lo ha ribadito lo stesso testimone, Antonio Petarra, mentre Sabrina Misseri, che è accusata del delitto insieme alla madre, ha sempre detto di aver inviato un sms a Sarah per andare al mare intorno alle 14,15. Petarra nel primo verbale del 21 settembre 2010 dichiarò di aver visto Sarah intorno alle 12.45, spostando l'avvistamento di un'ora in una seconda deposizione a verbale del 9 dicembre 2010.  

Descrizione: http://media.crimeblog.it/b/bf4/infografica-orari-scazzi.jpg

Sarah Scazzi. Le nuove testimonianze dimostrano che Sarah non è uscita di casa alle 13.55, scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Ora io capisco che quando si hanno in mano scritti provenienti da una procura tutti tendano a fidarsi ed a leggere, credendo di essere in presenza della verità, senza mai pensare che in realtà quanto è posto all'attenzione di un giudice è solo una ricostruzione di parte. Lo capisco, davvero. Ciò che non capisco è il motivo per cui nessuno mai lo legga in modo critico cercando di verificare se ciò che è scritto è compatibile con la verità o è sistemato ad arte per far credere sia "la verità". Poco ci vuole a fare un ragionamento logico e cronologico. Ultimamente si è tornati a parlare delle testimonianze portate in seconda battuta da chi in prima aveva fatto dichiarazioni diverse. Non ne ho mai scritto perché mai le ho trovate in internet. Fra l'altro credevo che tutti avessero capito la rivoluzione illogica degli avvenimenti, tante testimonianze che cambiano colore non stanno nella normalità, ma ora mi rendo conto che le nuove testimonianze di Concetta Serrano, di suo marito e della badante, potrebbero generare una sorta di tempesta mentale che non dovrebbe esistere perché porta solo pregiudizi sbagliati e fa quasi sragionare. Per capire cosa intendo dire iniziamo con il leggere le nuove testimonianze. Questa quella di Concetta Serrano, è del 30 novembre 2010: "Dopo che Sarah è andata via ho aspettato che l'acqua per la pasta bollisse, per poi cuocere gli spaghetti. Dopo aver apparecchiato ci siamo seduti noi tre ed abbiamo pranzato. Terminato il primo piatto, ho cucinato delle fettine in padella e preparato dell'insalata. Dopo aver mangiato il secondo e la frutta, unitamente a Maria ho sparecchiato, lavato i piatti e pulito la cucina. Terminate dette faccende sono andata nella mia stanza per riposarmi e mi sono accorta di tre telefonate - senza risposta - ricevute da Sabrina. Mentre mi accingevo a chiamare, ma sul punto non ricordo se la telefonata l'abbia effettuata o stavo per farla, sopraggiungeva Sabrina che mi chiedeva se Sarah si fosse sbrigata...". Questa quella del padre di Sarah, è del 21 dicembre 2010: "Dopo che Sarah è andata via, ricordo che Concetta ha aspettato che bollisse l'acqua che era già sul fornello per poi mettere la pasta. Ci siamo seduti a tavola io, Concetta e la badante. Terminato il primo piatto, mia moglie mise le fettine in padella e dopo averle cotte le ha servite a tavola. Terminato il secondo piatto abbiamo mangiato l'insalata e dopo la frutta, Sia la carne che l'insalata e la frutta consumate a tavola il giorno 26.8.2010, altro non erano che quelle acquistate poco prima con Sarah. Terminato il pranzo, Concetta e la badante hanno riassettato la cucina, in particolare hanno sparecchiato la tavola e hanno lavato i piatti, lavandino e fornelli. Nel frattempo io ho continuato a pulire le mattonelle dove erano cadute gocce di pittura. Mia moglie e la badante sono rimaste ancora per un po' in cucina a pulire, dopodiché Concetta si è recata in camera da letto così come la badante nella sua camera per riposarsi un po'." E questa quella di Maria Pantir, è del 14 dicembre 2010: "Poco prima che Sarah andasse via da casa, Concetta aveva già messo sul fuoco la pentola per riscaldare l'acqua della pasta. Concetta ha apparecchiato la tavola mentre io e Giacomo Scazzi abbiamo continuato a pulire le mattonelle. Concetta ci disse di interrompere le pulizie, io e Giacomo ci siamo fermati, abbiamo lavato la mani e ci siamo seduti a tavola con Concetta. Abbiamo mangiato la pasta e, dopo aver terminato, Concetta ha cucinato la carne e, dopo che si è cotta, l'ha servita a tavola. Dopo il secondo abbiamo mangiato la frutta. Terminato il pranzo, io e Concetta abbiamo sparecchiato e lavato i piatti e completato la pulizia nella cucina. Completati tali servizi, Concetta si è ritirata nella sua stanza. Dopo qualche minuto è arrivata Sabrina che ha citofonato..." Io capisco che il racconto dei fatti portati da una procura a un giudice debbano risultare credibili, ciò che non capisco è il motivo per cui persone che hanno in mano la vita di altre scrivano verbali "a modo" quasi stessero preparando la stesura di un pessimo libro giallo. Solo in questo contesto la logica può essere mortificata, non certo in un atto pubblico che può portare una persona all'ergastolo. Se non sono stati loro a scriverle a modo, se sono i familiari di Sarah e la badante a ricordare male, sono comunque da criticare perché le hanno accettate senza verificarle, senza tener presente che le tre testimonianze sono identiche. E questo è un particolare che farebbe storcere il naso ad un qualsiasi buon carabiniere perché testimonianze del genere le portano solo testi accordatisi in precedenza. Ma lasciamo stare l'identicità delle parole e vediamole nel dettaglio. Avrete notato che dalle testimonianze ho tolto "il fumo", quello che aveva il compito di andare negli occhi e non far notare il punto debole. Ma andiamo con ordine. I testi, dopo aver dichiarato per più di un mese che Sarah aveva detto che aspettava un messaggio e che non appena "Sabrina si fosse sbrigata" sarebbe andata con lei al mare, dopo aver detto che quando Sarah uscì di casa stavano pranzando, cambiano, o qualcuno li fa cambiare con convincimenti automatici e cronologicamente intuitivi (lo stesso procedimento usato nel caso di Melania Rea col Ranelli), il senso di due frasi e queste portano a modificare il tutto e trasformano un alibi in un atto di accusa. La prima frase diventata fumo nasce da questa: "Mi ha detto che aspettava un messaggio da...", modificata in: "Mi ha detto che le era arrivato un messaggio da...". Altro fumo nasce da questa: "Quando Sarah è uscita stavamo pranzando...", cambiata in: "All'uscita di Sarah l'acqua ancora non bolliva...". A questo punto occorre tenere in considerazione che prima del cambio effettivo delle testimonianze sono passati 96 giorni per Concetta, 110 per la badante e 117 per il padre. Occorre tenere in considerazione le tante ricostruzioni che tutti e tre hanno di certo fatto più volte al giorno in quel periodo (coi giornalisti, coi familiari, coi vicini, con gli amici ed i fratelli di chiesa), ricostruzioni che non aiutano a stabilizzare un ricordo ma lo confondono. Detto questo concentriamoci sulle parole trascritte in quei verbali considerando anche l'altro testimone che cambia versione in quel periodo, il Petarra. Lui dichiara di aver visto Sarah alle 13.55 circa, quindi un minuto dopo l'uscita di casa della ragazzina. Ora facciamo esattamente come ha fatto la procura con Concetta ma, tolto il "fumo dagli occhi", cerchiamo di stabilire quanto in procura si vuole resti nascosto, cerchiamo di stabilire ciò che è avvenuto in casa Scazzi dopo l'uscita di Sarah. L'interesse ha portato gli inquirenti a cercare di far partire Sarah prima delle 14.28/30, così da poter essere uccisa dalla cugina altrimenti innocente, ed allora ammettiamo sia vero ed uniamo gli orari antecedenti alla sua uscita con quelli successivi. Se tutto concorda hanno ragione i Pm e la Misseri deve marcire in galera, se al contrario gli orari non tornano anche in quel di Taranto c'è qualcosa che non torna, qualcosa da verificare al meglio, e la Misseri non ha ammazzato nessuno.  Partiamo con "la prova del nove" basandoci su una sequenza cronologica intuitiva, esattamente come fatto dai procuratori. Quindi ripartiamo da dove eravamo rimasti, e cioè che alle 13.55 l'acqua per la pasta ancora non bolle. Diciamo allora che gli spaghetti sono stati messi a cuocere sulle 14.00. Undici minuti per la cottura, qualche altro minuto per scolarli e condirli e chi è in quella casa inizia a mangiare fra le 14.15 e le 14.20. In base a questo le fettine di carne vanno in padella fra le 14.25 e le 14.30 ed arrivano in tavola fra le 14.35 e le 14.40 assieme all'insalata che, si presume, è stata preparata durante la cottura. Vogliamo dare a queste tre persone una decina di minuti o li vogliamo far ingozzare? Ed allora è fra le 14.45 e le 14.50 che, finita la carne, si mangia la frutta, forse una fetta di cocomero. Motivo per cui la tavola viene sparecchiata, a star stretti, fra le 14.50 e le 14.55... e non s'è preso il caffè perché in caso contrario il tempo si allunga ulteriormente. A questo punto si lavano i piatti e si pulisce la cucina. Facciamo un rapido calcolo. Ci sono da lavare e da asciugare minimo sei piatti, tre bicchieri, una padella, uno scolapasta, una pentola, qualche forchetta e qualche coltello, oltre al forno che s'è unto e tante altre piccole cose da rimettere a posto che portano via tempo. Diciamo quindi che Concetta si ritira in camera sua in un orario desumibile che va dalle 15.05 alle 15.10. E solo qualche minuto dopo arrivano Sabrina e Mariangela. Avete notato che vi hanno gettato del fumo sugli occhi impedendovi una visione reale? Avete notato che dando ascolto alla ricostruzione voluta e sistemata a modo la cugina di Sarah sarebbe arrivata per la prima volta a casa Scazzi in un orario compreso fra le 15.10 e le 15.15... quando in verità è provato che Sabrina Misseri è partita da via Deledda, assieme a Mariangela Spagnoletti, alle 14.42 ed è giunta a casa Scazzi prima delle 14.50? Ed infatti nel cellulare di Concetta Serrano ci sono le tre chiamate inviatele da Sabrina Misseri durante il percorso, l'ultima alle 14.49. Ora ditemi che ancora credete a quanto vi porta la procura per farvi andare dalla loro parte. Ditemelo se volete, ma prima considerate che il tempo che ho stimato per far mangiare i tre testimoni supera di poco i quindici minuti, cinque per la pasta e poco più di dieci per il secondo l'insalata e la frutta (e con questo tempo non si mastica e la digestione diventa lunga e complicata). Prima di dirmelo considerate che il resto dei minuti usati sono "tecnici", far bollire l'acqua, cuocere e condire la pasta, cuocere le fettine, lavare piatti bicchieri e quant'altro nonché pulire la cucina ecc. Prima di dirmelo tenete presente che non ho considerato la telefonata ricevuta dalla Pantir mentre stava mangiando, che non ho calcolato il tempo da lei perso per andare in terrazzo a rispondere, che non ho considerato alcun dialogo fra i tre. Prima di dirmelo munitevi di un orologio e sistemate l'orario alle 13.55, prendete una pentola e fate bollire l'acqua, cuocete gli spaghetti per tre adulti e conditeli. Prima di dirmelo metteteli in tre piatti e mangiatene uno (senza fare il bis), poi prendete una padella, fatela scaldare con un filo d'olio, cucinate le fettine per tre persone (se avete fatto sforzi pulendo e lavorando, come accaduto dagli Scazzi quel giorno, forse dovrete cucinarne qualcuna in più ed una sola cottura non basterà) e preparate l'insalata. Prima di dirmelo servite la carne, mangiatene e dopo questa mangiate anche una mela o una fetta di cocomero. Prima di dirmelo sparecchiate, lavate i piatti e fatevi aiutare a pulire la cucina il lavello e tutto il resto. Prima di dirmelo una volta arrivati in camera guardate l'orologio ed aggiungeteci altri tre o quattro minuti... Però non fate i furbi, non mangiate alla Fantozzi perché a casa di Concetta Serrano quel giorno, almeno a pranzo, non c'era motivo per correre ed ingozzarsi dato che poi ci si andava a riposare.

LE MOTIVAZIONI DELLE CONDANNE…..11 MESI DOPO.

Taranto lunedì sera 11 marzo 2014. Undici mesi dopo la sentenza di primo grado, i giudici della Corte di Assise di Taranto hanno depositato le motivazioni della condanna  all'ergastolo per Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, ritenute responsabili dell'omicidio della 15enne.

Undici mesi dopo la sentenza di primo grado (emessa il 20 aprile 2013), la Corte di Assise di Taranto ha depositato le motivazioni della condanna alla pena dell’ergastolo di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano, ritenute responsabili dell’omicidio della 15enne Sarah Scazzi. Il deposito delle 1.631 pagine della motivazione è avvenuto nel tardo pomeriggio di oggi da parte del presidente della Corte di assise di Taranto, Cesarina Trunfio. Sarah Scazzi fu strangolata il 26 agosto 2010 ad Avetrana (Taranto) e il suo corpo fu gettato in un pozzo-cisterna nelle campagne del paese, dove venne trovato la notte tra il 6 e il 7 ottobre 2010. Per il delitto, furono condannate complessivamente nove persone: otto anni di reclusione, per soppressione di cadavere, furono inflitti a Michele Misseri, papà di Sabrina e marito di Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della vittima.

La sentenza di primo grado sul processo per il delitto di Sarah Scazzi è stata scritta: Sabrina Misseri e Cosima Serrano sono state riconosciute colpevoli di omicidio e per questo dovranno scontare il carcere a vita. Alla parola «ergastolo» Sabrina, come sempre vestita di nero, è scoppiata in lacrime; mamma Cosima, invece, è rimasta impassibile, in silenzio. Era il 20 aprile del 2013. Non era stato facile arrivare a quell’epilogo: entrambe le imputate non hanno mai mostrato un segno di cedimento e si sono dichiarate sempre estranee all'omicidio di cui, invece, si è autoaccusato, più e più volte soprattutto a favor di telecamera, Michele Misseri.

11 mesi dopo, i giudici della Corte di Assise di Taranto hanno depositato le motivazioni della sentenza. Argomenti, prove e indizi che hanno convinto la Corte di Assise della colpevolezza delle due donne di casa Misseri, contenuti in poco più di 1.600 pagine, consegnate ieri sera in cancelleria. Che cosa accadde realmente quel pomeriggio del  26 agosto del 2010 quando a perdere la vita fu una ragazzina di soli 15 anni convinta di dover andare al mare con le amiche? Si chiede "Lecce News". In sostanza niente di più e niente di meno della ricostruzione del terribile delitto fatta dai pm Pietro Argentino e Mariano Buccoliero. Innanzitutto l’alibi «falso»  fornito Sabrina Misseri in relazione ai frangenti in cui Sarah Scazzi è stata uccisa, come confermato dagli sms non veritieri che la stessa aveva inviato dal telefonino della cugina. E poi la non attendibilità del contadino di Avetrana che più volte ha cercato, invano, di addossarsi la colpa del delitto. «Non sussiste – si legge- alcun ragionevole motivo per il quale Michele Misseri avrebbe dovuto accusare ingiustamente, provocandone la sua carcerazione, proprio la figlia prediletta Sabrina e non altri soggetti».  Lo Zio Michele «non avrebbe retto il peso della verità» come dimostrerebbe il soliloquio intercettato in auto del 5 ottobre 2010. Le due donne sono nel carcere di Taranto, nella stessa cella. Sabrina sta molto male e per questo i suoi legali avevano fatto una richiesta di scarcerazione rigettata prima dalla corte di Assise di Taranto e poi dall’appello. Il mancato deposito (avvenuto stasera, 11 mesi dopo la condanna) delle motivazioni della sentenza che ha inflitto l’ergastolo a Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi, due mesi fa aveva indotto i legali di Sabrina a chiedere la scarcerazione della giovane. La richiesta è stata però rigettata prima dalla Corte d’assise, poi dal Tribunale del Riesame che hanno ravvisato a carico dell’indagata il pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento probatorio. Nell’istanza i difensori della giovane, Franco Coppi e Nicola Marseglia, sottolineavano nel gennaio scorso che i nove mesi trascorsi invano per il deposito delle motivazioni della sentenza "sono un periodo contrario ad ogni principio giuridico". I legali rilevavano inoltre che Sabrina "non ha la personalità, i mezzi, l’attitudine e la capacità di darsi alla fuga, di inquinare la prova, di commettere un qualsiasi reato" e che la giovane è "da tempo sottoposta ad osservazione psichiatrica in conseguenza dell’oggettivo stato depressivo nel quale versa". Sabrina Misseri ha riferito un «falso alibi» in relazione ai frangenti in cui Sarah Scazzi è stata uccisa, come confermato dagli sms non veritieri che la stessa Sabrina ha inviato dal telefonino della cugina. Lo scrive la Corte di Assise di Taranto nelle motivazioni della sentenza sul delitto di Avetrana depositate. Sarah Scazzi fu strangolata il 26 agosto 2010 ad Avetrana (Taranto) e il suo corpo fu gettato in un pozzo-cisterna nelle campagne del paese, dove venne trovato la notte tra il 6 e il 7 ottobre 2010. Per il delitto, furono condannate complessivamente nove persone: otto anni di reclusione, per soppressione di cadavere, furono inflitti a Michele Misseri, papà di Sabrina e marito di Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della vittima. Dal soliloquio intercettato in auto del 5 ottobre 2010 si evince che «Michele Misseri non è più in grado di reggere il peso di ciò che egli sa essere accaduto», cioè che la figlia Sabrina ha ucciso la cugina Sarah Scazzi. «Non sussiste - scrive la Corte - alcun ragionevole motivo per il quale Michele Misseri avrebbe dovuto accusare ingiustamente, provocandone la sua carcerazione, proprio la figlia prediletta Sabrina e non altri soggetti».

Sarah Scazzi venne strangolata in casa Misseri da Sabrina e Cosima con una cintura. Lo scrive la Corte di Assise di Taranto nelle motivazioni della sentenza con le quali le due donne sono state condannate all’ergastolo, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. "Non vi sono elementi probatori - scrive in proposito la Corte – che avvalorino l’ipotesi che Sarah sia stata uccisa (strangolata) in auto. Le evidenze probatorie, se valutate unitamente ai comportamenti  post-delictum, fanno ragionevolmente ritenere che le imputate, dopo aver riportato la ragazza presso la loro abitazione, dove evidentemente si rinfocolava la lite, ivi l’abbiano strangolata con una cintura, secondo gli esiti dei rilievi autoptici del consulente Strada". Agli inquirenti che hanno indagato sull'uccisione di Sarah Scazzi, la cugina Sabrina Misseri ha riferito un "falso alibi", mentre Michele Misseri, papà di Sabrina, non aveva alcun motivo per incolpare ingiustamente del delitto la figlia, così come dal soliloquio dell’uomo intercettato in auto il 5 ottobre 2010 si deduce che l'agricoltore di Avetrana (Taranto) non riusciva a reggere il peso della verità, cioè che la figlia aveva ucciso Sarah. Michele Misseri è stato poi condannato a otto anni di reclusione per soppressione di cadavere, reato quest’ultimo riconosciuto anche alle due donne. Le 1.631 pagine che custodiscono le motivazioni della sentenza, scritta dal presidente della Corte, Cesarina Trunfio, sono suddivise analiticamente in sezioni, dagli accertamenti degli investigatori quando fu denunciata la scomparsa di Sarah (26 agosto 2010, data anche del delitto) alle dichiarazioni di testimoni e persone informate su fatti, alla ricostruzione del delitto e delle responsabilità sulla base degli elementi raccolti e inseriti in un mosaico complessivo. L’alibi di Sabrina, per la Corte di Assise, non regge, anzi la giovane estetista ne ha costruito uno falso: falsi sono, in quel primo pomeriggio del 26 agosto 2010, gli sms inviati al cellulare di Sarah perchè la cugina quindicenne era stata già uccisa nella villetta di via Deledda; realizzato ad arte, per lo stesso  motivo, è lo squillo che parte dal telefonino di Sarah verso quello di Sabrina. Dal canto suo Michele Misseri, papà di Sabrina, non è credibile – secondo la Corte – quando ritratta la chiamata in correità della figlia, accuse che formulò in un drammatico interrogatorio del 15 ottobre 2010 nella caserma dei carabinieri a Manduria e che poi confermò in incidente probatorio un mese dopo, il 19 novembre. "Non sussiste alcun ragionevole motivo - scrive la Corte – per il quale Michele Misseri avrebbe dovuto accusare ingiustamente, provocandone la sua carcerazione, proprio la figlia prediletta Sabrina e non altri soggetti". Lo stesso Michele Misseri che, in un soliloquio intercettato nella sua auto il 5 ottobre 2010, quasi preannuncia con la frase "li scoprirò" quella chiamata in correità della figlia nel delitto, che avverrà una decina di giorni dopo. Dal soliloquio si evince che "Michele Misseri non è più in grado di reggere il peso di ciò che egli sa essere accaduto", cioè che la figlia Sabrina ha ucciso la cugina Sarah Scazzi, scrive ancora la Corte di Assise di Taranto. I difensori dei nove imputati condannati in primo grado, a cominciare dai legali di Sabrina e Cosima alle quali è stato inflitto l’ergastolo, avranno 45 giorni di tempo dal momento della notifica delle motivazioni della sentenza per proporre appello. Madre e figlia continuano a rimanere detenute nella stessa cella del carcere di Taranto: Sabrina è lì dal 15 ottobre 2010, quando il padre la tirò in ballo nella ricostruzione del delitto; Cosima è reclusa dal maggio 2011. Per i suoi legali, Sabrina è da tempo in un profondo stato depressivo, motivo per cui nelle scorse settimane era stata chiesta la sua scarcerazione o, in subordine, gli arresti domiciliari, anche perchè, dopo 11 mesi, non erano state ancora depositate le motivazioni della sentenza di primo grado. Istanza che era stata rigettata sia dalla Corte d’Assise che dai giudici del Riesame. Ora tocca al collegio difensivo trovare eventuali falle nelle motivazioni della Corte di Assise per convincere i giudici in appello che ad uccidere Sarah, innanzitutto, non furono Sabrina e Cosima.  Sarah Scazzi venne strangolata in casa Misseri da Sabrina e Cosima con una cintura. "Non vi sono elementi probatori - scrive in proposito la Corte – che avvalorino l’ipotesi che Sarah sia stata uccisa (strangolata) in auto. Le evidenze probatorie, se valutate unitamente ai comportamenti post-delictum, fanno ragionevolmente ritenere che le imputate, dopo aver riportato la ragazza presso la loro abitazione, dove evidentemente si rinfocolava la lite, ivi l’abbiano strangolata con una cintura, secondo gli esiti dei rilievi autoptici del consulente Strada". Sabrina aveva un movente per commettere il delitto", un movente che "non può essere riduttivamente ascritto alla 'gelosià". Alla gelosia "va considerata - scrive la Corte – la parallela incidenza, ancor più nel caso di una situazione configurabile come delitto d’impeto, del groviglio di concorrenti sentimenti e tensioni, anche da altre cause originati", in cui la gelosia "s'innestò in un determinato momento della vita dell’imputata, caricandosi ulteriormente di rabbia e rancore destinati ad esplodere, alla prima occasione, in danno della cugina Sarah, rea di aver determinato la rottura con il Russo (Ivano, ragazzo di cui le due cugine si erano invaghite, ndr), in quel contesto temporale ritenuta irreversibile". Il tutto "nell’ambito di un profilo caratteriale connotato da accenti di irruenza e aggressività". La soppressione del cadavere di Sarah Scazzi avvenne con "l'accordo iniziale di tutti i componenti della famiglia Misseri". Subito dopo la morte della Scazzi - scrive la Corte – tutti e tre i componenti del nucleo familiare interloquirono sul da farsi; Michele Misseri, unica persona, peraltro, che avrebbe potuto provvedere ad allontanare immediatamente il cadavere di Sarah, quale atto più urgente, ritenne di accondiscendere alla richiesta proveniente dalle autrici del delitto. Nell’occasione lo stesso Misseri assicurò a moglie e figlia, anche in questo caso accedendo ad una specifica loro richiesta, che avrebbe distrutto tutto e fatto sparire ogni traccia di Sarah".

“Sabrina Misseri condannata perché l’alibi era falso”. Le motivazioni della sentenza sul delitto di Avetrana depositate a quasi un anno di distanza dalla condanna: Michele non poteva sopportare il peso della verità, scrive “La Stampa”. Sarah Scazzi venne strangolata in casa Misseri da Sabrina e sua madre Cosima con una cintura. Sabrina «aveva un movente per commettere il delitto», un movente che «non può essere riduttivamente ascritto alla `gelosia´», pur se il tutto va inserito «nell’ambito di un profilo caratteriale connotato da accenti di irruenza e aggressività». Inoltre la soppressione del cadavere di Sarah avvenne con «l’accordo iniziale di tutti i componenti della famiglia Misseri». Sono alcuni punti fermi delle motivazioni, depositate ieri in cancelleria, con le quali la Corte di Assise di Taranto, il 20 aprile dello scorso anno, ha condannato all’ergastolo per quel delitto Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, infliggendo otto anni di reclusione a Michele Misseri per soppressione di cadavere, reato quest’ultimo riconosciuto anche alle due donne (in tutto ci furono nove condanne, anche per reati minori). Le 1.631 pagine che custodiscono le motivazioni della sentenza, scritta dal presidente della Corte, Cesarina Trunfio, sono suddivise analiticamente in sezioni, dagli accertamenti degli investigatori quando fu denunciata la scomparsa di Sarah (26 agosto 2010, data anche del delitto) alle dichiarazioni di testimoni e persone informate su fatti, alla ricostruzione del delitto e delle responsabilità sulla base degli elementi raccolti e inseriti in un mosaico complessivo. Secondo la Corte, agli inquirenti che hanno indagato sull’uccisione di Sarah Scazzi, la cugina Sabrina Misseri ha riferito un «falso alibi», mentre Michele Misseri, papà di Sabrina, non aveva alcun motivo per incolpare ingiustamente del delitto la figlia, così come dal soliloquio dell’uomo intercettato in auto il 5 ottobre 2010 si deduce che l’agricoltore di Avetrana (Taranto) non riusciva a reggere il peso della verità, cioè che la figlia aveva ucciso Sarah. L’alibi di Sabrina, per la Corte di Assise, non convince, anzi la giovane estetista ne ha costruito uno falso: falsi sono, in quel primo pomeriggio del 26 agosto 2010, gli sms inviati al cellulare di Sarah perché la cugina quindicenne era stata già uccisa nella villetta di via Deledda; realizzato ad arte, per lo stesso motivo, è lo squillo che parte dal telefonino di Sarah verso quello di Sabrina. Dal canto suo Michele Misseri non è credibile - secondo la Corte - quando ritratta la chiamata in correità della figlia, accuse che formulò in un drammatico interrogatorio del 15 ottobre 2010 nella caserma dei carabinieri a Manduria e che poi confermò in incidente probatorio un mese dopo, il 19 novembre. «Non sussiste alcun ragionevole motivo - scrive la Corte - per il quale Michele Misseri avrebbe dovuto accusare ingiustamente, provocandone la sua carcerazione, proprio la figlia prediletta Sabrina e non altri soggetti». Lo stesso Michele Misseri che, in un soliloquio intercettato nella sua auto il 5 ottobre 2010, quasi preannuncia con la frase «li scoprirò» quella chiamata in correità della figlia nel delitto, che avverrà una decina di giorni dopo. Dal soliloquio si evince che «Michele Misseri non è più in grado di reggere il peso di ciò che egli sa essere accaduto», cioè che la figlia Sabrina ha ucciso la cugina Sarah Scazzi, scrive ancora la Corte di Assise di Taranto. I difensori dei nove imputati condannati in primo grado, a cominciare dai legali di Sabrina e Cosima alle quali è stato inflitto l’ergastolo, avranno 45 giorni di tempo dal momento della notifica delle motivazioni della sentenza per proporre appello. Madre e figlia continuano a rimanere detenute nella stessa cella del carcere di Taranto: Sabrina è lì dal 15 ottobre 2010, quando il padre la tirò in ballo nella ricostruzione del delitto; Cosima è reclusa dal maggio 2011. Ora tocca al collegio difensivo trovare eventuali falle nelle motivazioni della Corte di Assise per convincere i giudici in appello che ad uccidere Sarah, innanzitutto, non furono Sabrina e Cosima.

Processo Misseri, l’ergastolo a Sabrina e Cosima spiegato in 1600 pagine. Depositata la motivazione della sentenza nel procedimento che riguarda la morte di Sarah Scazzi. La difesa: «curioso che ne servano così tante per dimostrarne la colpevolezza». Le due donne ora nel carcere di Taranto, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. Depositata la motivazione della sentenza del processo Misseri pronunciata quasi dieci mesi fa, il 20 aprile del 2013. Sono 1600 pagine per spiegare l’ergastolo a Sabrina Misseri e a sua madre Cosima. Otto anni invece la condanna a Michele Misseri che continua a ripetere di essere il solo responsabile della morte della piccola Sarah, sua nipote. Un tempo lunghissimo, come fanno notare gli avvocati difensori. Franco Coppi, a fianco di Sabrina Misseri insieme all’avvocato Nicola Marseglia, è «molto curioso di leggere queste 1600 pagine spese per dimostrare la colpevolezza di una ragazza che io ritengo innocente. 1600 pagine mi sembrano tante per dimostrare la colpevolezza di una persona». Il professor Coppi fa notare come a fronte di «11 mesi la legge dà alla difesa solo 45 giorni per leggere e scrivere un atto di appello». Cosima Serrano ha maturato nel tempo «un "autonomo" risentimento» verso la nipote Sarah Scazzi, che «s'innestava in un sostrato di rancori famigliari», creando «un personale movente della donna» sfociato nell'uccisione della nipote quindicenne. Lo scrive la Corte di Assise di Taranto motivando la condanna all'ergastolo di Cosima Serrano. Il «movente personale» creatosi in Cosima Serrano «affiancatosi a quello della figlia (Sabrina, ndr) - scrive ancora la Corte di Assise - nella condivisione del malanimo verso Sarah, l'avrebbe portata all'impeto finale, vedendola perseguire, nei momenti topici, lo stesso obiettivo di Sabrina Misseri: la morte della Scazzi». Anche Sabrina Misseri, come la madre Cosima, è stata condannata all'ergastolo. La Corte aggiunge che «la reazione omicida della Serrano non è premeditata, come non lo è da parte di Sabrina Misseri. Sarah è ricondotta a casa Misseri non già con il fine di ucciderla, ma per calmarla e convincerla al silenzio». Fu di Cosima la decisione di sequestrare Sarah. Secondo la Corte l''iniziativa di "sequestrare" Sarah, costringendola a salire a bordo della sua auto, è «sicuramente ascrivibile» a Cosima Serrano. Fu quest'ultima «con la sua autorità di zia, e non già Sabrina Misseri, a intimare a Sarah di salire a bordo dell'auto». La Corte aggiunge che «la presenza di Cosima Serrano col ruolo di indiscussa protagonista, nella fase antecedente all'omicidio, caratterizzata da una condotta violenta e/o minacciosa volta a privare Sarah Scazzi della sua libertà personale, esclude, dal punto di vista logico, che, una volta avvenuta la forzata riconduzione della nipote in casa Misseri, la Serrano si potesse disinteressare della questione». Di conseguenza, non è possibile che Cosima lasciasse «Sarah da sola con Sabrina mettendosi tranquillamente nel letto a riposare». Non ci sono «spiegazioni alternative» rispetto a quelle della «partecipazione al grave fatto delittuoso», ovvero all'uccisione di Sarah Scazzi, di Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri: è quanto scrive la Corte di Assise di Taranto nelle motivazioni. La Corte spiega che non sono noti i precisi contorni della discussione in casa Misseri che avrebbe preceduto il delitto «e neppure è indispensabile accertarli ai fini del giudizio di responsabilità, una volta che si disponga di punti fermi e probatoriamente verificati». I «punti fermi», vedono «Sabrina Misseri e Cosima Serrano insieme a Sarah pochi minuti prima della sua morte (in occasione del sequestro) ed evidenziano i comportamenti susseguenti alla sua fine in termini che - conclude in proposito la Corte - non consentono spiegazioni alternative rispetto a quelle della partecipazione al grave fatto delittuoso».

Anche Franco De Iaco riflette sulle motivazioni «fiume»: «Milleseicento pagine dimostrano la difficoltà di dimostrare un assunto onirico. Perché ricordiamo la colpevolezza di Cosima è legata a un sogno. E il sognatore (il fioraio di Avetrana Giovanni Buccolieri) ha sempre confermato che fosse un sogno come così gli altri testi interrogati sulla circostanza e per i quali è stata chiesta la rimessione degli atti per falsa testimonianza all’ufficio del pubblico ministero. Noi abbiamo 45 giorni per rispondere contro i 300 e passa giorni utilizzati dalla corte di Assisi per redigere le loro motivazioni». Le due donne sono nel carcere di Taranto, nella stessa cella. Sabrina sta molto male e per questo i suoi legali avevano fatto una richiesta di scarcerazione rigettata prima dalla corte di Assise di Taranto e poi dall’appello. Secondo i giudici di appello Sabrina potrebbe reiterare il reato, fuggire ed inquinare le prove . Sta male? Secondo l’appello non è stata presentata alcuna documentazione clinica sullo stato di salute della Misseri. Nessun dubbio neanche alla luce di quanto scritto nella richiesta dalla difesa della ragazza. ossia che la domanda della difesa alla casa circondariale di Taranto per ricevere copia del diario clinico della ragazza non ha ha avuto esito. Quindi, fanno notare i giudici «l’assunto della difesa è meramente assertivo poiché non è stata provata documentalmente neanche la richiesta di rilascio della copia del diario clinico carcerario della Misseri». Nessuna possibilità, quindi per Sabrina Misseri di aspettare una sentenza definitiva libera e nemmeno agli arresti domiciliari. I termini della carcerazione preventiva scadranno per lei ad ottobre. È quindi molto probabile che il processo di Appello si tenga questa estate. 

Delitto Scazzi, Valentina Misseri: «Sabrina sta malissimo». La sorella:«In cella da innocente, il vero colpevole è mio padre». A pochi giorni dalle motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Taranto, il delitto di Avetrana torna alla ribalta della scena. A portare sugli schermi di Quarto Grado, su Retequattro, il 14 marzo 2014, nuove rivelazioni è stata Valentina Misseri, sorella di Sabrina condannata all'ergastolo con la madre Cosima Serrano per il delitto di Sarah Scazzi. In studio a commentare il caso c’è parterre di colpevolisti, giusto per dire come si fa informazione. Sono presenti l’avv. Carlo Taormina, l’avvocato degli Scazzi, Nicodemo Gentile, i giornalisti Carmelo Abbate e Barbara Palombelli, il criminologo e psichiatra Alessandro Meluzzi, da sempre unico fautore in studio della tesi innocentista, ed il medico legale Dalila Ranaletta.  «Mia sorella sta malissimo. Mi scrive che è come stare in un incubo e che ha bisogno di cure psichiatriche e restare in carcere da innocente è la cosa peggiore che può capitare ad un essere umano», ha raccontato Valentina in un'intervista che va in onda la sera del 14 marzo, «in una lettera mi dice anche che una parte di lei è andata via insieme a Sarah e che avrebbe voluto essere al suo posto».Per la sorella di Sabrina «nella mia famiglia non ci sono buchi neri, il buco è nella giustizia capace di condannare persone innocenti». L'accusa è tutta per il padre, Michele Misseri, «Il buco nero c'è stato nella mente di mio padre quando ha ucciso Sarah e quando ha incolpato mia sorella. Sono convintissima dell'innocenza di Sabrina. È stato per forza mio padre: per come me lo dice, per come lo conosco, so che sta dicendo la verità». Riferendosi ad un aspetto del movente del delitto indicato nelle motivazioni della sentenza di primo grado, secondo cui Sarah avrebbe saputo qualcosa che avrebbe potuto screditare la famiglia Misseri, Valentina ha poi affermato nell'intervista che «non c'era nulla di inconfessabile, assolutamente nulla. Non c'era nulla da nascondere».Ho sentito, ha aggiunto «addirittura parlare della stanza dove mia sorella lavorava come estetista, dove ci sarebbero stati dei rapporti intimi con Ivano. In realtà lì lei faceva solo dei massaggi. E poi, di solito c'era anche mia madre in casa e, visto che la descrivono come una bigotta, non penso le permettesse di stare da sola in camera». Per la sorella di Sabrina non c'era alcun segreto da tenere nascosto. «I giudici dicono che non si possono conoscere i contorni della discussione che sarebbe avvenuta in casa tra Sabrina, mia madre e Sarah. Allora come possono dire che c'è stata questa discussione, se poi non sono neppure riusciti ad argomentarla?». Valentina ha ammesso inoltre che c'era «un rapporto conflittuale» tra la madre e Sabrina «per una questione di caratteri, ma non perché si odiassero, come hanno scritto», aggiungendo, a proposito della sua deposizione al processo, che «quando in aula parlavo della mia preoccupazione per gli atteggiamenti di Sarah, mi riferivo alla reputazione di mia cugina e non della mia famiglia». Infine, sulla intercettazione in cui al telefono Cosima le ha detto «è successo in casa, il fatto è successo a casa nostra, è tutto contro di noi», Valentina ha risposto: «Sinceramente non me la ricordo. Evidentemente non ho dato importanza a questa frase, anche perché mio padre e mia sorella erano in carcere. Comunque era già evidente che per l'accusa, il delitto si riferiva alla nostra famiglia. Mia madre quando parla di casa si riferisce a tutta l'abitazione, cantina compresa. Quindi non ci ho visto nulla di strano».

Vergogna, frustrazione, rabbia sono i sentimenti che avrebbero spinto Sabrina Misseri ad uccidere Sarah Scazzi (depositaria di alcuni misteriosi segreti di famiglia) con la complicità della mamma Cosima. Per la prima volta, parla Valentina Misseri: Mia sorella sta malissimo. Mi scrive che è come stare in un incubo e che ha bisogno di cure psichiatriche e restare in carcere da innocente è la cosa peggiore che può capitare ad un essere umano. In una lettera mi dice anche che “una parte di lei è andata via insieme a Sarah” e che avrebbe voluto “essere al suo posto”. Nella mia famiglia non ci sono buchi neri. Il buco è nella giustizia capace di condannare persone innocenti. Il buco nero c’è stato nella mente di mio padre quando ha ucciso Sarah e quando ha incolpato mia sorella. Sono convintissima dell’innocenza di Sabrina. È stato per forza mio padre: per come me lo dice, per come lo conosco, so che sta dicendo la verità. Riferendosi al movente descritto nelle motivazioni della sentenza di primo grado, secondo cui Sarah avrebbe saputo qualcosa che avrebbe potuto screditare la famiglia Misseri, Valentina afferma con decisione: Non c’era nulla di inconfessabile, assolutamente nulla. Non c’era nulla da nascondere. Ho sentito addirittura parlare della stanza dove mia sorella lavorava come estetista, dove ci sarebbero stati dei rapporti intimi con Ivano. In realtà lì lei faceva solo dei massaggi. E poi, di solito c’era anche mia madre in casa e, visto che la descrivono come una bigotta, non penso le permettesse di stare da sola in camera. Non c’è assolutamente nessun segreto. Il nulla più totale, i giudici dicono che non si possono conoscere i contorni della discussione che sarebbe avvenuta in casa tra Sabrina, mia madre e Sarah. Allora come possono dire che c’è stata questa discussione, se poi non sono neppure riusciti ad argomentarla? C’era un rapporto conflittuale tra mia mamma e Sabrina per una questione di caratteri, ma non perché si odiassero, come hanno scritto. Come è possibile che se si odiassero così tanto e poi abbiano ucciso insieme Sarah, per evitare il discredito a Sabrina? Qui procederebbero in simbiosi, andrebbero d’amore e d’accordo per uccidere Sarah. Quando in aula parlavo della mia preoccupazione per gli atteggiamenti di Sarah, mi riferivo alla reputazione di mia cugina e non della mia famiglia», spiega Valentina. «Non mi riferivo a quanto mia madre potesse dare importanza alla reputazione della mia famiglia. Questa è stata deduzione dei giudici, non l’ho detto io. Non le è mai interessato il parere degli altri. Ad esempio: quando io e lei litigavamo, le dicevo di abbassare la voce ma a lei non fregava niente. Valentina Misseri commenta, infine, l’intercettazione considerata dirimente dai giudici, nella quale al telefono Cosima le dice: “È successo in casa, il fatto è successo a casa nostra, è tutto contro di noi”: Sinceramente non me la ricordo. Evidentemente non ho dato importanza a questa frase, anche perché mio padre e mia sorella erano in carcere. Comunque era già evidente che per l’accusa, il delitto si riferiva alla nostra famiglia. Mia madre quando parla di casa si riferisce a tutta l’abitazione, cantina compresa. Quindi non ci ho visto nulla di strano.

In seguito alla pubblicazione tardive delle motivazioni i talk show si sono scatenati. Ai Fatti Vostri del 24 marzo 2014 è invitata l’avv. Francesca Conte, già difensore dimissionario di Sabrina Misseri e l’avv.  Daniele Galoppa già difensore revocato di Michele Misseri, moderatore ed intervistatore Giancarlo Magalli. La prima senza alcun interesse, se non quello di denigrare chi ha agevolato la sua estromissione e da buon avvocato di sviolinare lodi a favore dei magistrati; il secondo con il chiaro intento di difendere il suo operato, ombrato dall’accusa di aver indotto Michele a fornire una versione di comodo, incolpando Sabrina. Viene anticipata una clip con il punto della vicenda fatta da Filomena Rorro, notoriamente colpevolista ai danni di Sabrina e Cosima. Quella del “tu sei una cretina”, frase proferita da Michele Misseri. Clip introduttive che parla al passato o presente certo e non al condizionale, rispetto alle accuse confermate dalla Corte di primo grado. Questo sta ad indicare quale sia la piega dell’intervista.

Magalli: «Entrambi siete stati coinvolti nel processo. Galoppa è stato difensore di Michele…di zio Michele, all’inizio, poi i vostri rapporti si sono guastati, al punto che lei, addirittura, l’ha querelato ad un certo punto per quello che ha detto. Però lei all’inizio aveva assunto la difesa di Michele. Ha seguito il procedimento e ovviamente avrà letto con grande interesse le motivazioni che sono state pubblicate della sentenza. In pratica qualcosa abbiamo accennato della scheda. Sabrina avrebbe ucciso la cugina assieme alla zia. Per quale motivo? I giudici dicono che non è solo un fatto di gelosia. Ma allora di che si tratta?»

Galoppa: «Ma sicuramente le motivazioni della sentenza, al di là della corposità delle stesse, sono comunque esaustive dal punto di vista logico a mio modo di vedere. Si ricostruisce ciò che è avvenuto quel maledetto giorno. E lo si ricostruisce dal punto di vista logico, che poi non fa altro che andare a fare da collante ai diversi indizi che ci sono stati e naturalmente a tutte le versioni relative ai fatti che sono avvenuti, dati dai protagonisti della vicenda, in primis dal signor Misseri Michele, dove appunto lo stesso viene trattato inizialmente nella fase iniziale della sentenza. Nella stessa, appunto, si va a mettere uno dietro l’altro le sue versioni e si dà una spiegazione logica di quello che poteva essere avvenuto effettivamente e quello che assolutamente non poteva avvenire come era stato detto soprattutto all’inizio.»

Magalli: «Ecco, quindi, si è dato credito alla prima versione, soprattutto, alle prime versioni e si è, poi pensato, evidentemente hanno pensato i giudici, che le versioni successive, specialmente quelle in cui si è contraddetto, fossero state, in qualche modo, non del tutto frutto della sua volontà.»

Galoppa: «Se ricordiamo, inizialmente, aveva confessato l’omicidio in prima persona ed anche l’occultamento di cadavere, attribuendosi ogni tipo di responsabilità. Poi comunque la sentenza e il dispositivo ha invece un altro tenore nel momento in cui afferma che ad uccidere non sia stato lui, ma altri due soggetti, quelli della famiglia. Ma abbia compartecipato insieme agli stessi relativamente all’occultamento di cadavere. Ha avuto quello che è stato definito un percorso che è arrivato fino ad una versione bene o male attendibile relativamente all’incidente probatorio nel momento in cui ha attribuito la responsabilità maggiore alla figlia e poi comunque, per motivi che vengono ampiamente snocciolati all’interno delle motivazioni, ha fatto una marcia indietro e si è capito anche nelle motivazioni, perché è successo una cosa del genere.»

Magalli: «….Che poi ancora non è una cosa definitiva perché ancora oggi Misseri si professa colpevole.»

Galoppa: «Da quello che apprendo sì, naturalmente, col suo valore, col valore che può avere quello che dice.»

Magalli: «Avvocato Conte, lei è stata uno dei primi difensori di Sabrina Misseri, ha raccolto tra l’altro la sua versione iniziale dei fatti. Lei, dal suo punto di vista di legale ma anche umano, che impressioni ha avuto di questa ragazza?»

Conte: «L’impressione di quando l’ho conosciuta di una ragazza molto provata e smarrita dagli eventi, sicuramente più grandi di lei, in un processo che continua ad essere un processo indiziario, anche se come dico sempre le sentenze vanno rispettate. Il presidente relatore Rina Trunfio ha una penna che definire di diamante è dire poco, anche se secondo me un processo indiziario lascia molti spazi aperti al collegio difensivo che è un ottimo collegio difensivo peraltro.»

Magalli: «Qualcuno si sorprende perché da un processo indiziario può far scaturire un ergastolo però…

Conte: «Il nostro ordinamento è chiaro. Il 192 comma 3 parla della prova indiziaria e se gli indizi sono gravi, precisi e concordanti fanno prova, nel nostro ordinamento è così, questi sono processi o da ergastolo o da assoluzione per l’art. 530.»

Magalli: «Qua l’alternarsi delle versioni  all’inizio ha generato dubbi, sospetti, Michele si è accusato poi si è scagionato. Quando la primissima versione “io l’ho sepolta ma l’ho uccisa”, addirittura aveva confessato di aver abusato del cadavere, si è buttato del fango addosso non da poco, lei era ancora il suo difensore. Lei aveva la percezione che quell’uomo stesse mentendo perché indotto a mentire dalla paura o da qualcuno o le sembrava sincero?»

Galoppa: «Guardi, queste dichiarazioni che io ho fatto sin dall’inizio e che poi trovano conforto nelle motivazioni della Corte d’Assise e cioè è vero dell’impossibilità che quei fatti fossero accaduti così come sono stati raccontati all’inizio dal signor Misseri. Tra l’altro mi trovo a dovermi difendere da alcune diciamo così congetture nei miei confronti, perchè secondo loro io avrei premeditato tutto quanto. Quindi avrei premeditato una determinata strategia difensiva nel momento in cui dicevo che erano cose davvero assurde quelle che venivano riferite la sera del sette ottobre del  2010, momento in cui per la prima volta qualcuno si era dichiarato responsabile di quell’orrendo delitto. Poi comunque ci sono naturalmente i giudici che hanno messo a tacere, penso che lo continueranno a fare anche nei successivi gradi di giudizio, queste illazioni secondo le quali un’accusa così grave era davvero campata in aria e poi non ha avuto neppure riscontro di un minimo indizio che poi invece sembra, e io sono d’accordo con quello che è stato stabilito, sembra che in un’unica direzione, cioè quello della sentenza che poi ha visto la condanna.»

Conte: «Però guardi io la cosa che mi ha colpito, durante l’incidente probatorio a cui con il collega Daniele Galoppa abbiamo partecipato, io in qualità di difensore di Sabrina Misseri, è che anche laddove chiamava in reità la figlia in quella sede, il suo racconto è stato infarcito da contraddizioni tanto che ha costituito oggetto quel racconto di molte contestazioni in senso tecnico, per cui Michele Misseri sembra mentire da un punto di vista della logicità del racconto e della coerenza interna anche quando chiama in correità la figlia. Io se fossi stata nella Procura di Taranto lo avrei lasciato in concorso nell’omicidio fino all’ultimo. Non lo avrei graziato da questo punto di vista portandolo al processo solo per l’occultamento di cadavere, forse la verità sarebbe stata più fluida nel suo evolversi degli eventi.»

Magalli: «Abbiamo detto che Michele si è poi ribellato a questa ipotesi, ha ritrattato, si è addossato tutte le responsabilità, ha detto che il coinvolgimento della nipote e della moglie gli erano state in qualche modo estorte, addirittura, lo dicevo prima, ha accusato l’avvocato Galoppa e Roberta Bruzzone, la criminologa, di averlo indotto a tirare in ballo Sabrina per deresponsabilizzarsi

Galoppa: «Diciamo che c’è un processo per calunnia.»         

Magalli: «…E c’è, e l’ho detto prima, un processo per calunnia che sia lei che la dottoressa Bruzzone avete intentato contro Michele Misseri…. Beh, abbiamo capito che è stato un processo dove la conflittualità fra legali e clienti è stata alta, abbiamo visto l’avvocato che rimette il mandato, zio Michele che se la prende con lei e con la Bruzzone, anche Sabrina ha ricusato…»

Conte: «Guardi dottore, diciamo io per la prima volta in 30 anni di attività professionale mi son trovato in quella circostanza, c’era un avvocato che si chiamava Russo che aveva un atteggiamento molto poco professionale sinceramente, che mi ha colpita, per cui non accettava assolutamente di mettersi da parte. Ha fatto quello che ha fatto, non a caso è stato anche condannato a 2 anni. Quindi diciamo che la qualità dei difensori forse all’inizio di alcuni (forse riferito anche a Galoppa, ndr) non di tutti ovviamente non è stata all’altezza della gravità del caso, della delicatezza del caso, perché io sono convinta che se l’impostazione tecnico giuridica dall’inizio di questa vicenda fosse stata affidata ad avvocati, non dico titolati, ma avvocati che sapessero fare bene il proprio lavoro anche da un punto di vista etico, l’esito del processo non sarebbe stato questo, ne sono convinta. Ci sono stati atteggiamenti talmente temerari, talmente poco deontologici all’inizio di questa vicenda, che hanno scatenato letteralmente la legittima reazione della Procura di fronte a questo. Sono state occultate prove, ci sono stati depistaggi ad opera di alcuni difensori che hanno fatto la differenza, buttando anche disdoro su Fori importanti come quello di Taranto e quello di Lecce.»

Magalli: «In sostanza lei concorda con la sentenza oppure no?»

Conte: «Guardi, io le sentenze le rispetto, non concordo nella sentenza perché io sono convinta che dovendo esagerare ci si trovi di fronte ad un omicidio preterintenzionale, ma non  assolutamente omicidio volontario e questo trasuda da tutto il processo, però rispetto innanzi tutto per le parti offese e per la memoria della povera Sarah, rispetto per la Corte d’Assise che con la massima professionalità e terzietà ha fatto il processo, per gli imputati e per i loro difensori. Personalmente ritengo che ad esagerare ci si trovi di fronte ad un omicidio preterintenzionale.» 

Michele Misseri in una intervista destinata a essere trasmessa nella serata di venerdì 28 marzo 2014 a Quarto Grado, su Retequattro, è tornato a criticare la sentenza della corte d'Assise di Taranto che ha condannato sua figlia Sabrina e sua moglie Cosima per l'omicidio della nipote Sarah Scazzi. «Sono preoccupato per mia figlia. Sta male. Non ce la farà. Io cerco di resistere. Se Sabrina non reggerà fino alla Cassazione, nemmeno io ci sarò più sulla faccia della terra. Ho detto a mia figlia che se fosse stata un'assassina l'avrei aiutata, non l'avrei abbandonata. Ma in ogni caso, non mi sarei assunto la sua responsabilità e non l'avrei aiutata a seppellire un corpo».

Misseri, che dapprima aveva accusato la figlia e poi è tornato ad autoaccusarsi, è stato infatti condannato per l'occultamento del cadavere della giovane Scazzi e ora è tornato a chiedere per sé una nuova perizia psichiatrica. «Quel buco nero di cui hanno parlato, quel giorno io l'avevo in testa. Ho chiesto una perizia psichiatrica, ma non mi è stata concessa. Non ricordo come sia successo, quando ho messo la corda ... Sarah non mi aveva fatto niente. Perché l'ho uccisa? Nel prossimo grado di giudizio chiederò ancora una perizia psichiatrica: voglio sapere quel che ho in testa», ha dichiarato nell'intervista.

La giornalista Ilaria Cavo durante l'intervento ha sottolineato come per i giudici non è stato lui ad uccidere. «E davano a me il cellulare?», ha risposto Misseri. «Mi dicevano tienimi pure il cellulare che poi lo fai trovare? Non lo penso. L'avrebbero distrutto loro». «Per i giudici», ha continuato l'uomo, «sono credibile solo quando accuso Sabrina, perché gli fa comodo... perché secondo loro lei ha il movente».

Michele Misseri commenta il movente descritto nelle motivazioni della sentenza, depositate dalla Corte d’Assise di Taranto, secondo le quali Sarah Scazzi sarebbe stata uccisa perché venuta a conoscenza di un segreto indicibile della sua famiglia: «E chi siamo? La ‘ndrangheta? La più grossa malavita dell’Italia? Tutti ci hanno sempre descritto bene poi, tutto a un tratto, siamo diventati una ‘ndrangheta? Non c’era nessun segreto.»

Nell’intervista esclusiva rilasciata all’inviata Videonews Ilaria Cavo, lo zio di Sarah afferma: «Quel buco nero di cui hanno parlato, quel giorno io l’avevo in testa. Ho chiesto una perizia psichiatrica, ma non mi è stata concessa. Non ricordo come sia successo, quando ho messo la corda… Sarah non mi aveva fatto niente. Perché l’ho uccisa? Nel prossimo grado di giudizio chiederò ancora una perizia: voglio sapere quel che ho in testa…»

La giornalista sottolinea poi che, secondo i giudici, non è stato lui a ucciderla, ma Sabrina e Cosima: «E davano a me il cellulare? Mi dicevano tienimi pure il cellulare che poi lo fai trovare? Non lo penso. L’avrebbero distrutto loro.»

Michele Misseri continua scagliandosi contro la sentenza, dove si sostiene che la figlia e la moglie abbiano ucciso assieme “perché esasperate”: «Sarebbero scattate tutte e due insieme per ammazzare Sarah? Non lo penso proprio. Tutto sbagliato… C’è stato solo un periodo in cui in casa c’era un po’ di nervosismo… anche se non abbiamo mai parlato di separazione e io non ho mai pensato di andarmene. Sabrina mi ha detto tante volte che quando si sarebbe sposata, sarei dovuto andare a vivere a casa sua. Mi manca quella parola che mi diceva: paparino… non mi sento più un padre. - Ha aggiunto - Per i giudici, sono credibile solo quando accuso Sabrina, perché gli fa comodo… perché secondo loro lei ha il movente, sono preoccupato per mia figlia. Sta male. Non ce la farà.. Io cerco di resistere. Se Sabrina non reggerà fino alla Cassazione, nemmeno io ci sarò più sulla faccia della terra. Ho detto a mia figlia che se fosse stata un’assassina l’avrei aiutata, non l’avrei abbandonata. Ma in ogni caso, non mi sarei assunto la sua responsabilità e non l’avrei aiutata a seppellire un corpo.»

Ha proseguito: «Mio nipote Cosimo sta malissimo. Mi dispiace per lui, perché se muore, muore da innocente. È il mio nipote preferito, sempre pronto ad aiutarmi qualunque cosa gli chieda. Certo, non darmi una mano per gettare Sarah in un pozzo. È innocente, come mio fratello Carmine.»

Quando la giornalista gli domanda se lui avesse avuto un istinto sessuale nei confronti di Sarah Scazzi, Misseri risponde: «No. Forse le ho toccato il seno quando l’ho sollevata, forse le ho fatto male e lei mi ha dato un calcio. Mi sono fatto crescere i baffi in segno di lutto. Me l’ha chiesto mio fratello Salvatore in un sogno. Ma se mia moglie e mia figlia usciranno dal carcere, li toglierò.»

Intanto, a parlar di giornalisti, domenica 6 aprile 2014 l’ennesima ospitata di Concetta Serrano Spagnolo. Concetta, la madre di Sara Scazzi è stata ospite di Barbara d’Urso nella puntata di Domenica Live. In studio riguarda i video di quando cercava sua figlia Sarah, con sua nipote Sabrina Misseri al suo fianco, successivamente condannata all’ergastolo con la madre Cosima, per l’omicidio della ragazza. Concetta è rimasta ad Avetrana e con il passare del tempo, confessa alla D’Urso, “mi sento ancora più tradita”. Barbara d’Urso le chiede se incontra ancora Michele Misseri, lei risponde senza problemi: «Lo incontro spesso, lui nemmeno mi guarda. È da una vita che dice che vuole venire a chiedermi perdono, ma non so cosa abbia realmente in mente.» I complessi di Sabrina. Concetta Scazzi racconta di quello che Sabrina aveva dichiarato alla tv, circa i “complessi di Sara” sulla sua eccessiva magrezza e su qualche difetto fisico. La madre di Sarah non ci sta: «Io da Sara sentivo l’esatto contrario. Mi diceva che Sabrina aveva i complessi, che piangeva per Ivano. Da Sara non ho mai sentito complessi. Si legava pure i capelli, se avesse avuto problemi con le orecchie, li avrebbe tenuti slegati. È evidente che né Sabrina, né Cosima amavano Sarah. Se avessi saputo perché, non l’avrei di certo mandata in casa loro. Purtroppo sono state brave a mascherare questo atteggiamento.» Lo sgomento, l’incredulità di Concetta è ribadito ancora una volta in poche parole, rotte da una voce provata: «Non potevo immaginare che queste persone arrivassero a tanto.»  In video, le testimonianze di Sabrina su quelli che definisce i "complessi" di Sarah, le "brutte orecchie": «Era una bella ragazza, ma una ragazza di 12 anni si faceva questi complessi….Sarah era molto magra, quando mi abbracciava o si metteva sopra, mi faceva male, si sentivano le ossa….Io da Sarah sentivo tutto il contrario. Mi diceva che Sabrina aveva i complessi, che piangeva per Ivano. Da Sarah non ho mai sentito di complessi. Si legava pure i capelli, se avesse avuto questo complesso, li avrebbe lasciati liberi». Si è data delle ragioni per l'omicidio? «Evidentemente non amavano Sarah. Se avessi saputo perchè non la avrei mandata in casa loro. Purtroppo sono state molto brave a mascherare quest'atteggiamento». In loro covava l'odio e l'hanno mascherato?, chiede la D'Urso. «Non potevo immaginare che queste persone arrivassero a tanto». La motivazione, per la giustizia italiana, è stata la gelosia. «Con mia sorella avevo un rapporto normale prima, In pratica si aiutava se c'era bisogno, ma nulla di più». Sapevi che tua nipote aveva tentato più volte il suicidio? No, l'ho saputo al processo tramite i messaggi che si scambiava con Ivano. Non posso sapere quello che ha in mente una persona. Se lo dice è probabile che si sentisse oppressa dalla situazione che viveva».

L’APPELLO ED IL TRAVISAMENTO DELLE PROVE.

“Prove travisate su Sarah”. La difesa pronta per l’Appello. Dovrebbe iniziare ad agosto 2014, pausa ferie permettendo,  il processo d’appello per Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, in primo grado condannate all’ergastolo per la morte della giovane Sarah Scazzi. I legali della Misseri hanno depositato 476 pagine di motivazioni, mirate a smontare punto per punto quelle della sentenza di primo grado, a loro giudizio viziata da “palesi travisamenti delle prove”. Franco Coppi, uno dei legali, spiega quali siano questi travisamenti: il fatto che un giudice popolare sia stato sostituito in corso di dibattimento per aver manifestato il proprio pregiudizio; che i giudici abbiano fatto richiesta di astensione, dopo che un loro fuori onda era stato diffuso dalle tv; che siano state ignorate le sentenze della Cassazione che per due volte ha “annullato provvedimenti di custodia cautelare emessi nei confronti di Sabrina Misseri per mancanza di sufficienti indizi di colpevolezza”, tanto per citarne alcuni. Secondo Coppi e l’altro legale, Nicola Marseglia, l’alibi di Sabrina è ferreo, poichè “la successione dei messaggi e dei contatti telefonici con la cugina consente di collocare l’arrivo di Sarah a casa Misseri non prima delle 14.28, rendendo pertanto impossibile prospettare un coinvolgimento attivo di Sabrina nell’omicidio”. La difesa porta anche una nuova perizia sull’arma del delitto, curata dall’Emerito di Anatomia e Istologia Patologica Arnaldo Capelli, secondo cui si tratta di corda e non di cintura come sostiene la sentenza contestata. Particolare importante visto che Michele Misseri parlò proprio di corda nella sua prima confessione.

Ad agosto tornano in aula Sabrina Misseri e la madre Cosima, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. Il 20 aprile 2013 la Corte d’assise di Taranto ha condannato all’ergastolo Sabrina Misseri e la madre Cosima. Ad agosto 2014 potrebbe iniziare il processo d’appello per Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, condannate in primo grado all’ergastolo per la morte di Sarah Scazzi. Franco Coppi e Nicola Marseglia, legali della Misseri, hanno depositato i motivi di appelli, 476 pagine mirate a smontare punto per punto le motivazioni della sentenza di primo grado che si è formata, dicono «con evidente superficialità, con palesi travisamenti delle prove».  Sintomo evidente, tutto ciò, di un prematuro “pregiudizio” circa la colpevolezza di Sabrina». E poi la storia del processo, la circostanza «che un giudice popolare sia stato sostituito nel corso del dibattimento per aver manifestato incautamente il proprio pregiudizio», il fatto che i giudici togati abbiano fatto richiesta di astensione dopo che un loro imbarazzante fuori onda era stato diffuso dalle tv. E anche il fatto che siano state ignorate le sentenze della Cassazione che per due volte ha «annullato provvedimenti di custodia cautelare emessi nei confronti di Sabrina Misseri per mancanza di sufficienti indizi di colpevolezza». Sentenze della Suprema Corte passate su questo processo, dice Franco Coppi «come un soffio di vento su una lastra di marmo». Molte le pagine su Michele Misseri e le sue versioni. Secondo la difesa di Sabrina Misseri la sentenza di condanna annulla «con superficiale disinvoltura», il tema del movente sessuale, nonostante la Cassazione abbia definito fragile il movente della gelosia sollecitando approfondimenti circa il movente sessuale. Secondo Coppi e Marseglia l’alibi di Sabrina è «ferreo», garantito «dalla successione dei messaggi e dei contatti telefonici con Sarah e Mariangela che consentivano di collocare l’arrivo di Sarah a casa Misseri non prima delle 14.28 e rendevano pertanto impossibile prospettare un coinvolgimento attivo nell’omicidio di Sabrina». Sull’arma del delitto la difesa porta una nuova perizia affidata al Arnaldo Capelli, Emerito di Anatomia e Istologia Patologica, secondo cui si tratta di corda e non di cintura come sostiene la sentenza impugnata. Particolare importante visto che Misseri nella sua prima confessione ha parlato di corda, che si trovava a portata di mano sul trattore. 

«Sabrina spera e ha fiducia nel giudizio d'appello, anche se si trova in una situazione di dolore e amarezza. Il suo pensiero è rivolto costantemente alla cugina a cui era profondamente legata: nelle lettere che mi scrive, finisce molto spesso per parlare di lei. Sarah è la vittima in questo processo, ma accanto ce ne sono tante altre» Così si esprime l'avvocato Franco Coppi - ospite a "Quarto Grado"del 16 maggio 2014 - che nei giorni prima, insieme all'avvocato Nicola Marseglia, ha presentato ricorso per chiedere la scarcerazione di Sabrina Misseri, condannata all'ergastolo con la madre Cosima Serrano per l'omicidio di Sarah Scazzi.

«Difendo Sabrina perché sono convinto della sua innocenza. Ha chiesto aiuto e non posso sottrarmi all'impegno di giustizia: difendo una persona innocente, senza mezzi, che può risultare stritolata dallo strapotere del meccanismo giudiziario che si muove contro di lei. Sabrina è innocente per una serie di motivi. Certamente l'alibi ferreo è rappresentato dalla successione delle telefonate che si sviluppano nel pomeriggio del 26 agosto 2010. Queste telefonate dimostrano l'esatto adempimento degli impegni presi dalla ragazza la sera precedente e non un tentativo di depistaggio. Nel ricorso che abbiamo presentato, abbiamo avanzato critiche dure al metodo col quale si è proceduto all'esame dei testimoni. Molte testimonianze iniziali sono state cambiate e ora andrebbero riviste una per una, specialmente quelle riguardanti gli orari di uscita di Sarah per recarsi a casa dalla cugina. La ricostruzione del delitto sostenuta dall'accusa e descritta nella sentenza è grottesca e supera i limiti della fantasia. Le due cugine avevano trascorso la mattinata tranquillamente insieme e non è chiaro il motivo per il quale nel pomeriggio avrebbero dovuto litigare a tal punto che Sarah sarebbe scappata. Poi, sempre secondo questa ricostruzione, la ragazza sarebbe stata inseguita da Cosima, riportata repentinamente a casa, uccisa dalla cugina con l'aiuto della madre. In seguito, sarebbe stato svegliato il padre Michele che, in modo del tutto naturale, avrebbe deciso di coinvolgere il fratello e il nipote per seppellirla in campagna. Ciò sarebbe avvenuto senza alcuna obiezione o complicazione. Non ho dubbi che sia stato Michele Misseri ad uccidere Sarah, sia per le sue confessioni che per una serie di elementi oggettivi, come l'innocenza di Sabrina. È un uomo con una dimensione etica e psicologica molto rozza ed è convinto che sostenendo di non poter spiegare le ragioni per le quali ha ucciso, possa trovare una giustificazione di fronte alla famiglia. Se ammettesse l'approccio sessuale, il perdono non potrebbe essergli concesso dalla famiglia, dal paese e nemmeno da se stesso. In aula riprodurremo l'approccio fisico avuto da Misseri prima del delitto, per noi il movente dell'omicidio: lui sollevò Sarah toccandole involontariamente il seno, lei reagì con un calcio e lui la uccise. L'evento sarà ricollegato al tentativo di approccio sessuale che Misseri ebbe tre/quattro giorni antecedenti il 26 agosto 2010 nei confronti della nipote. L'uomo ha ammesso il fatto e non l'ha mai smentito. In quell'occasione ottenne un rifiuto fortissimo e Sarah lo minacciò di rivelare tutto a Sabrina».

La difesa, a sostegno di questa tesi, ha chiesto che nel processo di secondo grado venga acquisita agli atti l'intervista di Michele Misseri rilasciata a "Quarto Grado" in cui l'uomo lo racconta per la prima volta. Della sentenza, i difensori di Sabrina Misseri contestano anche il movente della gelosia e l'arma del delitto, sostenendo che è una corda e non una cintura, proprio come aveva rivelato all'inizio Michele Misseri. Secondo la difesa, nello spazio di 25 minuti, inoltre, troppe persone sarebbero state coinvolte. Sarebbero nate una serie di condotte "che vanno contro l'umana razionalità".

LA SENTENZA E LE MOTIVAZIONI SBAGLIATE.

È lunga ben 1631 pagine, è stato necessario attendere quasi undici mesi dalla lettura del dispositivo per il suo deposito in cancelleria ma la sentenza per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana scomparsa il 26 agosto del 2010, contiene alcuni errori, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È discordante, innanzitutto, riguardo il risarcimento danni chiesto dal Comune di Avetrana, costituitosi parte civile tramite l’avvocato Pasquale Corleto. Nelle motivazioni viene stabilito, a pagina 1627, il pagamento di 14.985 euro per le spese legali sostenute dal Comune di Avetrana ma nel dispositivo non se ne fa alcun cenno. Inoltre, sarebbe incompleto il compendio delle pene accessorie inflitte agli imputati. E così, mentre sono stati già depositati i ricorsi contro la sentenza di primo grado e già si fanno previsioni sulla data di inizio del processo dinanzi alla corte d’assise d’appello, si ritorna davanti alla corte d’assise. Lo ha stabilito il presidente Rina Trunfio, a seguito di una istanza fatta dall’avvocato Pasquale Corleto, fissando una camera di consiglio per il prossimo 18 giugno 2014, alla quale prenderanno parte i pubblici ministeri Pietro Argentino e Mariano Buccoliero, gli imputati Sabrina Misseri, Cosima Serrano, Michele Misseri e Carmine Misseri, assieme ai loro difensori. Gli imputati potrebbero peraltro rinunciare alla presenza ma visto lo stato di detenzione a cui si trovano ormai da alcuni anni, non è escluso che Sabrina e sua madre Cosima approfittino dell’udienza per lasciare almeno per qualche ora il carcere, tornando nelle aule del palazzo di giustizia dalle quali mancano dal 20 aprile 2013, giorno di lettura della sentenza. In camera di consiglio, si procederà alla correzione degli errori materiali compiuti nella stesura della sentenza. La corte d’assise nelle motivazioni della sentenza ha riconosciuto il risarcimento del danno in favore del Comune di Avetrana, rilevando che «la piccola comunità locale, del quale il Comune è ente esponenziale, abbia risentito dei fatti così come contestati, in termini di turbamento nonché abbia patito un danno della propria immagine, per cui il predetto Comune debba intendersi soggetto direttamente danneggiato. Il dibattimento ha in concreto dimostrato che il Comune di Avetrana, si componga realmente di una piccola comunità di persone, spesso legate tra di loro da rapporti di parentela, affinità, a volte di amicizia e, più spesso, di mera conoscenza. Si tratta di una comunità autoreferenziale. Ne discende che un evento così brutale e inaspettato, verificatosi all’interno della collettività avetranese ed a causa della condotta di cittadini di Avetrana, abbia arrecato un danno alla stessa comunità». Ciò rilevato, la corte stabilisce il risarcimento dei danni in separata sede, e quantifica in quasi 15mila euro il rimborso delle spese legali sostenute, scrivendo testualmente che «si liquida come da dispositivo». Ma nel dispositivo, come eccepito dall’avvocato Pasquale Corleto, non c’è nulla a riguardo. Da qui, la necessità di riparare all’errore materiale. Espletata questa incombenza, tutto il fascicolo sarà trasmesso alla corte d’assise d’appello che avrà tempi stretti. Il 20 gennaio del 2015 decoreranno i termini di custodia cautelare per Sabrina Misseri e sua madre Cosima che dunque torneranno libere se entro quella data non sarà stata emessa una nuova sentenza di condanna nei loro confronti. Ecco perché il processo d’appello potrebbe partire anche in piena estate.

NON CHIAMATEMI ASSASSINA.

Sabrina Misseri dal carcere: “Non chiamatemi assassina”. La 26enne condannata per l’omicidio Scazzi: nessuno crede alla mia verità, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. «Non voglio più saperne di niente, scusami se non ti telefonerò ma non sto bene, questa botta non riesco a reggerla... Preferisco mollare piuttosto che continuare, qui dentro non uscirò mai, non vogliono credermi e non so più cosa fare. Non ce la faccio più... tutto ha un limite, sono un essere umano». Sabrina Misseri scrive dal carcere alla sorella Valentina. Sono 4 anni che è in cella per l’omicidio della cuginetta Sarah Scazzi. Continua a dirsi innocente con una condanna in primo grado che, invece, dice «fine pena mai». La Cassazione a giugno 2014 ha respinto il ricorso dei suoi legali, Franco Coppi e Nicola Marseglia, che avevano sperato negli arresti domiciliari. «Tutt’oggi pomeriggio ho riflettuto su questa cosa - si sfoga Sabrina - non riesco a calmarmi, la Cassazione è stata sempre la mia speranza e adesso sto sprofondando nel buio». Il suo legale Franco Coppi cerca di darle speranza nelle lettere che le invia costantemente. «Ma non è facile», spiega il professore che ha deciso di prendere questa difesa pro bono. «Perché credo fermamente nell’innocenza di questa ragazza», spiega. «È una cosa indegna di un Paese civile che un imputato sia pure accusato di un gravissimo delitto si trovi ristretto in carcere quando dopo 4 anni dall’inizio della custodia cautelare ancora non si conosce la data dell’inizio del processo di appello. Le scrivo spesso tentando di tirarla un po’ su. Ma è disperata, ha pensieri cupi povera figlia e sono molto preoccupato per lei. Spero che le permettano di vedere lo psichiatra che per lei in questi anni è stato un punto fermo». Ci sono storie e persone che ci accompagnano nei pomeriggi televisivi, fatti lontani da noi che viviamo come fossero un romanzo, un giallo da risolvere tutti insieme. Poi ci sono i personaggi di quei fatti, che leggono le loro vite attraverso la nostra interpretazione, il nostro giudizio, spesso la nostra superficialità. L’inchiostro che fissa i pensieri di Sabrina dovrebbe riportare tutti alla realtà, al dubbio, almeno alla pietà.  «...Vivi con la paura di rimanere qua, con la paura che subito dopo l’appello mi trasferiscano...», scrive Sabrina Misseri. «Sono sola come un cane, lo psichiatra non lo posso vedere, la psicologa di prima non ce l’ho più... Non riesco a ragionare più, il male è più forte del bene, è inutile non si può fare niente. Non la vogliono la verità, deve essere come dicono loro... Tanto vale che mi mettano in croce come Gesù Cristo così sono tutti più contenti». «Non riesco a reggere più l’etichetta dell’assassina», scrive Sabrina. «Il vomito è aumentato per l’agitazione.... perché devo subire tutto questo, non c’è mai una notizia buona, sono passati quasi 4 anni, ero entrata a 22 e adesso ne ho 26, e più si va avanti è sempre peggio». E ancora: «Ho bisogno di sfogarmi, sto talmente male con gli occhi, non sto vedendo bene. Mi è venuto mal di testa a furia di piangere, non riesco a calmarmi, mi stanno attraversando mille pensieri brutti... La verità è che non ci sarà giustizia, la giustizia non esiste». Sabrina si sente «al limite»: «Sto male e qui ti rispondono stai tranquilla, male che vada con i benefici di legge esci prima, ma io il carcere non voglio farlo più innocentemente, credo che per poco riuscirò a sopportare, il mio limite è arrivato». 

Ad oltre due settimane dalla decisione della Corte di Cassazione di negare gli arresti domiciliari a Sabrina Misseri – in carcere per l’omicidio di Sarah Scazzi – rompe il silenzio la sorella Valentina in un’intervista esclusiva realizzata da Ilaria Cavo per “Segreti e Delitti”, in onda il 18 luglio 2014 in prima serata su Canale 5.

«Bisogna ricordare che siamo ancora al primo grado di giudizio: quindi potete fare tutti un passo indietro e frenare tutti i giudizi affrettati?», prosegue Valentina Misseri. «Ancora non tutti hanno capito che per la sentenza di condanna, tutto gira intorno a una possibile bugia di Sarah: secondo loro Sarah esce di casa dicendo a sua madre di aver ricevuto un messaggino in cui Sabrina le dice di andare al mare, però questo messaggio non c’è, non esiste. Allora dicono che Sarah se lo inventa perché vuole uscire prima per non fare le pulizie a casa… In effetti quel messaggio lo riceve, ma dopo, verso le 14.25. A quel punto Sarah esce di casa, non prima, e a quell’ ora incontra mio padre, non incontra Sabrina».

Lei rimane convinta che suo padre sia colpevole?

«Per forza. Mi dà questa impressione: che le sentenze vengano fatte in base a quello che si dice in televisione, è come se avessero paura dell’opinione pubblica».

Sua sorella scrive nelle lettere che non odia vostro padre ma non lo perdona….

«Questo è un sentimento che provo anch’io».

Ha sentito le dichiarazioni di suo padre, quando nella perizia psicologica afferma che è stato violentato sotto l’albero di fico?

«Non lo sapevo e mi dispiace tantissimo. Avrei dovuto capirlo. Dico che quell’albero di fico è importante. È chiaro che significa qualcosa per papà. Non è un caso se ha deciso di portare Sarah proprio là sotto».

C’è un qualcosa di personale che riguarda lui…

«Per forza. Dopo quello che ha raccontato mi ha dato un’ulteriore conferma a quello che io già pensavo sulla sua responsabilità».

Resta la domanda di fondo: come può un padre accusare una figlia innocente, se la figlia è innocente?

«È la cosa che mi chiedono tutti e mi fa arrabbiare veramente questa domanda. Sentiamo tutti giorni alla tv che ci sono padri che uccidono le figlie e le stuprano: perché chiedersi ancora come può un padre accusare la figlia, se ci sono padri che hanno fatto ancora peggio?».

LETTERE DI SABRINA MISSERI DAL CARCERE:

«Mi è crollato il mondo addosso. Non sto bene, questa botta non riesco a reggerla. Tutto ha un limite, sono un essere umano. Non riesco più a reggere l'etichetta dell'assassina. Credo che farò lo sciopero della fame. Il vomito è aumentato per l'agitazione. Sono passati 4 anni: più si va avanti, peggio è. La giustizia non esiste. Purtroppo sono una pezzente, non posso chiedere aiuto a nessuno da qui. Adesso non vedo più un tunnel, ma un buco nero infinito che ti risucchia e non esci più. Credo che per poco riuscirò a sopportare, il mio limite è arrivato». Così, in una lettera scritta dal carcere di Taranto, Sabrina Misseri commenta la decisione della Corte di Cassazione di negarle gli arresti domiciliari. La missiva, datata 30 giugno 2014, resa nota insieme ad altre a “Segreti e delitti” su Canale 5, è solo l’ultima della corrispondenza che l'estetista condannata all'ergastolo (insieme alla madre Cosima Serrano) per l'omicidio della cugina quindicenne Sarah Scazzi, tiene dal carcere con la sorella Valentina.

Di seguito alcuni stralci delle lettere scritte da Sabrina Misseri alla sorella in questi anni di detenzione.

Il 27 febbraio 2012, a poco più di un mese dall’inizio del processo, Sabrina scrive: «Questo processo non saprei come definirlo, tanti testimoni dicono il falso. Troppo pesante far passare i giorni. Non so per quanto riuscirò a sopravvivere, un innocente o impazzisce o si uccide».

Nelle lettere successive, la ragazza mette nero su bianco tutta la sua frustrazione. È il 18 aprile 2012: «So già che ci sarà una condanna. La giustizia italiana istiga al suicidio... In questa tragedia si sta dando poca importanza a Sarah e mi dispiace. Se fosse uscita prima quel giorno, Sarah non si sarebbe trovata in cantina e...».

Nella lettera del 20 febbraio 2013, Sabrina si lamenta di non poter vedere lo psichiatra: «L'ultima volta che sono riuscita a vedere lo psichiatra è stato il 28 gennaio. Sto peggiorando, sono 15 giorni che non mangio e quando la mia compagna di cella mi sforza, quel poco che entra nello stomaco subito dopo lo vomito. Sono dispiaciuta anche per mamma, sta male e non può fare niente».

Quattro giorni dopo, la ragazza ribadisce la necessità di incontrare uno specialista: «All'uscita della visita medica mi sono sfogata con le assistenti dicendo che stavo chiedendo aiuto prima di fare un gesto estremo. Mi hanno spiegato che lo psichiatra non lo posso vedere perché possono andarci solo i pazienti pazzi, io non rientravo in questa categoria. Devo vedere la psicologa. Più tempo passa e meno mi importa di vivere perché la consapevolezza di essere innocente e non essere creduta è atroce».

Dopo la sentenza del 20 aprile 2013 che condanna Sabrina e la madre all’ergastolo, la giovane reagisce con grande amarezza: «Mi sento condannata a morte, mi sento di essere sequestrata, non riesco a dare un senso a stare qui senza aver fatto niente. Non riesco a darmi pace!!! È una tortura mentale, anche solo vedere le sbarre mi viene l'ansia».

Dalla lettera del 27 giugno 2013: «Non ce la faccio più ad aspettare così tanto e non avere la certezza che uscirà fuori la mia innocenza, accettare che Sarah non c'è più, che papà ha ucciso Sarah, papà che mi accusa sapendo che non ho fatto niente... Essere marchiata, accusata di essere una mafiosa, criminale, fredda, senza pietà, senza coscienza... Non resisto più a sopportare tutto questo, anche il mio corpo si ribella!».

Il 1° dicembre 2013, Sabrina Misseri scrive invece: «Stanno giocando con la mia vita, e con il tempo, per loro sono solo un numero. Ho paura di dormire, penso tanto a Sarah come se fosse viva, non riesco a immaginarla morta. Le lettere di papà mi fanno male perché parla di perdono ma io non posso finché non vedo il pentimento completo, la verità la dice a metà. Perché Sarah gli ha tirato il calcio? Gli altri non usano il cervello ma io sì».

Sarah Scazzi. Dieci motivi da catalogare sotto la scritta "carta e cartone", scrive Massimo Prati. In un periodo storico dove qualunque certezza è dettata dagli indizi e dalle menti di chi li osserva, c'è pure chi riesce a farsi accogliere da un giudice una nuova ordinanza cautelare, in sostanza un nuovo arresto, in base a dieci motivi logici che di logica hanno solo l'apparenza. Ed un giudice ha il dovere di fare un procedimento logico prima di prendere una decisione che influirà sulla vita di una persona che, fino al momento di una condanna definitiva, ha gli stessi suoi diritti. Ma in quel di Taranto, come più volte ricordato, la Legge ed il Codice Penale non sono perfettamente in linea con la Legge ed il Codice Penale vigente in Italia. Per cui può capitare che chi richiede un arresto scriva proprie convinzioni, non avendo alcun supporto probatorio, e chi lo deve accogliere o negare accetti quanto letto senza cercare neppure di verificarle. Ed il problema che ne sorge è evidente perché i giornalisti del nuovo millennio, quelli folgorati dalle apparizioni del Dio Denaro, e ne avvengono continuamente in Italia (le ultime a Brembate, ad Ascoli e giust'appunto ad Avetrana), riprendono col copia-incolla le parole del primo scribano che capita e diffondono nell'etere i vuoti pensieri senza neppure averli analizzati. Ora capita che in quel di Taranto sia stato chiesto l'arresto di una ragazza già carcerata portando al giudice, quale prova del merito d'essa di restare in prigione, dieci motivazioni che "paiono" inchiodare l'imputata e chi eventualmente l'ha aiutata a portare a termine il crimine di cui è accusata. Ma sarà davvero così? Andiamo con ordine ricordandoci anche che il giudice che ha avvallato queste dieci motivazioni è lo stesso che ha avvallato in precedenza, con altre motivazioni, il primo arresto della ragazza imputata e che, in base ad altre versioni, ad altre motivazioni logiche della procura, non l'ha mai scarcerata. Oltrepassiamo le motivazioni precedenti e concentriamoci sulle ultime uscite.

Partiamo dal primo motivo in cui si sostiene che il garage al momento dell'arrivo di Sarah fosse chiuso. E lo si sostiene in quanto le testimonianze di Cosima Serrano e di sua figlia erano indicative del fatto che alle 13.30 Michele Misseri fosse in cucina, visto riposare da Cosima, e che alle 14.40, quando la figlia gli ha chiesto se avesse visto Sarah, lui fosse ancora sulla sdraio, anche in questo caso è la moglie a collocarlo in quella posizione ma senza in realtà averlo visto in quanto stesa sul letto in camera sua. E qui sarebbe bastata al giudice una semplice riflessione per capire che Cosima, avendolo visto in precedenza in cucina, aveva ritenuto lì fosse rimasto; e non era difficile chiedersi per quale motivo, se davvero l'uomo non era in garage ma si trovava in casa, Sabrina gli avrebbe dovuto chiedere se avesse visto Sarah. All'interno la cugina non era e lei si trovava in veranda, che significato aveva il chiedere a chi era dentro dato che lei proveniva dal dentro ed era già all'esterno? Nessuno, quindi la prima motivazione si è persa nel nulla.

La seconda motivazione riguarda il motivo per cui Sarah sarebbe dovuta entrare in garage dato che anche sua zia Emma ed altri hanno testimoniato che mai sarebbe scesa sola. E' quindi una valutazione soggettiva nata dalle parole dei parenti. Ma non tengono conto del fatto, forse ancora non lo sapevano, che lo zio le aveva dato altre volte 5 euro e che lei, a secco di ricarica telefonica e di soldi, infatti non ha risposto ai messaggi dell'amica, quel pomeriggio avrebbe dovuto elemosinare dalla cugina con cui dalla sera precedente era in rotta di collisione. Quindi il farsi vedere e lo scendere potrebbero essere stati dettati dalla speranza che lo zio le desse la possibilità di non chiedere alla cugina i soldi per una ricarica o quant'altro.

Con questa semplice logicità decade anche il motivo numero tre, quello in cui si dice che il cancelletto è posto prima del portone del garage.

La quarta motivazione riguarda l'arma del delitto che è tutt'ora da trovare e non si può dire con certezza sia una cintura anche se il dottor Strada la da per plausibile. Per come la vedo io è facile si tratti di una corda piatta (tipo quelle da persiane) molto resistente e per questo usate spesso in agricoltura; ma potrebbe trattarsi anche di una corda normale molto usurata. L'usura del tempo spiana questo genere di corde togliendo la rotondità ed ammorbidendole. In ogni caso questa sarà una certezza da riscontrare in tribunale e non è un dato al momento valido per stabilire che l'arma del delitto la si debba individuare in casa. E darne la certa presenza in quella villetta, dopo aver fatto analizzare tutte quelle presenti e non averne trovate di compatibili, è una affermazione che risulta alquanto pretestuosa.

Come è pretestuoso il quinto motivo tendente a farci credere che se in possesso del Misseri la cintura sarebbe dallo stesso stata consegnata. Ma lui ha dichiarato più volte di aver bruciato l'arma del delitto, che ha individuato in una corda, cosa doveva consegnare la cenere?

Il sesto motivo è ancora più puerile degli altri perché che Sarah fosse attesa da Sabrina è noto a tutti, ciò che non si sa è se Sabrina ha mai incontrato Sarah. Quindi di cosa stiamo parlando? C'è chi ha detto di aver visto le due cugine insieme in quegli orari?

Ma questo non è nulla se paragonato al settimo motivo che vorrebbe la casa, chiamata scena del crimine a sproposito o per influenzare, sporca a due mesi dalla scomparsa, risale a quel periodo la visita degli analisti. Per cui il ragionamento è: "Non c'erano tracce di Sarah perché la casa è stata pulita ed il pavimento lavato proprio per eliminare tracce compromettenti". Ed io mi chiedo se i procuratori ed il giudice lasciano che a casa loro resti per mesi la sporcizia perché, caso mai dovesse accadere un crimine da qualche parte, si sarebbe certi di non trovarne traccia nelle loro abitazioni.

Però, nonostante fino ad ora ci abbiano propinato motivi infantili e di poco costrutto, arrivati all'ottavo motivo si resta sbigottiti dal lavoro certosino che il giudice asserisce abbiano fatto in procura. Infatti lì si trova scritto che il garage era chiuso in quanto Sabrina Misseri aveva parlato a suo padre in casa, ed esattamente nella camera da letto, circa dieci o venti minuti prima del messaggio inviatole da Mariangela alle 14.23.

E qui occorre che in procura si mettano d'accordo perché se alle 14.00 Sarah era già in casa Misseri e Sabrina la stava uccidendo, questa l'ultima ricostruzione dell'omicidio e quanto scrivono per supportare l'ottava motivazione, la stessa non poteva trovarsi a letto qualche minuto dopo e parlare col padre. Quindi, o ritengono valida quella in cui si dice che sulle 14.10 era a letto ed ha parlato col padre, per cui il garage era chiuso, o non la ritengono valida perché l'omicidio era in atto e pertanto non è una affermazione che può supportare il fatto che l'uomo fosse in casa ed il garage non fosse aperto. E' un ossimoro, come hanno fatto a non capirlo, e nella sua infantilità è persino ridicolo. Troppi pensieri e troppa voglia di fare incasinano il quadro?

Passiamo, per finire, ai due ultimi motivi che hanno convinto il Gip.

l nono è quello che vuole il cellulare di Sarah prima in cucina e poi in garage perché ha agganciato due frequenze diverse. E di questo la perizia non da la certezza parlando di compatibilità, quindi l'accettarlo come motivo valido è stata una scelta soggettiva del giudice basata su una sua libera interpretazione della perizia. Forse ha fatto testa o croce. Il decimo motivo viene da una intercettazione, che in un altro articolo ho già contestato, impostata tutta al maschile e che la procura vuole sia riferita al femminile. Quindi una loro interpretazione unisex del dialetto locale. Ma il bello è che è datata 5 ottobre e che non vi è alcun riferimento certo su quanto il Misseri stesse in quel momento pensando e dicendo. A meno di non ammettere che oltre ai sognatori si voglia dar retta anche ai sensitivi o ai lettori del vecchio pensiero altrui.  Perciò, per concludere, abbiamo notato come i dieci motivi accettati dal giudice per tenere in carcere Sabrina Misseri siano da catalogare sotto la scritta "carta e cartone" prima di essere gettati negli appositi contenitori per lo smaltimento intelligente dei rifiuti. Forse che a Taranto non la fanno la raccolta differenziata?

L'ultimo gioco di prestigio del Gip... continua Massimo Prati. Michele Misseri è libero perché ad Avetrana il dialetto è unisex. Ed ecco che l'inimmaginabile, quello che fino a pochi giorni fa sembrava utopia, si è avverato. L'avevo scritto che in quel di Taranto stavano preparando dei giochi di prestigio grandiosi, l'avevo scritto di prendere i pop corn e mettersi sulla poltrona ad aspettare perché si stava per proiettare un kolossal, ma nemmeno io mi aspettavo un numero così bello, così pieno di pathos e di effetti speciali. E non è stato neppure difficile perché al Gip è bastato alleggerire la posizione del Misseri, l'ex orco di Avetrana ora nuovo santo patrono della cittadina pugliese, per far sì che la Difesa ne approfittasse, e a dire il vero qui c'è stato un colpo di scena perché non ha accolto la richiesta di scarcerazione del De Cristofaro, e che la procura procedesse con il suo disegno già cesellato fatto di ulteriori allegerimenti, e questa volta, visto che proveniva dalla procura, la richiesta è stata accettata. Chissà perché. In ogni caso è stata una stupenda visione per l'Italia e gli italiani... ora tutti in piedi ad applaudire come quei venti che all'esterno del carcere hanno rischiato i calli alle mani a causa dei tanti applausi. Com'è che si dice? C'è sempre una prima volta? Ed in effetti a mia memoria non ricordo nessuno che si sia dichiarato colpevole e che, nonostante questo, venisse liberato perché non creduto. Bravi, veramente bravi, ora manca solo il suggello di una bella impiccagione, o di un suicidio in campagna, per completare l'opera che, in caso contrario, non troverebbe un finale adeguato e lascerebbe l'amaro in bocca. C'è solo da capire chi deve uccidersi. Sabrina Misseri? Suo padre? Sua madre? Il calcolo delle probabilità ci dice che è possibile che almeno uno dei tre muoia nel giro di un mese, forse per questo è stato allertato uno psicologo che avrà il compito di seguire il Misseri nel suo recupero. Perché, pover'uomo, va recuperato alla società se alla prossima festa di paese lo si vuole portare su un palco da casa sua alla chiesa cantando "osanna dall'alto dei cieli"! D'altronde, dice il Gip, lui non ha fatto nulla, era in garage a sistemare il trattore. E che nulla centri con l'omicidio, dice ancora il Gip, lo dimostrano le parole intercettate il giorno precedente l'arresto quando, da solo in auto, parlò in maniera convincente e sicura. Infatti a leggere i quotidiani disse: "Mi dispiace per la mia famiglia se vanno... io adesso li scoprirò... cosa vogliano dire, dicano quelli... è andata così, che vogliono fare, fanno a tua figlia... io non li credo, se uno non fosse voluto andare...". Questo ha detto per i quotidiani pugliesi, ma ha veramente detto così? All'incirca sì, ma solo all'incirca perché ogni lettera in più, ogni pausa, ogni minima differenza, cambia il senso di quanto uno può voler dire. Ora le sue frasi, con tanto di tempi fra i vari concetti, le inserisco in dialetto, non si sa mai che qualche lettore di Taranto mi confermi la traduzione. "Mi dispiace per la mia famiglia... (pausa 2,5 sec.) ci onu (seguono termini incomprensibili) io mo' li scoprirò...(pausa di 5,5 sec) ce ola diciuno, diciuno quiri, è sciuta cussì, ce bolunu a fannu, fannu... (non è scritto quanto tempo sia stato senza parlare) a fiiata... (anche in questo caso il tempo senza parlare non è inserito) io no li creu... (pausa di 45 sec.) ci unu non c'era uluto cu bai...". Questo quanto il Misseri disse il 5 ottobre mentre andava in campagna frammezzando l'italiano al dialetto. Il giudice la traduce così: "Mi dispiace per la mia famiglia... (pausa) se vanno (termini incomprensibili) io adesso li scoprirò... (pausa) cosa vogliono dire dicano quelli... è andata così, che vogliono fare fanno a tua figlia... io non li credo... (pausa) se uno non fosse voluto andare...". Ed ecco che grazie a questa intercettazione in procura si è capito che l'uomo è innocente. Ed il giudice si è adeguato. Ma cosa sta a significare quell'ammasso confuso di Parole? Per il Gip è del tutto evidente che al momento in cui pronuncia quelle parole il Misseri non era più capace di mantenere un segreto così devastante e nonostante le pressioni ricevute si era deciso a parlare. Ed infatti va direttamente in caserma e confessa. No? Ed allora il giorno dopo non appena entrato in procura confessa. No? E quando confessa se le frasi stavano a significare che non voleva più coprire nessuno e si era convinto a parlare? Confesserà attorno alle 22.45 della sera successiva, quindi dopo 13 ore e 15 minuti dal suo ingresso in procura e dopo 37 ore e 15 minuti dall'aver pronunciato quelle frasi? Cavolo, si era ben convinto a confessare e a non voler più proteggere le streghe della famiglia! Ma ci faccia il piacere dottor Rosati! Prima di tutto che le frasi siano dette in riferimento all'omicidio è una sua soggettiva convinzione, sua e della procura, per seconda cosa le pause, una addirittura di 45 secondi, non necessariamente sono pause del pensiero. Una persona non è un registratore che lo fermi e quando lo riavvii riprende da dove s'è interrotto. Una persona anche se smette di parlare con la bocca continua a parlare col pensiero e quando riprende riprende da dove l'ha portato la mente. A me pare logico. Fra l'altro il dire "io adesso li scoprirò" non significa domani sera alle 22.45 farò sapere agli inquirenti quanto è accaduto. Adesso, almeno nella mia città, significa adesso, non domani sera. E "li scoprirò" è un concetto pronunciato al maschile non al femminile. Ed anche dire "cosa vogliono dire dicano quelli" da l'idea che si riferisca a uomini, se fossero state donne avrebbe detto "quelle". Ed il dire "è andata così" non vuol significare che domani andrà come dovrà andare ma che è già andata, che quanto doveva accadere era già accaduto è non ci si poteva far nulla. Inoltre anche  la frase "io non li credo" è al maschile. Quindi non crede a più persone, è vero, ma a uomini. Per caso il dialetto che si parla ad Avetrana non riporta il femminile ma solo il maschile? E' un dialetto unisex dottor Rosati? Io sono convinto che lei abbia commesso un grave errore, ma per carità è una mia convinzione e per ciò che mi riguarda che sia in galera il Misseri o la moglie, o che lei abbia deciso di fargli fare sei mesi a testa, nulla mi cambia. Io spero davvero sia tutto calcolato e che le microspie, di certo piazzate in casa e in auto, diano presto a lei ed alla procura la certezza che in galera ci siano ora le persone giuste, in caso contrario una penitenza vi tocca. Ciò che è certo è che nelle intercettazioni inserite nelle sue motivazioni, in tutte, il Misseri parla al maschile e al femminile mentre in quella che ha convinto prima la procura poi lei il femminile non ci sta proprio. Ciò che è certo è che io e lei abbiamo due concezioni diverse dell'analisi logica. Non è detto sia migliore la mia, forse non lo è ed è migliore la sua, ma perlomeno io riesco ancora a distinguere il maschile dal femminile.

Era già tutto previsto ed ora possiamo passare oltre e parlare con cognizione di causa di una malattia da curare, spiega ancora Massimo Prati. Infatti la condanna comminata in primo grado dal giudice Trunfio, ci fa capire che l'accanimento tenuto da quelli di Taranto nei confronti di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano è a tutti gli effetti una malattia incurabile. Non dando alcun credito al dubbio, che in giudizio deve prevalere quando non si ha nulla su cui contare effettivamente, i togati hanno dimostrato di aver contratto la stessa malattia di chi ha sostenuto l'accusa. Una malattia nata nella mente dei primi investigatori, una malattia coltivata e cresciuta grazie ai profiler dei carabinieri che indicavano quali colpevoli le persone che più assiduamente frequentavano la vittima (ma è una indicazione che danno ad ogni omicidio). Una malattia che ha contagiato ogni singola parte della giustizia tarantina... dai carabinieri ai procuratori, dal Gip al Gup, dai giudici togati a quelli popolari. Nessuno si è salvato, neppure i giornalisti del luogo che troppo hanno frequentato i malati... e tutti si son fatti forza convincendosi l'un l'altro di non avere alcuna malattia giuridica. Ma presto ci saranno dottori che visitandoli capiranno e li cureranno. Perché quanto è avvenuto negli ultimi ottocento giorni, ma questi vanno accomunati a quanto accaduto negli ultimi due decenni a tanti altri imputati tarantini, parla chiaro. Da subito nulla si è fatto per come si doveva giuridicamente fare, lo dimostrano i modi con cui sin dai primi giorni si è agito contro due persone incensurate. A Sabrina Misseri hanno rovinato la vita. Senza concederle il beneficio del dubbio, senza fare la più piccola indagine, senza fare alcuna verifica, senza avere null'altro che le parole di un contadino imbambolato da giorni e giorni di farmaci e, come dice lui stesso, dalle parole del suo avvocato, un padre giudicato da uno psicologo anafettivo, l'hanno sequestrata di fronte ai fotografi e alle telecamere come fosse stata una terrorista. Un cappuccio in testa e via di spinta dentro l'auto che l'avrebbe condotta prima alla caserma di Manduria e poi in carcere. Una scena che l'ha resa agli occhi dei più una persona, anzi un'assassina, infame. Dal 16 ottobre del 2010 Sabrina Misseri, che al momento del suo arresto era una ragazza di 22 anni, ha vissuto, e da italiano che ama la Giustizia mi vergogno a chiamare vita questo periodo per lei troppo lungo, con l'approvazione di un'opinione pubblica resa cieca dai media, nel carcere di Taranto, in una cella di due metri per tre. Due anni e mezzo da incubo, due anni e mezzo inframezzati da piccole speranze sempre disattese, dall'alternarsi continuo di quelle depressioni fisiche e morali che solo chi è stato confinato ingiustamente in galera conosce. Quelle depressioni che prova un cane che prima di perdere la libertà ammirava chi non avrebbe mai creduto potesse metterlo in gabbia e diventare il suo "padrone crudele". Un cane ritrovatosi chiuso fra quattro pareti e vessato da chi godeva nel picchiarlo pubblicamente col bastone chiodato delle parole infamanti, da chi godeva nel ritrovarsi sui denti le sue gocce di lacrime sangue e dolore. Ma qui è sorto un problema irrisolvibile: il cane Sabrina Misseri non si è fatto addomesticare come previsto, non ha fatto ciò che in procura si voleva facesse, non ha fatto come tanti altri indagati di Taranto che negli ultimi decenni, pur di far cessare l'agonia, hanno confessato omicidi mai commessi. Per questo dal suo padrone e dagli amici del suo padrone è stata dipinta e messa alla gogna come una bestia ricoperta di rogna. E la gente è accorsa a vedere quell'essere infame, quel putrido mostro con gli occhi da belva. E la gente si è divertita a sputargli sopra il disprezzo basato sul nulla, quel disprezzo creato ad arte da chi non sapeva come far emergere una verità inesistente, la propria assoluta verità, e raccontava a tutti favole horror imbottite di vecchi "luoghi comuni". Eppure ci voleva poco a capire che erano solo favole illogiche, favole narrate al mondo da cantastorie ignoranti che approfittando della sofferenza altrui cercavano solo di guadagnare il loro benessere sociale, favole disegnate ed elaborate in maniera pessima ma spacciate per stupende, favole ridicole proiettate continuamente sugli schermi accondiscendenti per convincere l'opinione pubblica della loro veridicità. Poca materia grigia ci voleva a capirlo e chissà perché mai in troppi non l'hanno trovata nella loro mente quel minimo di materia grigia. Vedremo quali motivazioni si scriveranno e se altri giochi di prestigio cercheranno di portarci ad applaudire il giudice gemello di turno. E se Sabrina è stata trattata come un cane con la rogna, se è stata inserita quale attrice protagonista in favole ricostruttive prive di qualsivoglia logica, favole piaciute tanto a una corte di giustizia (così è chiamata anche quella di Taranto), c'è da dire che a sua madre non è toccata sorte migliore. Cosima Serrano fu invitata a presentarsi in caserma e subito arrestata; come già deciso fu costretta a restare in attesa dell'arrivo dei compaesani e delle telecamere per essere trattata quale animale aberrante, per essere trattata come fosse lei la vera "bestia antropofaga", l'assassina di una decina di bambini e adolescenti della Milano campestre di qualche secolo fa. Una bestia alla fine imbalsamata e mostrata ai visitatori anche per far perdere loro la paura provata per mesi, visitatori attratti dal muso assassino di chi potevano finalmente offendere e additare a infame. E come si fece a Milano nel 1792 si è fatto ad Avetrana nel 2011, quando al momento dell'arresto della "bestia Cosima", sulla pubblica piazza si son presentate un centinaio di persone irose. Persone aizzate dai giornalisti amici dell'ingiustizia, persone che non si resero conto di essere burattini manovrati da "bravi" burattinai, persone che pur entrando ogni mattina in bagno, e pur possedendo almeno uno specchio, neppure a posteriori capirono di essere diventate loro gli animali infami dal brutto muso, di essere loro la bestia antropofoga imbalsamata da osservare con disprezzo. C'è modo e modo di arrestare un indagato... e non si può non capire che a Taranto si decise di dare spettacolo solo per seguire una sceneggiatura prestabilita, non si può non capire che Cosima era la vittima designata da offrire in pasto a una parte dell'opinione pubblica, alle bestie antropofaghe, a quegli orchi famelici con gli occhi iniettati di sangue che abitualmente sbavano e attaccano i loro contrari per ucciderne mentalmente le idee e colmare quei vuoti mentali che in loro non trovano pace, per dar soddisfazione a quell'istinto primordiale che li vorrebbe assassini impuniti, a quella rabbia accumulata a causa di famiglie di bassa lega incapaci di insegnare ai propri figli l'amore e la democrazia, quella rabbia ereditata da genitori invisibili che invece di accarezzare mordevano, da genitori che non sapendo fare i genitori hanno lasciato ai media volgari il compito di allevare ed educare la loro prole. Una rabbia alimentata da burattinai mai fermati da uno Stato che da tempo non esiste, esseri senza una vera guida che con decisioni proprie si autorizzano ad aizzare gli orchi grazie a un sistema giustizia sempre più sull'orlo del baratro. Come non capire che a Taranto esiste una sorta di "casta" alternativa che non basandosi sulla legge e sui fatti provati, non basandosi sulla logica e sul buonsenso, ha agito e agisce come solo i sequestratori di uno Stato dittatoriale possono agire? Carcerando due incensurati senza aver nulla di serio in mano, senza verificare con perizie le parole di chi accusava, hanno cercato la soluzione che non esisteva intimidendo ed incattivendosi oltre ogni giusto e lecito limite giuridico-investigativo. Coadiuvati da giudici di scarso spessore, giudici chiacchieroni asserviti, prestigiatori di penna, da giornalisti copia e incolla buoni solo a scrivere sotto dettatura, giornalisti chiamati così perché scritto su un pezzo di carta, ma in realtà esseri privi di una mente propria a cui nessun editore affida mai il compito di scrivere articoli ragionati, perché al massimo capaci di venderli i giornali, hanno messo in atto una rappresentazione vergognosa, una rappresentazione indegna di uno Stato che si dichiara democratico. Ed allora i casi sono due: o queste non sono persone in grado di fare bene il loro lavoro, e far cambiare mestiere a tutte non sarebbe un male, o sono persone che usando il potere di cui dispongono hanno mischiato bugie, omissioni, astuzia e inganno, e pur di imporre le idee colpevoliste di parte, non fatti accertati e provati validi per giustificare il carcere preventivo, hanno spinto e insistito in modo da inserirle a viva forza nell'emotività di quell'opinione pubblica che si fida di chi parla dagli schermi privilegiati, quell'opinione pubblica che non avendo tempo e modo di leggersi migliaia di pagine, in questo caso gli atti che dimostrano come la sola intimidazione fosse la logica usata in quel di Taranto, si affida al tal giornalista, al tal opinionista, perché nel tempo gli getta quel mangime che nutre la sua soddisfazione. Una soddisfazione effimera il credere di aver ragione grazie a chi alimenta quelle convinzioni nate a causa di insinuazioni velate, grazie al modo usato nel dare la notizia; un modo di fare ben conosciuto nel martellante settore pubblicitario, ma subdolo se usato al di fuori degli spazi convenzionali. Perché far credere di essere al di fuori di uno spazio pubblicitario annulla quelle difese psichiche che portano a dubitare del prodotto reclamizzato e fa pensare di aver elaborato in autonomia quanto in realtà da altri ci viene iniettato nella mente. Scrivere all'unisono le stesse identiche frasi e ripeterle continuamente sul video (una sorta di "mantra"), non può non influenzare... e chiunque sa che non è questo il modo di fare giornalismo. Eppure tanti esponenti dei media in questi anni hanno pubblicizzato, a volte apertamente altre fra le righe, costantemente la colpevolezza di Sabrina Misseri e di sua madre, portando così l'uomo comune ad acquistare il prodotto colpevolista senza pagare un euro (il costo da sborsare è un altro freno psichico che porta a dubitare della pubblicità). Un comportamento aberrante perché si sa che quando l'opinione pubblica abbraccia un'idea crea una forza d'urto capace di influenzare l'ordine delle cose, comprese le decisioni di chi opera in un tribunale (i giudici, sia togati che popolari, prima di entrare in un'aula di giustizia sono essi stessi una parte dell'opinione pubblica). Un comportamento aberrante perché è vergognoso accanirsi su una persona senza aver prova di nulla, solo le parole di chi per lavoro si innamora della propria tesi e in base a questa accusa. Ed è da censurare il comportamento acritico di quei giornalisti inutili, figli di uno stallo sociale da decenni privo di idealisti e pieno di approfittatori, capaci di creare mostri, capaci di trasformare le menti altrui in bestie antropofaghe. E' un comportamento da censurare che la sentenza di oggi pare però giustificare. Ma quanto sentenziato da un giudice del tribunale di Taranto, ricordiamoci che è una struttura con una percentuale di errore paurosa e un costo a carico della collettività indecente, è solo un giudizio scontato da tempo, un giudizio che tutti, proprio a causa dei media acritici che vivono giorno e notte inginocchiati sulle scale della procura, si aspettavano. Insomma, perdere oltre un anno in 52 udienze, con altri costi spaventosi, è parsa quasi una formalità da sbrigare per dimostrare che tutto s'è fatto a regola d'arte... ma era un passaggio che si poteva saltare tanto era scontata la condanna. Riuscite forse a immaginare cosa sarebbe accaduto se la Trunfio avesse assolto? Ogni personaggio coinvolto sarebbe rimasto incastrato in evidenti responsabilità. Niente più processi per i testimoni scomodi all'Accusa, niente condanna per il fiorista di Avetrana e una figura pubblica davvero barbina sia del Gip che di tutti i procuratori. Con la sua sentenza, invece, il giudice ha "liberato tutti": la "cosa giusta" servita a fare in modo che nessuno possa criticare quanto fatto in questi due anni e mezzo. Ora però è finita. A Taranto non saranno più giudicate né Sabrina Misseri né Cosima Serrano... e la storia recente ci dice che in appello tutto sarà di certo diverso, ci dice che la verità prenderà il sopravvento e surclasserà il pregiudizio. Per il momento, quindi, cali il silenzio e si chiuda il sipario in attesa che un nuovo teatro, un nuovo e diverso tribunale con nuovi giudici, riprenda la rappresentazione e decida che dopo anni di carcere ingiusto è arrivata finalmente l'ora di usare la logica della Vera Legge, quella che aiuta a sentenziare non usando solo le intimidazioni e il convincimento di parte. Oggi la giustizia italiana, ultima in Europa e in caduta libera nel pianeta, ancora una volta ha perso. Oggi nessuno ha vinto e di certo nessuno vincerà in futuro: quando dopo altri anni passati in carcere, al dolore già accumulato si sarà sommato altro dolore e lacrime. E nessuno si azzardi a dire che Sarah ha avuto Giustizia. La Giustizia è un'altra cosa. La Giustizia ha il sapore dolce e non lascia il gusto amaro di odio fermentato da un mosto senza zucchero. A Taranto oggi ha vinto l'odio, quello generato da chi ha raccontato un'altra storia, quello recepito da chi ha ascoltato un'altra storia... una storia senza senso, una storia infarcita da testimonianze indecenti e mille dubbi. E come dall'odio non può nascere mai la giustizia, così dai dubbi non si potrà mai estrarre la giusta verità...

LA FUNZIONE DELLA TELEVISIONE.

Sabrina Misseri – condannata in primo grado all’ergastolo per l’omicidio della cugina quindicenne Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana il 26 agosto 2010 – deve rimanere in carcere e non può essere messa agli arresti domiciliari perchè ha «una personalità portatrice di accentuata pericolosità e propensione a delitti della specie» di quelli commessi. Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni depositate oggi e relative al «no» alla scarcerazione della Misseri deciso nell’udienza dello scorso 27 giugno 2014. Ad avviso della Suprema Corte - sentenza 34071 della Prima sezione penale – deve essere confermata la decisione del Tribunale di Taranto che lo scorso 18 febbraio aveva escluso che la Misseri potesse uscire dal carcere. Secondo gli ermellini, i giudici di merito hanno detto «no» alla scarcerazione con «argomenti esaurienti, in diritto corretti e non illogici in fatto, ancorati ai dati processuali e riferiti a condotte, allo stato positivamente accertate, costitutive di non uno, ma ben quattro delitti (sequestro di persona e omicidio, occultamento di cadavere e calunnia) e di una ritenuta costante e pervicace opera di depistaggio, inarrestabilmente proseguita anche dopo il delitto più grave, sino all’arresto». Correttamente, sottolinea la Cassazione, queste «condotte sono state ritenute tutte nel loro complesso indice di una personalità portatrice di accentuata pericolosità e propensione a delitti» come quelli già commessi. «In altri termini – prosegue la Suprema Corte – gli articolati riferimenti alla molteplicità ed estrema gravità dei fatti delittuosi commessi, alla propensione manifestata dalla Misseri ad ostacolare l’accertamento della verità, alle modalità odiose di consumazione dei delitti, all’inquietante atteggiamento tenuto nelle interrelazioni familiari e parentali, al movente futile e alla spregiudicatezza manifestata, correttamente e non illogicamente risultano complessivamente valorizzati per escludere sia l’insussistenza di esigenza cautelari sia la sussistenza di elementi specifici idonei a dimostrare positivamente che dette esigenze potevano essere soddisfatte con altre misure».

Una motivazione televisiva.

LA FUNZIONE DELLA TELEVISIONE, scritto da Solange Manfredi.

Al Qaeda, sventati piani attacchi in Francia, Germania e Gb

Niger: Francia attende richieste di Al-Qaeda su ostaggi

‎Afghanistan: Inglese rapita, i talebani vogliono Lady Al Qaeda

‎Islamabad: ucciso il capo di Al Qaeda in Afghanistan e Pakistan

Donne kamikaze, Europa a rischio ''Al Qaeda punta a terrorizzarci''

‎Mali, due civili uccisi in raid Mauritania contro Al Qaeda

‎Yemen, esercito libera la provincia di Shabwan da milizie di Al-Qaeda

‎Niger: Kouchner, Al Qaeda probabile responsabile rapimento francesi

‎Allarme negli Usa: Al Qaida cerca terroristi già residenti

Iraq: al Qaeda rivendica duplice attentato di domenica a Baghdad

Questi sono solo alcuni dei titoli comparsi in questa settimana sui principali quotidiani nazionali.

Il problema è che Al-Qaeda non esiste più almeno dal 2002. Proprio così. A dirlo non sono io, ma, come già evidenziato da un precedente articolo di Maurizio Blondet,  il capo dei servizi segreti francesi davanti al senato: “Il 29 gennaio 2010 la Commissione Affari Esteri convoca Allain Chouet, già capo della DGSE (Direction Générale de la Sécurité Extérieure, il controspionaggio francese) per dare una sua valutazione sul «Medio Oriente nell’ora del nucleare». Ecco come esordisce monsieur Chouet: «Come molti miei colleghi professionisti nel mondo, ritengo, sulla base di informazioni serie e verificate, che Al Qaeda è morta sul piano operativo nelle tane di Tora Bora nel 2002….Sui circa 400 membri attivi dell’organizzazione che esisteva nel 2001, meno di una cinquantina di seconde scelte (a parte Osama bin Laden e Ayman al-Zawahiri che non hanno alcuna attitudine sul piano operativo) sono riusciti a scampare e a scomparire in zone remote, vivendo in condizioni precarie, e disponendo di mezzi di comunicazione rustici o incerti». «Non è con tale dispositivo che si può animare una rete coordinata di violenza politica su scala planetaria. Del reso appare chiaramente che nessuno dei terroristi autori degli attentati post-11 settembre (Londra, Madrid, Sharm el-Sheikm, Bali, Casablanca, Bombay, eccetera) ha avuto contatti con l’organizzazione. …..Tuttavia, si deve constatare che tutti, a forza d’invocarla ad ogni occasione e spesso fuori proposito, appena un atto di violenza è commesso da un musulmano, o quando un musulmano si trova al posto sbagliato nel momento sbagliato, o anche quando non ci sono musulmani affatto (come negli attentati all’antrace in USA), a forza d’invocarla di continuo, certi media o presunti “esperti” di qua e di là dell’Atlantico, hanno finito non già di resuscitarla, ma di trasformarla come quell’Amedeo del commediografo Eugene Ionesco, quel morto il cui cadavere continua a crescere e a occultare la realtà, e di cui non si sa come sbarazzarsi». Dunque Al Qaeda non esiste più sin dal 2002. Eppure i nostri media, i nostri governi, se non ogni giorno, sicuramente ogni settimana ci ripropongono questo nemico inesistente. Perché? La risposta è semplice: perché siamo gli obiettivi di una guerra psicologica e, in questo caso, la tecnica utilizzata si chiama “MECCANISMO DELLA RIPETIZIONE” (si ripetere un fatto non vero così spesso da farlo diventare reale). La Guerra psicologica consiste nell'uso pianificato di operazioni psicologiche allo scopo principale di influenzare opinioni, emozioni, atteggiamenti e comportamento delle masse. Condizione necessaria perché le operazioni di guerra psicologica possano aver successo è quella di creare nella “popolazione obiettivo” frustrazione insicurezza e paura. Queste condizioni, infatti, riducono l'uomo ad uno stato di sottomissione in cui le sue capacità di ragionamento sono annebbiate e in cui il suo responso emotivo a vari stimoli e situazioni diventa non solo prevedibile ma “sagomabile”.

Per creare frustrazione, insicurezza e paura si devono creare all’interno del paese le seguenti condizioni:

Inflazione

tassazione non equa

concussione e corruzione

scarsezza di uomini nelle forze dell’ordine

appoggiare forme di sanzione o altro

scarsezza di necessità primarie come di abitazioni e altro

fomentare l'intolleranza razziale e religiosa

disunità politica e mancanza di fiducia nei capi

mancanza di risorse che possono sostenere l'economia

azioni di terrorismo e di violazione dei diritti umani

Create queste condizioni l’operatore di guerra psicologica può iniziare il suo lavoro.

I mezzi primari di manipolazione mentale sono la scuola, televisione e l’industria dell’intrattenimento (altri sono la droga, l’alcool, gli psicofarmaci e l’alimentazione).

Della scuola abbiamo già parlato in un precedente articolo sottolineando come questa operi per:

Insegnare lo stretto necessario perché la popolazione possa essere produttiva nei termini e nei modi voluti dal potere;

imporre sistemi d’istruzione che sono volti a uniformare e conformare la popolazione evitando accuratamente di insegnare le materie che sviluppino la capacità di ragionamento (dialettica, retorica, logica, ecc.), ovvero quelle materie che sviluppano il pensiero critico, autonomo;

instillare nei giovani quei preconcetti, pregiudizi e stereotipi su cui poi conformeranno tutte le loro esperienze.

La funzione esercitata dalla scuola, che ha il vantaggio di poter agire sui bambini e giovani, maggiormente ricettivi all’instillazione di pregiudizi e stereotipi, è importantissima dal momento che l’operatore di guerra psicologica, per poter operare con successo, deve poter contare su una popolazione che risponde a determinate sollecitazioni, ovvero per poter manipolare deve conoscere il modello di comportamento della popolazione, i modi di comunicazione, le motivazioni poste alla base del loro agire. Preparato il terreno dalla scuola, arriva la manipolazione attraverso i media. Strumento fondamentale di guerra psicologica dal momento che la nostra mente, tendenzialmente pigra, è attratta da tutto ciò che non richiede lo sforzo di pensare. Oltre a ciò è mediamente consapevole di di 200 bits di informazioni su 400 miliardi che il cervello elabora in un secondo. Ovvero siamo consapevoli di mezzo miliardesimo di ciò che avviene nel nostro cervello. Tutto il resto ci condiziona senza che ce ne accorgiamo.

Le principali tecniche di manipolazione attraverso i media sono:

creare un messaggio credibile

usare il linguaggio giusto

creare un ampio numero di fonti di informazione

creare “opinion leader”

attivare il meccanismo della ripetizione

operare debunking.

Vediamole nel dettaglio.

CREARE UN MESSAGGIO CREDIBILE. L’operatore di guerra psicologica che, come abbiamo detto, conosce gli schemi su cui si muove la popolazione, deve creare messaggi credibili. Attenzione il messaggio deve essere credibile, non vero. Anzi, spesso, la verità toglie credibilità al messaggio. Le menzogne sono più attraenti della verità perché fanno leva sulle nostre speranze, sui nostri pregiudizi, ecc... La verità, invece, ha la sconcertante abitudine di metterci davanti all’imprevisto, a ciò a cui non eravamo preparati e che, tendenzialmente quindi, rifiutiamo. L’operatore di guerra psicologica, che sa perfettamente che la maggior parte del pubblico non è alla ricerca della verità, ma di ciò che le permette di non uscire dagli schemi psichici indotti, su queste basi manipola la realtà. Facciamo un esempio. La sera del 10 aprile 1991 140 persone morirono bruciate sul Moby Prince davanti al porto di Livorno. Se domandi a qualcuno cosa causò la tragedia ancora oggi ti senti rispondere: c’era una fitta nebbia, l’equipaggio, davanti alla televisione a vedere la semifinale di Coppa delle coppe Juventus Barcellona, e non si è accorto della petroliera Agip Abruzzi entrando con questa in collisione. Tutto ciò è falso. Dagli atti e documenti processuali è emerso che:

- quella sera la visibilità era perfetta, nessuna nebbia né prima, né durante né subito dopo la collisione (come dimostrano foto, e video amatoriali, uno dei quali trasmesso anche dal TG1);

- nessuno dell’equipaggio stava guardando la partita (nella cabina di comando non vi erano televisori);

- l’impatto non è stato improvviso. Tutti i passeggeri erano nel salone De Lux (stanza provvista di porte tagliafuoco) con bagagli e giubbotti di salvataggio. Questo significa che erano stati richiamati dalle cabine presso cui si trovavano, alcuni stavano mettendo a letto i bambini visto che tutto è successo dopo le dieci di sera, invitati a rifare i bagagli, indossare i giubbotti e radunarsi nel salone, là dove sono stati trovati. Nessuno dei corpi presentava traumi.

Difficile conciliare tutto ciò con un impatto improvviso causato dalla negligenza dal personale che guardava la partita, ma nella memoria collettiva è rimasto quella notizia: la tragedia è avvenuta perché l’equipaggio guardava la partita di calcio. Perché? Perché il messaggio selezionato dall’operatore era assolutamente credibile, mezza Italia si ferma davanti ad una semifinale di Coppa delle Coppe.

USARE IL LINGUAGGIO GIUSTO. Come abbiamo accennato l'uomo vede il mondo in termini di precedenti esperienze, pregiudizi e stereotipi. Oltre a ciò, avendo una mente tendenzialmente pigra è attratto da tutto ciò che gli permette di ridurre problemi complessi in formule semplicistiche (tecnica che serve anche a costruire ed alimentare a dismisura il nostro ego facendoci credere di essere intelligentissimi e di aver capito tutto). L'operatore di guerra psicologica risponde a questa esigenza usando le parole. Gli stereotipi sono parole o frasi così intimamente associate ad idee o credenze comunemente accettate da essere di per se stesse convincenti senza bisogno della ragione o dell’apporto dell’informazione. Esse fanno appello a quelle emozioni quali l’amore per la patria, il desiderio di libertà, ecc.. Ovvero si accettano senza sottoporle ad un ragionamento operando su di esse un transfert. Proprio per questo gli stereotipi sono lasciati volutamente vaghi, affinché l’uditore possa interpretarli in maniera personale. Anche in questo caso facciamo un esempio. I nostri telegiornali, parlandoci del conflitto in Iraq usano il termine "guerra di liberazione", in realtà si tratta di una guerra di aggressione preventiva, illegale e criminale secondo il diritto internazionale. Le truppe dei paesi invasori al telegiornale diventano “truppe alleate”, mentre i combattenti iracheni vengono definiti "fedelissimi di Saddam", per condizionare i telespettatori e far pensare che siano uomini che combattono per difendere un criminale, non il loro paese.

CREARE AMPIO NUMERO DI FONTI DI INFORMAZIONE. L'uditorio non deve avere la sensazione di essere controllato. L’operatore di guerra psicologica crea, quindi, un ampio numero di fonti d’informazione, i cui messaggi devono essere leggermente diversi, ma condizionare tutti allo stesso modo, così da dare la sensazione all’obiettivo di stare scegliendo di propria volontà tra diverse opzioni e programmi (basti pensare ai telegiornali, non solo danno le stesse notizie, ma, spesso, hanno anche la stessa scaletta).

CREARE "OPINION LEADERS". L’operatore di guerra psicologica sa perfettamente che gli “opinion leaders”, hanno il potere di influire sull’opinione pubblica quanto le personalità politiche ed allora li crea. Sono quelle persone che compaiono in tutte le trasmissioni televisive e la cui fama viene costruita dai media. Vengono presentati come esperti del settore, opinionisti, ma difficile per il telespettatore dire se l’opinionista sia diventato esperto del settore perché è comparso in televisione o sia comparso in televisione perché realmente era un esperto del settore.

ATTIVARE IL MECCANISMO DELLA RIPETIZIONE. Creata la realtà voluta l’operatore di guerra psicologica deve attivare il meccanismo della ripetizione, ovvero deve ripetere un fatto non vero così spesso da farlo diventare reale, come nel succitato caso di Al Quaeda.

OPERARE DUBUNKING. Il debunking è una forma di manipolazione che consiste nello smontare e confutare teorie ed informazioni che vanno contro l’informazione (leggi manipolazione) ufficiale, ovvero la c.d. controinformazione. L’opera del debunker è di fondamentale importanza per la guerra psicologica, egli opera con messaggi semplici, prevalentemente diretti a livello emotivo con ganci diretti all’inconscio, ovvero a quei pregiudizi e stereotipi inculcati sin dai tempi della scuola e rinforzati quotidianamente dai media. Normalmente il messaggio teso a screditare la fonte di controinformazione del debunking si apre con un attacco sul piano personale, ovvero etichettando la persona con insinuazioni varie. Le principali etichette sono: bugiardo, paranoico, complottista, affetto da delirio di persecuzione, mitomane in cerca di pubblicità, Euroscettico, conservatore, nazionalista, xenofobo, razzista, fascista, sionista, antisemita, fondamentalista, comunista, ecc.. Tali parole (etichette) hanno la capacità, inserendosi in automatismi creati sin dalla scuola, di “impermeabilizzare” la nostra mente , ovvero neutralizzare a priori ogni possibile apporto ad un pensiero diverso. Queste sono le principali tecniche di manipolazione mentale. Ora che si conoscono le tecniche ci si può difendere. Come? Ad esempio:

- quando i media trasmettono notizie come quelle su Al-Quaeda ci si deve domandare cosa vogliono ottenere terrorizzando la popolazione. Vogliono far passare leggi che elidano ancora di più i diritti fondamentali dei cittadini? Si tratta di un “falso bersaglio”, ovvero desiderano attirare l’attenzione della massa su un fronte per operare indisturbati su un altro?

- Quando una persona in un dibattito non confuta i fatti ma si affida a frasi generiche e banali con ganci chiaramente emotivi si deve cambiare canale ed approfondire personalmente la questione. Stessa cosa si deve fare tutte le volte che qualcuno, invece di contestare nel merito un’affermazione, attacca sul piano personale etichettando l’interlocutore allo scopo di delegittimarlo;

- si deve analizzare sempre il contenuto di ciò che viene detto, ovvero verificare se si tratta solo di forma (parole inutili e stereotipi) o vi è anche sostanza, ecc…

Gli esempi potrebbero essere infiniti ma tutto si riduce, in fondo, ad una sola cosa: ci dobbiamo riappropriare della capacità di pensare.

Proprio a ridosso dell'articolo di Solange sulla funzione della televisione, ci viene dato un esempio plateale di come questo strumento serva a prendere in giro i cittadini, veicolando false notizie e manipolando la realtà, scrive Paolo Franceschetti. Da giorni molti mi hanno scritto, anche su questo blog o privatamente, chiedendomi perché non scrivevo un articolo su Sarah Scazzi. La risposta è semplice. Non so nulla di questa vicenda. Non potevo scrivere nulla, perché le mie idee me le facevo solo - come tutti - leggendo i giornali. L'unica cosa che mi era chiara è che eravamo davanti all'ennesima presa in giro perpetrata dai media ai danni delle persone normali. Anche semplicemente leggendo le notizie ufficiali era possibile rilevare queste anomalie.

Primo. In Italia scompaiono circa 1000 persone all'anno. Nel 2009 erano 1033, secondo le stime ufficiali della Polizia di Stato. Difficile capire come e perché i media avessero scelto di occuparsi solo ed esclusivamente di Sarah. Abbiamo detto molte volte che quando di un fatto se ne occupa ossessivamente la TV, vuol dire che dietro c'è molto altro, rispetto a quello che dicono.

Secondo. L'altra anomalia è che la famiglia Scazzi sceglie come difensore l'avvocato Walter Biscotti, già difensore di Rudy Guede nel processo Meredith, e coinvolto anche nel caso Marrazzo. L'avvocato risiede a Perugia. C'è da domandarsi come ha fatto la famiglia a scegliere un difensore che risiede a centinaia di chilometri, e con che criterio. Inoltre, nella fase di ricerca di una persona scomparsa, il difensore è assolutamente inutile, non essendoci procedimenti né civili né penali da affidare al legale. Guarda caso poi, il legale in questione non solo trova il tempo di recarsi personalmente ad Avetrana, ma ha anche la fortuna di trovarsi alla trasmissione "Chi l'ha visto" proprio quando in diretta mandano la notizia del ritrovamento del cadavere.

Terzo. Nella trasmissione Porta a porta, del 4 ottobre (quindi precedente al ritrovamento del cadavere), Bruno Vespa incalzava la moglie di Michele Misseri e la madre di Sarah domandando loro "ma voi credete a quest'uomo? pensate che menta?". Vespa parlava come se già sapesse chi sarebbe stato il futuro assassino, anche quando non esisteva l'ombra di un sospetto.

Il culmine del baraccone mediatico però arriva con la trasmissione Chi l'ha visto, dove, per "coincidenza", viene data in diretta la notizia del ritrovamento del cadavere. Dopodiché, ancora un'immancabile puntata di Porta a porta, con gli immancabili esperti, sempre gli stessi: Roberta Bruzzone, Paolo Crepet, Francesco Bruno (intervistato dai giornali), come se in Italia esistessero solo loro. A chiunque abbia un minimo di capacità di osservazione, risulta chiara una cosa. Che il caso di Sarah Scazzi è un'immensa presa in giro, concordata in anticipo ed eterodiretta dall'alto. Un immenso rito mediatico. L'ennesimo, ove tutto era calcolato fin dall'inizio. Aveva ragione Pasolini: niente di più feroce della banalissima televisione.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.  

 (Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)   

Lasciatemi votare 

con un salmone in mano 

vi salverò il paese 

io sono un norvegese…  

MAGISTRATI POCO ONOREVOLI. A TARANTO GUERRA DI TOGHE.

Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.

Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace?

«Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon.

Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione.

L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.

Possibile che sia un bugiardo?  I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi  dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali.

«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino, scrive Michele Imperio. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” -  A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»

Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

CONSULENTI PENTITI E RICREDUTI.

Consulenti, dopo Bruzzone arrivano Meluzzi e Picozzi, scrive “La Repubblica”. Criminologi e psichiatri della tv irrompono in truppa nel caso Sarah Scazzi. Pronti a sfidarsi a colpi di perizie per decifrare le pieghe del delitto. Questa volta sono i legali della famiglia Scazzi a calare gli assi della tv. Come consulenti di parte, infatti, sono stati nominati Massimo Picozzi e Alessandro Meluzzi, volti noti del piccolo schermo oltre che professionisti dall' impressionante curriculum. Il criminologo Picozzi sarà già in aula venerdì per prendere parte all'incidente probatorio in cui Michele Misseri dovrà dire la sua definitiva verità sull'omicidio di Sarah. La deposizione di zio Michele sarà raccolta nella cappella del carcere di Taranto in cui è rinchiuso. Misseri parlerà sotto gli occhi di Sabrina, la figlia che ha incastrato, bollandola come assassina. Ma a scrutarlo ci sarà anche Massimo Picozzi che siederà al fianco degli avvocati di parte civile Walter Biscotti e Nicodemo Gentile. Tra i banchi della difesa prenderà posto, invece, la criminologa Roberta Bruzzone, volto abitualmente accomodato sulle poltrone di Porta a Porta. Proprio lei ha fatto da apripista alla carica degli esperti della tv. Il legale di Misseri l'ha scelta come consulente. Venerdì scorso c'era anche lei in carcere, quando zio Michele ha deciso di vuotare il sacco, inchiodando Sabrina e sfilandosi di dosso i panni di assassino. La sua presenza nei delicati frangenti in cui l' inchiesta virava per l'ennesima volta, è stata ferocemente contestata dalla difesa al Riesame. Eccezioni procedurali, ovviamente, e che poi si tratti anche di un volto della tv è accessorio, anche se ormai è pacifico che le telecamere si siano conquistate da tempo un posto in prima fila nella tragica vicenda di Avetrana. E in questo tourbillon che ha trasformato l'omicidio di una ragazzina in un permanente horror show, vittime e colpevoli fanno la loro parte. Aveva cominciato Sabrina. Davanti a obiettivi e microfoni aveva versato lacrime su quella cugina scomparsa. Per oltre 42 giorni era stata protagonista. La sua breve carriera televisiva è finita dietro le sbarre. E la sua ultima immagine immortalata dalle telecamere è quella di una donna che nasconde il volto mentre viene condotta all'interrogatorio decisivo per il suo arresto. Ora è il turno di Claudio, il fratello di Sarah. Vuole fare strada in tv. Si sente portato e per questo ha contattato Lele Mora, ottenendo un secco rifiuto. "Gli ho chiesto se avesse in mente qualcosa per me. Non mi dispiacerebbe la televisione. Mi ha detto che non vado bene, non sono fatto per la tv» - ha rivelato Claudio Scazzi al settimanale Oggi. Lui, però, non si è perso d' animo e ha bussato alle porte di altre agenzie di spettacolo. In serata ha diffuso una nota in cui smentisce tutto. Senza parole.

I criminologi che abbiamo in Italia non sono sufficienti, scrive Gallito De La Rocas. Il progresso scientifico e tecnologico, insieme al benessere delle future generazioni del nostro paese, sono seriamente a rischio per la mancanza di criminologi. Meluzzi, Bruzzone, Picozzi, tutti misteriosamente muniti di un cognome con doppia Z, mistero sul quale sta già indagando Giacobbo, insieme ad un’equipe di scienziati delle migliori università, non sono sufficienti. Giacobbo ha inoltre intrapreso una ricerca, che partendo dagli scritti di nostradamus, punta a svelare le recondite ragioni per cui Frizzi, Crozza, Gualazzi, e Pruzzo non si siano anch’essi votati alla criminologia. In un solo colpo Meluzzi, Picozzi, Bruzzone erano, pochi giorni addietro, ospiti nella trasmissione di Nuzzi, anch’egli munito di doppia Z nel cognome. Deve trattarsi di un requisito minimo. Ebbene Confindustria, avrebbe commissionato uno studio ad un importante centro di ricerca, che ha evidenziato una scarsezza di figure criminologiche. Ma quali ingegneri, fisici, matematici, chimici e scienziati d’ogni sorta, che se baciati dalla fortuna vanno a lavorare in banca a programmare processi bancari! Non sono certo queste le figure che possono rilanciare l’economia del nostro paese. A cosa possono servire delle figure tristi e noiose come gli ingegneri! Sono dunque necessari molti più criminologi, che se a sufficienza, potrebbero presidiare adeguatamente le trasmissioni tv, dove ogni genere di giallo viene minuziosamente sviscerato, disegnati profili caratteriali, avanzate ipotesi geniali, ipotizzati moventi reconditi, con lo stile irresistibilmente sinistro del criminologo in penombra, che piace tanto ai telespettatori. Ma quali ingegneri e scienziati. Quelli prendiamoli indiani, che, se va male, costano un decimo.

E proprio Alessandro Meluzzi ha avuto uno scrupolo di coscienza ed ha abbandonato la sua consulenza a favore della famiglia di Sarah Scazzi, perché secondo lui Michele Misseri è un depistatore e Sabrina è innocente ed il processo si basa su ipotesi infondate. Sabrina Misseri e Cosima Serrano condannate all'ergastolo. Era già tutto previsto...

Michele Misseri si è proclamato un’altra volta unico colpevole della morte della nipote Sarah Scazzi. È successo al processo a Taranto in cui l’uomo è stato convocato a deporre. Tra le lacrime ha ripreso ancora una volta la sua tesi, quella di uno scatto nervoso che lo ha portato a strozzare Sarah con una corda. Una confessione che ha mandato sulle furie il suo avvocato difensore, che si è dimesso immediatamente dal suo incarico per manifesta incompatibilità tra le tesi della difesa e le parole di Misseri. Per Alessandro Meluzzi contattato dal ilsussidiario.net, Michele Misseri non è altro che un depistatore, un mentitore che vuole allontanare la verità dei fatti. Non solo: «Anche Sabrina è innocente, questo processo è tutto da rifare perché tutte da rifare sono le indagini, non esiste uno straccio di indizio che possa incastrare la figlia di Misseri. Gli scenari e le persone coinvolte sono altri».

Ennesima auto accusa di Michele Misseri: dal punto di vista psicologico, che idea si è fatto di lui?

«Esiste una sindrome che viene studiata in psichiatria forense che si chiama sindrome di Ganser: è la sindrome del mentitore isteroide sistematico. È una sindrome che risale alla psicologia militare, tipica di quelli che si fingevano matti per non andare in missioni di guerra particolarmente pericolose o cercavano di sfuggire al reclutamento».

Ci spieghi meglio…

«Significa ricostruire continuamente storie fantasiose, sempre false, sempre menzognere fino a superare una certa soglia nella quale l’individua diventa totalmente immerso nella parte istrionica da perdere i contorni stessi della realtà, ma non delle finalità delle sue azioni, che sono quelle di non fare il militare, cioè di non pagare pegno. Quindi, come diceva il comma 22 dell’aviazione militare, chi è matto non può partecipare alle missioni di volo ma chi spiega di non poter partecipare alle missioni di volo perché matto, vuol dire che non è matto».

È questo il punto di contatto con Michele Misseri?

«Per Misseri a questo punto tutto è diventato totalmente confuso tranne la finalità, che sono il depistaggio della verità. Misseri è un grande, organizzato e strutturale, depistatore».

Depistaggio da chi o da cosa?

«La domanda da farsi è: si depista che cosa e perché. Si depista perché si vuole allontanare dalla verità dei fatti ed è quello che io ho sempre pensato fin dall’inizio di questo processo. Una delle ragioni per cui questo processo è inestricabile è perché è stato descritto e assunto fin dall’inizio come un delitto intra villino, intra villare, come se avessimo scartato radicalmente ciò che non poteva essere scartato».

Che cosa è stato scartato?

«Che lo zoom di questo scenario sia più allargato, che coinvolga altre persone, che l’omicidio sia avvenuto altrove fuori della casa e più tardi, in contesti diversi e per motivazioni diverse».

Su cosa si fonda questa ipotesi?

«Ci sono una dovizia di particolari che dovrebbero far riflettere: lo svuotamento dello stomaco, nessuna traccia all’interno della casa. Si è scelto di assumere un’unica posizione, che il delitto cioè sia avvenuto dentro la casa. Essendo in tre e scartato Misseri, è chiaro che non rimangono che Sabrina e la madre».

Lo stesso Massimo Picozzi, anche lui consulente della famiglia Scazzi, non sposa più la linea delineata dall’avv. Gentile. E’ stato Intervistato da Vittorio Zincone. Trascorrere un paio d’ore con Massimo Picozzi, 54 anni, criminologo e psichiatra, è un’immersione nel pozzo maligno dei grandi delitti e dei misteri irrisolti del nostro Paese. Omicidi familiari, bande di brocchi assassini, serial killer. Quando non se ne è occupato di persona, ci ha scritto il capitolo di un libro (a quattro mani col giallista Carlo Lucarelli) o ne ha parlato in tv (Predatori di uomini, La linea d’ombra, Quarto grado). L’omicidio di Yara? «Senza tracce dell’assassino, ammesso che sia uno solo, la soluzione mi pare lontana». Il delitto di via Poma? «Tanti indizi compatibili. Ma lo scardinamento di un alibi dopo venti anni non mi convince». Le bestie di Satana? «Ragazzi squallidi e patetici». Incontro Picozzi nel bar dell’hotel Principe di Savoia a Milano. Appena si siede, emette la sentenza: «Che posto da sciuri!». Fiero dell’origine operaia della sua famiglia, lo psichiatra parla svelto, con cadenza lombarda. Nel 2000 ha cominciato a collaborare con l’Unità di analisi crimini violenti (UACV) della Polizia. Ora dirige un Centro di ricerche sul crimine e il Master in Criminologia forense dell’Università Cattaneo, a Castellanza. Le procure lo chiamano per studiare gli assassini o per farsi suggerire come affrontare l’interrogatorio di uno psicopatico. Qualche investigatore ogni tanto gli chiede una consulenza informale per fare il “profilo” di un ricercato. «Si fidano anche perché non vendo teorie come la gran parte dei criminologi», spiega Picozzi. «Ho sentito alcuni colleghi dichiararsi certi del fatto che un serial killer aveva partecipato alle indagini, mischiandosi ai curiosi, ahah». Gli chiedo: «Non è possibile?». Replica: «Certo. Ma se dici una cosa simile a uno sbirro, lui vuole sapere come sei arrivato a questa conclusione. E non gli puoi rispondere che lo hai letto a pagina 38 di un manuale. Nel nostro mestiere troppi parlano troppo presto». Quando gli domando un parere sull’omicidio di Melania, ad Ascoli, prima tira una bacchettata sulle dita dei giornalisti («Troppo spesso si parla delle vittime senza la necessaria cautela e sobrietà»), e poi demolisce chi ha ipotizzato la presenza di un serial killer («Solo perché ci sono stati due morti nella stessa zona? E il modus operandi?»). Picozzi in alcuni dei casi misteriosi più celebri degli ultimi anni è parte in causa. Nel delitto di Avetrana, per esempio, è consulente della madre della vittima. Partiamo da qui, allora.

Chi ha ucciso Sarah Scazzi? Che idea si è fatto?

«Non ci si può affidare solo alle dichiarazioni di Michele Misseri che accusa la figlia Sabrina».

Sabrina, la cugina di Sarah, è in carcere.

«Sono sicuro che la Procura abbia in mano qualcosa di più. Ma so anche che reperire prove nell’ambito di un delitto familiare è difficile».

Perché?

«Perché è ovvio che si possono trovare le impronte di Sarah in casa Misseri. Sono tracce giustificabili. Che cosa c’è di strano se nella stanza della vittima Chiara Poggi ci si trova il Dna del fidanzato Alberto Stasi? Bisogna dimostrare che quelle tracce, accanto alla vittima, ci sono finite proprio durante il delitto».

Le impronte e il Dna vanno maneggiati con cura.

«Le impronte funzionano dai tempi dei sumeri. E considero la prova del Dna una evoluzione fondamentale per le indagini. Vorrei anche che in Italia ci fosse quella banca dati del Dna che ha permesso alla Gran Bretagna di aumentare del 20% i casi di omicidio risolti. E racconto spesso che negli Stati Uniti grazie al Dna sono stati strappati dal braccio della morte 250 condannati… Ma si può fare di più».

Per esempio?

«Gli investigatori dovrebbero imparare anche le nuove tecniche di interrogatorio dei sospettati e dei testimoni. In Italia, invece, non è passata nemmeno l’idea di una squadra che si occupi dei “profili criminali”. Qui si discute se funzioni di più il metodo scientifico Ris/Csi o quello del vecchio brigadiere di campagna».

Secondo lei?

«Nei Paesi più sviluppati i casi risolti sono il 65%».

Qual è il caso del passato che sarebbe stato risolto con più disinvoltura grazie alle nuove tecnologie?

«Il caso Bebawi. Sarebbe bastato fare lo stub».

Che cos’è?

«L’esame che evidenzia i residui dello sparo. Il colpevole tra i due coniugi che si accusavano a vicenda sarebbe saltato fuori subito».

Lei si è occupato del caso Izzo. L’assassino del Circeo (1975), che uscito di galera in semilibertà, nel 2005, ha trucidato altre due donne. C’è qualcosa che non va.

«Quelli come Izzo sono dei manipolatori. Aveva convinto tutti che era cambiato. E poi c’è la legge: dopo 25 anni di carcere acquisisci il diritto alla semilibertà. Il problema è che era stato inserito in una struttura a occuparsi di prostitute e transessuali».

Non il posto giusto.

«Diciamo che i magistrati hanno bisogno di consulenti più esperti. Alcune patologie criminali non sono ancora curabili, quindi bisognerebbe attrezzarsi: sorveglianza continua, obbligo di firma frequente, localizzatori…».

Patologie non curabili: gli assassini…

«…la maggior parte, anche se malati, hanno sempre la possibilità di scegliere se commettere o no un delitto. Tranne rari casi: Davide Antonelli, il diciannovenne che nel 2004 ha preso un treno da Milano è sceso a Brindisi e ha ammazzato la nonna con novanta coltellate, aveva una patologia gravissima. Non aveva capacità di intendere e di volere rispetto alle proprie azioni. I serial killer Donato Bilancia, Gianfranco Stevanin e Michele Profeta, invece, sono stati tutti ritenuti responsabili dei loro crimini».

È vero che prima che venisse catturato, lei ha avuto uno scambio di sms con Profeta?

«Sì. L’ispettore della questura di Milano con cui Profeta era in contatto per estorcere soldi in cambio della fine dei delitti, mi chiese di dettargli i messaggi giusti per intrattenere il più a lungo possibile il killer. Una scena abbastanza hollywoodiana: tre ore della mia vita in linea con l’assassino».

Hollywood. Siamo invasi dalle serie tv sul crimine.

«Sono stato consulente per il doppiaggio di Csi – Miami».

Csi, Criminal Minds, Senza traccia, Cold case… Qual è la serie più credibile?

«Senza traccia. Se non altro perché una puntata su quattro finisce con il non ritrovamento dello scomparso. Ci si potrebbe ispirare a Criminal minds per la figura dell’agente che tiene i rapporti con la stampa e le relazioni con le autorità locali. Ma prima ancora si dovrebbe introdurre la figura del supervisor della scena del crimine, alla Csi».

In Italia non esiste?

«Il mancato coordinamento sulla scena è motivo di tanti pasticci».

La serie tv meno credibile?

«Purtroppo è la più affascinante: Lie to me».

Quella col professore interpretato da Tim Roth che ti becca ogni volta che dici una balla, perché ti tocchi il naso o fai una smorfia?

«La tecnica è scientifica. Ma ci sono troppe semplificazioni».

Lei quando ha cominciato a occuparsi di criminali?

«Subito dopo la laurea in medicina».

Come?

«Per caso. Andai con un amico a fare una partita di calcio in un carcere. La classica “liberi” contro “detenuti”. Lì incontrai il direttore del carcere di massima sicurezza di Busto Arsizio che mi chiese se volevo lavorare da lui come responsabile sanitario. Accettai».

Gli anni in carcere…

«Ho imparato tutti i dialetti d’Italia. E ho cominciato ad avere a che fare con i delinquenti: il boss mafioso Angelo Epaminonda, detto il Tebano, i terroristi palestinesi dell’Achille Lauro…Renato Vallanzasca».

Il bel René. Che cosa pensa delle polemiche sul film di Michele Placido?

«Sto dalla parte delle vittime. Quando si decide di rappresentare il male lo si dovrebbe fare senza fronzoli, per quello che è: banale. Le esigenze cinematografiche, invece, spesso rischiano di far mitizzare personaggi squallidi».

Torniamo alla sua gavetta.

«Mi sono specializzato in psichiatria e poi in criminologia. Dopo il lavoro in carcere, sono stato “interno” in ospedale per più di dieci anni. Nel 2000, durante una conferenza di Ruggero Perugini, il primo capo della Squadra anti-mostro di Firenze, ho deciso di propormi per collaborare con l’Unità analisi crimini violenti».

Il primo caso importante di cui si è occupato?

«Le tre ragazzine di Chiavenna che uccisero suor Laura Mainetti. La cosa che mi fece più impressione è la giustificazione che diedero dell’omicidio».

Quale fu?

«Volevano fare il “botto”. Erano annoiate, non ce la facevano. Nei gruppi di ragazzi la sensazione di essere impantanati in un blocco evolutivo e di poterne uscire con un atto quasi magico è frequente».

L’atto violento e di gruppo come strumento di crescita? La frequenza delle aggressioni selvagge da parte di bande di piccoli criminali si può giustificare così?

«È uno degli elementi. Un ragazzo da solo difficilmente farebbe certe cose. Il gruppo toglie raziocinio. Se poi alcuni giovani sono abituati alla violenza in famiglia… La frontiera generazionale da studiare oggi, comunque, è quella virtuale. Ci sono nuove patologie e linguaggi che noi adulti fatichiamo a comprendere: la depressione da mancanza di amici su Facebook, la stima di sé che passa attraverso il click di una comunità digitale… Internet è stato anche un acceleratore dei delitti sessuali».

Non faccia il proibizionista fustigatore dei socialnetwork.

«Bisogna studiare. Nel libro che ho scritto con Carlo Lucarelli sui crimini sessuali, che uscirà a ottobre, c’è un intero capitolo sul cyber stalking».

A cena col nemico?

«Tra gli assassini? Il serial killer Ted Bundy, ma l’hanno arrostito nel 1989. Quindi… Ayman al-Zawahiri, il medico ideologo di Al Qaeda».

Ha un clan di amici?

«No. Ho tre figli e sono famiglia-centrico».

Qual è l’errore più grande che ha fatto?

«Aver compreso troppo tardi l’umanità di mio padre».

A parte le fiction sul crimine che cosa guarda in tv?

«Il Milan. Non i talkshow che parlano di delitti».

Favorevole o contrario ai modellini di Vespa?

«Nel 1905, per spiegare la dinamica dell’omicidio Murri-Bonmartini, la Corte fece costruire un plastico della villa con tetto scoperchiabile. Nulla di nuovo, insomma».

Il film preferito?

«I soliti sospetti con Kevin Spacey».

La canzone?

«Le Variazioni Goldberg di Bach».

Il libro?

«Il petalo cremisi e il bianco di Michel Faber».

Quanto costa un litro di benzina?

«Un euro e quaranta circa».

Che cosa è raffigurato sui 5 centesimi?

«Non lo so».

Il Colosseo. Conosce i confini di Israele?

«Libano, Siria e Giordania. No, la Siria no. Ce n’è ancora?».

La Siria sì. E poi l’E…

«Che cosa fa, mi dà l’aiutino? Scriva pure che non li so».

L’APPELLO. MICHELE E LA SUA MENTE.

«Mi vergogno pure a dirlo, ma ho subito violenze, non da mio padre ma da un suo parente, lui è morto ormai, era un primo cugino di mio padre. Ho subito violenze sessuali, robe del genere, a pensare ho ancora adesso i dolori. Non l'ho mai detto a nessuno». È la registrazione di uno dei colloqui che Michele Misseri, nell'estate 2013, ha avuto con la psicologa consulente della difesa, Annamaria Casale, ed il cui video sarà diffuso l’11 luglio 2014 nel programma Segreti e delitti in onda su Canale 5. «Mia moglie - prosegue il contadino riferendosi alla violenze subite da piccolo, quando aveva 7-8 anni - l'ha scoperto dopo, quando l'ho detto in Tribunale. Nemmeno i miei figli lo sapevano… Non ricordo quante volte sia successo, ma più di una volta». «Sono stato legato sotto un albero - aggiunge - quel famoso albero di fico sotto il quale volevo lasciare Sarah. Vi ho lasciato lì Sarah, perchè quell'albero nascondeva troppe cose. È lì che mio padre ci legava, cioè mi legava con le mani dietro, dietro alla spalla. Potevi girare tutto l'albero, ma fuori dall'albero non uscivi, tanto non ti vedeva nessuno. Anche se passavano persone non ti vedevano. È lì che ho subìto quel che ho subìto...Non ricordo quanto, se rimanevo 2 ore, 3 ore. Ricordo che il più delle volte mia madre mi portava da mangiare di nascosto e poi prendeva botte da mio padre». Alla psicologa, Michele racconta tra l'altro non solo di aver sognato Sarah ma anche di aver cercato di tirare fuori dal pozzo il cadavere: «La prima notte, dopo averla messa lì, l'ho sognata che diceva: Zio, ho freddo. Anzichè andare a lavoro sono andato al pozzo con una corda per entrare e farla uscire fuori, ma non entravo, non entravo. Ho provato a entrare nel pozzo, ma non entravo perchè era troppo stretto. Giuro che se io fossi potuto entrare… io a vederla legata... chissà, forse l'avrei portata io stesso in caserma, magari sarei esploso… Non lo so proprio, non lo so, non è stato possibile». Infine ribadisce la sua responsabilità nell'uccisione della nipote: «Ricordo che ho preso la corda, però non ricordo i giri che ho fatto, non ricordo quanto ho stretto. Ricordo solo che avevo in mano quella corda quando è suonato il cellulare. Ho visto che stava in piedi, la tenevo e poi si è accasciata. Non c'è stato urlo, niente di niente».

Michele Misseri sottoposto a perizia psicologica. Ecco cosa dice la perizia della psicologa Casale. «Il Misseri ha una personalità fortemente dipendente e gregaria, talvolta addirittura simbiotica e morbosa. Ha un Io debole, è un uomo immaturo che per fidarsi dell’altro e non percepirlo come ostile, finisce per dipenderne totalmente. Tende a considerare reale e oggettivo tutto ciò che placa la sua ansia: si sente infatti, circondato da una realtà che lo perseguita». E ancora, la personalità dello zio di Sarah «è caratterizzata da una notevole scarsità di capacità cognitive con profonde conflittualità irrisolte. Michele Misseri non si accorge di fare in continuazione affermazioni contraddittorie perché si auto - convince della loro veridicità ogni volta, adeguando la realtà ai suoi bisogni affettivi semplici, ma confusi e conflittuali. Può dunque risultare credibile, in un primo momento, ma poi ci si rende conto che piega i fatti ai bisogni della sua personalità e dei suoi interessi». I giudici già rilevarono che «un profilo psicologico come quello di Michele Misseri può essere particolarmente influenzabile e suggestionabile da pressioni, anche involontarie e indirette, provenienti dall’esterno». E ancora, nelle 1.631 pagine che custodiscono le motivazioni della sentenza di primo grado, il presidente della Corte, Cesarina Trunfio, ha scritto che «non sussiste alcun ragionevole motivo per il quale Michele Misseri avrebbe dovuto accusare ingiustamente, provocandone la sua carcerazione, proprio la figlia prediletta Sabrina e non altri soggetti». In questo intreccio di contraddizioni, s’inserisce il difficile lavoro dell’avvocato La Tanza che tenta di difendere chi si accusa di tutto, partendo dal presupposto che se sono tutte bugie, è falso anche che abbia nascosto il cadavere di Sarah. Ancora più difficile, però, anche alla luce di questa nuova perizia psicologica, è il compito del collegio difensivo di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, in carcere per l’omicidio della piccola Sarah con la prospettiva di rimanerci tutta la vita. Gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia, difensori della cugina assassina, oggi 26enne, cercano di andare oltre le contraddittorie confessioni del contadino e puntano tutto sulla mancanza di prove certe per la colpevolezza della loro assistita. Se per descrivere la personalità malata di Misseri e chiedere la sua assoluzione ci sono volute solo 41 pagine, loro ne hanno riempite ben 476 per cercare di convincere i giudici dell’appello che Sabrina è vittima di un’assurda congiura. Contro di lei hanno tramato in tanti, quel padre immaturo, che potrebbe essere davvero un killer spietato, e la giuria che ha sempre e solo creduto nella sua colpevolezza, arrivando a travisare le prove. Anche gli avvocati di Sabrina hanno per le mani una superperizia eseguita sul cadavere della piccola Sarah. Secondo gli esperti la ragazzina sarebbe stata strangolata non con una cintura, come finora si è ipotizzato, ma con una corda, proprio come Misseri confessò il giorno stesso in cui fece ritrovare i poveri resti della nipotina. Gli avvocati di Sabrina tenteranno anche di smontare il movente dell’omicidio, indicato nella gelosia della cugina per la bellezza di Sarah, che attirava gli sguardi dei ragazzi e in particolare di quell’ Ivano Russo, che Sabrina era convinta di amare.

Cinque anni di interdizione ai pubblici uffici per Michele Misseri, 10mila euro di provvisionale e 14.980 euro di spese legali a favore del Comune di Avetrana. La Corte d’Assise di Taranto il 21 giugno 2014 ha sciolto la riserva, accettando la richiesta presentata dall’avvocato Pasquale Corleto, per conto del Comune di Avetrana, e sanando così alcuni errori materiali contenuti nella sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi a proposito del risarcimento dei danni chiesto dall’ente locale e della pena accessoria per Michele Misseri. Nelle motivazioni della sentenza che ha condannato Sabrina Misseri e sua madre Cosima all’ergastolo, era stato stabilito il pagamento di 14.985 euro per le spese legali sostenute dal Comune, spese liquidate come da dispositivo. Ma nel dispositivo, letto in una dalla Corte d’Assise l’ormai lontano 20 aprile del 2013, non si faceva alcuna menzione delle spese da liquidare ed ecco perché l’avvocato Corleto ha chiesto alla corte presieduta da Rina Trunfio di porre rimedio, ottenendo oltre alle spese anche 10mila euro a titolo di provvisionale. Comminati, inoltre, cinque anni di interdizione dai pubblici a Michele Misseri, pena accessoria che era saltata nel dispositivo.

Michele, comunque, la sua condanna (se colpe ne ha) la sta espiando. « Non ho i soldi per andare avanti, sono costretto a fare sciopero della fame perchè il denaro che ho in banca, quello della disoccupazione, è tutto bloccato. Ho l’obbligo di dimora, e non posso nemmeno andare a Manduria, a 2 chilometri da casa mia, per lavorare, perché è necessaria la carta del giudice per fare istanza». Lo ha affermato il contadino, lo zio di Sarah Scazzi uccisa ad Avetrana, in un’intervista a “Segreti e delitti” (clone di Quarto Grado) su Canale 5 il 13 giugno 2014, in cui ribadisce la sua colpevolezza in merito al delitto e alla innocenza della figlia Sabina e della moglie Cosima. «Nessuno parla con me, sono diventato il fantasma di tutto, sono il fantasma di Avetrana. Non ho più nessuno, nemmeno i miei parenti. Ad Avetrana nessuno può sbagliare… Sono morti mio nipote e mia sorella e non mi hanno voluto ai funerali. L’unica  famiglia che ho, è la buonanima di mio fratello.  Non ho i soldi per andare avanti, sono costretto a fare sciopero della fame perché il denaro che ho in banca, quello della disoccupazione, è tutto bloccato. Ho l’obbligo di dimora, e non posso nemmeno andare a Manduria, a 2 chilometri da casa mia, per lavorare, perché è necessaria la carta del giudice per fare istanza, sto perdendo i peli per lo stress (mostra una chiazza senza peli sul mento e sulla gamba) e mi sto riempiendo di chiazze su tutto il corpo. Il dottore mi dice che devo stare calmo, ma come faccio? - Prosegue Michele Misseri - Tutte le domeniche scrivo a Sabrina e a Cosima, ma non ho mai avuto risposta, mi sono anche dimenticato come scrivono. Io sicuramente avrò scritto più di quattrocento lettere, da loro mai una risposta… Ma rimango contento lo stesso». Lo zio di Sarah Scazzi conclude rivolgendosi alla moglie Cosima e alla figlia Sabrina detenute nel carcere di Taranto: «Se mi stessero guardando ora in tv, direi fatevi forza e coraggio che ce la farete, perché siete veramente innocenti, ma questo lo posso dire io, la Giustizia non ci vuole credere. Fino adesso non mi ha creduto nessuno, questa è la mia rabbia!».

Sarah Scazzi. Le motivazioni del giudice Trunfio potevano scriverle anche Kafka e i fratelli Grimm... scrive Massimo Prati sul suo blog, Volando Controvento. Avete presente Cappuccetto Rosso? Certo che l'avete presente. La conosciamo tutti. E' quella bimba che bazzicava per boschi e si imbatteva nel lupo cattivo, che nessun familiare le aveva mai detto esistere, e da lui si faceva convincere a raccoglier fiori (invece che mangiarla subito la bestia preferì farle perdere tempo e gustarsi anche la nonna: gallina vecchia fa buon brodo). E' la bambina che, se il cacciatore quel giorno fosse andato a caccia dalla parte opposta, sarebbe diventata concime. Con lei anche la vecchietta malata che, povera anziana al minimo della pensione, abitava a mezz'ora di strada dalla città. Dove? E dove volete che vivano le nonnine solitarie, malate e prive di sostentamento, se non in una baracca isolata in mezzo al bosco? So che quanto accadde in quel bosco ai più oggi appare illogico e difficile da credere. Insomma, un lupo parlante che ingoia una nonna e si traveste da vecchietta pur di mangiare la nipote... un cacciatore che con un paio di forbici, prese chissà dove, gli taglia la pancia mentre dorme e fa uscire integre le due persone ingoiate vive... Ma credetemi, è proprio la mancanza di logica che rende il quadro verosimile e sicuro. In fondo agli esseri umani le storie illogiche, specialmente se si parla di crimini come quelli commessi dal lupo (ad esempio), piacciono da matti. Cosa dite? Cappuccetto Rosso esiste solo nella fantasia popolare del XIV secolo? E' una favola ripresa nei contorni attuali dai fratelli Grimm? Volete prendermi in giro? So che la storia l'hanno scritta per i posteri anche i fratelli Grimm, ma non siete credibili quando mi dite che è inventata. Perché i fratelli Grimm, magari non lo sapete, erano uomini di legge che studiarono all'Università di Magdeburgo. E dopo aver studiato per anni e anni, rielaborarono il pensiero del loro maestro, il giurista  Friedrich Carl von Savigny, e migliorarono gli studi di metodologia della scienza giuridica tedesca. No cari miei, mi è davvero difficile pensare che chi ha studiato giurisprudenza scriva favole. Per questo credo che Cappuccetto Rosso sia davvero esistito. Io leggo sempre volentieri quanto scrivono gli uomini di legge. Ad esempio, l'ultima mia lettura riguarda un tomo di 1600 pagine firmato in calce dal giudice Cesarina Trunfio, donna di legge, che ha ripreso un racconto originale di alcuni procuratori di Taranto (uomini di legge). Vi garantisco che se una storia del genere me la raccontasse un blogger faticherei a crederla, anzi lo criticherei, ma nessuno può dubitare di cosa scrive un giudice o un laureato in giurisprudenza. Per cui quella che andrò a riassumervi è vera quanto lo è la storia di Cappuccetto Rosso o la Metamorfosi di Kafka, anche lui con la stessa laurea, in cui il protagonista va a letto uomo e si risveglia insetto. Per caso vi siete mai chiesti perché Gregor Samsa si sia trasformato in un gigantesco insetto? Nessuno lo dice, nessuno lo sa e nessuno se ne preoccupa. Il fatto è assodato e tanto basta. Così capita anche nello scritto del giudice Trunfio, e tanto deve bastare. Ve lo riassumo e poi vediamo se avrete il coraggio di dire che i fratelli Grimm, Kafka e il giudice Cesarina Trunfio, quando scrivono si basano sulla fantasia. Un consiglio: per renderlo ancora più reale, ogni tanto chiudete gli occhi e immaginate le scene. Il libro del giudice inizia quando due ragazze (Sabrina e Mariangela) e una ragazzina (Sarah, cugina di Sabrina) decidono di uscire insieme. Una volta in auto, senza che Mariangela se ne accorga, Sarah e Sabrina litigano di brutto a causa di Ivano (un indigeno del luogo con la barba curata). Nonostante quella furiosa litigata le tre vanno in birreria. Lì, altre parole di Sabrina umiliano la ragazzina. Poi, sulla strada del ritorno, le due ragazze più grandi si accordano per andare, il giorno successivo, al mare. Comunque non prima delle 14.30, visto che Mariangela esce dal lavoro sulle 14.15/14.20. In quel caso, se finirà presto di lavorare, confermerà la gita in spiaggia inviando un sms a Sabrina, in caso contrario, finisse più tardi, per le cugine niente mare ma solo noia e caldo afoso al sole del paesello. Si fa notte e tutte vanno a nanna. La mattina dopo, nonostante il litigio e le umiliazioni della sera precedente, Sarah si reca a casa di Sabrina e vi rimane per alcune ore senza che le capiti nulla. Anzi, va pure a fare una commissione per la cugina che necessita di una crema solare. Poi torna a casa sua, ma anziché aspettare il messaggio che conferma la gita al mare, come da accordi comunicati anche a sua madre, alle 13.50 mente a tutti e dopo un veloce pasto torna da Sabrina dove, nel volgere di pochi minuti, si trova al centro di un furioso litigio (non si sa da cosa sia originato, ma si presume che nasca a causa della gelosia). Capendo che per lei butta male, Sarah scappa a gambe levate e si dirige verso il centro del paese. Lì si ritrova in vie desolatamente deserte con case prive di citofoni o campanelli (che basterebbero per chiedere aiuto). Magari per strada si sente al sicuro, ma non ha fatto i conti con l'oste. Infatti, prontamente interviene Cosima, zia della ragazzina e madre di Sabrina, che per nulla stanca (nonostante si sia alzata alle tre e mezza e sia stata piegata a raccogliere pomodori fino alla mezza) carica sull'auto la figlia, naturalmente sul sedile posteriore perché... perché... (un motivo ci sarà, ma che ce ne frega a noi), e si getta all'inseguimento della nipote. Dopo aver zigzagato ad alta velocità per le vie del paese con la sua potente Opel Astra, superando pulmini, sgommando e diventando sia invisibile che oniricamente visibilissima, raggiunge Sarah e la induce (in alcune versioni la costringe) a salire in macchina per far ritorno a casa dove, non appena arrivate, le due arpie incazzate nere strozzano la ragazzina con una cintura. Sono le 14.15 e la storia, chiaramente intrecciata di architettura barocca, è talmente veritiera nella sua spavalda e complicata ricostruzione che potrebbe finire qui. Tutti a cantale l'alleluia dopo aver comminato l'ergastolo a quelle due. Ma il cerchio non si può chiudere perché c'è un uomo presente in casa. Un uomo cui occorre trovare una collocazione diversa da quella che lui vorrebbe ritagliarsi. E' lo zio della vittima, che mentre accade il fattaccio è talmente stanco e spossato che pur dormendo su una sdraio a tre metri di distanza non si accorge di nulla (oppure sbircia ma lascia fare). Si chiama Michele e dopo il delitto viene svegliato da moglie e figlia che lo avvertono di aver strozzato la nipotina. Lui a quella notizia non fa una piega. Si alza, si stira la schiena, incrocia le dita e le fa scrocchiare, va in bagno a fare un bisogno e poi, su richiesta delle due che lo comandano a bacchetta tanto sono inviperite, decide di incaricarsi dell’occultamento del cadavere che però, pur avendone tutto il tempo visto l'orario, non porta sul retro della casa e non carica subito in auto. Sarebbe la strada più facile e lo sa, ma così facendo si svilirebbe l'interesse per la storia. Meglio prendere il cadavere e trasportato per vie traverse e scomode fino al garage sotterraneo. Meglio lasciarlo in cantina fino alle 14.45 in attesa che arrivi qualcuno. Nel frattempo Sabrina riceve il messaggio di Mariangela che le conferma la gita al mare. Sono le 14.21 e immediatamente le scocca la scintilla geniale e decide che quella è l’occasione giusta per procurarsi un alibi di ferro (una vera criminal mind...). Per cui scrive un sms a Mariangela in cui chiede, con tanto di punto interrogativo, se con loro può andare anche Sarah. Certo, facendo così corre il rischio di non ricevere subito risposta. Ad esempio nel caso in cui l'amica si trovi in auto davanti o dietro una pattuglia di carabinieri, oppure nel caso non abbia la possibilità di leggere subito il messaggio perché sta facendo una doccia o ha lasciato il cellulare sul cruscotto dell'auto o al chiuso della borsetta. Poco basterebbe per far saltare il falso alibi che si vuole creare. Invece, fortuna vuole che Mariangela risponda subito con un "ok". Ed ecco che alle 14.24 Sabrina è autorizzata a mandare un sms a Sarah, già cadavere e forse già in cantina, per dirle che si va al mare. Ma un solo messaggio non le basta e vuol fare di più. Così alle 14.28 (non si sa il motivo, ma non si dice che du gusti is meglio che uan?) gliene invia un secondo. A quel punto, per rendersi insospettabile, non fa altro che prendere in mano il telefonino di Sarah e utilizzarlo per mandarsi uno squillo di risposta. Poi, sollevata dall'immunità che genialmente si è creata, va in bagno a tentare di far qualcosa. Cosa tenta di fare non è dato saperlo e non lo capisce neppure Mariangela (forse una confettura di menta col Tantum Verde?). Alle 14.31, mentre è in bagno a non si sa che fare, le arriva il messaggio di un'altra ragazza a cui risponde alle 14.35 - ben quattro minuti dopo (e questo è tutto dire). Finito di tentare e fatta una doccia, ormai pronta e vestita, alle 14.39 (poco più) invia un ulteriore sms a Mariangela per dirle che si può partire. Poi si apposta sulla veranda, anzi sulla strada, per impedire all'amica di scendere dall'auto (sia mai che le venga voglia di andare in garage o in casa). Mariangela arriva e alle 14.42, dopo una telefonata inviata alla ragazzina ormai morta da mezz'ora che nonostante il tempo passato è ancora all'interno di quella proprietà (nella storia non se ne parla, ma si suppone che nel frattempo Sabrina abbia dato il telefonino di Sarah al padre ordinandogli di spegnerlo al quinto squillo della prima chiamata in arrivo), inizia la ricerca della cugina fingendo agitazione e chiedendo la mobilitazione di amici e carabinieri dicendo loro che Sarah non se ne sarebbe mai andata di sua iniziativa (furba vero?). E Michele? Lui è il pezzo forte della storia scritta dalla Trunfio. Quel giorno non ha voglia di aprire il cancello e infilare l'auto nel cortile, per questo preferisce scendere col corpo in braccio nel labirinto di corridoi e scale (e porte bloccate) e una volta arrivato in garage attendere che arrivino gli squilli (c'è un disegno ben preciso: deve staccare la batteria del cellulare). Poi, dopo gli squilli e mentre le ragazze vanno e vengono da e per casa Scazzi, apre il portone del garage al massimo, fa marcia indietro con l'auto e sistema il cadavere nel baule (il rischio di essere visto da un passante estemporaneo lo eccita e gli fa aumentare l'adrenalina!). Alla fine si decide e parte, ma non volendo restar solo, perché si sa che chi non occulta in compagnia o è un ladro o è una spia, chiama il fratello Carmine al cellulare e gli racconta cosa è successo dicendogli di raggiungerlo. Fatto questo, sempre per stare in compagnia (della serie: più siamo meglio stiamo), si ferma a casa del nipote Mimino ripetendogli il discorso fatto a Carmine. Naturalmente, tanto il fratello quanto il nipote non hanno alcuna remora o tentennamento di fronte all'omicidio di una quindicenne e decidono immediatamente di aiutarlo (come si fa a dir di no a un parente, come si fa a rifiutargli una mano quando c'è da occultare un cadavere?). Così, in rigorosa fila indiana (tipo sette nani in marcia verso la miniera), tutti e due si recano con Michele al fico e poi al pozzo di contrada Mosca, dove seppelliscono la sventurata ma non accendono fuochi. Ancora una volta sarebbe troppo facile decidere (tre menti dovrebbero ragionarla meglio di una), il luogo è isolato, ma si preferisce andare sul ciglio di una strada e bruciare lì tutte le cose compromettenti. Naturalmente tutte tranne la più compromettente: il cellulare ad esempio. Sia mai che un domani qualcuno senta il bisogno di farlo ritrovare? Verso le 16.00, dopo il seppellimento a più mani e il rogo, tutti tornano tranquilli ai loro lavori e Michele raggiunge il cognato alla cava dietro casa sua per raccogliere quattro manciate di fagiolini. Tanto, fino a quando non uscirà il cellulare quale investigatore indagherà per scoprire quell'ora di vuoto nel suo pomeriggio? Ecco, in poche parole questo è il riassunto della storia portata in visione dai procuratori e riscritta dal giudice Trunfio. Ed è davvero appassionante per come stuzzica la fantasia. Per completezza di informazione, c'è da dire che non tutti la credono reale. Infatti un famoso avvocato, studioso di diritto e pure lui laureato in giurisprudenza, crede che non sia vera perché, dice sempre lui, è priva di qualsivoglia logica. Possibile che non conosca i fratelli Grimm? Possibile che non conosca Kafka? Cosa c'entra la logica? Forse c'è logica in un lupo parlante che inghiottisce persone intere? Forse c'è logica in un uomo che dalla sera alla mattina si trasforma in insetto? Suvvia, caro professore, la smetta di cercare sempre la logica in ogni cosa. La storia scritta da Cesarina Trunfio si presenta bene? Sì? Ha quel pathos che serve per attirare l'attenzione e coinvolgere l'opinione pubblica e i nuovi giudici di appello, popolari e non? Si? E allora basta, si arrenda all'evidenza perché ormai il libro è scritto e resterà negli annali per dimostrare, a imperitura memoria, che chi si intende di giurisprudenza, siano i fratelli Grimm, sia Kafka o sia il giudice Trunfio, non deve usare la logica per scrivere storie o sentenze reali. Che per comminare l'ergastolo a più persone, a chi detiene il potere la fantasia basta e avanza...

TESTIMONE DI GEOVA? NO GRAZIE!!!

Testimone di Geova? No, grazie: sono nato in Italia, non in Pennsylvania...scrive Massimo Prati sul suo blog. Qualche anno fa, mentre stavo scrivendo un articolo su Sarah Scazzi sentii suonare alla porta. Alzai la cornetta del videocitofono e sullo schermo apparvero due donne con in mano un pacco di opuscoli. Erano testimoni di Geova che mi chiedevano cosa ne pensassi dei mali del mondo. A metà degli anni '90 abitavo accanto a una sala del regno e non furono poche le discussioni che mi vedevano contrapporre le mie idee a quelle dei testimoni che la frequentavano. Stavo per chiudere la conversazione, certo che un eventuale dialogo non sarebbe sfociato in nulla, quando mi ricordai dei tanti testimoni di Geova di Avetrana che si mostravano sugli schermi per divulgare le chiacchiere di paese e che anche la madre di Sarah era una sorella. Subito pensai che le due signore mi avrebbero potuto aiutare a capire almeno il rapporto conflittuale che Concetta Serrano doveva vivere in famiglia. Così aprii il cancello esterno e le varie porte che le dividevano da me facendole accomodare in salotto e iniziando a dialogare con loro che immediatamente si misero all'opera chiedendomi se conoscevo la verità. "Ma amiche mie - dissi - chi mai può conoscere la verità? Non credo esista al mondo nessuno in grado di poter affermare di conoscere la verità. Voi la conoscete?". La risposta lapidaria non mi lasciò di stucco perché già centinaia di volte l'avevo ascoltata: "E' scritta qui: in questi opuscoli c'è tutto ciò che deve sapere". E mi misero in mano un numero della "Torre di Guardia" e uno di "Svegliatevi". Ed ecco che come d'incanto il tempo parve essersi fermato a vent'anni prima e mi ritrovai a disquisire sullo stesso tema con le stesse argomentazioni. - No cara la mia signora - parlai a quella che aveva all'incirca la mia età - non c'è opuscolo al mondo che sia edito da un dio. Tutti nascono dalla mente degli uomini. Non risalgono all'avvento del Salvatore, non hanno più di duemila anni e sono recenti. Lei sa in che anno fu pubblicato il primo numero degli opuscoli che mi dato? - - Così su due piedi... - mi rispose. - Ed allora glielo dico io: La torre di Guardia nacque nel 1879 e non era edita dai testimoni di Geova, che si chiamano così dal 1931, ma dai loro antesignani, gli "Studenti Biblici" capeggiati da un tale, che lei dovrebbe conoscere, di nome Russel, mentre la rivista "Svegliatevi" esordì nel 1919 come "L'Età dell'oro", poi si chiamò "Consolazione" e solo nel 1946 prese l'attuale nome. - Vedo che si è informato sulla nostra storia e sul nostro fondatore - stavolta era la più giovane a parlare. - Mi hanno informato i vostri anziani tempo fa, quando credevo che nessun italiano si facesse convincere dai predicatori americani. E mi sono informato su internet quando a scuola ho saputo che un vostro fratello non ha voluto che suo figlio di otto anni accettasse uno stupido regalo di compleanno dal suo compagno di banco. Ma chiamarla storia è un forzare il significato delle parole - le dissi girandomi verso di lei -. Chi chiamate "fondatore" era un brav'uomo confrontatosi con varie dottrine prima di predicarne una tutta sua. Ma chi lo sostituì dopo la sua morte, un giudice di nome Rutherford, era di certo un pazzo scatenato: e non lo dico io, lo dichiaravano gli innumerevoli gruppi di studenti biblici che un secolo fa si dissociarono dalla sua figura (e furono davvero tanti). Lo sapete che è stato questo signore a mandarvi porta a porta a predicare, a proibirvi di festeggiare il Natale e i compleanni? Certo è che il suo successore fece anche di peggio. Infatti fu mister Knorr (non quello del brodo), a far nascere la scuola a cui attingono i testimoni di Geova per imparare a rapportarsi agli altri e a predicare meglio, così da attirare più proseliti, come fu lui a mettere in chiaro e a decidere che Geova non ammetteva e non accettava trasfusioni di sangue. Inoltre non c'è storia che tenga, in quanto anche la parola Geova nasce da un errore di traduzione e non c'è nessun dio con quel nome. Quindi voi vi chiamate Testimoni di Geova a causa dei vostri predicatori e non seguite la Bibbia, ma quanto altri hanno creduto e credono di leggere sulla Bibbia. - Geova è citato nella Bibbia migliaia di volte - la più grande si stava infervorando. - Di quale Bibbia parla signora? Lei si riferisce alla Bibbia in uso a Russell e agli studenti biblici, quella tradotta e adattata all'inglese e poi riadattata all'italiano: non il massimo delle scritture, quindi. Mi accorsi in quel momento di essere uscito dal seminato. Quelle due creature use alla predicazione porta a porta erano parte della base dei testimoni di Geova. Quindi non avvezze a sentir criticare la loro "storia" e a porsi domande complicate. Conoscevano la loro Bibbia e quanto gli indottrinatori americani avevano insegnato. Per cui dovevano parlare a memoria e non potevano permettersi di avere dubbi, dovevano accettare il verbo e predicarlo per accogliere altre sorelle o fratelli nella grande casa di un dio forse inesistente. Ed allora mi fermai e per una buona mezzora parlammo d'altro, di quanto le due donne conoscevano bene, del mali del mondo e dei peccati dell'uomo che stavano trascinando il pianeta a una brutta fine. Non accennai alle diverse date pubblicate su "La Torre di Guardia", non parlai né del 1914 né di quante volte i loro capi avessero previsto una fine del mondo e il discorso filò quasi liscio: in fondo su tanti aspetti eravamo in simbiosi. Poi mi ricordai del perché le avessi fatte entrare, ed allora chiesi il motivo per cui un figlio smette di essere tale se abbandona la loro religione. La signora della mia età mi disse che lei non avrebbe abbandonato i suoi figli, ma ammise che una simile eventualità ancora non le era capitata e che sperava non le capitasse mai perché voleva averli con sé quando il mondo terreno sarebbe tornato nelle mani di Geova. Al ché le ricordai che solo 144.000 testimoni sarebbero stati gli eletti eterni sulla Terra e che milioni di predicatori come lei non potevano sapere come sarebbe stata una vita Celeste comandata da un Dio che pretende cieca lealtà dalle sue pecore, come la pretendeva Hitler che deportò i testimoni di Geova perché li credeva diversi e non degli eletti. Inoltre le dissi che io conoscevo ex testimoni che dopo aver smesso di predicare e credere in Geova si erano visti emarginare dagli amici e dai parenti come se avessero contratto la lebbra. "Cara signora - tornai a dirle - se lei non è come altri suoi fratelli che abbandonano i figli ne sono felice, ma non è un comportamento né umano né religioso il rinnegare chi si è frequentato per decenni solo perché cambia idea su una religione. Pare quasi che in voi aleggi lo spirito nazista che rinnegava le razze diverse. Non è che per caso siete tutti razzisti?". Certo che no, mi rispose la giovane, stavolta è lei a non essere informato. Noi predichiamo la fratellanza senza alcuna discriminazione razziale. "Come no - la incalzai - voi moderni testimoni avete l'ordine di non discriminare, è vero, ma torniamo sempre allo stesso punto: la vostra è una religione che cambia in base al vento e agli opuscoli editi dagli uomini. Lei mi ha messo in mano la rivista "Svegliatevi", che inizialmente si chiamava "Età dell'oro", e a me risulta che proprio sull'età dell'oro il giudice Rutherford scrisse che il popolo asiatico era una razza ignorante e degenerata. Sono contento quindi di vedere che i moderni testimoni rinneghino parte di quanto scritto da chi li ha obbligati a passare di porta in porta, a non festeggiare compleanni e Natale, ma allo stesso tempo mi spiace costatare che la vostra linea religiosa ha una base dirigente razzista che pretende obbedienza quando intima ai fratelli e alle sorelle di non incontrare chi si dissocia da Geova per paura che il dubbio assalga chi non si è dissociato". Fu in quel momento che, come mi accadeva negli anni '90 quando discutevo con altri loro fratelli, le due donne mi invitarono, per informarmi meglio, a leggere qualche libro dei testimoni di Geova. Poi, dopo aver guardato l'orologio ed essersi scusate, andarono verso la porta dicendomi che sarebbero tornate perché volevano ancora confrontarsi con me sui mali del mondo. Le salutai cordialmente, senza approfondire il discorso su Concetta Serrano e sui testimoni di Geova di Avetrana che si presentavano quotidianamente in televisione per predicare le chiacchiere di paese, ma prima di farle uscire dissi loro che mi rifiutavo di leggere i libri dei predicatori americani e di incontrarle nuovamente. "Sono nato in Italia - fu l'ultimo mio sermone - nella patria della cultura che rifiutate senza motivo. Voi, invece, vi siete praticamente americanizzate perché predicate una dottrina nata in Pennsilvanya (bosco di Penn, nome scelto dal "Quacchero" - altra religione - William Penn), terra di tanti predicatori inglesi già dal '600. A me degli americani piacciono alcuni trhiller e qualche serie investigativa trasmessa in tivù. Da giovane guardavo i film di Robert Redford e non disdegnavo, quando ero in compagnia, quelli con Richard Gere. Ma ad essere sincero non c'è stato presidente americano che alla fine del suo mandato mi abbia convinto e mi sono scandalizzato quando ho saputo che gli americani acquistavano schiavi (manodopera a costo zero) e che non esistevano più veri pellerossa. Non mi vanno giù i predicatori, di qualsiasi stato essi siano, perché ho una mente mia e con quella osservo e ragiono su quanto accade al mondo. Quanto dicono tutti i vari predicatori per me è muffa. Muffa che si attacca solo su quelle pareti costruite con imperizia in luoghi umidi, sulla pelle di chi ha problemi. Voi continuate a predicare, è un vostro diritto e nessuno vuole togliervelo, ma non in casa mia. Se volete parlare dei mali del mondo, iniziate a pensare a quanto male fate voi per primi: ad esempio ai vostri figli quando negate loro la gioia di ricevere un regalo, di festeggiare un compleanno o il Natale. E se per voi è pagano festeggiare e far felici i figli... beh, allora io sono di religione pagana ed è meglio che mi stiate lontani, potrei contagiarvi".

L’AVV. BISCOTTI, LA CRONACA NERA E LA SINDROME MEDIATICA.

Stavolta l'ineffabile Ghedini non se l'è sentita, scrive L’Unità. Di trash e pulp, noir e spy, in effetti, in questi anni, ne ha visto e vissuto fin troppo. E poi si vede che questa era troppo persino per lui. Così la denuncia penale che mira a svelare il complotto demo-pluto-giudaico-massonico che nel 2011 costrinse Berlusconi a lasciare palazzo Chigi e che dopo il giornalista Alan Friedman è stato svelato anche dall'ex segretario al Tesoro Usa Timothy Geithner, è stata firmata da Walter Biscotti, toga nota agli addetti ai lavori, un po' meno alla grandi masse, con bellissimo studio nel corso principale che taglia in due la città vecchia di Perugia. Dove, negli anni novanta, nacque il primo club Forza Silvio. E da dove, per l'appunto, Biscotti ha iniziato, non più giovanissimo, la scalata alla notorietà che gli è valsa, in effetti, qualche uscita nel salotto di Porta a Porta. Una veloce carrellata sui casi che portano in calce la sua firma dimostra la predilezione dell'avvocato per il trash, il pulp e il noir profondo. E' stato difensore dell'ivoriano Rudy Guede, condannato con rito abbreviato a sedici anni per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Si è appassionato al caso Marrazzo e ha assistito la mamma di Brenda, la transessuale testimone del caso del caso del governatore poi trovata morta in casa. Un crescendo fino ai casi di Avetrana, dove ha assistito la famiglia di Sarah Scazzi. Fino all'omicidio Parolisi dove ha assistito il marito-militare. In questo percorso, non poteva mancare il giallo dell'Olgiata: qui Biscotti difende Manuel Winston, il filippino che dopo vent'anni ha confessato di essere stato l'autore dell'omicidio rimasto irrisolto. Insomma, dove c'è Biscotti c'è il caso di cronaca nera che conta. E che fa audience. Poi sono cause difficili da vincere. Ma molto popolari. Certo, adesso la faccenda è diversa: c'è di mezzo Berlusconi, un complotto internazionale, un'associazione dal nome altisonante e altamente evocativo. L'esposto-denuncia per cui la procura di Roma ieri ha dovuto aprire il fascicolo, è infatti presentato dalla deputata azzurra Micaela Biancofiore e dalla associazione Tribunale Dreyfus. Entrambi ipotizzano i reati di attentati contro i diritti politici del cittadino e di violazione della norma che punisce le associazioni segrete (legge Anselmi). Walter Biscotti e il giornalista Arturo Diaconale (che pure firma la denuncia), affermano che è "assolutamente necessario l'individuazione degli European Officials, così come denominati dall'autore del libro (Geithner)" , e ritenuti autori delle pressioni, nel 2011, per costringere l'allora premier italiano a lasciare palazzo Chigi. Una trama straordinaria. Un complotto perfetto. “Demo-giudo-plutaico-massonico” amava dire qualcuno.

Valter Biscotti: dal processo Pecorelli al caso di Avetrana, l’intervista di  da Daniel Chiabolotti su “La Goccia”. L’avvocato Valter Biscotti, originario di Peschici, da anni esercita la professione nella città di Perugia. Recentemente si è occupato di casi di notevole rilievo della cronaca giudiziaria italiana: dalla difesa di Rudy Guede, accusato del delitto della studentessa inglese Meredith Kercher, all’assistenza legale fornita alla famiglia della giovane Sarah Scazzi e in ultimo a Salvatore Parolisi, vedovo di Melania Rea, la ventinovenne di Somma Vesuviana trovata uccisa il 20 aprile scorso nel bosco delle Casermette in provincia di Teramo. Nell’intervista che l’Avv. Biscotti ci ha rilasciato, invece d’investigare nei particolari più foschi degli ultimi risvolti processuali, abbiamo preferito approfondire la chiave del suo successo personale e conoscere più da vicino il legame che si instaura tra legale e assistito in processi molto delicati.

Avvocato come è riuscito ad “aggiudicarsi” dei casi di notevole rilievo della recente cronaca giudiziaria italiana?

«Da oltre venticinque anni svolgo la professione d’avvocato. I casi Kercher e Scazzi non sono i primi di una certa importanza che tratto. Verso la metà degli anni novanta ho fatto parte del collegio difensivo di Giuseppe Calò nel processo per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svoltosi a Perugia; nel 2003 sono stato legale di parte civile della famiglia di Emanuele Petri (l'agente della POLFER ucciso da Mario Galesi e Desdemona Lioce esponenti delle nuove Brigate Rosse) e Massimo D’Antona,ho rappresentato la parte civile nel processo della strage di piazza della Loggia a Brescia. Assieme al collega Nicodemo Gentile mi sono occupato della difesa di Rudy Guede, processo che vedeva il giovane ivoriano accusato dell’omicidio di Meredith Kercher,  suscitando grande clamore nella cronaca italiana e internazionale. Da allora ho instaurato un ottimo lavoro di collaborazione con l’avvocato Gentile: lavoriamo in sintonia e dopo il caso Kercher abbiamo assunto la difesa della mamma di Brenda, la transessuale del “caso Marrazzo”; in autunno si aprirà il processo. Attualmente ci stiamo occupando del caso di Avetrana e della difesa di Manuel Winston che ha confessato di essere l’autore dell’omicidio dell’Olgiata e di Salvatore Parolisi».

Come si comportano i clienti le prime volte che si rivolgono a voi, considerando l’attenzione mediatica posta su di loro?

«Inizialmente sono timidi nel cercarci, non sanno come approcciarsi. Tuttavia cerchiamo fin da subito di instaurare un clima disteso, cercando di far capire che siamo persone molto alla mano. Ancorché lei vede lo studio tutto ovattato e affrescato, nel quale ci troviamo durante quest’intervista, spesso accade di incontrare i miei clienti a casa loro, nella loro cucina, in un tranquillo ambiente familiare mettendoli più a loro agio. È fondamentale manifestare un segno di vicinanza in tutti i modi».

Instaurare un clima disteso tra avvocato e cliente vi aiuta nel vostro lavoro…

«..Esatto. Svolgere i  colloqui in un tranquillo ambiente domestico aiuta a metterli più a loro agio. Bisogna essere vicini al proprio assistito accorciando il più possibile la distanza tra cliente e avvocato. Ovviamente poi l’avvocato deve saper interpretare il proprio ruolo in maniera professionale all’interno del processo, e dare il meglio per ottenere il massimo risultato processuale».

È stato ospite in svariate trasmissioni televisive che si occupano di cronaca giudiziaria, da “Quarto Grado” a “Porta a Porta”, da “Chi l’ha visto?” a “Matrix” come valuta l’apporto del mezzo televisivo?

«Determinati casi di cronaca per forza di cose assumono una forte visibilità mediatica, è normale che se ne parli nei programmi d’approfondimento. Quando tuttavia la trasmissione assume dei toni troppo insinuatori il cliente viene in qualche modo mal rappresentato o addirittura già giudicato dal pubblico televisivo. Ritengo che l’avvocato in queste situazioni debba prendere parte in questo “processo mediatico”. A partire dal caso di Rudy immediatamente giudicato e condannato dalla televisione, fino a Salvatore Parolisi linciato pubblicamente e processato dai media quando è soltanto il marito della povera Melania. Se il processo si fa, sempre più frequentemente in tv, l’avvocato deve rappresentare il suo cliente anche in questa situazione e le assicuro che non è una cosa semplice».

GERMANIA, IL PARADISO DELLA MAFIA. ITALIA, IL PARADISO DEI MAGISTRATI.

Germania, il paradiso della mafia. Le leggi tedesche lasciano molte libertà ai mafiosi. Che spostano a nord i loro traffici, come racconta questo grande progetto giornalistico d'inchiesta, scrive Marco Pedersini su “Panorama”. In Germania c’è la mafia? È una domanda che sembra banale, ai limiti dell’ingenuità, eppure ne è nato un progetto importante, forse storico. Si chiama Mafia in Deutschland e si presenta come un documentario, un portale internet pieno di video e dati e una lunga serie di pubblicazioni. Ci hanno lavorato il settimanale tedesco Spiegel, l’emittente WDR e il gruppo editoriale Funke. A coordinare i lavori è stato il giornalista investigativo David Schraven , che ha accettato di parlarne a Panorama.it.

Com’è nata l’idea del progetto?

«Da una riunione nel mio ufficio, due anni fa. Mi sono chiesto: “Che cosa fa la mafia in Germania quando non uccide nessuno?”. Perché dopo i morti di Duisburg, la mafia era tornata silenziosa e io volevo capire che cosa si stava muovendo, sotto quella calma apparente. Dopo sei mesi ho scoperto che due colleghi dello Spiegel stavano lavorando alla mia stessa inchiesta, perciò abbiamo deciso di unire le forze. Son passati altri sei mesi e ci siamo detti: “Questa storia è grande abbastanza per farne un documentario”. E siamo andati a bussare alle porte di WDR. Ne è uscito tutto il materiale che trovate pubblicato e che continuerà a uscire online e sui quotidiani per ancora due settimane.»

Perché dite che la mafia ama la Germania?

«Perché le nostre leggi sono carenti. In Germania un mafioso può facilmente creare una società, ripulire denaro sporco, condurre un’attività commerciale, comprare nuove proprietà, mandare soldi all’estero senza alcun problema. È difficile avere i permessi per intercettare e per mettere i beni sotto sequestro. Di solito, quando vengono scoperti, i mafiosi se ne vanno con i loro soldi. Il fatto è che in Germania non è illegale essere parte della mafia. Vi racconto un caso: nel corso di un’indagine, la polizia tedesca ha intercettato un “battesimo mafioso”. Avevano tutte le registrazioni, sapevano che le persone coinvolte erano tutte mafiose ma l’indagine è stata archiviata.»

Perché?

«Perché abbiamo una legislazione folle, inadeguata. La polizia mi ha detto: “È vero, sono mafiosi, ma non hanno commesso alcun crimine perciò per noi il caso è chiuso”.»

Come va la collaborazione con la polizia italiana?

«Ho notato che le autorità italiane sono molto più aperte alla collaborazione delle nostre. Noi non abbiamo abbastanza agenti che parlano lingue straniere o che vogliano lavorare con corpi di polizia esteri. Con gli italiani devono collaborare, altrimenti non capiscono nemmeno le intercettazioni. Da parte tedesca, comunque, chi è impegnato in queste indagini mi ha detto di essere soddisfatto della collaborazione con l’Italia.»

Quando dite che in Germania ci sono 482 mafiosi che cosa intendete?

«È un’altra carenza della legge tedesca: quelli sono i mafiosi provati, sulla cui appartenenza all’associazione criminale non c’è dubbio. Ma ci sono almeno 1.200 persone che sono considerate “sostenitori della mafia”. In Italia sarebbero tutti considerati mafiosi, punto e basta.»

Che impressione le ha fatto intervistare un killer di mafia?

«Sono arrivato a lui tramite un intermediario. Mi ha detto che aveva una settimana per parlarmi e ha chiesto se poteva farlo in Germania. L’ho trovato molto razionale, chiaro, gentile. Ma poi, ogni tanto, mi dicevo: “Ehi, questo è un uomo che a ucciso una ventina di persone”. È davvero strano.»

Perché vi siete fidati di lui?

«I colleghi italiani dell’Irpi, che sono giornalisti eccellenti, ci hanno aiutato a trovare degli elementi per provare quello che il killer ci raccontava. Anche le autorità tedesche avevano degli elementi su di lui. Lo conoscevano perché ha chiesto di essere inserito in un programma di protezione dei testimoni. Non è stato inserito perché, a detta della polizia, “se ci fornisce i nomi dei mafiosi non ci dà niente di nuovo”.»

Continuerete ad approfondire queste inchieste?

«Sì, chiunque voglia segnalare qualcosa può farlo in modo anonimo attraverso il nostro sito. Sento che questo è solo l’inizio.»

Non è preoccupato?

«No. La mafia non uccide in Germania. Glielo assicuro.»

La repubblica dei magistrati. Quello dei giudici è un ordine che occupa tutti i gangli cruciali del potere pubblico. E che sancisce nascita e morte di politici e partiti, ma che ha correnti come un partito. Un ordine che fa politica e che fa paura, scrive Marco Ventura su “Panorama”. C’è un governo invisibile, diffuso, potentissimo, che fa le leggi, stabilisce che cosa è giusto e sbagliato, fa la fortuna o la sfortuna di aziende, città e categorie sociali, che disegna l’architettura dello Stato e riforma la legge elettorale (o si oppone alla sua riforma). Un governo che non è eletto, anzi non ha alcuna base rappresentativa, che risponde solo a se stesso e concede ai propri membri gli stipendi che desiderano. Un governo, un ordine, che occupa tutti i gangli cruciali del potere pubblico. Un governo che è anche un autogoverno. Che sancisce nascita e morte di politici e partiti, che ha correnti come un partito. Che fa politica, nelle grandi come nelle piccole cose. Che interviene nei casi di coscienza, sui temi etici, sociali, e siede su un gradino più alto rispetto ai rappresentanti del popolo e agli scienziati. Un governo che può proclamare la prevedibilità dei terremoti. Che vive crisi temporanee di potere solo per lo scontro fratricida dei suo esponenti più in vista. È il governo dei magistrati. Un governo i cui risultati, stando alla sua “ragione sociale” di garantire la giustizia, è fallimentare secondo gli standard europei (l’Italia è all’ultimo posto nella UE per numero di arretrati nella giustizia civile e al penultimo per durata media dei processi). L’Europa è scandalizzata dalla “irresponsabilità” per legge dei magistrati italiani che non pagano di persona per i propri errori, a differenza dei loro colleghi. La magistratura governa l’Italia, fa le veci di Palazzo Chigi ma anche del Parlamento. Costringe quasi l’Ilva a chiudere e il governo a fare decreti per evitare il tracollo dell’industria siderurgica italiana e di tutta una regione (la Puglia). Impone la costruzione delle moschee nelle città. Oggi ha smantellato con una sentenza della Cassazione la legge 40 che vieta la fecondazione eterologa. L’altro ieri ha sancito che è illegittimo licenziare un dipendente che usi i computer aziendali per navigazioni private. Il suo potere discrezionale è così ampio da poter decidere quasi a piacere sui licenziamenti in base al famoso articolo 18. È una magistratura che a distanza di anni può bocciare una legge elettorale e consacrare la non rappresentatività di governi e parlamenti, in più le sue sentenze si trasformano di fatto in nuove leggi elettorali (pur folli e lontane dalla volontà del Parlamento). Una magistratura che può bocciare il blocco gli aumenti automatici ai magistrati, cioè a se stessa, a dispetto della crisi epocale che l’Italia sta attraversando e della difficoltà di fare la spending review. Alla faccia, soprattutto, di chi non arriva alla fine del mese. Infine, una magistratura che dopo vent’anni di braccio di ferro con Berlusconi, oggi leader dell’opposizione, è riuscita a condannarlo e a fargli scontare una pena che in una misura o nell’altra lo costringerà a limitare la propria campagna elettorale (e a non candidarsi). Non so perché ma mi tornano alla mente due brani del grande scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt. Nel primo (“La panne”) un ex magistrato si rivolge a un malcapitato rocambolescamente trasformato in imputato di un processo-gioco: “Carissimo signor Traps… noi quattro, seduti attorno a questo tavolo, siamo in pensione e ci siamo liberati dalla inutile farragine delle formule, dei protocolli, delle scribacchiature, delle leggi e di tutta quella robaccia che opprime le nostre aule di tribunale. Noi giudichiamo senza alcun riguardo alla meschinità dei codici e dei paragrafi”. L’altro da “Il sospetto”: “La legge è la legge. X = X. La frase più spaventosa che sia mai salita verso quel cielo eternamente sanguinante, eternamente notturno che sta appeso sopra di noi. Come se esistesse una determinazione indipendente dalla forza e dal potere che ciascuno detiene! La legge non è la legge, la legge è il potere”.

Chiudiamo l'Italia, comandano i giudici. Tempo fa proposi provocatoriamente di chiudere Montecitorio, Palazzo Madama e perfino Palazzo Chigi, delegando tutto il potere - legislativo ed esecutivo - al Quirinale. In tempi di spending review forse si può fare qualche cosa di meglio e cioè chiudere anche la presidenza della Repubblica, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Tirando giù le serrande di parlamento, governo e anche dell'edificio che ospita il capo dello stato risparmieremmo circa 2,5 miliardi di euro l'anno, più o meno ciò che Renzi recupera da Iva e banche, con la differenza che il taglio non sarebbe una tantum, ma definitivo. Pensate un po': non esisterebbe più neppure il parametro dei 239 mila euro cui fermarsi per limare gli stipendi dei manager pubblici (a proposito, ma a 88 anni Napolitano ha ancora bisogno di un simile appannaggio? Non potrebbe fare il beau geste di rinunciarvi, accontentandosi della pensione?) e dunque i boiardi potrebbero essere pagati ancor meno e gli italiani si risparmierebbero un sacco di complicazioni burocratiche che i Palazzi del potere partoriscono ogni giorno. Proposta provocatoria? Mica tanto. Del resto a che serve il baraccone istituzionale che ci teniamo da oltre sessant'anni? In fondo ormai in questo paese decidono tutto i giudici, dunque meglio cambiare la Costituzione e stabilire che la Repubblica è fondata non sul lavoro ma sulla magistratura, ordinaria, amministrativa e perfino speciale. Esagerazioni? Macché: nei fatti è già così. Prendete ciò che è successo in questi giorni, a cominciare dalla vicenda che riguarda Silvio Berlusconi. Il destino di una forza politica che è stata fino a ieri maggioranza nel Paese e ad oggi è un elemento determinante della vita politica e del processo di riforme della Repubblica è in mano alle toghe. Tocca a loro decidere per il pollice verso, ovvero per il divieto al Cavaliere (ex) di fare politica. Loro, non gli elettori saranno determinanti nella decisione che riguarderà l'uomo politico che ha guidato l'Italia per anni. E, sempre loro, stabiliranno se gli italiani potranno sentire il loro leader o vederlo impegnato nella prossima campagna elettorale. Si dirà, Berlusconi è stato condannato e la giustizia fa il suo corso. Vero, ma chissà perché quando si tratta del leader del centrodestra è un corso che viene percorso in fretta, tanto in fretta che perfino il direttore del Fatto quotidiano ha suggerito di rallentare, rinviando ogni decisione a dopo le elezioni europee. Ma tant'è. Il Cavaliere ha quasi settantotto anni, è un pericoloso criminale e non si può lasciare a piede libero, pena il rischio che reiteri il reato e rivinca le elezioni. Ma non è tutto. A conferma che la nostra è una Repubblica giudiziaria ci sono altri fatti. Il primo è quello che riguarda la decisione della Corte costituzionale sulla fecondazione eterologa. Siccome il Parlamento in passato aveva approvato una legislazione restrittiva, ci hanno pensato i supremi giudici a renderla più ampia. Via i divieti e fecondazione assistita per tutti. Chi se ne importa delle decisioni dei rappresentanti del popolo, quelli che contano sono i rappresentanti della Consulta, i quali ormai si sono sostituiti al Parlamento, bocciando e modificando tutto ciò che non gli garba. A ciò si aggiunge che le toghe, massime o minime non fa differenza, non modificano soltanto le norme che riguardano principi etici come il dono della vita e la possibilità di procreare secondo natura, ma mettono mano anche altrove, ad esempio su coppie di fatto e matrimoni gay. Camera e Senato si attardano e non approvano la legge che consente la regolarizzazione delle unioni omosessuali (per altro provvedimento che dovrebbe essere preso al più presto, proprio per evitare che la giustizia faccia da sè)? Niente paura, ci pensa il giudice, che ordina al comune di registrare le nozze fra due uomini celebrate all'estero. La legislazione italiana non lo consente? Fa nulla, il giudice dispone l'ordinanza e se il comune si opporrà a decidere sarà la Corte costituzionale, cioè quelli della fecondazione eterologa e il Parlamento si adeguerà. Altra dimostrazione? La faccenda Emirates che raccontiamo oggi su Libero. La compagnia araba decide di scommettere sull'Italia e di inaugurare un volo Roma-New York, ma alla concorrenza non piace, così - in barba agli inviti agli stranieri a venire a investire nel nostro paese - interviene il Tar, che sospende il volo e lascia a terra gli aerei di Dubai. E poi dicono non sia vero che la giustizia tarpa le ali all'Italia. All'Alitalia no, ma alla Emirates si. Potremmo continuare per pagine e pagine a raccontarvi di sentenze che scavalcano le leggi e cambiano le carte in tavola: dall’eutanasia (vedi caso Eluana) ai rapporti tra famigliari. Ma ci siamo capiti. Dunque, visto che comandano i giudici e che decidono loro sia in materia di leggi, che di politica e concorrenza, meglio darci un taglio. Resteremo sempre sudditi, ma almeno avremo la consolazione di risparmiare due miliardi e mezzo. Giudicate voi se è poco.

GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.

Giustizia e politica “Made in Sud”, scrive Giuseppe Mele su “l’Opinione”. È vero, come ricorda Giacalone, che negli ultimi decenni hanno governato uomini e donne del Nord. Non è una novità. In un secolo e mezzo, poche sono state le eccezioni (Moro, Nitti, Crispi, De Mita, Leone, D’Alema, Segni, Orlando, Salandra, Cossiga). D’altro canto, l’impressione che lo Stato e la sua burocrazia siano ampiamente meridionalizzati e borbonici è una solida realtà. La partitica apicale è nordista, ora come agli inizi di Cavour, Rattazzi e Ricasoli. La mentalità dello Stato nelle sue branche centrali e locali è, invece, meridionale. Simbolo e vertice di questa mentalità è la giustizia, dove la maggioranza dei 10mila togati proviene da sotto il Tevere. Dopo un lungo periodo di mitizzazione, in cui la magistratura è apparsa rivestire i superpoteri dei fumetti della Marvel, questa leadership è stata consacrata al secondo ruolo istituzionale del Paese. Tale secondo potere, meridionale, del Paese, conduce con successo, da un trentennio, una guerra interna, dall’alto di una sorte di opricnina, un governo a latere, svincolato dal resto dell’ordinamento. Forte di questa indipendenza, ha promosso al massimo grado tutti i difetti intellettuali, che da un certo punto di vista sono tradizionalmente caratteristici proprio della borghesia mediterranea, dall’azzeccagarbuglismo all’amore per le grida spagnole, dall’istigazione alla litigiosità spicciola, dall’ampio familismo all’interpretazione di tutta la vita sociale secondo i canoni delle regioni più arretrate dell’arretrato Sud, alla consuetudine della pluralità di incarichi, al controllo totale della gestione burocratica della grazia e della giustizia, oltre che delle carceri. Ogni anno i vertici togati a livello centrale e periferico con piacere sarcastico snocciolano i dati di un triste fallimento. Lo fanno con foga e passione, come se la gestione e dunque la responsabilità non fosse loro. La giustizia è di per sé tra le macchine pubbliche meno costose, anche per il numero limitato di personale coinvolto. I magistrati erano nel 1980 quasi 7mila e oggi sono quasi 9mila (con un picco di 9200 nel 2011), gli onorari sono 4mila, i giudici di pace 2300 (dopo il picco del 2002 di 4200). A questi 15mila si aggiungono 40mila secondini (nel 1980 erano 14mila) e 47mila impiegati (23mila nel 1979, con un picco di 54mila nel 2001). Centomila addetti per una giustizia che costa 7 miliardi (2013), l’1,30% del bilancio rispetto allo 0,85% del 1980 (con un picco di quasi 9 miliardi nel 2009). La Francia spende la metà, la Germania il doppio. Invece sulle carceri l’Italia spende il doppio dei due Paesi europei, malgrado che la quota relativa di spesa sia scesa dalla metà al 40%. I detenuti d’altra parte sono raddoppiati, da 30mila a 66mila, soprattutto per l’aumento esponenziale di quelli in attesa di giudizio. Prima i condannati erano 27mila, la grande maggioranza; ora lo sono solo 38mila detenuti. Il 43% della popolazione carceraria non è ai sensi di legge colpevole. Il disastro massimo sta nei processi in corso, non smaltiti, 2,7 milioni civili e 5 milioni penali, in trent’anni cresciuti di tre volte dai 1,3 e 1,3 milioni del 1980. Processi della durata di 8 e 5 anni medi, secondo una prudente ricostruzione degli uffici del Senato, molto più lunghi secondo i dati europei. Com’è noto sul settore giustizia l’Italia viene sistematicamente condannata, sia per le violazioni dei diritti degli accusati che per l’uso del carcere come strumento di tortura; le condanne sono saldate in termini di miliardi, sia come risarcimento a detenuti che come multe a Bruxelles, dall’erario. Le uniche giustificazioni plausibili a questo status disastroso stanno nel naturale alto tasso di litigiosità, il cui record è diviso tra Roma e Madrid e nel limitato numero di togati, inclusi i non professionisti, che sono in Italia 16 ogni 100mila abitanti, 55 in Francia e 154 in Germania. D’altro lato, negli altri Paesi europei la conciliazione è un’alternativa effettiva e cogente rispetto al tribunale, che invece in Italia resta l’unico sbocco reale delle controversie. La malandata situazione nei decenni ha prodotto tentativi di riforma, polemiche politiche al calor bianco e referendum anti-toga. Per parte propria l’associazione nazionale togata si è asserragliata nel fortino catilinario dell’etica, con intercambiabili alleati sia di sinistra che di destra, dando più volte l’assalto alla partitica, addirittura con un proprio partito delle procure, giungendo nei momenti di maggiore difficoltà ad appellarsi anche all’Onu per i “progetti di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che vogliono sminuirne l’indipendenza”. Neanche si trattasse di una minoranza etnica o repubblica autonoma. Mai un dubbio che lo “sfacelo giustizia” sia conseguenza delle modalità di gestione e, in ultima analisi, della stessa visione economica e sociale della vita del Paese. Non c’è aspetto e attore economico, industriale, istituzionale, finanziario, tecnologico, sindacale, politico che non sia stato in questi decenni pesantemente influenzato, artefatto, sconvolto, drogato, salvato, cancellato dall’indipendenza togata, al punto che per controbilanciarne gli effetti ci vorrebbe un apposito Antitrust. L’assolutismo togato, sciolto da qualunque limite, sorse quasi per caso, sullo scalino della scaletta che doveva portare l’ultimo re in esilio. Non fu la Repubblica, né la Resistenza e neppure il primissimo ministro di Giustizia nel II e del III Governo De Gasperi, il comunista Fausto Gullo per il quale l’obbligo era mandare assolte le vendette di Bube e fratelli. L’assolutismo togato fu un regalo, un bon bon regale del “re di maggio”, probabile padre dell’attuale monarca quirinalizio. L’ultimo e unico atto legislativo di Umberto, consumatosi il 31 maggio del 1946, fu la legge delle guarentigie, che vennero estese, oltre al Papa ed ai Vescovi, anche ai magistrati, resi inamovibili e indipendenti dal relativo ministero. Un caso unico in Europa. All’epoca, si volle considerare il provvedimento come una rivalsa anticipata alla grande amnistia attuata un mese dopo, che mandò liberi mandanti e autori della mattanza dei 50mila in odore di fascisti. Si immaginava che la Costituente avrebbe cassato la strana norma che poneva 20mila dipendenti dello Stato su un altro pianeta. Cattolici e comunisti non avevano una buona opinione dei togati, né della loro associazione che, anche se sciolta dal fascismo, appariva una congrega massonica, governativa, conservatrice, meridionale, impegnata in una guerra civile meridionale di cui i maxi processi antimafia erano caratteristica costante da quelli di Viterbo del 1912 (e poi del 1952). In fase di redazione, a difendere la drole de loi fu uno capi dei laici, il leader repubblicano Conti, che aveva passato gli anni del regime da un cielo a scacchi all’altro ed era uno degli ultimi per i quali “Repubblica” era sinonimo di eversione al sistema. La Malfa senior, invece, aveva passato gli anni fascisti con Mattioli da direttore dell’ufficio studi della Banca Commerciale ed in Treccani da seguace dell’ideologo, mezzo rosso e mezzo nero, del corporativismo Spirito. Siciliano, La Malfa aveva seguito l’oro dei consigli materni, che l’aveva indirizzato al disprezzo per le terre natali e alla carriera di successo nella finanza al nord. Di fronte al collega di partito Conti (che dopo la prodezza scomparve dalla storia patria) e alle sue vere stimmate carcerarie, il repubblicano siciliano tacque. Così il partito più filoamericano italiano si rese responsabile di sostenere le ubbie corporative di quelle terre meridionali, temute come un gorgo passatista capace di risucchiare in sé ogni progresso. Questa è stata d’altronde la storia degli uomini più intelligenti, più preparati, più autorevoli; dei laici, da Croce a La Malfa, dai liberali agli azionisti, fino ai Bobbio ed al partito Repubblica; la storia del continuo tradimento del proprio campo naturale, la storia della guerra alla parte migliore del Paese e ai programmi più evoluti. Una storia rovesciata che tutt’oggi rimpiange d’essere stata “ingenua” e di non essere riuscita “tra il 1992 e il 1994, con 1408 condanne definitive, ad estirpare dal potere la corruzione”. Parola del già senatore casertano Ds e Pd (2006 e 2008) Gerardo D’Ambrosio, magistrato tra il 1957 ed il 2002, capace di assolvere la polizia per il malore attivo dell’anarchico Pinelli, il Pci per il terrorismo rosso ed i finanziamenti, Pisapia dall’ex comunismo ma non Freda e Ventura, non Calvi, non la Parenti che indagava sul tesoriere Pds, non Mastella, reo di indulto nel luglio 2006 e di calcoli sbagliati (uscirono 25mila detenuti e non 12mila). Condoglianze a D’Ambrosio, testé deceduto, simbolo di un’epoca, di una generazione e di un potere che perpetua i suoi difetti, contraddittoriamente ossessionato dal disinteresse per la terra natia e da un improbabile atlantismo di sinistra, dalla fede nell’opulento occidentalismo e nell’oscuro dirigismo austero e sparagnino dell’anticapitalismo della burocrazia e dell’usura. Che mantiene stile, buona educazione e distinzione. Senza che ciò basti, come ricordano gli imputati suicidi e gli attori economici travolti, ad ottenere un titolo di galantuomo.

SENSITIVI E MEDIUM ALLE VECI DI SARAH.

A medium e sensitivi non servono moventi né prove. Possono condannare o assolvere in poco tempo. Basta... una “visione”.

La sensitiva Rosemary Laboragine, la donna che grazie alle sue visioni contribuì al ritrovamento del corpo senza vita della paracadutista Melania La Mantia, ora parla della scomparsa di Sarah Scazzi: “Non ho nessun flash positivo”, dice. “Secondo me conosceva chi l’ha presa. La vedo portata via non per soldi, ma per violenza, una storia di sesso”, ha aggiunto la sensitiva. “La vedo morta sepolta nelle campagne – continua – vicino ci sono legna e acqua, può essere un corso d’acqua o il mare, non so”.

«Vedo la ragazza con gli occhi chiusi, vicino a lei ci sono delle foglie e dell’acqua. Vedo anche una vecchia macchina di colore grigio o blu scuro e vedo anche dei numeri di targa, un sette, un nove e una X». E’ una delle tante premonizioni di veggenti che da tutta Italia esprimono ipotesi sulla fine di Sara Scazzi. Rosemary Laboragine, di Padova, è una che ha seguito il caso di Avetrana sulle televisioni nazionali ed è anche una che avrebbe risolto altri casi di scomparse. «Questa volta, da pugliese e da mamma – confessa la veggente di origini baresi – vorrei proprio sbagliarmi perché temo che tra sabato e domenica troveranno il suo corpo senza vita». La signora Laboragine che di professione fa la sensitiva (nei casi di scomparsa presta gratuitamente la sua opera alle famiglie), si dice pronta a collaborare con gli inquirenti di Taranto e i carabinieri di Avetrana e con la famiglia della comparsa. «Quello che riesco a vedere con la voce dei familiari che ascolto nei telegiornali – dice – è niente in confronto a quello che potrei scoprire toccando i polsi delle persone: è così che vedo le cose che altri non vedono ed è così che ho svelato altri misteri dello stesso genere come la recente coperta del corpo di una ragazza in fondo a un lago nei pressi di Ravenna».

UNA SENSITIVA MI DISSE... Intervista a Rosemary Laboragine sul caso REA e Scazzi, scrive N.D. su Edizioni Damiano.

Un giorno, una sensitiva mi disse… si parlava dell’omicidio di Sarah Scazzi, delle sue visioni sulla vicenda e che le stesse,  dovevano sempre essere ripulite dai particolari inutili che creavano disturbo, affollavando l’evento che si presentava agli occhi della sua mente... che ciò che rimaneva, alla fine, come in un puzzle, si sarebbe collocato al posto giusto...che solo gli sciocchi leggevano marginalmente le sue frasi, ma solo pochi, potevano comprendere i suoi messaggi seppur confusi  ma ricchi d’informazioni utili, che non dovevano essere sottovalutate. Non possiamo dire che non avesse ragione questa piccola signora bionda di Montegrotto Terme ma ahimè!!!...di sensitivi, con le loro visioni ce ne sono davvero troppi, ne siamo stati sommersi fino all’inverosimile, ce ne sono così tanti, che anche l’appellativo cui facciamo riferimento per indicare Rosemary Laboragine, è diventato obsoleto e troppo abusato, improprio per lei. Questa signora è e rimane una donna particolarmente intuitiva che ha la capacità di risvegliare dentro di sé, canali inusuali per arrivare a conoscere ciò che a occhio nudo sfugge ai più! Un vero e proprio investigatore psichico. Chi l’ha visto? Quarto Grado, La vita in diretta, Porta a Porta, Pomeriggio sul 2, Matrix, queste le trasmissioni televisive tra le più gettonate e che dall’oggi al domani, hanno inserito nelle loro scalette il mistero, il giallo, i fatti di cronaca nera, con il risultato di far appassionare la maggioranza degli italiani. Investigare, il partecipare alle indagini televisive, ha fatto salire gli share sui fatti di cronaca sapientemente affrontati da: psicologi, psichiatri, investigatori, scrittori, criminologi e …sensitivi e tutti, per arrivare alla comprensione di quel “raptus” che dall’oggi al domani, scatena vere e proprie tragedie. Difficile comprendere quell’impulso, che macchia i nostri teleschermi col sangue ma ancora più difficile riuscirne a individuare le cause che corrispondono allo scatenamento dello stesso, sebbene gli esperti ci abbiano già fatto sapere che il “raptus” è un termine improprio, ma intanto lo chiamiamo così! In altri paesi, i medium, godono di maggiore considerazione, da noi, a piccoli passi, si stanno facendo strada i più seri e credibili che, grazie alle loro rivelazioni, continuano a confermare un percorso investigativo nel reale, con i fatti. Tornando alla sensitiva che più volte è stata oggetto di attenzioni da parte di stampa e televisioni per via delle rivelazioni che da qualche anno ci lasciano senza parola, per precisione e meticolosità di particolari riferiti e presi dalle sue visioni, vogliamo continuare a riferirci a lei come “investigatrice psichica” proprio per il suo appassionato indagare nel mondo dell’ignoto e i risultati da lei conseguiti. Così, Michele Misseri, il reo confesso di un noir dalla peggiore trama, si arricchisce sempre di nuovi particolari aberranti e dopo sette mesi, il colpo di scena: esce dal carcere. Tutti davano per scontato che il crimine l’avesse commesso lui nei confronti della piccola Sarah, ora è tornato ad Avetrana, dove tutto cominciò. Nelle patrie galere, i protagonisti del delitto cambiano e Cosima Serrano, sorella della madre della vittima, è la nuova ospite con l’accusa che ha colpito la figlia Sabrina e il marito Michele prima di lei, omicidio. «Ho fatto tutto io». Queste le farneticanti parole che il Misseri urla ai media. Ma la verità qual è? Questo si chiede la gente, sempre più confusa dai troppi avvicendamenti che hanno visto entrare e uscire dal carcere un’intera famiglia. Subito dopo la scarcerazione, il Misseri è prelevato dai medici del 118, per effetto di un’ordinanza del Sindaco di Avetrana, Mario De Marco, che ne dispone il ricovero per trattamento sanitario obbligatorio, visto lo stato di salute preoccupante e le dichiarazioni che esplicitavano il desiderio di togliersi la vita.

“Ciao N., ricordi che ti dissi a novembre che Michele Misseri avrebbe tentato il suicidio? Ora leggo che ha intenzione di uccidersi sulla tomba ... di Sarah... e a mio "sentire" se non lo controllano... lo farà … Rosemary”.

Rosemary Laboragine ci aveva detto anche questo, qualche mese fa, oltre al fatto che vedeva madre, padre e figlia autori di questa lunga vicenda noir sempre sotto i riflettori, questo accadeva il 2 settembre del 2010.

“Signora Laboragine, a oggi, cosa pensa lei di questa vicenda familiare così aggrovigliata?”

“Che sanno usare bene i media. Siamo in un tempo, dove chi sa comunicare, ha già mezza vittoria in tasca.”

“Lei pensa che riusciranno a creare scompiglio fino a Farsi assolvere tutti?”

“Non dico questo, ma nemmeno il contrario. A mio sentire queste persone conoscono l’importanza che hanno giornali e televisioni. E li utilizzano.”

Un altro giallo entra prepotentemente nelle case della gente, per l’efferatezza con il quale è stato commesso: l’omicidio di Melania Carmela Rea. Giovane, bella, una figlia di appena diciotto mesi, un marito aitante e militare, una vita felice all’apparenza… Una tragedia che ha sconvolto un’altra famiglia. Sin dall’inizio le indagini han puntato l’attenzione su un marito bugiardo in modo disarmante. Una settimana dopo la scoperta del povero corpo di Melania, ecco che ancora la sensitiva raggiunge la nostra redazione con una lunga lettera, dove racconta la sua verità dettata dai suoi immediati flash sull’accaduto. A questo punto, preferiamo ascoltarla e fare il punto di tutte le visioni che riguardano i fatti più cruenti che la cronaca ci ha servito senza tanti complimenti, cominciando proprio dalla povera Melania.

“Signora Laboragine, lei ci ha scritto una settimana dopo l’accaduto, mostrando di entrare nel merito della vicenda con dovizia di particolari, seppur i suoi flash, rimangano solo ed esclusivamente il risultato di visioni e non vogliano essere lesivi per nessuno…Che cosa può dirci al riguardo?”

“La donna conosceva benissimo il suo “assassino”, tant’è che l’ha seguito senza timore. Non è mai stata al parco giochi… io vedo solo il luogo con la casina, dove l’hanno trovata. Due uomini e strategia per ucciderla.”

“Cosa ne pensa del Parolisi, unico indagato per la vicenda Rea? ”

“Che era l’unico che poteva seguire docilmente Melania.”

“Lei nei suoi flash ha visto quest’uomo?”

“Ne ho visti due di uomini, a mio sentire lui sa tutto su questa tragedia…purtroppo!”

“Quindi, quest’uomo potrebbe essere colpevole di aver ucciso la moglie? Che cosa potrebbe essere accaduto secondo lei?”

“La risposta l’ho già data, ma in questo giallo, le troppe bugie sono la chiave per capire tutto. Risolte tutte le bugie, risolto il delitto!”

“Significa che ce ne sono ancora tante da svelare?”

“Sì!”

“Diventerà un altro lungometraggio, come per i precedenti delitti di cui si è parlato?”

“Sì, non è ancora finita qui! La storia è più complessa ed ha bisogno di più tempo perché venga tutto a galla! Altre cose verranno fuori da questa tragedia e non belle!”

A questo punto, spostiamo la nostra attenzione sulla piccola e sfortunata ginnasta di Brembate di Sopra, Yara Gambirasio. Giorgio Sturlese, inviato del programma Quarto Grado, con la rivelazione

«L'assassino di Yara ha firmato il delitto e il movente è quello sessuale», ha in concreto confermato ciò che Rosemary Laboragine ci disse, all’indomani della sua scomparsa: movente sessuale e che due uomini erano implicati nella vicenda e il cantiere di Mapello sempre in primo piano. Sebbene, da subito ci facesse sapere che la piccola non sarebbe stata trovata viva, arricchendo con molti particolari le sue rivelazioni, ancora oggi, attendiamo che questi assassini siano presi.

“Signora Laboragine ma Yara?riusciremo finalmente a sapere chi l’ha uccisa?”

“Rimango ferma su quanto vi dissi…riusciranno a prendere chi è stato… ci vorrà ancora tempo, ma li prenderanno … la notizia ci stupirà.”

Troppe le storie di ordinaria follia cui assistiamo impotenti, forse, incapaci di accettare che quelle oscure forze del male che albergano in ognuno noi, potrebbero all’improvviso sprigionarsi e trasformarci in chi pensiamo, non potremmo mai diventare. Seguiamo lo svolgersi d’indagini allo scopo di esorcizzare con le tragedie degli altri, la nostra paura.

Scomparsa Sarah Scazzi, un sensitivo: “So che fine ha fatto”, scrive Raffaele Emiliano. Mentre l’Italia intera è sconvolta dal mistero della scomparsa di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana (Taranto) di cui non si hanno più notizie dal pomeriggio del 26 agosto, giungono – come spesso accade in casi del genere – varie segnalazioni da sensitivi e presunti “conoscitori” dell’occulto in merito alla sorte della ragazza. L’ultima di queste segnalazioni giunge oggi da Mario Allocchi, 40enne sensitivo di Civitavecchia, il quale, prima di riferire la sua “verità” all’agenzia GlobalPress, premette doverosamente: «Vorrei poter aiutare la famiglia, le forze dell’ordine, non sono una persona che gioca e specula sul dolore altrui. Sono un professionista serio, poi ognuno è libero di crederci». Dice di sapere cosa è successo alla piccola Sarah. «L’ho visto attraverso la tecnica della radioestesia – ammette l’uomo – poi ho consultato i tarocchi, ho visto le immagini della ragazzina, il suo corpo, l’ho visto, me l’hanno detto le carte, so anche dove si trova». Raccontare le impressioni di un sensitivo non rappresenta propriamente un affare di cronaca, né le sue affermazioni possono costituire in alcun modo una fonte attendibile. L’intricata vicenda a cui, dopo nove giorni di ininterrotte ricerche, non si è ancora riusciti a portare la minima luce, impone tuttavia di rendere nota la maggior quantità possibile di dati e informazioni sul caso. Alocchi ci dice ciò che “ha visto”. Da esperto di esoterismo dichiara di non avere dubbi, da uomo invece si augura di essersi sbagliato. «Sara si trova nella zona di Uggiano Montefusco – dice all’agenzia GlobalPress – una località tra Avetrana e Manduria. Prima ho usato la radioestesia, la tecnica che attraverso un pendolino e la fotografia della persona scomparsa ci fa capire se colei che cerchiamo è ancora in vita. Purtroppo sia la radioestesia sia le carte mi hanno confermato che Sara avrebbe fatto una tragica fine». Continua il sensitivo: «E’ stata tratta in inganno, le forze dell’ordine indaghino perciò su una giovane donna, parente della ragazzina. Ha mentito a tutti, ai carabinieri, agli amici, alla famiglia. L’hanno attirata in un tranello, perciò Sara si è allontana di sua volontà con delle persone che poi le hanno fatto del male. Ripeto c’è qualcuno che mente, che non sta dicendo la verità. Fate presto, dice ancora Alocchi. So che spesso i sensitivi vengono giudicati dei ciarlatani, ma io ho a cuore il destino di Sarah come quello di tante altre persone. Molto spesso noi sensitivi abbiamo collaborato al ritrovamento di gente scomparsa, lavoriamo al fianco dei giornalisti. Posso solo dire che ciò che ho visto mi fa male come uomo, e spero con tutto il cuore che questa volta le carte e la radioestesia mi abbiano tratto in inganno». Speriamo tutti che questa volta, (o meglio) che anche questa volta, le carte abbiano tratto in inganno e che Sarah possa presto riabbracciare i suoi disperati genitori.

La medium Elisa Renata Soli: “Dio vede, io tramite lui provvedo”. Elisa Renata Soli, medium passata alla ribalta per diverse visioni che poi puntualmente si sono avverate. La MassMedia Agency l'ha incontrata per un'intervista tutta da scoprire.

Negli anni scorsi, su diversi giornali hai annunciato ed anticipato diverse situazioni che poi si sono verificate, come nel caso di Emma Marrone, di Belen e Stefano e di Michelle Hunziker e di tanti altri. C’è un personaggio dello spettacolo che per un motivo o per un altro senti essere in difficoltà o peggio ancora in pericolo?

«Dico che nella mia mente in questo momento mi è venuto il volto di Maurizio Costanzo, c’è un grande dolore da superare in famiglia, non voglio scendere in particolari, poi mi parla di Rosario Fiorello, deve stare più attento a chi lo circonda come amicizia, vedo un contratto che avrebbe dovuto firmare, sfumato, o che firmerà a giorni, parliamo comunque di una produzione di novembre – dicembre. Poi ce ne sarebbero da vedere, ma se dico tutto adesso poi che dirò in futuro?»

Quanto ha condizionato la tua vita la consapevolezza di Elisa?

«Moltissimo sia in positivo che in negativo, positivo perché posso vedere e aiutare le persone, in negativo perché il mio spirito guida, che in realtà sono due, uno è mia madre Filomena Martorana, e l’altro è Giampaolo Baratto, il quale è molto geloso di me (non capisce che io sono terrena) e mi blocca le mie relazioni sentimentali, sono oramai anni che sono da sola, ma sto bene così, finchè non si deciderà a farmi avvicinare un altro uomo al mio fianco».

Quando ti sei accorta di avere questo dono?

«Questo dono si ha dalla nascita, all’età di 5 anni ho iniziato a vedere delle ombre vicino a me, che poi si sono con gli anni materializzate di notte in persone».

Moltissimi casi irrisolti di cronaca nera, passati alla ribalta anche in tv aspettano chissà cosa per essere risolti. In alcuni di essi è stato anche chiesto un tuo consulto. Puoi parlarci di qualche caso passato che ha trovato poi risoluzione come tu avevi predetto?

«Ce ne sono stati diversi iniziando da Ferdinando Carretta di Parma, che aveva ucciso i genitori per l’eredità, lo dissi anche alla gazzetta di Parma che stava facendo delle interviste in piazza Garibaldi, e mentre tutte le persone dicevano che era innocente, io dichiarai che era stato lui, che i corpi non si sarebbero trovati mai, e fu così. Ricordo del piccolo Tommy Onofri, ero in contatto con il direttore di tele ducato di Parma, erano i primi momenti dopo il rapimento, ed io dissi che non lo sentivo vivo, ed infatti il piccolo era già tra le braccia di Gesù! Per il caso di Sarah Scazzi ero stata intervistata da TeleNorba di Lecce, raccontai in tg che vedevo 3 persone ma erano di spalle, robuste, erano persone di famiglia, e gli inquirenti dovevano mettere sotto torchio uno di famiglia che avrebbe detto tutto e poi si rivelò che era zio Michele, e che il corpo della Piccola Sarah, non era dove stavano cercando, ma era in un altro posto, e così si rivelò quello che avevo detto una quindicina di giorni prima, di casi ne ho visti e grazie al mio Dono, anche quando parliamo di anni casi vecchi, come quello di Albano e Romina che si separarono dissi che non ci sarebbe stata una riconciliazione a breve!»

In un mondo diviso tra quelli che guardano con diffidenza a questo mondo e quelli che invece ne sono sempre più convinti ed affascinati, riesci a spiegare in poche parole il tuo mondo?

«Hanno ragione quelli che lo guardano con diffidenza, perché ahimè ci sono troppi ciarlatani, sono tutte persone che hanno avuto delusioni, che approfittano dei sentimenti e del dolore delle persone e che chiedono aiuto per qualsiasi problema (amore, lavoro, figli, ecc) promettendo loro cose che riescono a portare a termine. Però ad essere sincera, quelli che dicono di essere diffidenti, e poi magari non lo sono, mi hanno sempre chiesto, con la scusa di vedere nel loro passato, sistematicamente rimanevano senza parole e mi chiedevano “ma come fai? Tu non potevi sapere queste cose mie”. Poi ci sono quelle persone che ne restano affascinati, ma come sempre dico, fate attenzione a chi dice di essere veggenti, che magari promettono… di veri sensitivi-veggenti siamo davvero in pochissimi».

Stiamo vivendo una situazione geopolitica complicata. Da una parte la questione Ucraino-Russa dall’altra la lotta al terrorismo che coinvolge tutta l’umanità ed in particolare il mondo filo-americano. Cosa accadrà in futuro? C’è speranza di risoluzione?

«Ma vedo che qui stiamo andando sempre più male che bene, risoluzioni ce ne potrebbero essere, ma vedo che non c’è accordo tra le parti, a livello politico e non sarà facile».

Guardiamo alla situazione italiana. Ormai a più riprese si sente parlare di stato in crisi, di situazione economica alla berlina. L’arrivo di Renzi può portare a dei risultati? Si continuerà per questa strada?

«Sono convinta che Renzi potrebbe fare tanto, ma è ostacolato da chi ha più potere di lui, e se Renzi volesse potrebbe fare il 100%, ma purtroppo è frenato e non riesce a fare più del 40%».

Cosa ti senti di dire a quelli che con diffidenza guardano le medium?

«Certamente non tutti sono Medium come si definiscono, certo che ne siamo veramente pochi di Medium che hanno questo dono che Dio ci ha dato. Siamo privilegiati dalla nascita, per questo siamo pochi, e dico loro una frase che mi viene suggerita dal mio spirito giuda “Dio vede, io tramite lui provvedo” nel senso lui mi fa vedere le cose e io le dico! Non siate diffidenti, che l’aldilà esiste eccome!»

GIORNALISTI ALLA SBARRA.

Caso Scazzi: rinviato a giudizio giornalista “Oggi”, si scrive su “Articolo 21”. Giangavino Sulas accusato di diffamazione aggravata a mezzo tv nei confronti dell’ex legale di Sabrina Misseri. “Non mi è mai stata chiesta rettifica”, dice Giangavino Sulas, giornalista del settimanale Oggi, è stato rinviato a giudizio dal giudice per l’udienza preliminare del tribunale di Taranto Patrizia Todisco con l’accusa di diffamazione aggravata a mezzo tv nei confronti dell’avvocato Emilia Velletri. Quest’ultima è stata il difensore di Sabrina Misseri, condannata in primo grado, insieme alla madre Cosima Serrano, all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana (Taranto) uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010. “Nel corso della trasmissione televisiva Pomeriggio sul 2 in onda sul secondo canale Rai il 24 maggio del 2011 alla quale partecipavo, si discuteva del ‘caso Avetrana’ dove da qualche tempo era scoppiato uno scandalo: i legali di Sabrina Misseri, l’avvocato Velletri e suo marito, Vito Russo, erano indagati dalla Procura di Taranto perché avrebbero cercato di inquinare le prove del caso Scazzi”, racconta il giornalista a Ossigeno. “Nel mio intervento ho riferito che entrambi erano stati indagati e sospesi dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati, quando in realtà era stato sospeso soltanto Russo”, aggiunge Sulas. “La mia è stata un’inesattezza detta in buona fede, ma l’avvocato Velletri non ha voluto sentir ragioni. Non mi è stata mai chiesta né una smentita né una rettifica”, spiega il cronista. “Ovviamente ho detto un’inesattezza, ma da qui a celebrare un processo per una cosa del genere mi sembra un’esagerazione”, conclude. Il giudice Todisco ha respinto l’eccezione presentata dalla difesa sulla competenza territoriale. L’avvocato difensore del giornalista, infatti, aveva chiesto che il fascicolo fosse spostato a Milano, dove Oggi viene realizzato. La prima udienza del processo è fissata per il 4 giugno 2014 dinanzi al giudice monocratico Massimo De Michele.

COLPEVOLE DI ESSERE INNOCENTE.

Colpevole di essere innocente. «E dovete sperare bene anche voi, o giudici, dinanzi alla morte e credere fermamente che a colui che è buono non può accadere nulla di male, né da vivo né da morto, e che gli Dei si prenderanno cura della sua sorte. Quel che a me è avvenuto ora non è stato così per caso, poiché vedo che il morire e l’essere liberato dalle angustie del mondo era per me il meglio. Per questo non mi ha contrariato l’avvertimento divino ed io non sono affatto in collera con quelli che mi hanno votato contro e con i miei accusatori, sebbene costoro non mi avessero votato contro con questa intenzione, ma credendo invece di farmi del male. E in questo essi sono da biasimare». Si chiamava Socrate, era nato ad Atene nel 469 a.C. da Sofronisco, abile scultore, e Fenarete, apprezzata levatrice. Fu coraggioso combattente, eroe di guerra, membro del Consiglio dei Cinquecento, filosofo e bevitore. Morì innocente. Condannato dai giudici che sapevano di condannare un innocente, scrive Nino Spirlì. Ah, quanto bene scrisse di lui il Grande Platone. Quanti insegnamenti, da un condannato. Eppure… Fosse stato per i suoi concittadini e, soprattutto, per coloro che lo trascinarono in tribunale, noi posteri non avremmo dovuto nemmeno conoscerlo, quel nome. Invece, Socrate ha cavalcato e cavalcherà i secoli, mentre di loro, di quegli infami, non resta ricordo. Sappiamo solo che quella massa senza nome si fece rappresentare da un certo Meleto, poetucolo di piccola fama, pubblico accusatore, che ebbe al proprio fianco un cuoiaio, Anito, e un demagogo, Licone. L’accusa? Socrate corrompe i giovani, offende gli dei della città e ne crea di nuovi. La verità? Socrate spingeva il popolo a pensare, a chiedersi il perché, a rileggere la propria esistenza, partendo dall’assunto “So di non sapere”. E questo lo rendeva nemico del Potere. Perché, di per sé, era Potere. La Libertà è, infatti, la sola Forza della Natura. E, dunque, esercitarla, goderla, ricercarla, e offrirla è già una dichiarazione di guerra verso il Palazzo. Con Socrate, e con molti dopo di Lui, non è mai stata in pericolo la democrazia, ma il Potere sì. Perché la democrazia è voce di popolo, mentre il Palazzo è terrore e mistero. Segreti e interessi. Poteva, il Palazzo di quel tempo, e può, Quello di oggi, sopportare che esistano Uomini Liberi, non assoggettati, mai schiavi delle logiche di potere? Sarebbe un suicidio del Palazzo stesso. Una sorta di condanna a morte. E, quindi, il processo, fra tanti, al Giusto. Che accetta la condanna, nel rispetto della Legge, pur conoscendo la propria innocenza. Che decide di non scappare. Di scontare la pena, per non dover mortificare il proprio pensiero sul doveroso rispetto di quella Legge. Che beve la cicuta, amaro calice, croce divina, per amore di Verità. E’ la storia di certi processi. Da Socrate in poi, passando per Gerusalemme, fino a noi.

I MAGISTRATI E LA SINDROME DELLA MENZOGNA.

Quando il Potere giudiziario si nutre di pregiudizi e genera ingiustizia. Così scrive il dr Antonio Giangrande, sociologo storico e scrittore che sul tema ha scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it.

Parliamo di menzogne nelle aule di giustizia. I magistrati di Taranto del processo sul delitto di Sarah Scazzi, requirenti con a capo il Pubblico Ministero Pietro Argentino e giudicanti con a capo Rina Trunfio, hanno fondato le richieste e le condanne sull’assunto che il delitto di Avetrana è una storia di bugie, pettegolezzi, chiacchiere, depistaggi. Menzogne e reticenze dei protagonisti e dei testimoni e se questo non bastasse anche di tutta Avetrana.

Ed ecco il paradosso che non ti aspetti. È proprio l’alto magistrato pugliese Pietro Argentino a rischiare di dover fare i conti adesso con la giustizia, dopo che il Tribunale di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati di Taranto, ha disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per indagare sul reato di falsa testimonianza proprio del procuratore aggiunto Argentino. Il pm dovrà inoltre valutare la posizione di altre 20 persone, tra le quali molti rappresentanti delle forze dell’ordine. La decisione della Corte è arrivata alla fine del processo che ha visto la condanna a 15 anni di reclusione per l’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio, condannato per concussione e corruzione semplice.

Eppure Pietro Argentino è anche il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Ciò nonostante a me tocca difendere proprio i magistrati Tarantini che di me hanno fatto carne da macello, facendomi passare senza successo autore della loro stessa infamia, ossia di essere mitomane, bugiardo e calunniatore.

Come dire: son tutti bugiardi chi sta oltre lo scranno del giudizio. Ma è proprio così?

Silenzio in aula, prego. Articolo 497 comma 2 del Codice Penale, il testimone legga ad alta voce: «Consapevole della responsabilità morale e giuridica che assumo con la mia deposizione, mi impegno a dire tutta la verità e a non nascondere nulla di quanto è a mia conoscenza». Il microfono fischia, la voce si impaccia, qualcuno tentenna sul significato della parola «consapevole». Poi iniziano a piovere menzogne. Il giudice di Aosta Eugenio Gramola - sì, quello del caso Cogne - ha lanciato l’allarme a Niccolò Canzan sul suo articolo su “La Stampa” : «Ci prendono per imbecilli. È incredibile come mentano con facilità davanti al giudice. Sfrontati, fantasiosi. Senza la minima cura per la plausibilità del racconto. Orari impossibili, contraddizioni lampanti, pasticci. L’incidenza dei falsi testimoni è molto superiore a una media fisiologica, si attesta tra il 70 e l’80 per cento». Sette su dieci mentono, in Valle d’Aosta. Sembra uno di quei casi in cui la geografia potrebbe significare qualcosa. L’Italia un Paese di bugiardi, quasi una tara nel codice genetico: «Chi mente al giudice è furbo - dice Gramola -. Essere bugiardo fa ridere, piace, non comporta disvalore sociale. Mentre indicare la menzogna come un grave atto contro la Giustizia è da biechi moralisti e puritani».  Totò e Peppino erano all’avanguardia, è risaputo. «Caffè, panini, false testimonianze!», urlavano nel 1959 nel film «La Cambiale». Dall’alto della civilissima Valle d’Aosta, al cospetto di storie magari più piccole eppure significative, il giudice Gramola ha un guizzo d’orgoglio: «Certe volte, più che a testimoni ci troviamo di fronte ad amici delle parti in conflitto. E questi bugiardi sono poi magari gli stessi che si scagliano contro una giustizia che non funziona».

D’altro canto la procura di Milano ha rinviato a giudizio tutti i testimoni della difesa nel cosiddetto “processo Rubi”, che sono 42, più i due avvocati della difesa: in tutto 44. Ora, pensare che 42 testimoni fra i quali deputati, senatori, giornalisti, funzionari di polizia abbiano, tutti, giurato il falso, è una cosa a dir poco stravagante, scrive Luigi Barozzi. Il capo d’accusa non è ancora definito, ma andrà probabilmente dalla falsa testimonianza alla corruzione in atti giudiziari. In soprannumero, anche i legali verranno rinviati a giudizio, e al normale cittadino sorgono alcuni dubbi.

- E’ mai possibile che 42 persone, di varia provenienza sociale e professionale, siano tutti bugiardi-spergiuri o peggio?

- E’ mai possibile che lo siano pure i legali della difesa i quali, in un società civile, incarnano un principio quasi sacro: il diritto dell’imputato, anche se si tratta della persona peggiore del mondo, di essere difeso in giudizio?

- Non sarà, per caso, che la sentenza fosse già scritta e che il disturbo arrecato dai testi della difesa alla suddetta sentenza abbia irritato la Procura di Milano tanto da farle perdere la trebisonda? 

Trattando il tema della menzogna ci si imbatte frequentemente in definizioni che fanno uso di molti sinonimi quali inganno, errore, finzione, burla, ecc…, le quali, anziché restringere i confini semantici del concetto di menzogna, tendono ad allargarli creando spesso confusione, scrive Il valore positivo della bugia - Dott.ssa Maria Concetta Cirrincione - psicologa. Un primo tentativo per circoscrivere tale area semantica consiste nel definire la differenza tra menzogna e inganno. La menzogna e il suo sinonimo bugia, usato prevalentemente in relazione all’infanzia, và considerata una modalità tra le altre di ingannare, perciò possiamo definirla come una sorta di “sottoclasse “ dell’inganno. La sua caratteristica distintiva consiste nel fatto di essere essenzialmente un atto comunicativo di tipo linguistico, ossia la rivelazione di un contenuto falso attraverso la comunicazione verbale o scritta. Questo impone la presenza di almeno un comunicatore, di un ricevente e di un messaggio verbale che non corrisponde a verità. L’inganno si esplica invece, non solo attraverso l’atto comunicativo della menzogna, ma anche attraverso comportamenti tesi ad incidere sulle conoscenze, motivazioni, aspettative dell’interlocutore. (De Cataldo Neuburgher L. , Gullotta G., 1996). Secondo questa prospettiva, l’omissione di informazioni non è tanto una menzogna, quanto un inganno. La comunicazione è una condizione sufficiente ma non necessaria perché si possa ingannare. A volte si inganna facendo in modo che:

- l’altro sappia qualcosa di non vero (es: A va sul tetto e fa cadere acqua dalla grondaia, B vede l’acqua e viene ad assumere che piove);

- l’altro creda qualcosa di non vero (es: B guardando l’acqua fuori dalla finestra, commenta: “piove”, e A non lo smentisce);

- l’altro non venga a conoscenza della verità (A chiude l’altra finestra dalla quale non si vede l’acqua cadere, in modo che B continui a credere il falso);

L’inganno, quindi, si esplica attraverso qualsiasi canale verbale e non verbale (mimica facciale, gestualità, tono di voce), mentre la menzogna utilizza specificatamente il canale verbale. Mentire è un comportamento diffuso, tipicamente umano, non è tipico dell’adolescenza, né necessariamente un indice di psicopatologia; di solito viene valutato infatti da un punto di vista etico più che psicopatologico. Non appena i bambini sono in grado di utilizzare il linguaggio con sufficiente competenza sperimentano la possibilità di affermare a parole una verità del desiderio e del sentimento diversa da quella oggettiva.

E’ noto che i bambini non hanno la stessa proprietà di linguaggio degli adulti, per cui spesso gli adulti chiamano bugia ciò che per il bambino è espressione di paure, di bisogno di rassicurazione o di percezione inesatta della realtà. Si può parlare di bugia quando si nota l’intenzione di “barare”, e comporta un certo livello di sviluppo. Nei bambini avviene come messa alla prova per misurare poi la reazione degli adulti al suo comportamento. Nel crescere assume anche altri significati poiché dipende da diverse variabili; può dipendere dalla situazione che si sta vivendo, dalla persona alla quale è rivolta o dallo scopo che si vuole raggiungere. E’ utile pertanto una classificazione che ci permetta di orientarci meglio al suo interno, sebbene tale classificazione può risultare artificiosa dal momento che i vari tipi di menzogna tendono spesso a sovrapporsi e a confondersi tra loro. Si possono distinguere (Lewis M., Saarni C. , 1993):

bugie caratteriali (bugie di timidezza, bugie di discolpa, bugie gratuite);

bugie di evitamento (evitare la punizione, difendere la privacy);

bugie di difesa (bugie per proteggere se stessi o gli altri);

bugie di acquisizione (bugie per acquistare prestigio, per ottenere un vantaggio);

bugie alle quali lo stesso autore crede (pseudologie);

autoinganno.

BUGIE DI TIMIDEZZA: una motivazione che può spingere a raccontare bugie è la timidezza. Alla sua radice c’è una concezione negativa di se stessi; i timidi affrontano la vita con la sensazione di essere inferiori rispetto alla maggioranza degli altri esseri umani e questo modo di pensare condiziona le loro relazioni in molteplici modi. Uno di questi è la tendenza a raccontare menzogne per apparire migliori agli occhi degli altri, per nascondersi, per evitare situazioni sociali nelle quali si sentirebbero inadeguati e imbarazzati.

BUGIE DI DISCOLPA: ci sono menzogne che derivano dalla necessità di discolparsi da accuse più o meno fondate. E’ un atteggiamento diffuso nei bambini che può permanere in soggetti adulti insicuri nei quali spesso si riscontra un sentimento d’inferiorità e l’incapacità di affrontare le proprie responsabilità.

BUGIE GRATUITE: generalmente dietro alla maggior parte delle bugie si nasconde un bisogno, un desiderio, uno scopo che il soggetto vuole raggiungere. Spesso invece ci troviamo di fronte a menzogne che non lasciano intuire che cosa vuole raggiungere il soggetto, sono le bugie che vengono raccontare per puro divertimento, per allegria, per dare sfogo alla fantasia.

BUGIE PER EVITARE LA PUNIZIONE: evitare la punizione è un motivo molto comune delle bugie degli adulti, ma prevalentemente dei bambini. Questi ultimi imparano a mentire ben presto quando si rendono conto di aver commesso una trasgressione, già a 2-3 anni essi sono in grado di attuare degli inganni in contesti naturali come la famiglia.

BUGIE PER DIFENDERE LA PRIVACY: la salvaguardia della privacy è un motivo che spinge spesso i ragazzi adolescenti, ma anche gli adulti, a raccontare bugie. Nell’adolescenza emerge nei ragazzi il bisogno di crearsi uno spazio proprio, di decidere se raccontare o meno le loro esperienze e le loro emozioni. Se da un lato ciò deve essere rispettato dai genitori, dall’altro costituisce un problema a causa del loro bisogno di protezione nei confronti del figlio.

BUGIE PER PROTEGGERE SE STESSI O GLI ALTRI: nella vita di ogni giorno ci sono svariate situazioni che portano una persona a mentire per proteggere se stessa o i sentimenti di persone care. Se alla nostra festa di compleanno riceviamo un regalo che non ci piace o quanto meno lo consideriamo inutile, è molto improbabile che lo diremo chi ce l’ha donato; è probabile invece che, dissimulando la delusione, ci mostreremo entusiasti. Gli adulti mentono per cortesia e questa regola sociale viene ben presto assimilata anche dai bambini. Essi imparano a proteggere i sentimenti degli altri attraverso un’istruzione diretta data dai genitori, ma anche indirettamente osservandone il comportamento.

BUGIE PER ACQUISTARE PRESTIGIO: sono delle bugie compensatorie che traducono non tanto la ricerca di un beneficio concreto, ma la ricerca di un’immagine che il soggetto ritiene perduta o inaccessibile: si inventa una famigli più ricca, più nobile o più sapiente, si attribuisce dei successi scolastici o lavorativi. In realtà questa bugia è da considerarsi normale nell’infanzia e finchè occupa un posto ragionevole nell’immaginazione del bambino. Tale condotta viene considerata banale fino ai 6 anni, la sua persistenza oltre tale età segnala invece spesso delle alterazioni psicopatologiche.

PSEUDOLOGIE: sono delle bugie alle quali lo stesso autore crede. Più specificatamente viene definita “pseudologia fantastica” una situazione intenzionale e dimostrativa di esperienze impossibili e facilmente confutabili (Colombo, 1997). E’ un puro frutto di immaginazione presente in bugiardi patologici ed è una caratteristica tipica della Sindrome di Mùnchausen.

AUTOINGANNO: il mentire a se stessi è un particolare tipo di menzogna che ci lascia interdetti e confusi dal momento che il soggetto è contemporaneamente ingannatore e ingannato. L’autoinganno è l’inganno dell’Io operato dall’Io, a vantaggio o in rapporto all’Io (Rotry, 1991). In esso vengono messi in atto meccanismi di difesa come la razionalizzazione e la denegazione. Attraverso la razionalizzazione il soggetto inventa spiegazioni circa il comportamento proprio o altrui che sono rassicuranti o funzionali a se stesso, ma non corrette. Il soggetto da un lato può celare a se stesso la reale motivazione di alcuni comportamenti ed emozioni, e dall’altro riesce a nascondere ciò che sa inconsciamente e non vuole conoscere. Attraverso la denegazione, invece, il soggetto rifiuta di riconoscere qualche aspetto della realtà interna o esterna evidente per gli altri. Potremo fare l’esempio dell’alcolista che mente a se stesso dicendosi che non ha nessun problema o delle famiglie in cui si fa “finta di niente, finta di non capire”.

Intanto per i magistrati coloro che si presentano al loro cospetto son tutti bugiardi. Persino i loro colleghi che usano lo stesso sistema di giudizio per l’altrui valutazione.

Eppure Pietro Argentino è il numero 2 della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati, scrive Augusto Parboni su “Il Tempo”. È l’alto magistrato pugliese Pietro Argentino a rischiare di dover fare i conti adesso con la giustizia, dopo che il Tribunale di Potenza, competente per i reati commessi dai magistrati di Taranto, ha disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per indagare sul reato di falsa testimonianza proprio del procuratore aggiunto Argentino. Il pm dovrà inoltre valutare la posizione di altre 20 persone, tra le quali molti rappresentanti delle forze dell’ordine. La decisione della Corte è arrivata alla fine del processo che ha visto la condanna a 15 anni di reclusione per l’ex pm di Taranto Matteo Di Giorgio, condannato tre giorni fa per concussione e corruzione semplice. Al termine del processo, ecco abbattersi sulla procura di Taranto la pensate tegola della trasmissione degli atti per indagare proprio su chi ricopre un ruolo di vertice nella procura pugliese. Argentino è a capo del pool che ha chiesto il rinvio a giudizio, tra l’altro, del presidente della Puglia, Nichi Vendola, nell’ambito delle indagini sulle emissioni inquinanti dello stabilimento Ilva. Vendola è accusato di concussione in concorso con i vertici dell’Ilva, per presunte pressioni sull’Arpa Puglia affinché «ammorbidisse» la pretesa di ridurre e rimodulare il ciclo produttivo dello stabilimento siderurgico. Attraverso quel - le presunte pressioni, Vendola - secondo la procura - avrebbe minacciato il direttore Arpa Giorgio Assennato, «inducendolo a più miti consigli», approfittando del fatto che Assennato fosse in scadenza di mandato e che rischiasse di non essere riconfermato. Accusa sempre respinta da Vendola.

Quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero, scrive “Il Quotidiano di Puglia”. È un terremoto che si abbatte sul palazzo di giustizia di Taranto la sentenza che il Tribunale di Potenza ha pronunciato nei confronti dell’ex pubblico ministero della procura di Taranto Matteo Di Giorgio. Un terremoto anche perché i giudici potentini - competenti per i procedimenti che vedono coinvolti magistrati tarantini - hanno disposto la trasmissione degli atti alla Procura perché valuti la sussistenza del reato di falsa testimonianza a carico del procuratore aggiunto di Taranto, Pietro Argentino, e l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci, di Gallipoli.

Il Tribunale di Potenza ha condannato a 15 anni di reclusione l’ex pubblico ministero di Taranto, Matteo Di Giorgio, accusato di concussione e corruzione in atti giudiziari, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Come pena accessoria è stata disposta anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. La pubblica accusa aveva chiesto la condanna alla pena di 12 anni e mezzo. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, attuale comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi a un imputato accusato di diffamazione. L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il magistrato secondo l'accusa, ha anche minacciato di un “male ingiusto” un consigliere comunale di Castellaneta, costringendolo a dimettersi per provocare lo scioglimento del Consiglio comunale e assumere una funzione di guida politica di uno schieramento. L'ex sindaco di Castellaneta ed ex parlamentare dei Ds Rocco Loreto, che presentò un dossier a Potenza contro il magistrato, e un imprenditore, si sono costituiti parte civile ed erano assistiti dall’avv. Fausto Soggia. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono cui l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Le indagini dei militari del nucleo operativo e della sezione di polizia giudiziaria dei carabinieri di Potenza coordinati dal pm Laura Triassi erano partite nel 2007, scrive “Il Quotidiano Web”. Lo spunto era arrivato dall'esposto di un ex assessore di Castellaneta, Vito Pontassuglia, che ha raccontato di aver spinto alle dimissioni un consigliere comunale, nel 2001, paventandogli un possibile arresto del figlio e del fratello per droga da parte del pm Di Giorgio. Quelle dimissioni che avrebbero causato le elezioni anticipate spianando la strada agli amici del pm, e a lui per l’incarico di assessore della giunta comunale. Gli interessi del magistrato nelle vicende politiche del paese avrebbero incrociato, sempre nel 2007, le ambizioni dell'ex senatore Rocco Loreto, un tempo amico di Di Giorgio, ma in seguito arrestato per calunnia nei suoi confronti, che si era candidato come primo cittadino. Di Giorgio è stato condannato anche al risarcimento dei danni subiti da Loreto, da suo figlio e da Pontassuglia. Per lui la richiesta dell'accusa si era fermata a 12 anni e mezzo di reclusione. Le motivazioni della decisione verranno depositate entro 90 giorni, ma non mi sorprende il fatto che esse conterranno il riferimento alla dubbia credibilità di imputati e testimoni. 

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

L’OMICIDIO MASSONICO. L’OMICIDIO DEI BAMBINI.

L'omicidio massonico. L'omicidio dei bambini. Alcune considerazioni sul caso Yara e Sarah, scrive Paolo Franceschetti. 1. Premessa. 2. In nome di Ishmael. I moventi dell'omicidio di minorenni. 3. Alcune considerazioni sul caso Yara e Sarah. 4. Allegato. Primi appunti sul simbolo trovato sul corpo di Yara.

1. Premessa. Una delle domande più frequenti che mi fanno i lettori (ed è per questo che mi decido a scrivere un articolo come questo) è questa: “Ok, passi che la massoneria uccida i testimoni di Ustica, che sequestri Moro uccidendone la scorta, ecc., ma che interesse ha ad uccidere Sarah Scazzi, o Yara Gambirasio? Che interesse ha ad uccidere una famiglia, nel delitto di Erba?” Con questo articolo rispondo anche alla domanda “perché non ti occupi di Sarah e Yara?”. La risposta non è semplice perché non esiste un’unica risposta. La massoneria è un’organizzazione complessa, e ramificata, e dunque estremamente complessi e ramificati sono i suoi fini. Faccio spesso il parallelo con la mafia. Alla domanda “che interesse ha la mafia ad uccidere?” la risposta non potrebbe essere unica. La mafia uccide per sopprimere testimoni, per uccidere poliziotti o magistrati scomodi, persone che tradiscono, pericolose, scomode, a fini estorsivi, o anche solo per lotte di potere interno. Le motivazioni degli omicidi massonici sono ancora più complesse, e per certi versi incomprensibili secondo la logica comune. Una volta che relativamente ad un delitto si trovi la simbologia massonica, e una volta quindi individuato il delitto come “massonico”, ciò non ha alcuna utilità, perché non serve per individuare esecutori, mandanti e movente. Così come capiamo che una persona è stata uccisa dalla mafia, se il delitto avviene a Palermo, in pieno centro, con una raffica di mitra al volto, oppure se troviamo una persona incaprettata, ma tale comprensione ancora nulla ci dice dell’assassino e del movente, così trovare simboli massonici sulla scena di un delitto ha una valenza pratica pari a zero. Quindi, individuare simboli e numerologia massonica nel delitto di Avetrana e Brembate non serve a nulla. Una volta spiegato ai lettori, coi precedenti articoli, la simbologia base di un delitto massonico, infatti, ciascun lettore di questo blog ha potuto capire da solo che erano delitti firmati dalla Rosa Rossa e non c’era bisogno di un mio articolo per spiegare ciò che hanno capito tutti. Impossibile, invece, capire per ora i moventi o anche solo individuare potenziali colpevoli. Un discorso generale su questi omicidi, però, possiamo farlo.

2. In nome di Ishmael. I moventi. Da poco mi è capitato di leggere un romanzo di Giuseppe Genna, dal titolo “In nome di Ishmael”, che parla proprio dell’omicidio dei bambini. L’autore nel romanzo narra di un’organizzazione internazionale, Ishmael, che è dietro agli omicidi di molti bambini, e dietro al traffico internazionale collegato al caso Dutroux, come dietro al delitto di Lady Diana o al delitto Moro. I delitti dei bambini sono compiuti per propiziarsi forze esoteriche relative a grandi eventi di portata nazionale o internazionale. In altre parole, ogni delitto è un sacrificio umano compiuto per collegarlo esotericamente e simbolicamente, a vicende come il delitto Mattei, il sequestro Moro, ecc. Leggendolo ho capito che l’autore parlava della Rosa Rossa, e parlava di fatti reali, non inventati. Il libro è scritto da una persona addentro a queste cose, essendo stato consulente della commissione P2 e della commissione stragi. Facciamo quindi parlare uno dei protagonisti del romanzo. Ne trascrivo i dialoghi più importanti. Alla domanda “perché Ishmael uccide?” il protagonista risponde: “Con Ishmael il significato si chiarisce a distanza di anni. Bisogna aspettare. Ci sono altre realtà, superiori al piano politico. Sono realtà spirituali e queste realtà guidano il piano politico occultamente. Realtà che a noi sembrano religiose. E’ chiaro uno dei meccanismi rituali di Ishmael: in vista di ogni attentato importante viene compiuto il sacrificio di un bambino”. Occorre quindi aspettare anni, spesso aspettare una serie di delitti, per capirne il significato. Ad esempio, per capire i moventi nella vicenda del Mostro di Firenze ci sono voluti decenni. Nel delitto di Cogne ci sono voluti molti anni per capire il significato completo della vicenda (anche se la Carlizzi c’era arrivata subito; nel mio caso però ho impiegato due anni perché non riuscivo a leggerne i simboli esoterici che mi sono stati chiari solo dopo molto tempo).

3. Alcune considerazioni su Yara e Sarah. Il libro di Genna riassume quindi perfettamente la logica rituale dietro all’omicidio dei bambini compiuto dalla Rosa Rossa. Per Sarah e Yara occorrerà aspettare ancora per capire a cosa sono collegati questi omcidi. Probabilmente occorrerà aspettare una terza vittima, che questa volta, per i motivi che stiamo per dire, potrebbe essere violentata. Partiamo da queste considerazioni. La ritualità di questi due omicidi è chiara. L’assonanza dei nomi Sarah e Yara, accomunate da quell’ara finale, che ricorda la parola altare. Il loro corpo è, quindi, un altare sacrificale. Il fatto che Sarah sia scomparsa il 26 agosto; il 26 novembre dopo tre mesi esatti scompare Yara, che verrà ritrovata il 26 febbraio, ancora una vola dopo te mesi dalla scomparsa. Il 26 che ritorna in questi delitti, è un numero fondamentale per la Cabala, perché rappresenta la valenza numerica del nome di Dio. Cabalisticamente la parola Yahvè (YHWH), dà come somma proprio il numero 26. Abbiamo poi il ritrovamento del corpo di Yara nel campo di proprietà della ditta Rosa & C., mentre le rose erano in bella mostra anche nel cancello che dava sul cortile di casa Misseri. Anche il parroco, ai funerali di Yara, ha fatto un’affermazione incomprensibile ai “non iniziati”, e che tutti i giornali, manco a dirlo, hanno ripreso: Yara è come Santa Maria Goretti. Non posso dire se il parroco l’abbia fatto apposta o meno; ma certo non è casuale che questa affermazione abbia fatto il giro dei mass media, in quanto Santa Maria Goretti ha come simbolo il Giglio. Abbiamo insomma un’infinità di indizi che fanno capire che si tratta di un delitto rituale. Gli indizi più importanti poi, oltre quelli simbolici, sono costituiti dal nome delle persone coinvolte, il livello degli avvocati che si interessano alla vicenda, assolutamente sproporzionato per un delitto di matrice solo sessuale, da cui desumiamo che il livello degli interessi in gioco è molto alto. Occorre considerare che spariscono in Italia oltre 1000 minorenni all’anno. 1033 nel 2009, per la precisione. Queste poi sono solo le cifre ufficiali, che non tengono conto di tutte le sparizioni dei bambini figli di Rom, quindi non registrati all’anagrafe, o entrati clandestinamente in Italia, che fanno salire la cifra almeno al doppio. La Rosa Rossa, e l’internazionale dei pedofili, è dietro a molte delle sparizioni di bambini, anche di quelle che non compaiono sui media. La differenza tra un delitto che non fa rumore e uno che assume rilevanza mediatica, è solo nel tipo di destinatario e nell’importanza del rito. Molti bambini spariscono per finire nel traffico di organi, nei riti satanici, negli snuff movies. Quando dietro alla morte di un minorenne invece si solleva un caos mediatico delle proporzioni di Yara e Sarah, vuol dire che tale evento è collegato a qualcos’altro di proporzioni nazionali o internazionali. Nel caso di Yara, per esempio, il cui significato è “primavera”, potrebbe trattarsi di un evento molto importante che avverrà in primavera (una guerra, una catastrofe, ecc…); collegando questo nome con quello di Sarah (che nella Bibbia è la sposa di Abramo e quindi colei che partorisce il popolo eletto), c’è la possibilità che l’evento avverrà nel Medio Oriente. E’ probabile anche che debba avvenire un terzo delitto e che il percorso seguito sia, simbolicamente e in codice, nella “Nascita di Venere” del Botticelli. Sulla destra del quadro infatti c’è la Primavera, coperta di fiori e piante varie (e Yara è stata trovata ricoperta da arbusti). Al centro c’è Venere, che assomiglia in modo impressionante a Sarah, ed è rappresentata nuda dentro una conchiglia, davanti al mare (e ricordiamo che Sarah stava andando al mare prima di essere uccisa). Se questa ipotesi fosse vera, mancherebbe un terzo delitto, che dovrebbe simbolicamente ricordare la figura alla sinistra del quadro. L’ipotesi del collegamento di questi delitti alla Nascita di Venere è stata formulata da una persona che conosco ed è una possibilità, non una certezza. Ma la percentuale di probabilità che l’ipotesi sia plausibile è aumentata il giorno che ho notato che nel libro di Mario Spezi “Il passo dell’orco”, che parla di due omicidi di due bambini, edito da Hobby&Work e ancora una volta collegato al Mostro di Firenze e altre vicende reali, è citato proprio quel quadro. E Mario Spezi è uno che di omicidi di bambini e Rosa Rossa se ne intende. Resterebbe poi da spiegare esattamente il significato di questo quadro, ma la spiegazioni ufficiali non mi convincono per niente, come non mi convincevano quelle relative alla Primavera del Botticelli. Mi convinsi invece della bontà delle teorie di Lino Lista (che le ricollegava al canto 28 del Purgatorio di Dante), perché erano le uniche che spiegavano ogni dettaglio fin nei minimi particolari. Quanto al simbolo esoterico trovato sulla schiena di Yara, secondo il simbolista Carpeoro questa potrebbe essere la Croce di Sant’Andrea, che è la firma di una società che si ricollega agli Illuminati. Potrebbe contemporaneamente rappresentare la firma di colui che ha compiuto il “capolavoro”, rappresentando le lettere MR secondo la simbologia alfabetica della Società Guelfa, una delle tante associazioni paramassoniche sorte alla fine dell’800. Queste però sono solo congetture. Quello che è certo, ancora una volta, è che i mass media hanno orchestrato un immenso baraccone mediatico, chiamando sempre i soliti esperti, che sentenziano sempre le stesse cose, come ai tempi del Mostro di Firenze: un serial killer isolato (per Yara); o al massimo un contadino (ieri Pacciani, oggi Michele Misseri). Un killer abilissimo che ieri riusciva ad uccidere sedici vittime, alcune delle quali proprio sotto il naso degli inquirenti, e facendola sempre franca, mentre oggi riesce a piazzare un cadavere in un centro abitato, senza lasciare la minima traccia. Il tutto mentre gli inquirenti commettono un errore dopo l’altro in modo plateale (oggi non mettendo immediatamente sotto sequestro il garage di Misseri, ad esempio, oppure non vedendo un cadavere in bella mostra in un campo, per giunta a poche centinaia di metri da dove partivano le ricerche; ieri mettendo in galera sempre persone diverse, e tutte immancabilmente poi rivelatesi innocenti). Un’altra cosa certa è che anche qui la verità si saprà solo tra molti anni. E l’altra cosa certa è che: “Ishmael non sbaglia mai. Sul lungo periodo non sbaglia mai. Tutto quello che riusciamo a fare è ritardare i suoi risultati”. PS. Un giorno poi ci sarebbe da approfondire il motivo per cui vanno in galera sempre contadini, casalinghe, e spazzini (come Olindo Romano). Mai avvocati, notai, magistrati, medici, giornalisti, ecc. Nino Filastò nel suo libro “Storia delle merende infami” dice una cosa giusta (una delle poche, credo, di tutto il depistante libro). Che i laureati in genere non pagano mai per i loro delitti e la galera è piena di analfabeti. Uno dei pochi a farsi la galera (ma solo qualche giorno) fu proprio Mario Spezi, anni fa, per soli 23 giorni. Ma questo sarà oggetto di un altro articolo, in futuro.

4. Allegato. Primi appunti sul simbolo trovato sul corpo di Yara di Gianfranco Carpeoro. Caro Paolo ho avuto modo di vedere tanto il tuo post quanto il simbolo inciso sulla schiena della piccola Yara. Ovviamente mi sono messo subito al lavoro e il mio primo pensiero è stato quello di verificare tutte le rispondenze letterali della segnatura. La X è simbolo esoterico in quanto descrive la rotazione del mondo, in antiche lingue accadiche e mesopotamiche significa protezione, nel cristianesimo è simbolo del supplizio di Andrea, fratello di Pietro che richiese di essere crocifisso su una croce che non fosse esattamente uguale a quella del Cristo. Il simbolo = è invece presente solo in senso numerico, tra i sumeri veniva usato per indicare il numero due, ma i due simboli non viaggiavano insieme. Poi ho riflettuto sulla circostanza che il simbolo è stato inciso con una punta acuminata, credo, sulla schiena della vittima e ciò è una pratica di cui ho riconosciuto una fonte. Tra le logge di scalpellini e di muratori del Medioevo che hanno poi dato origine alla Massoneria, nella costruzione delle grandi cattedrali di quell’epoca, era d’uso che ogni “artista” firmasse la pietra, specialmente quella d’angolo o la chiave di volta, che aveva levigato e montato. Questi segni si chiama “lapicidi” e molti studi sono stati effettuati su di essi. Te ne accludo un esempio, ogni scalpellino sceglieva il suo marchio tramite una figurazione del tipo che vedi, ma a volte è riscontrabile che siano state adoperate le iniziali stilizzate. Ne ho esaminati un’infinità, non ne ho trovato alcuno che possa aiutarci, ma mi sono convinto che la modalità dell’assassino sia identica. Quindi, a mio avviso, quella è la sua firma, lui ha firmato il “capolavoro”. Questo mi induce a credere anche che si tratti di un personaggio isolato, visto che la firma in tal caso sarebbe singola, come era d’uso, ma non ne sono sicuro, ovviamente. Comunque, poiché la tradizione dei lapicidi è ben conosciuta tra i massoni, specialmente di alto grado, anzi è vissuta come tradizione da proseguire con la firma delle “tavole”, interventi scritti che si presentano in tempio durante le ritualità massoniche a questo punto mi sono messo a caccia di alfabeti massonici. Ciò anche perché la tradizione di sovrapporre due simboli separati, facendone uno è tipicamente massonico o premassonico, squadra compasso, rosa e croce, falce e martello (simbolo creato da un massone tedesco) ecc. Ne possiedo tanti e c’è voluto del tempo. Ne ho trovato uno solo, uno solo dove ci sono tanto la X che il = ed è l’Alfabeto della Società Guelfa, una delle tante associazioni paramassoniche sorte alla fin dell’Ottocento. Di seguito te lo pubblico intero ma le righe dell’alfabeto che riportano i simboli che ci interessano sono due e la colonna che ci interessa è quella dell’alfabeto nuovo. In tale codificazione infatti il simbolo = risulta corrispondere alla lettera M e il simbolo X risulta corrispondere alla lettera R. Ma non finisce qui. Nella mia ricerca, secondo le mie reminiscenze, ho verificato anche la Società Romantica ovvero il 34° grado della Massoneria. Si tratta degli Illuminati Romantici, associazione che risulta costituita anche in Italia da un manoscritto, conservato presso l’archivio Storico di Firenze. Riguardo a tale associazione segreta risulta che i suoi atti sarebbero stati anche pubblicati molti anni fa ad opera di una non meglio precisata loggia massonica, guarda caso di Firenze (!) la Concordia. Il testo del manoscritto, pubblicato un Italia da una casa editrice che non esiste più, Convivium, nel testo “Rituali e Società Segrete” te lo accludo integralmente segnalandoti le righe che ti ho evidenziato in rosso e cioè queste: Allorché uno di essi si trova in un pubblico albergo, incide sopra una tavola, o forma in un altro luogo visibile, una Croce di Sant'Andrea; doppia X se il trattamento è stato cattivo; tripla se è stato ben servito. E successivamente Hanno un segno per riconoscersi e questo consiste nel fare col dito indice della mano sinistra una Croce di S. Andrea, cioè un X. sopra una tavola, o in qualunque modo che loro fa comodo, ovvero descriverla in aria. Interessante vero? La Croce di Sant’Andrea è il simbolo e la firma di questa associazione che evoca gli Illuminati… Questo è quanto è emerso finora, caro Paolo, nei prossimi giorni cercherò di andare avanti per vedere se salta ancora fuori qualcosa d’altro. Tieni presente che la Croce di Sant’Andrea fa parte anche del simbolo di un grado del Rito Scozzese, ma questi la incidono e poi fanno parte per definizione della famiglia degli Illuminati… Se vuoi pubblica pure questa ricerca nelle forme che meglio credi, a mio nome o a tuo, o magari fanne la base per tue ulteriori ricerche, a me sembra un strada interessante. Un Abbraccio Carpeoro.

ANNIVERSARI AMARI.

Sarah Scazzi, a quattro anni dal delitto…, scrive Luca Zecca. La cameretta è rimasta pressappoco come quattro anni fa. Ci dorme suo fratello Claudio, adesso. Ma i vestiti sono ancora nell’armadio. Cd, peluche, smalti per le unghie, pure. Quel che è cambiato, nell’appartamento di Avetrana, sono le pareti. Tappezzate, letteralmente, dalle immagini di Sarah. «Sconosciuti da ogni parte d’Italia cominciarono a mandarcene subito dopo il fatto», racconta con un certo pudore mamma Concetta. «Un artista campano ha dipinto due suoi grandi ritratti. Il gruppo “Verità e giustizia per Sarah” ha preso le sue foto e ne ha fatto questi poster. Un pittore di Firenze l’ha descritta come un fiore gettato in un pozzo». Il 26 agosto 2014 saranno quattro anni esatti dal momento in cui Sarah in un pozzo ci finì per davvero, smise di essere un’adolescente qualunque e diventò “la quindicenne di Avetrana”. Per il suo omicidio, all’ergastolo ci sono la zia Cosima Serrano, sorella di mamma Concetta, e Sabrina Misseri, la cugina grande con cui Sarah quel pomeriggio sarebbe dovuta andare al mare. Per aver nascosto il suo corpo in una cisterna per l’acqua, è stato condannato lo zio, quel Michele Misseri prima reo confesso, poi uomo dalle mille, controverse versioni. Tutto è fermo, adesso: il processo di secondo grado non ha ancora una data certa, si dice in autunno, chissà. In casa Scazzi la memoria torna al 26 agosto 2010. «Uscì di corsa per andare da Sabrina», ricorda Concetta e si capisce che questa scena rivive in lei ogni giorno, da quattro anni. «Io ero girata verso i fornelli. Sentii solo: “Ma’, io sto andando”. Non mi voltai. E non la vidi più». Il ricordo corre ancora a quel pomeriggio, a quella sensazione netta, nettissima: «Dopo mezz’ora arrivò trafelata Sabrina.

Mi chiese dove fosse Sarah, che non era mai arrivata da lei. Ebbi la certezza che le era successo qualcosa di brutto». Si arrovellava, Concetta, in quei 40 giorni di ricerche prima del ritrovamento di quel che restava di sua figlia. «Lo dissi anche a Sabrina: “Se Sarah ha visto qualcosa che non avrebbe dovuto, non sta zitta”. E lei rispose solo: “E vero, zia”». Sarah era così. «Aveva un carattere forte e vivace. Specie nell’ultimo periodo litigavamo tanto», ricorda la mamma. «Mia sorella voleva l’indipendenza, le piaceva uscire anche la sera», aggiunge Claudio. «Quell’estate, quando scesi ad Avetrana per le vacanze dopo l’inverno di lavoro a Milano, le controllavo il telefono per capire se potevo stare tranquillo». In effetti, il desiderio di Sarah era uscire con le sue coetanee. «Noi preferivamo uscisse con la compagnia di Sabrina perché, essendo più grande, le avrebbe dato un’occhiata». Quanto brucia, adesso, ripensare a quella precauzione. «Pensi sempre che una cosa del genere non possa capitare a te», riflette Concetta. «Io le dicevo: “Stai attenta, non si sa mai chi puoi incontrare!”. Lei rideva: “Cosa vuoi che succeda ad Avetrana, mica siamo a Milano”».

Sarah era così. Allegra, iperattiva. E con tante, sconclusionate idee per il futuro: «Scelse l’istituto alberghiero perché ci andavano le sue amiche. Era passata dalle lingue al classico. Un giorno annunciò: “Voglio guidare le navi”. Neanche immaginava che avrebbe dovuto fare l’accademia militare». Una sognatrice, Sarah, più che una sec- chiona: «Per il professore di lettere avrebbe potuto fare la scrittrice, ma non si impegnava». Era anche «più piccola della sua età, perché era cresciuta più tardi delle sue coetanee che già sembravano donne. I ragazzi guardavano le altre, lei ci soffriva». Una bambina, insomma. «Amava ancora giocare al parco, andare in altalena, guardare i cartoni animati». Passioni piccole, spazzate via da una tragedia che ha cambiato per sempre le sorti di questa famìglia. E fa ancora più male leggere le bugie («Scrissero che era incinta, la cosa che più ci ha feriti») e la satira idiota di Internet. «Un sito che si chiama Nonciclopedia dedica una pagina agli sberleffi su mia sorella», spiega Claudio. «Vorremmo fosse oscurata, ma i gestori del sito ci hanno risposto che si tratta di humour nero, perfettamente legale anche se di cattivo gusto. Ci siamo rivolti alla Polizia Postale, ma pare non ci sia modo perché i server del sito sono in Canada e gli autori della pagina sono irrintracciabili». L’anonimato della Rete dà spazio al peggio. «E pensare», ricorda Concetta, «che Sarah desiderava tanto un pc, ma suo padre e io non volevamo, temendo facesse brutti incontri in chat». Invece l’origine del male era molto più vicina. Era sangue dello stesso sangue. «In quella casa, quel giorno erano in tre: Cosi- ma, Sabrina e Michele», continua Concetta. «Cerano anche altri? Dovrebbero parlare, non lo faranno perché non conviene». Incontrerebbe Cosima e Sabrina in carcere? «Conosco Cosima meglio di me stessa, è d’acciaio. Non crollerà mai, non servirebbe. Sabrina potrebbe essere recuperata. Io l’aiuterei, la perdonerei. Purtroppo, è rovinata dalla madre». Non c’è odio, nella sua voce. «La mia fede di Testimone di Geova mi dà la certezza che Sarah risorgerà, che la riabbracce- rò». Lo sguardo corre alle foto. «Avrei dovuto capire quel che stava per succedere? Avrei potuto impedirlo?». Le mani si torcono attorno al fazzoletto. La sua condanna è a vita, non c’è giudice che possa liberarla.

A riguardo parla il tenente colonnello Antonio Russo. Quando, nel 2010, lei è arrivato a Matera, giungeva da Taranto dove si era occupato del caso di Sarah Scazzi. Cosa ricorda di quei fatti?

«Sono stato direttamente interessato da quella vicenda ma non ho condiviso il risalto mediatico che è stato dato a quei  fatti. Il caso Scazzi è stato sovradimensionato, subito dopo  ci sono stati casi simili che, però, non sono stati trattati nello stesso modo. Ci sono trasmissioni televisive che hanno fatto fortuna grazie a Sarah Scazzi, che prima avevano un livello basso di ascolto che improvvisamente ha raggiunto il record. La nostra linea, in quel caso, non è cambiata: abbiamo parlato poco, fatto le indagini ed evitato commenti pubblici».

LA SORTE DI COSIMO COSMA, PRESUNTO INNOCENTE.

Parla di lui Antonio Giangrande, autore del libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana, il resoconto di un avetranese” e del sequel “La condanna e l’Appello”.

Avetrana, contrada Centonze. 7 aprile 2014. E’ morto Cosimo Cosma, 46 anni. Per i suoi parenti ed amici: il gigante buono. Un tumore repentino e violento in pochi mesi ha chiuso la sua breve vita e ha chiuso la bocca ai cattivi d’animo sempre in cerca del mostro da dileggiare. Nel necrologio i giornali fanno a gara a rinvangare quella condanna comminata dai giudici di Taranto. Condanna resa a tutti coloro che erano stati rinviati a giudizio, anzi di più, perché altri processi sono stati aperti a margine, specialmente per chi ha testimoniato contro la tesi accusatoria del tutti dentro. Se ne va da presunto innocente, come lui stesso si è sempre professato, e questo a noi basta. Dopo 11 mesi sono arrivate le motivazione della condanna e ciò ha impedito di presentare l’appello a quella condanna che a lui sembrava ingiusta, tramite il suo difensore, l’avv. Raffaele Missere. Se innocente, a lui tutto il nostro rispetto; se colpevole, a lui tutto il nostro perdono. Saranno altri giudici, forse più illuminati di quelli terreni, a doverlo ora giudicare. Funerali ad Avetrana, tumulazione ad Erchie. Forse, a torto o a ragione, per disprezzo dei suoi compaesani.  Tutti i suoi familiari ed amici lo hanno accompagnato nel viaggio dove cala per sempre il sipario su uno dei nove imputati condannati dalla Corte di Assise di Taranto al processo di primo grado per l’omicidio della quindicenne di Avetrana Sarah Scazzi, strangolata e gettata in un pozzo nelle campagne del paese il 26 agosto 2010. Mimino, come lo chiamavano gli amici, che si era sempre proclamato innocente, venne arrestato insieme a Carmine Misseri il 23 febbraio 2011, ma il successivo 10 marzo il provvedimento restrittivo fu annullato dal Tribunale del Riesame. «Sono stato in carcere 16 giorni da innocente – furono le prime parole di Cosma, riferite dal suo legale Raffaele Missere, una volta tornato in libertà – ora sono felice, ma spero che finisca tutto al più presto. Mi devono spiegare perchè è accaduto tutto questo. Non avrei mai fatto quello che mi contestano, occultare il cadavere di una bambina.  E' stata una esperienza terribile. Sono stato diversi giorni in isolamento senza televisioni, senza giornali. Spero che sia fatta giustizia». Cosma, con la sentenza emessa dalla Corte il 20 aprile 2013, era stato condannato a sei anni di reclusione perchè ritenuto colpevole di soppressione di cadavere. Reato che, secondo la tesi dell’accusa fatta propria dalla Corte, Cosma avrebbe commesso insieme a Carmine Misseri, fratello di Michele, allo stesso Michele, alla moglie e alla figlia di quest’ultimo, Cosima Serrano e Sabrina Misseri. Per la Procura della Repubblica di Taranto, Cosma aiutò lo zio Michele Misseri ad occultare il corpo di Sarah in un pozzo-cisterna in contrada Mosca, nelle campagne di Avetrana. Sul suo coinvolgimento nell’inchiesta giocarono un ruolo una serie di intercettazioni telefoniche e ambientali che per gli inquirenti – tesi accolta poi dalla Corte di Assise di Taranto - avrebbero dimostrato la partecipazione di Cosma alla fase successiva al delitto. Cosimo Cosma si è sempre detto “innocente”. Non avrebbe mai aiutato suo zio ad occultare il corpo della piccola Sarah: «Andava a scuola con mio figlio, aveva la sua stessa età. Come avrei potuto fare una cosa del genere? Non sapevo neanche dov’era quel pozzo… la contrada Mosca sì, ci passo due volte all’anno… Mi hanno indagato per  una telefonata, perché mio zio, quel giorno, mi cercò sul cellulare di mia moglie  dopo aver trovato spento il mio». Ma a dimostrazione che Mimino osteggiasse i molestatori di bambine, nel novembre 2013 Cosma era incappato in un’altra disavventura giudiziaria: condannato ad un anno e quattro mesi perchè avrebbe partecipato, insieme a due parenti, ad una spedizione punitiva nei confronti di un uomo accusato di aver molestato la nipote di 16 anni. Ora che le motivazioni della sentenza Scazzi sono state depositate dopo 11 mesi, attendeva con il suo legale di ricorrere in appello per cercare di dimostrare di non aver aiutato lo zio a nascondere il corpo di Sarah. Troppo tardi, al cospetto del destino, troppo tardi per ristabilire dignità ed onore.

IL PROCESSO A VITO RUSSO.

Genera un altro processo il caso Scazzi, la vicenda giudiziaria e mediatica scaturita dalla morte della 15enne di Avetrana, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il 7 febbraio 2014 mattina il giudice per l’udienza preliminare Giuseppe Tommasino, accogliendo la richiesta formulata dal sostituto procuratore Mariano Buccoliero, ha rinviato a giudizio l’avvocato Vito Russo, già difensore di Sabrina Misseri (condannata all’ergastolo assieme alla madre Cosima Serrano per il sequestro e l’uccisione di Sarah), imputato di diffamazione ai danni dell’avvocato Daniele Galoppa, primo difensore di Michele Misseri, zio di Sarah, padre di Sabrina e marito di Cosima. La presunta diffamazione riguarda le frasi che l’avvocato Vito Russo avrebbe detto ai giornalisti che si occupavano del caso di Avetrana tra il 16 e il 17 ottobre del 2010, ovvero all’indomani dell’arresto di Sabrina Misseri. Russo avrebbe accusato Galoppa di aver imboccato Michele Misseri, facendogli ritrattare la precedente e originaria confessione per accusare Sabrina Misseri. Il 24 ottobre dello stesso anno, in una dichiarazione Russo precisò di non aver mai voluto far intendere che Michele Misseri era stato imboccato ma questo sarà presumibilmente oggetto del processo che scatterà il prossimo 7 maggio. Daniele Galoppa, assistito dal suo collega Pasquale Fistetti, si è costituito parte civile, chiedendo un risarcimento danni di 150mila euro. Ieri, intanto, parlando del processo Scazzi, conclusosi il 20 aprile scorso (le motivazioni dovrebbero essere depositate entro la fine di febbraio), il procuratore capo Franco Sebastio ha sottolineato che «le indagini condotte non hanno evidenziato errori grossolani o madornali, come riconosciuto dalla sentenza di primo grado e ferma restando la presunzione di non colpevolezza».

IL PROCESSO AD ANGELO MILIZIA.

Per Michele Misseri non è finita. Un nuovo processo si apre il 5 marzo 2014 per rispondere del reato di falso in scrittura privata, in concorso con Angelo Milizia, dipendente della Banca del Credito Cooperativo di Avetrana, per aver falsificato la firma di sua moglie Cosima Serrano sulla distinta di versamento di due assegni. Evento che ha fatto scattare la querela da parte di Cosima. Quella mattina, secondo la ricostruzione di Misseri, confermata in aula, egli andò in banca per depositare un assegno della moglie, che però necessitava della firma del beneficiario. Secondo Misseri, Angelo Milizia lo agevolò, facendogli girare l’assegno in nome e per conto della moglie con una forma apocrifa. Il Milizia ha negato la circostanza, affermando che a porre la firma fu Cosima, mentre una perizia giudiziale ha confermato che la firma non era della Serrano.

PARLIAMO DI GIOVANNI BUCCOLIERI.

Processo in vista per il fioraio di Avetrana Giovanni Buccolieri, il commerciante che vide Cosima Serrano e Sabrina Misseri rincorrere per strada Sarah Scazzi e poi costringerla a salire sulla loro auto, andando all’appuntamento con la morte, ma, dopo una prima ammissione, ritrattò tutto, finendo nei guai per falsa testimonianza al pubblico ministero. Così scrive Mimmo Mazza il 17 giugno 2014 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino e il sostituto Mariano Buccoliero hanno notificato al fioraio l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, atto propedeutico alla richiesta di rinvio a giudizio. La posizione di Buccolieri, al pari di quella del suo amico Michele Galasso, era stata stralciata in attesa della sentenza di primo grado. Ma cosa ha detto Buccolieri agli inquirenti in prima battuta? «Dopo aver finito il pranzo ho salutato mia moglie ed i bambini e sono andato via. Sono entrato quindi nel mio furgone ed ho percorso diverse vie di Avetrana sino a raggiungere il luogo dove effettuare la consegna commissionatami. In via Umberto I, a circa 3-4 metri dall'incrocio, ho visto l'autovettura "Opel Astra SW", di colore azzurro-grigio, vicino alla quale si trovava Cosima Serrano, che si rivolgeva alla nipote Sarah Scazzi, dicendole con tono minaccioso: "mò ha 'nchianà' intra la macchina", facendo al suo indirizzo un gesto altrettanto perentorio con il braccio e con l'indice della mano rivolto all'indirizzo di Sarah. Ricordo che Sarah, che conoscevo di vista, era molto turbata e con lo testa chinata. Ricordo anche non solo che Cosima era all'esterno dell'auto, che intimava a Sarah quello che ho già detto, ma anche che lo sportello posteriore destro dell'auto di Cosima Serrano era aperto. La macchina era quella di Cosima Serrano perché loaconoscevo. Preciso di avere notato all’interno dell'auto di Cosima, nella parte posteriore una sagoma che si abbassava. Posso dire che la sagoma che ho notato apparteneva ad una persona di sesso femminile e di robusta costituzione. Mentre superavo la macchina di Cosima ho notato che Cosima era ancora all'esterno dell’autovettura e Sarah che invece stava entrando dentro attraverso lo sportello posteriore destro». Testimonianza poi ritrattata perché, disse Buccolieri (difeso dall’avv. Pasquale Lisco), si era trattato di un sogno, sogno al quale gli inquirenti non hanno mai creduto.

PARLIAMO DEL DELITTO DI PORTO CESAREO.

Nei fatti di sangue Avetrana negli ultimi anni c’entra sempre. Nella notte tra lunedì e martedì 24 giugno 2014 vengono trucidati a colpi di martello nella loro casa di Porto Cesareo i coniugi Luigi Ferrari, 54 anni, e Antonella Parente, 55.  E' la regina dell'estate Porto Cesareo, anche dell'inizio della stagione estiva. Quel borgo che l'inverno poltrisce e sonnecchia sulle rive dello Jonio, non appena inizia la stagione estiva si trasforma, si anima, si veste di chiasso, diventa la culla del divertimento, della spensieratezza, del relax, del mare e delle barche, delle famiglie e dei vip. Ma quel 24 giugno 2014  pomeriggio il silenzio l'ha coperta, l'ha ammantata, l'ha azzittita. Un silenzio greve, fatto di paura e di domande a bassa voce. Le voci si rincorrono e il chiacchiericcio della strada ricostruisce i fatti. Certo non c'è l'ufficialità di un comunicato degli inquirenti che certifichi tutto. Ma la gente ricostruisce ciò che a spizzichi e mozzichi riesce a sapere ed ordinare mentalmente, sulla base della conoscenza delle persone e della comunità. La tragica scoperta dei corpi è toccata alla figlia della coppia, Alessandra. La mattina avrebbe dovuto accompagnare la madre per un appuntamento di lavoro e si è quindi presentata intorno alle 7,30 presso l’abitazione di via Amerigo Vespucci. Dinanzi ai suoi occhi si è materializzato l’orrore: i corpi dei genitori erano riversi in un lago di sangue, massacrati da una violenza inaudita. Eppure era una famiglia normale. Venuti a conoscenza che la madre sempre ligia e puntuale non si era presentata sul luogo di lavoro malgrado le ripetute chiamate al suo telefono da parte di chi l'attendeva per svolgere le attività domestiche usuali, i figli - anche loro conosciuti e stimati in città; la figlia della coppia gestisce una avviata scuola di ballo a Porto Cesareo - si sono subito mossi in direzione della casa di famiglia. Entrati, avrebbero notato delle macchie di sangue sulle scale. Avrebbero, di conseguenza, subito immaginato il peggio. La figlia, stando ai racconti delle persone, ha preferito non salire, evidentemente scossa dalla vista del sangue, nella camera dei genitori mentre il fratello si è fatto coraggio e si è recato al piano di sopra. La porta della stanza da letto era chiusa a chiavi dall'interno. L'ha sfondata e si è trovato di fronte ad una scena terrificante, agghiacciante: i genitori ai piedi del letto: lui sgozzato, lei massacrata sul volto con martello e scalpello. Svegliati nel sonno, i coniugi hanno probabilmente reagito e riconosciuto il ladro, diventato dopo pochi secondi il loro assassino. Li ha colpiti con un martello e forse uno scalpello più volte, ripetutamente, con ferocia. Quegli attrezzi li avrebbe portati con sé per scardinare la cassaforte a muro che Luigi e Antonella nascondevano nella propria camera da letto, luogo in cui l’indagato avrebbe lasciato non poche tracce, dalle manate sulle pareti alle impronte delle scarpe. Lì come sulle scale, sul terrazzo e sulla veranda dalla quale sarebbe entrato, servendosi di una scala, e probabilmente è scappato, non si esclude lanciandosi nel vuoto. Terrificante la scena che si è trovata davanti la figlia, Alessandra, la prima a dare l’allarme. La donna, che gestisce una scuola di danza a porto Cesareo, è stata sentita a lungo dai carabinieri, come del resto il fratello, i parenti più stretti e anche semplici conoscenti. Dall’ascolto è emersa un’unica vera tensione in famiglia: quella nata a causa della storia tra la nipote e Vincenzo Tarantino, accusato di maltrattare la compagna, dalla quale ha avuto una figlia, che ha ora due anni. La loro storia era ufficialmente terminata il 13 maggio. Un mese prima. Il 51enne non aveva accettato la situazione, tanto che aveva programmato di andarsene all’estero, forse in Croazia, magari dopo aver racimolato il bottino che era convinto fosse contenuto nella cassaforte dei suoi ex zii.

E’ di Avetrana (di Manduria ha avuto solo i natali), il presunto assassino, indicato dagli inquirenti nella persona di Vincenzo Tarantino, 51 anni. Tarantino viveva da circa tre anni a Porto Cesareo dove aveva un rapporto con una nipote dei due coniugi uccisi. Ad Avetrana, dove è vissuto prima di trasferirsi nel comune sullo Jonio, gestiva con il fratello gemello, Mimmo,  una cava di famiglia. Sposato e divorziato ad Avetrana, è stato per diversi anni a Modena dove ha avuto problemi con la giustizia per delle truffe. Quella di Tarantino è la storia di una vita bruciata sull’altare della droga e della tossicodipendenza. Di un patrimonio familiare (la famiglia gestiva una cava) dilapidato in pochi anni. Un carattere violento, trasformato dalla cocaina, una furia che si è abbattuta su una coppia di lavoratori, gente stimata e apprezzata. Vittime di un orrore difficile da dimenticare, di corpi massacrati per poche migliaia di euro, destinati alla droga e a una vacanza. Pasquale De Monte, l'avvocato investito in prima battuta delle difesa di Tarantino, ha rinunciato da subito all'incarico. Lo hanno fermato mentre viaggiava a bordo della sua auto, un’Audi A4, sulla strada Nardò – Avetrana che da Porto Cesareo conduce a Torre Lapillo e ad alcune delle spiagge più belle della costa ionica. Procedeva tranquillo, aveva da poco mangiato un panino, come se l’orrore consumato poche ore prima non lo riguardasse, e quei corpi dilaniati da una furia cieca e assassina fossero lontani.  Vincenzo Tarantino è parso ai carabinieri come alienato, perso in un mondo parallelo. Erano le 17 del 24 giugno 2014. Un pomeriggio afoso. Dal duplice omicidio di Luigi Ferrari, 54 anni e di sua moglie, Antonella Parente, di 55, i coniugi di Porto Cesareo massacrati in casa alle prime luci dell’alba di ieri, erano trascorse solo una manciata di ore.

Dalla ricostruzione fatta dai carabinieri, Tarantino, si è introdotto in casa delle vittime da una finestra raggiunta grazie ad una scala che si era portato con se insieme agli attrezzi per lo scasso utilizzati come arma. Nell’uomo, hanno raccontato i carabinieri in conferenza stampa, che in corpo aveva una dose massiccia di cocaina, è scattata una furia omicida: ha aggredito la coppia con uno scalpello e un martello. Poi, terminata la mattanza, con gli stessi oggetti ha scardinato la piccola cassaforte incassata nella parete contenente qualche migliaio di euro, come se nulla fosse. Durante la fuga la scala sarebbe caduta accidentalmente così il presunto assassino ha iniziato a spostarsi all’interno dell’abitazione lasciando una lunga serie di impronte insanguinate. Poi ha deciso di lasciarsi cadere da un balcone e di fuggire via fermandosi a una fontana per lavare via parte del sangue. Destinazione, un B&B di Avetrana, dove gli investigatori hanno trovato dei vestiti insanguinati e delle lenzuola macchiate di sangue. Tracce ematiche che saranno analizzate dagli esperti del Ris. Nessuna traccia, al momento della cassaforte. Il presunto assassino, secondo quanto riferito degli inquirenti, aveva deciso di trascorrere alcuni giorni in Croazia.

Oltre a cercare Tarantino, i carabinieri hanno sentito un amico del presunto assassino, che lo aveva ospitato due giorni prima. A lui Tarantino aveva già raccontato di voler effettuare un furto nell’abitazione della coppia, dove nella cassaforte erano custoditi i soldi per le spese relative al matrimonio del figlio. Questo suo amico avrebbe riferito agli investigatori che l'uomo quella notte sarebbe uscito da casa verso le 4 portando con sé una scala, la stessa utilizzata per compiere il delitto. Avrebbe anche detto all'amico: "vieni con me, lì ci sono i soldi, sto andando a prenderli", portandosi dietro l'attrezzatura edile. Secondo la ricostruzione degli investigatori la mattina del 24, alle 4,10, il 51enne Vincenzo Tarantino si è recato dall’amico, invitandolo ad accompagnarlo. Dinanzi al rifiuto dell’uomo, ha deciso di recarsi da solo, portando con sé una scala e gli attrezzi per scassinare la cassaforte, convinto che a quell’ora in casa non ci fosse nessuno. Invece, con ogni probabilità, la coppia è stata svegliata dall’irruzione dell’uomo. I militari hanno anche scoperto che l'uomo aveva preso una stanza di un B&B ad Avetrana, la successiva perquisizione ha consentito di ritrovare sangue sul lavandino e sulle lenzuola. Sul busto, inoltre, presentava graffi e lesioni, con ogni probabilità causate dai coniugi Ferrari durante la colluttazione. Per questo motivo il medico legale che effettuerà l'autopsia sui due corpi proverà anche a prelevare materiale sotto le unghie. L'uomo - altro particolare emerso durante la conferenza stampa delle forze dell'ordine - aveva anche comprato un panino pagandolo con 100euro, cosa sembrata subito strana.

I carabinieri hanno sospettato di lui sin dalle prime ore di lunedì, quando sono partite le indagini. L'uomo, secondo gli investigatori, avrebbe saputo del prelievo di denaro che i coniugi Ferrari avevano fatto per far fronte alle spese per la preparazione del matrimonio di uno dei figli. Da qui il progetto di entrare in casa, raggiungere la cassaforte e impossessarsi del denaro. Gli investigatori, inoltre, ritengono che Tarantino sia stato animato anche da un risentimento di rancore che coltivava nei confronti della donna che lo aveva abbandonato ma soprattutto nei confronti della zia della ex, Antonella Parente. Proprio la donna uccisa col marito durante la rapina, infatti, pare avesse avuto un ruolo determinante nella separazione della nipote. La figlia Alessandra ha confidato ai carabinieri che il Tarantino nutriva molto rancore nei confronti dei genitori, in particolar modo nei riguardi della madre. La signora Antonella, che per arrotondare i bilanci familiari andava a svolgere il ruolo di domestica presso alcune famiglie del territorio.

A Tarantino vengono contestate le accuse di rapina e omicidio volontario aggravato dall’efferatezza e dai futili motivi. “Si è trattato di un episodio estremamente efferato – ha dichiarato il procuratore di Lecce Cataldo Motta – che probabilmente è andato anche al di là delle intenzioni di chi lo ha commesso”. Obiettivo del fermato sarebbe stato quello di impossessarsi della cassaforte. Era convinto che ci fossero non pochi soldi, in vista del matrimonio del figlio dei coniugi Ferrari, Fabio. E pensava inoltre che il capofamiglia fosse un usuraio. Quindi all’interno della piccola cassa di ferro a muro poteva esserci anche provento di questa attività illecita, infondata. Una sete di danaro mista a vendetta, insomma, sfociata nel duplice omicidio di Luigi Ferrari e di Maria Antonietta Parente, da tutti conosciuta come Antonella, barbaramente uccisi nella loro abitazione di via Vespucci, alla periferia di Porto Cesareo, perché ritenuti colpevoli di avere contribuito alla fine della relazione con una loro nipote, con la quale l’assassino conviveva fino al maggio 2014 e dalla quale aveva anche avuto una figlia due anni fa.

UN CASO SIMILARE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA. IL CASO BERLUSCONI.

Presi 44 ostaggi. Difesero Berlusconi nel caso Ruby, indagati testimoni e avvocati. È il ricatto dei pm per far fuori il Cavaliere, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”.  Per fortuna, perché con questa discussione sulla legge elettorale ci si stava proprio annoiando. Adesso sì che si può tornare a parlare di cose serie e appassionanti. Tipo: Berlusconi a suo tempo avrà baciato Ruby alla francese, come si deduce dalle intercettazioni, alla romana, come sostengono alcuni testimoni, o alla spagnola, come giurano altri, che però sono stati giudicati inattendibili? Il merito ancora una volta è della Procura di Milano, che ha deciso di aprire un terzo processo sul caso Ruby. La nuova inchiesta coinvolge, ovviamente, Silvio Berlusconi, che segna così il nuovo record di inquisito più inquisito (il precedente era già suo), ma anche i suoi avvocati (novità assoluta), alcuni suoi senatori e deputati (già visto), un paio di autorevoli funzionari di polizia, oltre a qualche decina di ragazzette. In tutto 45 persone che, nel corso del processo Ruby uno, avevano sostenuto, da testimoni a vario titolo e sotto giuramento, di non essere state molestate, corrotte o concusse da Silvio Berlusconi. Che, anzi, in quelle serate ad Arcore si comportava da vero signore e squisito padrone di casa. Ma scherziamo? Quarantadue testimoni oculari smentiscono categoricamente le fantasie erotiche che la Boccassini si è fatta su Berlusconi e pensano di farla franca? Ingenui. O si ricredono e incastrano Berlusconi ricordando che il bacio era con lingua e lo sguardo languido e voglioso, oppure finiranno dentro, perché sulla mafia passi, ma sui baci non si scherza.
Sembra la trama di un film comico, ma purtroppo è la realtà. Non bastavano due processi già celebrati sul nulla, non bastano gli appelli e la Cassazione che seguiranno. Ce ne voleva un terzo, tanto paghiamo noi, per saziare l'odio di magistrati frustrati nel vedere Berlusconi per nulla scalfito nel gradimento degli italiani dalle loro precedenti, deliranti sentenze. Vederlo varcare da statista la porta della sede del Pd e firmare patti «largamente condivisi» con Renzi è stata poi una mazzata. Li capiamo, piccoli uomini e piccole donne. E mi raccomando: questa volta, duri. Fateli cantare questi 44 ostaggi (cioè tutti gli indagati, tranne Berlusconi) che vi siete presi con una retata che ricorda quelle di altre sciagurate epoche. Avete in mano politici, avvocati, funzionari dello Stato, donne. Qui, o salta fuori il Berlusconi colpevole, oppure sarà fatta giustizia sommaria nelle fosse del Palazzo di Giustizia. Del resto gli ordini, come diceva uno con l'accento tedesco morto di recente, non si discutono, si eseguono.

Ruby, la Cassazione chiede sanzione disciplinare per la Fiorillo, scrive “Libero Quotidiano”. Una bacchettata sulle mani? No, neppure quella. Una semplice "dichiarazione formale di biasimo", in gergo tecnico una "censura". E' la "punizione" richiesta dalla sezione disciplinare del Csm per Annamaria Fiorillo, la pm per i minorenni di Milano, accusata di aver violato il dovere di riserbo imposto alle toghe con le dichiarazioni rese alla stampa, nel novembre 2010, su quanto accadde nella notte tra il 27 e il 28 maggio di quell'anno, la notte in cui la Fiorillo era di turno e Ruby venne portata in questura per poi essere rilasciata ed affidata a Nicole Minetti. Nel dettaglio, con le sue inopportune dichiarazioni ai cronisti, la Fiorillo contestava la versione dei fatti che era stata fornita dall'allora ministro dell'Interno, Roberto Maroni. Ora, a distanza di più di tre anni, l'organo di autodisciplina delle chiede il "biasimo della collega chiacchierona. La censura è stata chiesta dal sostituto pg di Cassazione, Umberto Apice, davanti ai giudici delle sezioni unite civili della Suprema Corte. Il pg spiega: "Il dovere di riserbo è scolpito nella legge deontologica. Un magistrato non può rilasciare dichiarazioni alla stampa". E così potrebbe scattare la "tagliola" della censura, la più blanda delle sanzioni previste dal Csm. Nulla di grave, insomma, se un giudice non rispetta le regole. Il pg poi aggiunge, quasi a difendere la collega: "E' vero che Fiorillo non cercò il contatto con i giornalisti per smania di protagonismo, ma per ristabilire la verità, ma tutto questo può essere un'attenuante della condotta, non una scriminante. Il riserbo - prosegue solenne Apice - comporta che su ciò che è avvenuto non è il singolo magistrato a riferire all'opinione pubblica, ma deve essere il capo dell'ufficio". Per il pg, "i fatti erano di una tale delicatezza che balzava agli occhi che sarebbero stati oggetto di distorsioni e strumentalizzazioni: questo aspetto avrebbe dovuto frenare Fiorillo nell'impulso, umanamente comprensibile, di far conoscere la sua verità, che poi è risultata essere la verità oggettiva". In definitiva, però, per Apice il ricorso presentato dalla pm per i minorenni di Milano deve essere rigettato, e deve essere contestualmente confermata la sanzione inflitta alla Fiorillo dal tribunale delle toghe lo scorso 10 maggio. La decisione delle sezioni unite civili del "Palazzaccio" sarà resa solo con il deposito della sentenza, che di norma avviene entro un mese dall'udienza. Il difensore della Fiorillo, professor Federico Sorrentino, ha insistito sull'accoglimento del ricorso: "Non c'è stata violazione del riserbo - ha dichiarato -, e non esiste il divieto assoluto di manifestare il proprio pensiero: qui non si trattava soltanto di ristabilire il vero, ma anche di tutelare la propria professionalità". La decisione è attesa a breve. Ma la Fiorillo può star tranquilla: al massimo sarà "censura". Le toghe chiacchierone non pagano, mai. Basti pensare all'illustre caso di Antonio Esposito, il "giustiziatore" del Cav nel processo Mediaset, la cui richiesta di trasferimento in seguito all'intervista "abusiva" concessa a Il Mattino è stata archiviata. Al massimo sarà una censura...

Presero la maggioranza nel partito, da allora vennero chiamati "bolscevichi". Il 17 novembre del 1917, nell'ambito del Congresso dei socialisti russi, venne eletto il comitato di redazione del giornale di partito. Inaspettatamente vinsero i leninisti, fino ad allora minoranza. E non sapendo ancora come definirli, si decise tout court di usare l'aggettivo «maggioritario» contrapposto a «menscevico» che significava banalmente «minoritario», scrive Enrico Silvestri su “Il Giornale”. Londra, novembre, mese decisamente cruciale per i destini della Russia, del 1917, alla Tottenham Court Road public house si riuniscono i delegati del Partito operaio socialdemocratico russo. Tra i vari argomenti in discussione, anche l'elezione del comitato di redazione che dovrà guidare l'organo dell'organizzazione. Le votazioni del giorno 17 riservano una sorpresa perché prende la maggioranza il gruppo più estremista, nonostante sia minoritario nel resto del partito. Questa divisione crea inevitabilmente due correnti, che all'inizio vengono banalmente definite come «minoritaria» e «maggioritaria». Vale a dire «menscevichi» e «bolscevichi» che, dopo la rivoluzione del 1917, diventò automaticamente sinonimo di comunista. Il Partito operaio socialdemocratico russo venne fondato nel marzo 1898 a Minsk nel corso di una riunione clandestina nella casa del ferroviere P. V. Rumjancev, pomposamente chiamata «Primo congresso». Passarono cinque anni prima che i delegati potessero dare vita al «Secondo Congresso», iniziato a Buxelles ma poi concluso a Londra. Vi partecipò per la prima volta anche Vladimir Il'ic Ul'janov, un intellettuale poco più che trentenne, destinato a diventare famoso con il soprannome di Lenin. Si presentò con una tesi «Che fare?» che propugnava la conquista violenta del potere dei proletari organizzati in un partito ferreamente controllato da un comitato centrale. Era una posizione minoritaria, rispetto a quella della maggioranza del partito che considerava la Russia troppo arretrata economica e socialmente per un simile balzo in avanti. Pertanto, mentre rimaneva obbiettivo comune l'abbattimento dello zar, la componente maggioritaria ipotizzava un passaggio intermedio di potere insieme alla borghesia. Il 17 novembre però, all'elezione del comitato di redazione del giornale «Iskra», inaspettatamente vinsero i leninisti, pur se, ripetiamo, minoritari all'interno del partito. A quel punto si erano formalmente create due correnti che avevano bisogno di un nome. Ma al momento non di trovò di meglio che definirle tout court «maggioranza» e «minoranza» e i loro seguaci «bolscevichi» e «menscevichi». Il partito rimase unito, pur tra mille difficoltà, fino al 1917 quando con la rivoluzione di febbraio fu deposto lo zar Nicola II. Ma il 7 novembre, 25 ottobre per il calendario giuliano tuttora in vigore in Russia, quando i bolscevichi presero il Palazzo d'Inverno, e con esso il potere, misero fuori legge i vecchi compagni di strada menscevichi. Affidando definitivamente alla storia il termine «bolscevico», che da banale aggettivo «maggioritario» divenne sinonimo di comunista e rivoluzionario. Con accezioni negative o positive, a seconda dei punti di vista.

Da allora i comunisti ne han fatto di danni. Impadronendosi anche di quella funzione che di fatto dovrebbe essere un bene comune. Invece no! Una farsa chiamata giustizia. Una mostruosa macchinazione giudiziaria espropria la democrazia italiana e lo Stato di diritto del suo significato, scrive Giuliano Ferrara su “Il Giornale”. Sono piuttosto un realista che un apocalittico. Ma ora bisogna dirla tutta. Una mostruosa macchinazione giudiziaria espropria la democrazia italiana e lo Stato di diritto del suo significato. Nessuno può tirarsi fuori dal giudizio. Nessuno può rifugiarsi, come fossero uno schermo neutrale, tecnico, dietro le surreali condanne nei processi Ruby1 e Ruby2 o al riparo delle procedure dell'accusa nell'imminente Ruby3 ovvero la devastante pretesa dei pm di Milano di estendere all'imputato e alla sua intera difesa, testimoni e avvocati, le accuse di ostruzione della giustizia e falsa testimonianza. Se c'è ancora un'Italia autentica e sensibile alla verità nell'opinione pubblica, nelle istituzioni, nella politica anche la più faziosa, è il momento che si levi una protesta forte e chiara contro una delle più infami vergogne della storia nazionale. Berlusconi ha dato delle feste in casa sua, ha invitato delle ragazze e degli amici, gli amici lo hanno aiutato a comporre il suo harem burlesque, il suo privato divertimento, condividendolo. Berlusconi è notoriamente ricco e generoso, fa regali da sempre a destra e a manca, senza distinzione di rango, e con il circuito delle sue feste è stato come spesso gli succede regale e sciupone senza remore o rimorsi. Ha fatto una telefonata in questura, inopportuna sotto il profilo protocollare ma non concussiva, gentile e in prima persona, allo scopo di evitare a una delle sue ospiti la consegna a una comunità. Anche per disinnescare lo scandalo dovuto alla esibizione forzata del suo privato, ha inventato balle giocose, come quella della nipote di Mubarak. Bene. Queste sono tutte cose che rientrano nella dimensione privata, criticabile quanto a comportamento politico e civile di un uomo di governo e di Stato, ma non criminalizzabile. Invece quel che ne è seguito, con mezzi d'indagine e una vocazione guardona e origliatrice da Stato di polizia, è precisamente la trasformazione di peccadillos da scapolo abbiente e da re di Arcore in reati infamanti che comportano anni e anni di galera. Sfido chiunque a dimostrare il contrario. A dimostrare che al di là di ogni ragionevole dubbio siamo invece in presenza di reati penali da punire con la massima severità: regali alle ragazze e agli amici e una raccomandazione a un gentile funzionario di Questura da scambiare con anni di galera. A dimostrare che abbia un qualche senso una condanna per atti sessuali prostitutivi quando di questi atti non esiste prova alcuna, mentre nelle stesse motivazioni della condanna si dice bellamente che non è quello il problema, palpeggiamento in più o in meno. Sfido chiunque a dimostrare che sia parte di uno Stato di diritto e delle sue garanzie un tribunale che condanna su queste basi effimere e ambigue e poi trasforma gli atti difensivi, rinviandoli ai pm perché istruiscano nuovi processi, in un nuovo capo d'accusa a raggiera, una retata potenziale di testimoni che si trovano così in una pesante situazione di condizionamento e di pressione: o ammetti di essere stato un falso testimone e di aver collaborato con un'azione di inquinamento del processo oppure ti becchi la galera anche tu. Una gigantesca gogna ha devastato l'immagine pubblica di un capo democratico, di un uomo della democrazia rappresentativa, un leader che ha vinto tre volte le elezioni e ha governato il Paese secondo le regole, altro che storie, ritirandosi in buon ordine anche quando avrebbe avuto diritto al suo appello al popolo che lo aveva stravotato nelle urne del 2008 (novembre 2011). Questo non è un caso personale, da tenere distinto dal resto, cioè dalla stabilità di governo (che palle che ci raccontano sul semestre europeo) o da qualunque altra circostanza. Se la democrazia sanguina, se si insinua un dubbio di fondo sul suo funzionamento imparziale, perché gli atti di giustizia si trasformano in una persecuzione personale, qualunque sia il giudizio sul perseguitato, sui suoi errori, e anche sulle sue colpe o sui suoi peccati, non si può dormire tranquilli. Non tutti in questo Paese hanno bevuto la leggenda nera di Andreotti mafioso, di Craxi spolpatore delle finanze pubbliche per avidità, del doppio Stato reo di stragi infinite e di trattative collusive con i poteri criminali. Molti tra coloro che pure hanno combattuto per le loro idee e contro le classi dirigenti della vecchia Repubblica, e hanno mantenuto la loro autonomia di giudizio nella situazione che seguì alla sua caduta, hanno cercato di esercitare il giudizio critico sull'unico potere che da almeno vent'anni si considera al di sopra delle parti mentre agisce come parte in causa in una lunga guerra ideologica, quello dell'accusa penale. Questi italiani che non hanno portato il cervello all'ammasso dello spirito forcaiolo si facciano sentire. E anche i capi delle istituzioni, prima di tutti il garante della Costituzione e capo della magistratura, il presidente della Repubblica, non possono tirarsi fuori dal dovere di intervento e di correzione della grave stortura che si è prodotta. Esprime il peggio della cosiddetta ideologia italiana, viltà maramaldesca, chi oggi si volta dall'altra parte, chi mette la propria antipatia e inimicizia politica verso Berlusconi, o anche soltanto la voglia di quieto vivere, davanti al dovere di giudicare una ignobile messinscena chiamata giustizia.

Quella su Ruby più che una sentenza è un porno. Dettagli scabrosi, privacy calpestata e nessun reato: questa è una giustizia alla «Penthouse», scrive Mario Giordano su “Libero Quotidiano”. Più che motivazioni, eccitazioni. Più che scienza giuridica, l’arte del porno. Quel che scrivono i giudici di Milano per spiegare la condanna di Berlusconi nel processo Ruby sembra ispirato direttamente al codice Rocco. Rocco Siffredi, però.  Mancano le testimonianze di Jessica Rizzo, Hugh Hefner e un parere pro veritate di Cicciolina e poi il documento è pronto per essere depositato. In cancelleria? No, nell’archivio  di Penthouse. Con trasmissione degli atti su Youporn. Da quel che trapela delle 330 pagine di motivazioni della condanna, infatti, i magistrati hanno dato libero sfogo alle loro pulsioni sessuali. Voyeurismo puro, guardonismo spinto all’ennesima potenza. Tralasciamo il fatto che, come al solito, le motivazioni non sono state consegnate ai giornalisti, ma già cominciano a finire ovviamente sui giornali on line (ieri ne pubblicava ampi stralci Affaritaliani.it) e di conseguenza, immaginiamo, sui giornali cartacei. Ma quello che colpisce è che esse sono: a) basate su fatti per lo più smentiti dalle protagoniste; b) del tutto irrilevanti al fine della condanna del Cavaliere. E allora perché i giudici si trastullano per 330 pagine con rapporti orali, leccamenti vaginali, balli sfrenati e altri dettagli che non stonerebbero in qualsiasi rivista hard? Delle due l’una: o hanno voglia di divertirsi o hanno voglia di sputtanare il Cavaliere. O forse tutte e due insieme. Dalle toghe rosse alle toghe a luci rosse, il passo è compiuto da tempo. Ma da oggi non si torna più indietro. E perciò, per chi aveva ancora un minimo rispetto per ciò che sta sotto l’ermellino,  è davvero deludente leggere queste pagine scritte con un cattivo gusto memorabile e un’attenzione per i dettagli che definire pruriginosa è poco. Che i dettagli siano veri, per altro, è tutto da dimostrare, visto che si tirano in ballo ragazze che hanno sempre smentito e che continuano a smentire il racconto, a cominciare da Belen Rodriguez, che secondo i giudici sarebbe stata proprio oggetto delle attenzioni linguistiche del Cav. E che invece ha smentito di aver mai partecipato a una «cena elegante» o a un «festino», che dir si voglia. Né mai la magistratura è riuscita a dimostrare il contrario.  E allora qualcuno sa spiegare perché nelle motivazioni di una sentenza compare, arricchita da particolari quanto mai pruriginosi, una persona la cui presenza alle Arcore’s Night non è mai stata accertata? Che senso ha, a parte quello di compiacere per l’appunto, l’ansia di prestazione sessual-giuridica dei magistrati? Anche per quanto riguarda il resto del racconto, beh, è piuttosto singolare che in tribunale si prendano per buone le testimonianze delle ragazze quando raccontano i particolari più esagerati e poi le si considera delle bugiarde quando raccontano le sere ad Arcore come normali cene.  Prendiamo Ruby. Non si è ancora capito se i giudici la considerino una mentitrice acclarata oppure una persona credibile. Perché nel primo caso  devono spiegare perché allora la prendono sul serio quando costruisce fantasie erotiche che farebbero invidia a Tinto Brass. E nel secondo caso, invece, devono spiegare perché smettono di crederle non appena lei assicura che non ha mai fatto sesso con Berlusconi. Ma, poi, vogliamo dirla tutta? E se anche quei dettagli a luci rosse fossero veri? No, dico: se anche ci fossero i leccamenti vaginali e il sesso orale di cui i magistrati si occupano nelle loro motivazioni? Qualcuno può spiegare dov’è il problema?  Certo: ne viene fuori l’immagine di un Cavaliere capace di prestazioni sessuali incredibili, roba che al barsport di Usmate Velate impazziscono di invidia. E forse anche il medesimo, se non fosse troppo prostrato dall’aggressione subita, di quell’immagine andrebbe orgoglioso. Ma insomma:  di che reato si tratta? Quelli che vengono descritti dai magistrati con un’attenzione morbosa (figlia anche essa dell’invidia, come al bar sport di  Usmate Velate?) sono rapporti fra persone adulte e consenzienti.  Perché i magistrati se ne occupano? Nel processo si dovrebbe  valutare la concussione di un poliziotto e la prostituzione minorile di Ruby. Il resto che c’entra? Con tutto il rispetto per la vagina di Belen: che importa chi  l’ha leccata? Lei non era ad Arcore, è chiaro: ma se anche fosse stata lì a farsi mastruzzare da chicchessia: dov’è il problema? Perché se ne interessano i giudici?  Soprattutto: perché lo descrivono con tanto compiacimento in una motivazione che  dovrebbe essere un testo giuridico e non un rapporto di  self-porno applicato al codice?  In effetti: è triste vedere come nelle aule dei tribunali si passa in fretta dal diritto romano al diritto hardcore. È triste vedere che quelli che dovrebbero essere gli equilibrati amministratori della giustizia si comportano da accaniti voyeur. È triste vedere che più che una motivazione di sentenza emettono un gemito d’orgasmo: roba da ricordare uno dei film storici del genere: Alì Babà e i 40 guardoni. Praticamente un manifesto della nuova magistratura.

Rubygate: la sentenza "impubblicabile", che viene pubblicata subito. Il giudice dice: "I giornalisti non hanno diritto ad averla". Ma sembra un'ipocrisia. E cinque minuti dopo è online..., scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. I cronisti «non sono ''soggetti legittimati'' ad avere copia della sentenza». In un soprassalto di formalismo giuridico, sicuramente corretto in punta di diritto ma a suo modo venato da una dose di ipocrisia e ahimé del tutto fuori dal tempo, la presidente della quarta sezione penale del tribunale di Milano Giulia Turri avrebbe opposto queste motivazioni alla richiesta dei cronisti giudiziari, che chiedevano di poter fotocopiare le 331 pagine con cui la corte oggi, 21 novembre 2013, ha motivato la condanna di Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere nel caso Ruby. Ovviamente, un minuto più tardi, le agenzie hanno preso a pubblicare brani di quella sentenza. E Il Fatto quotidiano l’ha pubblicata integralmente online.

A ben vedere, mentre tutto intorno si scatenano le prese di posizione sulle 331 pagine, la pretesa del giudice Turri è così anomala, nella sua apparente innocenza, da fare tenerezza. Il giudice, evidentemente, non si è accorto che in Italia, ormai da anni, i cronisti hanno accesso immediato e diretto a migliaia di atti giudiziari coperti da segreto: possono pubblicare impunemente intercettazioni, tabulati telefonici, ordini di custodia cautelare, perizie psichiatriche. Sì, ogni tanto qualche tribunale apre un’indagine, ma i casi seri riguardano soltanto alcune testate (il Giornale, Libero e Panorama) e di condanne se ne ricorda una: quella di Berlusconi per l’intercettazione di Piero Fassino e Giovanni Consorte («Allora abbiamo una banca…»). Negli ultimi anni, però, si sono letti interi brani d’intercettazione che non avevano nulla a che vedere con reati, milioni di parole pronunciate da persone nemmeno indagate. Tutte le carte che vogliono avere i giornalisti, se dotati di un buon rapporto con un pubblico ministero, le ottengono. Meglio: tutto quel che esce da una procura finisce regolarmente, automaticamente, sul tavolo del cronista «fiancheggiatore». Non accade in nessun altro paese al mondo. Certo, forse non è corretto che i giornalisti abbiano una copia della sentenza prima ancora che l’abbia l’avvocato dell’imputato. Ma svegliarsi all’alba del 21 novembre 2013 per negare un accesso che (una volta tanto) è pienamente giustificato dal diritto di cronaca pare quindi un gesto paradossale, provocatorio. Quasi una presa in giro. 

Ruby, depositate le motivazioni della condanna per Berlusconi. Il presidente non ha autorizzata i cronisti ad avere una copia dei motivi per cui hanno inflitto sette anni al Cav, scrive “Libero Quotidiano”. Sesso comprovato con Ruby. Consapevolezza che la ragazza fosse minorenne. Regista del sistema prostitutivo in atto ad Arcore. Scambio tra sesso e soldi. Sono queste le motivazioni per le quali lo scorso 24 giugno i giudici del tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere con la pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, per concussione e prostituzione minorile. Motivazioni che sono state depositate questa mattina, a quasi cinque mesi dalla sentenza. Ma che originariamente erano state tenute nascoste ai giornalisti. Nei giorni scorsi sei cronisti, "in qualità di rappresentanti dei giornalisti giudiziari del palazzo di giustizia di Milano", avevano chiesto di poter estrarre copia della motivazione della sentenza a carico di Silvio Berlusconi, "trattandosi di un caso di interesse pubblico e di stringente attualità". Il presidente della quarta sezione penale, Giulia Turri, aveva però respinto la richiesta dei giornalisti, spiegando che ai sensi dell’articolo 116 del codice di procedura penale non sono "soggetti legittimati" a prendere visione delle motivazioni. Solo un paio d'ore dopo c'è stato il via libera (come dovuto) e si sono potute conoscere le ragioni della condanna del Cavaliere. "Risulta innanzitutto provato che l'imputato abbia compiuto atti sessuali con El Mahroug Karima in cambio di ingenti somme di denaro (circa 3mila euro a prestazione, ndr) e di altre utilità quali gioielli" scrivono i giudici. La ragazza, in particolare, si sarebbe anche fermata due notti nella villa di Arcore. E ancora: "Il Tribunale ritiene che la valutazione unitaria del materiale probatorio illustrato evidenzi lo stabile inserimento della ragazza nel collaudato sistema prostitutivo di Arcore ove giovani donne, alcune delle quali prostitute professioniste, compivano atti sessuali in plurimi contesti".  Silvio Berlusconi "regista del bunga bunga". E’ questo il ruolo che avrebbe rivestito il premier nelle cene di Arcore    "Risulta provato che il regista delle esibizioni sessuali   delle giovani donne - scrivono - fosse proprio Berlusconi, il quale dava il via al cosiddetto bunga bunga in cui le ospiti di sesso femminile si attivavano per soddisfare i desideri dell’imputato, ossia per 'fargli provare piaceri corporeì, come chiarito dalla stessa El Mahroug, inscenando balli con il palo da lap dance, spogliarelli, travestimenti e toccamenti reciproci". Le formule usate nelle stesse motivazioni provano ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, l'assenza di prove nelle mani dei giudici. Che non a caso usano formule come "il tribunale ritiene..." e "risulta provato" (ma senza testimonianze in tal senso, registrazioni audio o video. E la prova della consapevolezza della minore età della ragazza da parte del Cav starebbe secondo le toghe "nella telefonata che fece alla questura di Milano".  Intanto arrivano le reazioni dei legali del Cav. "Certo che la condanna a un cittadino a sette anni di reclusione in un processo dove tutte le asserite persone offese ne attestano l'innocenza, compresi i funzionari di polizia, è davvero un fatto che poteva accadere soltanto al presidente Berlusconi". hanno affermato l'avvocato Piero Longo e l'avvocato Niccolò Ghedini sulle motivazioni della sentenza Ruby.

Ruby: "Berlusconi a letto con Belen e la Minetti". Nelle 330 pagine del dispositivo della sentenza riportati particolari delle notti di Arcore che nulla hanno a che vedere con la condanna del Cavaliere, scrive “Libero Quotidiano”. "Silvio Berlusconi praticava sesso orale con Belen Rodriguez". Le motivazioni della sentenza Ruby, che vede il Cav condannato in primo grado a 7 anni per concussione e prostituzione minorile assumono sempre più le sembianze di una vera e propria "macchina del fango" guidata dalle toghe. L'obiettivo è il solito: screditare l'immagine pubblica di Berlusconi diffondendo particolari delle notti di Arcore, che se anche fossero veri nulla avrebbero a che fare con la sentenza emessa qualche settimana fa. Leggendo tra le pagine delle motivazioni, pubblicate da Affaritaliani.it,  emergono particolari "piccanti" su quelle notti ad Arcore in cui veniva praticato il cosidetto "Bunga Bunga". Particolari che valicano i limiti della privacy di ogni cittadino. I giudici di Milano hanno trascritto alcune deposizioni di  Karima El Mahroug, detta Ruby, che avrebbe raccontato particolari "hot" delle presunte serate a villa San Martino. Le 330 pagine delle motivazioni della sentenza sembrano scritte proprio per infangare Silvio. Si raccontano scene boccaccesche tra Silvio e Sara Tommasi, Nicole Minetti e Belen Rodriguez. "Berlusconi leccava genitali a Belen - rivela Ruby - mentre Nicole Minetti gli praticava sesso orale. Il tutto mentre Barbara Faggioli ballava nella stanza", si legge nel dispositivo dei giudici. Sempre secondo le toghe "alle serate hanno partecipato anche la conduttrice Barbara D'Urso e l'onorevole Mara Carfagna". I particolari dei festini di Arcore raccontati e pubblicati dai magistrati hanno ricevuto smentite categoriche: ''In relazione alle notizie pubblicate in queste ore su alcuni siti tratte da dichiarazioni che sarebbero state rilasciate da Ruby circa la partecipazione di Belen Rodriguez a festini o ''cene eleganti'' la signora Belen Rodriguez intende precisare e ribadire quanto già dichiarato, a suo tempo, davanti al magistrato" e cioè che "non ha mai preso parte a tali festini o cene e si riserva di adire la magistratura contro chiunque diffonda tali false notizie", hanno comunicato i legali della showgirl. La stessa Ruby nelle stesse pagine delle motivazioni smentisce se stessa: A pag.178, si legge anche che su domanda del pubblico ministero, che ha dato lettura delle diverse dichiarazioni rese dalla teste in sede di sommarie informazioni testomoniali, la stessa (Ruby, ndr) ha asserito che "i fatti e le circostanze riferite al pubblico ministero erano frutto della mia immaginazione...".

Due giorni, due pesi e due misure. Ci voleva la distanza ravvicinata per rendere ancora più evidente la disparità di trattamento tra Silvio Berlusconi e Annamaria Cancellieri. Scrive Francesco Borgonovo su Libero: “Ieri i giudici del Tribunale di Milano hanno reso note le motivazioni della condanna dell’ex premier a sette anni per concussione e prostituzione minorile. Per la precisione, il reato che comporta la condanna più pesante è la concussione per costrizione, per cui il Cavaliere si è preso sei anni. Il motivo è universalmente noto: la famosa telefonata di Berlusconi in Questura allo scopo di far affidare Ruby Rubacuori all’allora consigliera regionale lombarda Nicole Minetti. E qui viene il bello. Primo fatto singolare: i funzionari di polizia che avrebbero subìto le indebite pressioni del Cav hanno tutti negato di essere stati concussi. Di più: Giorgia Iafrate, colei che dispose il rilascio di Ruby, ha pure negato di sapere che a telefonare fosse stato Berlusconi. Quindi non ci sono i concussi, però la concussione c’è lo stesso. Vabbé. Secondo fatto singolare. Nelle motivazioni della condanna, i giudici ci tengono a rilevare «la sproporzione tra l’intensità e la costrizione» da parte di Silvio «rispetto allo scopo avuto di mira, nel caso di specie il rilascio di una prostituta di 17 anni» (…) Non è intervenuta per far rilasciare una prostituta di 17 anni che non si trovava agli arresti. Ha chiamato il Dap – il dipartimento che controlla i penitenziari – dopo essere stata informata delle condizioni di Giulia Ligresti. Una che non avrebbe dovuto stare in carcere, considerate le sue condizioni di salute, ma che al momento dei fatti era indagata. E lo era nell’ambito del caso Fonsai, che tanto piccolo non è, visto che si parla di 600 milioni di euro di buco. Senza contare i numerosi risparmiatori che hanno perso soldi, e tralasciando il fatto che il fratello della Ligresti è tuttora ben sistemato in Svizzera, lontano dalle patrie galere. Chiama la Cancellieri, e scarcerano la Ligresti. Chiama Silvio, e vogliono incarcerare lui. Sorprendente. Se chiama la Cancellieri, la telefonata allunga la vita (politica e ministeriale). Se chiama Silvio, la telefonata allunga la pena. Chissà se avesse chiamato in Questura per qualcosa d’importante: al Cavaliere avrebbero dato minimo l’ergastolo. E scommettiamo che la Cancellieri non avrebbe fatto neppure uno squillo per tirarlo fuori.”

"Mi feci latore", presso Silvio Berlusconi "del desiderio dell'allora Prefetto Cancellieri che era in scadenza a Parma e preferiva rimanere in quella sede anziché cambiare destinazione". E' un passaggio del verbale di Salvatore Ligresti interrogato nell'inchiesta milanese su Fonsai. Ligresti ha spiegato che la segnalazione "ebbe successo". Oggi Annamaria Cancellieri, ministro di Grazia e Giustizia, ha ottenuto la fiducia alla Camera, dopo lo scandalo delle telefonate con i Ligresti e di quelle relative a un suo interessamento per la custodia cautelare di Giulia, figlia del patron di Fondiaria Sai. L'altra figlia, Jonella, ha ottenuto sempre oggi gli arresti domicilairi. "Qui c'è un accanimento che non ha limite, c'è un disegno che non comprendo", è la risposta del ministro, che smentisce come "falsa e destituita da ogni fondamento" la ricostruzione che emerge dai verbali. Negli interrogatori, Ligresti si sofferma sulla "Particolare consuetudine" che ha sempre avuto con Berlusconi: "Siamo amici di vecchia data, veniamo dalla gavetta e gli incontri sono tanto frequenti quanto informali. Con il presidente Berlusconi si parla di tutto. In ogni caso ricordo chiaramente di avergli presentato in più di un'occasione questo tema".

Ed i soldi ai La Russa? Oltre trecentomila euro a Vincenzo La Russa, 451mila a Ignazio La Russa quando era ministro della Difesa, 211mila a Geronimo La Russa. Tra gli atti dell'inchiesta del pm della procura di Milano Luigi Orsi, tra le operazioni tra parti correlate delle società del gruppo Ligresti, spuntano i pagamenti ai membri della famiglia La Russa, scrive Sandro De Riccardis e Walter Galbiati su “Il Corriere della Sera”. Uno stringato elenco di prestazioni, indicate come "parcelle sinistri" e con un più vago "altre prestazioni di servizi", che garantiscano alla famiglia dell'ex ministro della Difesa e parlamentare di centrodestra pagamenti per quasi un milione di euro. Il documento è stato depositato agli atti dell'inchiesta sull'ex presidente dell'Isvap Giancarlo Giannini, accusato di corruzione e calunnia, e Salvatore Ligresti, indagato per corruzione. Il 27 gennaio 2011 l'ufficio Ispettorato dell'Istituto di vigilanza sulle assicurazioni chiede a Fondiaria Sai, di "fornire i verbali stralcio dei verbali delle adunanze del 2009 e del 2010, con individuazione del relativo punto della verbalizzazione" su un lungo elenco di operazioni tra parti correlate. Ed ecco che, oltre i sette milioni deliberati a favore dello stesso ingegnere di Paternò e i 268mila euro alla moglie di Paolo Ligresti, spuntano i pagamenti ai La Russa. Da Fondiaria-Sai, Vincenzo La Russa, primogenito di Antonino, fratello di Ignazio e Romano, e indagato nel filone torinese dell'inchiesta, ha avuto due pagamenti: uno del 2010 da 126mila euro per "parcelle spese sinistri"; un secondo, del 2009, da 174mila euro per "parcelle spese sinistri + spese sociali diverse". Molto di più porta a casa l'ex ministro della Difesa e leader di Fratelli d'Italia, Ignazio La Russa. Con un primo pagamento da Milano Assicurazioni nel 2009 incassa 198.928 euro per "altre prestazioni di servizi". Lo stesso anno, da Fondiaria Sai, incassa altri 98mila euro per "parcelle per spese sinistri". Operazioni simili nel 2010: una volta 76mila euro da Fondiaria Sai, un'altra 77mila da Milano assicurazioni, incassa oltre 150mila euro. Totale 451mila euro. Per "parcelle spese sinistri" e "altre prestazioni di servizi" incassa tra il 2009 e il 2010, 211mila euro anche il Geronimo La Russa, figlio di Ignazio, che ricopriva la carica di consigliere in Premafin. La replica di La Russa. "Come ho più volte precisato, il mio rapporto professionale con la Sai (poi Sai Fondiaria) data dalla fine degli anni '70 e cioe' anni prima che il gruppo Ligresti ne fosse azionista. Nel periodo in cui sono stato ministro della Difesa ho ritenuto, in ragione del mio incarico, di autosospendermi di fatto dall'Ordine degli Avvocati inviando lettera al Presidente avv. Giuggioli. In quegli anni non ho perciò assunto alcun incarico ne dalla Sai Fondiaria ne da alcun altro cliente. Tant'è che la mia dichiarazione dei redditi 2012 relativa al 2011 non ha avuto alcun reddito professionale". Lo dichiara Ignazio La Russa, presidente di Fratelli d'Italia che aggiunge: "Eventuali parcelle incassate nel 2009 e 2010 e comunque mentre ero ministro, si riferiscono perciò a pratiche acquisite e svolte negli anni precedenti. Rilevo peraltro che se è esatta la notizia di Repubblica (che mi riservo di verificare) 450 mila euro lordi per numerose pratiche assicurative in ben due anni (per un lavoro che coinvolge anche diversi avvocati del mio studio da me retribuiti) mi fa risultare nella parte bassa dell'elenco dei legali che seguono in Italia le pratiche di quella assicurazione. Si tratta in ogni caso di parcelle relative al legittimo lavoro professionale (così come quelle di mio fratello Vincenzo che ha uno studio distinto e separato e che collaborava con la Sai già quando io non ero ancora neanche laureato) che non ha alcun ragione di essere accostato a quelle dello studio legale Cardia che rispetto, ma col quale non ho alcun rapporto non solo professionale ma nemmeno di semplice frequentazione. Con Giannini infine non ho poi avuto proprio mai rapporti di alcun genere".

Con quel che si guadagna, è logico che chi è un avvocato di un certo tipo tende a mantenere i suoi privilegi, sapendosi impunito ed immune da qualsivoglia controllo di legalità.  Ed il bello è che fanno che cazzo vogliono, con il bene stare proprio di Silvio Berlusconi durante il suo famoso ventennio. Mentre il Paese è sull'orlo del baratro a causa della crisi finanziaria che ha investito la Borsa e i titoli di Stato, la Casta si ribella all'amara medicina della manovra del governo, scrive “Il Corriere della Sera” il 31 luglio 2011. Tanto da costringere la maggioranza ad un dietrofront su uno specifico emendamento voluto dal governo: quello che prevedeva la liberalizzazione degli ordini professionali, in particolar modo avvocati e notai. Alla fine il ministro per i rapporti con le Regioni Raffaele Fitto, spiegava: «È stata raggiunta l'intesa tra maggioranza e governo sull'emendamento relativo alla liberalizzazione delle professioni». Il testo originario veniva quindi modificato. Il testo attuale prevedrebbe che il governo presenti alle categorie interessate «proposte di riforma in materia di liberalizzazioni» delle professioni. Trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della manovra «ciò che non sarà espressamente vietato sarà libero». Il nuovo testo dell'emendamento mette fine (per ora) ad una giornata parlamentare incandescente. Tutto cominciava quando all'interno del Pdl partiva una raccolta delle firme per protestare contro la manovra. Le sigle in breve tempo erano circa un'ottantina. «Fino a quando non verrà tolta la norma che abolisce gli ordini professionali, noi il testo - assicurava un avvocato del Pdl - non lo voteremo mai dovesse anche cadere Tremonti». Un'altra norma contro la quale si alzavano le barricate tra i berlusconiani era quella che renderebbe incompatibile l'incarico di parlamentare con quello di sindaco o di presidente di provincia. Solo alla Camera gli interessati sono 9 presidenti di provincia e 6 sindaci. «E state pur certi - si assicurava ancora nel Pdl - che anche quella norma deve saltare se vogliono che votiamo la manovra».  «Esprimiamo una forte preoccupazione per il contenuto della manovra finanziaria che tratta della liberalizzazione delle professioni, in quanto l'eventuale attuazione comporterebbe automaticamente la distruzione del sistema di cassa degli ordini» affermavano poi in una nota congiunta gli onorevoli Mancuso, Marsiglio, Rampelli, Ghiglia e Barani del Pdl. «Al di là del disagio che questo comporterebbe - aggiungevano -, si avrebbero effetti negativi immediati perché verrebbe a saltare il meccanismo fondamentale di alimentazione delle casse degli ordini e ci troveremmo ad avere 1,6 milioni di professionisti costretti a bussare alle casse dello Stato». Anche da 22 senatori del Pdl arrivava una lettera contraria alla liberalizzazione degli ordini professionali così come era prevista nella prima versione della manovra.  A dar manforte alla Casta ci pensava anche il ministro della Difesa (e avvocato) Ignazio La Russa: «Da avvocato ritengo che sia una norma che merita un approfondimento ulteriore. Non mi sembra materia da inserire in un decreto». «Ritengo che la protesta degli avvocati - concludeva La Russa - non sia affatto irragionevole». A preoccupare molti parlamentari del Pdl era poi anche un emendamento firmato dai capigruppo dell'opposizione al Senato che tra l'altro prevedeva l'equiparazione degli stipendi di deputati e senatori a quelli di pari grado in Europa e cambiamenti nel sistema dei vitalizi. Per quanto riguarda quest'ultimo tema l'emendamento specificava: «Gli uffici di presidenza delle due Camere adottano sistemi previdenziali basati sul metodo di calcolo contributivo, prevedendo requisiti anagrafici e contributivi per l'accesso ai trattamenti corrispondenti a quelli applicati ai lavoratori dipendenti, ai sensi della disciplina pensionistica vigente». L'emendamento era stato firmato da Pd, Idv e Udc. «È la difesa della corporazione che antepone i propri interessi a quelli dei cittadini» sottolineava il leader dell'Idv, Antonio Di Pietro. «Noi dell'Idv, invece - aggiunge Di Pietro - abbiamo presentato un emendamento al riguardo che interessa sempre l'avvocatura. Pensiamo infatti che sia necessario dare la possibilità anche ai giovani avvocati di far carriera e di potersi misurare senza dover necessariamente passare attraverso l'imbuto di studi legali blasonati, che diventano importanti solo per le parcelle esose che fanno, piuttosto che per la loro abilità e bravura nel seguire i propri clienti».

Notai, avvocati, commercialisti e... ecco le lobby dei "veri Intoccabili". Mentre il nuovo Governo si appresta a tentare il salvataggio dell'Italia, arriva in libreria (per Chiarelettere) un libro duro che racconta uno dei troppi freni alla crescita del Paese: "I veri intoccabili - Commercialisti, avvocati, medici, notai, farmacisti. Le lobby del privilegio", scrive Franco Stefanoni su “Affari Italiani”. La metà dei componenti del Parlamento italiano è iscritta a un ordine professionale. Un gruppo trasversale: il partito dei professionisti. Stiamo parlando di più di due milioni di persone in Italia, divise in 28 categorie: avvocati, medici, notai, ingegneri, giornalisti, farmacisti... Hanno enti previdenziali propri, un patrimonio di circa 50 miliardi di euro investiti in beni immobili e titoli finanziari. Quello degli ordini professionali è un mondo chiuso e ancora tutto da raccontare. Una macchina del privilegio, con meccanismi e regole scritte e non scritte. Questo libro lo racconta, attraversando inchieste e scandali, modalità di accesso non sempre trasparenti e sanzioni disciplinari che arrivano con incredibile ritardo. Nati con l’alibi di difendere il cittadino-consumatore, gli ordini professionali proteggono solo se stessi, tramandandosi il potere in maniera quasi ereditaria (il 44 per cento degli architetti è figlio di architetti, il 41 per cento dei farmacisti è erede di farmacisti, il 37 per cento dei medici è figlio di un medico). Ogni tentativo di riforma è bloccato (così Fabrizio Cicchitto, Pdl, definisce la tentata riforma Bersani del 2006: “Un esempio estremista di vendetta sociale”). All’interno delle stesse professioni c’è chi prova a opporsi (l’Anarchit – Associazione nazionale architetti italiani, Altrapsicologia, il Movimento nazionale liberi farmacisti...): invocano l’eliminazione degli albi e un radicale cambiamento che metta in prima fila libertà e merito, abbattendo ogni privilegio. La loro battaglia è la battaglia di tutti i cittadini italiani. L'AUTORE - Franco Stefanoni è giornalista de “il Mondo”. Da anni si occupa di liberi professionisti e ordini professionali, raccontandone fatti e misfatti. È autore di FINANZA IN CRAC (Editori Riuniti, 2004), IL CODICE DEL POTERE (2007), IL FINANZIERE DI DIO. IL CASO ROVERARO (2008), MAFIA A MILANO (con Mario Portanova, Giampiero Rossi, nuova edizione 2011) tutti pubblicati da Melampo. Questo è l’estratto da I veri intoccabili di Franco Stefanoni, © 2011 Chiarelettere editore srl. In Italia c’è un partito invisibile che accomuna milioni di persone, al di là delle appartenenze politiche. È quello dei professionisti, tutelati da una sfilza di ordini. Sono loro i veri intoccabili. Nessuno è mai riuscito a scalfire i privilegi di cui godono, neppure nei periodi di recessione, quando intere categorie di cittadini sono chiamate a sopportare nuovi sacrifici. Il caso più recente esplode nell’estate del 2011, nel pieno della crisi economica. Nell’ambito della manovra finanziaria, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti tenta più volte di introdurre una norma sulla liberalizzazione degli ordini professionali. Subito gli avvocati-onorevoli alzano le barricate, minacciando di non votare la fiducia in Parlamento. Dissentono anche gli stessi membri del Pdl, il partito di governo. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa e gli avvocati Maurizio Paniz e Niccolò Ghedini prendono le difese degli ordini. Il provvedimento sparisce e un altro, molto più morbido, lo sostituisce. È l’ennesimo tentativo andato a vuoto, che si aggiunge alle riforme avviate dai vari governi negli ultimi trent’anni, tutte clamorosamente fallite per l’opposizione delle lobby professionali, ben rappresentate in Parlamento: nel 2011 circa il 45 per cento di deputati e senatori ha in tasca la tessera di un albo. Gli ordini o collegi di categoria si presentano come paladini del consumatore: sono enti pubblici il cui scopo dichiarato è proteggere i cittadini dalle cosiddette asimmetrie informative, mettendoli in contatto con professionisti certificati che non abuseranno delle proprie competenze. Nella realtà si tratta di élite che proteggono soprattutto i propri iscritti. Chi li tocca muore. Nessuno può interferire nei loro interessi, nessuno può scalfire il loro potere. Avvocati, medici, ingegneri, commercialisti, notai, giornalisti, farmacisti, ma anche ostetriche, psicologi, spedizionieri doganali, periti agrari, chimici. In tutto 28 categorie, per un totale di oltre 2,1 milioni di professionisti. Anche se gli ordini sono ufficialmente enti senza scopo di lucro, il potere economico che movimentano è enorme. Il volume d’affari generato dai professionisti iscritti agli albi è stimato in circa 196 miliardi, pari al 15 per cento del Pil (compresa la componente sommersa). Il valore aggiunto, cioè detratti i costi sostenuti per le attività, si aggira intorno a 80 miliardi, ovvero il 6 per cento del Pil. Ogni anno, attraverso le quote di iscrizione, gli ordini raccolgono una cifra che si aggira sui 500-600 milioni di euro. È il denaro che serve a coprire le spese di funzionamento, illustrate in bilanci non sempre trasparenti e approvati senza adeguati controlli. Ma il vero forziere è custodito nelle casse previdenziali. Chi esercita la professione è obbligato a versare contributi con l’auspicio un giorno di ottenere una pensione. Il flusso finanziario rimpingua un patrimonio che nel 2011 ammonta a circa 50 miliardi.
I presidenti degli enti pensionistici, espressione degli ordini di riferimento, sono plenipotenziari nelle cui mani passano autentiche fortune investite in valori mobiliari e immobiliari, con scelte che nel tempo hanno sollevato polemiche, arresti, processi e scandali. Con la crisi finanziaria del 2008 vengono a galla operazioni rischiose e poco lungimiranti che mettono a rischio la possibilità per i giovani di avere in futuro una pensione. Da anni in Italia si parla di snellire o abolire gli ordini, da molti ritenuti inutili, inefficienti, autoreferenziali, miopi, fautori di privilegi antistorici, conniventi con chi viola le regole, poco cristallini nella gestione degli affari, incapaci di annullare o limitare le sbandierate asimmetrie informative, conservatori, costosi, protettori di monopoli, interpreti di impropri ruoli sindacali, duri con i deboli e deboli con i duri. Ma la legge è dalla loro parte. L’impalcatura ordinistica, anche se risalente a epoche lontane, appare indistruttibile. Questo libro ne racconta per la prima volta vizi e virtù, strategie, interessi politici e finanziari, abusi, malcostumi, lotte intestine e politiche, attraverso un viaggio nella miriade di enti che rappresentano le varie categorie professionali. Un viaggio da cui emerge una rete di piccoli sistemi di potere caratterizzati da scarsa trasparenza verso gli iscritti ed elevata litigiosità, spesso accusati di ostacolare l’ingresso delle nuove leve nel mondo del lavoro. Le piccole e grandi storie raccolte in questo libro compongono un mosaico da cui emerge la peculiarità della situazione italiana, erede delle corporazioni medievali, di leggi del ventennio fascista e di una cultura di lacci e lacciuoli. Un’ingessatura che ha pochi pari a livello internazionale e che tante volte è stata contestata dall’Unione europea e dall’Antitrust. E tuttavia resiste e sembra godere di piena salute, a dispetto di mille proclami antiordini. Chi ha osato sfidarli, finora, è rimasto scottato.

La Casta Forense in Parlamento, scrive Daria Lucca su “Il Fatto Quotidiano”. Tra i commenti al precedente post sulla riforma forense, un giovane avvocato senza una famiglia illustrata da lucide targhe di ottone, ovvero privo di protettori, ha raccontato non solo tutti i K2 che un laureato qualsiasi, nonostante il talento, deve scalare per arrivare a mantenersi con la professione, ma ha descritto benissimo una recente assemblea di quei patres (et matres) del foro che si sono opposti con tutte le loro forze a un intervento “liberalizzante” del povero Giulio Tremonti. Vero, anzi verissimo. Conviene riparlarne. E’ successo, come molti ricorderanno, che lo scorso 13 luglio il parlamento italiano, composto nel suo insieme di 315 senatori e 630 deputati, ha assistito a una sollevazione degna dei migliori giorni risorgimentali. Decine di eletti dal popolo (della libertà), per puro caso accomunati dallo stesso mestiere, e cioè l’avvocatura, si sono uniti come un solo uomo rifiutandosi di votare la manovra finanziaria se non fosse stato cancellato un emendamento con cui si intendeva ridimensionare il potere degli ordini professionali. Grazie alla ribellione, rapida  e decisa, di questo manipolo di arditi, l’emendamento sotto accusa non solo è stato ritirato ma non è neppure stato presentato, e in pratica non è stato visto da altri occhi che non fossero pidiellini. Per cui si può soltanto dire che – pare – consentisse di esercitare la professione di avvocato con la sola laurea più il praticantato. Ovviamente, stroncata la norma si son salvati anche gli altri ordini (notai, giornalisti etc). L’episodio, pur ripreso da tutte le testate giornalistiche (vedi ad esempio il fatto quotidiano del 13 luglio, sezione politica & palazzo), merita un approfondimento quantomeno sotto il profilo lobbistico della materia. Molti opinionisti hanno segnalato il peso abnorme che la casta forense esercita sulle decisioni parlamentari, e dunque legislative, in ragione dell’abnorme numero di deputati e senatori che i Boston Legal nostrani (nessuno tocchi il capitano Kirk-William Shatner, nei panni dell’assatanato leguleio repubblicano sul viale del tramonto, Denny Crane) sono riusciti a portare sugli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama. Ma quanti sono davvero gli onorevoli avvocati o senatori? Se volete saperlo, basta utilizzare i due siti. Palazzo Madama li propone alla voce statistiche all’interno del menù composizione, una sorta di Navicella on line.  Allora, i senatori avvocati sono 47, di cui 26 appartenenti al gruppo del PdL. La nobile professione, come l’abbiamo chiamata, è quella esercitata dal presidente, Renato Schifani, ma anche da Carlo Giovanardi, da Piero Longo (difensore di Berlusconi) o da Giuseppe Valentino (sottosegretario alla giustizia nel II° e III° governo Berlusconi). Fatta la fatica, tanto vale dare uno sguardo (molto generale) alle altre professioni presenti. Tanti i medici (forse per stare al capezzale della politica malata), tanti i giornalisti (ma non erano i cani da guardia del potere?), non certo isolati i docenti universitari, ma tantissimi soprattutto gli imprenditori e i dirigenti (questi ultimi sono la prima voce, con 50 senatori). Alla camera, la ricerca è semplificata da un sito un pochino più frizzante dove qualcuno ha pensato (bene) di inserire una griglia a molte variabili sui deputati: partito, circoscrizione, titolo di studio e anche professione. Potete divertirivi da soli. Nel frattempo, vi anticipiamo che a Montecitorio gli avvocati sono 87, di cui 44 nelle fila del PdL. Fra di essi, oltre ai legali del presidente del consiglio, in carica, ex o aspiranti (Niccolò Ghedini, Gaetano Pecorella, Maurizio Paniz), vanno ricordati lo stesso Giulio Tremonti e il fido Marco Milanese, oltre ad altri ministri come Ignazio La Russa e Mariastella Gelmini, quella che fece gli esami di Avvocato a Catanzaro, il paradiso degli abilitanti. Grazie a questo giochino, si può affermare senza ombra di essere smentiti che l’avvocatura è la professione principe per gli onorevoli. Seguono, a mezza ruota, i “dirigenti”, mestiere non meglio specificato, con 82 deputati; gli imprenditori con 76 parlamentari e i giornalisti con 61 posizioni (come sopra). Leggermente distanziati i docenti universitari (45), i funzionari di partito (41), i medici (30), gli impiegati (29). I magistrati sono 7 (erano, uno essendo Papa). E i mestieri meno nobili, più modesti ma produttivi? 4 operai, 3 artigiani, 2 paramedici e 1 agricoltore. Eh sì, siamo una democrazia aristocratica, ma questa è un’altra storia e non è questo il momento in cui raccontarla. Torniamo al nostro punto di partenza. Sommando senatori e onorevoli, si arriva a 134 avvocati parlamentari, che rappresentano più o meno il 14% delle presenze nelle due camere. Se questa non è una lobby, c’è da chiedersi che cosa lo sia. Verrebbe voglia di invocare l’autorità garante della concorrenza. Per non parlare del conflitto di interessi interno, che coinvolge uno studio legale contro l’altro, o che coinvolge noi tutti, dal momento che alcuni di loro (inutile rifare l’elenco) prima scrivono le norme, poi le discutono come relatori in commissione giustizia, poi le applicano in tribunale in difesa dei propri clienti. L’anno scorso, la senatrice Silvia Della Monica (Pd) presentò un emendamento al testo della riforma forense che proponeva la sospensione automatica dall’esercizio della professione per gli avvocati eletti in parlamento. Che cosa pensate che sia successo? Bordate da destra e da manca. Ps. Se non ricordo male, a un certo punto anche il capitano Kirk-Denny Crane sogna di diventare senatore, ma alla fine preferisce i lauti guadagni da avvocato bostoniano. Da noi, si riesce sempre a tenere il piede in due scarpe.

La Russa jr e quell’esame in Calabria: “Lì davvero si studia con serenità…”, scrive Antonello Caporale. La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione…In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

La Russa tiene famiglia. Il cognato in affari con la ‘ndrangheta. Il fratello indagato. I fedelissimi sulle poltrone pubbliche. Ecco la rete di potere dietro al nuovo partito, scrive Paolo Biondani da l'Espresso. In quella trattativa con la ’ndrangheta, l’imprenditore del Nord sa che sta giocandosi tutto. Fondatore della Blue Call, una società di call-center che nel 2010 era arrivata ad avere 872 dipendenti, tra gennaio e settembre 2011 ha aperto le porte dell’azienda al clan Bellocco di Rosarno. Mafia ricchissima e sanguinaria. Che dopo avergli offerto protezione e prestiti facili tra Calabria e Svizzera, sta «dissanguando» le casse del gruppo a Milano. Dopo appena otto mesi, la ’ndrangheta vuole costringerlo a svendere tutto. L’imprenditore è disperato. Non vuole o non può denunciare i mafiosi. Per salvare almeno un po’ di soldi, cerca un alleato importante. Un big del settore, un nome che possa fargli da scudo. Un santo protettore che lo stesso imprenditore in società con la ’ndrangheta presenta così: «È il cognato di La Russa». È il 20 settembre 2011 quando le direzioni antimafia di Milano e Reggio Calabria intercettano il titolare della Blue Call, Andrea Ruffino, ora in carcere, mentre descrive la sua spaventosa trattativa con la mafia ed elogia «l’intelligentissimo» aiuto fornitogli da Gaetano Raspagliesi, manager di call-center tra Milano e Paternò, evidenziando che si tratta del marito della sorella del ministro della Difesa. In quel momento Ignazio La Russa era ancora al governo. Oggi l’ex ministro sta lanciando un nuovo partito nella mischia elettorale, nella speranza di favorire un’altra vittoria dell’intramontabile Berlusconi e far sentire di più il suo peso nella destra (vedi articolo a pag. 35). La Russa è uno dei non molti capi-corrente del Pdl che possono vantare di aver frequentato i tribunali come avvocato penalista anziché come imputato, arrestato o condannato. Entrato in Parlamento nel ’92 inneggiando a Mani Pulite, nella cosiddetta Seconda Repubblica ha scaricato i magistrati e in questo ventennio ha saputo costruirsi una macchina di potere in grado di condizionare affari e politica. Le critiche più aspre riguardano i suoi rapporti con Salvatore Ligresti, l’ex re del mattone e delle assicurazioni, anche lui originario di Paternò, ora sotto accusa per bancarotte miliardarie. Sotto tiro sono anche le discusse società imprenditoriali del ministero della Difesa e i legami con Finmeccanica. Meno conosciuti sono i problemi della sua cerchia familiare. E della corrente milanese che è la sua base elettorale e ha conquistato poltrone chiave nelle società pubbliche (vedi articolo in basso) che smistano appalti miliardari. Una corrente dove non sono mai mancati personaggi al confine tra reduci dell’eversione nera, ex picchiatori neofascisti, ultras del calcio violento, malavita notturna, discoteche inquisite per cocaina e perfino agganci con la mafia. Roba da far invidia alla Roma di Alemanno. Alle ultime elezioni comunali a Milano fecero scandalo le intercettazioni di Marco Clemente, 34 anni, un duro dell’estrema destra romana, riciclato come assistente parlamentare del Pdl, diventato un fedelissimo di La Russa, fino a fregiarsi dello status di «consigliere diplomatico del ministro della Difesa». Nel 2011, quando 35 arresti colpiscono il clan Flachi per estorsioni sistematiche e traffici di cocaina nelle discoteche milanesi, le microspie svelano che in Lombardia i boss più importanti fanno votare da anni il Pdl. Peggio: un ex neofascista, Giuseppe Amato, arruolato come scagnozzo armato dalla ’ndrangheta, si lamenta che il titolare di un locale osa non pagare il pizzo («Gli do fuoco alla macchina!») e al suo fianco, al Babylon Club, c’è proprio lui, il «consigliere ministeriale» Clemente. Che «ride» della vittima e commenta: «Speriamo che muoia come un cane». L’intercettazione è del 17 febbraio 2008, campagna elettorale del dopo-Prodi, ma smette di essere segreta tre anni dopo, quando Clemente è candidato con la lista Moratti: «Non mi riconosco in quelle parole», sostiene. Fatto sta che i milanesi non lo eleggono. E dopo la trombatura, dov’è finito, il larussiano Clemente? È entrato nello staff di Angelo Giammario, consigliere regionale (indagato) del Pdl, filmato alla vigilia delle elezioni del 2010 mentre incontrava i boss “reggenti” della ’ndrangheta a Milano, Pino Neri e Cosimo Barranca (quelli del summit di mafia al circolo Falcone-Borsellino), che poi ordinavano agli affiliati di votarlo, naturalmente a sua insaputa. Alla ’ndrangheta, nella Lombardia di oggi, si può arrivare anche partendo da storie di ordinario clientelismo. Il sistema di potere di La Russa ha da sempre i suoi punti di forza in enti pubblici come l’Aler delle case popolari o il Pio Albergo Trivulzio, l’ospizio da cui partì Tangentopoli, che gestiscono enormi patrimoni immobiliari. L’assessore regionale Romano La Russa, fratello di Ignazio, e il marito di sua figlia, Marco Osnato, nominato dirigente dell’Aler, sono indagati per un piccolo finanziamento illecito (manifesti elettorali a scrocco per il 2010 e 2011) che ha fatto scoprire un grosso giro di appalti truccati. Uno degli imprenditori favoriti, Luca Reale, che ha ottenuto dall’Aler lavori senza gara per 810 mila euro, viene intercettato il 26 marzo 2011 mentre confida alla moglie chi gli ha chiesto di pagare e perché: «Alla fine Ignazio dice, alla siciliana: quando andate dalla bottegaia, lei vuole i piccioli... Come mai? Per la campagna elettorale di Marco Osnato». Dall’Aler, attraverso un canale comunicante di ex camerati inquisiti, si arriva dritti al Trivulzio. Vent’anni dopo l’arresto del craxiano Mario Chiesa, qui il nuovo scandalo ha travolto l’ormai ex direttore Alessandro Lombardo, un altro maresciallo di La Russa. L’ultima accusa, tra le tante, è di aver svenduto un palazzo pubblico in corso Sempione a prezzo vile, con la scusa che era occupato da un inquilino. Quale inquilino? Domenico Zambetti, assessore regionale alla Casa della giunta Formigoni. E chi è il fortunato compratore? Lo stesso Zambetti, che dopo aver beneficiato dell’auto-sconto è stato arrestato, lo scorso ottobre, con l’accusa di aver comprato 4 mila voti dalla ’ndrangheta alla modica cifra di 200 mila euro. Gli affari del cognato Gaetano con i call center controllati dal clan Bellocco, insomma, sono l’ultima tegola che rischia di incrinare l’immagine di La Russa come uomo forte di una nuova destra “legge e ordine”. L’indagine è un nuovo troncone dell’inchiesta che ha bloccato, con i 14 arresti del 24 novembre scorso, l’assalto della ’ndrangheta alle società di call-center fondate da Andrea Ruffino: lo stesso imprenditore del Nord è finito in cella perché considerato complice, oltre che vittima, della feroce cosca di Rosarno. Il suo amico manager Gaetano Raspagliesi, 68 anni, resta invece libero e incensurato: continua a gestire grandi e onesti call-center a Milano e a Paternò, il comune siciliano dove sono nate le fortune incrociate delle famiglie La Russa e Ligresti. Il giudice delle indagini, però, ha appena chiesto alla direzione antimafia di «approfondire l’inchiesta » sui rapporti tra Ruffino e Raspagliesi. Il problema è che la ’ndrangheta, secondo i magistrati, era il «socio occulto» non solo della Blue Call, l’azienda «dissanguata» dalla mafia, ma anche della Future, l’impresa che ne ha preso il posto subentrando negli stessi call-center. Sulla carta è proprio il cognato di La Russa che l’ha gestita nei mesi più caldi: nel luglio 2011 la compra da Ruffino e in ottobre la cede alla società Alveberg, dietro cui si nasconde la ‘ndrangheta (vero padrone è il latitante Umberto Bellocco, che l’imprenditore del Nord chiamava «l’invisibile»). I conti però non tornano: Raspagliesi acquista la Future da Ruffino per 2,8 milioni e la rivende alla Alveberg per 712 mila euro. In tre mesi, insomma, ci perde tre quarti del prezzo. Un affare assurdo, in apparenza. In realtà Ruffino, intercettato, definisce il cognato di La Russa «la mia interfaccia», cioè una sorta di prestanome di lusso. In una situazione così delicata ora i giudici vogliono capire, in pratica, se anche Raspagliesi sospettava di trattare con la ’ndrangheta. Purtroppo le intercettazioni fanno temere il peggio. Ceduti i call-center, infatti, Ruffino racconta agli amici più stretti che la vendita gli è stata imposta dai mafiosi con minacce e violenze: «Ho preso le botte... Uno di quei bastardi si è alzato, davanti a Raspagliesi, e mi ha dato una botta pazzesca all’orecchio: ora non ci sento più... È venuto con il coltello, anche... E fuori c’erano altri sei di quelli collegati ai Bellocco... Meno male che con me c’era Gaetano».

Tutti i legionari dalla Difesa al Pirellone, scrive Gianluca Di Feo e Michele Sasso  su “L’Espresso”. È una legione compatta, che ha sempre impastato politica e business. Alleanza nazionale e il gruppo Ligresti, gli scranni al Parlamento e le holding degli armamenti, gli assessorati al Pirellone e le ricche municipalizzate lombarde. Ora però la centuria di Ignazio deve fare quadrato, nel tentativo di difendere le postazioni conquistate a Roma e Milano. Nel palazzo della Difesa La Russa ha lasciato un pessimo ricordo. I generali gli contestano i bilanci peggiori dell’ultimo ventennio e lo criticano apertamente, come ha appena fatto il numero uno dell’Aeronautica Giuseppe Bernardis parlando della censura imposta sui raid in Libia. Ma la pattuglia dell’ex ministro ha resistito persino ai colpi dei tecnici di Monti. Il fedelissimo Filippo Milone come sottosegretario si è accaparrato tutte le deleghe che promettevano affari: dalla promozione dell’export bellico alla dismissioni delle aree militari. Anche lui originario di Paternò, anche lui ex manager ligrestiano, il suo passato di immobiliarista e i numerosi procedimenti penali, chiusi tutti con prescrizioni o assoluzioni, non gli hanno impedito di essere arbitro del futuro di edifici e terreni in zone strategiche. Ai tempi di Mani Pulite spiegò ai magistrati come si distribuivano bustarelle per conto di don Salvatore Ligresti. E pochi mesi fa a Venezia nelle procedure per la cessione dell’Arsenale si è trovato di fronte l’onorevole Felice Casson, che venti anni fa come pm lo incriminò. Le più recenti intercettazioni in cui venivano invocati a suo nome contributi di Finmeccanica per gli eventi di Ignazio non sono state di ostacolo ai tour internazionali per sponsorizzare caccia e cannoniere made in Italy. E stando ai verbali del dicembre 2011, quando si trattava di decidere le nomine nel colosso statale delle armi bisognava sempre tenere conto delle indicazioni «che venivano da Paternò». Ancora oggi le due società create per privatizzare i business delle forze armate sono presidiate dai suoi pupilli. Pochi conoscono l’Agenzia Industrie Difesa, che raggruppa nove impianti pubblici dove si producono spolette, bombe, razzi, farmaci e libri. La guida Marco Airaghi da Varese, uno dei leader lombardi di An, l’uomo delle stelle a lungo al vertice dell’Agenzia spaziale ed ex consigliere del ministro. Industrie Difesa ha 1.186 dipendenti, costa 62 milioni e ne perde 29. Nell’ultimo periodo sotto la guida di Airaghi sta puntando su un settore promettente: la revisione e l’export di migliaia di veicoli seminuovi a cui l’Esercito deve rinunciare a causa dei tagli. Nella discussa Difesa Servizi Spa - nata soprattutto per vendere caserme vuote o installarvi centrali elettriche - Ignazio può contare sull’amministratore delegato Lino Girometta, che fa da sentinella anche agli aeroporti lombardi grazie al posto nella Sea: la società ha sfornato in un anno un solo milioncino di utili, realizzati vendendo ai media le previsioni meteo dell’Aeronautica, ma alimenta parecchie poltrone. Quella di vicepresidente va stretta a Giovanni Bozzetti, il rampante della legione destinato a essere capolista dei neonati Fratelli d’Italia. Bozzetti ha già avuto la delega al Turismo a Palazzo Marino con la Moratti ed è stato presidente del consiglio di gestione di Infrastrutture Lombarde, che ha le mani sulla torta dell’Expo. Singolare il suo ruolo di rappresentante in Italia della Osprey Global Solution, azienda americana di contractors e intelligence fondata da un veterano dei berretti verdi: fornisce personale per il Pentagono in Afghanistan e per la lotta ai narcos in Sudamerica, oltre a gestire infrastrutture militari in tutto il pianeta e occuparsi di sicurezza privata. Tanto da apparire quasi in conflitto d’interessi con la carica in Difesa Servizi Spa. Ad ottobre nell’estremo rimpasto della giunta Formigoni, Bozzetti si è poi ritrovato assessore al commercio. Al Pirellone dal 1999 brilla la stella di un altro ex dirigente ligrestiano. Si tratta di Giovanni Catanzaro, consigliere delegato di Lombardia Informatica - con stipendio annuo di 269 mila euro - che ha diretto appalti stratosferici: la sola carta regionale dei servizi è costata un miliardo e mezzo di euro. Tra le tante consulenze assegnate, “l’Espresso” ne ha scoperta una del 2011 proprio allo studio legale La Russa: soli 15.500 euro per un incarico che evidentemente non potevano svolgere gli avvocati della Regione. Celebre la scelta di trasferire il call center della Lombardia in Sicilia, guarda caso proprio a Paternò dove è stato insignito della cittadinanza onoraria. Catanzaro fino al 2010 ha presieduto la Consip, che decide le gare su tutti gli acquisti della pubblica amministrazione, e la multiutility brianzola Gelsia. È consigliere di Finmeccanica, dove fa parte del comitato ristretto che dovrebbe indagare dall’interno sugli scandali di tangenti e finanziamenti alla politica. C’è poi Carlo Maccari, luogotenente a Mantova, insediato nel 2010 all’assessorato formigoniano che doveva occuparsi pure dei servizi per l’Expo. Una forte influenza sulle cose della Lombardia la mantiene Massimo Corsaro, che dopo tredici anni al Pirellone è passato nel 2008 alla Camera: è uno dei referenti più fidati di Ignazio, tra i primi ad aderire a Fratelli d’Italia, come ha fatto l’europarlamentare Carlo Fidanza, altro uomo forte della legione. Ovviamente le decisioni in Regione le prende Romano La Russa, il fratellino che negli anni Settanta si era fatto notare per i modi turbolenti. È ritenuto lo sponsor politico di Antonio Mobilia, ex direttore generale della Asl di Milano ora con lo stesso incarico all’ospedale San Carlo. A lui faceva riferimento don Verzè in un’intercettazione del 2006, quando discuteva di come evitare che venissero contestati al San Raffaele controversi rimborsi di denaro pubblico. C’è poi Roberto Alboni, ex commissario del Fronte della Gioventù e leader provinciale di An, a lungo alla Camera prima di passare nel parlamentino regionale. Il suo posto in provincia al vertice del Pdl era andato a Sandro Sisler. Ritenuto l’uomo del new deal larussiano, è stata bloccato da un’inchiesta per corruzione: avrebbe preso una bustarella come assessore a Carate Brianza. Resta però nell’ufficio legale di Lombardia Informatica, dove pone l’ultima firma su appalti e revoche a sei zeri. La vittoria di Giuliano Pisapia ha gradualmente ridotto l’influenza della famiglia nella vita del Comune. La loro roccaforte era Milanosport, la municipalizzata degli impianti sportivi. Lì ha trovato un posticino Antonino La Russa, il figlio di Romano, indagato e poi prosciolto nel ’97 per l’accoltellamento dell’esponente di Rifondazione Davide “Atomo” Tinelli, e fino a giugno era nel cda Adriano Bazzoni, avvocato dello studio di Ignazio. Francesco Tofoni ha lasciato nel 2011 la poltrona di amministratore delegato dell’Atm, l’azienda dei trasporti, ma ha ottenuto subito l’assunzione come dirigente, nonostante la campagna per ridurre gli organici: viene considerato molto influente nella cerchia di Ignazio e si dedica a iniziative commerciali con la Cina.

Anche Marco Ricci, che per cinque anni da Palazzo Marino ha deciso tutte le affissioni sui muri della città, in perenne lite con le agenzie di pubblicità che criticavano i suoi metodi, è stato messo alla porta e ora lavora nello staff di Romano La Russa. Al primogenito Vincenzo La Russa invece è rimasta solo la carica nella Metropolitana Milanese, che progetta la linea sotterranea. Vincenzo è stato parlamentare dc negli anni Ottanta e primo erede delle relazioni con Ligresti: tra il 2008 e il 2010 come avvocato ha avuto 1,3 milioni dalla Sai. L’asse con don Salvatore, creato dal capostipite Antonino La Russa, si è esteso alla terza generazione: Geronimo La Russa, figlio di Ignazio, è stato nel cda di Premafin e a soli 32 anni ha ottenuto da Fondiaria-Sai “compensi per prestazioni professionali” per circa 350 mila euro oltre a una casa in affitto sulla Torre Velasca che domina Milano. Ma con l’arrivo dei cooperatori rossi di Unipol la pacchia sembra essere finita. Da qui arriviamo all'apoteosi della farsa.

Ruby Ter, Berlusconi indagato. L'ultima offensiva della Procura di Milano contro Silvio Berlusconi è partita ufficialmente. Il Cavaliere indagato per corruzione in atti giudiziari, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. L'ultima offensiva della Procura di Milano contro Silvio Berlusconi è partita ufficialmente pochi minuti fa, con l'annuncio da parte del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati dell'apertura dell'inchiesta che va già sotto il nome di "Ruby ter". E' il nuovo passaggio della tempesta giudiziaria scatenata dalla scoperta dei rapporti tra il Cavaliere e Kharima el Mahroug alias "Ruby Rubacuori". La condanna a sette anni di carcere per concussione e utilizzo della prostituzione minorile era solo il primo passaggio. Adesso i pm milanesi si preparano a mettere sotto accusa l'ex presidente del Consiglio per i fatti successivi all'esplosione dello scandalo, quando avrebbe avviato una complessa e costosa operazione per cavarsi di impaccio, organizzando versioni di comodo da parte di decine di testimoni. Una consistente parte di questi, le cosiddette Olgettine, e la stessa Ruby sarebbero state pagate - secondo le tesi dell'accusa - per dire il falso in aula. L'apertura della nuova indagine era solo questione di tempo, dopo che nelle motivazioni delle loro sentenze sia i giudici del processo  a Berlusconi sia quelli del cosiddetto "Ruby 2" a carico di Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti avevano trasmesso alla procura gli atti perché si procedesse a carico di Berlusconi, dei suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e di una quarantina di testimoni a difesa. L'annuncio ufficiale dell'apertura dell'inchiesta era previsto per martedì scorso, poi è slittato per alcuni adempimenti ma anche - verosimilmente - per non arrivare troppo a ridosso della svolta politica avvenuta con l'accordo tra Berlusconi e Matteo Renzi sulle riforme elettorali e costituzionali. Ma questa breve dilazione poco cambia sulla sostanza delle cose: lo stesso Berlusconi che l'accordo con Renzi ha riportato alla ribalta della vita politica ora viene riportato alla ribalta della cronaca giudiziaria dalla iniziativa dei pm milanesi. La politica non potrà non esserne condizionata. Bruti non comunica ufficialmente né i nomi degli indagati né i reati contestati. Ma il testo delle motivazioni delle sentenze dei processi già conclusi non lascia spazio a grandi dubbi. Per i testimoni che sono accusati semplicemente di avere mentito, per sudditanza psicologica o legami di affetti e lavoro verso il Cavaliere, su quanto accadeva nelle serate di Arcore, descrivendo gli incontri come <cene normalissime>, la Procura procede per falsa testimonianza. Ben più pesante la situazione per chi, come Ruby e le ragazze, viene accusato di avere mentito a pagamento. Qui l'accusa dovrebbe essere di favoreggiamento o di corruzione in atti giudiziari. E l'accusa di corruzione di testimoni viene sicuramente contestata a Berlusconi e ai suoi legali. Nel mirino dei pm c'è sia la convocazione di Ruby da parte di Luca Giuliante, legale di Lele Mora, che sarebbe stata finalizzata a scoprire per conto di Berlusconi cosa la ragazza avesse dichiarato nel corso dei numerosi incontri con i pm milanesi; sia, soprattutto, la convocazione ad Arcore, dopo le perquisizioni avvenute nel gennaio 2011, di tutte le Olgettine. Una riunione che secondo le tesi dei giudici doveva servire proprio a garantire alle ragazze il sostegno economico in cambio di una verità addomesticata. In procura a ritardare l'apertura del fascicolo è stato anche il dissidio interno su chi dovesse condurre la nuova indagine. Due procuratori aggiunti - il capo della direzione antimafia Ilda Boccassini e il capo del pool reati sessuali Piero Forno - si consideravano entrambi i titolari naturali del nuovo capitolo di inchiesta a carico del Cavaliere (anche se oggi Bruti afferma che è stata la stessa Boccassini a fargli sapere di avere altri impegni). Alla fine ha prevalso Forno, e il fascicolo è stato assegnato al pm Luca Gaglio, del suo pool. E questo potrebbe essere letto come un segnale distensivo, finalizzato a spersonalizzare lo scontro che da anni oppone Berlusconi alla Boccassini, e a scongiurare la eventualità di una richiesta di arresto del leader di Forza Italia che avrebbe effetti ancora più tempestosi sullo scenario politico.

Berlusconi: "Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti". Berlusconi: "Per votare la mia decadenza calpestato ogni principio del diritto e della sua civiltà millenaria. In Italia l’ingiustizia è uguale per tutti i cittadini", scrive Luca Romano su “Il Giornale”. Berlusconi torna a occuparsi di malagiustizia. Lo fa, riferendosi alla propria vicenda personale ma non solo, con un messaggio all'XI "Incontro internazionale di Giurisprudenza" organizzato dal presidente dell'Associazione interparlamentare di amicizia Italia-Brasile, senatore Domenico Scilipoti. "In questi giorni - scrive il Cavaliere - ricorre il ventesimo compleanno di Forza Italia e sono stati venti anni di guerra con una magistratura che da allora non ha mai smesso di coltivare il disegno di commissariare la volontà degli elettori. E per aver spezzato questo disegno io sono diventato il male assoluto, l'ostacolo da abbattere, il nemico da far scomparire dalla scena pubblica. In questi venti anni, ogni giorno, una certa magistratura politicizzata alleata con la sinistra ha cercato di distruggere l’unico ostacolo che si frapponeva tra loro e il potere, cioè Silvio Berlusconi e il suo partito: Forza Italia". "Lo hanno fatto - prosegue l'ex presidente del Consiglio - cancellando ogni principio elementare di difesa che Voi, da giuristi, ben conoscete. Lo hanno fatto indagando i testimoni a mio favore, lo hanno fatto privandomi del mio giudice naturale. Quella sentenza - afferma - poi è stata utilizzata per privare gli italiani moderati del loro leader in Parlamento. E per votare la mia decadenza hanno ancora una volta calpestato ogni principio del diritto e della sua civiltà millenaria, applicando retroattivamente la legge, contro la Costituzione, contro la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ma soprattutto contro una regola antica come l’uomo, fondamento stesso del diritto romano e del vivere civile. Quando tutto ciò è accaduto hanno esultato: finalmente, hanno pensato, dopo venti anni, ce l’abbiamo fatta: ci siamo liberati di Silvio Berlusconi. Ora possiamo vincere davvero, possiamo conquistare il potere definitivamente. Ma si sbagliano. Io - avverte Berlusconi - sono qui e resto qui, sentendo su di me chiara e forte tutta la responsabilità che mi viene dalla fiducia e dal voto dei cittadini. Resto in campo, più convinto che mai di dover combattere fino alla fine per veder prevalere quello in cui credo profondamente". "Anche coloro che fino ad oggi disgustati, delusi, impauriti, si sono tenuti lontani dalla politica, oggi hanno il dovere di dare il proprio contributo per difendere la nostra libertà che è a rischio. Pochi mesi fa ho chiesto a tutti i moderati di scendere in campo con me. Di fronte a voi - insiste il Cavaliere - lo chiedo con ancor più vigore e convinzione perché voi siete uomini di diritto e avete chiaro quel che è successo e sta succedendo nel nostro Paese. Vi chiedo di condividere con noi questa battaglia di libertà e vi garantisco che per questa battaglia io ci sarò sempre fino a quando, come è accaduto fin qui nella mia vita, non avrò vinto anche questa sfida, perché la difesa della libertà è la missione più alta e più nobile che ci sia".

Ruby-ter, ecco l'elenco di tutti gli indagati, scrive “Libero Quotidiano”. Le toghe di Milano fanno le cose in grande. Eccoci al terzo filone del processo Ruby, il Ruby-ter appunto, una buona occasione per indagare ancora Silvio Berlusconi. Il Cavaliere finisce nel mirino per corruzione in atti giudiziari (secondo i giudici avrebbe indotto alla falsa testimonianza diversi teste del processo Ruby), e con lui finiscono nel mirino a vario titolo (il più gettonato dei quali è proprio la falsa testimonianza) la bellezza di 45 persone. Far le cose in grande, appunto. Tra gli indagati c'è proprio Ruby, Karima El Marough, la ragazza che ha dato il suo nome a tutto il baraccone processuale. Quindi gli avvocati di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo. Dunque avanti con le Olgettine, in ordine sparso: Roberta Bonasia, Claudia Ioana, Iris Berardi, Lisney Barizonte, Francesca Cipriani, le gemelle Eleonora e Concetta De Vivo, Arisleida Espinosa, Barbara Faggioli, Manuela e Marianna Ferrera, Marystelle Polanco, Raissa Skorkina, Giovanna Rigato. La colpa di queste ragazze? Dissero che quelle di Arcore erano normalissime cene, senza niente di osè né di pornografico, e ora si ritrovano indagate. Nell'elenco redatto dal pool di Milano c'è poi Luca Giuliante, l'ex legale di Ruby, Mariano Apicella, lo chansonnier del Cavaliere, e anche le giornaliste di Mediaset Elisa Toti e Silvia Trevaini. Per non farsi mancare nulla, viene indagato anche il pianista delle serate ad Arcore, Danilo Mariani, l'ex fidanzata dell'attuale compagno di Ruby, Serena Facchinieri e l'ex massaggiatore del Milan nonché ex consigliere regionale Giorgio Puricelli. Quindi un indagato politico, ossia l'ex viceministro agli Affari Esteri, Bruno Arachi. Non poteva mancare - e qui abbandoniamo la politica - la bella Michelle Conceicao, la brasiliana che la sera del 27 maggio chiamò Berlusconi per dirgli che Ruby era stata portata in questura. Ancora qualche nome: tra gli indagati anche il padre di Ruby, poi Luca Risso, il compagno della marocchina, ed altri nomi politici, come quello di Maria Rosaria Rossi, di Licia Renzulli e di Valentino Valentini. Infine Giorgia Iafrate, la funzionaria della questura che si trovò di fronte Ruby nella notte tra il 28 e il 29 maggio, e Carlo Rossella, il giornalista "reo" al pari di tutti gli altri di aver preso parte alle serate arcoriane.

La Boccassini fa la gaffe al processo: "Ruby intelligente perché levantina". Ma il Marocco è ad ovest...scrive “Libero quotidiano”. Il pm in aula per la requisitoria finale parla della ragazza: "E' intelligente, di quell'intelligenza tipica orientale". Regalate a un atlante geografico ad Ilda Boccassini. Il pm è talmente impegnato nella sua requisitoria finale, per chiedere alla Corte la condanna del Cav con le improbabili accuse sul caso Ruby, che deve aver scordato quando a scuola studiava i punti cardinali, nord, sud, ovest, est. Così durante il suo intervento in aula per il processo Ruby, la Boccassini inciampa su una gaffe e afferma: " E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema". Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi". "In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo"Qualcuno spieghi alla Boccassini che Ruby è marocchina. Il Marocco geograficamente è in Nord Africa e sotto la Spagna. I due paesi sono separati dallo stretto di Gibilterra. Evidentemente a furia di stare sulle carte che tentano disperatamente di inchiodare Silvio, il pm ha abbandonato l'atlante. In più dietro quella "furbizia orientale", c'è quasi un giudizio etnico, che ha tanto il sapore di un giudizio sulla "razza" di Ruby. Secondo quali teorie lombrosiane, i marocchini sono più furbi degli europei non è dato saperlo. La Boccassini ne è certa. Gengis Khan e i giapponesi che attaccarono Pearl Harbour forse lo erano. Ma non erano nè marocchini nè egiziani. Eppure la Boccassini, nella foga di mettere in cella Silvio, dimentica i punti cardinali e fa diventare il Marocco un Paese dell'est. Dettagli. La gaffe non è andata giù a Souad Sbai, ex deputata e presidente dell'Associazione delle Donne Marocchine in Italia (Acmid): "Furbizia orientale? Un termine che non è nella maniera più assoluta accettabile". "In tutti questi processi, la cui legittimità rispetto, non ho mai messo bocca - ha continuato Sbai - ma ascoltando una semplificazione così grossolana e così lontana dalla nostra cultura non potevo stare zitta". "Parole come queste, che spero essere frutto di una leggerezza, rischiano di inasprire nell'opinione pubblica un clima già difficile". "L'accostamento fra un'ipotesi di prostituzione e una specifica etnia o cultura - incalza e conclude - è gravissimo: non tutte le donne orientali o arabe tengono atteggiamenti come quelli di cui si sta dibattendo nel processo. A maggior ragione se minorenni, le cui sensibilità sono assai delicate. Mi aspetto un chiarimento pubblico su queste frasi o necessiterà un chiarimento nelle sedi sedi più opportune". La Boccassini, per non farsi mancare proprio nulla, è anche tornata a parlare della manifestazione cui presero parte lo scorso 15 marzo alcuni rappresentanti del Popolo delle libertà. "Quel giorno, quando vidi quell'assembramento di rappresentanti delle istituzioni che chiedevano l'apertura di un'aula, io mi sono sentita smarrita. La pm ha definito una "ingiustificata invasione del palazzo di giustizia" quel presidio di deputati azzurri. Parole che il legale del Cavaliere Niccolò Ghedini ha definito "sorprendenti", spiegando come a parer suo il tribunale debba essere "un luogo aperto ai cittadini e non un fortino". Nella concitazione della requisitoria, dopo ben sei ore a parlare in aula, la Boccassini ha commesso la sua gaffe più grave. Gaffe sì, ma sintomo di quello che è stato definito un "preciso intendimento" della procura milanese: nel chiedere la condanna (ad anni sei di reclusione con interdizione perpetua dai pubblici uffici), Ilda ha infatti detto "lo condanna ad anni sei", prima di correggersi precipitosamente con un "chiede la condanna ad anni sei".

E Sangermano? La gaffe del pm Sangermano al Ruby-bis: "Non si può considerare la Tunini un cavallo di...", scrive “Libero quotidiano”. Il riferimento è a Melania, principale teste dell'accusa nel processo a Fede e Mora. Un attimo prima di pronunciare la fatidica parola, però, il magistrato si ferma. Comunque vadano a finire, i processi denominati Ruby e Ruby-bis saranno ricordati anche (o soprattutto?) per le gaffe dei pm durante le diverse requisitorie. I protagonisti sono Ilda Boccassini e Antonio Sangermano, braccio destro della toga più famosa di Milano. Resterà indimenticabile lo scivolone di Ilda la rossa sulla  "furbizia orientale" di Ruby che di orientale non ha proprio nulla dato che è marocchina e il Marocco è decisamente a Ovest. Una battuta che ha scatenato la reazione delle donne marocchine che si sono sentite offese. Ma anche oggi, nel secondo troncone del processo alla ragazza marocchina, il pm Sangermano non ha fatto rimpiangere la Boccassini, lanciandosi in metafore di dubbio gusto. La prima è quella scagliata all'indirizzo di Emilio Fede e Lele Mora, il cui comportamento nei confronti delle ragazze è stato bollato, con una triste battuta, come "assaggiatori di vini pregiati". La ciliegina sulla torta, a requisitoria ancora in corso, è quella delle 14.10 circa, quando Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. Sangermano non è nuovo a simile a scivoloni simili. Già durante il primo dei processi che vede sul banco degli imputati Ruby, riferendosi all'appunto "4.5 milioni da B." annotato dalla ragazza marocchina sulla propria agenda, le aveva chiesto: "Ma lei cosa faceva, portava avanti una strategia di falsi vantandosi a telefono e poi scriveva anche sull'agenda di dover prendere dei soldi?". Ruby non si è fatta intimorire e si è difesa replicando che vista la portata della cifra, difficile da scordare, non avrebbe avuto motivo per appuntarselo su un'agenda, se non quello di "vantarsene con gli altri". Logica inoppugnabile, ma evidentemente non per Sangermano.

A proposito della Boccassini e della ingiustizia altrui.

Filippo Facci: così la Boccassini smaschera 20 anni di balle dell'antimafia. La Boccassini e l'antimafia: "Già nel '94 scrissi che il pentito Scarantino mentiva. Ma i pm non mi hanno voluto ascoltare...". È vero, Ilda Boccassini l’aveva detto che il pentito Vincenzo Scarantino era un falso pentito che mentiva e depistava: lo scrisse in una relazione del 12 ottobre 1994, come Libero ha ricordato più volte. Ma altri segnali certo non erano mancati, anche se i campioni dell’antimafia - ora santificatori del pm Nino Di Matteo - hanno fatto finta di niente per quasi vent’anni. L’altro giorno, in ogni caso, il procuratore Boccassini ha testimoniato al millesimo processo per la strage di via D’Amelio e ha puntualizzato per bene: «Se all’epoca la mia relazione fosse stata presa in considerazione, forse non saremmo a questo punto. Perplessità sulla caratura del personaggio ne avemmo da subito... stava raccontando un sacco di fregnacce, ed era pericoloso». Parla di Vincenzo Scarantino,  falso pentito che per infiniti anni fu accreditato da investigatori e giudici - in particolar modo dal pm Nino Di Matteo - ma che si era inventato tutto e cercò pure di ritrattare, ma gli fu regolarmente impedito. Un depistaggio? Un’oscura manovra di cui furono vittime, oltre alla verità, anche Di Matteo e gli altri pm che indagavano su via D’Amelio? Un complotto, cioè, ordito in primo luogo dall’allora questore Arnaldo La Barbera, investigatore morto nel 2002 e oggi obliquamente accusato? «Il dominus dell’indagine resta sempre il pm, mai l’investigatore», ha detto la Boccassini ai giudici, «e sono i pm che devono aver deciso di andare avanti con Scarantino». Peraltro La Barbera, ha fatto capire il procuratore, di dubbi su Scarantino ne aveva a sua volta. Dunque vediamoli, questi dubbi e segnali che sono stati ignorati per anni - dai pm, dai processi e dalla stampa antimafia - al prezzo di undici processi inutili e di ergastoli affibbiati a innocenti. 

1993. Compare Vincenzo Scarantino, meccanico semianalfabeta del rione Guadagna, drogato, riformato per schizofrenia, sposato ma anche fidanzato con transessuali, ritenuto credibile anche se i boss Salvatore Cancemi e Mario Di Matteo e Gioacchino La Barbera diranno che non l’avevano mai sentito nominare. Giovanni Brusca, in aula, dimostrerà che Scarantino fu da subito un ballista spaziale, un palese balordo che tuttavia convinse i giudici d’essere l’uomo che Totò Riina incaricò di una delle stragi più importanti della storia d’Italia, quella che uccise Paolo Borsellino. Ma fu lo stesso Scarantino, già nel 1993, a raccontare che i poliziotti l’avessero indotto a false accuse: «Mi ficiru inventare tutti ‘i cosi...’u verbale lu fici iddu poi mi fici firmare...». Traduzione: mi hanno fatto inventare tutto, il verbale lo hanno fatto, e poi me lo hanno fatto firmare. Ma fa niente. Il processo di primo grado seguirà comunque il suo corso e Scarantino sarà condannato a 18 anni, con l’ergastolo per i complici che aveva dapprima indicato. Le sue ritrattazioni non interessavano. 

1994. Ilda Boccassini, pm applicata per due anni in Sicilia, scrive la citata relazione dopo aver personalmente interrogato Scarantino: è un mentitore, non c’è da fidarsi - scrive assieme al collega Roberto Saieva. Durante l’estate il pm si rende disponibile a cercare i riscontri che potessero smascherare definitivamente Scarantino, ma il procuratore Capo Giovanni Tinebra le risponde che non è necessario. Un vertice per valutare le incongruenze di Scarantino viene rinviato di continuo, e non ci sarà mai. Sinché la Boccassini riparte per Milano e le sue indagini sono continuate da Carmelo Petralia, Annamaria Palma e Antonino Di Matteo.

1995. Alla giornalista Silvia Tortora venne recapitata una vecchia lettera poi diffusa dall’allora onorevole Tiziana Maiolo: l’aveva scritta la moglie di Scarantino e si accusava gravemente il questore Arnaldo La Barbera di aver costretto il marito a false confessioni con «vere e proprie torture». La stessa moglie testimonierà che prima di ogni udienza, a casa loro, si presentavano degli individui per un ripasso delle cose da dire in udienza. La prospettiva che possa crollare il castello istruttorio costruito attorno a Scarantino, tuttavia, sembra terrorizzare la procura palermitana retta da Gian Carlo Caselli: è lui, in luglio, a convocare i giornalisti e a parlare di notizie «inquinate e inquinanti» e di «una campagna di delegittimazione contro i collaboratori di giustizia». La difesa del «superpoliziotto» La Barbera, quel giorno, è spettacolare e vi partecipa anche il prefetto Achille Serra: «Conosco La Barbera da tanti anni, è un funzionario leale e un grande investigatore». Aggiunge il procuratore generale Antonino Palmeri: «Barbera ha tutta la nostra solidarietà». Insiste Caselli: «È inaccettabile e calunnioso... il dottor La Barbera quotidianamente dimostra la sua trasparenza e il suo coraggio». Sempre in luglio, il 26, la procura di Caltanissetta ordina di distruggere una duplice intervista che Studio Aperto aveva appena fatto a Scarantino: un’intervista in cui Scarantino diceva la verità, o qualcosa di molto simile. Il falso pentito aveva raccontato ai giornalisti che fu torturato nel carcere di Pianosa e la sua deposizione fu tutta una montatura. Notevole che Scarantino fu costretto a rivolgersi a una tv Mediaset perché tutta la stampa «antimafia» era in linea con le procure e i loro sostituti: in ogni caso l’intervista sparì perché la magistratura la fece sequestrare. Non solo. La Procura di Caltanissetta ordinò di distruggere le cassette e poi convocò Scarantino perché ritrattasse la ritrattazione. Scarantino lo fece. Fu aperta addirittura un’inchiesta «per accertare eventuali comportamenti illeciti per convincere Scarantino a ritrattare». La verità morì quel giorno, con la collaborazione decisiva delle procure: misero a tacere ciò che si sarebbe scoperto - ufficialmente - quasi vent’anni dopo.

1998. Ogni dubbio su Scarantino viene tacitato assieme ai suoi tentativi di ritrattare. Dice il pm Palma sul Corriere della Sera del 16 settembre 1998: «Dietro questa ritrattazione c’è la mafia... Cosa nostra ha trovato un’altra strada, dimostrando di sapersi adeguare». Dice il pm Antonino Di Matteo in una requisitoria: «La ritrattazione dello Scarantino ha finito per avvalorare ancor di più le sue precedenti dichiarazioni... L’avvicinamento dei collaboratori per costringerli a fare marcia indietro è diventata una costante nella strategia di Cosa nostra... Lo sparare a zero sui pubblici ministeri, l’accusarsi di precostituirsi arbitrariamente le prove a carico dei loro indagati, è diventato una sorta di sport nazionale praticato non tanto dai pentiti, ma da molti di coloro che hanno lo scopo di fare esplodere il sistema giudiziario». Eppure altri dubbi saranno palesati anche dal giudice Alfonso Sabella, dall’informatico Gioacchino Genchi e dal collaboratore di Borsellino Carmelo Canale. Il senatore Pietro Milio della lista Pannella, nel febbraio 1999, presentò un’interrogazione al Guardasigilli per via di un verbale - reso da Scarantino nel 1994 - che era pieno di annotazioni e correzioni poi regolarmente recepite. Non ebbe risposta. Eppure, sempre nel 1998, Scarantino mette ancora a verbale: «C’era la dottoressa Palma che mi diceva le domande che mi doveva fare l’avvocato… Mi preparava delle cose che io dovevo rispondere l’avvocato, e già io avevo la cosa come rispondere». Vero, falso? Non interessava. Ogni rilievo veniva accusato di mafiosità e di «delegittimazione della magistratura». 

2008. Per far luce su via D’Amelio, 17 anni dopo la strage, compare il pentito Gaspare Spatuzza: e cambia tutto. L’uomo dimostra di aver guidato personalmente la Fiat 126 al tritolo che uccise Borsellino. In pratica tutti i processi già celebrati - Borsellino primo, Borsellino bis, Borsellino ter, vari appelli e cassazioni - diventano spazzatura, un pattume avvalorato soltanto dalla testimonianza di un uomo che pure, per 17 anni, aveva disperatamente cercato di spiegare che di pattume si trattava e che c’erano in carcere degli innocenti condannati all’ergastolo. La Corte d’Appello di Catania dovrà liberarli tutti nell’autunno 2010.

2009. Ma intanto un sodale di Scarantino, Salvatore Candura, racconta ai pm di Caltanissetta che il questore La Barbera, prima di un interrogatorio con Ilda Boccassini, gli aveva intimato di continuare a incolpare Scarantino: in cambio, La Barbera gli avrebbe fatto avere degli aiuti. Pochi mesi dopo, in luglio, un altro teste, Francesco Andriotta, conferma tutto. Nel settembre successivo tocca a Scarantino a rimettere ancora una volta a verbale che lo avevano seviziato perché dicesse il falso. Va ricordato che nel frattempo La Barbera, nel 2002, era morto. Nel frattempo il fronte mediatico-giudiziario dell’antimafia corre ai ripari. Scarantino viene progressivamente indicato come uno strumento innestato dai «trattativisti» di Stato per depistare la verità dalle indagini su via D’Amelio: anche se, come visto, la patente di affidabilità di questo personaggio fu rilasciata proprio da chi ora denuncia il depistaggio: e uno è paradossalmente il pm Di Matteo, che oggi istruisce il processo sulla «trattativa» e forse dovrebbe interrogare se stesso.

Povero Berlusconi: ha contro i magistrati ed ha contro i mafiosi.

Riina: "Appena esco dal carcere ammazzo Berlusconi". E su Barbara...... Il "Capo dei capi" di Cosa Nostra vuole "Silvio morto". Con un compagno di cella afferma: "Ho un diritto con lui, lo dobbiamo ammazzare". Poi parla di "Barbarella", scrive “Libero quotidiano”. "Appena sono fuori lo ammazziamo". Totò Riina in una intercettazione ambientale nel carcere di Opera discute col suo vicino di cella Alberto Lo Russo e svela il suo piano per uccidere il Cav. Il 6 agosto scorso Riina chiede a Lorusso cosa dicono i telegiornali di quel “buffone” di Berlusconi. Il boss pugliese risponde che a Roma “stanno vedendo come fare per salvarlo “. E a questo punto Riina si lancia in un’altra delle sue invettive: “Noi su Berlusconi abbiamo un diritto: sapete quando? Quando siamo fuori lo ammazziamo”. E subito dopo: “Non lo ammazziamo però perché noi stessi non abbiamo il coraggio di prenderci il diritto”. Poi rispondendo alle parole di Alberto Lorusso, che lo aggiorna sulle ultime notizie su Berlusconi, il capomafia di Corleone scuote la testa e dice: "se lo merita, se lo merita. Gli direi io ma perchè ti sei andato a prendere lo stalliere? Perchè te lo sei messo dentro?". Secondo gli investigatori, Riina fa riferimento a Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, condannato per mafia, morto qualche anno fa. Sempre parlando di Mangano, Riina in quella stessa conversazione, parte della quale omissata dai magistrati della Dda, aggiunge poi: "Era un bravo picciotto (uomo ndr. Mischino (poverino ndr), poi si è ammalato ed è morto". Infine il boss dei boss ne ha pure per la figlia del Cav, Barbara Berlusconi: "Minchia.... Barbarella, Barbaretta, sta Barbarella è potentosa come suo padre, perchè si è messa sotto quello lì... Lui era un potente giocatore e non ha potuto giocare più, lui dice che vuole venire di nuovo". Insomma a quanto pare dalle intercettazioni pubblicate da Repubblica, il "Padrino" vuole la testa di Silvio e anche la "famiglia Berlusconi" pare essere nei pensieri del boss. Eppure i grillini in Parlamento hanno chiesto che al Cav venga revocato il servizio di sicurezza. Per fortuna la richiesta dei pentastellati non è stata accolta. Sarebbe stato un assit perfetto per i piani di Riiina. 

Riina al boss della Scu «Con Capaci e via D'Amelio ho vinto da strafare», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal delitto Dalla Chiesa, al papello. Da Lima e Andreotti al caso Ruby. E ancora i boss vicini ai servizi segreti e il compiacimento per la strage di Capaci. Totò Riina è un fiume in piena. Nelle ore di socialità che condivide col capomafia pugliese Alberto Lorusso parla a ruota libera di tutto. Attualità, storia della mafia, morti eccellenti. Parole, sprezzanti, irridenti quelle del padrino di Corleone incalzato dal compagno di carcere, un personaggio tutto da decifrare, che sembra spingerlo continuamente a parlare. Lo imbecca, lo provoca. Duro il racconto dell’attentato al generale Carlo Alberto dalla Chiesa di cui Riina si assume l’esclusiva paternità. "Loro sono convinti che a uccidere il padre fu lo Stato – dice alludendo ai figli del generale". "Ma c'è solo un uomo e basta. - dice in un delirio egocentrico – Ha avuto la punizione di un uomo che non ne nasceranno più". L'eliminazione dell’ex prefetto di Palermo il boss l’avrebbe decisa appena saputo del suo incarico siciliano. "Quando ho sentito alla televisione che era stato promosso prefetto di Palermo per distruggere la mafia ho detto: prepariamoci. Mettiamo tutti i ferramenti a posto, tutte le cose pronte per dargli il benvenuto", racconta. Poi i riferimenti alla lotta al terrorismo condotta da Dalla Chiesa e all’incapacità dei brigatisti rossi di eliminarlo. Missione riuscita a Cosa nostra anche grazie all’aiuto di talpe, fa capire il padrino di Corleone, che racconta i pedinamenti organizzati prima dell’omicidio. Nelle "esternazioni" di Riina non mancano riferimenti all’attualità: al caso Ruby ad esempio. "Mubarak, Mubarak – dice riferendosi alla versione data dall’ex premier sulla ragazza marocchina- che disgraziato". "Veda che -spiega riferendosi probabilmente all’ex premier di cui parla spesso- è un figlio di puttana che non ce ne è (come pochi ndr)". Anche per la figlia dell’ex presidente del Consiglio Barbara Riina ha un commento. "Barbarella è potentosa come suo padre", dice. Un riferimento si trova anche agli investimenti mafiosi nelle attività di Berlusconi. Ma Riina sembra non sapere nulla di preciso. Nei loro lunghi dialoghi i due carcerati fanno, poi, spesso riferimento alla strage di Capaci. "Ho vinto da strafare", esulta. Poi Riina racconta all’amico come seguì in tv la cronaca dopo l’attentato. "Mentre era al telegiornale...sono feriti lui e la moglie. Minchia feriti! Poi nel mentre il telegiornale: è morto Falcone. Ti metti là minuto per minuto, no? Ci siamo! Ci siamo! Ci siamo!", dice. "Minchia ho detto – racconta – ma guarda che bordello. La moglie è viva, è viva. Dopo dieci minuti dice l’hanno ammazzata pure". Spesso il boss corleonese fa riferimento a politici nazionali: come Giulio Andreotti che definisce "il più grande politico di sempre. Berlusconi di fronte ad Andreotti è come le formiche nell’olio", dice. Mentre sull'ex Guardasigilli Claudio Martelli è durissimo: "Minchia si è preso i voti nostri e dietro ce l’ha messa". Non è chiaro se Riina parli sapendo di essere intercettato. Se da un lato si autoaccusa di omicidi, eccellenti e non, stragi e complotti, dall’altro però smentisce uno dei capisaldi della tesi dei pm sull'esistenza della trattativa Stato-mafia: il papello, l’elenco con le richieste del boss per fare cessare le stragi. Il capomafia nega di averlo mai consegnato ad alcuno e definisce il pentito Giovanni Brusca, che racconta proprio del papello, un "pallista". Giudizi poco lusinghieri dà anche di un altro testimone dell’accusa, Massimo Ciancimino. Tantissimi gli spunti anche alla famiglia, ai figli. E’ di oggi peraltro la notizia della conferma della condanna all’ergastolo del primogenito Giovanni per alcuni omicidi di mafia. E non mancano cenni alla sua latitanza: Riina si vanta di averla passata da uomo libero fino al 15 gennaio del 1993, giorno del suo arresto. Da oggi il capitano dei carabinieri che lo catturò, Sergio De Caprio, in arte "Ultimo", è senza scorta.

Chi è il boss Lorusso, confessore di Totò Riina, scrive Mimmo Mazza su  “La Gazzetta del Mezzogiorno”. L’uomo misterioso non nasconde alcun mistero. Il potente boss della Sacra Corona Unita protagonista delle chiacchierate intercettate con il capo dei capi Totò Riina in realtà con la Sacra corona unita non ha mai avuto a che fare, né tantomeno ha mai avuto solide e penalmente rilevanti frequentazioni nella provincia di Brindisi. Sono giorni che di Alberto Lorusso, 55enne nato a Montemesola ma grottagliese di adozione, si legge e si dice tutto e il contrario di tutto, facendo diventare vero il verosimile e sicuro l’incerto. D’altronde i verbali dei dialoghi con Riina, depositati nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia in corso dinanzi alla Corte d’Assise di Palermo, stanno facendo il giro del mondo. Per il loro contenuto, ogni giorno, come dire, più esplosivo, per i toni utilizzati dai due protagonisti, assai a loro agio del discettare praticamente di tutto lo sciibile italiano. Lorusso è detenuto, da un mesetto, nel carcere di Cuneo, dopo la parentesi con Riina nella casa circondariale di Opera, a Milano, ed è destinato a restarci ancora per un paio di anni, il tempo necessario per scontare il «continuato» fattogli ottenere dal suo legale Gaetano Vitale per mettere assieme, e ottenere così uno sconto, i 10 anni rimediati nel processo Ellesponto (il grande processo alla mafia tarantina), i 16 anni e 8 mesi per il blitz antidroga Ceramiche e, soprattutto, i 23 anni per l'omicidio di Fulvio Costone, ammazzato il 5 agosto del 1990 nelle campagne tra Pulsano e Grottaglie perché sospettato - senza prove e senza fondamento, si saprà dopo, nel 1997, quando ne furono ritrovati i resti mortali - di aver abusato della sua donna. Fulvio Costone fu fatto salire su un’automobile, subì una sorta di terzo grado, poi fu ucciso con un colpo a bruciapelo sparatogli alla tempia con un revolver, e il suo corpo fu inabissato in un pozzo fuori uso, nelle campagne di Montemesola. Furono i pentiti a raccontare agli inquirenti che era stato proprio Lorusso a volere il delitto, anche per un regolamento di conti relativo ai traffici di droga.

La Cancellieri non serve, scrive Filippo Facci su “Liberto Quotidiano. Le lagne di chi non vuole cambiare il carcere preventivo sono vergognose e basta, non c’è da fare dibattiti, non è uno scontro tra visioni procedurali: è uno scontro ventennale tra chi vuole tentare di migliorare le cose e chi invece non vuole cambiare nulla, anzi, vuole continuare a servirsi comodamente del potere più delicato del mondo - togliere la libertà altrui - per coprire le proprie pigrizie investigative e per vellicare le depressioni del forcaiolo italiota, del servo di procura, dell’infangatore professionale. È da trent’anni che la custodia cautelare dovrebbe essere «extrema ratio» e invece è regola: e questo perché i magistrati se ne fottono, punto, tanto nessuno li punisce, ri-punto: nelle nostre galere ci sono 13mila persone metà delle quali, statisticamente, sarà assolta dopo il primo grado e dopo ingiusta detenzione. Abbiamo 27mila detenuti in attesa di giudizio (anche se l’Italia ha un tasso di criminalità tra i più bassi d’Europa) e il perché lo sappiamo tutti: perché i magistrati usano il carcere per dare anticipi di pena o per costringere a confessioni, talvolta per finire sui giornali: mentre pm e giudici stanno solo attenti a non pestarsi troppo i piedi e propongono, per risolvere il dramma della carcerazione preventiva, esattamente questo: niente. Ora hanno paura che si rompa il giocattolo, ma stiano tranquilli: la riforma allo studio è un decimo di quanto servirebbe. La Cancellieri non serve, ne servono dieci.

Va bene così, continua Filippo Facci. Le quotidiane cronache di malagiustizia e detenuti umiliati fanno notizia solo di mezzo c'è un appello a Napolitano. Quel che resta è un recondito senso di schifo. F.Z. ha ottenuto il permesso di far visita alla sua bambina di dieci anni, morente per un tumore all’intestino, ma solo per due ore e rigorosamente in manette. C.F. ha potuto presenziare ai funerali del figlio ma pure lui in manette. R.L. doveva essere trasferita in un ospedale carcerario, essendo gravemente malata, ma per 15 giorni nessuno ha eseguito il provvedimento: ed è morta in cella. A.M. ebbe un malore, e attese i medici per tre ore, poi ebbe un secondo malore ma in infermeria non riscontrarono nulla - pur risultando cardiopatica - e dopo un terzo malore morì in cella. G.d.G. era pure cardiopatico, aveva una valvola mitrale artificiale, era cirrotico e attendeva un trapianto di fegato: gli negarono gli arresti ospedalieri e morì in carcere. Potrei continuare: sono tutti casi che ho raccolto negli anni e che interessavano a politici e direttori a seconda del momento e dell’orientamento del giornale in cui scrivevo. Ieri un paio di giornaloni hanno sollevato un nuovo caso - un malato terminale che non vuole morire in galera, e che si è appellato a Napolitano - e va bene così. Senza Napolitano di mezzo, la storia non sarebbe esistita: ma va bene così. Funziona così, ed è meglio che niente. Anche se un recondito senso di schifo, questa banale e ineluttabile dinamica mediatica, te lo lascia sempre appiccicato addosso.

Parliamo di Antimafia e dell’esigenza di essere sempre sulle prime pagine dei giornali. Bisogna dare un senso alla santificazione dei magistrati, quasi tutti di sinistra. Ed allora, quando la politica con Renzi ha le prime pagine di tv e stampa, ecco che si inventa una minaccia per dare lustro ad una immagine appannata dei magistrati. L’ultima sensazionale minaccia è quella di Totò Riina. Salvatore Riina, soprannominato Totò o ancora Totò u' curtu (Corleone, 16 novembre 1930), è un criminale italiano, legato a Cosa Nostra e considerato il capo dell'organizzazione dal 1982 fino al suo arresto, avvenuto il 15 gennaio 1993. Viene indicato anche con i soprannomi U curtu, per via della sua statura e La Belva, adottato per indicare la sua ferocia sanguinaria. Un vecchio rinchiuso in un carcere di sicurezza dallo Stato. Lo Stato del quale parlo è quello che, in base al regime del 41 bis, tiene 24 ore su 24 sorvegliato Riina, in isolamento, e con il divieto assoluto di comunicare con l'esterno. Proprio in considerazione di questo, il giornalista del «Giornale di Sicilia» Vincenzo Marannano, conclude: «Chi diffonde i suoi messaggi non aiuta in qualche modo a veicolare i suoi ordini? E non può quindi essere accusato di favoreggiamento?». Comunque un dato è rilevante: può lo Stato, dico lo Stato, avere paura di un vecchio rinchiuso da decenni in un carcere? Può un solo magistrato essere tanto osannato e protetto rispetto ad altri suoi pari che svolgono il suo stesso lavoro e ricevono le stesse minacce? La storia parla chiaro: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono morti solo perché è lo Stato e la Magistratura che li ha uccisi, abbandonandoli al loro destino, lasciandoli soli, emarginandoli. Quello Stato e quei magistrati che invece avrebbero dovuto difenderli e tutelarli. Ma tanto, in una Italia caposotto, la verità sarà sempre stravolta.

Quando la mafia si combatte soltanto a parole. Nessuno torcerà un capello a Nino Di Matteo. E la ragione è evidente. La mafia uccide (non solo d'estate) e non annuncia. Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Nessuno torcerà un capello a Nino Di Matteo. E la ragione è evidente. La mafia uccide (non solo d'estate) e non annuncia. C'è qualcosa di inquietante nell'attrazione per il martirio che induce a dare pubblicità a notizie riservate, ignorate perfino dai ministri dell'Interno e della Giustizia. Invece di agire, si parla. E si diffondono altre parole, da intercettazioni riservate. Rinunciando a tutela e prudenza si praticano proclami e allarmi. La persona minacciata rilascia interviste, stuzzica lo Stato, pretende solidarietà e convocazioni. Se Napolitano tace è perché è il garante dell'innominabile patto Stato-mafia, anzi della «trattativa». Non lo dice un facinoroso, ma il fratello di un magistrato ucciso dalla mafia, che non conosce limiti e pudori, e tanto meno senso dello Stato. È tollerabile che su un quotidiano nazionale Salvatore Borsellino dichiari: «Napolitano è garante di quella trattativa Stato-mafia sulla quale è oggi in corso un processo che si vuole fermare»? Naturalmente il processo è quello voluto da Di Matteo, che ha comunque ragione perché è stato minacciato. E Borsellino può continuare affermando: «Abbiamo un capo dello Stato che da più di 20 anni copre la congiura del silenzio sui patti scellerati tra Cosa Nostra e le istituzioni». È possibile accettare queste posizioni senza che nessuno, un altro e diverso Di Matteo, apra un'inchiesta per vilipendio al capo dello Stato? Per una dichiarazione non sua, su un magistrato, il vituperato Sallusti è stato condannato a un anno di reclusione. Borsellino invece può dire ciò che vuole. Io non considero Napolitano garante di alcuna trattativa, ma semplicemente amico del «suo» vicepresidente del Csm Nicola Mancino. Ma chi minaccia Di Matteo? Il pericolosissimo Totò Riina? E qual è il suo potere reale? Da 20 anni sta in un carcere di massima sicurezza. Ogni sua azione e ogni suo pensiero sono controllati. Chi dovrebbe ascoltarlo e mettere in atto i suoi propositi, i suoi ordini espressi in sfoghi privati che mai non conosceremmo se non fossero stati intercettati e scelleratamente resi pubblici? Gli unici complici che ha Riina sono i magistrati che diffondono i suoi pensieri. Se Riina è reso inoffensivo dallo Stato che lo ha arrestato, perché dobbiamo ritenerlo pericoloso e potente anche in carcere? Perché dobbiamo alimentarne la leggenda? Riina non è, se non nelle intenzioni, nemico di Di Matteo. Nei fatti è suo complice. Ne garantisce il peso e la considerazione. La mafia firma un crimine, non lo annuncia. Il rischio della tutela eccessiva dei diritti è il ridicolo. Tra le tante categorie che chiedono attenzione per non essere discriminate viene difficile immaginare che ci siano anche gli «ambasciatori gay». Senza molta diplomazia, alcuni di loro hanno chiesto che a chi, tra gli ambasciatori, ha un compagno omosessuale, venga garantito lo stato di «coniuge». Gli ambasciatori hanno moglie o marito con passaporto diplomatico, assicurazione sanitaria, rimborso delle spese di viaggio, oltre all'indennità per servizio estero, quando, al pari di un coniuge, il «compagno» o la «compagna» non abbiano lavoro autonomo. Che dire nel caso in cui il lavoro fosse di scrittore o giornalista?

«In riferimento all'articolo dal titolo «Stato-mafia, Sgorbi Quotidiani: "Riina complice di Di Matteo"», a firma di Claudio Forleo, pubblicato in data 03.01.2014 sul sito http://it.IBTimes.com [...], si chiede la pubblicazione della seguente lettera di rettifica e replica: Coloro che mi hanno verbalmente aggredito, non hanno ancora contraddetto le analoghe osservazioni del Procuratore Antimafia. Io non mi farò intimidire dal loro squadrismo. Alla luce di questa idea dello Stato, nel quale  mi rispecchio, e che ritengo più forte della mafia, io non mento. Mente Salvatore Borsellino, esattamente «facinoroso», sospettoso dello Stato, anche nei suoi vertici più alti, come il Presidente della Repubblica, e che non è giustificato, nella offesa, da essere fratello del magistrato Paolo Borsellino. Lo Stato del quale parlo è quello che, in base al regime del 41 bis, tiene 24 ore su 24 sorvegliato Riina, in isolamento, e con il divieto assoluto di comunicare con l'esterno. Proprio in considerazione di questo, il giornalista del «Giornale di Sicilia» Vincenzo Marannano, conclude: «Chi diffonde i suoi messaggi non aiuta in qualche modo a veicolare i suoi ordini? E non può quindi essere accusato di favoreggiamento?» E' esattamente il mio pensiero, evidentemente legittimo. Lo Stato non è colluso se non nella ipotesi di Di Matteo, già smentito da altri magistrati che hanno assolto Mori, negando la presunta «trattativa tra Stato e mafia». Ma non si può dire e neanche pensare. Allo stesso modo nessuna valutazione, in quanto tale, e non per sentito dire, può essere falsa, ma, semmai, opinabile. Né può essere contestato il mio diritto di parlare con argomenti insensati. Siamo o eravamo in democrazia. Io non «ignoro» e non faccio «finta di ignorare» che Di Matteo è sotto minaccia da oltre un anno, come lo è Domenico Gozzo, ma anche io lo sono stato, e non ho chiesto particolari protezioni avendo denunciato gli sporchi affari della mafia nella cosiddetta «energia pulita». E, benché sotto scorta, non ho avuto alcuna solidarietà. Evidentemente, in quel caso, l'azione della mafia non era ritenuta preoccupante. E si trattava di minacce trascurabili, diversamente da quelle a Di Matteo. Nessuno, tra gli «specialisti dell'antimafia», ha osservato che, se non per retorica, non c'era alcun elemento di riscontro per sciogliere Salemi per infiltrazioni della criminalità organizzata. Non esiste a Salemi «criminalità organizzata», e l'inchiesta indiziaria contro uno non può essere assimilata a nessuna associazione, né diretta né per concorso esterno. Anche questa è una grave anomalia: l'espressione di uno Stato che agisce sotto la pressione di chi possiede la verità rivelata. Per questo ribadisco, con forza, e pretendendo davanti a un Tribunale, che le mie affermazioni siano rispettate. Punto primo. Siamo di fronte a un'impostura. E siccome lo Stato è anche il mio Stato, io non intendo che nessuno lo umili in nome di una sua personalissima lotta alla mafia, di cui non discuto la buona fede, ma la sostanza delle affermazioni. Che, che se appassionate, possono essere false. Anzi, sono false. Per questo fra il Presidente Napolitano e Salvatore Borsellino, io sto con Napolitano, e ne ho tutto il diritto. Mentre Salvatore Borsellino non ha il diritto, in nome della morte di suo fratello, di fare affermazioni senza fondamento, del genere di quella intollerabile, e nemica dello Stato quanto lo è la mafia (e non giustificata dal martirio di Paolo Borsellino): «Da 20 anni Napolitano è il garante della trattativa Stato-Mafia». E siccome sono convinto di quello che dico, e ho fiducia nella magistratura quando essa agisce in nome della verità, ho dato mandato al mio avvocato, come cittadino di questo Stato, di denunciare anche Salvatore Borsellino per vilipendio al Capo dello Stato. Sarà dunque un Tribunale, e non un sito autoproclamatosi «antimafia»,  a stabilire quale è la verità. E se Napolitano sia stato il garante della trattativa Stato-Mafia. Punto secondo. Siccome nessuno ha più titolo di altri, se non rispetto alle cose che ha fatto, e alle esperienze politiche di vita, di dichiararsi «rappresentante dell'antimafia», «sindaco antimafia» e altre suggestive formule, dovrebbe essere stata una sufficiente lezione vedere i recenti casi in cui chi si è rispecchiato in queste categorie, e lo ha manifestato pubblicamente, sia stato scoperto per il suo inganno. Dunque non ho alcuna fiducia in chi fa proclami e pretende di avere più titoli e dignità di me, insultandomi e aggredendomi. Ognuno ha diritto di esprimere le proprie opinioni, ma non esiste qualcuno che ha un'investitura con libertà d'infamare, di mentire e d'insultare. Io ho espresso una opinione discutibile, ma per smontarla occorre dimostrare il contrario. Non farsi forte di un presunto diploma o attestato di antimafia che può essere miseramente e tristemente sconfessato. Punto terzo. Sono fermamente convinto che il Pm Di Matteo non corra reali rischi. E credo di poterlo dire. La mafia non avvisa, ma soprattutto, chi è minacciato, non deve necessariamente farlo sapere, ne è opportuno che intercettazioni o notizie riservate siano fatte circolare per creare allarme. Ho espresso molti dubbi sul potere attuale e reale di Totò Riina. Ritengo che una dichiarazione o uno sfogo non coincidano con una minaccia sostanziale da parte di chi è in stato di cattività e isolamento. Ognuno può decidere di dare il peso che desidera alle parole di un criminale in carcere. Mi chiedo però perché, superata l'attività di magistrato, non debba correre lo stesso rischio Antonio Ingroia, del quale nessuno sembra preoccuparsi. La mia sensazione è che, per mostrarsi al centro di una possibile azione criminale, Di Matteo abbia come obiettivo di affiancarsi  ai martiri Falcone e Borsellino. Ma in una situazione nella quale non s'intende da dove arrivi il pericolo, e si può pensare che il magistrato, mostrandosi in una strada senza uscita e in condizioni di pericolo, mediti di entrare in politica, come il suo collega. In tal caso le minacce paventate aumentano la popolarità e credibilità. Ma il rischio vero è molto discutibile, come ha ricordato, del resto, il Procuratore Nazionale antimafia. E io sono assolutamente certo, ma tutto è discutibile, che nessuno torcerà un capello a Di Matteo. Questo è il mio pensiero, e non vedo perché, averlo espresso, mi abbia esposto a insulti inaccettabili e per i quali promuoverò l'azione penale confidando nell'equilibrio dei magistrati che si occuperanno del caso. Vittorio Sgarbi».

Ci limitiamo a mettere in parallelo due notizie, scrive Filippo facci. La prima la sapete, Grillo ha chiesto alle Forze dell’ordine di non proteggere più la classe politica, tutta, indiscriminatamente: e l’ha chiesto nel periodo degli ultimi quarant’anni in cui l’odio per la classe dirigente è in assoluto più forte, col movimento dei forconi che semina tempesta e un movimento di coglioni che si aggrega e spacca tutto. Avrete orecchiato anche la seconda notizia: per gli spostamenti del pm siciliano Nino Di Matteo, a proposito di sicurezza, si è invece valutato l’utilizzo di un carro armato modello Lince (già usato in Afghanistan) e anche di un bomb-jammer, avveniristico marchingegno che neutralizza i dispositivi attivabili con telecomando. Il dettaglio, a margine delle due notizie, è che l’odio antipolitico è un dato palpabile e certo, mentre le minacce a Di Matteo non sono certe manco per niente: gli stessi giornali che hanno montato il caso ammettono che «si sa poco» e citano delle frasi genericissime di Totò Riina, intercettato in carcere - pare - anche se il ministro Anna Maria Cancellieri ha dichiarato che «non esistono minacce esplicite di Riina nei confronti di magistrati». Tanto è bastato perché una cronista del Fatto Quotidiano scrivesse su Twitter: «Che razza di Stato è questo che permette alla mafia di condizionare l’attività dei suoi servitori... Vergognatevi, peracottari da strapazzo». Colpa dei politici. Di che? Non sappiamo, ma è colpa loro.

MAI DIRE ANTIMAFIA.

«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia.

«Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione».  

"Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo, tutt'altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il dibattimento". Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su "La Gazzetta del Mezzogiorno”, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere comunale. "Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti". "Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il processo" commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. "Sempre nel pieno rispetto del lavoro della magistratura - prosegue Iurlaro – trovo comunque discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene. Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti coinvolti nella vicenda". Iurlaro si dice quindi "ottimista", confidando che "l'intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine, nel più breve tempo possibile".

Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario Tano Grasso.

Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” - risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “ Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro ) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.

Antiracket, i conti non tornano scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.

COSI’ SI UCCIDE UN ITALIANO. FABRIZIO QUATTROCCHI.

Quattrocchi "un italiano vero e orgoglioso": a 10 anni dalla morte in Iraq parla la sorella, scrive “Libero Quotidiano”. A quasi dieci anni dall'assassinio di Fabrizio Quattrocchi, guardia di sicurezza privata italiana, ucciso in Iraq il 14 aprile del 2004 dove lavorava per una compagnia militare privata, parla la sorella Graziella. E lo fa con un'intervista su la Repubblica. Graziella ricorda il video della sua esecuzione per mezzo dei terroristi che ha fatto il giro del mondo. In quel video, afferma Graziella, Fabrizio ha dimostrato di "essere un ragazzo leale, un italiano vero". Con l'intento di osservare i suoi esecutori in faccia, con la richiesta di levarsi la kefiah che gli copriva il volto per osservarli, e con quella frase "Vi faccio vedere come muore un italiano", ha dimostrato "fierezza per sua italianità".

I giorni precedenti  - "Dieci anni. Sembra un secolo e sembra ieri", rimanda una scritta accanto alla statua che gli hanno dedicato i familiari al cimitero di Staglieno a Genova. Eppure Graziella non ha bisogno di spostare le lancette indietro, per lei il tempo da allora è rimasto fermo. "Lo abbiamo saputo dalla televisione", afferma la donna su Repubblica. "Dicono che la Farnesina ci avesse avvertito, non è vero. Sono stati i giornalisti. Molto spettacolare. Senza pietà. Crudele". Il segnale all'Italia i terroristi l'avevano dato qualche giorno prima, quando le Falange Verdi di Maometto avevano chiesto il ritiro delle truppe italiane dall'Iraq.  "Il 12 aprile era Pasqua, Fabrizio ha chiamato quattro volte. Tranquillo come sempre. Ma ripeteva di avere una gran voglia di tornare a casa. Ancora una settimana o due al massimo, ha detto. Passa un giorno, telefona mio fratello Davide: in tivù dicono che hanno sequestrato quattro italiani in Iraq, c'è anche Fabrizio. Impossibile, ho risposto". Impossibile si perché nessuno sapeva effettivamente dove fosse il 36enne. "Pensavo fosse in Kosovo", ammette Graziella. "In un Paese in guerra no, mai. Forse neppure lui sapeva dove l'avrebbero mandato. Forse era per quello, che sperava di rientrare presto. Ma non voleva spaventarci". Vi faccio vedere come muore un italiano - Poi la domanda: Quante volte ha visto quel filmato? "Una. Era lui, era Fabrizio. Sapeva che lo avrebbero ucciso, che l'Italia non avrebbe mai ritirato i soldati. Che era finita. Però voleva guardare in faccia i suoi carnefici. Un ragazzo leale che amava il suo Paese, fiero della sua italianità. Tutto qui, se vi basta". In realtà la donna non si scaglia contro le logiche irrazionali della guerra, né contro le scelte del governo italiano, ma contro la politica e i giornali. "Lo hanno ucciso due volte. Le speculazioni. La politica. Noi non abbiamo chiesto nulla. Non siamo mai andati in televisione, tranne quando hanno trasmesso il video dell'esecuzione. Mai un'intervista, se non parole rubate con una telefonata e poi travisate. C'è gente che dopo una tragedia si mette in mostra, si lega a questo o quel partito, s'assicura almeno uno stipendio. Noi no. Vogliamo essere lasciati in pace, niente strumentalizzazioni. La dignità. Quella di Fabrizio". Poi continua: "Credo esista un Dio universale, ed evocandolo non si possono giustificare queste atrocità. Tanto dolore in nome della religione non ha senso. Penso che dieci anni fa fossimo tutti impreparati, non si poteva fare di più". Un eroe moderno - E' stato difficile uscire dalla sofferenza. "I primi tre anni è stato come se fossimo morti con lui. Se siamo andati avanti è per le cose che ci ha lasciato. I ricordi che posano sulla sua tomba, la medaglia d'oro al valor civile. Per le lettere che ci sono arrivate in questi anni: il re di Giordania, il sindaco di New York, tanti italo-americani che hanno scritto di essersi finalmente sentiti fieri del loro Paese". Non è da tutti vedere la morte in faccia per giorni e poi essere ucciso senza neanche la possibilità di vedere in volto i suoi esecutori. Quella frase "Vi faccio vedere come muore un italiano" racchiude tutto il coraggio di Fabrizio, il coraggio di un eroe moderno "che a modo suo - come afferma la sorella - ha scritto un pezzo di storia d'Italia". "Vorrei solo che tutti capissero la persona che era. La sua dignità, la coerenza. Vorrei che avesse un posto giusto nel ricordo di tutti. Quello di un vero italiano". 

L'ideologia contro Quattrocchi: "I killer non erano terroristi". La Corte d'Assise riconsidera le motivazioni dell'esecuzione del contractor in Irak. Come se le uniche vite preziose fossero quelle della Sgrena o delle due Simone, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Incredibile e raccapricciante. Non vi sono altri aggettivi per definire le motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Roma che manda assolti due degli assassini di Fabrizio Quattrocchi, la guardia privata rapita in Irak assieme a Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino che il 14 aprile 2004 davanti agli aguzzini pronti a freddarlo con un colpo alla nuca urlò «Vi faccio vedere come muore un italiano». Quell'atto di coraggio e di dignità gli valsero una medaglia d'oro al valor civile che il presidente della Repubblica Azeglio Ciampi così motivò: «Vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l'Italia, con eccezionale coraggio ed esemplare amor di Patria, affrontava la barbara esecuzione, tenendo alto il prestigio e l'onore del suo Paese». Ma gli atti di un Presidente della Repubblica non valgono nulla. Motivando la sentenza che lascia impuniti Ahmed Hillal Qubeidi e Hamid Hillal Qubeidi, due responsabili del rapimento catturati durante la liberazione di Stefio, Agliana e Cupertino, i giudici spiegano che l'identità dei due non è comprovata, il loro collegamento con gruppi eversivi non è evidente e - dulcis in fundo - l'esecuzione non è un atto di terrorismo. Insomma i due imputati, catturati mentre facevano la guardia a Stefio, Agliana e Cupertino, passavano di lì per caso e non sono stati identificati con precisione neppure durante gli anni trascorsi nella galera irachena di Abu Ghraib. I nostri giudici evidentemente la sanno più lunga degli inquirenti americani e iracheni che interrogarono i due imputati vagliandone generalità e responsabilità. Verrebbe da chiedersi come, ma porsi domande troppo complesse non serve. Dietro questa sentenza e le sue motivazioni non c'è il codice penale, ma l'ideologia. La stessa ideologia formulata dal giudice Clementina Forleo che nel gennaio 2005 assolse dall'accusa di terrorismo il marocchino Mohammed Daki e i tunisini Alì Toumi e Maher Bouyahia pronti a trasformarsi in kamikaze islamici in Irak. Nella motivazione del caso Quattrocchi quell'ideologia raggiunge la perfezione. Pur di mandare liberi due assassini i giudici arrivano a mettere in dubbio che l'uccisione di un eroe italiano decorato con la medaglia d'oro sia un atto terroristico. E per convincerci scrivono che «non è chiaro se quell'azione potesse avere un'efficacia così destabilizzante da poter disarticolare la stessa struttura essenziale dello stato democratico». Una motivazione sufficiente a far assolvere anche gli assassini di Moro visto che neppure quell'atto bastò a disarticolare lo stato italiano. Ma i magistrati superano se stessi quando tentano di convincerci che il collegamento dei due sospettati con i gruppi eversivi non è provato. L'assassinio di Quattrocchi viene deciso, come tutti sanno, per far capire al nostro governo che solo accettando il ritiro dall'Irak verrà garantita la salvezza degli altri rapiti. Ma evidentemente ricattare l'Italia uccidendo un suo cittadino e tenendone prigionieri altri tre per 58 giorni non è un atto sufficientemente eversivo. E a far giudicare eversori e terroristi gli assassini di Quattrocchi non basta neanche l'ammissione di uno degli aguzzini che racconta all'ostaggio Cupertino di aver partecipato all'attentato di Nassirya costato la vita a 19 italiani. Quelle per i magistrati sono semplici vanterie. Ma non stupiamoci troppo. Il problema anche qui non è la giustizia, bensì l'ideologia. In Italia, persino nelle aule giudiziarie, qualcuno continua a ritenere che le uniche vite preziose siano quelle di chi la pensa come lui. Soprattutto se quelli come lui sono «umanitari» di sinistra come le due Simone o giornaliste «democratiche» come Giuliana Sgrena. Le vite di chi non la pensa allo stesso modo invece valgono poco o nulla. Per questo uccidere l'eroe Fabrizio Quattrocchi non è reato.

Eroe ucciso due volte. I giudici assolvono i killer di Quattrocchi. A nove anni dall'omicidio del contractor italiano in Iraq, le toghe negano le finalità terroristiche, scrive “Libero Quotidiano”. Non è bastato che rivendicassero il sequestro a nome delle "Brigate dei muhajeddin" e delle "falangi verdi". Non sono bastati i video in cui minacciavano l'Italia. Nè i riferimenti all'attentato di Nassiriya. Dopo nove anni (nove anni!) di processo, i sequestratori e killer di Fabrizio Quattrocchi sono stati assolti dall'accusa di finalità terroristiche. E l'uccisione del contractor italiano, giustiziato in Iraq nel 2004 con un colpo alla nuca dopo aver detto "così muore un italiano" fu per i giudici della prima Corte d'assise un episodio di violenza comune. Per i due rapitori identificati (prima detenuti ad Abu Grahib, quindi indagati e processati a piede libero (sono nel loro Pese), il pubblico ministero aveva chiesto la condanna a 25 anni di reclusione per finalità terroristiche. Ma i giudici della prima Corte d'assise hanno espresso il dubbio che "quella pur grave azione delittuosa potesse avere una efficacia così destabilizzante da poter disarticolare la stessa struttura essenziale dello Stato democratico" e riferimenti ad Al Qaeda e a Nassiriya furono "semplici vanterie dirette ad accrescere il timore delle vittime". Il pubblico ministero ha presentato ricorso. Per rendere giustizia a un italiano morto da eroe.

Ma una verità va detta. Quattrocchi non era un mercenario. A cinque anni dalla morte in Iraq, la sentenza del pm, scrive “Libero Quotidiano”. Infine, ecco la parola del giudice. Che ha dichiarato che Paolo Simeone e Valeria Castellani, fondatori della società di security Dts, non erano mercenari nè hanno reclutato nel 2004 in Iraq Fabrizio Quattrocchi (sequestrato e ucciso da alcuni ribelli iracheni) e alcuni loro connazionali. Motivazione? La «rudimentale organizzazione di armi e mezzi» che essi hanno messo su «non è da sola sufficiente a connotare» una «attività che nelle intenzioni e nei fatti si ritiene avere a stento raggiunto il carattere di una poco efficiente agenzia di sicurezza privata». Così scrive il pm di Genova, Francesca Nanni, nella richiesta di archiviazione (accolta nel dicembre 2009 dal gip) per Simeone, Castellani e per Davide Giordano, collaboratore di un'agenzia di security. Il provvedimento è da oggi agli atti della Corte d'assise di Bari che lo ha acquisito nel corso del processo a Salvatore Stefio e Giampiero Spinelli, accusati di aver reclutato Didri Forese e gli ex ostaggi italiani Umberto Cupertino e Maurizio Agliana. Questi ultimi due, assieme a Stefio e a Fabrizio Quattrocchi, furono catturati in Iraq il 12 aprile 2004 e liberati dopo 56 giorni. Quattrocchi fu invece ucciso.  "Vi faccio vedere come muore in italiano", furono le sue ultime parole.  Scossero tutti. In Italia non si parlò d'altro per mesi, e ancora, quelle parole suscitano una ridda di emozioni contrastanti. Per Stefio e Spinelli, contrariamente alle conclusioni a cui è giunta la magistratura genovese, la procura di Bari è riuscita ad ottenere il processo per "Arruolamento o armamenti non autorizzati a servizio di uno Stato estero" (art.288 del Codice penale). Reato questo che per la procura ligure non sussiste perchè «al di là di alcune roboanti espressioni di potenza manifestate dai singoli (sempre e comunque in contesti autocelebrativi e tranquilli)», l'organizzazione «nei fatti ha dimostrato tutta la sua intrinseca debolezza». Secondo il pm genovese, sia l'attività prospettata sia quella effettivamente svolta dagli indagati non integra «gli estremi della militanza» previsti dall'art.288 che prevede condanne a pene comprese tra i quattro e i 15 anni di reclusione per contrastare l'arruolamento dei mercenari. Dove per mercenario - scrive il pm - si intende (art.3 della legge 210/95 che ha ratificato la Convenzione Onu contro il reclutamento dei mercenari) «colui che, dietro compenso economico o altre utilità o comunque avendone accettato la promessa, combatte in un conflitto armato nel territorio comunque controllato da uno Stato estero o partecipa ad un'azione preordinata e violenta diretta a mutare l'ordine costituzionale o a violare l'integrità territoriale di uno Stato estero». «Comportamenti - aggiunge il pm Nanni - non presi in considerazione dagli indagati che pensavano ad un servizio di vigilanza di persone e/o a corsi di formazione a favore dei locali». Secondo l'accusa, inoltre, il concetto di militanza citato dall'art.288 «deve far riferimento allo stesso tipo di comportamento» censurato dalla Convenzione Onu: «in caso contrario - spiega - potrebbero diventare perseguibili» anche «le attività di imprese italiane che decidano di organizzare in Italia i servizi di sicurezza per i loro impianti o i loro tecnici all'estero». Simeone e Castellani erano accusati di aver arruolato, tramite Giordano, gli italiani Quattrocchi, Alessandro Favetti e Luigi Valle per far loro svolgere attività - si legge nelle mail che gli ex indagati inviarono ai loro interlocutori - di informazione e addestramento della polizia locale, servizi di vigilanza personale nei confronti di uomini d'affari e rappresentanti delle autorità locali o italiane e supervisione e controllo personale nei servizi di vigilanza a oleodotti e linee elettriche. In sostanza - rileva il magistrato - Simeone alla fine fece svolgere ad alcuni suoi reclutati un servizio di vigilanza ai piani nell'hotel Babylon di Baghdad in favore di alcuni civili americani. Attività questa emersa pacificamente nel corso del processo in corso dinanzi alla Corte d'assise di Bari dove l'accusa ritiene però che per il solo fatto che gli imputati abbiano ingaggiato italiani (con accordo verbale raggiunto in Italia) da impiegare in servizi di vigilanza armati in hotel implica il reato contestato, che punisce l'organizzazione anche dei servizi di scorta e di vigilanza negli Stati in cui l'Italia ha in corso interventi militari, anche di peacekeeping. In Iraq, per di più, come ha confermato oggi nella sua deposizione l'ex vice comandante del Corpo multinazionale in Iraq, gen. Mario Marioli, inizialmente si «applicava ai militari italiani il Codice penale militare di guerra».

UN CASO SIMILARE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA. IL CASO CORONA.

Fabrizio Corona, perché tenere un innocente in galera? Subito la Grazia!, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Dopo aver sentito in tv le dichiarazioni di David Trezeguet, che di fatto lo scagionano, Fabrizio Corona nell’incontro con gli avvocati Ivano Chiesa e Gianluca Maris ha sbattuto i pugni. È per un verso sollevato, dall’altro sempre più arrabbiato per l’ingiustizia che sta subendo. Come non capirlo. «Che strana estorsione – spiega infatti Chiesa – in cui l’estorto dice di non avere subito nessuna estorsione e nessuna minaccia». Intervistato da Francesca Fagnani per il programma di La7 In Onda, il celebre calciatore ha di fatto riaperto il caso. «Si è mai sentito minacciato dall’autista che era con Fabrizio Corona?», ha chiesto la giornalista. «No, mai», è stata la risposta. «Ha mai sentito delle pressioni da parte dell’uomo che era con lui?». «No, nessuna». Fabrizio Corona aveva fotografato Trezeguet all’uscita da una discoteca con una donna che non era sua moglie. Quelle foto, nonostante fosse solo un’amica, potevano destare scandalo. E il fotografo e agente dei vip chiese al fuoriclasse se voleva comprare lui direttamente le foto. Per il Gip non c’era reato e proscioglie Corona. Sentenza poi impugnata dalla procura di Torino: per la Cassazione il processo va fatto. Ma mentre in primo grado si becca tre anni e 4 mesi perché gli vengono riconosciute le attenuanti generiche, in Appello la sentenza è ancora più dura: 5 anni. A rendere più pesante la condanna – poi diventata definitiva – è la presenza dell’autista, che rende l’eventuale estorsione aggravata. Oggi Corona è detenuto nel carcere di massima sicurezza di Opera e deve scontare un cumulo di pene per 13 anni e 8 mesi, ridotte con la continuazione a 9 anni. Ma anche questa riduzione è a rischio perché è stata impugnata. La cosa più drammatica è che per un reato che appare un non reato Corona è sottoposto al regime del 4 bis, simile al 41 bis dei mafiosi. Trattato come un pericoloso assassino, non può neanche beneficiare di sconti di pena per l’uscita anticipata. È per questa ragione che anche un puro e duro come Marco Travaglio ha lanciato sul Fatto quotidiano una campagna per chiedere la Grazia in suo favore. Oggi, dopo le dichiarazioni di Trezeguet, questa prospettiva appare ancora più praticabile. Le assurdità di questa vicenda sono infatti numerose. Torniamo alle dichiarazioni del calciatore. Non si tratta infatti di una novità. Le stesse cose le aveva dette, durante le indagini, sia a Woodcock sia alla Procura di Torino. Trezeguet, cosa ancora più assurda, non viene mai chiamato a testimoniare durante il processo. La parte lesa, senza cui non esisterebbe il reato, viene tenuta fuori dal dibattimento e si usano le sue precedenti dichiarazioni. Le quali, comunque, non lasciano dubbi. L’estorsione non c’è stata. È qui che viene da pensare a una storia di accanimento. Ad un processo che diventa simbolico, contro un certo modo di fare e di vivere nel mondo dello spettacolo. Le vie per dimostrare le colpe di Corona sono tortuose, ma efficaci. Si contestano infatti le foto per violazione della privacy. È vero, questo il ragionamento dei giudici, che il calciatore sta fuori da una discoteca, quindi in un luogo pubblico, ma ci sta senza volerci stare. In più Corona non può avvalersi del diritto di cronaca perché non è un giornalista. Le sue foto sono un bene illecito e per questo va punito. «Faccio questo mestiere da trent’anni – commenta Chiesa – e non si può davvero parlare di estorsione. Si tratta di una palese ingiustizia a cui va posto rimedio. Ormai – continua – la gente mi ferma per strada per chiedermi di Fabrizio. Anche le persone comuni considerano assurdo quello che sta passando. La vivono come una minaccia pure nei loro confronti. ”E se capitasse anche a me?”, si chiedono angosciati». Intanto questo incubo lo sta attraversando Corona. Da qui la sua rabbia, anche nell’ultimo colloquio con gli avvocati. E il desiderio di avere giustizia senza essere trattato come il peggiore dei delinquenti. Se, dovesse essergli levata la continuazione che riduce il cumulo di pene da 13 anni e 4 mesi a 9 anni, Corona pagherebbe più di un assassino. Ma il punto non è neanche questo. Non è il paragone con chi ha commesso delitti più gravi. È che certe forme di ”tortura” non dovrebbero essere ammesse per nessuno, men che mai per una persona che, ogni giorno di più, appare essere innocente. Almeno che non si considerino gravi colpe la spavalderia o certi atteggiamenti troppo disinvolti. Ma se non ricordiamo male di tutto ciò nel codice penale non si parla. O no?

Provato, non rassegnato, scrive Giuseppe Guastella su “Il Corriere della Sera”. Meno spavaldo, ma sempre proiettato su stesso, perché, ammette, «il dna non lo puoi cambiare». In bilico tra rabbia ed espiazione, dopo quattordici mesi di reclusione l’ex re dei paparazzi Fabrizio Corona fa i conti con se stesso e nella sua prima intervista dal carcere di Opera risponde per iscritto ad alcune domande. Condannato a un totale obiettivamente spropositato di quattordici anni e due mesi, con i suoi avvocati Gianluca Maris e Ivano Chiesa ha ottenuto la «continuazione» tra le due sentenze di Vallettopoli (diciassette mesi a Milano, cinque anni a Torino) e con essa una sostanziosa riduzione del cumulo che, in attesa della definizione di altre vicende e detratto quanto già scontato, è sceso a sei anni e undici mesi. Come sta vivendo il carcere? «Il carcere mi ha salvalo la vita. Mi ha fatto tornare con i piedi per terra. È riuscito a fermare un treno in corsa perenne da anni che ultimamente aveva perso sogni, equilibri e alzato troppo l’asticella del limite. Mi ha fatto scoprire il senso della realtà, insegnato a star bene con me stesso e messo nelle condizioni di proseguire nel migliore dei modi lungo la strada della vita quando tornerò libero».

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Corona non più oltre i limiti? «Sono sempre lo stesso, il dna non lo puoi cambiare. Però sono migliorato, in tante cose. Sono più vero, più lucido e più uomo perché ho visto gente soffrire e morire, ho visto il tormento, la paura, lo sconforto, la vera solitudine e l’abbandono, ho capito cosa sono la cattiveria e la vera violenza. Tutto questo mi ha reso più forte». Pensa ancora di essere vittima di alcuni magistrati? «Nei miei confronti non c’è mai stata parità di giudizio: o scandalosamente innocente o dannatamente colpevole. È sempre stata solo una questione di simpatia o preconcetto, pregiudizio. Qui mi sono reso conto ancora di più dell’ipocrisia della giustizia italiana, che non è egualitaria. Assassini colpevoli condannati a 12 anni e solo presunti condannati all’ergastolo, anni di pena dati come fossero noccioline in carceri dove il concetto di rieducazione non esiste, dove le condizioni di vita, di igiene, di convivenza sono disumane e vergognose».

Ora ha ottenuto una notevole riduzione della pena. «Quando ho presentato l’istanza di messa in continuazione poteva capitarmi un giudice a cui stavo simpatico o uno che mi odiava. Dovevo solo sperare di trovare un giudice che avesse il coraggio di guardare gli atti, studiarli e fare giustizia senza timore di ferire i benpensanti e i finti moralisti. Un giudice capace di prendersi delle responsabilità, onesto, vero, giusto. L’ho trovato. Questo giro, finalmente, mi è andata bene. Ricordo lunedì 10 febbraio. Scendevo le scale per andare in sala avvocati come un robot. Quando si è aperta la porta ho guardato gli avvocati negli occhi. Mi hanno fatto un grande sorriso e ho ripreso a respirare».

Qual è stato il suo errore peggiore? «Rifiutare un patteggiamento ad otto mesi per Vallettopoli, un’indagine assurda, ma nessuno ha avuto mai il coraggio di ammetterlo, a causa della quale ho preso tre condanne, compresi i 3 anni e 10 mesi per bancarotta, dopo aver risarcito il danno. Da incensurato fui arrestato e portato a Potenza, feci un mese di carcere duro con quel Pepe Iannicelli, boss delle ‘ndrine bruciato vivo due mesi fa con la fidanzata e quell’angelo di suo nipote di soli 3 anni. È normale che dopo 4 mesi di detenzione preventiva sono uscito arrabbiato». E ne ha fatte di tutti i colori. «Ce l’avevo con il mondo intero, mi sono perso e ho commesso un sacco di errori». Cosa fa? «Faccio moltissimo. Quando ero a Busto Arsizio ho inventato un portale innovativo per i detenuti, ho raccolto circa 70 mila euro per loro, ho scritto un libro, ho lavorato come portavitto e sono riuscito dal carcere a mandare avanti la mia azienda senza farla fallire e mi sono mantenuto in forma allenandomi per almeno un’ora al giorno. Ho sempre tenuto vivo il cervello e ho ripulito l’anima». Con la libertà, cosa le manca? «Mi manca tantissimo mio figlio e mi mancano da morire le emozioni quotidiane che la vita ti dà. Qui, in parte, è come essere morti». La prima cosa che farà al primo permesso? «Vado a scuola a prendere mio figlio. È un anno che mi immagino questa scena, e so che solo quando lo vedrò uscire mi renderò conto di quante cose ho buttato nella mia vita, quante cose ho veramente perso».

Corona, lettera a Signorini: "Mi hanno ridotto la pena di 4 anni. Quando esco mi riprendo tutto". Fabrizio Corona è ritornato a parlare e, in una lettera indirizzata al direttore del settimanale Chi, Alfonso Signorini, fa sapere che il Gip di Milano si è pronunciato sulla riduzione della pena da 13 anni e 2 mesi, a 9 anni. Corona ha anche parole di speranza, lui non chiederà una pena alternativa, nonostante i termini per presentarla, ma ha deciso di continuare la sua permanenza in carcere promettendo: “un giorno uscirò e mi riprenderò ciò che ho capito di volere veramente”. La lettera - "Ciao direttore - si legge nella missiva - sono passati quasi 14 mesi dal giorno del mio arresto, precisamente 410 giorni, e tante cose sono successe, tante cose sono cambiate, ma una in particolare mi è rimasta in mente e mi ha dato, e mi dà ancora, la forza di andare avanti". Sono le parole di uno dei suoi due avvocati, Gianluca Maris, a dare la forza a Corona."Fabrizio qualsiasi cosa accada resta sempre te stesso, non cambiare mai e soprattutto ricordati sempre che alla fine ciò che è giusto vince". "Affronto i compiti che ho davanti e li porto a compimento uno a uno. Concentro l'attenzione su ogni singolo passo, ma al tempo stesso cerco di avere una visione globale e di guardare lontano. C'è sempre un limite e una linea d'ombra da superare per conoscere se stessi, e spesso per farlo bisogna passare da una disfatta. Per me la disfatta è stato il carcere", scrive ancora Corona. Poi aggiunge: "Ma è anche vero che il carcere mi ha fatto bene, mi ha reso un altro, mi ha fatto superare tutte le mie ossessioni. Sono finalmente riuscito a fermarmi, pensare, riflettere e capire. Oggi ho capito, e quando un giorno uscirò mi riprenderò tutto, ma solo quello che ho capito di volere veramente e per cui vale la pena vivere". Corona non ha fretta di uscire dal carcere, convinto che "la libertà dovrà arrivare quando avrò finito il mio percorso di uomo nuovo, quando potrò essere veramente felice, riuscire a godere delle piccole cose della vita, vivere di amore senza compromessi e doppi fini, essere vero, essere me stesso, costruire per creare e lasciare il segno, non avere più sensi di colpa, guardarmi allo specchio ed essere orgoglioso di me".

Fabrizio Corona: Da re dei paparazzi, a uomo depresso. Questo è quello che scrivono in molti e di cui è stato fatto un servizio a Canale 5 nella trasmissione Verissimo. Gossip, scatti segreti, bad boy, tutte queste parole ormai non fanno più parte della vita di Fabrizio Corona che da dietro le sbarre sta vivendo davvero un incubo, pensando pure che deve scontare circa dieci anni. Dicono che Fabrizio non è più riconoscibile e che passa quasi tutto il suo tempo ad allenarsi in palestra insieme al suo compagno di cella. Tutti lo conoscevamo come una persona spavalda, altezzosa e come un uomo tutto d’un pezzo che nessuno poteva minimamente sfiorare. Ma adesso non è più lui, è cambiato, si dice addirittura che prenda degli psicofarmaci per curare la sua depressione, anche se il suo entourage ha smentito completamente tutto. Fabrizio Corona comunque non sta bene e non vuole quasi vedere nessuno.

Corona si racconta dal carcere: "Ero ossessionato dal successo. Senza la galera, sarei morto". L'ex agente dei Vip: "Il chirurgo mi aiutava a fermare il tempo, le sostanze chimiche mi davano una mano a reggere". E svela: "Mi riempivo di pillole: pillole per allenarmi, per fare l'amore, per dormire", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. "Ho perso la fiducia dei magistrati e la mia credibilità. Anche se il mio non è stato un vero tentativo di evasione. Come si può pensare di fuggire a bordo di una 500 con 300 euro in tasca, rinunciando a tutto, mio figlio, il mio ufficio, la mia famiglia?". Fabrizio Corona sta scontando nel carcere di massima sicurezza di Opera. Dopo l'uscita del libro autobiografico Mea Culpa (Mondadori), l'ex agente dei paparazzi ha deciso di raccontare la prigionia a Vanity Fair. Nell'intervista dal titolo Volevo una vita perfetta, che si trova sul numero da oggi in edicola, si dice cambiato: "Il chirurgo mi aiutava a fermare il tempo, le sostanze chimiche mi davano una mano a reggere". Adesso che ha perso alcuni denti, non sente la mancanza di quella vita consumata sul filo del rasoio. Il sesso, per esempio non gli manca. "Ne ho fatto così tanto prima del mio arresto che quasi avevo la nausea - afferma - quello che mi mancano sono le emozioni".  La lontananza dalle telecamere e dai flash delle macchine fotografiche l'ha reso un uomo più libero. Paradossalmente, si sente più leggero dietro alle sbarre di un carcere di massima sicurezza di quanto non lo fosse prima dell'arresto. "Sono riuscito a fermarmi, ad avere il tempo di riflettere - racconta - non voglio sembrare drammatico, ma se non fossi finito in prigione, sarei potuto morire. Ero ossessionato dal successo, dai soldi. Dovevo avere le donne più belle, il fisico più scolpito, il look più alla moda. Volevo una vita perfetta e avevo il terrore di perdere tutto. E così mi ammazzavo di lavoro, incontri, appuntamenti, palestra. Il chirurgo mi aiutava a fermare il tempo, le sostanze chimiche mi davano una mano a reggere. Mi riempivo di pillole: pillole per allenarmi, per fare l'amore, per dormire". Da quando ha mandato in stampa Mea Culpa, Corona ha sentito che la sua vita ha iniziato a cambiare. "Dopo un anno di carcere mi guardo allo specchio e mi vedo diverso - rivela a Vanity Fair - ho i capelli lunghi e ricci, la barba curata, ho perso molti denti, sono dimagrito, la mia faccia non ha più quel gonfiore chimico". Nell'intervista fiume Corona racconta la vita in carcere e smonta anche qui luoghi comuni sulle molestie sessuali che hanno ormai formato l'immaginario collettivo. "È una farsa da film americani - spiega - la verità è che l’omosessualità è un tabù assoluto. I gay stanno separati dagli altri detenuti, insieme con i pedofili e gli zingari". Nella lunga chiacchierata con Enrica Brocardo, Corona non evita certo di tornare a puntare il dito contro i giudici e il sistema giudiziario. "Lo stesso giudice che mi ha condannato in primo grado a Milano nel processo di Vallettopoli - scrive nel suo libro autobiografico - ha condannato a sette anni Silvio Berlusconi per il Rubygate". Nell'intervista a Vanity Fair ha confermato la stessa condanna: "Trovo le sentenze nei confronti di Berlusconi assurde, come le condanne di Lele Mora e di Nicole Minetti. Lo dico perché quel mondo e le donne che ci ruotavano intorno lo conosco molto bene". E conclude: "Con Berlusconi mi accomuna solo una cosa: entrambi abbiamo esagerato con le accuse nei confronti della magistratura. Difendersi è giusto, ma bisogna sempre rispettare i ruoli e le regole. Altrimenti ne paghi le conseguenze: l’ho imparato molto bene".

Fabrizio Corona sta male, il re dei paparazzi è sotto psicofarmaci, scrive “Oggi”. Trascorre il suo tempo tra la cappella per pregare e la palestra. E si rifiuta di vedere perfino la madre Gabriella. Chiuso nel carcere prima di Busto Arsizio, e poi di Opera, dal 25 gennaio 2013, Corona è un uomo completamente diverso dallo strafottente vip che si esibiva ovunque con i pettorali ben in vista. E si mostrava anche dalle finestre della sua bella casa in Corso Garibaldi, quartiere milionario di Milano. Il suo stato di malessere è tale che l’ex re dei paparazzi prenderebbe psicofarmaci per cercare di tenere sotto controllo la situazione: è quanto emerge dal ritratto di Don Mazzi a Verissimo. Corona è dipinto come un uomo che sta molto male e allo stremo delle sue forze. “E’ molto cambiato, ma non sta bene”. Fabrizio Corona passerebbe, infatti, tutto il suo tempo tra la cappella dove prega e la palestra dove si allena in modo ossessivo per sentirsi alla fine sfinito e non pensare più a nulla. In questo stato di malessere e apatia, si rifiuta di vedere perfino la madre Gabriella a cui ha chiesto di non andare a trovarlo. L’unico che ancora riesce a stabilire un contatto con lui è il fratello Federico. A salvarlo sarà, forse, l’autobiografia che sta scrivendo e che magari riuscirà a fargli tornare l’equilibrio psicofisico. O ancor di più ci riuscirà la possibilità di vedere il figlio Carlos, dato il rapporto turbolento che ha ancora con Nina Moric anche dopo l’accordo per il divorzio. Sembra, infatti, che sia stato trovato un accordo con la Moric, che ha appena rivelato il suo passato shock, mentre Belen è completamente uscita dalla sua vita. Don Mazzi ha anche aggiunto che ritiene la pena che gli è stata comminata assurda e incongrua (sette anni, 10 mesi e 17 giorni):  ”Deve scontare più anni di un terrorista”. Non giustificata neppure dalla sua rocambolesca fuga terminata a Lisbona. Quando per l’ultima volta in modo “aggressivo” dichiarò: “Se qualcuno dice che ho pianto, lo querelo.

E proprio per Fabrizio Corona, il 2 luglio 2013 si è aperto al tribunale di Manduria, sede distaccata di Taranto, il processo a suo carico, chiamato a rispondere di violazione di domicilio della famiglia Scazzi ad Avetrana. L’episodio risale al 26 febbraio del 2011 quando Corona, all'epoca inviato di Mediaset, si introdusse nella casa di Concetta Serrano Spagnolo, la mamma di Sarah Scazzi. Secondo la denuncia di Concetta, Fabrizio Corona si sarebbe introdotto in casa sua, da una porta secondaria, spaventando la donna che, non riconoscendolo, avrebbe chiamato i carabinieri. Corona ha sempre dato una versione diversa dei fatti occorsi, dicendo che aveva avuto una conversazione amichevole di mezz’ora con Concetta. In una trasmissione televisiva, poi, lo stesso Corona chiese scusa a Concetta e spiegò qual era la sua intenzione, ossia, ottenere un’intervista per la quale era disposto a pagare. Nonostante ciò, le accuse non sono cadute. La prima udienza è slittata 17 dicembre 2013 . Il processo è saltato in quanto non c'era prova dell'avvenuta notifica a Corona. Dalla citazione risulta che l'imputato è detenuto nel carcere di Busto Arsizio, mentre in realtà attualmente sta scontando presso il carcere di Opera (a Rozzano, Milano), la condanna definitiva a cinque anni per il reato di estorsione ai danni dell'ex calciatore della Juventus Davide Trezeguet. La causa è stata celebrata al cospetto del giudice monocratico di Manduria Rita Romano, che ha fissato l'udienza del 17 dicembre dinanzi al tribunale di Taranto, citando anche i primi testi: quelli del pm sono la giornalista Filomena Rorro, il suo operatore Dante Crezio, un carabiniere della stazione di Avetrana e la mamma di Sarah. La difesa di Corona ha indicato Claudio Brachino, direttore di Videonews e produttore di programmi Mediaset, il fotografo Luca Bonaduce, il direttore di un’agenzia fotografica, Giuseppe Carriere, e il responsabile informazione di Mediaset, Mauro Crippa. In aula erano presenti Concetta Scazzi e il suo legale, l'avv. Luigi Palmieri. Per Corona si è costituita in giudizio una sostituta processuale dello studio legale Ivano Chiesa e Giuseppe cricchio di Milano. A rappresentarlo a Manduria c’era l’avvocato Dionisio Gigli che con una sua collega di Milano sarà sostituto processuale per conto dello studio legale Ivano Chiesa e Giuseppe cricchio di Milano.

22 dicembre 2013. Sarebbe dovuto essere nella sua casa milanese, in virtù di un provvedimento della magistratura lombarda, scrive “Il Quotidiano di Puglia”. Invece, si trovava a Martina Franca per prendere parte, come ospite, in una discoteca. Così, cinque mesi di arresto sono stati inflitti a Fabrizio Corona, il fotografo noto alle cronache mondane, ed anche a quelle giudiziarie, per una lunga serie di vicende. La condanna di Fabrizio Corona è scattata nei giorni scorsi con sentenza del tribunale di Taranto in composizione monocratica. È stato il dottor Benedetto Ruberto a accogliere la richiesta di condanna formulata dalla procura della Repubblica di Taranto. Corona è stato condannato per la violazione delle prescrizioni imposte con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Secondo l’accusa, appunto, si era recato - senza alcuna autorizzazione - in una discoteca di Martina Franca. L’episodio era avvenuto il 7 ottobre del 2012 ed era avvenuto in orario notturno, ben oltre la mezzanotte. In quel periodo, però, su Corona incombeva l'obbligo di permanenza in casa, dalle ore 21 alle ore 7. Obbligo che era stato imposto con il decreto applicativo della sorveglianza speciale emesso il 30 maggio precedente dal Tribunale di Milano. La presenza in orario notturno nell’area martinese di Corona non era passata inosservata, tanto che i carabinieri l’avevano registrata e avevano trasmesso la segnalazione alla magistratura tarantina. Ne era nato un procedimento che è stato definito dal tribunale monocratico con la condanna dell’ex marito dell’attrice Nina Moric. Inutile sottolineare che nel processo davanti al tribunale di Taranto Fabrizio Corona compariva in contumacia, poichè non si era presentato, nè aveva prodotto una documentazione che “giustificasse” la sua assenza. È stato invece aggiornato all’udienza del marzo 2014 il processo a carico dello stesso Corona per l’incursione che il fotografo fece all’interno dell’abitazione di Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa in Avetrana. Corona per quell’episodio è accusato di violazione di domicilio. Il fatto risale al 26 febbraio del 2011.

Era stato condannato lo scorso gennaio 2013 a sette anni, dieci mesi e diciassette giorni di carcere per varie colpe di cui la più grave è estorsione aggravata e trattamento illecito dei dati personali, scrive l'Huffington Post. Nel maggio 2006, infatti, aveva chiesto all'ex attaccante della Juventus David Trezeguet 25mila euro per non pubblicare delle fotografie che lo ritraevano in compagnia di una donna. Dopo una breve fuga, durata 6 giorni, Corona si era consegnato alla polizia. Adesso il paparazzo parla del carcere come di un'esperienza formativa, quasi illuminante dopo 7 mesi passati nel penitenziario di Opera a Miilano, lo stesso dove fu mandato Lele Mora. "Cella 1. 1° Reparto. 4° Piano. Sezione B". E' da qui che Corona ha scritto una lettera al programma Verissimo , dove sarà l'ospite (assente) d'onore il prossimo sabato, 23 novembre, su Canale 5. "Io non provo più rabbia né rancore per chi mi ha condannato e inflitto questa pena così eccessiva e così assurda, ma anzi lo ringrazio perché mi ha dato la possibilità di capire tante cose, mi ha aiutato a riconoscere i tanti sbagli, ad ammettere gli errori, a guardarmi dentro, nel profondo della mia anima e capire finalmente, a quasi quarant'anni, chi sono e cosa voglio veramente", scrive il paparazzo e personaggio tv. Non nasconde la durezza della vita in cella soprattutto dopo "la scoperta di una grave malattia", scrive Corona, il carcere è "la realtà dell'inferno in terra, dove colpevoli ed innocenti sono costretti a vivere in condizioni vergognose e disumane nell'indifferenza istituzionale". Ma il paparazzo sembra aver trovato nuova forza. Per grave malattia Corona il disturbo psichiatrico rivelato dalla madre Gabriella, una "depressione monopolare". "Continuo a combattere come ho fatto dal primo giorno che sono entrato in questo nuovo mondo, con questa nuova vita, per dimostrare che nei momenti di difficoltà si deve niente affatto ripiegare le ali, abbassare il tiro, ma anzi, tentare di rilanciarsi lavorando sui propri margini di miglioramento". Parla di "valori veri" Corona, sui cui puntare, come "l'orgoglio ed il coraggio perché alla fine quello che veramente conta (nothing else matters) è il carattere e il cuore che metti nella vita". Di fronte alla disperazione, continua il personaggio della tv, bisogna "rispondere con il sorriso e il dito medio alzato". Vuole essere d'esempio a chi pensa di non farcela, scrive, per non lasciarsi andare: "Io non l'ho mai fatto e mai lo farò!". Chiude la lettera con una dedica alla conduttrice di Verissimo, Silvia Toffanin e alla madre, Gabriella. "Guardandovi seduto dal mio sgabello di legno mezzo rotto, attraverso un minuscolo televisore degli anni Settanta, voglio vedere mia madre sorridere: ha già pianto e sofferto troppo. Un bacio ed un ringraziamento speciale a te, Silvia. Con affetto. Fabrizio Corona". Fabrizio Corona invia una lettera dal carcere di Opera alla trasmissione Verissimo, condotta da Silvia Toffanin. Il quotidiano Libero la pubblica oggi in prima pagina. Il pezzo si intitola: «In carcere sono diventato migliore». Il testo: «A chiunque incontro e mi chiede come sto, rispondo sempre la stessa cosa: «Sto bene, molto bene». Ma risponderei così anche dopo 30 coltellate, sanguinante, in fin di vita. Ho sempre risposto così, a tutti. Penso che dopo la scoperta di una grave malattia, il carcere sia la cosa più brutta che possa accadere ad un uomo. È la realtà dell’inferno in terra, dove colpevoli e innocenti sono costretti a vivere in condizioni vergognose e disumane nell’indifferenza istituzionale. Io però, in questo momento, non provo più rabbia, né rancore per chi mi ha condannato e inflitto questa pena così eccessiva e così assurda, ma anzi lo ringrazio perché mi ha dato la possibilità di capire tante cose, mi ha aiutato a riconoscere i tanti sbagli, ad ammettere gli errori, a guardarmi dentro, nel profondo della mia anima e a capire finalmente, a quasi quarant’anni, chi sono e cosa voglio veramente. Il mio avvocato mi dice sempre: «Sii forte del fatto che ciò che è giusto alla fine vince», e io continuo a combattere come ho fatto dal primo giorno che sono entrato in questo nuovo mondo, con questa nuova vita, per dimostrare che nei momenti di difficoltà si deve niente affatto ripiegare le ali, abbassare il tiro, ma anzi, tentare di rilanciarsi lavorando sui propri margini di miglioramento e sulla riscoperta dei valori veri e dei sentimenti come l’orgoglio e il coraggio, perché alla fine, quello che conta veramente (nothing else matter) è il carattere e il cuore che metti nella tua vita. Bisogna saper rispondere alla disperazione con un sorriso di sfida e il dito medio alzato. E questo, oggi, deve essere d’esempio e di aiuto ai molti che pensano di non farcela e decidono di lasciarsi andare… Io non l’ho fatto e mai lo farò! Stare in prigione in questo paese è come morire lentamente, ma io continuo a vivere lo stesso, di notte, nei miei sogni, anche attraverso i ricordi di quella che è stata la mia incredibile vita: le tante emozioni provate, il grande amore dato e quello ricevuto, convinto, ancora oggi, che i sogni, se li desideri veramente e fai di tutto per raggiungerli, prima o poi diventano realtà. Oggi, chiuso dentro la mia cella, la numero 1 del primo reparto del carcere di massima sicurezza di Opera, guardandovi seduto dal mio sgabello di legno mezzo rotto, attraverso un minuscolo televisore degli anni Settanta, voglio vedere mia madre sorridere: ha già pianto e sofferto troppo. Un bacio e un ringraziamento speciale a te, Silvia. Con affetto».

Certo è di altro tenore quell’altra lettera. Chi è il vero Fabrizio Corona?

Fabrizio Corona, lettera dal carcere. Nella missiva pubblicata dal sito Social Channel l'ex re dei paparazzi non risparmia nessuno e alza la voce anche da dietro le sbarre , scrive Andrea Lallo su “Panorama”. Non ce la fa proprio Fabrizio Corona a stare lontano dai riflettori e, nonostante resti in carcere a Busto Arsizio, fa arrivare il 'Corona pensiero' al mondo tramite il suo sito Social Channel le cui redini ora sono in mano al fratello di Fabrizio, Federico. L'ex agente dei fotografi non si perde una battuta del dibattito mediatico in corso intorno alla sua persona e saltellando da un'emittente all'altra scopre cosa si dice di lui e come se ne parla. Prende, così, carta e penna e scrive una lettera pubblicata in esclusiva dal sito.  E' arrabbiatissimo Corona e sbotta: "La migliore spiegazione delle domande e dello sdegno verso la folla che mi acclamava a Malpensa e verso i numerosissimi fans che mi sostengono sul web sta nella pena che fanno i conduttori, gli ospiti e i contenuti delle loro trasmissioni, in onda su reti totalmente opposte". A questo punto l'ex burattinaio del gossip passa in rassegna giornalisti, conduttori e ospiti delle maggiori trasmissioni tv e ne ha per tutti: che sia Rai, Mediaset e La7 per ognuno Fabrizio ha parole di sdegno. Inizia la disamina dall'Arena di Massimo Giletti e scrive: "Su Rai1, un Giletti con jeans strettissimi, che evidenziano notevolmente le parti intime, si rende protagonista di un chiaro gioco  l massacro che non prevede alcuna possibilità di difesa se non quella del mio avvocato, fin troppo garbato, Nadia Alecci. Quante castronerie – per non dire cazzate – ho dovuto sentire nella mia piccola e fredda cella di Busto Arsizio". Attacca poi il direttore di Oggi Umberto Brindani sostenendo "Mi ha tirato in ballo accusandomi di un reato che non ho mai commesso e per cui infatti sono stato assolto, e non per qualche questione o cavillo giuridico, ma perché la verità era un’altra". "L’unico giornalista serio  - dice poi - è Enrico Mentana, che ha raccontato in diretta i fatti, dimostrando la mia assoluta innocenza". Se la prende persino con le reti Mediaset accusando le trasmissioni di approfondimento di essere poco più che avanspettacolo e chiosa, infine, con una sintesi scrivendo: "Sintesi.

Giletti: Corona, amico mio, devi pagare, sei un criminale. Devi pagare, hai fatto 21 reati e con il denaro hai industrializzato le estorsioni, l’appello di tua madre è ridicolo.

Risposta: vergognati, studia e non fare lo schiavo. Primo, non sono un fotografo, vendo foto, che sono di proprietà dei fotografi. In 7 anni ho fatto 120000 servizi, di cui ne ho venduti ai privati solamente 8. Per 5 di questi casi sono stato assolto, per altri condannato a 1 anno e 5 mesi per tentata estorsione, e nel caso Trezeguet – assolutamente identico a quello Gilardino, per il quale sono stato assolto – sono stato condannato a 5 anni. È stato chiamato un amico di Trezeguet – proprio come nel caso Gilardino – ci siamo incontrati in un bar in cinque, tre loro, io e un amico, e ridendo e scherzando gli ho mostrato i 45 scatti non compromettenti. Le foto non potevo regalarle, perché di proprietà dei fotografi. La cifra di 25000 euro, che il matematico ritiene assurda, era inferiore al valore della richiesta. Gliele ho lasciate, non potevo minacciare di pubblicarle perché non sono un editore; dopo un giorno, ringraziandomi, mi ha detto di volerle comprare, e gli ho fatto una ricevuta. Le modalità sono identiche al caso Gilardino, per il quale sono stato assolto; Per questo caso, invece, sono stato condannato a 5 anni, nonostante non si tratti di estorsione. Senza fare la vittima o il personaggio".

Fabrizio Corona ha tentato il suicidio in carcere? La smentita degli avvocati. Si era parlato delle precarie condizioni di salute dell'ex re dei paparazzi. Ora, il settimanale Oggi ha ricostruito che cosa è successo in quella drammatica notte. E la risposta dei suoi avvocati. Fabrizio Corona ha tentato il suicidio in carcere? O si è trattato solo di un atto dimostrativo? Sono le domande che si pone il settimanale Oggi in edicola, che ricostruisce quanto accaduto nel carcere di Opera la notte del 19 ottobre scorso. Intanto, Federico Corona, fratello di Fabrizio, annuncia una rettifica. La notte del 19 ottobre nel carcere di Opera, Fabrizio Corona avrebbe tentato di soffocarsi coprendosi naso e bocca con dei cerotti. Lo sostiene il settimanale Oggi, che nel numero in edicola ricostruisce attraverso fonti confidenziali un episodio finora coperto dal massimo riserbo, di cui l’ex re dei paparazzi si sarebbe reso protagonista in un momento particolarmente difficile della sua detenzione. Non è chiaro se si sia trattato di un tentato suicidio o di un gesto dimostrativo, ma secondo la ricostruzione del settimanale, avrebbe reso necessario il ricovero di Corona nell’infermeria dell’istituto milanese, per sottoporlo a un trattamento a base di sedativi e per medicargli le ferite provocate dai soccorritori quando gli hanno strappato i cerotti dal volto. L’episodio spiegherebbe così le notizie messe in circolazione a fine ottobre da familiari e amici, secondo cui Corona non riusciva a farsi una ragione di una condanna ritenuta sproporzionata per le sue reali responsabilità, non voleva più incontrare nessuno, era depresso e assumeva psicofarmaci. Dopo esser stato dimesso, Corona non sarebbe più rientrato nella cella che divideva con altri tre detenuti e la direzione del carcere gli avrebbe assegnato una cella dove è solo. Le sue condizioni nell’ultimo mese sarebbero decisamente migliorate e gli avrebbero permesso di avanzare nella stesura di un libro in cui ripercorrere le fasi salienti della propria esistenza. Dopo la pubblicazione della notizia sul settimanale Oggi, ci scrivono gli avvocati: “Egregio Direttore, nella nostra veste di difensori di Fabrizio Corona non possiamo non intervenire a proposito dell’articolo intitolato “Quel gesto disperato del detenuto Corona” apparso sul settimanale Oggi, da Lei diretto in data odierna (n. 49/2013) a pagina 42. Le notizie riportate in tale articolo sono assolutamente non corrispondenti alla verità. Non è vero che Fabrizio Corona abbia posto in essere un “gesto disperato”; non è vero che si sia coperto naso, bocca ecc.. con cerotti di tela; non è vero che sarebbe finito alcuni giorni in infermeria a causa di ciò. Allo stesso modo non corrisponde alla realtà che il trasferimento ad Opera si sarebbe reso necessario per “risparmiargli la ritorsione di altri detenuti a seguito di un suo presunto litigio”: la ragione è tutt’altra, e legata semplicemente alle esigenze dettate dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Analogamente non è corrispondente alla realtà che Fabrizio Corona abbia un cattivo rapporto con gli altri detenuti e con gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Opera, né tantomeno che sia venuto alle mani con qualcuno di costoro. Per quanto ci consta è esattamente il contrario. Fabrizio Corona sta fisicamente e moralmente come può stare un detenuto, ossia con i comprensibili disagi che tale situazione comporta, ma senza “gesti disperati” e atteggiamenti aggressivi verso chicchessia. Considerata la situazione giudiziaria complessiva del nostro assistito e la sua condizione detentiva, considerata altresì la sua grande notorietà, La invito a pubblicare la presente per smentire le notizie apparse che hanno arrecato e possono ancora arrecare grave pregiudizio al signor Fabrizio Corona e che hanno inutilmente allarmato tutte le persone che lo conoscono e gli vogliono bene. Con riserva di tutelare gli interessi del nostro assistito nelle competenti sedi giudiziarie. Distinti saluti, Avv.to Ivano Chiesa e Avv.to Gianluca Maris. La famiglia di Fabrizio Corona definisce "infondata" la notizia, riportata dal settimanale e parla, giustamente, di sciacallaggio mediatico, lo stesso di cui, in passato è stato artefice Corona (la ruota gira e quella del mondo dello spettacolo ha gli ingranaggi arrugginiti). Come dire: chi la fa, l’aspetti. In una lettera, letta dal fratello Federico nella trasmissione Iceberg di Telelombardia, Fabrizio Corona di suo pugno rettifica quanto accaduto: "Non ho mai tentato il suicidio, mai mi è passato per la testa e la sera del 19 ottobre ero beato nel mio letto di acciaio con il materasso di spugna rotto. Nessuno mi ha mai scattato una fotografia, specie in un carcere duro e serio come questo". Al direttore di Oggi, Umberto Brindani, scrive: "Caro Brindani, ti devi vergognare per quello che hai scritto perché ho un figlio di 11 anni che va a scuola, dove i compagni e le maestre parlano e lui non ha colpe. Ha già sofferto troppo e non ne vuole sapere nulla di queste falsità. Ti devi vergognare perché ho una madre che soffre e piange da nove mesi, e non sta bene perché ha perso la persona che amava. Tutte le notti si alza e piange ed così fragile che potrebbe credere a una cazzata come quella che è stata riportata sul tuo giornale". "Tuttora - spiega Corona in un altro passaggio della lettera - non sono in una cella singola, ma sempre con lo stesso detenuto come compagno, un sudamericano. Non ho mai agito con forza, né litigato con nessuno. Ho trovato più verità, dignità e umanità qui che tra tanta gente come te e nel tuo mondo".

Fabrizio Corona, libro – confessione, da Belen a Nina Moric. Dall’amore iniziato, esploso e finito con Belen, al matrimonio naufragato con Nina Moric, al tragico epilogo in una cella del carcere di Opera, a Milano. Sono intense e cariche di emozioni le 258 pagine in cui Fabrizio Corona, con l’aiuto del fratello Federico, si racconta a cuore aperto nel libro “Mea Culpa – Voglio che mio figlio sia orgoglioso di me”, che uscirà nelle librerie il 14 gennaio 2014 per Mondadori. “Come posso dimenticare la prima volta che ti ho vista? Eravamo a Riccione, era domenica sera e c’era l’inaugurazione di un locale. Nina era l’ospite d’onore. Tu eri appena arrivata in Italia ed eri fidanzata con un giovane pierre (Simone, detto “Patatone”), io ero sposato da più di tre anni ed ero innamorato”. Così Fabrizio racconta il suo primo incontro con uno dei suoi amori più grandi, Belen Rodriguez, con cui ha poi condiviso una storia dal gennaio 2009 all’aprile 2012, nel capitolo del libro a lei dedicato, pubblicato in anteprima da “Chi”. Un retroscena continuo, dove Fabrizio si toglie la maschera per “raccontarsi” e “diventare una persona migliore”, cercando di dare un risvolto positivo alla permanenza nel carcere di Opera, dove vive dallo scorso 21 marzo 2013 per scontare una condanna a oltre 7 anni di carcere. “Se ti avessi incontrato prima, forse oggi non sarei qui dentro”, scrive Fabrizio a Belen, nella lunga lettera che rappresenta solo uno dei capitoli del libro. Un capitolo ricco di retroscena, dove i due personaggi Belen e Corona si incontrano, si innamorano, creano una delle storie più focose e discusse degli ultimi anni, per poi perdersi in vite differenti. Una gravidanza persa, un’altra desiderata invano, scelte di vita difficili , come quando “Ti avevano minacciata di strappare il contratto (con Mediaset, ndr) se non avessi chiuso con me. E tu, sempre più matta, hai mandato a cagare il tuo agente e tutti quanti: avevi scelto ancora la strada dell’amore”. “Molto spesso è più facile rincorrere qualcosa che ammettere a se stessi che non è finita”, conclude Fabrizio, rivolgendosi a Belen. “Ma i ricordi non si possono mai cancellare. E, come vedi, io non li cancello”.  «Quando si decide di vivere una vita spericolata, sempre di corsa, quando si vuole avere tutto e subito, quando si riescono a ottenere facilmente le cose che hai sempre desiderato e la tua preoccupazione è cercare di avere ancora di più, quando sei "drogato" di adrenalina e non riesci ad ascoltare niente e nessuno perché metti te stesso sempre avanti a tutto, quando scegli di sacrificare i tuoi affetti per i successi personali, quando ti ami troppo e ti senti onnipotente e decidi di camminare sempre su un cornicione, prima o poi cadi.» Per anni Fabrizio Corona ha condotto una vita sopra le righe, sprezzante di ogni regola e limite, si è imposto come uno dei protagonisti della cronaca e del gossip, ha suscitato l'ammirazione incondizionata di molti, ma anche l'avversione, persino l'odio, di tanti altri. Oggi, condannato a tredici anni di carcere e recluso dal 25 gennaio 2013, il bad boy si trova a fare i conti con il passato e con l'immagine pubblica che lui stesso si è costruito. Fra tentativi di dare un senso alla condanna e moti di ribellione, fra progetti ambiziosi e momenti di sconforto, emerge una semplice verità: finora il personaggio Corona ha soffocato l'uomo Fabrizio. Così, attraverso lettere a uomini pubblici e amici personali, scritte con la sincerità di chi non ha più nulla da nascondere, e squarci della sua tormentata esperienza dietro le sbarre, Fabrizio getta la maschera e mostra il suo vero volto, i valori, i sentimenti e gli affetti - lavoro, orgoglio, amore, coraggio - che sono parte integrante del suo patrimonio familiare. Corona non è «pentito» o «redento»: semplicemente vuole reinventarsi. Al cuore di questo sforzo c'è il figlio Carlos, qualcuno per cui vale davvero la pena di riconoscere i propri errori. È da qui che Fabrizio Corona vuole ripartire, e Mea culpa ne è la sorprendente e impietosa testimonianza.

Nel libro Fabrizio Corona ricostruisce la sua parabola: dalla scalata alla fama e alla ricchezza, fino alla caduta, ai processi e al carcere. Nella lunga lettera indirizzata a Belen, Corona ripercorre tutta la loro storia d’amore, dal primo incontro in un locale di Riccione: «Tu eri appena arrivata in Italia ed eri fidanzata con un giovane pierre, io ero sposato da più di tre anni ed ero innamorato. Non avrei dovuto notarti e invece sono stato tutta la sera a guardarti»; alla nascita del loro amore «Era una storia improbabile, avevamo troppi problemi, io in particolare ne avevo tanti e grossi». Dalla tante fughe «quante notti d’inverno ho dormito fuori dalla porta di quella casa di ringhiera al freddo, sotto la pioggia, sdraiato sul tappetino, con te che continuavi a guardare dallo spioncino per controllare che fossi ancora lì». Fino alla fine della storia, segnata dalla perdita del figlio che Belen aspettava da Corona e dal successivo tentativo di rinsaldare un amore che andava spegnendosi. Poi l’incontro di Belen con Stefano De Martino, l’uomo che poi lei ha sposato e dal quale ha avuto un figlio. «Belen, se ti avessi incontrato prima, forse oggi non sarei qui dentro. Dopo che abbiamo iniziato a frequentarci la mia vita è completamente cambiata e più passava il tempo, più il diavolo si allontanava da me. La mia immagine non ti ha rovinato, anzi ha contribuito a creare un personaggio incredibile, unico, uno strano mix di bellezza e trasgressione, fama e disobbedienza. Un’altra storia d’amore a metà tra un reality e vita vera, con improvvisi e continui colpi di scena, dove purtroppo, ancora una volta, ero io il regista. Ero all’apice della carriera. Non avevo imparato ancora la lezione, non mi era bastato il fallimento del mio matrimonio e così ho continuato a commettere gli stessi errori, che però hanno contribuito a farti diventare quello che sei oggi». Questo è uno dei passi più toccanti della lunghissima lettera aperta che Fabrizio Corona ha scritto dal carcere alla sua ex compagna Belen Rodriguez. Questa lettera, insieme con molte altre, indirizzate ad amici, ai familiari, alla ex moglie Nina Moric, sono contenute nel libro autobiografico “Mea culpa - Voglio che mio figlio sia orgoglioso di me” che Fabrizio Corona ha scritto, con l’aiuto del fratello Federico, mentre sta scontando una condanna a 7 anni di carcere. Il settimanale “Chi” pubblica alcune anticipazioni, tra le quali proprio la lettera indirizzata a Belen, del libro (edito da Mondadori) che sarà nelle librerie dal 14 gennaio. Un libro scritto con toni ben diversi da quelli spavaldi e tracotanti usati in passato che, secondo le parole che lo stesso Fabrizio Corona ha scritto nella lettera indirizzata a se stesso, deve servire per "cercare di costruirti le ragioni per essere migliore. Usa questo tempo che hai a disposizione per cambiare, migliorare, per essere felice, per tornare finalmente a essere quello che sei veramente. Riprenditi te stesso!”. Nel libro Fabrizio Corona ricostruisce la sua parabola: dalla scalata alla fama e alla ricchezza, fino alla caduta, ai processi e al carcere. Nella lunga lettera indirizzata a Belen, Corona ripercorre tutta la loro storia d’amore, dal primo incontro in un locale di Riccione: “Tu eri appena arrivata in Italia ed eri fidanzata con un giovane pierre, io ero sposato da più di tre anni ed ero innamorato. Non avrei dovuto notarti e invece sono stato tutta la sera a guardarti”; alla nascita del loro amore “Era una storia improbabile, avevamo troppi problemi, io in particolare ne avevo tanti e grossi”. Dalla tante fughe “quante notti d’inverno ho dormito fuori dalla porta di quella casa di ringhiera al freddo, sotto la pioggia, sdraiato sul tappetino, con te che continuavi a guardare dallo spioncino per controllare che fossi ancora lì”. Fino alla fine della storia, segnata dalla perdita del figlio che Belen aspettava da Corona e dal successivo tentativo di rinsaldare un amore che andava spegnendosi. Poi l’incontro di Belen con Stefano De Martino, l’uomo che poi ha sposato e dal quale ha avuto un figlio. “Così”, scrive Fabrizio Corona “dopo la prima naturale reazione di rabbia, per la prima volta dopo tre anni e mezzo non ti ho più rincorso, perché sapevo che quella luce che dicevi di cercare nei miei occhi non sarebbe più tornata”.

Fabrizio Corona durissimo con Nina Moric: "Ti sei ripetutamente lasciata andare", scrive Silvia Tozzi. Fabrizio Corona nel suo libro appena uscito, che si intitola Mea Culpa, della ex moglie Nina Moric non parla certo bene. Nel libro, la storia è raccontata per intero, il primo incontro, le varie fasi del matrimonio. "Ti volevo più di ogni altra cosa ed ero disposto a tutto. Certo, il nostro rapporto non è mai stato dei più normali fin dall'inizio". Il problema era "la gelosia, la tua più della mia, ci ha divorato. Gli arresti domiciliari nella nostra casa sono stati una tragedia: litigate continue, la tua fuga per gelosia, il tuo tentativo di distruggere le cose belle che facevo", Mette in relazione i loro due personaggi: "Oggi sono convinto che non esiste più 'Fabrizio', c'è solo 'Corona', e che però non esiste più neanche 'Nina'. Ti sei buttata via, hai cancellato per sempre la tua autenticità". Corona tira in ballo loro figlio, Carlos: "Ha pagato le vere conseguenze del nostro rapporto conflittuale. Capire come faccia ad essere così perfetto, così speciale con due genitori come noi, resta un mistero. Sono convinto che qualcuno l'ha mandato per salvarci, entrambi, io e te. Il resto è storia, Nina. Tu non cambierai mai e io ho deciso di dire basta! Avremmo dovuto dirci addio tempo addietro per evitare tutto quello che è successo dopo. Specie la situazione mentale e fisica a cui ti sei ripetutamente lasciata andare". Non le perdona dio aver voluto l'affidamento esclusivo del bambino, le promesse di lei per farglielo vedere, per poi negarglielo. "Ti sei rivelata esattamente per quello che sei, una persona egoista. Guardandoti da fuori, da un luogo di vera sofferenza, mi sono reso conto che non meriti più niente e non ti giustifico più. Sapere che sei stata mia moglie oggi mi fa sentire un fallito". Nina Moric conferma: "Tutto è finito in quel maledetto 2007. Non avevo il coraggio di lasciarti, anche se non c'era più niente. La mattina del tuo arresto hai messo il cappello e, prima di uscire, mi hai detto:'Non mi abbandonare'. Ma eri già abbandonato. Io volevo la famiglia, tu il successo e i soldi". Ma poi offre il rametto d'ulivo: "Lo so, sono una che perde la pazienza e reagisce male. Non ti farò mai mancare l'affetto di Carlos. Non ti porto rancore. Ti auguro di uscire dal carcere e di ritrovare la tua vita". D'altro canto Corona, dice lei, ha le sue colpe. La tradiva, l'ha tradita davvero. "E' stata la goccia finale, l'ultima offesa. Soffrivo da molto tempo per la fine del nostro amore e per la tua situazione giudiziaria. Non ero una persona risolta, avevo tante sfumature nel mio carattere. Cercavo stabilità e un amore infinito, incondizionato. Quando ti ho conosciuto, tredici anni fa, ci ho creduto. E penso che tu abbia raccontato per la prima volta la nostra storia per quel che è stata: una storia importante. Ero all’apice della mia carriera, ma mi mancava l’amore e sei arrivato tu. Non pensavo che fossi attratto dal mio personaggio, ma, dopo pochi mesi, capito che eri entrato in competizione, che non volevi essere il marito di Nina Moric, ma Fabrizio Corona, E ci sei riuscito. Anch’io in Sardegna ero rimasta colpita da te e, quando ci siamo rivisti a Milano, al bar, il tempo si è fermato. Era il 2000, avevo finito lo show in tv con Giorgio Panariello e dovevo andare a Los Angeles e a New York per lavoro. Ti lasciai un numero di telefono sbagliato, non ci siamo visti per due settimane. Allora ho chiamato una nostra amica e le ho detto: Organizza una cena con Fabrizio, digli che c’è una ragazza che lo vorrebbe conoscere, ma non dirgli che sono io. Quando sei entrato al ristorante, è iniziato tutto. Non ti accorgevi della mia sofferenza e inseguivi i tuoi guai. Il giorno del funerale di tuo padre sei andato a lavorare. E' una cosa troppo importante, mi hai detto. Il giorno dopo eri in televisione con Lele Mora a parlare di Woodcock". La storia tra Nina e Corona, insomma, è finita per Vallettopoli. "L'ultima pagina della tua lettera è durissima. Come donna sono stata ferita, forse ci siamo fatti male tutti e due e mi prendo le mie colpe. Ma le mie erano solo ripicche rispetto a quello che ho subito. Quando hai cominciato a vedere Belen vivevamo ancora insieme, sei andato da lei alle Maldive, mentre dovevamo partire per Dubai".

"Mea Culpa" di Corona: il cambiamento dopo un vita sbagliata, scrive Cristiano Sanna. Che ci fa un filosofo e scrittore visionario, appassionato di cultura pop, assieme a chi è considerato il prototipo per eccellenza dell'arrogante tamarro tatuato? Franco Bolelli commenta e scrive la postfazione di Mea Culpa- Voglio che mio figlio sia orgoglioso di me, libro di Fabrizio Corona edito da Mondadori in uscita il 14 gennaio. Il manager di paparazzi è attualmente nel carcere milanese di Opera, dove sta scontando in via definitiva una condanna a 7 anni, 10 mesi e 17 giorni comprendente l'esito di tre sentenze: condanna a 5 anni per il filone di inchiesta di Torino (foto con ricatto al calciatore David Trezeguet), un anno e cinque mesi per quello di Milano (tentata estorsione nei confronti dei calciatori Francesco Coco e Adriano) e un anno e sei mesi per un altro processo (patteggiamento risalente al 2009 per detenzione e spendita di banconote false e detenzione e ricettazione di una pistola). Mentre i media si concentrano sulla lettera strappalacrime scritta da Corona alla ex compagna Belen Rodriguez e prontamente inclusa nel libro, Bolelli sottolinea quali sarebbero i veri valori aggiunti di questa pubblicazione.

Franco, in Italia va molto di moda combinarne di ogni genere e poi quando arrivano le conseguenze delle proprie azioni fuori legge, correre lesti a inscenare pentimenti, confessarsi, rinchiudersi in monasteri e scrivere versioni fast food di Le mie prigioni. Non la preoccupa essere associato a un'operazione del genere?

"No, per il semplice motivo che il libro è agli antipodi rispetto alle cose elencate nella domanda. Mea Culpa è solo un passo nel percorso di riabilitazione e cambiamento che Fabrizio ha cominciato ad affrontare già prima di mettere per iscritto la storia dei suoi eccessi e della sua caduta".

Come siete finiti a lavorare assieme?

"L'ho incontrato ad un talk show condotto da Cristina Parodi, dove già diceva chiaramente di voler cambiare e allontanarsi da un mondo che considerava morto, cioè quello dello spettacolo molto legato al gossip. Ora Fabrizio chiede scusa alle persone che ha ferito, ammette gli errori e la necessità di svoltare verso un'altra direzione, ma lo fa mettendoci la faccia e direi anche in modo virile, senza scenate melodrammatiche e vesti strappate in diretta".

C'è chi sostiene che la persecuzione legale nei confronti di Corona si sia inasprita quando con i suoi paparazzi ha toccato il potere politico. Leggi: le foto fatte a Silvio Sircana, braccio destro di Romano Prodi, mentre avvicinava un transessuale a Roma. Che ne pensa?

"E' una domanda fatta alla persona sbagliata. Io non riconoscerei un complotto nemmeno avendolo di fronte agli occhi. Di istinto mi verrebbe da rispondere che le due cose sono disgiunte. Purtroppo, invece, so che il momento del crollo definitivo è coinciso proprio con le foto a Sircana".

Il libro ha un suo mercato e venderà bene. Ma al di là dei brani relativi alla storia d'amore e sesso con Belen, ci sono ragioni più interessanti per leggerlo?

"Eccome. Io direi che rimarrà deluso chi cerca il gossip, che è proprio poco. Anche il passaggio su Belen Rodriguez è contenuto in una lettera dolorosa, piena di rimpianto. Mi arrischio a dire di più: questo è un libro sui valori sani. Scritto da uno che ammette di essere stato un pessimo esempio, che si prende le proprie responsabilità, che ha voglia di curarsi di suo figlio e di ristabilire un'etica del lavoro lontana dai colpacci da paparazzo che lo hanno reso famoso qualche anno fa. Poi c'è anche altro: la costruzione del corpo, l'importanza dell'allenamento, ma alla larga dal pettegolezzo becero. Nella mia postfazione sottolineo questi aspetti, assieme alla mia sorpresa di trovarmi a collaborare con Fabrizio. Cosa che mai mi sarei aspettato di fare".

Insomma, uno che campava ricattando Vip con foto compromettenti e sventolava la sua infantile ammirazione per Tony Montana-Al Pacino in Scarface può diventare un esempio positivo?

"Di certo è in una fase di piena reinvenzione personale in cui mette a nudo tutti i suoi errori, definendoli per quello che sono, un mucchio di s....te da cui Corona persona si allontana, avendo il sopravvento sul Corona personaggio pubblico".

Prima di questo libro lei ha scritto Viva tutto!, assieme a Lorenzo Jovanotti Cherubini. Personaggio agli antipodi rispetto a Fabrizio Corona.

"Ma con un interessante tratto in comune: l'abilità di comunicatore, davvero al di fuori del comune".

Spesso Corona, durante interviste e ospitate tv, si commuoveva al ricordo del padre. Potrebbe nascere da lì il misto di rabbia e ribellismo che lo ha portato in carcere?

"Non saprei, la questione è delicata. Fabrizio ha sempre avuto ammirazione verso il padre Vittorio Corona, grande giornalista. Ritiene che sia stato oggetto di ingiustizia e di quel tipo di furbizia malevola che gli ha fatto del male. Per questo, forse, per anni l'atteggiamento di Corona figlio è stato quello di chi va fuori dalle righe e dalle regole per dimostrare di essere il più furbo di tutti. Con i risultati che tutti sappiamo".

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».

Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!

«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.

Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".

La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà  la tratterà  bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà  anche gente che le vorrà  bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà  sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà  ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?

Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.

«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.

"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli e­book scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre ri­chieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».

Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?

«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».

È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?

«Vero. Spero che mi venga perdonato».

Com’è nata l’idea di Terroni?

«Avevo delle domande, cercavo delle rispo­ste. Se davvero a fine Ottocento i meridiona­li erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».

Ha ricevuto offese o minacce?

«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».

Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.

«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».

Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?

«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».

Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?

«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».

Che cosa pensa dei Savoia?

«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».

Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.

«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».

E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?

«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo pas­sato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».

E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?

«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».

La peggiore figura del Risorgimento?

«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».

Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?

«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».

Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.

«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».

Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?

«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».

Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?

«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».

Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?

«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».

Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.

«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».

In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.

«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Ca­rignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».

Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?

«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».

Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?

«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».

S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.

«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».

Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.

«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».

Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.

«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’in­giusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».

Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meri­dionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».

«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».

Lei ha fatto il servizio militare?

«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».

Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?

«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».

Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?

«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».

Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?

«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».

Su quali basi andrebbe rifatta l’Unità d’Italia?

«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».

Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?

«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».

Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?

«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».

Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?

«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».

La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.

«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».

C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.

«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».

Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?

«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».

Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.

«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».

Per chi vota?

«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».

Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.

«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».

Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.

«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».

A sfottere godiamo: siam settentrionali.

Ecco perché abbiamo assolto Calderoli anche se disse “orango” alla Kyenge». Alcuni Pd, con alfaniani e Forza Italia, hanno difeso Calderoli dall’accusa di aver offeso l’ex ministro: «è insindacabile esercizio del mandato». Dalla satira ai leghisti di colore: ecco come il Senato ha perdonato Calderoli, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. L’ex ministro per l’Integrazione del governo di Enrico Letta, Cecile Kyenge, non è certo contenta. La giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha assolto il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli dall’accusa di istigazione al razzismo, per aver detto, durante un comizio, «quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango». Per la giunta del Senato, il leghista scherzava, e soprattutto il suo pensiero è «insidacabile». Vale dunque l’articolo 68 della Costituzione, primo comma, sulle opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, che il senatore 5 stelle Vito Crimi aveva invece chiesto di non far valere. La decisione della giunta sarà sottoposta alla conferma dell’aula. Spiazzata si è però mostrata Cecile Kyenge, per questo primo voto: «Non stiamo valutando Calderoli come persona» ha detto a Repubblica , «Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta». La delusione di Kyenge viene dal fatto che anche alcuni suoi colleghi del Pd hanno preso le parti di Calderoli: «Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti» dice Kyenge. Non sembrerebbe però, stando a quanto i membri Pd della giunta del Senato hanno spiegato all’Espresso, e a quanto è scritto nei verbali della seduta. La difesa di Calderoli è stata sostenuta con diverse argomentazioni. Il senatore Pd Claudio Moscardelli ha ad esempio difeso Calderoli sostenendo che «le accuse relative alle incitazioni all'odio razziale risultano infondate, atteso il contesto politico nel quale le frasi in questione sono state pronunciate e attesa anche la configurazione del movimento della Lega, nel cui ambito operano anche diverse persone di colore». La Lega dunque non è razzista perché ha alcuni militanti e un paio di amministratori locali di colore, e quella di Calderoli era una normale obiezione politica. Sempre di normale contesa tra protagonisti della scena pubblica parla un altro senatore democratico, Giuseppe Cucca. Cucca aggiunge però un riferimento alla satira. Secondo il senatore - si legge nel resoconto sintetico della seduta - «le parole pronunciate dal senatore Calderoli vanno valutate nell'ambito di un particolare contesto di critica politica, evidenziando altresì che spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose». La difesa, si può notare, è la stessa del senatore berlusconiano Lucio Malan secondo cui «il senatore Calderoli, nell'ambito di un comizio politico, ha svolto delle critiche rispetto agli indirizzi politici per le immigrazioni seguiti dal ministro Kyenge, effettuando altresì talune battute a scopo satirico». Al senatore 5 stelle Vito Crimi, dunque, il caso avrebbe dovuto ricordare molti passaggi dei comizi di Beppe Grillo. A difendere Calderoli, con il Pd, c’era anche l’alfaniano Carlo Giovanardi secondo cui «le opinioni espresse dal senatore Calderoli vanno inquadrate in un contesto meramente politico, avulso da qualsivoglia profilo di tipo giudiziario». Anche Giovanardi, come molti dem, è partito dalla constatazione che sempre più spesso in politica si parla così, per battute e sfottò: «Nella storia politica italiana sono ravvisabili numerosi casi nei quali sono state espresse critiche, anche attraverso locuzioni aspre, rispetto ad avversari politici e ciò non ha mai determinato alcun risvolto sul piano processuale penale». Diversamente dai suoi colleghi la pensa invece la senatrice, sempre Pd, Doris Lo Moro che all’Espresso spiega di aver votato a favore della proposta di Vito Crimi: «Ho ritenuto» dice «che tutte le valutazioni offerte dai colleghi dovessero esser valutate da un giudice, che potrebbe anche decidere che è vero che la satira usa spesso espressioni colorite ma che, come a me sembra, in questo caso la satira c’entri assai poco». Lo Moro critica anche un altro punto della difesa di Calderoli: il fatto che Kyenge non abbia presentato querela. «Mi pare che Cecile abbia invece spiegato quanto si sia sentita offesa, e comunque io penso che da donna, e da donna di colore, io mi sarei offesa, e avrei chiesto, come ho fatto, di valutare il fatto specifico, senza soffermarmi sulla simpatia che si può avere per Roberto Calderoli». Perché questo è l’altro punto. Al Senato Calderoli è quasi un mito. Vi potrà sembrare strano ma quasi tutti, ad esempio, gli riconoscono di esser l più bravo a guidare l’aula durante le sedute.

Le scuse del razzista ridicolo. A tre giorni dagli insulti al ministro Kyenge, paragonato a un orango, Roberto Calderoli si scusa ma non si dimette. 'Ho commesso un errore grave, ho fatto una sciocchezza' ha detto a Palazzo Madama. Dopo aver cercato in tutti i modi di giustificare le sue parole buttandola sulla simpatia, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”. "Il mio errore è grave ma non è razzismo, il ministro Kyenge ha accettato le mie scuse e le manderò un mazzo di rose, non attaccherò mai più un avversario politico con parole così offensive. Ma non farò mai sconti a un governo che consente e quasi incoraggia l'ingresso illegale di stranieri nel nostro Paese, come sta avvenendo, e che ha consentito che una bambina e sua mamma fossero deportate consegnandole proprio nelle mani del tiranno da cui sono perseguitate". Così si è scusato Roberto Calderoli per le parole pronunciate il 13 luglio 2013 a Treviglio, dal palco della festa della Lega Nord con cui aveva paragonato il ministro Kyenge ad un "orango". Con "disagio e imbarazzo" oggi "mi scuso con il Senato" e "con il presidente Napolitano" ha detto. "Ho commesso un errore gravissimo, ho fatto una sciocchezza ma il giudizio sul mio ruolo di vicepresidente deve essere dato su quello che faccio in questa Aula". Il giorno dopo, a scandalo esploso, era cominciata la girandola di "giustificazioni" di Calderoli. Della serie, suvvia, eravamo nei "termini della simpatia". "Io mi consolo quando navigo in Internet e vedo le fotografie del governo. Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge penso subito alle sembianze di un orango".

A Radio Capital dichiara (14 luglio):

"Ma dai, è stata una battuta, una battuta nei termini della simpatia. Niente di particolarmente contro, solo mie impressioni: non l'ho paragonata ad un orango, ma ne ha i lineamenti. Ho anche detto che sarebbe un ottimo ministro, ma in Congo. Guardi, avrei rivolto le stesse critiche alla canoista".

Ok, e le dimissioni?

"Dimettermi? Ma da cosa? Ma stiamo scherzando?! Non ci penso proprio". "Io sono stato eletto dal popolo e nominato vicepresidente dal Senato. Forse chi parla delle mie dimissioni vuole aggirare un altro argomento, quello kazako".

All'Ansa, "i problemi sono altri" (14 luglio):

"Non vorrei che il polverone su di me serva a coprire altro, non sarò capro espiatorio: non vorrei che si chiedano le mie dimissioni per evitare di parlare di possibili dimissioni di qualche ministro per la vicenda kazaka. Una mia battuta non può essere paragonata ai danni che questo Governo sta facendo al Paese".

Era un "intervento politico più articolato":

"Ho parlato in un comizio, ho fatto una battuta, magari infelice, ma da comizio. Non volevo offendere e se il ministro Kyenge si è offesa me ne scuso, ma la mia battuta si è inserita in un ben più articolato e politico intervento di critica al ministro e alla sua politica".

E non accusatelo di razzismo:

"Per farmi perdonare dal ministro Kyenge la invito ufficialmente ad un dibattito alla Berghemfest nel mese di agosto, la tradizionale festa della Lega, ma sappia che non le farò sconti sulle critiche al suo modo di fare politica... E non voglio sentire accuse di razzismo da parte di politici che sono razzisti ogni giorno con i cittadini del nord".

Due giorni dopo, e siamo al 15 luglio, si parte con le interviste.

"Amo gli animali, e poi il mio era un giudizio estetico". Al Corriere della Sera dice che c'è pure "Letta l'airone", "Alfano la rana"...:

"Adesso non posso proprio. Scusi, ma inizia la MotoGp. Ci sentiamo più tardi... Ora si dibatte su una frase estrapolata dal contesto, ma al comizio ho fatto una premessa, cioè il mio amore per gli animali. Lì - sbagliando, lo ammetto - ho esplicitato un pensiero: citare l'orango era un giudizio estetico che non voleva essere razzista. Mi lasci spiegare. Io ho una mia forma mentis: quando conosco una persona, faccio paragoni estetici con un animale. Per tutti. Io vedo il presidente Letta un po' come un airone: le gambe lunghe, zampetta nella palude. Il vicepresidente Alfano? Forse un po' rana. Il ministro Cancellieri? Mi dà l'idea del San Bernardo, che è pacioso ma sa anche mordere. Fabrizio Saccomanni, dell'Economia, l'ho sempre visto come Paperon de' Paperoni che sotto le ali ha i miliardi. Il titolare degli Affari europei Enzo Moavero Milanesi lo vedo pavone, con il riporto fa la coda. Per ciascuno ne ho una... Mi è spiaciuto che, di un intervento di 45 minuti tenuto davanti a 1.500 persone, tutto si sia ridotto alla questione dell'orango. Molto è montato ad arte.

A Repubblica conferma: "Vedo le persone come animali, ma non mi dimetto":

"Ho solo detto che le sembianze della Kyenge mi ricordano quelle di un orango. Fa parte del mio modo di essere. Sono abituato ad accostare le persone agli animali. Mi viene spontaneo fare questi accostamenti. Ma le dirò di più: a Napolitano ho regalato una bottiglia di Amarone, scrivendogli che lui è come questo vino, migliora con gli anni. Il presidente non si è offeso, mica ha pensato che volessi dargli dell’ubriacone, anzi mi ha ringraziato con una bellissima lettera. Comunque io non me ne vado, la battuta è stata decontestualizzata e amplificata ad arte. Se avessi detto che Alfano mi sembra un gorilla, nessuno avrebbe gridato al razzismo".

Insomma, "era solo un giudizio estetico, il vero razzismo è contro di noi". E al quotidiano La Stampa confida che c'è pure la "gallina ovaiola":

"C'è stata molta strumentalizzazione. Ho fatto una battuta, forse un po’ sopra le righe, ma non mi riferivo certo all’aspetto razziale. Era solo un riferimento estetico. Io ho un sacco di animali, sa? Alcuni molto strani, che non si potrebbero tenere. Li rispetto molto, per questo li paragono alle persone. Guardo Letta e penso a un airone, che con le zampe lunghe riesce a vivere nella palude... Vedo Alfano come una rana, che salta di foglia in foglia. La Cancellieri? Un San Bernardo, sì, sempre pacioso, ma quando vuole riesce a mordere. Poi c’è la De Girolamo, una gallina ovaiola".

Kyenge: “Calderoli assolto per avermi detto orango, triste il Pd che lo difende”. Per la giunta del Senato le parole del leghista sono “insindacabili” e non razziste. D’accordo tutti i partiti, tranne i 5Stelle, scrive Annalisa Cuzzocrea su “La Repubblica”. Cécile Kyenge ha vissuto con sorpresa il razzismo di cui è stata oggetto durante la sua esperienza di ministro. Ed è sorpresa e delusa ora che la politica ha deciso di lasciarla sola. Ora che - in giunta per le immunità al Senato - la maggioranza ha deciso che la frase "Quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango", non è istigazione all'odio razziale. Non se lo dice il vicepresidente di Palazzo Madama Roberto Calderoli. Non per i deputati di Forza Italia, Ncd, Lega, Autonomie, Pd che in commissione hanno preso la parola per spiegare che Calderoli non è perseguibile, che le sue parole in quanto politico sono "insindacabili", che nel suo partito ci sono persone di colore e che poi è tanto bravo a presiedere l'aula. Gli unici a protestare sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle. Inascoltati.

Cos'ha pensato quando gliel'hanno detto?

"Sono stata sorpresa. Poi triste. Non per me. Vorrei uscire da questa logica perché non stiamo valutando Calderoli come persona. Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta ".

Anche alcuni senatori del Pd si sono espressi contro l'autorizzazione. Un'altra sorpresa?

"Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti. Se poi l'abbiano fatto con calcoli elettorali troverei la cosa ancora più grave. Ma io vado avanti, adesso dovrà esprimersi l'aula, spero che questo sia stato solo un incidente di percorso. Se una persona che rappresenta le istituzioni può insultare chiunque mi chiedo: chi protegge i deboli in questo Paese? Si sta creando un precedente molto pericoloso ".

Si aspettava tanti episodi di razzismo contro di lei quando è diventata ministro?

"Non fino a questo punto. La Lega lo faceva coscientemente, con un calcolo elettorale di strumentalizzazione della persona. E in questo modo l'odio e il razzismo sono aumentati. Com'è possibile che non ci si soffermi sui danni culturali di questi episodi? Mi sarei aspettata appoggio e sostegno da parte delle istituzioni".

Si sente abbandonata anche dal Pd?

"Sì, anche dal Pd. Ma è una questione trasversale, mi aspettavo di più da tutti. Ancora oggi ho una decina di cause che ho deciso di seguire personalmente. Devo ringraziare la magistratura, che è molto avanti. Un consigliere regionale leghista è stato condannato a una multa di 150mila euro per aver sostituito il mio volto con quello di un orango in una foto istituzionale. E sa perché posso dire che la Lega è un partito razzista? Perché sono stati loro a pagargli l'avvocato. Sono le azioni, non le parole, che la qualificano come tale. Sfruttano la crisi. Le persone hanno paura, cercano un colpevole, e il colpevole perfetto diventa quello che ti stanno offrendo. Molti partiti fanno coscientemente quest'operazione per dividere la società. Mi rammarica la mancanza di coraggio della classe politica e delle istituzioni".

A ben vedere, però, non è che questi settentrionali e leghisti, addirittura, siano diversi dagli altri.

L'inchiesta. 'Ndrangheta, quella maxi speculazione edilizia e i rapporti tra Flavio Tosi e l'amico del clan. L'indagine sulla mafia padana prosegue e spuntano nuove intercettazioni che chiamano in causa il sindaco di Verona per un terreno che interessava a Moreno Nicolis, l'imprenditore finito agli arresti. Un'area, da quanto risulta a “l'Espresso”, poi resa edificabile dalla giunta guidata dall'esponente leghista, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi«Per mangiare devi far mangiare». Si è sentito rispondere così il ministro delle finanze della cosca emiliana guidata dal padrino Nicolino Grande Aracri. E lui, Antonio Gualtieri, in fatto di gestione delle relazioni pubbliche non è da meno: «Questi "baluba"... non capiscono che senza politica... non si fa niente». Per questo Gualtieri ha stretto una forte amicizia con Moreno Nicolis, l'industriale del ferro di Verona, vicino all'amministrazione di Flavio Tosi. Un'aspetto quest'ultimo sottolineato anche dal giudice per le indagini preliminari di Bologna che ha firmato i mandati di cattura per 117 persone, tutte legate alla 'ndrangheta di stanza in Emilia. Ora Gualtieri e Nicolis sono entrambi indagati nell'inchiesta Aemilia. Il primo è in cella per associazione mafiosa, il secondo è agli arresti domiciliai per estorsione aggravata dal metodo mafioso. I detective dell'Arma per tre anni hanno messo sotto controllo capi, gregari, politici e colletti bianchi dei Grandi Aracri. E hanno così scoperto che Nicolis godeva di ottimi contatti con il sindaco Flavio Tosi e l'ex vice sindaco, con delega all'Urbanistica, Vito Giacino, condannato in primo grado a cinque anni per concussione. È lo stesso Antonio Gualtieri che racconta, come già rivelato da “l'Espresso” , del pranzo a casa dell'industriale veronese alla presenza di Tosi e Giacino: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». Ma non c'è solo questo nelle informative dei Carabinieri. Gli indagati hanno in ballo diversi affari nella città di Romeo e Giulietta. Uno di questi è l'acquisizione dei beni del fallimento Rizzi, l'altro è una speculazione che sta a cuore a Nicolis. E proprio quest'ultima sarebbe andata in porto. Tra i documenti in mano agli inquirenti infatti ci sono una serie di dialoghi in cui una donna fa riferimento all'area di Borgo Roma «vicino alla Glaxo», la multinazionale farmaceutica. E spiega che «Nicolis voleva barattare l’informazione del fallimento della Rizzi Costruzioni con il sindaco di Verona Flavio Tosi, in cambio della variazione sul piano regolatore di alcuni terreni destinati a costruzioni industriali, posti nei pressi della ditta Glaxo, in area commerciale». Di certo, da quanto risulta a “l'Espresso” la variante alla fine è stata fatta: la conferma, appunto, è nel piano degli interventi approvato dalla giunta di Tosi e Giacino. Il “Piano degli interventi” varato proprio quando Giacino era nella giunta è uno strumento urbanistico che in pratica equivale al vecchio piano regolatore. Nel Piano dell'anno 2011-2012, a firma di Giacino e Tosi, compaiono proprio due varianti urbanistiche chiesta dalla Nicofer, la società di Nicolis: la prima riguarda la ristrutturazione della sua fabbrica; la seconda invece rende per la prima volta edificabili ben 16.500 metri quadri in un'area di 42 mila nella zona sud della città, in via Golino, vicino all'ospedale di Borgo Roma, proprio nei pressi della Glaxo, la stessa indicata nelle intercettazioni. Quel piano urbanistico approvato dai politici di Verona ha quindi autorizzato la Nicofer a realizzare un grande centro commerciale. Una volta ottenuta la variante, la società di Nicolis ha poi ceduto la proprietà a un gruppo della grande distribuzione, la Supermercati Tosano. Una manovra che ha trasformato quei terreni in zona edificabile, perciò la vendita è stata molto favorevole per le casse della società veronese. Ma gli interventi della giunta Tosi a favore di quell'affare tra privati non si fermano qui. Dopo l'arresto di Giacino, la Soprintendenza ha bloccato il centro commerciale perché troppo a ridosso del Forte Tomba, la fortezza costruita nell'Ottocento dagli austriaci. Un vincolo comunicato a Nicolis il 3 febbraio 2014. Nonostante ciò, poco dopo, l'area è stata venduta alla Supermercati Tosano. A novembre quest'utltima ha fatto ricorso al Tar contro la Soprintendenza. E in questa battaglia non sarà sola, perché l'amministrazione comunale si è schiarata al fianco dei privati: secondo la l'amministrazione Tosi, la società Tosano, ma anche il venditore, cioè l'amico Nicolis, avrebbero subito un danno ingiusto. Una vera e propria anomalia secondo l'opposizione. Nicolis sa rapportarsi con la politica della sua città. Lo scrivono gli investigatori antimafia, i quali precisano che questi rapporti gli garantiscono la possibilità di «manovrare degli affari e conoscere – in anticipo – eventuali orientamenti su alcune aree cittadine, in relazione all’edificabilità o meno». Per questo Nicolis è per la ‘ndrangheta emiliana una risorsa, un pezzo pregiato del suo “capitale sociale”. E l'industriale veronese con la dote che si porta dietro conquista i cuori degli 'ndranghetisti. Per il capo clan è «l'amico degli amici». E poi è tra i pochi “padani” accettati al cospetto del padrino Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”. «Una grande persona», avrebbe detto di lui lo stesso “Manuzza”. Il manager del clan Gualtieri è convinto che con Nicolis il clan potrà puntare molto in alto: «Abbiamo un bellissimo rapporto... ma bello davvero... con quel signore che mi ha dato... la macchina... è uno dei primi industriali di Verona!... e che è lui che mi sta dando una mano politicamente per fare questo affare (riferito alla Rizzi Costruzioni ndr)». Non solo, sempre secondo il braccio imprenditoriale del padrino, Nicolis «c’ha la politica in mano.., lui, il sindaco e il vice sindaco mangiano in casa sua!!». Gli investigatori sono riusciti a ricostruire anche un incontro fondamentale per le indagini, che si è tenuto a Cutro, tra “Manuzza”, Gualtieri e Nicolis. Era il Natale del 2011. E il boss, il manager e l'industriale si ritrovano nel feudo calabrese per un summit. Dopo l'incontro, Gualtieri e Nicolis si scambiano qualche opinione sul grande capo. Le cimici piazzate nel Suv dell'emissario della 'ndrangheta intanto registrano. I due non lo sospettano e parlano. Nicolis non sembra affatto stupito dell'incontro con il boss, anzi all'inizio sembra deluso: «Non mi sembra tanto forte questo qua». Ma Gualtieri, che conosce meglio di lui l'autorità criminale, lo zittisce: «Morè, ascolta, lui è quella persona che comanda la Calabria... Senti a me, a un tuo fratello, che io ti voglio bene veramente … Morè, lui comanda». Dialoghi che secondo il giudice per le indagini preliminari che ha confermato i gravi indizi di colpevolezza e concesso gli arresti domiciliari all'incensurato Nicolis, dimostrano «il forte legame con l'associazione mafiosa, di fatto non ricollegato a comuni origini regionali né a vincoli parentali». Come dire, un rapporto allacciato per un proprio tornaconto personale. Insomma, questione di business. E di conoscenze politiche.

Emilia, la 'ndrangheta punta ai politici. Ecco l'inchiesta shock. Nell'ex regione rossa le cosche hanno messo radici. E ora vogliono influenzare la politica nazionale. Dalla processione di Delrio al pranzo del sindaco leghista Tosi, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi Il ciclone giudiziario che si è abbattuto sull'Emilia scuote la vicina Verona. Anche qui la 'ndrangheta emiliana dei Grande Aracri può contare su un piccolo nucleo. Ma soprattutto è terra santa per il business. Specie se a introdurre negli ambienti giusti il braccio destro del grande capo Nicolino detto “Manuzza” è un'industriale e di nome fa Moreno Nicolis. Un profilo impeccabile: imprenditore del ferro, ambizioso e con buone relazioni nell'amministrazione del sindaco leghista Flavio Tosi. E proprio quest'ultimo finisce ospite di Nicolis nella sua taverna. Un pranzo al quale, secondo gli investigatori dell'Arma, ha preso parte il primo cittadino, l'ex vicesindaco Vito Giacino, poi caduto per corruzione, e alcuni insospettabili manager della cosca emiliana. Uno di questi è Antonio Gualtieri, ritenuto la mente degli affari della 'ndrina e per questo è finito in cella con l'accusa di associazione mafiosa.   «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna», riferisce Gualtieri a un sodale. Una vicenda ancora tutta da chiarire. Ma confermata anche da un altra indagata, un colletto bianco dell'organizzazione che ha avuto l'onore, come lei stessa ammette, di ospitare nel suo ufficio in pieno centro a Bologna il capo dei capi “Manuzza”. È solo uno degli elementi nuovi che stanno emergendo dall'inchiesta Aemilia che ha portato al fermo di 117 persone legate alla cellula mafiosa che dagli anni '80 ha messo radici tra Modena e Piacenza, e che negli ultimi anni si sta espandendo a Est, seguendo la direttrice dell'autostrada del Brennero.  Gettando le basi per un’avanzata che si è spinta ancora più a nord, cercando di abbracciare le figure più importanti. L'avanzata prosegue. Così come l'indagine, che dura dalla fine del 2010. È di due anni fa invece il faccia a faccia tra Graziano Del Rio, ex sindaco di Reggio Emilia e ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e i pm che hanno condotto l'inchiesta di questi giorni. Il politico era stato sentito in qualità di persona informata dei fatti. Il pool  era interessato alla sua versione sulla ormai famosa processione nel paesone di Cutro, fuedo calabrese del clan Grande Aracri. Lui si è sempre giustificato spiegando che era un atto dovuto visto che Reggio e Cutro sono gemellati. Con lui però a quella processione, oltre agli altri candidati sindaci, c'era anche Antonio Olivo che, secondo fonti de “l'Espresso, ha frequentato alcuni uomini di Nicolino Grande Aracri. Olivo non è indagato. Così come non lo è  Maria Sergio, ex dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e moglie dell'attuale sindaco democratico Luca Vecchi. Di lei, che è stata sentita dai pm nello stesso periodo di Del Rio, alcuni rapporti di polizia parlano di presunti favoritismi verso imprenditori sospettati di vicinanza alla 'ndrina emiliana. Ombre decisamente più pesanti sulla politica reggiana sono quelle però che si sono addensate sul centro destra che conta i primi due politici indagati per concorso esterno: uno è  Giuseppe Pagliani di Forza Italia, arrestato, l'altro è  Giovanni Bernini, che in passato è stato il consigliere dell'ex ministro Pietro Lunardi.

Truffa dei rimborsi della Lega, chiesto il processo per Bossi e Belsito, scrive “Il Secolo XIX”. Una truffa sui rimborsi elettorali della Lega Nord per circa 40 milioni di euro, un caso sollevato originariamente da un’inchiesta giornalistica del Secolo XIX del gennaio 2011. Con questa accusa è stato chiesto il rinvio a giudizio dalla procura di Genova per l’ex segretario della Lega Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito per la presunta truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato da circa 40 milioni di euro. Oltre a Bossi e a Belsito, chiesto il giudizio anche per altri tre componenti del comitato di controllo di secondo livello del Carroccio: Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci. A chiedere il rinvio a giudizio è stato il pm Paola Calleri che ha ereditato l’inchiesta dalla procura di Milano, che l’ha trasferita per competenza territoriale. Esiste un’altra tranche della stessa indagine, quella che riguarda il riciclaggio dei fondi elettorali del Carroccio in Africa: l’ex tesoriere Francesco Belsito e i suoi sodali sono indagati con lui per un investimento estero da 5,7 milioni di euro di fondi pubblici dirottati su banche offshore; le accuse nei loro confronti sono a vario titolo di appropriazione indebita, truffa e riciclaggio. Di questi soldi, una prima “tranche” (circa 1,2 milioni di euro) sarebbe stata stornata «dal conto corrente della Lega attraverso un bonifico in favore della società inglese Krispa Enterprises, della quale Paolo Scala era titolare effettivo, presso la banca di Cipro, somma della quale una parte, pari a 850mila euro è stata restituita a febbraio 2012»; un secondo importo (pari a 4,5 milioni) sarebbe stato trasferito, sempre tramite bonifico, dal conto del Carroccio a quello «intestato a Stefano Bonet presso la Fbme Bank della Tanzania, somma non accreditata per il rifiuto di quest’ultima banca, la quale non aveva ritenuto sufficiente la documentazione allegata, ma restituita soltanto a febbraio 2012». Nel provvedimento vengono indicate come parti offese la Camera, il Senato e la Lega Nord. Anche in questo caso della vicenda si occuperà il tribunale genovese. 

LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.

Così la Mafia conquista il Nord d'Italia. Il nostro Settentrione assomiglia sempre più al profondo Sud degli Anni 80. Eppure ci sono ancora molti esponenti della politica e della società civile che negano l'esistenza della grande criminalità organizzata. Per i magistrati ormai non si deve più parlare di infiltrazione ma di interazione-occupazione. Una presenza capillare che riguarda ogni regione e provincia, fino al singolo municipio. Lo vediamo nella mappa pubblicata nella nostra inchiesta: ricostruisce, per la prima volta, dove si sono piazzati i clan e quali sono le famiglie di riferimento, scrivono Daniele Autieri, Giuseppe Baldessarro, Valerio Gualerzi, Michele di Salvo e Salvo Palazzolo con un commento di Attilio Bolzoni. Tutto su “La Repubblica”.

Il Sistema come agenzia di servizi di Salvo Palazzolo. L'ultimo capomafia siciliano che ha deciso di collaborare con la giustizia, neanche due mesi fa, ha raccontato di aver trasferito la sua residenza a Mestre per "stare un po' più tranquillo". Così ha detto Vito Galatolo, rampollo di un'antica dinastia di Cosa nostra. I suoi fidati lo andavano a trovare ogni settimana, portandogli cassette di pesce fresco e la contabilità degli affari a Palermo. Intanto, in Veneto, Galatolo tesseva nuove alleanze criminali. E nessuno se n'era accorto. Perché di questi tempi il profondo Nord sembra assomigliare tanto al profondo Sud degli anni Ottanta: ancora tanti, nella società civile e nella politica, non vedono la mafia. Mentre i magistrati continuano a denunciare, con le loro inchieste, i processi, ma anche con prese di posizione eclatanti. L'ultima, è quella del presidente della Corte d'appello di Milano, Giovanni Canzio, che sabato 24 gennaio, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha denunciato: "La presenza mafiosa in Lombardia deve essere ormai letta in termini non già di infiltrazione, quanto piuttosto di interazione-occupazione". A rischio, secondo i magistrati, c'è l'appuntamento simbolo dell'economia del Nord, l'Expo. Perché la presenza di 'Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra si fa sempre più insidiosa. Ecco allora perché è urgente tornare a ripercorrere numeri e storie delle mafie. E' l'obiettivo di questo dossier, che traccia una mappa aggiornata del "sistema", come lo chiama la Direzione nazionale antimafia. Un sistema che ha ormai affinato un metodo. Non è più quello del terrore, come nella Milano degli anni Settanta, battuta da estorsioni e sequestri architettati dai clan siciliani e calabresi. Oggi, il sistema delle mafie al Nord è una grande agenzia di servizi, che offre soprattutto capitali piccoli e grandi agli imprenditori in difficoltà, magari acquistando quote societarie. Ma l'abbraccio dei boss è fatale. Prima o poi, tutta l'azienda finirà nelle mani dei padrini. È già accaduto. Eppure, tanti imprenditori continuano a ritenere più conveniente rivolgersi all'agenzia di servizi del crimine organizzato.  Anche nel profondo Nord è ormai scoppiata una grande "voglia di mafia". Ma, in fondo - hanno ragione i magistrati più avveduti - neanche questa è una novità. Nel 1974, un importante imprenditore milanese che temeva un sequestro chiese a un amico palermitano di presentargli qualcuno in grado di proteggerlo. Così fu organizzato un incontro, a cui partecipò uno dei capimafia siciliani più importanti dell'epoca. Era Stefano Bontate: assicurò che un suo uomo avrebbe garantito giornate tranquille alla famiglia dell'imprenditore, fingendo di essere il fattore della loro villa. Quell'imprenditore si chiama Silvio Berlusconi. L'amico palermitano è Marcello Dell'Utri, che sta scontando una condanna a sette anni per aver mediato l'accordo di protezione. Dagli anni Settanta a oggi, i mafiosi sono diventati un po' più insospettabili, e i loro servizi sono aumentati.

Il tabù infranto di Michele Di Salvo. Sono ormai moltissimi i processi e le indagini che certificano la presenza delle organizzazioni criminali, di ogni matrice e origine, nel tessuto socio-economico settentrionale. Nonostante quelle che ormai possiamo considerare certezze consolidate sembra che ammettere che le mafie hanno messo le mani al nord, e in particolare a Milano, nella capitale economica d'Italia, sembra un tabù. L'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni si disse "Indignato dalle parole di Saviano" quando lo scrittore nel novembre 2010, ospite della trasmissione "Vieni via con me", accennò alle possibili infiltrazioni mafiose al nord, semplicemente citando articoli di giornale e inchieste. Maroni in quella circostanza chiese e ottenne un contraddittorio a "Che Tempo Che fa". "Come ministro e ancora di più come leghista mi sento offeso e indignato dalle parole infamanti di Roberto Saviano, animate da un evidente pregiudizio contro la Lega". Parole dette mentre era titolare del Viminale, e aggiunge che chi avesse sentito "Saviano parlare senza contraddittorio potrebbe essere indotto a pensare che in quelle parole c'è qualcosa di vero e siccome non è così voglio poter replicare a quelle stupidaggini". "Del resto che non ci fosse la volontà, prima di tutto politica, di mostrare con chiarezza il grado di penetrazione delle organizzazioni criminali nelle regioni settentrionali, è chiaramente mostrato dagli stessi rapporti semestrali preparati dalla DIA per la relazione del Ministro dell'Interno al Parlamento. Quello che dovrebbe essere il momento più elevato della rappresentazione della presenza del crimine organizzato all'organo legislativo, che dovrebbe appunto legiferare in materia anche e sopratutto tenendo conto di un quadro chiaro della situazione nazionale, e quello che dovrebbe essere un documento utile ai rappresentanti dei cittadini di tutte le regioni, omette incredibilmente una "rappresentazione grafica chiara" di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, lasciando trasparire un messaggio per cui le organizzazioni criminali sono un fenomeno geograficamente circoscritto e concentrato, e non una questione grave nazionale che tocca anche il più piccolo comune." Il ministro -  di lì a poco segretario della Lega Nord - ammise che le mafie non erano un fenomeno locale e soprattutto non erano un fenomeno leghista. Chissà che avrebbe detto se avesse immaginato che entro tre anni sarebbe scoppiato il caso Belsito che evidenziò diversi tentativi di avvicinamento (durati circa vent'anni che gli inquirenti ipotizzano già sotto il tesoriere Maurizio Balocchi) tra le 'ndrine e d esponenti leghisti. Già, i tempi in cui il leader fondatore incontrastato della Lega era Umberto Bossi che nel 1990 sentenziava: "Basterebbero sei mesi, al massimo un anno di governo della Lega lombarda per far sparire anche l'odore della mafia da Milano". Che Milano fosse indenne dall'infiltrazione mafiosa lo disse anche Letizia Moratti intervenendo, il 25 maggio 2009, ad Annozero. Non solo politica e giornalismo si indignano quando si parla di cosche a Milano. Accade che lo facciano anche i massimi rappresentanti dello Stato. Prima della  querelle a distanza Maroni-Saviano, il 21 gennaio 2010, a negare l'esistenza della 'ndrangheta nel capoluogo lombardo era stato il prefetto della città Gian Valerio Lombardi: "A Milano ci sono mafiosi, ma la mafia non esiste". Lo disse durante la prima audizione della commissione parlamentare antimafia a Milano in vista dell'Expo. Lombardi poi specificò indirettamente che non era in discussione la presenza delle organizzazioni criminali quanto il loro modo di agire: più imprenditoriale che "esecutivo". Sul filo sottile dell'etimologia è l'ex-sindaco ed ex-ministro Letizia Moratti, che  il 23 gennaio 2010 dichiarò "io parlerei più che di infiltrazioni mafiose di infiltrazioni della criminalità organizzata". Sulle barricate anche gli imprenditori. Nel maggio 2007 Roberto Predolin, allora presidente della controllata Sogemi, la società che gestisce tutti i mercati agroalimentari all'ingrosso, alla domanda se ci fosse la 'ndrangheta all'Ortomercato rispose secco: "Che sappia io, no". Oggi le indagini certificano invece che l'Ortomercato di Milano è considerato uno dei centri di controllo della criminalità organizzata. Secondo Paolo Pillitteri, sindaco di Milano e cognato di Bettino Craxi. "Nella nostra città una Piovra, sì una grande criminalità mafiosa, non esiste". Era il 1989 ed aggiunse, a scanso di equivoci: "Il bello della Piovra è proprio che si tratta di una favola, soltanto di una favola". Del resto sia lui che un altro sindaco sindaco Borghini sarebbero stati "rassicurati" dal giudice di Cassazione Corrado Carnevale che nell'agosto del 1991 assolvendo gli imputati scrisse testualmente nelle motivazioni della sentenza: che gli imputati "si frequentassero, concludessero affari con boss del calibro dei fratelli Bono, Salvatore Enea o con società del gruppo Inzerillo, e che questi legami non fossero né privati né occasionali o sporadici, bensì per motivi e ragioni di comuni interessi, assistenza e finanziamenti e operazioni speculative... non può di per sé essere utilizzato come prova dell'organizzazione criminale, né dell'appartenenza a essa". Secondo quanto emerge dalle numerose indagini, dagli studi e dalle audizioni della commissione antimafia, le organizzazioni criminali hanno sviluppato un forte orientamento a privilegiare l'insediamento e la penetrazione al nord nei piccoli comuni. Questa tendenza è dovuta a svariati fattori. In primo luogo l'inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell'ordine, e il basso interesse riservato alle vicende dei comuni minori dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali. Non secondaria la facilità di accesso alle amministrazioni locali grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze, specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza sia poco diffuso tra gli elettori. Non secondario è anche l'aspetto di "similitudine dimensionale" tra comune di origine e comune di insediamento. In particolare la 'ndrangheta ha radici nei piccoli comuni e le mette nei piccoli comuni; stabilisce tendenzialmente un rapporto biunivoco tra un comune calabrese e un comune del nord o tra un ristrettissimo gruppo di comuni calabresi (in genere confinanti) e un ristrettissimo gruppo di comuni settentrionali (anch'essi in genere confinanti). Modello questo che tende a replicare anche fuori dal territorio nazionale, si pensi al Canada come alla Germania e agli Stati Uniti. Le 'ndrine tendono a "replicare" un modello: il luogo della massima concentrazione conosciuta di "locali" di 'ndrangheta coincide con la provincia di Milano e della provincia di Monza-Brianza, ossia con un'area che presenta una densità demografica decupla rispetto alla media nazionale. L'elevata densità demografica corrisponde in genere a migrazioni storiche e l'alta densità demografica implica maggiore mimetizzazione sociale e più favorevoli opportunità di costruzione di relazioni sociali e professionali anonime. Infine l'alta densità demografica si associa a una elevata percentuale di cementificazione del territorio, processo che implica una esaltazione delle opportunità di inserimento delle imprese mafiose. Secondo l'Istat (2012) le provincie più cementificate di Italia risultano nel 2011, nell'ordine, Monza-Brianza (54 per cento di superfici edificate), Napoli (43), Milano (37) e Varese (29), e non è un caso che tutte e quattro le provincie si caratterizzino per una forte presenza, antica o espansiva, degli interessi di stampo mafioso. La formula ideale del successo sembra essere quindi "piccoli comuni-alta densità demografica". Sottovalutazione del fenomeno e rimozione, talvolta sfociante in un vero e proprio negazionismo, vanno di pari passo con l'inadeguatezza del grado di informazione sui fenomeni malavitosi e di contrasto all'attività del crimine organizzato. Del resto il modus operandi dei gruppi mafiosi è notevolmente flessibile. Possono avvantaggiarsi dell'alta o della bassa densità demografica, della abbondanza di risorse o della crisi (usura, gioco d'azzardo), dei servizi sociali evoluti o del degrado urbano, del servizio pubblico o dell'economia privata; e nella scelta della propria rappresentanza politica non presentano predilezioni a priori per l'uno o l'altro schieramento. Le organizzazioni mafiose, pur influenti, non sembrano tuttavia disporre di amplissimi "pacchetti" di consensi. Ciò indica che il grado di organizzazione del consenso non si è ancora sviluppato, nelle regioni a maggior presenza mafiosa, come nelle realtà più tradizionali. Sia le inchieste lombarde sia quelle piemontesi rivelano la presenza di un alto numero di esponenti dei clan nati nelle regioni di nuova residenza, perfettamente orientati a riprodurre gli schemi di condotta praticati dalle rispettive organizzazioni nei luoghi di origine.

La mappa regione per regione di Michele Di Salvo.

La Lombardia è una regione di insediamento storico delle organizzazioni criminali: tutte le più importanti vi si sono stabilite non solo per le molte possibilità di investimento nelle attività legali (grandi opere, imprese, locali notturni) e illegali, ma anche per la scarsa resistenza ambientale. La disattenzione istituzionale e sociale al fenomeno mafioso e diversi fenomeni criminali differenti quali terrorismo, tangentopoli, immigrazione che hanno "coperto" il problema, hanno permesso alla criminalità organizzata una penetrazione sociale senza forti ostacoli. Il Nord-Ovest della regione (Como, Lecco, Varese, Milano e Monza e Brianza) è caratterizzato da presenze antiche e solide. Nella fascia meridionale della regione si individua una più recente e preoccupante pressione: la provincia di Lodi sembra svolgere una funzione di nicchia protetta e di area di avvicinamento all'hinterland milanese. Le provincie di Mantova e Cremona, invece, confinano con le provincie emiliane a maggiore presenza mafiosa. Fino alla fine degli anni '80 l'organizzazione predominante è stata Cosa nostra. Oggi ne risultano attivi diversi gruppi. Attualmente, invece, è la 'ndrangheta a essere l'organizzazione più forte: seppur insediatasi nel territorio lombardo nello stesso periodo di Cosanostra, è solo dagli arresti che hanno colpito i siciliani dagli anni '90 che ha affermato una sua indiscussa egemonia sviluppando una sorta di "colonizzazione" in diverse aree della regione, con una solida rete di alleanze e di rapporti istituzionali, nelle pubbliche amministrazioni,  con professionisti e imprenditori privati. Con l'indagine Infinito del luglio 2010 gli inquirenti hanno identificato sedici locali, ognuna rispondente a una propria locale madre calabrese, ma insieme coordinate dalla "Lombardia", ovvero una sovrastruttura federativa che attraversa fasi alterne di autonomia rispetto alla Calabria. Presenza più difficile da analizzare è quella della camorra, da sempre attratta dalla ricchezza e dalle possibilità offerte soprattutto dal mercato della droga lombardo. Dalle più recenti indagini sono risultati attivi nella regione diversi gruppi: la famiglia Di Lauro, il gruppo Nuvoletta, la famiglia Laezza, legata al clan Moccia di Afragola, un gruppo che fa riferimento al clan Di Biase-Savio. È emerso, inoltre, l'interesse del clan dei casalesi e del gruppo Belforte di Marcianise nel settore del gioco, e la presenza del clan Fabbrocino e del clan Gionta.

Il Piemonte, come la Lombardia, ha storicamente esercitato una forte attrattiva sulla criminalità organizzata. L'espansione urbanistica degli anni '60, compresa quella delle zone turistiche, ha contribuito allo sviluppo di un fenomeno di colonizzazione a macchia di leopardo. In Piemonte  si assiste a una netta prevalenza della 'ndrangheta rispetto alle altre forme di criminalità organizzata, evidenziata dalle recenti operazioni Minotauro e Albachiara. Grazie a esse è stato messo in evidenza un radicamento forte e strutturato soprattutto nella città di Torino e nella sua provincia, che conferma quanto scritto nel 2008 dalla DDA di Torino, secondo la quale la criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale mentre "i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza". Ed è stato anche messo in evidenza il progressivo inserimento della criminalità organizzata sia nel tessuto economico sia nell'area di azione della politica e delle pubbliche amministrazioni. Anzi proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali ha favorito la crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell'edilizia e dei lavori pubblici. Nel 2012 l'inchiesta Minotauro ha messo infatti in luce l'esistenza di 9  cosche locali nell'area metropolitana, ma anche di una struttura territoriale non riconosciuta, chiamata "Bastarda", con influenze in provincia di Torino. Gli inquirenti, allo stato delle indagini, ipotizzano l'esistenza in Piemonte del "Crimine", organismo al vertice della struttura criminale sito a Torino e funzionale alla gestione del territorio, mentre manca la "Camera di Controllo" (apparato di coordinamento dell'organizzazione criminale presente in Lombardia e in Liguria), sebbene dalle intercettazioni si evinca la volontà della 'ndrangheta di istituire tale struttura anche in Piemonte. (Secondo il collaboratore di giustizia Rocco Varacalli questa struttura controlla anche i comuni di Rivarolo Canavese, Castellamonte, Ozegna, Favria e Front).

In Valle d'Aosta la stessa Commissione regionale speciale per l'esame del fenomeno delle infiltrazioni mafiose in regione pur sostenendo nel 2012 che non esiste una presenza strutturata di organizzazioni criminali, ha però evidenziato "l'influenza di grandi famiglie della 'ndrangheta che si è manifestata nel corso degli anni con episodi di riciclaggio di denaro, di traffico di stupefacenti e di estorsioni". La Direzione Nazionale Antimafia già nel 2010 era andata oltre, ipotizzando la presenza di una locale di 'ndrangheta. L'ipotesi troverebbe conferma in alcune intercettazioni dell'operazione torinese Minotauro. Nonostante la predominanza della 'ndrangheta, si colgono in Valle i segni di presenza di altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso. Nella seconda metà degli anni '90 hanno operato nella regione soggetti legati alla Stidda e vi si sono trasferite due famiglie legate al clan gelese degli Emmanuello ed è emerso l'interesse della cosca Mandalà per il casinò di Saint Vincent, a seguito di alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Francesco Campanella.

La Liguria rappresenta una regione storicamente interessante per le principali organizzazioni criminali di tipo mafioso: terra di confine, costituisce tuttora una base logistica per la gestione di latitanti che, passando per Ventimiglia, trovano rifugio nelle località contigue francesi; terra di mare, offre strategici snodi portuali in cui far confluire partite illecite di droga; terra di immigrazione, dalla seconda metà degli anni '40 diviene residenza di esponenti criminali all'interno dei flussi migratori, provenienti soprattutto da Sicilia e Calabria, composti da onesti corregionali in cerca di occupazione; terra di soggiornanti obbligati, e terra del gioco d'azzardo - con il casinò di Sanremo - da decenni rappresenta una tra le principali sedi del riciclaggio di denaro di illecita provenienza. Ad oggi si riscontra la presenza delle principali organizzazioni criminali di stampo mafioso, con un evidente primato della 'ndrangheta su camorra e cosa nostra, in linea con lo scenario nazionale ed internazionale in cui la mafia calabrese ricopre da anni un ruolo apicale. La 'ndrangheta si caratterizza per una presenza stabile e strutturata nella regione, con cosche locali  innestate sul territorio secondo una precisa strategia di colonizzazione. Con l'inchiesta Il Crimine (2010), oltre allo scenario della 'ndrangheta in Liguria emerge l'esistenza di una camera di controllo e di "almeno nove locali", rispettivamente a Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana, Sanremo, Rapallo, Taggia, Savona e Imperia. La presenza di una camera di controllo, o camera di compensazione, esistente in Lombardia ma assente in Piemonte, sembra sottolineare l'elevato grado di strutturazione della associazione in Liguria, in particolare nella provincia di Imperia. La presenza di Cosa nostra è stata riscontrata nelle diverse provincie. L'esistenza di decine di Cosa nostra nel capoluogo risale agli anni '80. Nel 1979 un importante boss mafioso, Salvatore Fiandaca, venne inviato al soggiorno obbligato nel comune di Genova diventando negli anni successivi capo decina del clan Madonia. Negli anni giunsero in Liguria diverse famiglie mafiose: Vallelunga, Di Giovanni, Lo Iacono, Aglietti, Morso, Monachella e gli Emmanuello attratti dalla presenza di numerosi cantieri, dalle opere di costruzione del tratto autostradale, nonché dalla posizione strategica della regione confinante con la Francia. La presenza della Camorra è rilevante nella città di Genova, dove è attiva nello spaccio di sostanze stupefacenti, nel levante ligure nell'ambito dell'edilizia, degli autotrasporti, dell'agricoltura in serra mentre a Sanremo è dedita prevalentemente al riciclaggio e al traffico di merce contraffatta.

In Emilia Romagna le principali organizzazioni criminali operano pacificamente sul medesimo territorio, talvolta stringendo patti per la conclusione di affari nei settori maggiormente remunerativi. La 'ndrangheta si dimostra, insieme al clan dei casalesi, la realtà criminale più incisiva. Seguono altri clan camorristici presenti nella provincia di Modena e in Romagna, più alcune presenze significative di Cosa nostra. In Romagna il riciclaggio è favorito dalla vicinanza con la Repubblica di San Marino. La 'ndrangheta risulta attiva in particolare nelle provincie di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza. Le 'ndrine maggiormente rappresentate sono quelle originarie di Platì, San Luca, della Piana di Gioia Tauro, di Isola di Capo Rizzuto ma in particolare quelle provenienti da Cutro, nel crotonese. La camorra risulta particolarmente attiva in provincia di Modena, benché recenti indagini rivelino un apprezzabile spostamento verso la sponda romagnola. La presenza dei casalesi sul territorio è in aumento e, negli ultimi anni, la magistratura ne ha più volte sottolineato la pericolosità. Si tratta di compagini criminali poco strutturate, sotto-gruppi vincolati da un legame stringente con i clan campani di provenienza. Senza alcuna ambizione di egemonia, spesso stringono affari con esponenti di altre organizzazioni criminali (calabresi o siciliane) con le quali operano soprattutto nell'ambito del gioco d'azzardo e delle estorsioni. Con l'operazione Vulcano del febbraio 2011 i carabinieri del ROS di Bologna hanno tratto in arresto soggetti appartenenti a tre clan camorristici diversi: i casalesi afferenti a Nicola Schiavone, i Vallefuoco di Brusciano e i Mariniello di Acerra. La peculiarità del sodalizio criminale che ne è emerso sta nel fatto che questi clan sono tra loro in conflitto in Campania, ma in Emilia Romagna risultano compartecipi in affari illegali. Di pochi giorni fa la maxiretata sulla 'ndrangheta con 117 richieste di custodia cautelare. Mani delle cosche sugli appalti, anche quelli della ricostruzione con gli indagati che ridono dopo il terremoto del 2012. E che parlano fra loro un linguaggio fatto di allusioni e frasi gergali. Cosa nostra appare oggi meno incisiva rispetto alle altre due principali organizzazioni criminali. L'organizzazione siciliana risulta particolarmente attiva nel modenese, nei comuni di Sassuolo, Carpi e Fiorano, residenze in passato di importanti soggiornanti obbligati o di sorvegliati speciali. Ancora nel 2005 diversi uomini legati al boss Bernardo Provenzano furono arrestati nei comuni di Castelfranco Emilia, Nonantola e Modena. Nella zona di Parma risultano presenti esponenti delle famiglie Emmanuello e Rinzivillo originarie di Gela e appartenenti a Cosa nostra nissena, e nella zona di Piacenza è stata riscontrata la presenza di esponenti del clan Galatolo, operante nel quartiere Acquasanta di Palermo.

Il tessuto economico del Veneto risulta essere particolarmente attrattivo per i gruppi criminali perché caratterizzato da piccole e medie imprese, un alto tasso di industrializzazione e da una fitta rete di sportelli bancari. Al dinamismo del sistema imprenditoriale e alla sua ricca articolazione si sovrappone la perdurante crisi economica in cui versa l'Italia, con la conseguente mancanza di liquidità. Questa situazione, associata alla reticenza delle banche ad erogare prestiti alle imprese a rischio di insolvenza, sembra avere portato molti piccoli imprenditori veneti in difficoltà a rivolgersi alla criminalità organizzata. Basti ricordare l'indagine Aspide del 2011 che ha visto coinvolti soggetti che erogavano crediti agli imprenditori per poi vincolarli al pagamento di interessi altissimi fino ad ottenere l'acquisizione delle attività.  Il Veneto, inoltre, costituisce un potenziale snodo strategico per i traffici illeciti, interni e internazionali, dal narcotraffico al traffico illecito di rifiuti. Tra gli anni '70 e '90, molti boss di Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta vi sono stati inviati al confino. Si pensi a Salvatore "Totuccio" Contorno, al boss 'ndranghetista Giuseppe Piromalli oppure ad Anna Mazza, appartenente al clan Moccia di Afragola e conosciuta come la "vedova della camorra". Oggi diverse operazioni di polizia hanno dimostrato una presenza vivace della criminalità organizzata e, in particolare, della camorra, presente soprattutto nelle provincie di Venezia e di Padova. La prevalenza di sodalizi campani rispetto ad altre forme di associazionismo mafioso, si riflette anche sulla natura e sulle modalità di infiltrazione, configurato come delocalizzazione di specifiche attività. Negli ultimi anni si è riscontrata però una sempre più consistente presenza della 'ndrangheta, specialmente nella provincia di Verona. Un esempio significativo è il caso del comune Garda, dove nel 2012 è stato richiesto il commissariamento per sospette infiltrazioni della 'ndrangheta negli appalti e negli uffici comunali. Nella regione non mancano neppure gruppi riferibili a Cosa nostra, che sembrano attivi nella marca trevigiana, nel veneziano e nel padovano.

In Friuli Venezia Giulia nel corso degli anni è stata riscontrata la presenza di soggetti riconducibili alla mafia siciliana, alla camorra, alla 'ndrangheta calabrese e a sodalizi pugliesi. La collocazione geografica della regione, il peculiare tessuto socio-economico e la piccola imprenditoria che caratterizzano l'economia locale costituiscono un'attrattiva per gruppi criminali. Il Friuli ha così assunto un ruolo strategico "di secondo grado", diventando una sorta di area di transito in prossimità del confine con la Croazia e la Slovenia, ma anche uno snodo importante per i traffici illeciti, soprattutto via mare, che ha visto particolarmente coinvolte la città di Trieste e il comune di Monfalcone. L'arresto di diversi latitanti, affiliati a gruppi criminali di diversa provenienza: cosche campane, clan calabresi o gruppi di origine pugliese, induce a ritenere che la criminalità organizzata consideri il Friuli Venezia Giulia un luogo sicuro dove cercare rifugio, una regione in cui è agevole, anche per la disabitudine locale a confrontarsi con il tema, allestire proprie "reti di assistenza".  La predominanza storica è della camorra, particolarmente interessata ad operare nella zona di Trieste, nel comune di Monfalcone e sul litorale udinese. Per quanto riguarda Cosa nostra, invece, la presenza si è concentrata storicamente nella provincia di Pordenone e, in particolare, nel comune di Aviano e dintorni, e nella provincia di Udine.

In Trentino Alto Adige le diverse forme di criminalità organizzata, e in particolar modo la 'ndrangheta, hanno adottato una strategia di infiltrazione "leggera", mantenendo il classico basso profilo, che non si esprime solo nell'assenza di locali. La posizione geografica della regione gioca un ruolo strategico e di attrazione in quanto collocata in prossimità del confine con la Svizzera e proiettata verso il centro dell'Europa. Non è un caso, infatti, se l'attività più diffusa sul territorio sia proprio il narcotraffico.

"Sono ovunque, solo la cultura ci può salvare" di Valerio Gualerzi. Sarebbe il caso di cambiare espressione. Quando si racconta di vicende mafiose lontane da Sicilia, Calabria o Campania il riflesso condizionato ci porta ancora a usare la parola "infiltrazione", ma da anni si tratta ormai in realtà di un vero e proprio radicamento. Il professore Enzo Ciconte, a lungo parlamentare nelle file del Pci-Pds e coautore dell'Atlante delle mafie edito da Rubbettino, ne è convinto. "Sa qual è la prova migliore di quanto le sto dicendo? Provi a leggere un'ordinanza giudiziaria coprendo l'intestazione del tribunale che l'ha emessa. Dalle descrizioni dei fatti e del contesto faticherebbe a capire che non si riferisce a vicende avvenute al Meridione, ma a Pavia piuttosto che a Sanremo. Le mafie sono presenti ormai stabilmente in tutta Italia e in particolare nel triangolo Liguria, Lombardia, Piemonte".

Professor Ciconte, possibile che nessuno sia riuscito a rimanere immune?

"Si tratta di una diffusione non omogenea, a macchia di leopardo, con alcune aree che ancora resistono meglio di altre, come buona parte dell'Emilia Romagna, ma nel complesso la criminalità organizzata, e in particolare la 'ndrangheta, sono riuscite ovunque a conquistare l'economia locale, a stringere rapporti con l'imprenditoria e a far eleggere sindaci, amministratori e consiglieri comunali. In quest'ultimo caso il problema è stata la formulazione dell'articolo 416 ter che punisce i politici solo se aquistano voti in denaro, ma non interviene se la controparte sono favori generici. La presenza mafiosa al nord è talmente forte che ormai anche un tratto considerato tipico del sud, come l'omertà, è ormai una caratteristica del settentrione. Allo stesso modo tante inchieste dimostrano che il rapporto tra imprenditoria locale e mafie non è più subito, ma spesso cercato dagli stessi imprenditori, magari per delegare il recupero crediti".

Che cos'è che ha favorito il radicamento di questa presenza?

"I fattori decisivi sono quelli culturali ed economici, spesso intrecciati. Penso ad una società che negli ultimi decenni è stata dominata dalla parola d'ordine 'arricchitevi' e dal disprezzo delle regole, anni in cui il presidente del Consiglio sosteneva la liceità dell'evasione fiscale. La crisi poi ha fatto il resto, perché se le banche chiudono i rubinetti del credito, la disponibilità di liquido delle mafie è invece illimitata. Anzi, la mafia ha bisogno di far girare il suo denaro per ripulirlo e non stiamo parlando di usura, ma di investimenti".

Eppure gli episodi di violenza continuano ad essere concentrati al sud.

"Certo, la grande criminalità organizzata non vuole attirare l'attenzione su di sé e uccide solo se strettamente necessario. Se possibile poi preferisce aspettare l'occasione giusta, quando la vittima torna nella terra d'origine per le vacanze o per fare visita ai parenti. Lì un omicidio desta meno impressione, fa meno notizia".

Nel loro trapiantarsi al centro nord le mafie hanno assunto caratteristiche diverse in base al luogo di insediamento?

"Direi di no. A parte le scontate attività illecite come il traffico di droga, hanno puntato soprattutto sull'edilizia e sulle imprese per il movimento terra, oltre che su commercio e ristorazione".

Qual è l'antidoto per riconquistare la legalità ed evitare che il contagio si diffonda ancora?

"Innanzitutto bisogna prendere coscienza della portata del problema. Ognuno deve fare la propria parte. Se l'imprenditore fa l'imprenditore non serve l'antimafia. Sembra una banalità, ma non lo è. Come in una banda, affinché ci sia armonia occorre che ogni strumento dia il suo contributo. Senza dubbio però la battaglia si gioca soprattutto sul piano culturale. Le mafie questo lo hanno capito e hanno prima messo da parte la loro tradizionale ritrosia, venendo allo scoperto con interviste e dichiarazioni dei boss, e ora cercano di imporre loro modelli culturali, come con la musica dei neomelodici in Campania".

Il "mondo di sotto" della camorra a Roma di Daniele Autieri. Nel "mondo di sotto" ritratto da Massimo Carminati come il luogo dove si agitano i "morti" e dove regnano crimine e violenza, le leggi, gli equilibri, i regolamenti di conti sono gestiti da un'organizzazione spietata e capillare, dotata di massicci gruppi di fuoco, e protetta da un grande fratello criminale che osserva a 200 chilometri di distanza. Alcuni inquirenti già la chiamano "Camorra Capitale" perché è cresciuta negli ultimi venti anni imbastardendo le origini camorriste con embrioni della criminalità romana. Soprattutto di stampo neofascista. "È la teoria del mondo di mezzo, compà  -  ripeteva Carminati a Riccardo Brugia  -  ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo". Scovati gli intrecci e le connivenze con i "vivi" della politica, mancava un tassello per completare il quadro a tinte fosche disegnato dal boss di "mafia capitale". Mancavano i "morti". E il mondo di sotto, quello dei "morti", Massimo Carminati lo fissa negli occhi il 30 aprile del 2013, fuori dal bar "La Piazzetta" in zona Fleming, quando incontra Michele Senese. È quest'uomo nato ad Afragola che tiene in mano lo scettro criminale della città. Estorsioni, traffico internazionale di stupefacenti, ricatti, minacce: un padrone assoluto che impone la sua legge sotto l'egida del piombo. E al suo fianco i "napoletani di Cinecittà", partiti da Roma Est per conquistare la Capitale. Un obiettivo raggiunto perché il gruppo esercita ormai il controllo quasi ovunque, da Tor Bella Monaca a Ponte Milvio e, oltre alle attività più tradizionali delle organizzazioni mafiose, si è infiltrato nel ventre malato dell'imprenditoria romana. Le origini: l'omicidio Carlino. Casa di reclusione di Rebibbia, Roma. Anno 1999. Michele Senese, boss della camorra trapiantato da anni a dirigere il traffico criminale della Capitale si affaccia alla finestra della sua cella e urla in direzione di Carlino, uno dei capi della banda della Maranella. "Se non lo ammazzi tu a tuo fratello, lo ammazzo io. Vi ammazzo a tutti quanti". Due anni dopo la promessa è mantenuta. Il 10 settembre del 2001, mentre Senese è ancora in carcere, un commando di fuoco assalta la villa di Torvajanica dove vive Giuseppe Carlino e lo uccide davanti agli occhi della madre. L'omicidio lava il sangue di Gennaro Senese, fratello di Michele, assassinato dai Carlino a Centocelle il 16 settembre del 1997. Ma quello della faida familiare è solo uno spunto per mettere in chiaro un imperativo rimasto fino ad allora fumoso: Roma è della camorra. E del clan Senese. Lui, Michele, è un astro nascente nel firmamento criminale. Riconosciuto come un fiancheggiatore della banda della Magliana, si stabilisce in pianta stabile a Roma negli anni '80 dopo aver partecipato alla guerra di camorra che insanguina la provincia di Napoli. Affiliato al clan Moccia, costruisce il suo potere criminale a Roma, dove viene conosciuto da tutti come "ò pazzo" per la sua abilità nello scontare le pene all'interno degli ospedali psichiatrici piuttosto che in galera. Ma le indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri di via in Selci lo mettono all'angolo, insieme a una parte nutrita della sua organizzazione e il 26 giugno del 2013 viene nuovamente arrestato. Questa volta è diversa dalle altre perché il primo grado di giudizio lo riconosce come il mandante dell'omicidio Carlino e lo condanna all'ergastolo. Occhi di ghiaccio. Se il boss di Afragola è il mandante (quando Carlino viene ucciso Senese è ristretto in un ospedale psichiatrico in Toscana), gli esecutori materiali sono altri. E quegli uomini, negli anni di carcere del capo, hanno imposto la sua legge su Roma. Il primo e più temuto è Domenico Pagnozzi (agli arresti con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso), chiamato nell'ambiente ice per via dei suoi occhi di ghiaccio. E con lui Fiore Clemente, Giovanni De Salvo, Raffaele Carlo Pisanelli, Giovanni Moriconi, Vicenzo Carotenuto e Antonio Riccardi. Tutti fedelissimi, riconosciuti colpevoli di aver partecipato al delitto Carlino. Eppure la decapitazione del vertice dei "napoletani di Cinecittà" non frena le attività dell'organizzazione. Tor Bella Monaca come Scampia. Il 24 gennaio scorso il Nucleo investigativo dei carabinieri di Frascati, insieme al Nucleo di polizia tributaria della Finanza, arresta 18 persone nella periferia est di Roma: Tor Bella Monaca. L'operazione sgomina un'organizzazione che gestisce lo stoccaggio e lo spaccio nel quartiere, divenuto per mezza Roma il supermarket degli stupefacenti. A guidare il gruppo è Manolo Monterisi, romano, 36enne, soprannominato "il pugile" e definito dai carabinieri del Nucleo "promotore e organizzatore dell'associazione". Tuttavia, fonti investigative confermano che Monterisi non lavora da solo. Anzi. Alcuni pentiti hanno infatti dichiarato che alle spalle del pugile ci sarebbe Michele Senese e il suo clan. La piazza di TorBella è roba loro. Gli imprenditori. "Camorra capitale" è ovunque. Nel traffico di stupefacenti, negli omicidi, nelle gambizzazioni, ma anche nel "business" delle estorsioni. Se è vero che a Roma il pizzo non esiste, almeno non nella sua forma tradizionale, è anche vero che un numero consistente di imprenditori è finito nelle mani della camorra. Perché? Da anni si è sviluppata una indefinita zona grigia, una vasta macchia di petrolio nero che alimenta l'economia sommersa. Sono centinaia le imprese coinvolte, che lavorano senza pagare tasse né contributi, ma soprattutto senza godere delle tutele previste dallo Stato. E quando sorgono questioni la camorra si sostituisce all'autorità pubblica, dirimendole e pretendendo in cambio denari o l'ingresso nel business. Fino a costringere l'imprenditore a diventare uno schiavo dell'organizzazione criminale. Il mistero dell'arsenale. Nonostante le ambizioni imprenditoriali del gruppo, il controllo del territorio viene ancora esercitato con il piombo. Le armi restano la chiave di questa storia, il deterrente più efficace e l'ultimo appello per risolvere questioni pendenti. Armi che i carabinieri hanno cercato negli ultimi anni in ogni anfratto della città. Oggi però una pista riporta al passato, al 17 dicembre del 2011 quando i carabinieri scoprirono in un garage nei pressi della Casilina un vero e proprio arsenale. Mitragliatori, fucili d'assalto di nazionalità cinese, pistole automatiche, fucili AK47, e oltre 1.400 cartucce. Di lì a poco l'inchiesta "Grano nero" identifica i gestori dell'arsenale: Fabio Giannotta, Claudio Nuccetelli, Manolo Pastore e Mauro Santori. Tutti vantano un pedigree da rapinatori a partire da Giannotta, appartenente tra l'altro a una nota famiglia dell'estrema destra romana. Il padre, Carlo, è stato in passato responsabile della sede Msi di Acca Larentia e il fratello, Mirco, fu nominato dall'allora sindaco Gianni Alemanno capo dell'ufficio decoro urbano del Campidoglio. Fabio invece fa rapine e ama la bella vita: i carabinieri lo seguono mentre sfreccia sulla Casilina alla guida di una Ferrari California blu in direzione di casa. Fino ad oggi gli inquirenti non hanno fatto piena luce su chi fossero gli utilizzatori finali di quell'arsenale, tuttavia proprio in questi giorni emerge una nuova pista e indizi inediti che dimostrerebbero la contiguità di alcuni uomini finiti in "Grano nero" con il clan di Michele Senese. La camorra di Ponte Milvio e il poker. "Camorra capitale" non si accontenta delle periferie.

Le Terme di Diocleziano svendute ai clan di Daniele Autieri. Una prova della pervasività delle organizzazioni criminali nella "cosa pubblica" risale al 2008 quando l'Atac, la società romana del trasporto, vende al Gruppo Ragosta per 43 milioni di euro il palazzo Montemartini di via Volturno. Il palazzo ha un enorme valore storico, essendo la sede peraltro delle terme di Diocleziano, ma questo non ferma l'affare. La transazione viene condotta da Atac Patrimonio, controllata di Atac e allora guidata da Gioacchino Gabbuti (già finito in un'inchiesta della Procura di Roma con l'accusa di riciclaggio). Dall'altra parte del tavolo siedono i Ragosta, famiglia di imprenditori particolarmente influenti nel casertano. Nel 2012 un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli porta in carcere 47 persone, tra cui proprio i tre fratelli Ragosta. Secondo gli inquirenti, le imprese del gruppo sono cresciute in modo così esponenziale negli ultimi anni grazie ad un'enorme iniezione di denaro liquido di provenienza camorrista. Il salto di qualità viene compiuto nel 2001 quando i Ragosta acquistano le fallite Acciaierie del Sud. Gli assegni circolari di 4 miliardi e 683 milioni di lire che servono per la cauzione vengono emessi da una società costituita appena tre giorni prima e coperti da una società di diritto lussemburghese, la Immobilfin SA. Le indagini della Dda dimostreranno che la Immobilfin SA è direttamente riconducibile a Raffaele Ragosta e alla moglie Annamaria Iovino e che, tra il 2001 e il 2003, la finanziaria pompa nelle società italiane del gruppo ben 10,8 milioni di euro. Così l'impero dei Ragosta cresce: arrivano le grandi acquisizioni (come quella del palazzo dell'Atac) e il patrimonio raggiunge le 477 unità immobiliari per un valore stimato di un miliardo di euro. 

'Ndrangheta, la mafia dei cinque Continenti di Giuseppe Baldessarro. Vincenzo Macrì lo diceva quando era magistrato alla Direzione nazionale antimafia, una decina di anni fa: "Non vi è continente che possa considerarsi immune dalla presenza della 'ndrangheta". E' lo stesso concetto espresso più volte dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che ha inseguito i broker delle cosche calabresi in tutto il mondo: "La 'ndrangheta è l'unica mafia presente in tutti e 5 i continenti". E' un dato di fatto, ormai certificato dalle indagini delle polizie internazionali che hanno fotografato gli interessi e il modus operandi delle "famiglie" che, comunque, restano legate alla terra d'origine e alle regole scritte nel cuore dell'Aspromonte. È la Calabria la "mamma" della 'ndrangheta. E questo a prescindere dal fatto che le cosche si siano poi insediate nel resto d'Italia e del Mondo. Per comprenderlo basta leggere le carte della recente operazione "Aemilia" della Dda di Bologna e la tranche catanzarese delle stessa inchiesta. A Reggio Emilia i "Grande-Aracri" avevano messo basi solide, ma è nella provincia di Crotone che i boss avevano le loro radici. In Emilia Romagna prendevano gli appalti, aprivano attività commerciali, gestivano gli affari e i traffici, tenevano relazioni con il mondo della politica e dell'economia, ma il modello esportato era sempre esattamente quello calabrese. E' questa la peculiarità dei gruppi criminali calabresi, sono in grado di riproporre ovunque un insieme di leggi non scritte e cultura della violenta. Ovunque significa in Italia, in Europa, e nel resto del mondo, dove cellule calabresi si sono trasferite inizialmente al seguito delle rotte dell'emigrazione e, più di recente, dei flussi economico-finanziari. Basta scorrere le relazioni annuali della Dna o delle polizie estere per scoprire che, solo per fare qualche esempio, in Germani da anni ci sono i Nirta, gli Strangio, i Pelle e i Vottari di San Luca. Opure che rappresentanti delle cosche sono attivi in Belgio e Olanda. Che in passato le 'ndrine facevano traffico di Armi con l'Ira in Gran Bretagna e che nella city di Londra, dice sempre Gratteri, "riciclano montagne di denaro sporco". La Francia e la Spagna sono da sempre considerati oasi di pace per boss latitanti e, ancora oggi, piattaforme per il traffico di cocaina. Persino la Svizzera, racconta il pentito Emilio Di Giovine, è terra per far sparire i soldi della droga e per chiudere affari sulle armi. Ma non c'è solo l'Europa. La 'ndrangheta si è già insediata stabilmente in tutti i continenti. In Australia ad esempio, la presenza della 'ndrangheta è radicata ormai da un secolo.  Esistono mappe dettagliate che spiegano come ad Adelaide, nella parte meridionale dell'Australia, siano presenti una dozzina di 'ndrine che fanno riferimento alla provincia di Reggio Calabria. I cognomi sono quelli dei Sergi, dei Barbaro, dei Perre, dei Romeo e dei Piromalli. E ancora quelli dei Polimeni e dei Papalia. A Sidney la famiglia più potente era quella degli Alvaro, mentre nel Nuovo Galles del Sud, e precisamente a Griffith, vengono indicate come potentissime le famiglie di origine "platiota", ossia di Platì nella Locride. Stessa storia per Camberra, Melbourne o Perth, in ogni città c'è una locale di 'ndrangheta. Non meno potenti le "famiglie" calabresi in Canada. Ai primi del novecento quando non si parlava neppure di 'ndrangheta, ma di "mano nera", a incutere rispetto c'erano "uomini d'onore" come Giuseppe "Joe" Musolino e Rocco Perri. Negli anni '50 arrivarono poi i soldati, gli sgarristi e i padrini della cosca guidata da Antonio Macrì e da Michele Racco, detto Mike. Identico il destino delle città del Nord America, come New York, dove già negli anni '60 le cosche calabresi si riunivano in "circolo formato" per spartirsi il territorio di alcuni quartieri della città. Ci sono poi intere colonie di calabresi anche nell'America del Sud. Brasile, Venezuela e Argentina hanno accolto per decenni migliaia di emigranti, al seguito dei quali sono anche arrivate le famiglie di 'ndrangheta. Ci sono poi paesi come la Colombia dove la 'ndrangheta ha trasferito decine di broker mandati a trattare direttamente con i narcos della coca. Il più noto di tutti è certamente Roberto Pannunzi, detto "Bebè" che aveva rapporti stabili con Salvatore Mancuso, di origini campane e  già capo indiscusso delle Auc (le forze di autodifesa colombiane). Entrambi, oggi in galera, erano trafficanti di droga capaci di muovere tonnellate di "roba" ogni settimana. Lo raccontano, ad esempio, storiche maxi inchieste della Dda di Reggio Calabria note con i nomi di "Igres" (Sergi, scritto al contrario), "Decollo", "Marcos" o "Stupor Mundi". Non manca l'appello l'Africa, il Medio Oriente e quasi tutti gli stati dell'ex blocco sovietico. In Urss i clan ci sono arrivati sono per entrare nel traffico di armi e nelle speculazioni edilizie (soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino). E' successo così in Romania e Ucraina. A questo proposito esiste un'intercettazione ambientale del 1991 in cui un boss, che non fu possibile identificare, ordinava ad un suo investitore di spostarsi all'Est: "Compra, compra tutto quello che puoi, compra tutto, non mi interessa cosa, basta che compri". In altri casi, come per il Libano, i clan vi operano nel ruolo di acquirenti di hashish ed eroina. Oggi, in molti continenti sono stabilmente insediate le seconde e terze generazioni di calabresi. Tra di esse si mimetizzano famiglie di 'ndrangheta che non hanno alcuna difficoltà a riprodurre il loro modello, ritenuto universalmente criminalmente il più longevo. Giovanotti che parlano solo dialetto e inglese. Regole vecchie e tecnologie moderne formano insomma un mix che consente ai clan di fare affari d'oro in mille settori. La droga innanzitutto, da dove arriva gran parte della ricchezza e il denaro da reinvestire giocando in borsa o entrando nei business legali. All'estero la nuova generazione di 'ndranghetisti è identica alla vecchia nella mentalità e cultura criminale, ma assolutamente nuova ed mobile nel modo di fare affari. Negli ambienti investigativi, li chiamano gli uomini delle due valigette: in una ci tengono il codice delle 'ndrine e la calibro 38. Nell'altra il denaro contante e i contratti milionari.

La "Linea del pioppo" di Attilio Bolzoni. Pensando alla mafia che ormai è dappertutto è ovvio che ci venga in mente Leonardo Sciascia e la sua "linea della palma". Come ricorderete, verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, lo scrittore siciliano parlò della "linea della palma" ("Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia.. gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno.. ed è ormai già oltre Roma") utilizzandola come metafora della "mafiosizzazione" dell'intera Italia. Sciascia ne capiva molto di mafia, avendola respirata nella sua Racalmuto e nei feudi intorno. E ne capiva molto anche della nostra Italia, intuendo l'avvelenamento che il Paese avrebbe inesorabilmente subito. Sono passati quarant'anni e - se possiamo permetterci un paradosso - oggi non sarebbe poi tanto stravagante parlare della "linea del pioppo" o della "linea del salice", tipiche piante della Padania e dintorni. E ci piacerebbe anche - usando logore frasi come "se abbassiamo la guardia", se "non raccogliamo l'allarme", se "non interveniamo per tempo" - lanciare una provocazione: state (stiamo) tutti attenti, perché se continua così tra qualche anno ci ritroveremo boss e capi mandamento o "santisti" e Cupole di varie dimensioni e forme anche in Sicilia, Calabria e Campania. C'è questo rischio: c'è il pericolo che le mafie prima o poi invadano tutto il Sud per continuare l'opera: depredare quel poco che hanno lasciato prima di spolpare definitivamente il "loro" Nord. Due Italie lontane. Questa premessa mi è venuta quasi spontanea rileggendo le cronache degli ultimi giorni. Quelle dell'imprenditore di Corleone che ha confessato ai carabinieri della locale caserma di avere subito il pizzo e rivelando i nomi dei suoi aguzzini, quelle della grande retata in un'Emilia Romagna infestata dal malaffare mafioso. Due Italie lontane, molto lontane in questo inizio di 2015. A Corleone il muro dell'omertà si è infranto per la prima volta, in Emilia Romagna nessuno ancora se la sente di parlare. Anzi, peggio: tutti rimuovono, tutti che fanno finta di cadere dal pero. I più coraggiosi si spingono a denunciare l'"infiltrazione", parola secondo noi da abolire dal vocabolario delle mafie al Nord. Infiltrarsi significa penetrare in un luogo senza che gli abitanti stessi di quel luogo se ne siano mai accorti, come presi alla sprovvista, alle spalle. In realtà nelle regioni settentrionali sarebbe meglio parlare di "radicamento", di espansione avvenuta con complicità e favoreggiamenti soprattutto locali. E ciò sta accadendo non da ieri o da ieri l'altro ma dal lontano 1963, data in cui - in quell'anno a Palermo ci fu la strage di Ciaculli, cinque carabinieri e due artificieri dell'Esercito saltati in aria davanti a una Giulietta imbottita di tritolo mentre in città infuriava la guerra fra le cosche - il ministro dell'Interno del tempo, Mariano Rumor, ebbe la felice intuizione di far trasferire fra Veneto, Emilia e Lombardia qualche centinaio di "sospetti mafiosi" (l'istituto del soggiorno obbligato, il famoso confino di polizia) esportando mezza Commissione di Cosa Nostra lontano dall'isola e aprendo la strada alla tanto sbandierata "infiltrazione" mafiosa al Nord. Sì, è vero, si sono "infiltrati" tranquillamente da più di mezzo secolo e da mezzo secolo tutti li considerano semplicemente "infiltrati". Questo è il problema. Ogni qualvolta un'indagine giudiziaria o un'inchiesta giornalistica (vedi Giovanni Tizian in Emilia, vedi Lirio Abbate a Roma) svela la loro forza anche là sopra, tutti si meravigliano come se avessero scoperto il giorno prima - e per caso - gli uomini cattivi che si arricchiscono o minacciano qualcuno nel cortile di casa loro. Come appunto in Emilia Romagna, dove il presidente della Regione Stefano Bonaccini il 26 gennaio, prima prendeva le distanze dalle denunce di don Luigi Ciotti sulla "mafiosità" di certi metodi contro il sindaco di San Lazzaro Isabella Conti, e poi - in generale, molto in generale - sosteneva che "per un periodo, magari in buona fede, al Nord non si è voluto vedere il fenomeno mafioso.. ma qui c'è l'anticorpo per potere sconfiggere questo vero e proprio cancro, che fa male a tutti". Gli "anticorpi". Li abbiamo visti quegli "anticorpi" nella recentissima operazione dell'Arma dei carabinieri, affari sul dopo terremoto, voto di scambio, patti tra 'ndranghetisti camuffati da imprenditori e costruttori locali, il business dei rifiuti speciali, sindaci, prelati e giudici nella ragnatela del boss Nicolino detto "Manuzza", appalti pilotati e tanto altro ancora che prima o poi verrà allo scoperto. E poi, cosa intende "per un periodo", il presidente della Regione Emilia? Lo sa quando è arrivato Giacomo Riina (lo zio del capo dei capi di Cosa Nostra) a Budrio, ventitré chilometri da Bologna? Nel 1967. Sposato con una sorella di Luciano Liggio, aveva scelto un piccolo comune alle porte di Bologna come suo quartiere generale. Dal 1967, un periodo lungo, molto lungo. E' sempre una "sorpresa" ritrovarsi la mafia fra i piedi. E di certo non solo in Emilia. Basta ricordare tutti quei sindaci e quegli amministratori da Roma in su, quei prefetti (memorabile la battuta negazionista del rappresentante di governo di Milano di qualche anno fa), quei magistrati distratti o privi di una specifica competenza in materia antimafia, un paio di ministri dell'Interno di qualche governo fa, soprattutto di milioni e milioni di italiani sicuri e convinti che mafia e mafiosi - ancora oggi - siano "patrimonio" di un altro Paese. Solo verso sud, da Napoli fino a Trapani. Non c'è consapevolezza, non c'è coscienza. E c'è anche un po' di tornaconto. Prendiamo come altro esempio la vicenda di Mafia Capitale. Possibile che quasi nessuno si sia mai accorto delle scorrerie de Er Cecato e della sua banda (con amici non solo in Comune ma in tutto il sottobosco politico, non solo nelle zone tradizionalmente criminali della città ma con agganci ministeriali) prima dell'arrivo dei procuratori Pignatone e Prestipino e di un gruppo di carabinieri che venivano dalla Sicilia e dalla Calabria? Vi sembra normale che uno come Er Cecato sia andato liberamente in giro per Roma per così tanto tempo e così indisturbato? Forse qualche complice che l'ha "coperto" ci sarà pure o no? Forse sarà anche arrivata l'ora di ridiscutere tutti insieme cos'è mafia e cosa non è mafia. A meno che, da Roma (compresa) in su, non si voglia condividere il pensiero di Giuseppe Pitrè, illustre letterato e antropologo di fine '800. Quello che sosteneva che la mafia "non era una setta né un'associazione a delinquere". Ma uno stato d'animo. Dei siciliani, solo dei siciliani.

BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!

“Cose nostre: per un uso sociale dei beni confiscati alla mafia” recita il titolo di un convegno tenuto il 12 febbraio 2015 a Manduria nel tarantino e promosso dai Verdi e dal movimento Giovani per Manduria. A relazionare sul tema son venuti da Mesagne, nel brindisino, quelli di “Libera” ed erano presenti soggetti istituzionali di Manduria e di Mesagne.

“Cose nostre” si affermava nel titolo del convegno, mutuata dallo spot nazionale di “Libera” come se di una espropriazione proletaria si trattasse.

La Gazzetta del Mezzogiorno e Manduria Oggi ha dato ampio risalto all’evento.

Già nel marzo 2010 si leggeva su La voce di Manduria che "Il comune bandirà una gara per l'affidamento alle associazioni di tutti i 25 beni (terreni ed immobili) confiscati alle due famiglie mafiose Stranieri e Cinieri di Manduria. I primi tre lotti riguardano l'ex ristorante Tutti Frutti ed altre due villette a San Pietro in Bevagna. L'associazione contro le mafie, Libera, coordinerà i progetti finanziati dalla Regione Puglia.

Già da allora “Libera” voleva mettere le mani sui beni manduriani, non riuscendoci.

Si legge su Manduria Oggi del 3 dicembre 2014  «Quando la Regione Puglia, nel 2010 varò il progetto “Libera il Bene”, una iniziativa che promuoveva, con finanziamenti, il recupero e il riuso dei beni confiscati, nessun ente locale della provincia di Taranto partecipò, perdendo così una occasione preziosa» ricorda Anna Maria De Tomaso Bonifazi, referente per la provincia dell’associazione “Libera”. «Più volte “Libera”, fin dal 2004, ha chiesto di conoscere lo stato degli immobili confiscati sia al Comune di Taranto che a quello di Manduria, ricevendo risposte evasive. Eppure proprio a Manduria, in un periodo di commissariamento del Comune, il Prefetto di Taranto e i referenti nazionali di “Libera” riuscirono finalmente a mettere a bando i beni confiscati. Ma ci accorgemmo ben presto che si trattò di una vittoria di Pirro, perché, con l’elezione del nuovo Consiglio Comunale, il sindaco che si insediò annullò tutto e, di fronte alle rimostranze di “Libera”, non seppe fornire spiegazione alcuna, se non rifacendosi ad una decisione del segretario generale del Comune».

Vorrei, se possibile, come presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, associazione antiracket ed antiusura riconosciuta dal Ministero dell’Interno, in quanto iscritta presso la prefettura di Taranto dal 2006, ma non facente parte della sfera di Libera, contribuire a far chiarezza su un dato, tenuto conto che nei convegni si devono sentire tutte le campane e fare compendio, specialmente se in quel convegno di diritto si avrebbe avuto interesse a prendere la parola. Non foss’altro per  spirito territoriale, avente la sede legale a 10 km da Manduria. E non è per spirito polemico, ma per ragioni di verità, per non  far passare dei principi non esatti ma ritenuti come tali, in virtù dell’ampia visibilità che a “Libera” si dà. Opinioni secondo scienza e coscienza forte delle mansioni nazionali che ricopro.

Si spera che la mia precisazione abbia lo stesso risalto che si è dedicato ai presenti al convegno.

Descrizione del Fenomeno, si legge sul sito della Commissione Nazionale Antimafia. Uno degli elementi fondamentali per sconfiggere le mafie è procedere al loro impoverimento confiscando loro tutti i beni e i patrimoni acquisiti mediante l'impiego di denaro frutto di attività illecite. Si tratta di un principio fondamentale che Pio La Torre, segretario regionale del partito comunista in Sicilia e parlamentare della Commissione antimafia, ucciso a Palermo il 30 aprile 1982, capì in modo molto chiaro. Infatti, la legge che successivamente introdurrà nel codice penale italiano l'articolo 416-bis e altre norme, denominate misure patrimoniali, che consentono la confisca dei capitali mafiosi, porta il suo nome insieme a quello dell'allora Ministro dell'Interno, Virginio Rognoni. I beni dei quali sia stata accertata la proprietà da parte di soggetti appartenenti alle organizzazioni mafiose vengono confiscati, vale a dire sottratti definitivamente a coloro che ne risultano proprietari. Questi beni sono rappresentati da immobili (case, terreni, appartamenti, box, ecc.), da beni mobili (denaro contante e titoli) e da aziende. Secondo quanto previsto dalla legge 7 marzo 1996, n. 109, una legge di iniziativa popolare sostenuta dalla raccolta di un milione di firme da parte dell'associazione Libera, i beni immobili possono essere usati per finalità di carattere sociale. Questo significa che essi possono essere concessi dai comuni, a titolo gratuito, a comunità, associazioni di volontariato, cooperative sociali e possono diventare scuole, comunità di recupero per tossicodipendenti, case per anziani, ecc. Nelle regioni meridionali, ad esempio, sono sorte delle Cooperative sociali di giovani che coltivano terreni confiscati alle organizzazioni mafiose producendo pasta, vino e olio. In base alle previsioni della legge finanziaria 2007 (Legge 27 dicembre 2006, n. 296, comma 201-202) i beni confiscati possono essere assegnati anche a Province e Regioni. I beni immobili non assegnati ai comuni sono acquisiti al patrimonio dello Stato e vengono utilizzati per finalità di giustizia, ordine pubblico e protezione civile. I beni mobili vengono trasformati in denaro contante, il quale viene successivamente depositato in un apposito fondo prefettizio. Le aziende vengono vendute, date in affitto o messe in liquidazione. Il ricavato viene versato nel fondo prefettizio. La Cancelleria dell'Ufficio giudiziario provvede a comunicare il provvedimento definitivo di confisca ai seguenti soggetti: l'Ufficio del territorio del Ministero delle Finanze, il Prefetto, il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno. L'Ufficio del territorio una volta stimato il valore del bene da assegnare sente il Prefetto, il Sindaco, l'Amministrazione ed entro novanta giorni formula una proposta finalizzata all'assegnazione del bene. È il Direttore Centrale del Demanio che entro trenta giorni emette il provvedimento di assegnazione.

Bene. Su tutti i territori italiani operano delle associazioni distribuite per competenza provinciale ed iscritte presso le rispettive Prefetture. Dichiarazione, relazione e documentazione comprovante l’attualità dei requisiti e delle condizioni prescritte di cui agli artt. 1 e 3 del regolamento (DM 220 del 24/10/2007) recante norme integrative ai regolamenti per l’iscrizione delle associazioni e organizzazioni previste dall’art. 13, comma 2, L. 44/99 e dall’art. 15, comma 4, L. 108/96.

Associazioni antimafia che operano per assistere le vittime di estorsione ed usura, molte delle quali non fanno capo a Libera, che, spesso, presso la CGIL fa eleggere domicilio alle delegazioni locali.

Quindi sfatiamo un fatto: i beni confiscati non sono roba loro, ossia di “Libera”.

Un’altra cosa. I beni già sequestrati in odor di mafia, si confiscano solo a sentenza di condanna definitiva. In caso contrario tornano ai legittimi proprietari. Ma di altre questioni nei convegni di cui si parla ci si dovrebbe occupare: Ossia denunciare pubblicamente quello che la gente non sa circa gli interessi economici e politici che ruotano intorno ai beni sequestrati, prima, ed eventualmente confiscati, poi...

Che fine ha fatto la “robba” dei boss? L’ Antimafia al lavoro sui dossier. «Da più parti riceviamo denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia», ha spiegato Nello Musumeci, presidente della commissione regionale (siciliana ndr), che sta analizzando l’utilizzo delle ricchezze sottratte a Cosa nostra, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano”. «Dopo avere completato le trascrizioni – annuncia il presidente dell’Antimafia – provvederemo a trasmettere il documento anche all’autorità giudiziaria. Abbiamo riferito al prefetto (Postiglione ndr) che in un anno e mezzo la commissione ha raccolto il grido di allarme di giornalisti, amministratori, imprenditori e rappresentanti dei lavoratori che denunciano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni tolti alla mafia». «In alcuni casi – ha spiegato Musumeci – si tratta di denunce di vere e proprie incompatibilità, situazioni preoccupanti. In altri casi abbiamo riscontrato la concentrazione di molti incarichi nelle mani di un unico amministratore e tentativi di favorire società e studi professionali». Palermo è la capitale della ”robba” dei boss. Il quaranta per cento di tutti i beni confiscati a Cosa Nostra, infatti, si trova nel capoluogo siciliano. Ed è proprio da Palermo che arriverà il primo dossier con le anomalie sulla gestione degli immobili confiscati alla mafia. Un patrimonio imponente: più di diecimila immobili, mille e cinquecento aziende, più di tremila beni mobili. Numeri che fanno dell’Agenzia per i beni confiscati, creata nel 2009 per gestire “la robba dei boss”, la prima holding del mattone d’Italia. E probabilmente anche la più ricca: il valore dei beni confiscati alle mafie, infatti, si aggira intorno ai 25 miliardi di euro. Un vero tesoro, che però spesso non riesce ad essere restituito alla collettività. A Palermo, per esempio, sono solo 1.300 i beni assegnati su un totale di 3.478. “Da più parti riceviamo, in audizione, denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Denunce che, dopo le trascrizioni, trasmetteremo alla magistratura e al ministero dell’Interno per le necessarie verifiche”, ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale Antimafia, che sta lavorando ad un dossier sulla gestione dei beni confiscati. Proprio ieri la commissione Antimafia ha ascoltato la deposizione del prefetto Umberto Postiglione, che ha sostituito Giuseppe Caruso alla guida dell’Agenzia. “Insieme alla commissione Lavoro dell’Assemblea regionale siciliana – ha continuato Musumeci – stiamo elaborando una proposta di modifica della legge nazionale vigente  ponendo particolare attenzione due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo abbandono”. L’emergenza principale è forse rappresentata dai dipendenti delle aziende sottratte a Cosa Nostra. La maggior parte delle società confiscate, infatti, finisce per fallire, e i dipendenti rimangono senza lavoro. Questo perché il codice antimafia recentemente approvato, che ha preso il nome del ministro Angelino Alfano, prevede la liquidazione di tutti i crediti non appena l’amministratore giudiziario prende possesso della società. “Significa che se questa norma venisse intesa in senso rigido, il tribunale deve procedere a liquidare il 70 per cento dell’impresa per pagare tutti i crediti: e quindi non resterebbe alcuna risorsa per continuare a far vivere l’azienda”, spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Con il risultato che dopo la confisca gli ex dipendenti delle aziende di Cosa Nostra rimangono senza lavoro. “Con la mafia si lavora, con lo Stato no” gridavano negli anni ’80 gli operai delle prime aziende confiscate a Cosa Nostra. Oggi la situazione non sembra particolarmente migliorata. Un segnale poco incoraggiante,  pericolosissimo in una terra come la Sicilia che di segnali vive e si alimenta. Questo vale per la Sicilia, così come vale per tutta l'Italia.

Spero di aver dato un contributo costruttivo al dibattito.

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati. Come si vampirizzano le aziende sane. «L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»

Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione.  "La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute", ha detto nel suo discorso di insediamento. "La corruzione - ha aggiunto - ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci". Il capo dello stato ha citato le "parole severe" di Papa Francesco contro i corrotti, "uomini di buone maniere ma di cattive abitudini". Ed ha sottolineato quanto sia "allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti". A giudizio del presidente Mattarella occorre "incoraggiare l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie - ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione - abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità". Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c'erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.

Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.

Dopo l'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l'elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: "Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia". Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: "Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L'uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia". Un commento che di certo farà discutere. 

L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire. Io sono il presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione iscritta presso la Prefettura di Taranto. Per le problematiche sociali affrontate, siamo l’associazione madre di tutte le associazioni tematiche e territoriali, così come riporta il nostro sito web. Se qualcuno ha un problema me lo segnala. Non ho il potere di risolverlo, (nessuno può) ma di elevarlo agli onori della cronaca, sì. Io sono il Don Ciotti della mia associazione, per intenderci. Però abbiamo un difetto. Io ho un difetto: non sono comunista e non santifico i magistrati. Per questo i media ci ignorano. Ma non i cittadini. Prova a mettere su google il mio nome e vedrai quanti parlano di me. Ho pochi amici su Facebook e sul gruppo associazione contro tutte le mafie, perché dopo un po’ di tempo cancello gli amici o gli iscritti, quando verifico che hanno sbagliato amico o gruppo. Noi siamo diversi e ce ne vantiamo. Ogniqualvolta mi hanno interpellato, le vittime hanno preteso la soluzione. Mai una volta che abbiano offerto il loro appoggio, il loro sostegno. Non ho potere, ne sono sostenuto da alcuno e pure i coglioni mi dicono: che ci stò a fare. A prendere le ritorsioni dei magistrati che tentano in ogni modo di tacitarmi. Ogni volta che qualcuno si è confrontato con me per forza di cose voleva alzare la sua bandiera ed il suo nome, per un interesse personale. Gli onori a lui, le rogne a me. Le lotte si portano avanti insieme e non per la propria guerra. E’ un tallone di Achille parlare di sé. Si sarà sempre additati di mitomania o pazzia o di interesse personale. Pensi che qualcuno abbia pensato a me per competenza, capacità, esperienza e coraggio per portare avanti in Parlamento le aspettative del popolo. No. Pur incapaci son tutti pronti ad ante mettersi. Io parlare di voi o di altri e come se parlassi per me. Ma parlo di voi e ne sono contento. Perché è come se fossi uno di voi. Quest’ultima inchiesta è pubblicata su 500 siti web di portali di informazione a me collegati in tutta Italia. Pensi che ciò non basti a dare spazio alla tua storia, che non è la tua: è di mille come te? Pensi che lo abbia fatto per un interesse personale e che abbia chiesto a qualcuno un compenso? Quindi non serve avere una associazione in più, ma basta avere la consapevolezza di avere una guida o di avere uno strumento che porti ad un risultato. E mi dispiace dirlo, sarà solo quello di aver fatto conoscere la propria storia e non sarà quello di avere giustizia in questa Italia e con questi italiani. Segui me, vediamo fin dove arriviamo, perché il mio cammino è iniziato 20 anni fa. Io son Antonio Giangrande e basta questo basta. Pensa a Berlusconi: se è successo a lui, e non è stato capace di difendersi, figuriamoci ai poveri cristi. C'è qualcosa da fare: far conoscere la verità a tutti ed in tutti i modi. Solo quello ci rimane da fare. I miei siti web. I miei canali youtube. La mia tv web. I miei libri. Sono tutti strumenti di divulgazione che fanno male al sistema e ciò serve a cambiarlo. Come azione politica noi combattiamo, oltre che per cambiare il sistema, anche per una proposta concreta: il difensore civico giudiziario a tutela del cittadino che abbia i poteri del magistrato ma che non sia uno di essi: corporativo ed amicale. Questo sì che cambierebbe le cose in fatto di garanzia per le vittime di giustizia.

L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.

L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.

Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l'illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!

L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.

Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a  rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

A cosa porta per davvero l'interesse dell'Antimafia se non tutelare le vittime dell'estorsione e dell'usura, così come propinata?

Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.

I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.

I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.

Firma l'appello: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra", si legge sul sito web di "Libera". "Cosa nostra"? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. "Cosa vostra"? Con quale diritto?

"Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività", si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di "Libera" e della CGIL.

Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.

Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola "Il silenzio è dolo". Marco Ligabue l'ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati "selezionati" gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l'appoggio del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che "la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli". Della selezione e dell'operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l'associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all'appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.

«Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento - scrive Pino Maniaci - C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».

Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.

Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza  di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L'amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione  le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un  utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo  sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato  vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…

La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali del 2014, e si capisce di cosa stia parlando. Gli italiani, soliti ignavi, non lo dicono, ma dimostrano il loro odio e disprezzo, o comunque il loro distacco dalla politica contemporanea che viene da lontano con l’astensionismo od altre forme di protesta. La politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari. Secondo Renato Mannheimer su “Il Corriere della Sera” la politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari, dico io, proprio perché interessati dai favori richiesti e ricevuti. I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatasi negli ultimi anni. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico al valore del 25,5 di oggi. Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere. Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……

Ma non solo la politica paga fio. Non si fidano della magistratura 2 italiani su 3, scrive Errico Novi su "Il Garantista". E’ un crollo. Il tasso di fiducia nei magistrati passa dal 41,4% di un anno fa ad appena il 28,8%. Lo dice il Rapporto 2015 dell’Eurispes, presentato ieri a Roma dal presidente dell’istituto Gian Maria Fara. Che definisce il dato su giudici e pm «preoccupante e inatteso». Di fatto quello della magistratura è il potere che perde maggiori consensi: più del 30% di quelli che già aveva. Il governo è messo male, il dato della fiducia è al 18,9%, eppure è in lieve crescita rispetto a un anno fa. Il che autorizza a credere che nella lite tra le toghe e l’esecutivo sul taglio delle ferie, i cittadini parteggino decisamente per quest’ultimo. I dati rischiano di galvanizzare Renzi. Soprattutto nella sua guerra a distanza con i magistrati. Secondo il Rapporto Italia 2015 dell’Eurispes la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni tende al ribasso. Ma se si va nel dettaglio, le cose si mettono davvero malissimo per la magistratura, che ha un tasso di consenso ridotto ormai al 28,8% e diminuito nel giro di un anno di ben 12,6 punti percentuali (nel 2014 era dunque al 41,4%, tutta un’altra cosa). Il governo come istituzione nel suo complesso ha un punteggio da incubo, sta al 18,9%. Ma seppur di qualche decimale, e in un clima di generale scoramento, è in salita. Non che ci sia da festeggiare visti i numeri, ma insomma il presidente del Consiglio potrebbe dedurne che gli italiani parteggiano più per lui che per le toghe, nella contesa sul taglio delle ferie. Interpretazioni a parte, le statistiche presentate ieri alla Biblioteca Nazionale di Roma da Gian Maria Fara, che dell’Eurispes è presidente, fanno impressione. Il giudizio degli italiani nei confronti delle istituzioni resta complessivamente negativo, il 69,4% dice di riporvi minore fiducia che in passato. E questo in un quadro complessivo di certezze sempre più scarse, di valutazioni molto critiche nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica e in un generale clima di oppressione percepita nei confronti di fisco e burocrazia. Nulla di sorprendente, però. Tranne il dato sui magistrati. Che tracollano in modo davvero verticale – di fatto perdono oltre il 30% dei consensi che avevano – nonostante il grande impatto mediatico di inchieste come quella su Mafia Capitale. E’ la pietra tombale sul ricordo stesso della stagione di Mani pulite. Un cambio di paradigma che tra l’altro è stato ampiamente rappresentato pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, proprio con il riferimento alla golden age di Tangentopoli. Nella sua esposizione pubblica Fara non si dilunga granché sul dato. Si limita a definirlo «preoccupante e inatteso». E a proporlo anche in versione capovolta: «La quota di cittadini che non ripongono fiducia nella magistratura è passata dal 54,8% del Rapporto 2014 al 68,6% dell’ultimo rilevamento». Il clima del Paese non è certo colorato di rosa, dice lo studio presentato. Gli aspetti patologici da rimuovere in fretta sarebbero la pervasività della burocrazia e le tasse asfissianti. Soprattutto il primo elemento potrebbe indurre il sospetto che il crollo della magistratura nell’indice di gradimento degli italiani sia parte di una più generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che è apparato e potere pubblico. E invece non è così. Niente da fare, le toghe non possono aggrapparsi neppure a questo. Perché nonostante l’analisi del presidente Fara parta da quello che lui chiama il «Grande Fardello» degli adempimenti infiniti e del fisco, la fiducia nei confronti della pubblica amministrazione non è in calo, anzi: è in clamorosa ascesa, fa registrare un +18,1% e si risolleva così da un dato precedente molto basso, fino a raggiungere il 39,1%. Meglio i travet e gli impiegati, meglio i ministeriali di giudici e pm. Chi l’avrebbe mai detto. Persino i partiti si riprendono un po’ (arrivano al 15.1% con un significativo +8,6% rispetto a un an anno fa), addirittura i vituperatissimi sindacati hanno consensi più che doppi rispetto alle forze politiche (tasso di fiducia al 33,9%, con un +14,7). La magistratura niente, è così penalizzata dalla ricerca dell’Eurispes da far pensare a un rancore profondo, diffuso, quasi a una voglia di fargliela pagare. Figurarsi se davvero insisteranno con il piagnisteo per quei 15 giorni su 45 di vacanza in meno.

Tutto il potere alle toghe. Dai la parola all’imputato? Favoreggiamento, scrive Guido Scarpino su "Il Garantista". Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perchè vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il dirtto a difendersi, no?. E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza «favoreggiano la mafia…» Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? E’ una domanda, a mio avviso superflua - soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza.  Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”.  Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido – pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”.  Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla malapolitica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.

Ma questi magistrati non sono coerenti.

L'ex pm antimafia Ingroia difende un boss pluriomicida. È il legale del camorrista La Torre, accusato di 40 delitti. Di lui Saviano disse: "È solo uno smargiasso ambiguo", scrive Gianpaolo Iacobini su "Il Giornale". Antonio Ingroia, l'ex pm antimafia che difende un camorrista. Più d'uno è saltato sulla sedia quando il nome del magistrato che dava la caccia ai capi di Cosa Nostra è risuonato nelle aule del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere insieme a quello di Augusto La Torre, fino ai giorni dell'arresto - e pure oltre - boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell'alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. Davanti ai giudici sammaritani La Torre - che dietro le sbarre s'è laureato in Psicologia - è comparso da testimone nel processo a carico di Mario Landolfi, imputato di corruzione e truffa aggravata dal metodo mafioso per la vicenda d'un consigliere comunale dimessosi, secondo la Procura, in cambio dell'assunzione trimestrale della moglie in una società di servizi. L'ex ministro s'è sempre detto innocente e La Torre, in videoconferenza, ha smentito avesse contatti col clan, ma a far notizia è stata la nomina del nuovo legale del boss psicologo, poi confermata dal portavoce dell'ex procuratore aggiunto. Quello che, all'indomani del giuramento da avvocato, assicurava: «Per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti». E invece alla fine s'è ritrovato al fianco d'un barone del crimine organizzato, condannato in via definitiva a 22 anni per associazione camorristica e ad altri 9 per estorsione aggravata ed a tutt'oggi sotto processo anche per omicidio. La replica: «Nessuna contraddizione: è un collaboratore di giustizia». Insomma, un conto sarebbe difendere i mammasantissima tutti d'un pezzo, un altro assistere mafiosi contriti, anche quando, confidando nell'impunità, confessano i peggiori misfatti. Come La Torre, autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra. Di sicuro, c'è collaboratore e collaboratore: l'imperatore di Mondragone, detenuto dal 1996, saltò il fosso nel 2003, ma poco dopo la protezione gli fu revocata per un'estorsione. E i Tribunali hanno fin qui preso con le molle le sue dichiarazioni, negandogli sconti di pena, mentre proprio uno degli Ingroia-boys, lo scrittore Roberto Saviano, nel luglio del 2012 ne stroncava l'attendibilità, definendolo su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l'intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste». Avesse ragione Saviano, che a sentire gli ingroiani ha ragione per definizione, è questo il nuovo cliente di Antonio Ingroia, un avvocato che non difende né mafiosi né corrotti. Ipse dixit.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

Magistrati coraggiosi contro le banche cercasi, scrive Enzo Di Frenna su “Il Fatto Quotidiano”. C’è qualcosa di legale in questo meccanismo? A novembre 2011 il presidente della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, incontra i vertici di alcune grandi banche – tra cui Goldman Sachs, Morgan Stanley, Barclays Capital– e dopo qualche settimana annuncia prestiti fino a tre anni per le banche europee con l’obiettivo di “ridare fiato all’economia” ed evitare il “credit crunch”, cioè la chiusura dei rubinetti monetari alle piccole e medie imprese. I soldi, in pratica, sono regalati (tasso 1%). Non si ha notizia che Draghi abbia fatto firmare alle banche un contratto che le costringesse ad usare quel denaro per sostenere gli imprenditori. Insomma, una roba del tipo: se li usi per speculare, il tasso passa al 15% e paghi anche una penale. È una soluzione elementare, non ci vuole una laurea in economia per usare una tale precauzione. Invece, cosa succede? Le banche succhiano un torrente di denaro alla Bce – cioè soldi dei cittadini europei – e li usano per speculare e acquistare titoli di Stato, sui cui guadagnano somme elevate. Ecco cosa è accaduto in Italia. Il 21 dicembre 2011 la Bce di Draghi mette a disposizione delle banche italiane 116 miliardi di euro lordi, ma – attenzione – l’incasso netto è intorno ai 60 miliardi. Nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia si scopre che tra dicembre 2011 e gennaio 2012 le banche  hanno speso 28 miliardi di euro per acquistare BTP e altri titoli: in soli trenta giorni la loro quota complessiva è passata da 209 a 237 miliardi. Altri 41 miliardi li hanno spesi per acquistare bond e il totale arriva a 69 miliardi di euro. Quindi hanno usato i soldi per speculare e arricchirsi, invece che “ridare fiato all’economia” e aiutare le imprese. Tra febbraio e marzo 2012 si suicidano diversi imprenditori, anche con metodi violenti come darsi alle fiamme. Poi scopriamo che 12 mila aziende hanno chiuso nell’ultimo anno e 50 mila lavoratori sono stati licenziati. Emergono storie di imprenditori a cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Michele Santoro a Servizio pubblico, la scorsa settimana ha intervistato Maria Teresa Carlucci, la moglie di un imprenditore suicida a cui la banca ha rifiutato un prestito di 500 euro. Posso aggiungervi che anche un paio di amici – titolari di piccole attività commerciali – mi hanno riferito che sono in gravi difficoltà a cause della stretta creditizia applicata improvvisamente dalle loro banche. Ecco invece un commento copiato dal mio profilo Facebook: “Vedo che la gente è spaventata, che tante attività chiudono o che stanno per chiudere. Negozi chiusi da tanti mesi che nessuno prende in affitto perché avviare qualsiasi attività è troppo rischioso. Sono molto preoccupata per il futuro. Tanto tanto preoccupata. Non capisco perché la crisi la devono risolvere le classi meno abbienti» (Antonella). Quindi abbiamo la seguente situazione: la Bce ha fallito il suo obiettivo. Le imprese sono strangolate nel “credit crunch” e altri padri di famiglia potrebbero decidere di uccidersi. Ci sono i presupposti per avviare un’inchiesta giudiziaria? Si possono sequestrare i contratti che Mario Draghi ha firmato con le banche italiane? Possiamo conoscere i nomi degli amministratori delegati di quelle banche che hanno preso i soldi della Bce per comprare titoli e speculare? Mi rivolgo dunque alla magistratura. E chiedo ad Antonio Di Pietro, ex magistrato, di farsi portavoce di questa istanza presso la categoria che ha rappresentato negli anni di Mani Pulite. È possibile trovare magistrati coraggiosi che possano indagare su questo meccanismo e – se saltano fuori le prove di illegalità – far scattare le manette a chi usa il denaro in modo così spregiudicato? È’ possibile vedere in galera qualche banchiere senza scrupoli, che non arrossisce neppure quando nega un prestito di 500 euro a un padre di famiglia e anzi – cosa atroce – usa gli spiccioli per fare profittto con manovre speculative? Avete presente Callisto Tanzi dimagrito e col sondino al naso? Avete presente il suo pentimento in tribunale per aver causato sofferenze ai suoi clienti truffati? «Non mi rendevo conto dell’esaltazione…», ha detto. Ecco, vorrei vedere decine banchieri in galera e poi cospargersi il capo di cenere per aver causato così tanta sofferenza. Vorrei vederli pentiti per l’ubriacatura finanziaria e rinchiusi al sicuro dietro le sbarre. I giornalisti con la schiena dritta hanno fatto il loro dovere denunciando queste anomalie. Ora tocca ai magistrati.

Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.

"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."

Usura, un imprenditore accusa: «Ora a Milano i giudici stanno con le banche». Da qualche mese il Tribunale del capoluogo lombardo, dove hanno sede legale parecchi istituti di credito, ha iniziato a respingere le cause di usura bancaria. Motivando così la scelta: le perizie tecniche devono essere svolte secondo i criteri fissati dalla Banca d'Italia. I cui azionisti, però, sono gli stessi istituti, scrive Stefano Vergine “L’Espresso”. «Grazie all’azione di lobbying, le banche hanno fatto breccia nel Tribunale di Milano. Da qualche mese i giudici della corte lombarda stanno infatti rigettando le cause per usura che imprese come le mie stanno continuando a proporre, e questo è paradossale considerando che invece nel resto d’Italia le ragioni dei consumatori continuano a prevalere». A parlare è G.P., un imprenditore del settore immobiliare, titolare di due società e amministratore di altrettante imprese. Preferisce non rivelare il suo nome perché - dice – «ho ancora diverse cause in corso e questa intervista potrebbe danneggiarmi». Il suo è però un attacco diretto. Contro le banche, accusate di applicare tassi d’usura all’insaputa di imprese e cittadini. E contro l’orientamento prevalente nel Tribunale di Milano che, spiega l’imprenditore, «ultimamente ha iniziato ad accettare acriticamente la posizione sostenuta dagli istituti di credito». Sul tavolo c’è una questione spinosa come quella dell’usura. Non quella applicata dalla criminalità organizzata, ma l’usura bancaria. Un fenomeno difficile da quantificare con precisione. Le uniche cifre sono quella della Fondazione SDL, un centro studi basato a Brescia, di cui fanno parte avvocati, commercialisti e imprenditori come G.P. Analizzando circa 150 mila prodotti bancari, SDL dice di aver rilevato nel 71 per cento dei casi la presenza di usura oggettiva ai sensi del codice penale. E sulle 19 mila pratiche giudiziarie intentate finora contro le banche, afferma di aver ottenuto per i propri clienti, quasi sempre tramite transazioni, diverse decine di milioni di euro. «Tutte queste vittorie hanno costretto le banche a reagire», sostiene G.P., convinto che ora «la loro attività di lobbying abbia attecchito al Tribunale di Milano».

G.P., ci racconti in breve la sua storia personale.

«Nel 2012, grazie ad un amico che fa il perito per le banche, ho scoperto che sui conti correnti e sui mutui delle mie aziende venivano praticati tassi d’usura. Mi sono allora rivolto alla studio legale SDL, del professor Serafino Di Loreto, il quale mi ha spiegato come, in base alla legge 108 del 1996, mi veniva effettivamente praticata usura».

Ha fatto causa alle banche?

«Sì, ho fatto una decina di cause. Ovviamente per recuperare quanto pagato ingiustamente, ma anche per un senso di responsabilità civile: riflettendo su quanto mi stava accadendo, ho capito che dovevo farlo per non lasciare ai miei figli una società in cui la classe dirigente, in questo caso quella bancaria, esercita usura sulla piccola e media impresa e sulle famiglie».

Alla fine le cause le ha vinte?

«La prima l’ho vinta, a Milano: nel conto corrente di una mia azienda la perizia disposta dal tribunale ha rilevato usura penale per 50 mila euro. Le altre cause sono ancora in corso».

E cosa c’entra il Tribunale di Milano allora?

«Al Tribunale di Milano l’orientamento predominante è pro-banche, e questo è particolarmente importante visto che gran parte degli istituti ha la propria sede legale proprio nel capoluogo lombardo».

In che cosa consiste questo orientamento pro-banche di cui parla?

«Le cause per usura bancaria a Milano incontrano resistenze molto maggiori rispetto al resto d’Italia. Questo lo dico perché, da collaboratore di una fondazione che si occupa a livello nazionale di difendere i consumatori dall’usura bancaria (la fondazione SDL, ndr), ho avuto modo di notare la differenza di trattamento che ultimamente Milano sta riservando alle banche».

Concretamente, in che cosa consiste questo trattamento privilegiato?

«Tutto si gioca sulle perizie che il tribunale dispone per analizzare i conti correnti e ravvisare se vi è stata o meno usura. Nel resto d’Italia prevalgono le indicazioni di redigere la perizia sulla base dei criteri della legge 108 del 1996 e delle successive conferme della Cassazione. A Milano, invece, la linea predominante è quella di analizzare i conti correnti non sulla base della legge dello Stato, ma seguendo le istruzioni secondarie della Banca d’Italia».

E qual è il problema?

«Il problema è che le istruzioni della Banca d’Italia sono decisamente più vantaggiose per gli istituti. E non è un caso, visto che gli azionisti della Banca d’Italia sono le stesse banche. E’ un po’ come se, dopo un incidente d’auto provocato dallo scoppio di una gomma, il perito valutasse le cause dell’incidente seguendo le indicazioni della ditta costruttrice di pneumatici e non quelle previste dalla legge».

Lei però ha detto che a Milano una causa l’ha vinta, in realtà.

«Sì, è vero. L’ho vinta perché la banca aveva talmente esagerato che, nonostante siano stati applicati i criteri favorevoli della Banca d’Italia, il conto corrente è risultato essere comunque in usura».

Quindi alla fine le imprese che fanno causa alle banche continuano a vincere anche a Milano?

«La gravità della situazione è proprio questa. Ultimamente, sia personalmente che alla Fondazione SDL, risulta che l’orientamento prevalente del Tribunale di Milano sia quello di rigettare le cause per usura se la perizia con la quale si presenta il caso non è redatta sulla base delle istruzioni della Banca d’Italia. Questo mi sembra gravissimo perché le istruzioni di una società privata, seppur autorevole come la Banca d’Italia, disattendono diverse sentenze della Cassazione. Mi pare inoltre molto grave precludere la via del contenzioso a tutte quelle aziende piccole e medie che non hanno la forza economica per ricorrere in appello e cassazione, dove invece potrebbero ottenere ragione».

Adesso cosa farà?

«Continuerò a seguire le mie cause, che fortunatamente sono state presentate prima di questa ulteriore virata pro-banche del Tribunale di Milano. Di certo se subirò delle sentenze ingiuste ricorrerò, con il mio avvocato Biagio Riccio, in appello e in Cassazione, perché sono sicuro che alla fine otterrò giustizia. Al di là delle questioni personali, però, vorrei che questa intervista desse origine a un dibattito, aperto a tutte le parti in causa, perché sulla questione dell’usura bancaria e più in generale del credito alle imprese si gioca la ripresa italiana e il futuro dei nostri figli».   

Banche, tassi usurai alle aziende. Una società di consulenza bresciana ha scoperto che i tassi applicati sui prestiti si sono alzati, al limite dello strozzinaggio. Ma pochi imprenditori denunciano e l'ABI e la Banca d'Italia non controllano. Cronaca di una nuova, pericolosa deriva, scrive Massimiliano Carbonaro su “L’Espresso”. Anche le banche, in Italia, prestano 'a strozzo', attraverso meccanismi complessi nel rilascio dei finanziamenti a favore delle imprese. Sono molti gli istituti di credito coinvolti in questa nuova e pericolosa deriva. Sul fenomeno non esistono cifre complessive esatte, così come non si conosce la quantità di questi prestiti a tassi usurai. Questo perché, nelle occasioni in cui finora il problema è emerso in sede giudiziale, le stesse banche attraverso accordi di conciliazione sono riuscite a non far diventare pubblica la questione. La stessa Banca di Italia, pur ammettendo di non avere il polso complessivo della situazione, ha annunciato che deve rivedere il sistema di rilevazione dei tassi bancari. Come è noto, il grosso del tessuto imprenditoriale italiano è fatto da piccole e medie imprese che non sono strutturate per affrontare problematiche di natura finanziaria. Solo quando i costi di gestione dei loro conti correnti diventano particolarmente alti, gli imprenditori cominciano a porsi domande: così i titolari delle aziende hanno cominciato a rivolgersi a consulenti esterni per cercare di capirci di più. Tra queste società di consulenza c'è la bresciana SDL Centro Studi. Si tratta di una società con una trentina di dipendenti, unica rispetto al panorama delle concorrenti perché offre gratuitamente il primo screening sui conti. Negli ultimi due anni e mezzo ha esaminato oltre 29mila conti correnti intestati ad aziende, scoprendo che il 90% è afflitto da questo problema. Tutto è cominciato nel 2010 quando l'avvocato bresciano Serafino di Loreto è stato coinvolto nel fallimento della società di un amico che per la disperazione si è tolto la vita. A una attenta analisi della situazione societaria della ditta fallita è emerso che i conti erano infettati da usura e soprattutto che la somma degli interessi non dovuti estorti dalle banche l'avrebbe salvata dal fallimento. Questa scoperta ha spinto Di Loreto a creare una società in grado di scandagliare in maniera rapida la situazione finanziaria di un'impresa evidenziandone le anomalie. L'accertamento della SDL sui conti aziendali procede secondo vari step. In primo luogo si verifica se il tasso applicato è inferiore o meno al tasso oltre il quale siamo davanti all'usura. Ogni tre mesi Banca di Italia segnala i tassi effettivi medi rilevati e segnala i tassi 'soglia' su base annua per ogni categoria di operazione e per differenti range di importo oltre cui si verifica l'usura. L'altro fronte su cui lavora la SDL riguarda l'anatocismo, ovvero l'applicazione di interessi sugli interessi maturati che fanno crescere esponenzialmente il debito. «Il risultato degli accertamenti è per molti versi inaspettato. Tendenzialmente non sei portato a credere che una banca possa fare una cosa simile» commenta l'avvocato Di Loreto, responsabile legale della SDL «ma la cosa impressionante è che in pratica sono coinvolte tutte le banche italiane. Si stanno accanendo sulle nostre aziende, infliggendo costi ben superiori a quanto dovuto». Nel dettaglio la SDL è entrata dentro le carte di 9845 imprese, prevalentemente dislocate tra il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Toscana: il 90% dei conti presentava usura e anatocismo. Secondo i calcoli, poi certificati da commercialisti esterni, quello che le banche non avevano diritto a percepire oscilla tra il 30% e il 70% di quanto prelevato dai conti: si varia molto in base agli istituti di credito e alle tipologie di conto. Non sono solo i conti correnti delle imprese ad essere attaccati: ciò che emerge è un sistema perverso in cui le banche colpiscono gli imprenditori stessi rivalendosi sul loro patrimonio con l'intento di riuscire a rientrare dei debiti contratti per portare avanti l'attività dell'azienda: spesso, però, una parte di questi è frutto di interessi illegittimi. Il quadro del fenomeno fatica a venir fuori perché quando un imprenditore si ribella, utilizzando le perizie fornite da Di Loreto, e cita la banca in tribunale, l'istituto di credito preferisce arrivare a una transazione amichevole e soprattutto segreta. E' molto chiaro in tal senso l'accordo raggiunto tra un'azienda bresciana cui SDL ha fatto da consulente e una banca (non si può rendere noto il nome dei soggetti coinvolti altrimenti l'intesa potrebbe saltare) in cui l'istituto di credito ha preferito rinunciare a 350 mila euro dei 650mila concessi come prestito all'azienda. Questo dopo che era intervenuta una sentenza relativa ad un decreto ingiuntivo in cui il giudice rilevava che 42mila euro di debiti dell'impresa con la banca erano frutto di usura e anatocismo. Secondo il panorama delle conciliazioni esaminate, nessun gruppo creditizio italiano sembra sfuggire a questa strategia. C.C., un imprenditore del milanese attivo nel settore dei servizi che preferisce rimanere anonimo, si è sentito dire da un direttore di banca: «Non siamo un ente di beneficenza». «Sono furente» commenta l'imprenditore «non solo per i soldi che mi hanno rubato, ma anche i mancati investimenti e la perdita di competitività in campo internazionale». L'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato una richiesta di interessi non dovuti per 200mila euro. «Fino a un anno fa, spiega Di Loreto, si trattava esclusivamente di un recupero crediti legittimo. Ora invece stiamo assistendo da parte delle banche a una vera caccia alle imprese per far rientrare a tutti i costi e in tempi rapidi i clienti dei crediti concessi». Uno scenario per G.P., un imprenditore edile che con il suo gruppo di società detiene un patrimonio di immobili da circa 30 milioni di euro, definisce drammatico: «Sono 40 anni» spiega «che lavoro con le banche, ma in una situazione simile non mi ero mai trovato. Tra l'altro questo attacco indiscriminato alle imprese farà sì che quando ci sarà la ripresa rimarremo bloccati. Il tessuto di piccole e medie aziende che sostengono l'economia italiana nel frattempo sarà stato distrutto». Manco a dirlo, l'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato crediti estorti dalle banche per 1,5 milioni di euro. L'aspetto più assurdo della vicenda è che gli istituti procedono pressoché impuniti e che l'Abi (Associazione bancaria italiana) non rilascia alcuna dichiarazione. Il motivo? Non sono tenuti a esercitare il controllo sui loro soci. Banca d'Italia, che invece questo controllo lo dovrebbe effettuare, sottolinea come «le numerose denunce per usura siano basate sull'impiego di criteri di calcolo difformi». A questo però aggiunge che «sta rivedendo le istruzioni in materia di rilevazione dei tassi effettivi globali». Insomma, la situazione sembra priva di reale controllo.

I magistrati indagano i banchieri, poi ci vanno pure a scuola, scrive “Alètheia”. E pensare che ci stupivamo della telefonata fatta dal ministro della giustizia Cancellieri alla famiglia Ligresti. Le banche, tramite l’Abi (Associazione bancaria italiana), hanno sempre cercato di condizionare la giustizia, con protocolli di intesa (novembre 2006) con il Ministero della giustizia per progetti di formazione destinato a magistrati, cancellieri, ed altri operatori del settore giudiziario, per favorire la conoscenza e l’adozione degli strumenti del processo civile telematico, contribuire allo scambio di informazioni e best practice tra gli addetti ai lavori e agevolare la costruzione di una cultura italiana sulla giustizia telematica. Molti gli episodi di evidenti conflitti di interessi, come quella di alcune banche di finanziare i corsi dei magistrati, o la poco trasparente gestione delle esecuzioni immobiliari tra la società Asteimmobili di natura privatistica, chiamata a svolgere nei tribunali compiti di natura pubblicistica, nonché il palese conflitto di interessi sotteso alla decisione di assegnare all’Abi la gestione integrata di tutte le informazioni relative ai procedimenti giudiziari nei fallimenti ed esecuzioni immobiliari e l’invio informatico degli atti processuali. Lo scorso 4 luglio 2014 ed a seguito chiusura indagini per il reato di usura a carico di alcune banche e di ex dirigenti Bankitalia da parte del Pm di Trani Michele Ruggiero, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato, d’intesa con la Banca d’Italia e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) i cui ex vice-presidenti sono stati indagati (Emilio Zanetti scandalo Ubi-Banca) o arrestati (Giovanni Berneschi, scandalo Banca Carige Genova), un corso interdisciplinare sul tema dell’usura, riservando 30 posti per magistrati addetti al settore civile e 40 posti per magistrati addetti al settore penale (funzioni giudicanti e requirenti). Come si può leggere dalla lettera, Prot.n. 1980/2014USSM; inviata alla Direzione Generale dei Magistrati, Ispettorato Generale, Al Presidente della Corte di Cassazione Dr. Giorgio Santacroce, Al Procuratore Generale della Corte di Cassazione Dr. Gianfranco Ciani, Ai Presidenti delle Corti d’Appello, Ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello, con l’oggetto: incontro di studi ”L’Usura: profili civilistici e penalistici“ 14-15 luglio 2014 Roma; Piazza del Gesù n. 49 – Sala della Clemenza, Palazzo Altieri. Roma, 4 luglio 2014. Firmato: la Segreteria della Scuola Superiore della Magistratura. Essendo gravissimo questo ultimo tentativo di indottrinamento degli operatori della Giustizia ad interessi di parte, che si consumerà il 14 e 15 luglio a Roma, nella sede Abi di Palazzo Altieri, dove è stato convocato un incontro di studio organizzato in fretta e furia dalla SSM (Scuola Superiore della Magistratura) d’intesa con la Banca d’Italia e l’ABI, proprio sul tema dell’usura bancaria, dove sono stati ammessi 70 magistrati, che potrebbe avere la finalità di condizionare indagini penali in corso, che vedono tra gli indagati primari esponenti delle banche associate all’Abi, che annovera molti banchieri incriminati e perfino arrestati, con sede in Piazza del Gesù, 49, a Roma proprio a Palazzo Altieri, e la Sala della Clemenza è tra le più prestigiose sale dove vengono svolti incontri, dibattiti, convegni, conferenze. Adusbef e Federconsumatori hanno denunciato un aspetto ancor più grave, che vede l’ex ministro della Giustizia del Governo Monti, prof.ssa Paola Severino nella duplice funzione di docente e partecipante attiva al corso sull’usura somministrato ai magistrati nella tavola rotonda di apertura per disquisire, assieme ad altri illustri relatori, sui profili civili e penali della legislazione antiusura, ed allo stesso tempo nella veste di avvocato difensore e consulente legale di celebri indagati (probabilmente anche nel processo penale istruito dal Pm di Trani Michele Ruggiero), accusati di aver violato la legge 108/96 ed il reato sull’usura. Poiché tale palese commistione tra organi giudiziari come il SSM, che avrebbe finalità di offrire formazione oggettiva ai magistrati, con i rappresentanti di dirigenti indagati o arrestati come Abi e Banca d’Italia, fa sorgere il dubbio di una giustizia addomesticata a misura di potenti, al contrario di quanto sancito dalla Costituzione Repubblicana ancora vigente, configura insanabile vulnus per la necessaria terzietà materiale e sostanziale, con lo studio dell’usura “a casa” del principale indiziato di attività usuraria, analogamente a corsi di formazione sui reati di mafia organizzata a Corleone, a casa di Totò Rjina o Bernardo Provenzano, Adusbef e Federconsumatori hanno inviato un corposo esposto alle maggiori cariche istituzionali italiane ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, denunciando il grave pericolo per le garanzie Costituzionali ed i diritti delle persone, specie se correntisti e risparmiatori, da una giustizia molto spesso ingiusta per i comuni cittadini.

Corso anti-usura per pm. In cattedra le banche, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano, 12/07/2014 pagina 10. Il problema è molto complesso. Da quando il codice penale è stato modificato e il reato di usura non è più tipico dello strozzino ma anche dei banchieri qualora applichino tassi esagerati, le nostre scienze giuridiche si arrovellano: quando si può considerare superato il tasso-soglia oltre il quale scatta il reato? Pare che dopo quasi vent'anni non siano " ancora sopiti i problemi interpretativi", e così il presidente della Scuola Superiore della Magistratura, Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, ex candidato a sindaco di Milano ed ex saggio di Giorgio Napolitano, ha avuto un'idea notevole. Ha organizzato un corso di formazione per magistrati in collaborazione con l'Abi (associazione bancaria italiana) e con la Banca d'Italia. Gente che di usura se ne intende, ovviamente, ma con il difetto di essere potenzialmente nel mirino dei magistrati che sono chiamati a formare. I Presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, hanno preso carta e penna per scrivere una lettera di protesta alle Nazioni Unite, alla Corte Europea per i diritti dell'uomo, al presidente Napolitano, al premier Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Chiedono che Onida sia severamente censurato, e lo fanno con parole forti: " Chi ha ordito questa turpe trovata merita di essere sollevato dagli incarichi. Tanto al fine di evitare che altri magistrati magari siano costretti in futuro a partecipare a corsi antimafia a Corleone, nelle ville di Totò Riina o Bernardo Provenzano". Il corso si tiene il 14 e il 15 luglio 2014 nella sede dell'Abi, gentilmente messa a disposizione dal presidente dell' Abi, Antonio Patuelli. Colpisce che settanta magistrati provenienti da tutta Italia vengano mandati a scuola di usura presso un' associazione che si è trovata in pochi giorni con un vicepresidente arrestato, Giovanni Berneschi ex presidente di Carige, e uno indagato, Emilio Zanetti, ex presidente di Ubi-Banca. Lo stesso Patuelli deve la nomina alle dimissioni del predecessore Giuseppe Mussari, travolto dallo scandalo Montepaschi e oggi rinviato a giudizio anche per usura. Competenza per competenza, non si capisce perché non abbiano invitato anche Mussari a spiegare ai magistrati in cerca di formazione professionale i segreti dell'usura. C'è però, tra i docenti, Paola Severino, ex ministro della Giustizia e penalista di primo piano. Prima di diventare Guardasigilli a novembre 2011, era impegnata nel processo sull'aeroporto di Ampugnano che coinvolgeva Mussari e altri esponenti del Monte dei Paschi. E proprio a causa della nomina dovette abbandonare la difesa di una banca accusata di usura. Non è dato sapere se le due giornate di aggiornamento professionale prevedano anche esercitazioni pratiche. Ci sarebbe un ottimo caso di scuola a disposizione, l'inchiesta per usura del pm di Trani Michele Ruggiero, che vede indagati, tutti insieme, il presidente della Rai Anna Maria Tarantola come ex capo della Vigilanza della Banca d'Italia, l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni in quanto ex direttore generale della Banca d'Italia, e poi i capi o ex capi di alcune della maggiori banche italiane: Luigi Abete e Fabio Gallia della Bnl, Alessandro Profumo di Unicredit e il suo successore Federico Ghizzoni, Mussari per il Montepaschi insieme all'ex vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone, di cui Severino è da sempre difensore di fiducia. Peccato solo che il pm Ruggiero non sia stato invitato al corso, poteva essere l'occasione per i vertici di Abi e Bankitalia, e per la stessa Severino, di spiegargli per le vie brevi l'eventuale esagerazione delle sue ipotesi investigative. Per Adusbef e Federconsumatori, che hanno sollevato il problema, in gioco c'è la separazione dei poteri, "il doveroso distacco tra Abi e Ordine Giudiziario il cui collante risalente nel tempo stride con un paese ad ordinamento costituzionale e democratico". Una questione antica. Nel 2010 Lannutti, da senatore, interrogò il ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il Guardasigilli Angelino Alfano, per sapere come mai l'Abi, con il patrocinio del ministero della Giustizia, avesse "sviluppato un progetto di formazione e-learning destinato a magistrati, cancellieri, avvocati e a tutti gli operatori del settore giudiziario per favorire la conoscenza e l'adozione degli strumenti del processo civile telematico". E riproponendo il tema della società Asteimmobili, costituita dall'Abi per gestire l'esecuzione dei fallimenti. Un' altra invasione di campo.

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.

Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.

Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due  presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza,  lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente  piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato  nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri  tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero.  E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà  lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e  condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali.  Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari.  Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.

La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica  villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.

Da un fatto ad un all'altro.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

Si allarga la “tangentopoli” della Marina. Il Tribunale del Riesame di Taranto ha deciso di concedere i domiciliari ad alcuni ufficiali finiti in carcere a gennaio. Ma nelle prossime settimane altri potrebbero finire agli arresti, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Dopo gli arresti del 7 gennaio scorso di diversi alti ufficiali della Marina militare, per concussione, perché gli imprenditori erano stati costretti a versare una tangente del 10% (su tutti gli appalti e forniture), il Tribunale del Riesame di Taranto ha deciso di concedere gli arresti domiciliari ad alcuni ufficiali finiti in carcere. Ma negli atti depositati ai giudici, il pm Maurizio Carbone ha scritto che diversi imprenditori hanno chiamato in causa altri ufficiali della Marina militare di Taranto. Il pm ha glissato i nomi di questi ufficiali che sono stati anche loro iscritti sul registro degli indagati. Scrive nella sua memoria il pm Carbone: «I verbali delle sommarie informazioni degli imprenditori ascoltati contengono numerosi “omissis” nelle parti concernenti il coinvolgimento di altri ufficiali che sempre all’interno del Commissariato della Marina (Maricommi) di Taranto avrebbero preteso tangenti dagli imprenditori anche per gli altri reparti, sempre con la regia della direzione di Maricommi». Insomma, la Marina di Taranto rischia di essere affondata dalla inchiesta della Procura di Taranto, che sta svelando le tante falle di un «sistema» di corruzione che si tramandava da generazioni di ufficiali. E che non riguardava solo «il quinto reparto», ma anche gli altri. Dagli atti delle indagini risulta addirittura che dopo il primo fermo in flagranza di reato di un ufficiale della Marina che intascava le mazzette, e questo avveniva nel marzo scorso, le tangenti hanno continuato a essere pagate dagli imprenditori. «Si è rotto il muro dell’omertà», scrive il pm Carbone nella sua memoria. Ed ė facile ipotizzare che nelle prossime settimane altri ufficiali della base di Taranto finiranno agli arresti. Una falla. Enorme, continua Ruotolo. Cinque ufficiali e un sottufficiale della Marina militare in carcere per concussione. Le tangenti arrivavano anche a Roma, allo Stato Maggiore della Marina. Il 10% su tutti gli appalti. Ma il quadro potrebbe aggravarsi ancora di più. Ci sono altri indagati e gli arresti potrebbero scattare per altri ufficiali se quelli finiti in carcere stanotte dovessero decidere di collaborare, di ammettere, di confermare le ipotesi del pm Maurizio Carbone. Uno schizzo di fango, anzi peggio sulla Marina militare. Mare nostrum, il salvataggio di decine di migliaia di profughi è alle spalle. L’inchiesta della Procura di Taranto apre uno scenario inedito. Non si tratta di semplici «mele marce». È un sistema di corruzione radicato in quella che è la base aeronavale della nostra Marina. È stato un imprenditore che si è ribellato nel marzo scorso a svelare il sistema, facendo arrestare in flagranza di reato un capitano di Fregata, Roberto La Gioia, mentre intascava una busta con 2.000 euro. I carabinieri sequestrarono una pen drive e un appunto nella cassaforte dell’ufficiale che documentavano appalti, percentuali, spartizioni delle tangenti. Decine e decine di migliaia di euro finiti nelle tasche di diversi ufficiali. La Gioia ha ammesso che il suo predecessore gli fece le consegne. Insomma, ereditò il «sistema». Adesso c’è solo da aspettare, per vedere quanto esteso sia il marcio, alla Marina militare.

Appalti e mazzette, nuovo terremoto per la Marina a Taranto, scrive Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Si allarga anche agli altri reparti di Maricommi l’inchiesta sul sistema di tangenti imposto agli imprenditori. È quanto emerge dalla memoria presentata ieri mattina dinanzi al tribunale del riesame dal sostituto procuratore Maurizio Carbone con la quale aveva chiesto la conferma del carcere per i quattro indagati che avevano appellato l’ordinanza emesso lo scorso 13 gennaio dal gip Pompeo Carriere e che invece il collegio di magistrati ha scarcerato. Si tratta del capitano di vascello Attilio Vecchi, assistito dall’avvocato Susanna Carraro, del capitano di fregata Riccardo Di Donna, del capitano di fregata Marco Boccadamo, difeso dai legali Raffaele Errico e Rocco Maggi, e del maresciallo Antonio Summa difeso dagli avvocati Raffaele Errico e Alessandra Semeraro. Il pubblico ministero Carbone ha depositato diverse testimonianze di imprenditori raccolte negli ultimi giorni nelle quali gli stessi avrebbero raccontato agli inquirenti che le tangenti venivano pagate anche ad altri ufficiali di altri reparti della Direzione di commissariato della Marina militare di Taranto. L’inchiesta sulla tangentopoli in divisa, quindi, non si ferma. Anzi. L’indagine ora sembra mettere sotto la lente di ingrandimento anche gli altri reparti di Maricommi. Dalle poche notizie trapelate, infatti, i verbali di interrogatorio depositati dal pm Carbone sarebbero in diverse parti coperti da «omissis» per nascondere i nomi di altri ufficiali che, secondo quanto raccontato negli ultimi giorni da una serie di imprenditori, avrebbero intascato mazzette. Tra i diversi indagati, al momento, la posizione più delicata è quella di Marco Boccadamo, l’ex vice direttore di Maricommi a cui il riesame ha concesso i domiciliari. Contro di lui, infatti, hanno testimoniato diversi imprenditori sostenendo di aver pagato mazzette all’ufficiale sia quando ricopriva l’incarico di comandante del V Reparto che di vice direttore. Inoltre dopo le prime dichiarazioni di La Gioia che avrebbe raccontato di aver suddiviso le mazzette con Boccadamo, ora si sarebbero aggiunti anche altri due imprenditori che al pubblico ministero avrebbero ammesso di aver versato tangenti all’ex vice direttore per ottenere appalti anche negli altri reparti. Conferme non da poco, quindi, che per gli inquirenti possono significare solo che gli elementi raccolti finora rappresentano solo una parte di quello che avviene all’interno del comando militare. Elementi raccolti, secondo il pm Carbone, grazie agli arresti effettuati che hanno consentito agli imprenditori di abbattere il muro di omertà che per anni ha garantito la sopravvivenza del sistema concussivo. Infine contro Boccadamo pesano anche le dichiarazioni del suo pari grado Giovanni Cusmano avrebbe ammesso di aver ereditato direttamente da lui «la prassi» del 10 percento e di aver diviso con lui almeno in una occasione una tangente da 4mila euro versata dall’imprenditore tarantino che per primo ha dato il via a questo terremoto giudiziario. Cusmano ha spiegato al pm Carbone e al gip Carriere di essere arrivato al comando del V Reparto quasi consapevole che avveniva qualcosa di sospetto: «Che Boccadamo facesse queste cose, si sapeva all’interno».

"Pizzo come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina militare. Secondo l'accusa, da più di 10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e responsabili degli uffici imponevano il pizzo  alle aziende fornitrici e dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o ostacolare i pagamenti.  "Come la malavita organizzata", il pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il "sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette. I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5° reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili, assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni. La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato, compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".

Marina Militare e appalti, 7 arresti per concussione, scrive “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Un “vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all’intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell’agire della malavita organizzata”. Lo scrive il gip di Taranto Pompeo Carriere nell’ordinanza di custodia cautelare, richiesta dal pm Maurizio Carbone, notificata a 7 indagati, tra militari e civili, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti gestiti dalla Marina militare. La tangente imposta era pari al 10% dei profitti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno arrestato il vice direttore di Maricommi, due ex vice direttori, un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina Militare per concussione. In concorso tra loro – secondo l'accusa – abusando delle loro qualità e dei loro poteri, con la minaccia di ostacolare la regolare emissione dei mandati di pagamento per la esecuzione dei lavori di manutenzione e forniture di servizi e materiale loro affidati per conto della Marina militare, gli indagati hanno costretto “vari imprenditori a versare materialmente al capo del V Reparto di Maricommi, in tempi diversi, più somme di denaro non dovute per importi variabili e altre utilità, per un valore complessivamente comunque equivalente al 10% circa dei profitti derivanti dai servizi svolti”. Somme che il capo reparto, precisa una nota dei carabinieri, “provvedeva a distribuire successivamente in diverse parti percentuali secondo gli accordi tra loro intervenuti”.

Gip: imponevano «pizzo» come malavitosi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E' in corso, nelle provincie di Taranto, Roma e Napoli, l’esecuzione, da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto, di sette ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip su richiesta della locale Procura della Repubblica. Le misure restrittive e contestuali perquisizioni vedono fra i destinatari appartenenti della Marina Militare fra i quali Ufficiali, Sottufficiali e personale civile, ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di concussione nell’ambito di appalti in favore dell’ente. L'inchiesta, avviata dopo la denuncia presentata da un imprenditore che sosteneva di aver pagato tangenti in relazione ad un appalto, sfociò il 12 marzo 2014 nell’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, comandante del quinto reparto di Maricommi, che si occupava di contratti e appalti. L'ufficiale fu bloccato dopo aver ricevuto una busta con 2mila euro dall’imprenditore, che rappresentava – secondo l'accusa – una tranche di una tangente imposta per emettere i mandati di pagamento nei confronti della sua azienda. Il sospetto degli investigatori è che il militare abbia chiesto una tangente del 10 per cento. I carabinieri successivamente perquisirono l’appartamento e l’ufficio di La Gioia trovando altro denaro ritenuto frutto della concussione. Furono sequestrate anche due pen drive dell’arrestato, in cui furono scoperti file con un elenco di imprese. Accanto a ognuna di esse era riportato il valore dell’appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti. Sono cinque ufficiali in servizio a Napoli, Roma e Taranto, un sottufficiale e un impiegato, entrambi in servizio a Taranto, le sette persone portate in carcere dai carabinieri nell’ambito dell’indagine sulle tangenti imposte sugli appalti della Marina Militare. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Sono tutti indagati in concorso con il capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, ex responsabile di Maricommi, arrestato il 12 marzo del 2104 ed attualmente e sottoposto all’obbligo di firma. L’ufficiale fu indagato per concussione nei confronti di una serie di imprenditori locali, assegnatari di servizi per conto della Pubblica Amministrazione nell’ambito degli appalti gestiti dalla direzione di Commissariato per la Marina Militare di Taranto. Al graduato fu sequestrata una somma di denaro contante, suddivisa in singole mazzette, per un ammontare complessivo pari a 44mila euro. Il gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita oggi che il sistema ideato dagli indagati faceva sì che gli imprenditori concussi fossero vittime di una “vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all’altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito”.

Ma non è la prima volta.

Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona: trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli, attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti. L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle navi militari.

Lecce, confessano altri due poliziotti della Stradale, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno. Altri due poliziotti della Stradale confessano. E’ accaduto ieri mattina nel corso dell’udienza davanti al Tribunale del Riesame. Stef ano Simonetto, 42 anni, e Luigi De Vincenzo, di 55, entrambi di Nardò, hanno ammesso di essersi «adeguati un andazzo che era generalizzato» fra gli agenti in servizio nella sezione di Polizia stradale di Lecce. I due sono in carcere dal 12 maggio scorso sulla scorta di u n’ordinanza di custodia cautelare in cui si contestano i reati di associazione per delinquere e concussione. Gli agenti sono accusati di aver preteso mazzette e regali da commercianti ed imprenditori. In cambio furgoni e camion delle aziende «compiacenti » non sarebbero stati multati. Il sistema delle «regalie» e delle mazzette è già stato illustrato da altri due agenti: l’ispettore capo Fr ancesco Reggio di Lecce e l’assistente Anna Maria Petrelli di Lizz anello. Ieri sono arrivate le dichiarazioni degli altri due agenti che hanno ammesso di aver ricevuto i regali e di aver fatto qualche «giro» fra gli imprenditori per ottenere buoni benzina. Simonetto e Di Vincenzo sono difesi dagli avvocati Giuseppe Bonsegna e Donato Mellone. Nel corso dell’udienza il pubblico ministero Guglielmo Cataldi ha depositato anche nuovi verbali con le dichiarazioni di altri imprenditori i cui nomi compaiono nella lista di coloro che avrebbero versato «mazzette» e fatto regali agli agenti della Stradale. I titolari di alcune aziende sono già stati sentiti. Ed hanno confermato di aver consegnato denaro, regali e buoni benzina ai poliziotti per evitare il rischio di essere multati.  Ieri davanti al collegio del Tribunale del Riesame sono arrivate le posizioni di altre cinque agenti raggiunti dall’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Si tratta di Leonardo Impero Delle Donne 45 anni, di Caprarica; di Franco Carlà, 58, di Lizzanello; di Maurizio Scarofo n e , di Lecce; Giuse ppe Piccinno, 51, di Aradeo; di Giuseppe Amenini, 46, di Maglie. Fra di loro c’è stato chi ha preferito rinunciare al ricorso al Riesame. Gli agenti sono assistiti dagli avvocati Giancarlo Dei Lazzaretti, Luigi Rella, Luigi Greco, Pantaleo Cannoletta, e Laura Minosi. Intanto continuano da parte degli ufficiali della sezione di pg della Polizia di Stato gli ascolti degli imprenditori come persone informate sui fatti.

Rossana di Bello, fa fallire Taranto e si prende un vitalizio a 58 anni, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. La domanda l’ha fatta all’inizio di settembre, ed è bastata una sola seduta dell’ufficio di presidenza del Consiglio regionale della Puglia per esaudirla, perfino in modo retroattivo. Dal primo settembre scorso c’è un ex politico in più a prendere quel vitalizio che da anni ci raccontano falsamente di avere abolito: è Rossana di Bello, una delle pioniere di Forza Italia. Ci sono non poche anomalie in quel vitalizio che era stato abolito e continua a correre come un fiume. La prima anomalia è quella di uno Stato che premia per tutta la vita un politico che non ha particolarmente brillato: la Di Bello è stata sindaco di Taranto per lunghi anni e con lei la città è stata fra i pochi comuni italiani a fallire, con un dissesto finanziario per oltre 900 milioni di euro (è stata anche sotto inchiesta penale, ma in secondo grado l’hanno assolta dando la colpa ai suoi collaboratori. La Corte dei Conti però ce l’ha ancora nel mirino per danno erariale). La seconda anomalia è che la Di Bello con soli cinque anni lavorati prende da settembre e prenderà fino all’ultimo suo giorno (con possibilità di rendere reversibile ai suoi cari) un assegno mensile da 3.862,27 euro lordi. La terza anomalia riguarda l’età pensionabile della fortunata politica: ha compiuto 58 anni il 28 agosto scorso. La legge Fornero vale dunque per tutti, ma non per i politici italiani, che con soli 58 anni e per avere lavorato solo 5 anni hanno diritto a una pensione reversibile che è quasi il triplo della pensione media degli italiani che hanno lavorato 40 anni. Quarta anomalia, chi sul lavoro combina un disastro come è evidente nella storia di Taranto, alla fine ci rimedia un bel premio.

Lecce, aumentano processi a magistrati, 12 indagati, 92 parti offese. L'inaugurazione dell'anno giudiziario a Lecce con competenza su Taranto: tra i temi caldi l'ambiente, con l'Ilva, il fotovoltaico, gli abusi edilizi e i rifiuti interrati. In crescita durata media procedimenti civili, in lieve calo quella dei processi di primo grado, scrive Chiara Spagnolo su “La Repubblica” L’Ilva, i parchi fotovoltaici, i rifiuti interrati e poi le colate di cemento sulle aree protette, vittime di “reati perpetrati oltre che da privati spesso anche dal pubblico”. È stato l’ambiente uno dei settori più impegnativi per la magistratura salentina, come emerge dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dal presidente vicario della Corte d’appello di Lecce, Mario Fiorella: “In tutto il Salento è grave la situazione del traffico di rifiuti pericolosi di varia provenienza, spesso sparsi in discariche abusive o anche interrati con danni per i terreni e le falde acquifere”.  Relazione sintetica, quest’anno, perché racconta il lavoro fatto sotto la presidenza di Mario Buffa, da due settimane in pensione, al quale è stato rivolto un plauso unanime. L’anno appena trascorso - nei tribunali di Lecce, Brindisi e Taranto – è stato caratterizzato da difficoltà legate alla perdurante carenza di organico, sia dei magistrati che del personale amministrativo, a cui si è reagito con un impegno che ha consentito “di mantenere inalterato il trend relativo alla durata dei processi”, ha detto il presidente. I numeri, a quanto pare, descrivono una situazione sotto controllo: aumenta la durata media dei processi civili, ma solo in fase d’appello (891 giorni contro gli 806 dell’anno precedente), ma aumenta anche il contenzioso, che non viene alleggerito dalla mediazione civile “che non ha dato effetti positivi”, con solo 63 procedimenti iscritti nel 2013. Risulta addirittura leggermente diminuita, invece, la durata media dei processi di primo grado a Lecce e Brindisi (663 giorni a Lecce e 419 a Brindisi rispetto ai 675 e 442 dell’anno precedente) mentre è leggermente aumentata a Taranto (619 giorni a fronte dei 580 del 2012). I processi d’Appello invece sono risultati più veloci in entrambe le sedi (560 giorni a Lecce e 733 a Taranto, contro i 674 e gli 823 dell’anno precedente). E se le lungaggini della giustizia pongono il 2013 in perfetta linea con gli anni passati, risulta invece in crescita il numero di processi a carico di magistrati: ben 113 sono stati infatti quelli iscritti nel registro degli indagati, comprendendo sia quelli in servizio nel Distretto di Lecce (inchieste poi trasferite per competenza a Potenza) sia quelli in servizio a Bari, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. La relazione sull’andamento della giustizia ha preso poi in esame il lavoro effettuato dalle Procure, scavando anche nelle metodologie di indagine utilizzate ed evidenziando, per esempio in materia di intercettazioni telefoniche, come la Procura di Brindisi sia quella che ne ha fatto un maggiore utilizzo (con 647 utenze controllate a fronte delle 437 di Lecce e 641 di Taranto), mentre 1.267 sono i telefoni intercettati dalla Dda nell’ambito del controllo delle organizzazioni criminali. Proprio in tema di mafia, è stata sottolineata dal presidente Fiorella la diminuzione degli omicidi (2 a Taranto e 2 a Lecce) “dettato dall’esigenza di non richiamare l’attenzione di polizia e magistratura con azioni eclatanti”. Usura ed estorsioni, invece, continuano ad essere terreno privilegiato d’azione dei clan ma molto spesso “non vengono denunciate dalle vittime per paura di ritorsioni”, confermando l’appellativo di “reati sommersi”, che danno infatti origine a pochi procedimenti giudiziari: 40 per usura e 182 per estorsione nelle tre province.

E poi....

Denuncia un concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari, accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli, il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore, possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro, ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo. Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino, vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli, noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di Economia dell’università di Bari.

Concorso Università a Bari: 11 indagati tra cui 4 professori, scrive Massimiliano Scagliarini “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una dottoranda con il registratore sempre acceso in tasca e un concorso da ricercatore in Diritto commerciale annullato dal Consiglio di Stato. Un calderone di vita universitaria che ha scatenato una guerra tra Procure, coinvolgendo 11 persone (tra cui 4 docenti) che oggi si ritrovano indagati con l’accusa di aver truccato non solo le selezioni, ma persino l’assegnazione degli incarichi gratuiti di supplenza. Il punto è che la dottoranda Monica Bruno, che dal 2009 ha inviato diverse denunce sulla questione, è moglie di un magistrato di Taranto, Ciro Fiore, all’epoca dei fatti gip nel Tribunale jonico ed oggi trasferito al Minorile. A febbraio il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione delle accuse per una parte dei fatti, ma a inizio giugno il pm di Taranto, Remo Epifani, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini ad 11 persone: oltre ai commissari del concorso annullato, nell’elenco ci sono il vincitore, Giuseppe Sanseverino, 46 anni, di Massafra, ed i docenti baresi Gianvito Giannelli, 54 anni, e Ugo Patroni Griffi, 48 anni. Ce n’è abbastanza per parlare di liti in famiglia. Anche perché Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, della Bruno è stato non solo tutor ma anche testimone di nozze. E Giannelli, ultimamente molto noto alle cronache per l’incarico di curatore fallimentare del Bari calcio, è a sua volta sposato con un sostituto procuratore. Ma quando la commissione che doveva nominare un ricercatore in Diritto commerciale ha prescelto Sanseverino rispetto agli altri tre partecipanti (tra cui c’erano il figlio del professor Giorgio Costantino e la figlia della professoressa Eda Lofoco), la dottoressa Bruno ha preso carta e penna e con l’avvocato Carlo Raffo ha denunciato una serie di presunte irregolarità, arrivando a formulare persino i capi di imputazione: nell’avviso di conclusione delle indagini la procura di Taranto li ha ripresi quasi tutti, e quasi parola per parola. In particolare, la Bruno ha denunciato quello che lei stessa chiama il «metodo del cappello» per l’assegnazione delle supplenze: il professor Patroni Griffi (che per questo è accusato di truffa e falso ideologico) avrebbe presentato domanda salvo poi ritirarla all’ultimo momento, avvantaggiando così - questa è la tesi - il dottor Sanseverino. Un punto su cui la procura di Bari, chiedendo l’archiviazione, aveva però espresso un’opinione contraria: semplicemente perché anche in quei casi Sanseverino poteva comunque vantare i titoli migliori dell’unica altra candidata. Il concorso per ricercatore del 2009, che a breve dovrà essere ripetuto con una nuova commissione e presumibilmente vedrà di nuovo la Bruno ai blocchi di partenza, è stato annullato sulla base di una decisione della giustizia amministrativa sulla valutazione comparativa dei titoli. Per questo la procura di Taranto accusa di abuso d’ufficio sia Sanseverino sia i commissari, tra cui oltre a Giannelli ci sono il bolognese Filippo Paolucci e il campano Ermanno Bocchini. Ma soprattutto, nei guai dopo le denunce (e le registrazioni) della Bruno sono finiti alcuni suoi ex colleghi dottorandi, accusati di favoreggiamento aggravato per aver negato ciò che probabilmente hanno detto a proposito del concorso mentre non sapevano di essere intercettati. Al di là dei docenti di ruolo, il vero beffato di tutta questa storia finora è proprio Sanseverino, che oltre a non aver ottenuto il posto è accusato anche di aver «barato» nel curriculum. Sanseverino ha depositato in procura una lunga memoria, in cui esamina in dettaglio i propri titoli accademici, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, ma passa anche al contrattacco nei confronti della Bruno: ha infatti documentato che la collega, mentre percepiva l’assegno di dottorato da parte dell’Università di Bari, continuava a svolgere l’attività professionale di revisore dei conti. Nel frattempo il dossier di Sanseverino è finito alla Corte dei Conti: questa storia non finirà mai...

Concorso all'Università, 11 indagati illustri. "Truccarono le carte". La selezione per il posto di ricercatore in diritto commerciale internazionale, la procura di Bari archivia, Taranto verso il giudizio. Il Consiglio di Stato annulla la prova, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Un concorso universitario. Undici indagati illustri. Un dibattito tra due procure, quella di Taranto e quella di Bari, che sullo stesso fatto hanno opinioni diverse: a Bari archiviano, nel capoluogo jonico sono pronti ad andare a giudizio. La storia è quella del concorso da ricercatore in diritto commerciale internazionale bandito dall'università di Bari per la sede di Taranto. La selezione viene vinta dal professor Giuseppe Sanseverino. Ma una delle partecipanti, Monica Bruno, non ci sta e presenta il ricorso amministrativo: il Tar le dà torto mentre il Consiglio di Stato ribalta la sentenza e di fatto annulla la prova che infatti si sta rifacendo in queste settimane. Non è chiaro, dicono i giudici amministrativi, in una sentenza in cui parlano tra le altre cose di "eccesso di potere", quali criteri abbia utilizzato la commissione per "sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato", dunque è tutto da rifare.  Il giudizio amministrativo però rappresenta soltanto una fetta di questa storia. La Bruno ha presentato un corposissimo esposto in procura, preparando persino i capi di imputazione. In un primo momento Taranto ha inviato gli atti a Bari, iscrivendo nel registro degli indagati ventinove persone, cioè tutto il consiglio di dipartimento. Con un provvedimento del 26 febbraio del 2014 firmato dal sostituto Luciana Silvestris e dall'aggiunto Giorgio Lino Bruno, Bari però archivia il reato di falso inizialmente ipotizzato. E rimanda le carte a Taranto per ulteriori valutazioni. Nei giorni scorsi la doccia fredda: il pm di Taranto Remo Epifani ha fatto notificare a undici persone un avviso di garanzia. E' indagata l'intera commissione di esame composta dai professori Gianvito Giannelli, Luigi Paolucci ed Ermanno Bocchino. L'accusa è di falso e abuso di ufficio perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al candidato Sanseverino in concorso con il quale agivano, consentendogli il positivo superamento della procedura di valutazione contributiva. Cagionano così un danno ingiusto alla candidata Bruno". Non solo: dice il pm che ci sono anche dei falsi compiuti per "riconoscere al Sanserverino titoli preferenziali inesistenti" per "formulare giudizi favorevoli su pubblicazioni che non potevano essere valutate", il tutto chiaramente per consentire al professore di vincere la prova a scapito della Santoro. Nell'inchiesta è indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi che però non faceva parte della commissione ma che è accusato dalla Santoro e dalla procura di aver favorito Sanseverino, perché suo allievo. Agli atti sono state depositate alcune intercettazioni fatte dalla stessa Santoro nella quale altri docenti, ora iscritti nel registro degli indagati (gli altri sono i professori Ermanno Bocchini, Luigi Paolucci, Anna Zaccaria, Francesco Sporta Caputi, Laura Tafaro, Giuditta Lagonigro, Rosa Calderazzi e Francesco Costantino) raccontavano alla collega di sapere che Sanseverino avrebbe dovuto vincere il concorso perché "aveva dei titoli fortissimi". Sanseverino a sua volta è passato al contrattacco depositando una memoria contro la Bruno (moglie del magistrato Ciro Fiore scrive nella memoria) nella quale fa notare tra le altre cose che la collega avrebbe ricevuto un assegno di ricerca mentre svolgeva altri ruoli, tra i quali “perizie contabili e societarie, curatele fallimentari e procedimenti penali” presso gli uffici giudiziari tarantini. Eppure al titolare dell'assegno è "inibito lo svolgimento - dice Sanseverino - in modo continuativo di rapporti di lavoro nonché l'esercizio di attività libero professionali". Oltre questo c'è poi la questione amministrativa. Come detto il Consiglio di Stato ha annullato il concorso perché la commissione avrebbe favorito Sanseverino a scapito della Bruno. 'Confrontando le relative attività di ricerca - si legge infatti nella sentenza emerge, in termini oggettivi, un dato di prevalenza per la dottoressa Bruno". Dopo la decisione dei giudici amministrativi è stata formata una nuova commissione che però ha interrotto i lavori. La Santoro ha mandato loro una diffida, spiegando che avrebbero dovuto rivalutare soltanto i suoi titoli e quelli di Sanseverino e non quelli di tutti gli altri candidati. Una teoria che non ha convinto però il rettore, Antonio Uricchio, che infatti ha chiesto un parere al Consiglio di Stato per capire come comportarsi ed è in attesa di ricevere una risposta. Per il momento il concorso è bloccato. Intanto però l'avviso è diventato un caso in ambito accademico. Anche se tutte le persone coinvolte si dicono serenissime. Se da una parte il legale di Patroni Griffi, Ugo Paliero, si dice sicurissimo di chiarire tutto in tempi stretti anche vista la "posizione marginale" del suo assistito, il difensore del professor Giannelli, Vito Mormando spiega: "I rilievi che gli vengono mossi fanno riferimento a presunte e opinabili irregolarità amministrative, tra l'altro già travolte dalla sentenza del Tar e dal decreto di approvazione degli atti da parte del rettore. Comunque un dato è pacifico: il concorso si è svolto presso l'università di Bari. La competenza non è tarantina".

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

Il tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza dell'Ilva di Taranto, nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria. Come giudice delegato per la procedura stessa è stata nominata Caterina Macchi. Si apre quindi il capitolo finale per la tormentata azienda siderurgica, ormai destinata al fallimento.  L'azienda "presenta un indebitamento complessivo pari a 2.913.282.000 euro", scrivono i giudici nella sentenza. Secondo i giudici l'Ilva "si trova in stato di insolvenza come adeguatamente illustrato nel ricorso" del commissario straordinario presentato lo scorso 21 gennaio e "comprovato dalle allegazioni documentali, risultando - si legge nel provvedimento - che la società presenta capitale circolante negativo per circa 866 milioni di euro, una posizione finanziaria netta negativa per 1583 milioni di euro, una progressiva riduzione del patrimonio netto contabile e una redditività negativa della gestione" sempre in riferimento al 30 novembre 2014. Mancano materie prime, stop alcuni impianti - Intanto a rendere ancora più complicata una situazione non facile, è arrivato l'annuncio dell'Ilva ai sindacati metalmeccanici di fermare alcuni impianti a causa del mancato rifornimento delle materie prime provocato anche dalla protesta degli autotrasportatori. "L'azienda - dice Vincenzo Castronuovo della Fim Cisl di Taranto - ha precisato che la situazione potrebbe cambiare in caso di ripartenza degli approvvigionamenti".

“Il futuro dell’Ilva è legato a filo doppio a quello di Taranto e a quello di un intero comparto, strategico per gli interessi nazionali. Per questo qualsiasi intervento inerente lo stabilimento va ben oltre l’ambito locale, e merita di essere affrontato in maniera approfondita e valutato in tutti i suoi possibili aspetti e in tutte le sue profonde ripercussioni, al netto da contrapposizioni demagogiche e pregiudiziali, cercando di alimentare e stimolare confronto e dialogo e non uno scontro sempre più esasperato” ha affermato  Nuovo Centrodestra in Consiglio regionale, Domi Lanzilotta. “E la preoccupazione per il contesto ambientale e per la tutela dei posti di lavoro va ovviamente estesa anche al considerevole indotto: apportando quindi i dovuti correttivi al decreto che ha restituito allo Stato una necessaria centralità per evitare la svendita dell’impianto, ma al tempo stesso non chiedendo e auspicando ripensamenti e retromarce in palese contraddizione con le precedenti, dure e motivate critiche e preoccupazioni per la gestione -piena di ombre- dei privati. Il momento così critico deve indurre allora a stemperare la tensione e a una piena assunzione di responsabilità da parte delle parti chiamate in causa. Per la ricerca di un difficile equilibrio, alla luce delle numerose difficoltà e criticità emerse, ma che va trovato nelle sedi istituzionali, per non lasciare sprofondare Taranto in un nuovo incubo, dopo anni di buio e colpevole silenzio”.

Lospinuso: “Non può essere lo Stato a far fallire le imprese, si paghino subito i debiti indotto Ilva”. “Confindustria Taranto lancia un grido di allarme: il decreto per Taranto, anziché salvarla, rischia di affossare la città con una crisi occupazionale senza precedenti. Eppure, Forza Italia ha presentato emendamenti risolutori, proposti anche dal Senatore Amoruso, che rappresentano la strada maestra per garantire i crediti vantati dalle aziende dell’indotto, evitandone il fallimento”. Lo sostiene in una nota il consigliere regionale di Forza Italia, Pietro Lospinuso. “Oltre ai 3000 dipendenti delle aziende dell’indotto che rischiano il posto di lavoro – aggiunge – anche l’Ilva potrebbe mettere in cassa integrazione 5000 dipendenti. Ciò vuol dire che l’intera città di Taranto rischia il fallimento. Pensare che le aziende abbiano fornito materiali e prestazioni per l’Ilva in questi mesi, contando sull’affidabilità dello Stato che l’amministrava tramite i suoi commissari; e che oggi queste realtà economiche siano sul filo del rasoio, è veramente il colmo. Non può essere lo Stato a far fallire le imprese ed anzi, deve pagare i debiti pregressi del siderurgico: il senatore Amoruso propone una soluzione che ritengo condivisibile e concreta per la salvaguardia del sistema-impresa di Taranto. Come proposto negli emendamenti presentati, il governo potrebbe garantire i debiti al 100% presso le banche con la Cassa Depositi e Prestiti, e così gli istituti di credito presterebbero le somme necessarie. Agli imprenditori non resterebbe che pagare gli interessi alle banche per i prestiti ricevuti e per lo Stato sarebbe una manovra quasi a costo zero. In alternativa, potrebbe essere la stessa Cassa depositi a finanziare le imprese dell’indotto in forza dei crediti da riscuotere dall’Ilva. Il governo, inoltre, potrebbe prevedere, nel decreto in questione, la sospensione dei debiti delle imprese interessate verso Equitalia, come prima misura di sostegno per le realtà economiche che non vengono pagate ormai da mesi. Come pure si potrebbe immaginare un sistema di compensazione fiscale per le imprese interessate”. “Siamo aperti ad ogni altra alternativa – conclude Lospinuso – purché non sia una chiacchiera per perdere altro tempo. Taranto è una questione nazionale e adesso non c’è più tempo per scherzare”.

Come si fa a salvare l’Ilva senza la collaborazione della procura di Taranto? Si chiede Luigi Amicone  su “Tempi”. Siamo stati facili profeti quando abbiamo ricostruito le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Eppure una via di uscita che non sia il fallimento o la statalizzazione si può ancora trovare due numeri a fotografare lo spartiacque tra cos’era prima della “cura” a cui è stata sottoposta dalla procura di Taranto e cos’è oggi, dopo tre anni di inchieste, arresti, sequestri, blitz della polizia giudiziaria, la più grande acciaieria d’Europa: da una media di utili annua che sfiorava i 100 milioni, Ilva è passata a perdite secche di 1 miliardo l’anno. Siamo stati facili profeti quando ricostruimmo le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Adesso, dopo che l’azienda è stata commissariata (e naturalmente indagato anche il commissario governativo Enrico Bondi, sostituito nel giugno scorso con Piero Gnudi dal governo Renzi) la fotografia è la seguente: permanendo il sequestro giudiziario su due terzi dello stabilimento, le banche hanno staccato un assegno di 125 milioni come seconda rata di un prestito che servirà a pagare stipendi di dicembre e tredicesime agli 11 mila dipendenti. Dopo di che, buio completo. Non si sa come verranno pagati gli stipendi a partire dal prossimo gennaio. E soprattutto non si sa chi salderà i circa 400 milioni di debiti scaduti con i fornitori. Non bastasse, quale investitore straniero può essere così matto da prendersi sul gobbo un’azienda condannata a intervenire con bonifiche ambientali per 1,8 miliardi di euro (pena il mancato dissequestro degli impianti) e sul cui capo pendono richieste di risarcimento danni per 35 miliardi? Essendo un caso tragico di zelo giudiziario, il genio della giustizia italiana si è inventato di tutto. Perfino il prelievo forzoso (e l’uso per ricapitalizzare l’acciaieria commissariata dallo Stato) degli 1,2 miliardi sequestrati ai Riva (tutt’ora, almeno per il diritto nazionale e internazionale, proprietari al 90 per cento delle acciaierie) nell’ambito di un’inchiesta milanese che li accusa di truffa ai danni dello Stato. Le banche e gli otto trust a cui i Riva hanno affidato il loro “tesoretto” (oltre che un ricorso pendente in Cassazione), hanno fatto sapere che, mancando una sentenza definitiva sulla partita giudiziaria (che nulla ha a che vedere con il caso Ilva) non se ne parla nemmeno di utilizzare quei soldi. Di qui l’impasse che lascia presagire il peggio. Ad oggi sono solo chiacchiere le notizie che circolano di aziende italiane ed estere che sarebbero disposte a entrare nell’“affare” Ilva. Corre ad esempio la leggenda secondo cui il più grande gruppo europeo dell’acciaio (gli anglo-indiani di Arcelor-Mittal, alleati con Marcegaglia) avrebbe presentato un’offerta. E si racconta che anche il lombardo Arvedi sarebbe disposto a entrare nella cordata. In realtà, vere e proprie offerte per l’Ilva non ce ne sono. Per questo si è dato inizialmente spago alla voce di un intervento dello Stato che consentisse di sfruttare anche per le acciaierie tarantine la legge Marzano. Uno schema che in pratica prevederebbe il fallimento pilotato dell’Ilva e la sua cessione. Ma è difficile immaginare un percorso per cui, prima si fa fallire un’azienda per via giudiziaria. Poi la si sottrae con un commissario governativo (esproprio) ai suoi legittimi proprietari. Infine il governo la rivende al migliore offerente. Ora, sebbene alla Fiom non dispiaccia questa via (tant’è che a Repubblica Landini dice «no, assolutamente no» a un piano di salvataggio dell’Ilva che coinvolga anche gli attuali proprietari), Renzi ha capito in fretta che non può essere questa la strada di un paese che sta in Europa e che vorrebbe ricominciare ad attrarre gli investitori stranieri piuttosto che gli avvoltoi. Dunque? «Dunque stiamo a vedere», dicono a Federacciai. «Renzi è intelligente. Capisce bene che l’Ilva non può fallire e non può mettere per strada 11 mila operai, più un centinaio di imprese che lavorano nell’indotto. Se lo Stato fa la sua parte e i Riva, come hanno fatto sapere, faranno la loro, una via d’uscita si trova». E magari una via d’uscita modello Alitalia. Con un bad company che si accolla le passività e la giungla di pendenze giudiziarie. E una new company che riparte grazie a un mix di ricapitalizzazione privata (banche, Riva, Arvedi, Arcelor-Mittal-Marcegaglia) e intervento statale (Cassa depositi e prestiti, attraverso il Fondo strategico). Certo, la condizione perché si possa ipotizzare una via d’uscita al disastro, è che la procura di Taranto molli la presa sui sequestri e consenta all’azienda di tornare sul mercato producendo e vendendo acciaio e non avvisi di garanzia. A questo proposito, conversando in pubblico con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, si era da parte nostra avanzata la modesta proposta di dare al Pil italiano la possibilità di schizzare all’in su di un paio di punti grazie alla messa in mora (ad esempio con un anno sabbatico) di quei pubblici ministeri che, come ci ha detto l’ex capo procuratore di Napoli Lepore, fanno danni perché «si credono dei padreterni» . Quando funzionava a pieno regime l’Ilva valeva il 75 per cento del Pil tarantino e l’1 di quello italiano. Se invece di continuare a tenere sotto sequestro due terzi dello stabilimento la procura di Taranto si mostrasse meno intransigente, forse una via d’uscita per l’Ilva si troverebbe.

Il romanzone del caso Ilva, una catastrofe italiana. Ecco come abbiamo distrutto la più grande acciaieria d’Europa, scrive Luigi Amicone su "Tempi". Stanziamenti, tre leggi ad hoc, l’ingaggio di due governi, della Suprema Corte e della Corte Costituzionale. Niente da fare. L’Ilva chiude e riapre l’Iri. I magistrati sono scatenati, Enrico Letta è imbelle. Nei prossimi giorni il parlamento varerà una serie di provvedimenti per rilanciare la commissariata Ilva. La più grande acciaieria d’Europa. Almeno fino a due anni fa. Dopo di che, nel biennio di massimo protagonismo della Procura di Taranto, tra il 26 luglio 2012 (data del primo sequestro degli impianti) e il 20 dicembre 2013 (pronuncia della Cassazione contro il sequestro del patrimonio della famiglia Riva, maggiore azionista dell’azienda), l’Ilva ha perso un terzo della sua produzione di acciaio, ha dimezzato i ricavi e nel 2014 attuerà un massiccio piano di messa a “contratti di solidarietà” di 3.579 lavoratori. 26 luglio 2012. 20 dicembre 2013. Segnatevi queste due date. Corrispondono all’arco temporale durante il quale due magistrati, il procuratore capo Franco Sebastio e il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, impegnati a perseguire per “disastro ambientale” la proprietà e gli amministratori dell’Ilva, hanno di fatto determinato la politica ambientale e industriale di un pezzo importante del sistema Italia (prerogative che, per legge, spetterebbero al governo e alle amministrazioni pubbliche). Non solo. Questa coppia di magistrati è stata sufficiente a polverizzare ogni record in materia di conflitto tra funzione giudiziaria e gli altri poteri dello Stato. Anticipato in rapide sequenze da trailer, il film è il seguente. Dopo aver ordinato le due prime e pesantissime raffiche di arresti e di sequestri all’Ilva (26 luglio e 26 novembre 2012), prima la procura e il gip di Taranto si oppongono con ricorso alla Corte costituzionale a una legge dello Stato del 3 dicembre 2012. Poi, alla sentenza (9 aprile 2013) che dichiara “costituzionale” una legge dello Stato (la cosiddetta “salva Ilva”), la Procura attende un mese prima di predisporre il dissequestro, previsto per sentenza, di prodotti Ilva che la stessa Procura aveva impedito di commercializzare a partire dal 26 novembre 2012. Prodotti che in data 15 maggio 2013, giorno in cui il gip di Taranto firma il dissequestro, hanno perduto (per deperimento e caduta dei prezzi sul mercato dell’acciaio) oltre un terzo del loro valore di 1 miliardo di euro. Ancora. Il 25 maggio 2013, cioè dopo essere stati contraddetti dalla Corte costituzionale (sentenza del 9 aprile e deposito delle motivazioni del 10 maggio 2013), i magistrati di Taranto sequestrano altri 8,1 miliardi di patrimonio dei proprietari dell’Ilva e mantengono ferrignamente tale sequestro (col rischio di far collassare l’intera filiera aziendale dei Riva) fintanto che, sette mesi dopo, la Corte di Cassazione cancella senza rinvio tale provvedimento, dichiarandolo «abnorme» e «fuori dall’ordinamento». Infine, dopo l’incredibile braccio di ferro tra Procura e leggi dello Stato, dopo che i più gravi e importanti provvedimenti assunti dai magistrati nei confronti dell’Ilva sono stati demoliti da ben due sentenze delle massime Corti, invece che chiedere conto di quanto siano costati allo Stato (e a Taranto) l’intransigenza e gli errori della Procura, Enrico Letta riesce nell’impresa di rinunciare a esercitare le prerogative di un primo ministro e di un governo. Così, con l’alibi che nel giugno 2013 la proprietà Ilva (con tutto quello che aveva addosso) non era ancora riuscita a mettersi completamente a norma rispetto alle severe regole ambientali approvate nel decreto “salva Ilva”, il governo vara un ennesimo decreto legge che, a partire dall’agosto 2013, sancisce il “commissariamento straordinario” dell’Ilva. Azienda privata che viene in questo modo trasformata in azienda parastatale per almeno i prossimi 36 mesi. E ora, secondo le richieste del commissario Enrico Bondi, l’Ilva dovrebbe essere ricapitalizzata con i soldi (1,2 miliardi di euro) che i Riva si sono visti porre sotto “sequestro cautelativo” dalla Procura di Milano. Non per violazioni all’Ilva, ma su tutt’altra partita di una (ad oggi presunta) «maxi-evasione fiscale». E ora godiamoci il film (si fa per dire), distesamente. Il 27 novembre 2012, Stefano Saglia, vicepresidente della commissione Camera per le Attività produttive è ancora ottimista. Il giorno prima era scattata una seconda retata, dopo quella del 26 luglio con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva, emesso otto mandati di arresto cautelare per manager dell’acciaieria (compreso l’allora 87enne Emilio Riva, ex patron dell’Ilva) e nominato quattro custodi giudiziari. Dunque, il 26 novembre 2012 una seconda ondata di arresti aveva portato in carcere altre sei persone e posto sotto sequestro 1,8 milioni di tonnellate di prodotti Ilva del valore commerciale di 1 miliardo di euro. Nonostante queste notizie, per Saglia l’acciaieria di Taranto resta «una grande realtà siderurgica di cui il paese non può privarsi. L’Ilva vale lo 0,5 per cento di Pil nazionale». E poi naturalmente ci sono in ballo migliaia di posti di lavoro. Per la precisione: 11.611 impiegati nelle acciaierie di Taranto più gli addetti in società strettamente collegate all’Ilva. In totale, senza contare l’indotto del Nord, nel novembre 2012 Ilva occupa ancora 15.358 persone e il suo fatturato consolidato (oltre 6 miliardi di euro nel 2011) è in netta ripresa rispetto al biennio 2009-2010. Ed ecco una fotografia dell’azienda esattamente un anno dopo, dicembre 2013, quando il commissario straordinario Bondi scrive nella sua relazione che le vendite sono in picchiata, costi e perdite in paurosa ascesa. Colpisce il brusco calo di produzione. L’Ilva perde due milioni di tonnellate d’acciaio, un terzo della produzione, in un solo anno. Nel 2013  produce 6 milioni e 300 mila tonnellate, contro gli 8 milioni e 300 mila del 2012. Rispetto al 2011, quando a bilancio risultavano ricavi superiori a 6 miliardi di euro, in aumento del 30,4 per cento rispetto al 2010, la relazione di Bondi prevede per il 2013 ricavi quasi dimezzati, 3,65 miliardi, oltre il 40 per cento in meno rispetto al 2011, anno che precede gli interventi della Procura. Insomma, benché goda della speciale rete di protezione messa a disposizione dai governi Monti e Letta (che nell’ultimo biennio hanno approvato ben tre decreti legge ad hoc e cospicue risorse economiche per interventi emergenziali, a cominciare dai 336 milioni di euro resi disponibili fin dall’agosto 2012) l’Ilva è inchiodata. Si deve procedere alla sua ricapitalizzazione. «All’Ilva servono 3 miliardi», dichiara Bondi al vertice ministeriale del 9 gennaio scorso. E la legge sull’emergenza ambientale, la cosiddetta “Terra dei fuochi-Ilva” in corso di definitiva approvazione in Senato, dovrebbe servire a procurarli. Come? In parte utilizzando il miliardo e rotti di euro sequestrati ai Riva dal procuratore di Milano (e attualmente anche consulente di Palazzo Chigi) Francesco Greco. In parte provando a convincere banche e investitori a entrare nella partita Ilva. E veniamo al “disastro ambientale” di cui sono accusati imprenditori, manager, funzionari pubblici, che hanno gestito l’Ilva negli ultimi 15 anni. Prima, però, facciamo un bel passo indietro. Il 13 aprile 1972, in un elzeviro di pagina 3 sul Corriere della Sera, Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, descrive così la Taranto dell’Ilva-Italsider a gestione statale: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio. Mille camion al giorno scaricano a mare il materiale sbancato a monte e i velenosi residui degli altiforni: un’enorme distesa di mare è già colmata e i lavori procedono senza tregua». Cederna annota sgomento: «Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento». Il riferimento è al quartiere Tamburi, quello che nel 2013 è stato segnalato per l’alta incidenza di tumori. A distanza di oltre quarant’anni, 3 febbraio 2014, è Adriano Sofri a raccontare la visita e il ritorno da Taranto con animo «desolato». La magnifica penna di Repubblica non si lascia tentare dagli sforzi compiuti da ben due governi, dalle istituzioni locali e dalla stessa Corte costituzionale che il 9 aprile 2013 aveva richiamato la necessità di contemperare le esigenze del lavoro, della salute e del rispetto dell’ambiente, spettando al governo e alla pubblica amministrazione, non alla magistratura, dettare indirizzi e scelte in questi ambiti. Si ha l’impressione che per giustizia Sofri intenda questo: «Poi, nella notte fra l’11 e il 12 gennaio i custodi giudiziari hanno compiuto un’ispezione a sorpresa senza preavviso nell’Ilva e hanno trovato gli impianti (quelli che dovrebbero funzionare a ritmo ridotto) “tirati al massimo”. Anomale accensioni delle torce dell’acciaieria…» e via di altre illegalità. Bene. Dai primi anni Settanta, quando Cederna descriveva lo sversamento e inquinamento a cielo aperto dell’Ilva statale, pare che non sia successo niente. Poi, dai primi mesi del 2012, per la procura, i suoi periti e, a seguire, ambientalisti e dipietristi 2.0, l’Ilva diventa “il mostro di Taranto”. E i Riva – che pure hanno documentato investimenti a Taranto per 3 miliardi in tecnologia e 1,5 miliardi per l’ambiente – gli emblemi di un capitalismo selvaggio, feroce sfruttatore dei lavoratori, dell’ambiente e della salute. In effetti, sussurrano i collaboratori degli (ex) patron dell’Ilva, i Riva hanno commesso due gravi errori. Primo: sono scesi a Taranto col piglio bauscia del “sciur parun” del Nord. Secondo: il 17 febbraio 2012 non si sono presentati all’incidente probatorio dove avrebbero potuto giocarsi una sentenza del Tar di Lecce che aveva dato loro ragione in tema di emissioni di diossina. Detto ciò, sembra veramente arduo che l’accusa riesca a dimostrare in sede processuale che «in 13 anni» (13 anni? E i precedenti 50?) l’Ilva dei Riva è stata l’unica ed esclusiva responsabile di “disastro ambientale”. Tanto più che, oltre alla siderurgia, il sito industriale di Taranto comprende una grande raffineria, una grande centrale elettrica, un grande cementificio, un grande arsenale militare pieno di amianto. Non solo. A complicare le cose a quelli che vedono nei Riva il diavolo e nell’Ilva l’inferno, c’è un particolare rivelato da Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente del governo Monti che conosce ogni piega del caso e se ne è occupato personalmente fino al passaggio di testimone al suo omologo ministro Orlando del governo Letta. Dice Clini: «Il 4 agosto 2011 è stata data l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per Ilva di Taranto, dopo un’istruttoria di 5 anni, con 462 prescrizioni. 5 anni è un tempo superiore 10 volte a quanto prevede la legge. E le 462 prescrizioni erano in gran parte in contraddizione tra loro e non applicabili, perché espressione di un compromesso “politico” tra la resistenza dell’impresa ad assumere impegni in linea con le migliori tecnologie disponibili e le istanze della Regione e degli enti locali in gran parte non sostenibili sul piano della fattibilità tecnica e giuridica. Ilva ricorre al Tar contro gran parte delle prescrizioni, ritenute in contrasto tra di loro e nei confronti delle norme vigenti. Il Tar riconosce la fondatezza del ricorso di Ilva e disapplica una parte rilevante delle prescrizioni. Nello stesso tempo, con valutazioni opposte a quelle del Tar, la procura della Repubblica di Taranto rileva che l’Aia non è adeguata per risolvere le molte problematiche ambientali e per la salute causate dallo stabilimento Ilva». Giusi Fasano, giornalista del Corriere della Sera, è a Taranto nei giorni dei sequestri e arresti che mettono a rischio quasi 12 mila posti di lavoro. Il 17 agosto 2012 l’inviato del Corriere segue il vertice che si svolge in città tra le istituzioni e le parti coinvolte nella crisi delle acciaierie. Il governo Monti è presente con due carichi da novanta, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini e il ministro per lo Sviluppo economico e le infrastrutture Corrado Passera. Manca qualcuno? Sì. Manca il procuratore capo Franco Sebastio che pure è l’artefice, diciamo così, di tutto il can can. Giusi Fasano ha il suo cellulare, chiama, lasciamoli chiacchierare. «Sebastio risponde da Soverato, Calabria, “dove vengo in vacanza da 35 anni”, dice. Ma come? È a tre ore di distanza, arrivano i ministri a Taranto perché una sua inchiesta ha fatto dell’Ilva un caso nazionale e lei non torna nemmeno per una stretta di mano? “L’ho detto anche a loro in una telefonata, cordialissima: vedrete che non mancherà l’occasione”. Più che una promessa sembra una minaccia. “Non mancherà occasione nel senso che c’è sempre tempo per farlo. Presentarmi nell’incontro di venerdì non mi è sembrato opportuno. Lì c’era spazio per politici, amministratori, sindacalisti… che c’entrava un magistrato?”». Ecco, bisogna aggiungere altro? Sì, bisogna aggiungere che alla fine del 2012 il procuratore Sebastio metterà in un libro-intervista le sue riflessioni. «Quando arriva a Taranto con la toga sulle spalle? “Vengo trasferito nella mia città sempre da pretore nel ’76”. Che situazione trova? “Una situazione non certo facile. L’emergenza ambientale c’era tutta, ma non era agevole rendersene conto e, soprattutto, documentarla”. Ostacoli? “Diciamo che non mancavano ostacoli oggettivi”. In che senso? “Beh, in generale l’inquinamento ambientale non sempre provoca danni immediati. In alcuni casi, come per l’amianto, occorre aspettare anche decenni per rilevare le conseguenze sulla salute delle persone. E poi non c’era una sensibilità diffusa sulla qualità del lavoro e la tutela dell’ambiente. Naturalmente, anche la Giustizia soffriva della stessa miopia”». (Il mio Salento, la mia Puglia, dicembre 2012, edizione Affari Italiani). Dunque, alla fine del 2012 apprendiamo dal pm accusatore degli ultimi quindici anni di Ilva che dei 40 anni precedenti in cui lo stesso pm era a Taranto c’è ben poco da ricordare. Eppure, già all’inizio degli anni Settanta Antonio Cederna scriveva quel che scriveva sulla Iri-Italsider-Ilva di Stato. Ma certo, sono anni in cui «ostacoli oggettivi» non consentivano interventi come quelli odierni. E dal 1982 al 2012? Sempre in prima linea. Però «diciamo che la società civile non era consapevole del problema». La società civile? Ascoltiamo in proposito l’ex ministro Corrado Clini. «Nel marzo 2012, per superare le contraddizioni ed uscire dalla situazione di stallo che si era venuta a creare, sulla base di gran parte delle valutazioni della procura della Repubblica di Taranto ho disposto la revisione dell’Aia. Contestualmente al riesame dell’Aia, ho avviato una ricognizione sullo stato dell’ambiente nel territorio di Taranto. È stato messo in evidenza che molte iniziative strategiche per il risanamento ambientale di Taranto, programmate e finanziate a partire dalla fine degli anni ’90, non erano state avviate o completate. E straordinariamente, nessuno aveva avuto nulla da ridire. In particolare. Primo, il piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto, finanziato nel 1998 con 50 milioni euro, era stato in gran parte disatteso. Secondo, le risorse destinate al risanamento ambientale del Mar Piccolo nel 2005 (26 milioni euro) erano state successivamente destinate ad altri interventi nella regione Puglia. Terzo, le risorse stanziate per il risanamento del quartiere Tamburi di Taranto (49,4 milioni di euro) il 3 luglio 2007 erano state successivamente destinate ad altri progetti». E adesso occhio alle date. Clini spiega: «Il 26 ottobre 2012, dopo una procedura di sei mesi ho rilasciato la nuova Aia, con la prescrizione dell’adeguamento degli impianti agli standard europei più severi e avanzati e che impone  investimenti per 3 miliardi di euro». È un’Aia draconiana. Impone all’Ilva standard che in Europa si devono adottare entro il 2016 (mentre i tedeschi hanno ottenuto un posticipo al 2018). L’Ilva deve adottarli entro il 2014. I primi due interventi prevedono la copertura di 65 ettari – l’equivalente di circa settanta campi di calcio di serie A – di parchi minerali. Il secondo, l’intubamento di novanta chilometri di nastri trasportatori. «Il 15 novembre 2012 – spiega Clini – Ilva accetta  le prescrizioni e presenta il piano degli interventi per dare attuazione alla nuova Aia. Nello stesso tempo Ilva ritira tutti i contenziosi aperti nel 2011 e 2012 dall’azienda contro l’Amministrazione. Insomma, Ilva aveva finalmente deciso di allinearsi alle direttive europee, voltando pagina». Con la retata del 26 novembre, naturalmente tutto cambia. Si era creata una via d’uscita rispettosa di tutte le esigenze (salute, lavoro, ambiente) al dramma di Taranto. Ma “la legge è legge”. Stessa storia accade il 24 maggio 2013, dopo la sentenza del 9 aprile con cui la Corte Costituzionale aveva sbloccato i sequestri e confermato la legittimità del “salva Ilva” di Monti. Il gip di Taranto passa a sequestrare l’intero patrimonio dei Riva. È la mazzata finale. Vero che alla procura di Taranto non basterà il bel servizio di Report del 18 novembre scorso, completamente allineato con le tesi della Procura degli 8,1 miliardi sequestrati perché questa, dicono i periti del gip, «è la cifra da noi stimata delle risorse sottratte dai Riva al risanamento ambientale Ilva». Vero che, 7 mesi dopo il teorema della procura e dell’affetto sostenitore di Report, arriverà la sentenza della Cassazione che disintegra l’ordinanza del gip di Taranto e ordina la restituzione degli 8,1 miliardi di patrimonio sequestrati ai Riva. Ma ormai il danno è fatto, l’Ilva è a pezzi, l’aria che tira a Taranto è di scontro permanente, insormontabile. E il governo Letta che fa? Invece di affrontare di petto l’incredibile anomalia di una procura che ha sbagliato pesantemente e che è stata due volte sonoramente stroncata nei suoi atti dagli stessi vertici del potere togato (Corte costituzionale e Suprema corte), ecco, invece di affrontare due magistrati, il governo batte in ritirata e si inventa una legge di “commissariamento straordinario”. Il resto è storia di questi giorni. Le acciaierie di Taranto sono tornate sotto amministrazione parastatale. E forse, chissà, invece che Ilva domani si chiameranno Iri.

La saggezza di un Capo magistrato: «I pm non sono padreterni. Devono servire il cittadino», scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Giovandomenico Lepore, l’ex numero uno della procura di Napoli, la più grande d’Italia, si confessa a Tempi. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, poco garantismo o troppo garantismo. Per una volta non parliamo dei problemi della giustizia. Per una volta parliamo di un magistrato “vecchio stampo”. Che poi significa semplicemente funzionario dello Stato, piuttosto che vincitore di concorso che si dà arie di primo ballerino alla Scala. Bene, coadiuvato dal giornalista Nico Pirozzi, l’ex capo procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore (foto a fianco) ha scritto un libro apolide rispetto alle correnti dell’Anm e controcorrente sul mestiere più delicato e terribile. Un libro di bilanci e di vicende giudiziarie narrate con precisione, gustosi aneddoti e statistiche. Un libro che per il fatto stesso di suggerire saggezza e ironia fin dal titolo pirandelliano – Chiamatela pure giustizia (se vi pare), Edizioni Cento Autori –, il rifiuto di sedurre il lettore con la sgamata tecnica dell’“indignazione”, rappresenta un buon viatico all’azione, non giudiziaria ma educativa e culturale, di contrasto alla proliferazione di cervelli all’ammasso che da un ventennio hanno messo in capo alla magistratura il vasto programma di creazione di un Mondo Nuovo. Giovandomenico Lepore, 78 anni, sposato, napoletano, uomo del buon umore e della lingua del popolo, cinquant’anni di vita trascorsi in magistratura. Dopo essere stato pretore, pm, aggiunto, sostituto, presidente della procura generale, ha diretto per sette anni (2004-2011) la procura di Napoli, la più grande e tormentata d’Italia. Il Csm lo scelse all’unanimità come capo degli uffici requirenti (per una volta trovando l’accordo il correntismo politico di destra e di sinistra), «perché alla procura generale stavo troppo tranquillo e sereno». Mentre occorreva che qualcuno di forte e autorevole mettesse fine allo scontro che, un po’ come succede oggi a Milano, spaccava la procura partenopea all’epoca della gestione di Agostino Cordova. Fu così che Lepore venne incardinato al vertice e in breve riportò ordine (e perfino una certa armonia) tra i centosedici pubblici ministeri della città delle emergenze per antonomasia. «Non ho fatto niente di particolare se non tenere la porta aperta, ascoltare, dialogare, assumere le mie responsabilità, decidere. E all’occorrenza anche correggere certe storture». È stato il regista di alcune delle inchieste più rumorose della Seconda Repubblica (le cosiddette Calciopoli, P4, escort a Palazzo Grazioli, emergenza rifiuti, bonifiche fantasma, mega truffe sulle invalidità civili, appalti al Comune) e ha stroncato il clan dei Casalesi. Cioè quel pezzo di potente camorra con a capo Michele Zagaria «che le forze dell’ordine mi arrestarono proprio qualche giorno prima di andare in pensione, fu per me un regalo quasi più bello della buonuscita». Tempi ha incontrato Lepore a Milano, tra una conferenza e l’altra organizzate nell’ambito dei corsi (obbligatori, legge del governo Monti) di aggiornamento professionale per i giornalisti. Conversazione all’Ata Hotel e aperitivo al bar dei cinesi.

Nei confronti dei magistrati di Prima Repubblica emerge talvolta, da parte dei colleghi della Seconda, l’accusa più o meno velata di “collusione col potere”. Certa attuale magistratura è così consapevole del potere e della centralità che ha assunto in un ventennio di scandali, che a quei pochi che eventualmente contestano loro certi metodi (tipo l’uso disinvolto della carcerazione preventiva), essi rispondono che «la legge è la legge». Il che sarebbe un’ovvietà se, di fatto, non fosse uno scaricare la coscienza personale dall’orizzonte del proprio operare. Che ne pensa?

«Penso che la legge vada sempre interpretata con buon senso e equilibrio. Lo lasci dire a uno che è stato per cinquant’anni al penale, tranne nei due anni che ho fatto il pretore a Genova, quando il pretore era un magistrato magnifico, stava nei piccoli centri ma era a contatto con la gente e, se era di buon senso, risolveva i problemi veramente secondo giustizia. Queste sono anche le finalità per cui ho scritto il libro. Proprio per dare indicazioni ai colleghi giovani. Infatti, durante i miei sette anni da capo procuratore a Napoli, mi sono accorto che arrivano in Procura giovani magistrati – magari hanno appena vinto il concorso – e ognuno di loro che va a ricoprire l’ufficio di pubblico ministero si crede un Padreterno, si crede al di sopra delle parti, e non si rende conto che invece è solo un servitore del cittadino. Perciò quando sento dire: “Ma io sono un magistrato!”, con quel tono sopracciglioso di chissà chi, a me scappa da ridere. Un magistrato? Beh, io non lo so fare, ma bisognerebbe fargli un bel pernacchio. Ma è così, sono duecento anni che in Italia la giustizia non funziona, rassegniamoci, non funzionerà per altri duecento…»

Eppure c’è una parte di magistratura che è convinta di avere una missione salvifica nella società…

«Guardi, io capisco che con la velocità dei nuovi mezzi di comunicazione e qualche ansia di protagonismo – la televisione, i titoli sui giornali, la gente che vuole “giustizia” – ci si esponga e si creda di rendere un buon servigio alla società. Il magistrato risponde alla legge. È vero. Ma risponde tanto meglio quanto più serve lo spirito e le finalità della legge: servire lo Stato e prima ancora i cittadini. Dunque, per essere dei buoni magistrati non occorre protagonismo per poi magari un giorno, sull’onda della notorietà, procacciarsi un posticino in politica. È anche a questo riguardo che la riforma del 2006 diede funzioni ordinatrice e coordinatrice al capo dell’ufficio. I pubblici ministeri non possono pretendere di godere della stessa indipendenza e autonomia del giudice. Sono parti e quindi devono in qualche modo rispondere al capo ufficio. Capisco le resistenze, ciascuno ha la propria testa ed è giusto che la utilizzi. Però il capo ha la responsabilità degli uffici e io non mi sono mai tirato indietro dal ricordarlo ai miei colleghi. Quando stralciai l’inchiesta su Bertolaso e due prefetti perché ritenevo che non vi fossero elementi che giustificassero provvedimenti restrittivi, l’ho fatto e non me ne sarei pentito, anche se poi li avessero condannati. Grazie a Dio ho avuto ragione, perché tutte e tre le posizioni vennero poi assolte. Per questo è di fondamentale importanza la valutazione attenta dei candidati prima di nominare i capi degli uffici requirenti. È il vertice dell’ufficio che dà l’impronta, in un verso o nell’altro, negativamente o positivamente, all’azione della procura».

Lei ci sta dicendo che la magistratura è l’ultimo posto in Italia dove si fa politica?

«Purtroppo non abbiamo ancora trovato un sistema che prescinda dalle correnti. Però, secondo la mia modesta opinione, il Csm dovrebbe essere composto solo da togati. Che ci stanno a fare i cosiddetti “membri laici”, spesso reduci o trombati della politica?»

Non mi riferivo ai politici in Csm, mi riferivo proprio al fatto che gli incarichi, così come i capi delle procure, vengono decisi nei negoziati tra le correnti dell’Anm e con criteri lottizzatori molto simili al tanto vituperato Cencelli della politica di Prima Repubblica. O sbaglio?

«Per me il problema è solo la eventuale malafede. Le correnti sono una realtà e non ci possiamo fare niente. E poi è normale che un magistrato abbia le sue idee politiche. L’importante è che non agisca in malafede. Vede, l’ho detto anche in conferenza qui a Milano. In un certo senso anche il delinquente ha una sua buona fede. E se tu magistrato sei corretto, stai tranquillo che le disgrazie non succedono. Ma se tu sei scorretto, ricorri ai trabocchetti, sei in malafede, è chiaro che raccogli quello che hai seminato. E poi non è vero che le nomine sono sempre lottizzate. Pensi al mio caso, ma ce ne sono anche molti altri. Ripeto, secondo me non sono le idee politiche, di destra o di sinistra che siano, a ostacolare la giustizia. L’ostacolo è il magistrato che si fa trascinare dalla sua ideologia e insiste, in malafede, a farsi trascinare».

L’ex procuratore di Bari Michele Emiliano ha lasciato la procura nel 2003, è stato eletto sindaco e poi segretario regionale Pd. Adesso dice che  ritorna a fare il magistrato. Le pare possibile?

«Beh, sì, se la legge lo consente… Però, no. Dal mio punto di vista se un magistrato va in politica deve lasciare la magistratura. Come fa il cittadino ad avere fiducia? Quale garanzia di imparzialità può dare ai cittadini?»

Condivide lo zelo con cui certe procure “attenzionano” i pochi grandi asset che sono rimasti in Italia? Pensi al caso delle presunte tangenti che l’accusa era certa fossero state pagate da Finmeccanica per piazzare elicotteri italiani in India. È finito in nulla ma l’Italia ci ha perso un mercato da 75 miliardi di dollari e commesse da due-tre miliardi di euro. Non le sembra distruzione del sistema-paese, per di più in un contesto di recessione e disoccupazione di massa?

«Capisco. Una cosa sono le tangenti che rientrano in Italia come provviste al manager o al politico che ha procacciato l’affare. Un’altra è quando sui mercati dell’Est, o dell’estremo oriente, per non parlare dell’Africa, l’azienda italiana deve passare, diciamo così, dalle forche caudine di sistemi corrotti in loco. Non è certo bello a vedersi. Ma questo è il mondo. Che senso ha metter tanto zelo e indagare i rapporti tra aziende e soggetti esteri? Ripeto, mi riferisco al contesto ambientale di certi mercati, non alle eventuali bustarelle che rientrano in Italia al manager o al politico per un affare che, poniamo, l’azienda italiana ha fatto in Africa e che vanno senz’altro perseguite. Sto parlando di come il mondo funziona realisticamente in certe aree geografiche. Lei ha fatto il caso di Finmeccanica. Lì non c’è stata nessuna tangente dice il dispositivo assolutorio. Ma anche se ci fossero state provviste da parte di soggetti esteri per ottenere all’azienda italiana la possibilità di entrare in un mercato – d’accordo, non sarebbe un bel vedere e infatti non si deve proprio vedere – non capirei lo zelo investigativo. Mettetevi al posto del soggetto straniero, come pensate che prenda la nostra attività? “Sapete che c’è? La commessa che dovevo dare a voi italiani la giro al belga piuttosto che all’inglese”. Questo è il punto. Il buon magistrato deve sempre ricordare che la legge lo pone al servizio del cittadino non astrattamente, ma realisticamente e prudentemente, considerando tutti i fattori di contesto in cui è chiamato a operare. Altrimenti io cittadino posso anche pensare che qualche interesse indicibile ce l’hai pure tu. E magari non è di questo paese».

De Magistris ha fatto cadere Prodi…

«Veramente quello lo ha fatto cadere un collega che sta dalle parti di Santa Maria Capua a Vetere, se si riferisce al caso Mastella».

Al di là del caso Mastella, Luigi De Magistris, questo singolare personaggio che condannato in prima istanza e obbligato a dimettersi da sindaco di Napoli – così come tutti i politici (in primis Berlusconi) sono stati obbligati a dimettersi in ottemperanza alla legge Severino – è il solo caso di politico che ottiene una sospensiva (dal Tar della Campania) e torna sindaco. E quanti danni ha fatto, da magistrato, con i suoi flop?

«Conoscevo suo padre, era un magistrato straordinario, eccezionale, equilibrato, direi impeccabile. Adesso questo figlio, che è pure intelligente e, devo dire, assolutamente onesto, pecca un pochino di impulsività. Quanto alle sue inchieste finite in flop devo dire che il problema non è suo. Ha fatto indagini, si è appassionato al suo quadro probatorio. Insomma, ha fatto il mestiere del pubblico ministero. È vero, ha sbagliato a farsi trascinare in televisione e a farsi rappresentare come una Giovanna D’Arco che sta sulle barricate. Però, chi lo poteva o doveva fermare – se c’erano le ragioni per fermarlo – era il capo ufficio. Allora, o il capo è stato un pusillanime e non ha avuto il coraggio di fermare cose sbagliate. Oppure il capo ha condiviso l’inchiesta e un certo modo di procedere. Terzo non è dato».

Arresti cautelari. Non c’è un sistema giudiziario in Europa che come il nostro vi ricorra così disinvoltamente. Con la conseguenza che le carceri italiane sono piene di persone ancora in attesa di giudizio. Non è tortura questa?

«Guardi che sono tre le motivazioni per giustificare provvedimenti cautelari restrittivi. Tu devi provare che c’è rischio di inquinamento delle prove, di fuga e di reiterazione del reato. Il problema è che la pressione dei media e della cosiddetta “opinione pubblica” non aiutano. Vai a spiegare, poniamo nel caso di un omicidio per gelosia, con reo confesso e magari pure pentito, che ci sono tutti i presupposti per concedere la libertà provvisoria. Vai a spiegare che se non c’è pericolo di fuga e naturalmente non c’è pericolo di inquinamento delle prove essendo il reo confesso, il rischio di reiterazione è nullo, ovviamente, per la particolare fattispecie di reato (quello ha ucciso la moglie per gelosia, non è che adesso c’è il rischio che ammazzi il primo che passa). Se li immagina i titoli dei giornali? Ci vuole più coraggio a fare le cose bene che a farle strizzando l’occhio alla vox populi, o meglio, alla vox media».

Ma lei, quando i suoi sostituti chiesero l’arresto di Bertolaso e dei due prefetti, si mise di traverso.

«E perché avrei dovuto rovinare la vita a tre persone quando il quadro probatorio non mi sembrava giustificare gli arresti? Poi, come le ho detto, mi andò bene, furono tutti e tre assolti. Ma anche se fossero stati condannati io ero il capo e dovevo assumermi le mie responsabilità. Dopo di che, non vorrei sembrare un’anima bella: se ci sono elementi per giustificare un provvedimento di restrizione della libertà si deve provvedere. Bisogna anche capire, però, che un arresto cautelare non è una prova di colpevolezza, perché poi la prova si forma in dibattimento. È chiaro che, purtroppo, proprio per le ragioni del giornalismo alla velocità della luce poi succede che chi finisce agli arresti cautelari viene marchiato a vita, perde la reputazione, l’onore, il lavoro, a prescindere. Per questo bisogna ponderare con prudenza ed equilibrio ogni provvedimento di questo genere. Purtroppo l’opinione pubblica è stata abituata ad avere la certezza di colpevolezza già dall’avviso di garanzia. E questo non va bene».

Cosa pensa dello scontro in atto alla Procura di Milano tra il capo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo?

«Il dissidio è forte. Ci penserà il Csm. Mi spiace soltanto che queste cose finiscano sui giornali. La gente cosa capisce della magistratura? E soprattutto, a che serve alla gente sapere che questo e quello stanno litigando? È tutto gossip che fa solo male alla giustizia».

Come disse una volta Luciano Violante, bisognerebbe separare le carriere dei magistrati da quelle dei giornalisti?

«Sì, bisognerebbe tagliare il cordone. Anche se io ho sempre avuto rapporti splendidi con i giornalisti. Se dicevo a uno di loro: “Guarda questa cosa che ti hanno spifferato è vera, ma non la scrivere sennò mi comprometti le indagini”, beh questi mi obbediva e non usciva niente. Poi è capitato qualcuno con l’ansia dello scoop che ha creduto di farmi fesso. Peggio per lui, l’ho messo nel libro nero e non s’è visto più. Così la pubblicazione delle intercettazioni, a mio parere non va bene. Però capisco la pressione che avete addosso voi giornalisti… Comunque è sempre una questione di persone. Con me non è potuto mai succedere. Chiaro che poi non è che puoi controllare tutti gli uffici. Come si vide con l’inchiesta Calciopoli, dove molti verbali vennero rubati e pubblicati in un vero e proprio volumetto e questo ci rovinò l’indagine».

Però, se il Csm funzionasse bene, sarebbe già una mezza riforma della giustizia, non crede?

«Credo che il Csm dovrebbe essere composto solo da magistrati. Che c’entra il cosiddetto “laico”? Il Csm svolge una funzione importantissima. Come le dicevo, l’ufficio del capo procuratore è decisivo per l’organizzazione e il coordinamento dell’attività requirente. Per questo il problema è come scegli e chi scegli ai vertici delle procure…»

Da quale corrente è stato portato all’ufficio di capo a Napoli?

«Da nessuna. Ho avuto la fortuna o la sfortuna, veda un po’ lei, di essere prescelto all’unanimità. Me ne stavo tranquillo e sereno in procura generale quando mi hanno chiesto di mettermi a disposizione per sanare un pesante conflitto che spaccava in due la procura. Non voglio parlare della situazione che trovai negli uffici, dico soltanto che grazie a un paziente lavoro di ascolto e di mediazione siamo riusciti a ricompattare la più grande procura d’Italia, con 116 procuratori. Le assicuro, non è stato uno scherzo».

Beh, i risultati insegnano…

«Ripeto, quando si devono scegliere i capi degli uffici requirenti bisogna ponderare bene le scelte. Fortunatamente io sono stato scelto sopra, sotto e oltre ogni corrente. E mi scusi se cambio argomento pensando alle correnti politiche in generale: che spettacolo è questo che non si riesce a eleggere due membri della Corte costituzionale perché, così si dice, la Corte ormai è un organismo politico? E allora aboliamola questa Corte invece di assistere a questo spettacolo indecoroso!»

In effetti Svizzera e Gran Bretagna, tanto per citare i primi due paesi che vengono in mente, non hanno la Corte costituzionale e non pare siano paesi incivili…

«Ma l’Italia ne ha bisogno, abbiamo una Costituzione che la prescrive, va interpretata, la Corte è indispensabile per dirimere i conflitti istituzionali».

Cosa pensa del moltiplicarsi delle leggi anti-corruzione, anti-riciclaggio, anti-autoriciclaggio e via discorrendo? Ormai si pensa che le leggi siano la bacchetta magica per risolvere tutto e non si risolve niente, anzi.

«È vero che il costume italiano è peggiore di altri. Però è anche vero che la corruzione c’è sempre stata. Che fai, fermi lo sviluppo perché prima dev’essere tutto pulito e moralizzato? Che fai, blocchi i cantieri perché c’è sempre qualcuno in “odore di mafia”? E poi che significa “in odore di mafia”? Che se c’è un tale, un operaio o un impiegato di una certa impresa che è legato a qualche cosca o ha la fedina penale macchiata, fermi tutto in nome della normativa antimafia? Adesso vedo che a Milano è arrivato Raffaele Cantone, un bravissimo collega, per vigilare sull’Expo. Ma che vuol dire “super magistrato”, “super procuratore”? E poi, in concreto, che vuole dire “vigilare”, che può fare? Non mi sembra che sia la via giusta quella di moltiplicare le authority e gli istituti cosiddetti “anticorruzione”. Cantone è bravissimo, per carità. Ma che può fare in concreto? Rischia di aggiungere carte a carte, burocrazia a burocrazia.  Vede, si moltiplicano gli organismi e le autorità, ma ancora non si fa abbastanza per far comprendere che il problema della corruzione è di cultura e di educazione. È qui che devi intervenire. Non puoi ridurre la giustizia a feticcio e aspettarti dalla magistratura la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi. Il mestiere del magistrato non è quello di salvare il mondo. È quello di fare rispettare le leggi nell’interesse della giustizia, dello Stato e, prima di tutto, dei cittadini».

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

Equitalia, strozzini di Stato: per 2.100 euro ne vogliono 3 mila, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest'ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,66 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?». Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n.28 rate mensili». Rateizzare - Il piano di ammortamento - scrivono - è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi di mora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano. Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta. Tassi di interesse - Il primo gennaio 2014 scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: gli uffici giudiziari applicano il 4,5%. L'ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell'1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l'ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

Le Prove. La Prova scritta.

La prova scritta è in genere un tema o una griglia di test a risposta sintetica o una prova pratica. Solitamente è svolta in 1 o più giornate differenti su materie differenti, e può essere indifferentemente un giorno un tema ed il successivo una prova pratica, o una prova a risposta sintetica ed un tema ecc. ecc. Come nella prova preselettiva al candidato vengono consegnate due buste, una con il materiale d’esame e l’altra con il cartoncino su cui indicare il proprio nome, cognome e data di nascita. Lo scritto va fatto – brutta e bella – utilizzando esclusivamente i fogli messi a disposizione, che poi il candidato inserirà nella busta grande insieme alla busta piccola (chiusa) contenente il cartoncino con le generalità. Il bando dà indicazioni sui testi che è possibile portare con sé – normalmente il dizionario di italiano ed i codici senza commenti se la prova è di tipo giuridico. Attenzione, all’ingresso i testi possono venire aperti per un controllo e, se non rispondono per qualche ragione a quanto previsto, non vengono fatti entrare. Eliminate perciò fogli di appunti, temi, schemi ecc…Evitate per quanto possibile di portare fotocopie, che possono subire la stessa sorte. Se sono proprio necessarie, portatele ben rilegate. Tenete conto che le operazioni di controllo all’ingresso possono durare a lungo, specialmente nei concorsi con grande affluenza. E’ quindi molto frequente che dall’orario di convocazione – in genere le 9 del mattino – all’ora in cui ha effettivamente inizio la prova, possono passare 2,3,4 ore. Se aggiungete a queste le ore di durata effettiva della prova, capite quanto può essere importante avere con sé qualcosa da mangiare e da bere. Solitamente non è possibile alzarsi per le prime due ore.

Domande a risposta sintetica. Si tratta di un numero limitato di domande (di solito non più di sei) che hanno, oltre alla classica opzione della risposta multipla, anche alcune righe per la risposta sintetica. E’ un tipo di prova molto comune soprattutto sulle materie giuridiche ed è un tipo di scritto abbastanza ostico. Scrivere di diritto non è facile, essere sintetici ancora meno. Il testo scritto deve essere breve (tra le dieci e le venti righe), coinciso e il più possibile chiaro. Non deve semplicemente ripetere con altri termini la risposta già scelta tra le riposte fornite dal test, ma deve aggiungere qualcosa: la motivazione della risposta già data, il contesto, casi specifici ed eccezioni, ecc. Nell’allenarsi alla prova a risposte sintetiche, è sconsigliabile tentare di imparare quelle contenute nei testi di preparazione: quasi sempre niente ritorna alla memoria al momento opportuno, mentre è utilissimo allenarsi a scrivere testi brevi, utilizzando qualunque tipo di domanda a risposta multipla.

Prova pratica. E’ una prova pratica quella ispirata alla verifica delle reali capacità operative del candidato nel ruolo specifico che gli verrà affidato. Essendo diversa da mansione a mansione è quindi qui impossibile estrapolare degli esempi (la sua applicazione va dalla multa al caso clinico). Di solito quando un concorso prevede una prova di questo tipo, le editrici specializzate inseriscono uno schema all’interno dei testi di preparazione. Il suggerimento anche qui è di utilizzare il buon senso: la prova serve a verificare quanto il candidato riesca effettivamente ad utilizzare nella pratica le nozioni che ha acquisito, quindi va benissimo imparare schemi (moduli, procedure ecc), ma questi vanno utilizzati tenendo in debito conto del quesito proposto (che come sempre va letto molto attentamente) ed anche della nozioni teoriche sottese (implicate).

Tema. Il tema è una composizione scritta abbastanza lunga ed articolata – circa 3/5 facciate di foglio protocollo - ampiamente utilizzata nelle prove di concorso. Nei concorsi per diplomati, è più spesso di cultura generale, storia, italiano; si tratta quindi di uno scritto del tipo di quelli che si fanno alle scuole superiori. In questo caso quello che conta è che l’elaborato sia in italiano corretto e che sia chiaro e non contenga informazioni errate. Se invece il tema è di argomento giuridico la faccenda cambia. Il tema di diritto mette in difficoltà un po’ tutti, chi è laureato in materie giuridiche infatti è raramente abituato a scrivere, chi ha fatto altri percorsi di studio teme di non saper utilizzare adeguatamente il linguaggio giuridico. In tutti i casi, non c’è da perdersi d’animo: ci si riabitua a scrivere semplicemente allenandosi. Certo, specialmente chi non ha un background giuridico fa bene a seguire dei corsi, per affinare la terminologia in modo da non incorrere in errori concettuali gravi. Se chiarezza e completezza sono le carte vincenti, non vanno dimenticate la calligrafia – che deve essere il più possibile leggibile, e la lunghezza totale, che non deve essere eccessiva.

Diario di un commissario del concorso per magistrato: i trucchi per copiare, dal bagno alla nursery, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24ore”. Nelle ore immediatamente successive alla prova scritta per un posto da magistrato, uno dei 29 commissari, ha voluto riassumere in quattro paginette di appunti la sua esperienza al padiglione fieristico di Rho-Pero e aggiungere alcuni suggerimenti per rendere meno macchinosa, più corretta e trasparente la selezione dei togati. Ecco alcuni passi degli appunti del commissario, una probabile traccia per l'audizione davanti alla IX commissione del Csm. Durante i tre giorni delle prove scritte, a seguito di violazioni delle regole concorsuali, la commissione ha deciso diverse espulsioni, pare 70, anche se non conosco il numero esatto. Io stesso ho espulso un buon numero di candidati in poche ore. La maggior parte delle irregolarità consisteva nella detenzione di testi non consentiti. Ho sentito dire da più parti che con ogni evidenza il controllo dei codici non ha funzionato. Ma è proprio così? Per non drammatizzare inutilmente, basterebbe un semplice conteggio: ogni concorrente si presenta alla prova scritta con almeno 5 "pezzi" tra codici, raccolte di leggi, stampe da Internet ecc. Moltiplicando questa cifra (ottimistica) per 5.600 partecipanti, risulta che noi commissari abbiamo controllato non meno di 28mila testi. Se solo 2 su 1.000 sono sfuggiti al controllo – frazione senz'altro fisiologica se non virtuosa – possiamo concludere che una sessantina di casi sono apparentemente tanti, ma sono invece relativamente pochi. Esistono molte edizioni dei codici, quasi tutte volutamente ai limiti dell'ammissibilità e spesso con tanto di scritta in copertina che rassicura l'acquirente sul fatto che potrà usarlo durante la prova scritta. Ed è così: l'irregolarità non è per niente scontata e dipende dall'interpretazione della norma che esclude i testi con "note, commenti, annotazioni anche a mano". E allora perché tante edizioni border line? Alcuni di questi tomi sfruttano l'indice analitico che arriva così a occupare centinaia di pagine ed è talmente strutturato da poter fungere da tracce di elaborati; altri volumi recano abbondanza di richiami che non possono essere vietati perché riportati da tutte le edizioni, "Gazzetta Ufficiale" compresa. I candidati sono suddivisi per lettera in tante file e consegnano i testi ad altrettanti desk con un commissario che decide i casi dubbi. È ovvio che per evitare disparità di giudizi che finiscano in difformità sui criteri di sequestro, la soglia di ammissibilità è tenuta bassa. Anche perché, spesso si tratta di codici costosi, non pacificamente inammissibili, magari curati da colleghi magistrati, spesso recanti scritte rassicuranti e persino timbri di concorsi precedenti. Soprattutto, sequestrare i codici a Rho-Pero in prossimità della prova, significa di fatto lasciare il candidato senza testi da consultare perché, data la distanza dalla città, non è possibile andare in una libreria a Milano e tornare in tempo per l'esame. Oltre alle edizioni border line, è sempre più frequente che i candidati si presentino con pacchi di stampe dal computer: formati ammissibili, ma di difficile controllo. Ci sono poi i testi annotati a mano, non vietati automaticamente ma da valutare nel loro contenuto. Ci sono candidati disposti, per evitare il sequestro, a strappare o sigillare le parti vietate e rendere così utilizzabile un codice (sulla cui copertina resterà comunque scritto "commentato", cioè di fatto vietato). E va considerato che la legge di fatto incoraggia i tentativi di introdurre materiale illegale perché in sede di controllo pre-esame consente solo l'esclusione del testo e non anche del candidato: insomma, abbiamo dovuto vedere in aula candidati che il giorno prima avevano cercato di introdurre un vocabolario di italiano farcito con temi di diritto. È stato escluso il tomo, ma non il suo detentore. A parte i difficoltosi controlli dei giorni precedenti, anche il giorno della prova il materiale irregolare entra facilmente: la polizia penitenziaria esegue una perquisizione "leggera" all'ingresso, ma le piccole fotocopie nascoste sotto gli abiti ovviamente passano. I servizi igienici sono usati sia per scambiarsi parole veloci durante le code per entrare, sia per passare il materiale da una inaccessibile fodera a una comoda tasca. Da qui il divieto di andare al bagno prima di una certa ora, cui vengono opposte continue affermazioni di gravi problemi fisici, difficili da contestare in assenza di un commissario-medico. Ecco il motivo delle numerose deroghe al divieto, pur accompagnate da precauzioni aggiuntive come le perquisizioni prima e dopo, a meno che il candidato non accetti di lasciare la porta del bagno aperta, vigilato da un agente dello stesso sesso. Altro luogo "tentatore" è la nursery cui hanno diritto le candidate con infante da allattare. Ovviamente il bimbo è accudito da un parente, magari adatto a consultazioni o che si presta a "importare" materiale proibito.

Questo succede durante le prove scritte. Nessuno sa quello che succede dopo. La verità si scopre attraverso i ricorsi al Tar.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

Medicina, storia del concorso delle polemiche. "Test copiati, quiz rimossi e compiti modificati". L'esame per l'accesso alle scuole di specializzazione dello scorso novembre 2014 doveva eliminare il problema dei baronati. Ma dopo le polemiche sulle domande sbagliate, l'Espresso ha visionato il ricorso presentato dai candidati al Tar. E dentro viene denunciato davvero di tutto, scrive Martino Villosio su “L’Espresso”. Doveva essere il concorso del merito, della trasparenza, dei parametri standard di valutazione, immune finalmente da localismi e al riparo dalle grinfie dei baroni. Tutti i candidati, dal Friuli alla Sicilia, davanti a un pc, niente carta e penna, un salvataggio a fine prova, un meccanismo di correzione costruito per essere impermeabile a qualunque ipotetico sospetto di violazione dell'anonimato. A distanza di tre mesi, invece, la lista completa di verbali, atti e documenti relativi al primo concorso pubblico per l'accesso alle specializzazioni di medicina gestito a livello nazionale con graduatoria unica svela il tracollo di premesse e promesse. Un tradimento che ha già portato tanti giovani medici ad abbandonare l'Italia, ancor prima di attendere le decisioni della giustizia amministrativa sommersa dai ricorsi. Punteggi sbagliati, pc in rete. Sedi non idonee, controlli non omogenei delle singole commissioni, router nascosti nei cappotti e pc collegati in rete durante le prove in alcuni atenei, foto che mostrano chiaramente come in certe aule i candidati fossero seduti a distanza ravvicinata tanto da costringere il Miur a sferzare le commissioni con una circolare dopo il primo giorno di test. E ancora singole aule in cui tutti i candidati hanno totalizzato punteggi stellari e perfettamente combacianti, centinaia di black out e guasti ai computer che hanno consentito ai più fortunati di veder raddoppiato il tempo a disposizione per rispondere alle domande, "bachi" nel sistema informatico, punteggi affissi in graduatoria diversi da quelli visualizzati dai candidati al termine delle prove e ricorretti in fretta e furia solo grazie all'attenzione e alle proteste degli interessati. Computer così vicini da permettere di copiare. A suggello di tutto le mani non meglio identificate di chi, denunciano gli avvocati dei ricorrenti, ha potuto incredibilmente entrare nelle prove di tutti i candidati modificandole dall'interno in violazione dello stesso principio che il nuovo concorso era nato per salvaguardare: proprio quello dell'anonimato. Tutto questo viene oggi ad aggiungersi a quanto di clamoroso emerse a inizio novembre, a concorso appena finito: il pasticcio dell'inversione dei quesiti di due differenti aree del test (quella medica e quella dei servizi clinici) da parte del consorzio Cineca incaricato di preparare le prove, il ministero dell'Università e della Ricerca che prima annuncia la scelta di annullare quelle oggetto dell'errore poi, dopo due giorni, fa marcia indietro e sentito il parere dell'Avvocatura sceglie di abbonare quattro domande (in seguito diventate sei) a tutti i candidati, dando loro il massimo punteggio a prescindere dalla maggiore o minore correttezza delle risposte fornite.
Uno scandalo già rimosso. Un caso dai contorni surreali, l'ultimo pugno nello stomaco di una generazione di aspiranti camici con la valigia in mano, archiviato dai media e dal dibattito politico con molta più fretta di quanto ci si sarebbe potuti aspettare nell'Italia che insegue la svolta all'insegna della gioventù e della meritocrazia. L'Espresso ha potuto visionare in anteprima questa galleria di irregolarità e superficialità, alla vigilia dell'udienza del 12 febbraio davanti al Tar del Lazio chiamato a prendere in esame parte dei ricorsi presentati per l'annullamento delle graduatorie. Una lista contenuta nella lunga memoria depositata lo scorso 26 gennaio dall'avvocato Michele Bonetti, il legale che tra l'estate e l'autunno dello scorso anno ha già ottenuto l'ammissione con riserva ai corsi di laurea delle facoltà di medicina di tutta Italia di 5.000 studenti respinti ai test d'ingresso e che, insieme al collega Santi Delia, ha curato anche i ricorsi degli aspiranti specializzandi. Insomma un elenco fornito da una parte con precisi e concreti interessi nella partita, ma puntellato da un corposo dossier di carte ufficiali finito all'attenzione della magistratura in sede penale. Aule inidonee, punteggi stellari. Il primo cardine su cui doveva poggiare il nuovo concorso, ovvero l'omogeneità della selezione a livello nazionale, ha retto a stento davanti alle carenze organizzative di alcune aule. L'articolo 2 comma 4 del bando disponeva che almeno 20 giorni prima della prova di esame il Miur dovesse comunicare sedi e orario di svolgimento. Le aule però sarebbero state reperite solo qualche giorno prima dei test, non solo nelle università ma anche in centri di formazione professionale e istituti privati. Come emerge da alcuni verbali e dalle foto pervenute al sito de "l'Espresso", in alcune di esse i candidati erano talmente vicini da consentire a tutti di poter leggere tranquillamente dallo schermo del collega. Un monitor che, a differenza dei classici fogli A4 contenenti 4 o 5 domande, proiettava a visione intera un solo quesito alla volta con la relativa risposta del candidato. Più piccole erano le aule, riporta l'avvocato Bonetti nella sua memoria, più palese è stato il numero di concorrenti con punteggi identici. Come a Catania, dove nell'aula 10 - durante l'ultimo giorno di prova - su 12 partecipanti concorrenti per Anestesia, in 10 hanno avuto l'identico alto punteggio di 17,4 su 20. O a Bari, dove il 31 ottobre durante la prova dell'area dei servizi di fatto non di competenza dei candidati (perché si scoprirà che le domande erano state invertite con quelle di area medica) in un'aula 12 candidati su 14 ottengono lo stesso score: di nuovo 17,4 su 20. A Milano i candidati chiedono che sia messo a verbale che i pc sono troppo vicini e corrono voci di "copiature frequenti e uso di cellulari presso altre sedi". A Trieste è addirittura la stessa commissione ad alzare bandiera bianca: "Risulta materialmente impossibile", recita il verbale del 30 ottobre per l'aula F, "collocare tutti i candidati in modo alternato, si decide di far prendere posto ai candidati seduti necessariamente vicini nelle posizioni di massima visibilità". Black out, web libero e bug informatici. Sono centinaia i casi a verbale di black out energetici in diverse sedi di concorso. In alcune i candidati, dopo aver letto le domande e addirittura aver terminato la prova, hanno potuto ripeterla visto che i pc si spegnevano o non rispondevano ai comandi. Aule intere hanno subito la sospensione dell'energia dopo che erano state lette le domande della prova. Durante le operazioni di ripristino, a Chieti, i candidati hanno addirittura potuto riprendere i propri cellulari collegati in rete. In altre sedi, come risulta a verbale, i pc erano invece collegati via cavo alla rete LAN o avevano accesso alla rete wi-fi consentendo la navigazione sul web attraverso router portatili lasciati dai candidati nei cappotti. Uno di questi casi è documentato a Napoli, presso l'università Suor Orsola Benincasa. Alla Seconda Università di Napoli, il 31 ottobre, dopo 16 episodi di malfunzionamento dei pc la prova viene interrotta e fatta ripetere ai candidati. A Ferrara addirittura salta un'intera fila di computer, obbligando ormai a fine prova a far rifare il test a tutti i candidati della fila. Tragicomici, poi, alcuni degli episodi segnalati sempre a verbale: come a Padova, dove durante la prova un candidato - ricontrollando i test - si rende conto a un certo punto che in alcuni casi le risposte da lui date risultano modificate. Colpa di un bug informatico che fa sì che il concorrente, anche semplicemente muovendo il mouse sulla parte bianca dello schermo, intervenga sull'opzione appena spuntata senza rendersene conto. Un'anomalia denunciata anche a La Sapienza. Centinaia anche le segnalazioni di aspiranti specializzandi che hanno trovato un punteggio affisso diverso da quello visualizzato dopo la prova e regolarmente salvato. Come a Genova, dove lo score di una candidata era stato prima salvato come 34,1 e poi - il giorno dopo - riverificato essere 33,8. Se l'interessata non avesse chiesto di eseguire un controllo, essendo convinta del suo risultato iniziale, l'accaduto non avrebbe mai potuto essere ricostruito. Pipì nel cestino. Anche nella severità con cui le commissioni hanno fatto rispettare i regolamenti emergono forti discrepanze. Nonostante il bando del 4 agosto 2014 specifichi chiaramente che "il Ministero definisce ogni elenco d'aula avendo cura di distribuire i candidati secondo l'ordine anagrafico", in alcune sedi è stato concesso agli aspiranti specializzandi di scegliere liberamente il posto. In un verbale dell'ateneo di Udine viene riferito candidamente che "ciascun candidato si colloca a sua scelta in una delle postazioni disponibili". A Palermo la commissione controbatte addirittura a un candidato che, bando alla mano, chiedeva il rispetto dell'ordine alfabetico. D'altro canto persino il video esplicativo sulla procedura di accesso alle aule del Miur, disponibile sul sito , indicava la possibilità di scegliere liberamente dove sedersi in piena contraddizione con il bando. Il video è stato poi successivamente modificato a concorso concluso. Il rigore in ordine sparso delle varie commissioni ha riguardato anche la possibilità di andare in bagno: a Pisa e Pavia è stato consentito, a Firenze invece un candidato è stato costretto a urinare nel cestino della carta. Le domande abbonate: nuovi interrogativi. Non è la prima volta che il consorzio interuniversitario Cineca, incaricato di somministrare i test nei concorsi, combina errori che impattano su vite e carriere. Basti pensare al "famoso" concorso del 2012 per l'accesso ai TFA, i tirocini formativi per l'abilitazione all'insegnamento, nel quale 25 domande su 60 furono annullate. Questa volta l'anomalia è avvenuta nella fase di preparazione delle buste: le domande che avrebbero dovuto essere sottoposte ai candidati per le scuole di area medica il 28 ottobre sono state invece somministrate il 31 ottobre nella prova per l'area dei servizi clinici, e viceversa. Il primo novembre il Miur annuncia con un comunicato stampa sul sito che le prove in questione sono da ripetere. Due giorni dopo, al termine di una riunione tra il ministro Stefania Giannini e la Commissione nazionale incaricata di validare le domande dei quiz, sempre tramite nota stampa arriva il contrordine: siccome l'inversione ha riguardato solo le 30 domande comuni a ciascuna delle due aree, e non i 10 quesiti specifici per ciascuna tipologia di scuola (cardiologia, necrologia, endocrinologia etc.), l'esito dei test si può salvare "neutralizzando" le sole due domande per ciascuna area che sono state giudicate non pertinenti dalla Commissione di esperti. In pratica a tutti i candidati, a prescindere dalla maggiore o minore correttezza della risposta fornita, viene assegnato per quelle domande il massimo punteggio. Da quel momento, e dopo le dimissioni rassegnate dal presidente del Cineca Emilio Ferrari, si chiude il sipario mediatico sulla vicenda. Adesso però, dai verbali delle singole commissioni sparse per l'Italia, da quello della riunione del 3 novembre tra Miur e Commissione nazionale e da una perizia di parte del dottor Gianluca Marella (docente a Tor Vergata e consulente tecnico della procura di Roma) emergono elementi nuovi. Emerge chiaramente, ad esempio, come in diversi casi gli stessi candidati abbiano riscontrato e segnalato ai commissari l'inversione dei quiz già nel corso delle prove, che tuttavia non sono state interrotte. Nel verbale della riunione di Roma del 3 novembre, inoltre, si legge che "delle 30 domande contenute nella prova di area medica del 29 ottobre, 27 sono riconducibili ai 5 settori scientifici disciplinari comuni tra l'area medica e quella dei servizi, 1 quesito è riferibile al settore scientifico disciplinare della farmacologia". Tradotto: le domande non pertinenti all'area medica, e quindi da abbonare, in base a quanto dichiarato dalla stessa Commissione nazionale non sono due ma tre. Perché allora il quesito di farmacologia non è stato abbonato? Non solo. Nel verbale del 3 novembre la Commissione conclude che la scelta di invalidare le quattro domande di area non influisce sulla validità complessiva dei test, perché le domande più importanti - quelle relative alle scuole di specialità cui sono attribuiti il doppio dei punti - non hanno determinato problematiche. Eppure, dopo la stesura dell'atto, sulla base di un altro verbale, che conclude una riunione del 4 novembre cui prendono parte solo il presidente della medesima Commissione nazionale e un rappresentante della società Selexi, si provvederà ad abbonare altre due domande: stavolta relative proprio ad altrettante scuole di specializzazione (una di Cardiologia e un'altra di Endocrinolgia). Un totale di 6 quesiti abbonati attraverso dei semplici verbali, senza l'intervento di un apposito provvedimento ministeriale indispensabile - sostengono gli estensori dei ricorsi - per modificare un bando di concorso approvato con decreto. Prove modificate dall'interno. Alla scelta di abbonare le sei domande, accusano i legali dei ricorrenti, è seguita una procedura inedita. Invece di limitarsi ad aggiungere il punteggio delle domande in questione alla graduatoria finale, Cineca e Miur sono entrati nei singoli compiti inserendo a livello informatico i codici fiscali e hanno modificato dall'interno le risposte dei candidati, che non hanno in questo modo neanche più la certezza di quali risposte abbiano fornito, visto che le prove erano soltanto digitali. La decisione di intervenire sulle prove già svolte è avvenuta dopo che i punteggi dei singoli candidati erano già pubblici e le graduatorie già in mano al Cineca: cioè dopo che ad ogni compito era stato dato un nome. E così, tra accessi non verbalizzati nei compiti e interventi postumi sulle domande, lo scopo principale del nuovo concorso a graduatoria nazionale, quello di garantire la segretezza e la trasparenza della selezione e l'anonimato dei candidati, potrebbe essere stato compromesso. Mancano i soldi. Davanti a questo nutrito elenco di contestazioni, l'Avvocatura dello Stato ha messo le mani avanti. "Nella denegata ipotesi in cui i ricorsi relativi al contenzioso venissero accolti", recita un documento redatto dal Miur e da poco depositato davanti al Tar del Lazio, "una ammissione in sovrannumero comporterebbe ripercussioni economiche considerevoli, in quanto imporrebbe allo Stato il reperimento delle risorse finanziarie necessarie all'erogazione di ulteriori contratti di formazione specialistica". "Anche l'ammissione di un solo medico in più", prosegue minaccioso il documento, "comporterebbe l'onere di reperire risorse aggiuntive da stanziare tramite appositi provvedimenti legislativi (circa 125.000 euro in più per ogni specializzando)". Una mossa legittima, anche se i giovani ricorrenti meriterebbero forse un giudizio - decisivo per il loro futuro - capace di entrare nel merito delle irregolarità denunciate senza fermarsi davanti allo spauracchio della spesa pubblica. Dal Paese che li spinge in massa verso l'estero dopo anni di sacrifici sui libri, meriterebbero maggiore considerazione e trasparenza.

Concorsi pubblici, tutti i casi sospetti. Il pasticciaccio delle scuole di specializzazione in medicina, per il quale i giovani medici manifestano a Roma, è l’ultimo episodio di un lungo elenco di irregolarità, favoritismi e trucchi. Dalla Farnesina alla Polizia penitenziaria nessuno è escluso. A partire dalle selezioni per insegnanti e ricercatori, scrive Michele Sasso su  “L’Espresso”. Una manifestazione di specializzandi di medicina a Roma. Le prove, l’errore e il dietrofront. Dopo giorni di polemiche, il ministero dell’Istruzione cerca di mettere una pezza al pasticciaccio  del concorsone per l’accesso alla scuole di specializzazione in medicina. Un test fondamentale per accedere alle oltre cinquemila borse di studio diventato tristemente famoso per l'annullamento che ha colpito più di 11mila candidati. Dopo avere rilevato una “grave anomalia” il ministro Stefania Giannini ci ripensa e annuncia: «Le prove per l’accesso del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test». Una pezza dopo l’annuncio di una valanga di ricorsi. Le dimissioni di Emilio Ferrari, il responsabile del Consorzio universitario che ha preparato il test di ingresso, non sono servite a stoppare la manifestazione davanti al Miur. In piazza i giovani medici che la settimana scorsa hanno partecipato alle selezioni. Non è la prima volta che un concorso pubblico finisce con una figuraccia e una protesta di piazza. Tra caos, ricorsi, graduatorie ritoccate e interventi della Magistratura non c’è settore della pubblica amministrazione immune all’aiutino. Il prestigioso posto di ambasciatore junior del ministero degli Esteri si è trasformato, secondo le critiche, in una corsia preferenziale per chi ha parentele famose. In ballo 35 posti per il gradino più basso della carriera alla Farnesina: la questione è finita con otto interrogazioni parlamentari e ombre pesanti sul ministero degli Esteri. Perfino alle prove per diventare poliziotti si scoprono bluff. Lo scorso maggio alla scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Roma si aprono le porte ai concorrenti al concorso pubblico per 208 posti di agente. Test e prove attitudinali per andare a lavorare nelle carceri italiane. Durante gli scritti la commissione esaminatrice scopre tre aspiranti con in tasca le risposte esatte ai quiz di selezione. L’elenco delle valutazioni sballate, superficialità e grossolani errori per scegliere gli insegnanti della scuola italiana è lungo. Nel 2010 nel concorso per dirigente scolastico il Ministero mette online i temi delle prove e arrivano una valanga di segnalazioni. Tanti, troppi errori e un quiz su sei viene ritirato. Nonostante gli accorgimenti all‘apertura delle buste nei cento quiz c’erano ancora degli strafalcioni. Per i tirocini formativi attivi (Tfa) obbligatori per diventare insegnanti si replica con ancora quiz errati e si ottiene ammissione dei ricorrenti alle prove scritte. Per l’ultimo concorso a cattedra la Giannini è stata costretta a un decreto correttivo. «Ogni volta è la stessa storia», commenta Marcello Pacifico del sindacato Anief:«Non sono le dimissioni di un presidente ma la gestione delle prove selettive che non trova mai un responsabile. Non è possibile che proprio le domande e le risposte per accertare il merito contengano degli errori». Tra le maglie delle selezioni anche casi clamorosi di familismo amorale e concorsi truccati su misura. A Palermo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio dell'ex preside della facoltà di Medicina Giacomo De Leo e di Salvatore Novo, professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in Cardiologia dell'università locale insieme ad Alberto Balbarini, docente di malattie cardiovascolari a Pisa. Complici e menti (con l’accusa di truffa, soppressione di atto pubblico e falsità ideologica) di un presunto concorso truccato per un posto da ricercatore universitario nel loro dipartimento bandito nel lontano 2004. Il concorso, secondo gli inquirenti, venne truccato per consentire alla figlia di Novo, Giuseppina, l'aggiudicazione del posto. L'inchiesta parte da Bari, e indaga su una serie di concorsi truccati in diverse facoltà della Penisola. Secondo gli investigatori, ci sarebbe stato un vero e proprio accordo tra Novo e De Leo per far vincere il concorso alla figlia del cardiologo. A garantire il posto assegnato a tavolino doveva essere Mario Mariani, altro docente universitario di Pisa, nominato membro della commissione esaminatrice. All'ultimo momento, però, Mariani scopre di essere indagato dai pm baresi e fa un passo indietro. È allora che, secondo i magistrati, i due docenti distruggono il verbale con cui Mariani era stato designato commissario d'esame e lo sostituiscono con uno identico in cui mettono il nome di Balbarini. Quest'ultimo, vicino a Mariani, sarebbe stato al corrente di tutto. Dopo dieci anni la ricercatrice ha fatto carriera e oggi può vantare il titolo di docente alla scuola di specializzazione in cardiochirurgia. L’ateneo? Quello di Palermo, naturalmente.

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

Si stava meglio quando si stava peggio? Italia, declino inevitabile: dove andremo a finire?

A leggere i giornali od a seguire i Tele Giornali o i talk show in tv cerco di carpire qualche notizia che parli di me: di me cittadino. Cerco qualcuno che parli dei miei problemi.

La pagina politica parla delle solite promesse, dei soliti sprechi e dei soliti privilegi.

La pagina della giustizia parla dei soliti morti, dei soliti arresti e delle solite condanne, oltre che della solita mafia: una rassegna dei successi di magistrati e forze dell’ordine, insomma.

La pagina degli esteri parla delle solite guerre e dei soliti cattivi da eliminare.

La pagina finanziaria parla di default, tasse e soldi per lo Stato che non bastano mai e della ovvia evasione fiscale dei soliti ricchi.

Per lo spettacolo e lo sport la solita rassegna di pettegolezzi di star e starlette senza arte né parte.

A parer dei media sembra che la vita scorra monotona lungo questi binari, salvo qualche problema che, però, a parer dei lettori e telespettatori, appare colpire solo gli altri.

Ma non è così. A spulciare nelle notizie, c’è tutta una quotidianità di cui nessuno parla: la lotta alla sopravvivenza delle famiglie italiane nella assoluta solitudine e nel generale sottaciuto abbandono.

Chi ha qualche anno di vita, (chi troppi, chi pochi) ricorda che:

prima il potere era del popolo: oggi non più, il potere è delle mafie, delle caste, delle lobbies e delle massonerie deviate;

prima c’era meno illegalità, meno obblighi, meno sanzioni e c’erano meno leggi da rispettare, specie quelle a carattere emergenziale: oggi anche un giurista insigne pecca di ignoranza giuridica;

prima nel nome della legalità c’era meno illegalità ed iniquità: oggi l’ingiustizia abbonda e gli abusi di potere strabordano;

prima c’era più rispetto e credibilità negli anziani, nei magistrati e nelle istituzioni: oggi non ci sono più esempi degni da seguire e non abbiamo stima nemmeno per noi stessi;

prima pur con tangentopoli, c’era meno ladrocinio e le mafie non avevano invaso l’Italia: oggi la corruzione e l’abuso di potere è la normalità e la mafia è dappertutto;

prima l’usuraio era l’amico: oggi non più, usuraio è lo Stato o le banche;

prima si pagava un decimo di tributi rispetto ad oggi e si otteneva 10 volte tanto in termini di servizi;

prima nella disgrazia potevi parlare con il politico che votavi ed il minimo che succedeva era che ti ascoltava ed il favore lecito, spesso, ci scappava: oggi non è più così, perché i politici sono tutti degli emeriti sconosciuti e se ti rapporti con loro disattendono il loro mandato;

prima nell’errore speravi nella coscienza delle istituzioni e tutto si aggiustava secondo equità: oggi non è più così, perché più che il principiò di legalità vale l’interesse estremo a punire, per salvaguardia finanziaria del proprio status di sanzionatore;

prima c’era più Empatia, ci si metteva nei panni dell’altro, si condividevano sentimenti, emozioni e sofferenze: oggi non più, c’è più Dispatia, ovvero l'incapacità o il rifiuto di condividere i sentimenti o le sofferenze altrui, ovvero c’è più Alessitimia, ossia il disturbo specifico nelle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo delle persone;

prima nell’avversità c’era qualcuno che pubblicamente denunciava sui giornali la tua questione: oggi la notizia è omologata nella censura e se, al contrario, è resa pubblica, lo scandalo non produce effetti;

prima nell’avversità c’era una famiglia, spesso numerosa e con genitori pensionati, che ti sosteneva: oggi siamo soli nell’indifferenza, nell’indisponenza, nell’insofferenza e gli anziani non hanno più figli al capezzale ma solo badanti straniere;

prima si era più ricchi di affetti e di beni materiali: oggi amici non ne hai ed i parenti meglio non averli e se hai un bene materiale te lo toglie la criminalità o lo Stato;

prima nel bisogno il lavoro era tutelato e comunque si trovava, anche negli uffici di collocamento, o addirittura anche a nero o sottopagato: oggi non più assolutamente, nonostante i centri per l’impiego e le agenzie interinali;

prima a veder un clandestino era un’eccezione, oggi è la regola;

prima gli unici ad essere discriminati erano i meridionali: oggi si discrimina tutto e tutti e si uccide per questo (religione, razza, sesso, ideologia politica, tifo sportivo, gusti sessuali, ecc.);

prima si era più sinceri e diretti: oggi si è politicamente corretti, perbenisti e buonisti, ossia più demagoghi, utopistici, falsi e bugiardi;

prima nell’intraprendenza l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, nonostante i disastri meteorologici, erano attività in cui si riusciva ad andare avanti: oggi le campagne sono abbandonate, troppi, cavilli, oneri e spese;

prima nel rischio le imprese, grandi o piccole, riuscivano a produrre reddito: oggi non più, perché sono vessate dallo Stato da controlli, oneri, cavilli e balzelli e tributi e comunque da questo Stato non tutelate dalla competitività estera, o taglieggiate dalla criminalità, o sequestrate e portate al fallimento dallo stesso Stato perché accusate di essere colluse con la criminalità, o, seppur operanti da decenni, chiuse ora perché inquinanti;

prima le professioni si potevano esercitare: oggi non più, perché hanno chiuso gli ospedali ed i tribunali ed impediscono di esercitare. Prendiamo per esempio la professione di avvocato. Hanno chiuso moltissimi tribunali. Hanno impedito la tutela legale per i sinistri stradali e le sanzioni amministrative. Settori utili per i neo professionisti. Non sono certo, però, diminuite, come promesso, le polizze assicurative. Hanno eliminato di fatto il gratuito patrocinio, con condanne inevitabili per gli indigenti, ed in generale il ricorso all’autorità giudiziaria, con il contributo unico unificato elevato. Tra Giudici onorari di Tribunale, Giudici di Pace, Conciliazione obbligatoria e Negoziazione assistita hanno eliminato quasi tutto il lavoro dei magistrati togati, impegnati come sono a fare esclusivamente politica,  ma la lentezza della giustizia è rimasta. Hanno imposto ai giovani avvocati in tempo di crisi l’iscrizione alla Cassa Forense ed imposto in tempo di vacche magre l’esercizio della professione legale in maniera continuativa e prevalente. Ecco i punti fissati dal Governo:

a) la titolarità di una partita Iva;

b) l’uso di locali e di almeno un’utenza telefonica destinati allo svolgimento dell’attività professionale, anche in forma collettiva (associazione professionale, società professionale, associazione di studio con altri colleghi);

c) la trattazione di almeno 5 affari per ogni anno dei 3 presi in considerazione, anche se l’incarico è stato inizialmente conferito ad altro legale;

d) la titolarità di un indirizzo Pec comunicato al Consiglio dell’ordine;

e) l’avere assolto l’obbligo di aggiornamento professionale secondo modalità e condizioni stabilite dal Cnf;

f)la stipula di una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile che deriva dall’esercizio della professione;

g)la corresponsione dei contributi annuali dovuti al Consiglio dell’ordine;

h) il pagamento delle quote alla Cassa di previdenza forense.

Sig. direttore, lei, meglio di me, sa che prima si poteva criticare e protestare: oggi non più perché abbiamo un bavaglio. Tra la legge sulla privacy e lo spauracchio delle norme penali sulla diffamazione tutto ciò è impedito.

Oggi non puoi nemmeno recriminare con una imprecazione: “Italia di Merda” perchè segue una condanna certa.

Allora… si stava meglio quando si stava peggio? E dove andremo a finire? E comunque, per gli italiani perché non vale la teoria sull’evoluzione migliorativa naturale della specie?

Europa, i napoletani guadagnano meno dei polacchi. E in altre zone d'Italia non va meglio. Secondo i dati più recenti dell'istituto di statistica europeo il reddito medio in provincia di Napoli è ormai inferiore a quello medio della Polonia. Nei primi si ferma a 16.100 euro l'anno, mentre per i secondi è più alto di 300 euro, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Se un amico di Napoli vi confida che vuole emigrare in Polonia, non chiedetegli se è diventato matto: per come vanno le cose l'idea potrebbe quasi avere senso. Secondo i dati dell' Istituto di statistica europeo , aggiornati al 2011, il reddito medio dei napoletani è ormai inferiore a quello dei polacchi. Nei primi si ferma a 16.100 euro l'anno, mentre per i secondi è più alto di 300 euro. L'area d'Europa con il PIL più alto è invece la parte occidentale di Londra, cuore finanziario della Gran Bretagna, dove la media supera i 150mila euro. Ma in Italia c'è chi è messo ancora peggio. Nella provincia di Medio Campidano, in Sardegna, il reddito è di 11.200 euro l'anno: poco meno che in Bulgaria. Seguono Caserta e Agrigento, intorno ai 13mila e qualche centinaio di euro in più rispetto a un abitante medio della Romania. Resta forte la divisione nord-sud, anche se in quest'ultimo spicca la provincia di Catanzaro che supera i 20mila euro l'anno – fatto praticamente unico nel meridione –, mentre al centro si distingue Rieti; chi vi abita ha in media un reddito più basso di quello dei vicini. Roma è un caso a parte. Essere il centro della burocrazia italiana, con il relativo carico di retribuzioni elevate, non può che portare a risultati maggiori: un elemento che in qualche misura sposta i redditi – ma non per forza quanto poi si produce davvero – verso l'alto. Al nord invece i milanesi hanno un reddito medio di 45.600 euro, quasi il doppio della media europea. Un valore senz'altro elevato, ma forse neppure troppo per quello che dovrebbe essere il centro della borghesia produttiva italiana. Senza neppure arrivare a Londra, in cui i tanti stranieri della City finanziaria renderebbero il confronto poco sensato, basta andare in Francia o in Germania – a Monaco, Parigi o Bonn – per trovare diverse aree in cui il reddito si aggira o supera i 60-70mila euro a persona. I dati non considerano solo quanto le persone producono, ma tengono in conto anche il diverso costo della vita. Affitti più alti e beni più economici, servizi a buon mercato o meno: tutti fattori che nella vita concreta contano almeno quanto lo stipendio che riceviamo. Si tratta del modo più accurato per capire qual è il reale tenore di vita delle persone in un regione piuttosto che in un'altra. Come succede di consueto quando si calcola il PIL, è inclusa anche una stima (più o meno accurata) dell'evasione fiscale. Eppure basta tornare qualche anno indietro per capire come i problemi italiani siano tutt'altro che nuovi. La crisi non ha fatto che pesare su un sistema già affaticato – in alcune zone più che in altre. Basilicata, Puglia e Calabria, per esempio, già prima della recessione del 2008 crescevano poco – meno dell'1% l'anno. Emilia Romagna, Marche e Lazio avevano invece un ritmo più elevato, intorno al 2%. Il motore pare inceppato da tempo: già intorno al 2002-2003 in diverse regioni il reddito ha fatto un salto indietro, per poi calare a picco dal 2008. In Molise la recessione ha fatto più danni: fino al 2011 l'economia è decresciuta in media del 2,9% l'anno; meno in Campania, con una caduta dell'1,8%. Seguono Calabria (-1,7%), Sicilia e Basilicata (-1,6%). Quando gli altri cadono – magra consolazione – anche restare fermi è un segnale positivo. È il caso di Lombardia e provincia di Bolzano, dove invece le cose sono rimaste stabili oppure la diminuzione è stata minima. Guardando a come vanno le cose provincia per provincia abbiamo un quadro più dettagliato, ma anche meno recente – per il momento i dati arrivano solo al 2011. Che napoletani e siciliani abbiano recuperato qualcosa, nel frattempo? L'unico modo per farsi un'idea è guardare a come sono andati i paesi nel loro complesso. Anche così, però, l'Italia resta quella che fa peggio. Non solo l'economia non recupera quanto aveva perso dall'inizio della recessione, ma continua a cadere ancora. Nel 2012 e 2013 la crescita media è stata molto negativa: la Spagna arretra ma meno, Francia e Germania crescono – molto poco – mentre nel Regno Unito va abbastanza meglio. Nulla di impressionante, certo, eppure nel regno dei ciechi l'orbo è re. Dunque è ancora vero che i napoletani guadagnano meno dei polacchi? Una cosa è certa: negli ultimi due anni questi ultimi sono andati avanti, mentre l'Italia è tornata ancora più indietro. Non solo il divario potrebbe essere rimasto, ma ci sono buone ragioni per pensare che sia aumentato. Chi più in fretta, chi trascinando i piedi, resta il fatto che diversi paesi stanno cominciando a uscire dalla crisi. Molti, ma non l'Italia. Chissà che l'amico napoletano non abbia tutti i torti.

Disoccupazione, i numeri fanno paura. Quella verità nascosta nelle statistiche. Fermarsi a leggere solo il dato generale di chi non ha un lavoro è un errore: i numeri in nostro possesso mostrano  fenomeni meno noti, che interessano soprattutto donne e giovani. Mentre il titolo di studio sembra ancora l'unico antidoto al rimanere senza impiego. Naviga i nostri grafici interattivi, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Una manifestazione del 2011 contro la disoccupazione giovanile Quando si parla di disoccupazione la cosa più semplice è elencare il solito numero - i soliti due numeri - e fermarsi lì. Sono quelli che sono stati ripetuti negli ultimi giorni: il tasso di disoccupazione generale è al 12,6 per cento, quello dei giovani fra 15 e 24 anni è al 43,3 per cento. Al crescere dell'età le cose migliorano, certo, ma restano tutt'altro che confortanti. Eppure la realtà è più complicata, e se si scava più a fondo nelle statistiche il quadro diventa forse ancora più buio: sicuramente più sfaccettato. Eurostat e Istat raccolgono informazioni sul lavoro anche a livello regionale, aggiornate al 2013; e sono dati che mostrano l'enorme differenza che esiste non solo fra paesi europei, ma anche all'interno degli stessi. Eppure, nel fare confronti fra paesi, i dati vanno guardati con prudenza. Il tasso di disoccupazione indica infatti quante sono le persone senza lavoro, ma solo fra quelle che un lavoro lo stanno cercando. Più di tre milioni, secondo le ultime stime: certo non un italiano su dieci o un giovane su due, come si sente dire ogni volta, ma comunque troppo. Il paragone naturale è con i vicini spagnoli. Ma proprio in Spagna, che nella mappa della disoccupazione risalta come una grande macchia rossa, secondo la Banca Mondiale la partecipazione al mercato del lavoro è più alta - in particolare per le donne e nelle aree più povere. In questi gruppi, ovvero, sono molti coloro che dichiarano di essere alla ricerca di un impiego. In Italia vale l'opposto: sono meno le persone che risultano alla ricerca di un lavoro e questo spinge il dato della disoccupazione verso il basso. D'altra parte in Italia e Spagna il numero di persone effettivamente occupate, rispetto al totale della popolazione, è più o meno lo stesso. Dunque la differenza, tutto sommato, è molto minore di quello che sembra. Non è il solo caso. In generale, prima di fare paragoni, bisogna fare attenzione a quei paesi in cui, per esempio, donne e giovani tendono a partecipare di più al mercato del lavoro. È il caso di Germania, Francia e - appunto - della stessa Spagna. Questo però non vuol dire che la situazione sia grave ovunque allo stesso modo; al contrario. Proprio in Italia considerare solo il tasso di disoccupazione generale nasconde le situazioni più diverse: soprattutto in alcune province, soprattutto per i giovani - e ancora di più per le donne. Tutti casi in cui la realtà è molto più difficile di quello che sembra. Prendiamo tre persone diverse: Luca, 40 anni, di Milano; Giulia, una trentenne romana; Sofia, appena diplomata a Napoli. Il primo è riuscito a trovare lavoro, e come lui diversi amici e amiche: a Milano essere uomo o donna non fa grande differenza. Giulia salta da un breve impiego all'altro, ma con la crisi le cose sono diventate più complicate. Trovare un nuovo lavoro è difficile, e non solo per lei: a Roma succede lo stesso a una donna su sei nelle sue condizioni. Sofia invece vorrebbe cominciare a lavorare subito dopo aver finito la scuola, ma non può. A Napoli per andare avanti ci vuole fortuna e bravura - o entrambe - quando tre ragazze su cinque come lei, pur cercandolo, un lavoro non lo trovano. Altrimenti la soluzione è la solita: emigrare. Anche qui però bisogna fare attenzione: fra i 15 e i 24 anni molti ragazzi studiano ancora, quindi non cercano lavoro né sono - tecnicamente - disoccupati. Un gruppo che rientra nella categoria degli “inattivi”, come li chiama l'Istat, composto da poco meno di quattro milioni e mezzo di persone. Il problema vero riguarda invece 685mila giovani di quell'età che, usciti da scuola, un lavoro lo vorrebbero ma non ce l'hanno. I dati smentiscono anche un altro luogo comune: che studiare non serve. Di nuovo, è vero l'opposto. Le persone con titoli di studio più elevati sono quelle meno esposte alle disoccupazione, e questo vale sia per gli uomini che per le donne. Una differenza che - soprattutto al sud - è enorme: le laureate calabresi, per esempio, hanno un tasso di disoccupazione di 8 punti percentuali più basso delle diplomate, mentre le campane arrivano a 10. Per gli uomini è lo stesso, basta guardare la differenza fra laureati e diplomati siciliani: fra questi ultimi, ai tempi della crisi, il tasso di disoccupazione è doppio. Altro che perdita di tempo: uno degli antidoti alla crisi, se mai ce ne fosse uno, sembra proprio lo studio.

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

La sinistra si batte per eliminare ogni simbolo che inneggia all'italica tradizione ed appartenenza in nome di una sudditanza ideologica e strumentale.

Storia del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane di Rosci Valentina su “Diritto”. L’esposizione dei crocifissi nelle scuole pubbliche viene disposta mediante circolare con riferimento alla Legge Lanza del 1857 per la quale l’insegnamento della religione cattolica era fondamento e coronamento dell’istruzione cattolica, posto che quella era la religione di Stato. L’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici in genere, è data con ordinanza ministeriale 11 novembre 1923 n. 250, nelle aule giudiziarie con Circolare del Ministro Rocco, Ministro Grazia e Giustizia, Div. III, del 29 maggio 1926, n. 2134/1867 recante “Collocazione del crocifisso nelle aule di udienza”, che recita: “Prescrivo che nelle aule d’udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all’effige di Sua Maestà il Re sia restituito il Crocifisso, secondo la nostra tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità e giustizia. I capi degli uffici giudiziari vorranno prendere accordi con le Amministrazioni Comunali affinché quanto esposto sia eseguito con sollecitudine e con decoro di arte quale si conviene all’altissima funzione della giustizia”. In materia scolastica si ricordano, le norme regolamentari art. 118 Regio Decreto n. 965 del 1924 (relativamente agli istituti di istruzione media) e allegato C del Regio Decreto n. 1297 del 1928 (relativamente agli istituti di istruzione elementare), che dispongono che ogni aula abbia il crocifisso. Con circolare n. 367 del 1967, il Ministero dell’Istruzione ha inserito nell’elenco dell’arredamento della scuola dell’obbligo anche i crocifissi. Nei Patti Lateranensi e successivamente nelle modifiche apportate al Concordato con l’Accordo ratificato e reso esecutivo con la L. 25 marzo 1985 n.121, nulla viene stabilito relativamente all’esposizione del crocifisso nelle scuole o, più in generale negli uffici pubblici, nelle aule del tribunale e negli altri luoghi nei quali il crocefisso trova ad essere esposto. Con parere n. 63 del 1988, infatti, il Consiglio di Stato ha stabilito che le norme dell’art 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. del 26 aprile 1928 n. 1297, che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non possono essere considerate implicitamente abrogate dalla nuova regolamentazione concordataria sull’insegnamento della religione cattolica. Ha argomentato il Consiglio di Stato: premesso che “il Crocifisso, o più esattamente la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della Cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente da specifica confessione religiosa, le norme citate, di natura regolamentare, sono preesistenti ai Patti Lateranensi e non si sono mai poste in contrasto con questi ultimi. Occorre, poi, anche considerare – continua il Consiglio di Stato – che la Costituzione Repubblicana, pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose, non prescrive alcun divieto alla esposizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come il Crocifisso, per i principi che evoca e dei quali si è già detto, fa parte del patrimonio storico”. Le norme citate dovrebbero, però, ritenersi implicitamente abrogate dal d.lgs. 297/94 in cui all’art. 107, nell’elencazione puntuale delle suppellettili che compongono l’arredo si fa riferimento esplicito solamente all’attrezzatura, l’arredamento e il materiale da gioco per la materna. In modo più chiaro ed esplicito l’art. 159 stabilisce “Spetta ai comuni prevedere al riscaldamento, all’illuminazione, ai servizi, alla custodia delle scuole e alle spese necessarie per l’acquisto, la manutenzione, il rinnovamento del materiale didattico, degli arredi scolastici, ivi compresi gli armadi o scaffali per le biblioteche scolastiche, degli attrezzi ginnici e per le forniture dei registri e degli stampati occorrenti per tutte le scuole elementari…”. L’art. 190 stabilisce che “i Comuni sono tenuti a fornire (…) l’arredamento” dei locali delle scuole medie. Nessun riferimento al crocifisso. Sicchè si potrebbe sostenere che le norme dell’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. n. 1297 del 1928, dovrebbero ritenersi implicitamente abrogate ex art. 15 preleggi, perché il d.lgs. 297/ 94 regola l’intera materia scolastica. Tuttavia restano in vigore in forza dell’art. 676 dello stesso decreto intitolato “norme di abrogazione” il quale dispone che “le disposizioni inserite nel presente testo unico  vigono nella formulazione da esso risultante; quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate”. Orbene, alla specificazione del contenuto minimo necessario delle locuzioni generali “arredi” ovvero “arredamenti” contenute negli artt. 107, 159 e 190 concorrono le due disposizioni regolamentari citate, comprendendovi anche il “crocifisso”. Così si può affermare che le disposizioni del d.lgs. 297/94, come specificate dalle norme regolamentari citate, includono il crocifisso tra gli arredi scolastici. Conclusivamente, poiché non appare ravvisabile un rapporto di incompatibilità con norme sopravvenute, né può configurarsi una nuova disciplina dell’intera materia, già regolata da norme anteriori, né, come ha ritenuto il Consiglio di Stato, attengono all’insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli impegni assunti dallo Stato in sede concordataria, le disposizioni di cui all’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e quelle allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297, devono ritenersi legittimamente operanti. La Corte di Cassazione (Sez. III, 13-10-1998) ha affermato in particolare, che non contrasta con il principio di libertà religiosa, formativa della Costituzione, la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche: “Il principio della libertà religiosa, infatti, collegato a quello di uguaglianza, importa soltanto che a nessuno può essere imposta per legge una prestazione di contenuto religioso ovvero contrastante con i suoi convincimenti in materia di culto, fermo restando che deve prevalere la tutela della libertà di coscienza soltanto quando la prestazione, richiesta o imposta da una specifica disposizione, abbia un contenuto contrastante, con l’espressione di detta libertà: condizione questa, non ravvisabile nella fattispecie”, nella quale si discuteva della lesività del principio di libertà religiosa proprio ad opera dell’esposizione del crocifisso nell’aula scolastica adibita a seggio elettorale. In una recente decisione, invece, la Cassazione ha ritenuto contraria al principio di laicità l’esposizione dei crocifissi nei seggi elettorali, prendendo ad esempio una decisione del Tribunale Costituzionale tedesco del 1995. Escluso che l’articolo 9 del nuovo Concordato con la Chiesa cattolica – in cui la Repubblica italiana prende atto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” – possa costruire idoneo fondamento normativo alla prassi amministrativa in materia, la Suprema Corte rigetta anche la “giustificazione culturale”, contraddicendo espressamente l’avviso del Consiglio di Stato. Non è sostenibile, infatti, “la giustificazione collegata al valore simbolico di un’intera civiltà o della coscienza etica collettiva”, per il contrasto in essa implicito con il divieto delle differenziazioni per motivi religiosi. È lecito esporre un crocifisso in un’aula scolastica, in un tribunale o in un ufficio pubblico, questa scelta può offendere la coscienza del non credente o dell’appartenente ad una confessione religiosa contraria a tale simbologia? L’esposizione contraddice la “laicità dello Stato”? E a che tipo di simbologia deve essere ascritto il crocifisso: identità religiosa o culturale? Nel corso dell’anno scolastico 2002-2003, Adel Smith, cittadino italiano di religione musulmana, domanda all’insegnante della scuola di Ofena (in provincia di L’Aquila), frequentata dai suoi figli, di rimuovere il crocifisso appeso alla parete o, in subordine, di appendervi un quadretto con la sura del Corano. L’insegnante accondiscende a questa seconda richiesta, ma viene smentita dal dirigente scolastico il quale impone di rimuovere il quadretto. Assistito da un avvocato, Adel Smith ricorre al Tribunale di L’Aquila per ottenere un pronunciamento d’urgenza. Investito della questione, il Tribunale ribadisce il carattere laico della Repubblica italiana e delle sue istituzioni e il 23 ottobre decreta la rimozione del crocifisso. Un’ordinanza successiva ha invece revocato tale rimozione poiché ha ritenuto che l’istanza presentata non integrasse una domanda “meramente risarcitoria”, ma si concretizzasse nella richiesta di una misura di carattere inibitorio idonea ad interferire nella gestione del servizio scolastico, dal che la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. La rimozione del crocifisso scatena un’aggressiva polemica pubblica e una vera e propria campagna per il rilancio del crocifisso così che la maggior parte degli italiani hanno fatto questo tipo di ragionamento: “L’offesa è grande. Insopportabile. Una prevaricazione. Un esproprio. Un Tizio entra nel tuo alloggio, si accomoda in poltrona, ha libero accesso al frigorifero, usa il tuo bagno e invece di ringraziare per l’ospitalità, ti ingiunge di togliere dalla parete quel “coso” lì. Sarà anche un coso ma permetti decido io se deve restare lì o sparire”. Un ragionamento un po’ rozzo ma tale vicenda ci fa comprendere che oggi la questione dei simboli religiosi, a partire dal sostrato argomentativo connesso alla rivendicazione della libertà di coscienza e della neutralità dello Stato, può trasformarsi in un momento di “scontro tra religioni e civiltà”. Una questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal TAR del Veneto, avente ad oggetto gli artt. 159 e 190 del d. lgls. n. 297 del 1994, come specificati dall’art. 119 allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297 e dall’art. 118 del R.D. 30 aprile 1924 n. 965, nella parte in cui includono il crocefisso tra gli arredi scolastici, nonché l’art. 676 d.lgs. 297/94, nella parte in cui conferma la vigenza degli artt. 119 allegato C del R.D. 1297/28 e 118 del R.D. 965/24. Il Tribunale remittente sostiene che il crocifisso è essenzialmente un simbolo religioso cristiano, di univoco significato confessionale, che l’imposizione della sua affissione nelle aule scolastiche non sarebbe compatibile con il principio supremo di laicità, desunto dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19, 20 della Costituzione, e con la conseguente posizione di equidistanza e di imparzialità fra le diverse confessioni che lo Stato deve mantenere; che la presenza del crocifisso, che verrebbe obbligatoriamente imposta ad alunni, genitori e insegnanti, delineerebbe una disciplina di favore per la religione cristiana rispetto alle altre confessioni, attribuendo ad essa una ingiustificata posizione di privilegio. La Corte Costituzionale con ordinanza 389/2004 ha ritenuto di non doversi pronunziare in quanto le norme in esame hanno natura regolamentare, norme prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né conseguentemente, un intervento interpretativo. In questa prospettiva, l’ordinanza della Corte, con le sue argomentazioni tecniche, pare suggerire un inasprimento di toni senza rinunciare a continuare ad interrogarsi. Tuttavia il dibattito in corso sull’esposizione del crocifisso pare sempre meno legato alla religione, alla religiosità e alla fede e invece strumentalizzato dai politici di destra e di sinistra. 

Crocifisso a scuola, assolta l'Italia. Ribaltata la condanna del 2009. Chi ha ragione? si chiede G. Galeazzi su su “La Stampa”. Il crocefisso può restare appeso nelle aule delle scuole pubbliche italiane. Questo è quanto ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo, che con una sentenza definitiva della Grande Camera, votata da 15 giudici su 17, ha dichiarato che la presenza in classe di questo simbolo non lede nè il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni, nè il diritto degli alunni alla libertà di pensiero, di coscienza o di religione. Per il governo italiano e il fronte pro-crocefisso è una vittoria a tutto campo. Nel motivare la sua decisione la Corte afferma come il margine di manovra dello Stato in questioni che attengono alla religione e al mantenimento delle tradizioni sia molto ampio. Ma i quindici giudici che hanno votato a favore della piena assoluzione delle autorità italiane sono andati oltre. Nella sentenza si legge infatti come la Corte non abbia trovato prove che la presenza di un simbolo religioso in una classe scolastica possa influenzare gli alunni. E come nonostante la presenza del crocefisso (definito simbolo passivo) conferisca alla religione maggioritaria una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico, questo non sia sufficiente a indicare che sia in atto un processo di indottrinamento. Si sottolinea infatti che nel giudicare gli effetti della maggiore visibilità data al cristianesimo nelle scuole si deve tener conto che nel curriculum didattico non esiste un corso obbligatorio di religione cristiana e che l’ambiente scolastico italiano è aperto ad altre religioni. Nessun commento dall’avvocato Nicolò Paoletti, difensore di Soile Lautsi, la cittadina italiana di origini finlandesi che aveva presentato ricorso alla Corte. Dichiarazioni euforiche, invece, di coloro che hanno strenuamente difeso l’importanza della presenza del crocifisso nelle scuole italiane. «È una pagina di speranza per tutta l’Europa», ha commentato monsignor Aldo Giordano appena il presidente della Corte di Strasburgo, Jean Paul Costa, è uscito dall’aula dopo la lettura della sentenza. Il rappresentante della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa ha quindi sottolineato come la Corte abbia preso una posizione coraggiosa e abbia tenuto conto delle preoccupazioni che in questo momento gli europei esprimono nei riguardi delle loro tradizioni, dei loro valori e della loro identità. Gli ha fatto eco il vice ministro della giustizia russo, Georgy Matyushkin, che è intervenuto davanti alla Grande Camera in favore dell’Italia ed è volato appositamente da Mosca per assistere alla lettura della sentenza. Il minisro russo si è detto «molto soddisfatto per l’approccio della Corte». Ma anche il direttore dello European Centre for Law and Justice, Gregor Puppinck, ha definito la sentenza «un colpo che mette un freno alle tendenze laiciste della Corte di Strasburgo e che costituisce un cambiamento di paradigma». Lo European Centre for Law and Justice era una delle organizzazioni no profit che si erano costituite parte terza a favore dell’Italia nel procedimento. Alla lettura della sentenza, che è avvenuta in un’aula piena di studenti e funzionari del Consiglio d’Europa, erano presenti anche l’ambasciatore italiano Sergio Busetto, oltre agli ambasciatori cipriota e greco e ai rappresentanti della diplomazia armena, lituana, e di San Marino. Tutti Paesi che assieme a Bulgaria, Romania, Malta e Principato di Monaco erano intervenuti a favore dell’Italia. La sentenza emessa oggi mette la parola fine al ricorso «Lautsi contro Italia». Un fascicolo che fu aperto dalla Corte nel 2006 e che nel 2009, con una sentenza in primo grado a favore delle tesi della ricorrente, suscitò una vera alzata di scudi contro la Corte. L’indignazione fu tale che il governo italiano ricorse immediatamente, chiedendo e ottenendo la revisione del caso da parte della Grande Camera. In questo suo appello, andato a buon fine, l’Italia ha potuto contare non solo sui dieci Paesi che «ufficialmente» si sono presentati come parti terze davanti alla Corte, ma anche sul contributo di diverse ong, di parlamentari italiani ed europei e del lavoro diplomatico condotto dal rappresentante della Santa Sede. «Esprimo profonda soddisfazione per la sentenza della Corte di Strasburgo, un pronunciamento nel quale si riconosce la gran parte del popolo italiano. Si tratta di una grande vittoria per la difesa di un simbolo irrinunciabile della storia e dell’identità culturale del nostro Paese», ha dichiara il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. «Il Crocifisso sintetizza i valori del Cristianesimo, i principi sui cui poggia la cultura europea e la stessa civiltà occidentale: il rispetto della dignità della persona umana e della sua libertà. È un simbolo dunque che non divide ma unisce e la sua presenza, anche nelle aule scolastiche, non rappresenta una minaccia nè alla laicità dello Stato, nè alla libertà religiosa. Oggi è un giorno importante per l’Europa e le sue istituzioni che finalmente, grazie a questa sentenza, si riavvicinano alle idee e alla sensibilità più profonda dei cittadini», ha concluso il ministro.

Toglie il crocifisso dall’aula. «Non me ne faccio nulla». Il simbolo religioso scompare pochi giorni dopo l’inizio della scuola. Gragagnani (Pdl): «Va rimesso, è una questione di libertà», scrive Francesco Alberti su “Il Corriere sella Sera”. Il caso di un’insegnante in una prima elementare. Il simbolo religioso scompare pochi giorni dopo l’inizio della scuola. Gragagnani (Pdl): «Va rimesso, è una questione di libertà». Via un altro. L’ennesimo. Tolto dalla parete a cui era appeso da anni. E scoppia la polemica. C’è chi parla di «strage dei crocifissi». E chi, più laicamente, si rifugia nel concetto di tolleranza e invita al reciproco rispetto. Siamo a Bologna, nella scuola elementare «Bombicci», classe prima B. Il simbolo religioso scompare pochi giorni prima dell’inizio delle lezioni. Qualcuno, probabilmente dall’interno della scuola, avverte l’ex parlamentare pdl Fabio Garagnani, personaggio piuttosto combattivo in materia, che parte in quarta, informando della rimozione il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, e il vicedirettore regionale dell’ufficio scolastico, Stefano Versari. Per nulla scandalizzato invece il preside del comprensivo di cui fa parte la scuola, Stefano Mari: «Non esiste alcuna legge dello Stato che impone l’obbligo di ostensione del crocifisso, ma solo un regolamento del 1928 sugli arredi scolastici, poi superato nel 1999 da norme che conferiscono autonomia ai singoli istituti: dipende dalla sensibilità dei docenti». A riprova di ciò, prosegue il dirigente, «negli istituti che fanno parte del mio comprensivo, che riunisce 1.400 studenti tra elementari e medie, in moltissime aule il crocifisso non c’è mai stato o è stato tolto, mentre in altre è presente». Un processo graduale, aggiunge, «avvenuto negli ultimi anni e quasi passato inosservato in un clima di reciproca tolleranza tra chi lo avrebbe voluto e chi no». Fino ad oggi. Ora la polemica rischia di montare. Il giornale dei vescovi, Avvenire , censura l’episodio, ricorda l’ordinanza del 2011 della Corte di Strasburgo che impose a una scuola media di Abano Terme (Padova) di riappendere il crocifisso, ma soprattutto riporta le parole di un calibro da novanta come il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli, il cui parere giuridico è agli antipodi di quello del preside Mari: «Non è rimesso alla scelta di qualcuno se togliere o meno il crocifisso - afferma il giurista -, non ci possono essere interpretazioni da scuola a scuola. Se è vero che la regolamentazione vigente sui simboli religiosi, che li vuole affissi nelle aule, può sembrare datata, è altrettanto vero che, chiamato a esprimersi, il Consiglio di Stato ne ha riaffermato la validità». Ma il preside insiste: «Credo che la questione vada risolta a livello amministrativo, è finito il tempo in cui tutto veniva deciso centralmente dal ministero». L’insegnante che ha tolto il crocifisso preferisce non esporsi. Raccontano che a chi le chiedeva spiegazioni sulla rimozione del simbolo avrebbe sbrigativamente risposto «di non farsene nulla». Il preside fa da scudo: «È inevitabile che sia turbata dalle polemiche, ma continua il suo lavoro e per ora non si registrano proteste dalle famiglie degli alunni». Ma Garagnani incalza: «È un problema di libertà, i genitori non si facciano intimidire».

Ma non solo oil crocifisso si vuol togliere. Anche il Presepe.

Il sottosegretario all'Istruzione: "Sì al presepe a scuola; vietarlo non aiuta l'integrazione". Gabriele Toccafondi, coordinatore regionale Ncd Toscana, sottosegretario di Stato all’Istruzione, e l'intervento su La Nazione: "Non interrompiamo le nostre tradizioni".  Caro direttore, ho seguito con attenzione le inchieste dedicate da La Nazione ai “presepi vietati” nella nostra città. Questo tema ci permette di affrontare un dibattito sul rapporto tra identità e cultura nei Paesi occidentali secolarizzati e multiculturali, sui concetti di accoglienza e di dialogo. L’idea che per rispettare le altre culture e religioni sia necessario rinunciare alle proprie tradizioni, o rinnegarle, è un’idea decisamente bizzarra, che mai ha fatto parte della storia delle civiltà, e che si è affacciata nel mondo occidentale solo da pochissimi anni. Vietare il presepe non aiuta né il dialogo né l’integrazione, ma anzi sottolinea le differenze, allontana mondi che invece dovrebbero conoscersi e avvicinarsi. Come facciamo a dialogare con gli immigrati di altre culture e tradizioni, che vengono a vivere da noi, se non siamo in grado di trasmettere loro la nostra civiltà, le nostre usanze e le nostre credenze, ciò che abbiamo di bello? Il Natale è la memoria di un fatto storico e non solo un avvenimento di fede per molti credenti. E’ talmente un fatto riconosciuto e universale che ai bambini non puoi nascondere che si festeggia qualcosa durante Dicembre e così pur di nascondere la nascita di Gesù dentro una grotta in alcune scuole ci si inventa qualcosa da festeggiare: dall’albero di natale, alla neve fino a bizzarre creazioni come il topolino che porta i doni ai poveri o al pesciolino rosso dentro l’acquario. Non sarebbe più semplice dire le cose come stanno? E poi, sono davvero così sicuri, questi presidi e insegnanti che vietano il presepe, che gli alunni stranieri e le loro famiglie siano contrarie alla realizzazione della capannuccia negli istituti educativi? Io ricordo che proprio qui, a Firenze, esponenti di rilievo della comunità islamica locale dissero, qualche anno fa, che era opportuno e formativo che i loro figli potessero conoscere usanze e tradizioni del Paese in cui erano venuti a vivere. Impedire la realizzazione di un presepe in una scuola è un atto che reputo privo di ragioni, di un malinteso senso di laicità, che si nasconde dietro la presenza di alunni stranieri o di altre religioni, ma che nulla ha a che vedere con una sana laicità positiva, in grado di accogliere e valorizzare, non di censurare. Come stabilito anche dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 2011, neppure il crocifisso esposto nelle aule scolastiche viola il principio della laicità degli istituti educativi. Che male può fare un simbolo come il presepe? Mi auguro che i docenti e dirigenti scolastici che hanno impedito a tanti bambini di avere una capannuccia nelle loro scuole, riconsiderino la loro decisione, in questi ultimi giorni prima del Natale: perché un vero dialogo con chi appartiene a tradizioni culturali diverse si può impostare solo valorizzando e facendo conoscere le radici più profonde della nostra identità.

Il presepe, bersaglio sbagliato, scrive Edoardo Crisafulli su “Avanti On line”. Un Preside ha vietato il Presepe, “un focus cerimoniale e rituale che può risultare soverchiante”: gli alunni di origine straniera, cospicua minoranza nella sua scuola, subirebbero l’imposizione di “ciò che non appartiene” loro. Concordo sul fatto che “la scuola pubblica è di tutti e non va creata alcuna occasione di discriminazione.” Ma questa decisione mi pare assurda. Il Presepe fa parte della cultura italiana come l’arte sacra, la musica barocca e la Divina Commedia. Non è un mero simbolo di fede. Sarebbe folle pretendere che l’alunno islamico (o buddista o quel che è) si converta al cristianesimo. Ma chi vuole integrarsi in Italia deve assimilare la nostra cultura. Altrimenti sarà un cittadino privo di un’identità. Non c’è bisogno di credere nella resurrezione di Cristo per ammirare la pittura di Giotto e la poesia di Dante, così come non occorre compiere sacrifici a Giove per apprezzare la mitologia classica. Il cristianesimo, inteso come fenomeno culturale, non deve apparire estraneo, o alienante, a chi ha scelto di vivere a casa nostra. I cristiani d’Oriente non studiano forse il Corano, un vero e proprio capolavoro linguistico, nonché testo di base della civiltà arabo-islamica, cui anche loro appartengono? Nessun cristiano colto nega che l’arabo classico — la koiné di tutti gli arabi – è, essenzialmente, una lingua coranica. Se c’è un simbolo più religioso che culturale, quello è il crocefisso. Ma il Preside, che ha “cose più importanti” di cui occuparsi, ha deciso di lasciarlo “appeso ai muri”. Se lo togliesse, i credenti ne farebbero “una questione di Stato”. Più facile bandire l’innocuo Presepe, che spunta a ridosso del Natale, per poi svanire subito dopo l’Epifania. Una volta affermato il principio demenziale che il Presepe offende la sensibilità islamica, dove arriveremo? Proibiremo la lettura a scuola del Canto XXVIII dell’Inferno dantesco, perché il Profeta Maometto vi compare nella veste sommamente offensiva di un dannato squarciato dal mento fin dove si “trulla”; punizione vergognosa, riservata agli scismatici, ai seminatori di discordia, come erano reputati i musulmani nel Medioevo? E metteremo alla berlina il Manzoni cristiano in quanto credente in una divinità falsa e bugiarda? No, non è questo il compito di una scuola laica, che forma i cittadini della polis secolare. Il vero laico è un liberale, un libertario. La laicità è una neutralità attiva: lo Stato laico non propaganda né una singola religione né l’ateismo; crea semplicemente le condizioni politiche che garantiscono la libertà di culto. La censura del Presepe non è un’affermazione di laicità, e non è neppure frutto della degenerazione di uno spirito laico intollerante. È piuttosto figlia del politically correct saccente e confusionario che imperversa da anni negli Stati Uniti, e che ora è approdato sulle nostre coste. Un multiculturalismo di bassa lega, con una spruzzata di giacobinismo a senso unico (l’unica tradizione da azzerare è la nostra), viene spacciato come una riedizione dell’Illuminismo progressista. I sacerdoti del politically correct, in nome della tolleranza verso lo straniero e il diverso, impongono forme subdole di censura o di auto-censura: chi non si adegua ai loro dettami subisce una gogna mediatica. Il multiculturalista serio è fatto di tutt’altra pasta: ama la diversità, perché è consapevole che il pluralismo religioso/culturale arricchisce la società civile. A una condizione, però: che venga rispettata la libertà e la dignità di tutti. Solo così il principio liberale è adattabile al mondo cosmopolita d’oggi. La cifra del laico autentico, peraltro, è la coerenza: anche quando degenera nella polemica anti-religiosa, ha il coraggio di prendersela ex aequo con preti, rabbini, imam e monaci: per lui, tutte le religioni positive sono ricettacoli di superstizione e di fanatismo. Mica rinnega la sua tradizione culturale per esaltarne una straniera, esotica, perché così va di moda nei circoli radical-chic! In certi ambienti di sinistra invece si usano due pesi e due misure: si insorge (giustamente) quando viene offeso l’islam, ma si tace o si gongola se qualcuno dissacra il cristianesimo o inveisce contro il Papa (da questo punto di vista, Oriana Fallaci non aveva tutti i torti). Agli apostoli del multiculturalismo suggerisco la lettura di Innamorato dell’Islam, credente in Cristo, di Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito dai jihadisti in Siria, il quale ha dedicato la sua vita al dialogo interreligioso basato sulla reciprocità. Se noi dobbiamo rispettare l’islam, i musulmani devono fare altrettanto con noi. Il dialogo interreligioso è una faccenda maledettamente seria: Dall’Oglio, forse, ci ha rimesso la pelle. Ho avuto l’onore di conoscerlo a Damasco, nel 2011. È stato lui a insegnarmi una grande verità, valida anche per chi non è credente: per confrontarmi con chi crede in un Dio diverso dal mio, non devo rinnegare la mia religione. Tutt’altro: la devo professare (o difendere) con orgoglio. Cosa fare, allora? Abolire l’insegnamento del cattolicesimo nella scuola pubblica (unico vero vulnus alla laicità), oppure garantire, per equità, la medesima importanza a tutte le religioni professate dai cittadini italiani? A mio avviso, l’educazione religiosa, fatto di coscienza individuale, spetta alle famiglie, non allo Stato. Sarebbe sbagliato inaugurare una sorta di carnevale variopinto di tutte le fedi. Lo Stato, però, ha il dovere di insegnare la storia del cristianesimo, quale disciplina curricolare. Che sia un docente di lettere o di storia a insegnarla, laicamente. La nostra civiltà ha radici cristiane, oltreché pagane (greco-romane) – e qui consiglio, a chi pencola verso le tesi dei teocon, il saggio di Luciano Pellicani, Le radici pagane d’Europa. Il vero scandalo, oggi, non è il Presepe: è l’ignoranza: i nostri figli non conoscono le parabole evangeliche e le narrazioni bibliche. Senza quei codici culturali, tanta parte della nostra letteratura e della nostra tradizione artistica risulta incomprensibile. Anche la polemica sui crocefissi la risolverei in chiave culturale: sostituiamo quelli bruttissimi di plastica con riproduzioni di Giotto o di Cimabue. Che ogni classe adotti una croce dipinta della tradizione pittorica italiana. Trasformare un fenomeno artistico, qual è il Presepe, in un simbolo religioso, è anche un grave errore politico. I fascio-leghisti non si sono fatti sfuggire l’occasione per specularci sopra: “Ecco la sinistra che plaude all’Eurabia islamizzata!’ Non lasciamo la difesa delle nostre tradizioni alla Lega e a Casa Pound: la rappresentazione della natività – l’espressione più poetica della religiosità popolare italiana – fu inventata da San Francesco d’Assisi. Per testimoniare, ogni anno, la nascita in assoluta povertà e umiltà di Cristo. Un messaggio formidabile per i creso-cristiani d’ogni tempo, che difendono a parole la cristianità mentre la tradiscono trescando con i potenti di turno. Riappropriamoci, noi socialisti, del Presepe e denunciamo l’uso politico distorto che ne fanno coloro che annacquano lo spirito rivoluzionario, sovversivo del cristianesimo. Ecco perché io, agnostico e laico-socialista, amo il Presepe e lo voglio esposto nei luoghi pubblici, così com’è: un bambino adagiato in una mangiatoia, in una grotta. E a chi sparge a piene mani il seme dell’odio e dell’intolleranza ricordo i bei versi di Trilussa “Ve ringrazio de core, brava gente/ pe’ ‘sti presepi che me preparate,/ ma che li fate a fa? Se poi v’odiate,/ si de st’amore non capite gnente…”.

La sinistra a favore dei mussulmani contro i cristiani. L'Islam astio al principio di reciprocità.

La persecuzione dei cristiani in Medio Oriente, scrive Salvatore Lazzara. Gesù nel Vangelo, ricorda ai discepoli: “Beati voi quando, vi insulteranno, vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”. La promessa di Gesù non prevede per i suoi seguaci vita facile. E’ il mistero della sequela, un cammino che costa a quanti aderiscono, un prezzo altissimo. In alcuni casi è richiesto il dono della vita, per testimoniare la fede nel Signore morto e Risorto. Già nel nuovo testamento sono registrati i primi attacchi contro i cristiani: dopo la morte in croce del maestro, i discepoli ebbero paura ad annunciare ciò che avevano visto e udito, per paura di essere uccisi. E’ necessario che il Risorto stesso indichi ai discepoli con le apparizioni nel giorno dopo il sabato, la via da seguire. Durante una riunione a porte chiuse, presente la Madre di Gesù Maria, ricevono il dono dello Spirito Santo, il quale li abilita a proclamare che Gesù è il Signore, e quanti ascoltano la loro parola, gli abitanti di Tiro, di Sidone, della Cappadocia, intendono nella loro lingua il messaggio del Dio fatto carne e crocifisso per la salvezza degli uomini. Da questo punto in poi, i discepoli vivranno incomprensioni, delusioni, tradimenti, fino a versare il sangue per la fede. Il primo martire di cui abbiamo notizia è Stefano, il quale viene ucciso brutalmente perché si rifiutava di rinnegare Gesù. Sono esemplari le ultime parole pronunciate da questo discepolo del Signore, che ricalcano quelle dette da Gesù sulla croce prima di morire. La tradizione dei primi secoli ha tramandato alcuni atti dei primi martiri della fede, molto suggestivi e pieni di spunti di riflessione. Le persecuzioni si scatenano contro i cristiani quando non vogliono cedere ai compromessi o alle false divinità. Tutto ciò produce odio, perché la parola di Dio condanna il male e ciò che di brutto il mondo possiede. Cito per tutti san’Ignazio di Antiochia, il quale catturato non volle essere liberato per diventare nelle mandibole dei leoni frumento di Cristo macinato per la salvezza del mondo. Certamente non possiamo analizzare i motivi e le lunghe persecuzioni cruente dei cristiani nell’arco dei 2000 anni, ma possiamo sintetizzare i vari periodi per comprendere il faticoso annuncio della Parola di Dio all’umanità. Fino al quarto secolo, i vari imperatori romani nel vasto territorio sotto la loro giurisdizione, tentarono in tutti i modi di eliminare il Cristianesimo che si diffondeva sempre più attraverso le vie commerciali, con la complicità di alcuni ufficiali militari, che avendo sentito ciò che Gesù aveva fatto ad alcuni colleghi, come ad esempio la guarigione del figlio del centurione, -il quale prima dell’ingresso del Signore nella sua casa esclamò-: “Guarda io non sono degno che tu entri nella mia casa, ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito…”-, suscitava in quanti ascoltavano sentimenti profondi di commozione e di partecipazione. La “nuova fede”, fece breccia sugli schiavi, i quali vedevano nel Cristianesimo, la liberazione dalla condizione di oppressi. Sappiamo dai racconti, che molti di essi erano a servizio dei potenti del tempo. Venendo a contatto con loro, cominciarono a convertirsi per la fedeltà che i servi mostravano verso la nuova religione. Tutto ciò turbava gli equilibri politici, sociali e religiosi del tempo. Sentendo odore di minaccia al potere costituito il cristianesimo, cominciò ad essere perseguitato in tutto l’impero con le grandi campagne messe in atto da Diocleziano, Tito, Nerone, il quale accusò i cristiani di essere responsabili del famoso rogo-incendio di Roma, che lui stesso aveva fatto appiccare. Per giustificare le efferate esecuzioni e sbarazzarsi di questa nuova forma di religiosità, Nerone non ebbe scrupoli ad addebitare ai cristiani un atto che non avevano commesso, soltanto per placare la sua coscienza ed affermare il personale potere nei confronti dei sudditi. Con la conversione di Costantino al cristianesimo, cominciò un era di pace e di libertà. Cominciarono le costruzioni delle Basiliche, e il culto era permesso alla luce del sole. Il cristianesimo a poco a poco cominciò a diventare parte strutturale della società, arrivando a permeare la vita dei fedeli in modo totalizzante. Certamente non siamo qui ad esaminare tutti gli aspetti positivi e negativi del processo storico descritto, ciò che conta e comprendere la difficoltà in cui ad esempio si trova oggi l’espansione dell’Islam, alla luce di quanto ho affermato. Ai tempi di Costantino, il potere sociale e religioso erano uniti indissolubilmente. L’imperatore era il depositario, il custode del creato, perché da Dio riceveva la potestà di governare. Dunque dalla religione partiva ogni input per regolare la vita della società. Ogni cosa era subordinata alla Bibbia, e dalla Scrittura si prendeva ispirazione per stabilire le leggi etiche e morali. Questo sistema naturalmente ha subito parecchie modifiche nel tempo, fino ad arrivare ai tempi odierni, portando dietro di se integralismi, fondamentalismi, e tante volte scelte sbagliate che hanno causato la morte di tanta gente innocente. Dobbiamo purtroppo dire che lo schema citato, ha portato a persecuzioni accanite contro i cristiani e viceversa.   Questa struttura ancora oggi è usata dall’Islam nei paesi a maggioranza musulmana. E’ il Corano con le sue leggi a determinare il corretto svolgimento della vita dei cittadini. Ogni cosa prende spunto e trae ispirazione dalla parola di Allah. Tutto ciò che non coincide con il predicato religioso islamico, deve essere abbattuto con ogni mezzo. Ogni musulmano è chiamato ad osservare il Corano, e da esso prendere spunto per la vita familiare e relazionale. Le società islamiche oggi vengono classificate in moderate e radicali. E’ una divisione che a me personalmente crea diverse perplessità e problemi. Cosa significa essere moderati? Forse non usare la violenza per convertire? Oppure cosa significa radicali? Usare la violenza come via per raggiungere la conversione degli infedeli a scapito del dialogo e della civile e pacifica convivenza con chi non accetta l’Islam? Sono domande complicate, da cui nasce la confusione e la persecuzione di cui noi oggi siamo testimoni contro i cristiani in generale e le minoranze religiose. Nei paesi musulmani, generalmente ai cristiani è riconosciuta la libertà di professare la loro fede, ma con limitazioni in alcuni paesi. In Arabia Saudita è formalmente vietata ogni religione che non sia quella musulmana; la presenza di stranieri cristiani è tacitamente tollerata, ma essi non possono in alcun modo manifestare la propria fede. Persino il possesso della Bibbia è considerato un crimine. In generale nei paesi arabi i cristiani sono oggetto, da parte della popolazione musulmana, di forme di discriminazione più o meno gravi, che negli ultimi decenni hanno portato molti di loro a emigrare o a convertirsi all’Islam. La popolazione cristiana è in calo pronunciato in tutti i paesi del Medio Oriente. La conversione di musulmani al cristianesimo è poi vista come un crimine (apostasia) e, anche nei paesi in cui la legge la consente, i convertiti sono spesso oggetto di minacce e vendette da parte della popolazione. Mentre in Occidente si combatte ogni forma di religiosità di carattere cristiano in nome di una falsa laicità aggressiva, in alcuni paesi a maggioranza islamica il percorso è inverso. I musulmani al potere cercano in tutti i modi di “islamizzare” gli stati in cui sono a maggioranza con leggi che favoriscono lo sviluppo dell’Islam, ma che penalizzano di molto le altre religioni, le quali strette nella morsa della persecuzione diventano sempre più minoritarie. In Europa la confusione ideologica porta allo smantellamento culturale, causando effetti devastanti: la costruzione di moschee, il Real Madrid ha dovuto togliere la croce della scudetto perché il maggiore azionista della squadra è diventato un famoso emiro musulmano, le continue polemiche contro l’allestimento dei presepi, l’insegnamento della religione nelle scuole, il crocifisso nelle aule pubbliche, le difficoltà relazionali in alcune città europee importanti a maggioranza musulmana che avanza silenziosa, la natalità, gli investimenti economici, fanno parte di una persecuzione precisa e metodica contro i cristiani portata avanti dai cosiddetti moderati, che pur non prevedendo il sacrificio cruento con lo spargimento del sangue, condiziona la libertà del cristianesimo in nome della tolleranza e dell’accoglienza. A questo punto possiamo fare un accenno all’epoca delle Crociate, considerate a torto come persecuzioni contro i non cristiani, ma il tempo a disposizione è poco. Contrariamente a quanto è stato affermato dai libri di storia foraggiati dai nemici del cristianesimo, -come possiamo vedere dall’immagine- (foto 1), avevano uno scopo chiaro e limpido: difendere i luoghi santi dalle invasioni islamiche. Mentre le conquiste musulmane avevano ed hanno come obiettivo la conquista dei territori, per convertire all’Islam gli infedeli, contrariamente i crociati difendevano e riconquistavano con la forza i luoghi santi. Certamente non tutto è stato rose e fiori…. Ma permettetemi di dire che bisognerebbe rivedere con onestà queste pagine di storia senza i pregiudizi di quanti avversano in tutti i modi la presenza cristiana nel mondo. I cristiani a Gerusalemme e a Nazareth sono ormai il 2 per cento, mentre la nazione con il maggior numero di cristiani resta il Libano. Se ne contano approssimativamente il 35 per cento, ma in diminuzione rispetto a qualche anno fa. “Più i cristiani lasciano il Paese, più i cristiani diventano un’esigua minoranza, più alcuni principi della modernità, come ad esempio i diritti umani, vengono a cadere”, avverte il gesuita egiziano padre Samir, esperto di questioni mediorientali. “Con la diminuzione degli elementi cristiani si fa un passo indietro nell’economia ma, ancor di più nella politica, e soprattutto in tutto ciò che è legato ai diritti umani: la situazione della donna, la libertà religiosa, la libertà tout court, il progresso sociale, i diritti sociali per i più poveri e i deboli”. Anche per questo motivo sentiamo tra i musulmani – intellettuali e non solo, politici e anche gente di media cultura – dire: “Per favore, non andatevene! Rimanete! Abbiamo vissuto insieme per secoli!”. Dal 2000 ad oggi i cristiani vittime di persecuzioni sono stati 160.000 ogni anno. Ogni 5 minuti un cristiano viene ucciso a causa della propria fede.

Don Salvatore Lazzara - Sacerdote da 17 anni, è cappellano militare all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli. Da Cappellano Militare ha svolto i seguenti incarichi: Maricentro (MM) La Spezia, Nave San Giusto con la campagna addestrativa nel Sud Est Asiatico, X° Gruppo Navale in Sinai per la missione di Pace MFO. Successivamente trasferito alla Scuola Allievi Carabinieri di Roma. Ha partecipato alla missione in Bosnia con i Carabinieri dell’MSU. Di ritorno dalla missione è stato trasferito alla Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma. Dopo l’esperienza nei Carabinieri è tornato a Palermo presso i Lanceri d’Aosta (Esercito).  Per Da Porta Sant’Anna curava inizialmente la rubrica “Al Pozzo di Sicar”; da Luglio 2014 ha assunto il ruolo di Direttore del Portale.

E poi c'è lei. Peppa Pig. Oggetto di strali dei benpensanti.

E' attualmente il cartone animato più famoso e visto al mondo, ma anche dai genitori che, in caso di stanchezza giornaliera, piazzano i figli davanti alla  tv, incantati dal maialinio super star. Ma ora Peppa Pig finisce nell'occhio del ciclone. Tutto per una presunta parolaccia pronunciata dal maialino in un nuovo episodio. E ora le mamme protestano: "Siamo scioccate". A denunciare l'episodio è Natalie, una mamma inglese di 30 anni che si è resa conto del turpiloquio di Peppa Pig dopo che la sua bambina aveva ripetuto una strana parola. L'episodio incriminato è in un DVD in cui si fa un riferimento a una band. Da "Rocking Gazzelle" diventano "Fucking Gazelle", almeno secondo quanto ha capito la mamma. "Sono scioccata", ha detto la donna al Daily Mail. "Quando ho sentito mia figlia dire certe parole l'ho rimproverata ma poi mi sono resa conto che era tutta colpa del cartone". La donna si sente responsabile e colpevole e conclude dicendo che non permetterà mai più ai suoi bambini di vedere il cartone. Anche Peppa Pig potrebbe rimanere vittima dell’elevato livello di attenzione per la prevenzione degli attentati. La simpatica maialina rosa potrebbe essere messa al bando. Le nuove linee guida della Oxford University Press, la casa editrice dell'ateneo inglese che pubblica testi scolastici e prodotti editoriali educativi. Secondo queste indicazioni c’è il divieto di pubblicazione di riferimento al maiale e alla sua carne per non offendere i musulmani e gli ebrei. L’Università è un’autorità negli ambienti culturali inglesi e, se dovessero essere accolti i suggerimenti, il cartone animato che fa impazzire i bambini di tutto il mondo potrebbe essere messo al bando. La censura dell’Università arriva subito dopo gli attentati di Parigi. Sulla questione sono intervenute perfino le comunità ebraiche e musulmane che hanno definito la vicenda un tentativo “politically correct senza senso”.

Liberateci da Peppa Pig: sta rovinando i nostri bambini, scrive di Lucia Esposito su “Libero Quotidiano”. C'era una volta Heidi che faceva "ciao" alle caprette e aiutava l'amica Clara in carrozzina, c'erano i Barbapapà animalisti ed ecologisti che ci lasciavano di stucco coi loro "barbatrucchi" e le trasformazioni più improbabili. C'era Winnie the Pooh, l'orsetto grasso che lievitava all'ombra del bosco dei cento acri bevendo ettolitri di miele ma capace di grandissimi gesti di amicizia. C'era la cagnetta Pimpa che perdeva per strada le sue macchie rosse ma che faceva la felicità del suo padrone Armando… Mai si erano visti in televisione dei maiali che ruttano senza ritegno, grugniscono in continuazione, si rotolano nel fango allegramente e che, quando ridono, si ribaltano sul pavimento sbellicandosi come idioti. Liberatemi, vi prego, dalla famiglia Pig. Qualcuno mi spieghi cosa c'è di educativo in questo cartone che sta lentamente trasformando mio figlio di tre anni in un suino. «Tu sei mamma Pig», mi dice quando si sveglia. «No, Francesco io non sono un maiale», gli rispondo piccata. Lui arriccia il naso, dice «oink» e scappa via. Quando al mattino va a scuola, si guarda attorno con la stessa attenzione con cui un bracco ungherese cerca i tartufi nel bosco e, appena intercetta una pozza d'acqua, si fionda per saltarci dentro. «Come Peppa Pig» salta e ride mentre i suoi occhi roteano come biglie per individuare un altro specchio d'acqua fangoso in cui rotolarsi come un porcellino. Inutile provare a spiegargli che i maialini sono sporchi e puzzano e che la loro casa, il porcile, è un posto lurido e nauseabondo. Lui dice che «Patata City» (la città in cui vive la maledetta famiglia Pig) è bella e pulita. Per non parlare del rutto tra una portata e l'altra, diventato la colonna sonora dei miei pasti. Davvero non so come sia capitato ma lo spirito della famiglia Pig si è impossessato di lui e viene fuori senza alcun ritegno proprio quando tutti tacciono e non si può far finta di non aver sentito. «Non si fa, i maiali lo fanno» e lui: «Ma io sono Peppa Pig». Allontanarlo dal tavolo non fa che scatenare il processo di identificazione con la famiglia di suini perché invece di piangere, invece di starsene umiliato in camera, va in bagno, prende il braccio della doccia fa cadere acqua sul pavimento e si mette a saltare nella pozza. Per chi è fuori da questo incubo perché non ha figli tra i due e gli otto anni, Peppa Pig è un cartone animato che ogni sera ipnotizza mezzo milione di bimbi. È la storia di una famiglia di maiali (mamma Pig, papà Pig, il fratellino George di due anni e la protagonista Peppa di quattro anni). I suini non vivono in un porcile ma, pur mantenendo comportamenti propri della specie, sono umanizzati. Il povero signor Pig, il padre, è un pasticcione inetto, incapace di fare qualsiasi cosa (in un episodio per piantare un chiodo, fa crollare una parete) che si fa prendere in giro dai figli senza dire un «oink» sia perché è più grasso del normale sia perché è un fallimento che cammina. Lui e sua moglie non sono in grado di dare una sola regola comportamentale ai figli e, quando ci provano, non sono credibili. Non si fanno rispettare. Peppa e George fanno quello che vogliono, inzozzano di fango la casa, rompono il pc con cui la mamma lavora. Viziati e ribelli, trasmettono ai bambini l'idea che tutti sono uguali, che la loro parola-grugnito vale quanto quella dei genitori. Vogliamo poi parlare di George? A due anni dice solo e sempre «dinosauo», attaccato come una cozza al suo peluche verde ripete ossessivamente le stesse cose da centinaia di puntate senza che nessuno (tranne Peppa Pig che lo chiama «tontolone») si faccia delle domande sull'evoluzione del linguaggio del piccolo, senza che nessuno gli spieghi che si dice «dinosauro» e gli dia qualche informazione in più sull'animale preistorico. I dialoghi sono semplici, il vocabolario basico, i personaggi ripetono sempre le stesse parole, il disegno dei cartoni è elementare, eppure i bambini sono pazzi di questi porcellini. Molti esperti dicono che Peppa Pig piace tanto perché riproduce un modello di “famiglia normale”: i genitori che vanno al lavoro, i figli affidati ai nonni, le gite della domenica, i capricci a cui non seguono punizioni... Adesso, gli psicologi avranno anche le loro ragioni ma io da un po' ho vietato al mio bimbo di vedere «Peppa Pig»: perché per me non è normale che a cena rutti con lo stesso orgoglio di chi prende dieci in pagella. Ridatemi i barbatrucchi di Barbapapà!

E poi Peppa Pig è un maiale e non è corretto parlarne in un'Italia Islamica voluta dalla sinistra contro gli italiani cattolici.

Follia islam, fatwa per fatwa. Vietati rock, calcio, cani e bici. Le scomuniche religiose possono costare la vita. Ma osservarle tutte vuol dire non vivere più, scrive Massimo M. Veronese su “Il Giornale”. Ha una fama sinistra ma la fatwa, o fatawi al plurale, in fondo, è solo un codice di comportamento quotidiano e non è obbligatorio rispettarlo. Per avere valore deve uscire dalla bocca di un'autorità religiosa, ma in troppi, hanno denunciato alcuni analisti algerini, si attribuiscono un ruolo nell'Islam e si sentono autorizzati a dettare legge a caso. Le fatawi vietano gadget, oroscopi, la riproduzione di cd e dvd. Per non dire del nuovo profumo «Victoria's Secret: Strawberries and Champagne» ritirato dal governo dagli scaffali di Doha senza bisogno di una fatwa perchè «va contro le abitudini, le tradizioni e i valori religiosi del Qatar». Ma in questi anni abbiamo visto anche di peggio.

Le palle di neve. É l'ultima in ordine di apparizione: vietato costruire pupazzi di neve in Arabia Saudita, fatwa dell'imam Mohammad Saleh Al Minjed. Dice che realizzare uomini o animali di neve è contrario all'Islam. Unica eccezione, riporta Gulf News , i pupazzi di neve raffiguranti soggetti inanimati cioè navi, frutta o case. La reazione però è stata piuttosto gelida.

I pokemon. Pikachu, Meowih, Bulbasaur, sono stati accusati di complotto giudaico-massonico, e messi al bando dallo sceicco saudita Yusuf al-Qaradawi, ideologo dei Fratelli musulmani. Vietata la loro vendita in tutta l'Arabia Saudita. I Pokemon, sentenzia la fatwa, si sono coalizzati per far diventare ebrei i musulmani. Bastasse un cartoon.

I tatuaggi. Fresca anche questa. La Direzione Affari Religiosi di Turchia guidata dal Gran Mufti Mehmet Gormez, principale autorità religiosa islamica del paese, ha emesso una fatwa contro i tatuaggi: «Allah ha maledetto coloro che cambiano il loro aspetto creato da Dio». Spacciati Materazzi e Belen.

Il calcio. La fatwa dello sceicco Abdallah Al Najdi si basa sul principio che vieta ai musulmani di imitare cristiani ed ebrei. Si può giocare ma con regole diverse: niente linee bianche in campo, niente squadre di 11 giocatori, porte senza traverse, chi grida gol va espulso e niente arbitro perchè superfluo. Come del resto nel nostro campionato...

I croissant. Ad Aleppo una commissione sulla sharia ha emanato un editto religioso contro il consumo di croissant, considerati il simbolo della colonizzazione dell'Occidente. Il babà invece va bene ma solo se si chiama alì...

La chat. Chi chatta online attraverso i social network con persone dell'altro sesso commette peccato. Lo stabilisce la fatwa dello sceicco Abdullah al-Mutlaq, membro della Commissione saudita degli studiosi islamici. Poi hanno fatto retromarcia: si riferiva a un caso isolato da non generalizzare. Non mi piace.

Il rock. L'ha decisa in Malaysia la Commissione del consiglio per gli affari islamici secondo la quale la musica rock va spenta perché fa male allo spirito. E c'è una variante, il black metal, che essendo dominata dall'immaginario occulto, ha il potere di traviare e stravolgere le anime dei giovani musulmani. Il liscio non si sa.

Il sesso. Fare l'amore si può. Ma non nudi. «Esserlo durante l'atto sessuale invalida il matrimonio» la fatwa imposta dallo sceicco Rashar Hassan Khalil. Non tutti sono d'accordo. Il presidente del comitato delle fatwa di alAzhar, Abdullah Megawer, ha corretto, come si suol dire, il tiro: nudità ammesse, ma a patto che i partner non si guardino.

La bicicletta. A lanciarla è stata la guida suprema della Repubblica islamica, l'ayatollah Ali Khamenei in persona: proibisce nel modo più assoluto la bici alle donne iraniane.

Il cane. Nonostante sia per l'Islam un animale impuro, il cane è molto diffuso come animale domestico in Iran. Così il grande ayatollah Nasser Makarem-Shirazi ha emesso la sua fatwa: «Non c'è dubbio che il cane sia un animale immondo». Pur ammettendo che il Corano non dice nulla in proposito. E allora?

Lo yoga. Oltre 10 milioni di persone hanno partecipano in India a una lezione di massa di yoga per il Guinness dei Primati. La cosa però non è piaciuta ai vertici religiosi musulmani di Bhopal che hanno lanciato una fatwa per condannare l'esercizio come «antislamico» e «pagano» per il riferimento al dio Surya.

La festa di compleanno. Celebrare compleanni e anniversari di nozze non può avere spazio nell'Islam. Lo dice il Gran Muftì dell'Arabia Saudita, Sheikh Abdul Aziz Al-Alsheikh. «Un musulmano dovrebbe solo ringraziare Allah se i suoi figli stanno bene e se la sua vita matrimoniale è buona». Le classiche nozze con i fichi secchi.

L'eclisse. Una fatwa lanciata dal gran mufti d'Egitto proibisce ai musulmani di osservare l'eclissi. «Mette in pericolo la vista dell'essere umano e poiché l'islam proibisce all'uomo di mettere in pericolo la sua vita è peccato guardare l'eclisse». E con questa siamo al buio pesto.

La sinistra tace sulla mercificazione dei bambini.

Nuovo video shock Isis, bambino spara ai prigionieri. Ragazzino di 10 anni giustizia due uomini, scrive Benedetta Guerrera su “L’Ansa”. Non c'è limite all'orrore jihadista: dopo le bambine kamikaze in Nigeria, costrette dai terroristi di Boko Haram a farsi saltare in aria imbottite di esplosivo, un nuovo terribile video dell'Isis mostra un ragazzino che impugna una pistola e fredda due ostaggi come un boia consumato. Immagini scioccanti, che dimostrano come la follia del terrore non si fermi più davanti a nulla. Nei nuovi otto minuti di orrore, pubblicati sui siti jihadisti e rilanciati dal Site (il sito Usa di monitoraggio dell'estremismo islamico sul web), la scena è simile a tante altre diffuse in questi mesi di atroce propaganda da parte degli assassini dell'Isis. Solo che in questo caso, il boia ha il volto pulito di un bambino che non avrà neanche 10 anni. "L'Isis ha raggiunto un nuovo livello di depravazione morale: usano un bambino per giustiziare i loro prigionieri", ha commentato postando un fermo immagine del video sul suo account Twitter Rita Katz, la direttrice del Site. Le vittime vengono presentate come due kazaki, di 38 e 30 anni, accusati di essere "spie russe". Prima della loro esecuzione i due confessano di essere "agenti del Fsb", i servizi russi, inviati in Siria per raccogliere informazioni sui jihadisti e soprattutto sui 'foreign fighter' russi. Dalle parole delle due spie si evince che sono stati in Turchia sulle tracce di qualche 'pezzo grosso' dell'Isis, il cui nome è però omesso. Il più giovane dei due 'rivela' anche di essere stato reclutato per uccidere "un leader dello Stato islamico". Il filmato, intitolato "Uncovering the enemy within" (Scoprire il nemico interno) e targato al Hayat media center - la 'casa di produzione' dello Stato Islamico - è di ottima qualità e ha un montaggio quasi cinematografico. Al momento dell'esecuzione ad opera del bambino, i due uomini appaiono inginocchiati a terra e hanno le mani legate dietro la schiena. Non indossano la tradizionale tuta arancione dei prigionieri di Guantanamo, che di solito i jihadisti fanno mettere agli ostaggi occidentali, ma una divisa azzurra. Alle spalle dei due condannati ci sono il ragazzino armato di pistola e un terrorista con la barba lunga e il kalashnikov che parla in russo. E' lui che spinge il bambino verso le sue vittime. Proprio a questo punto, quasi a voler enfatizzare il momento, le immagini vengono trasmesse al rallentatore e con un gioco di dissolvenze, mentre il terrorista ripete le ennesime minacce ai "nemici di Allah": il ragazzino, che ha un vistoso orologio al polso e indossa una felpa nera e pantaloni mimetici come il suo 'superiore', solleva la pistola e spara un colpo alla testa di ciascuno dei due prigionieri. Un colpo secco, sulla nuca, con incredibile freddezza. I due cadono a terra, il ragazzino si avvicina e ne finisce uno con altri due spari. Poi solleva il braccio con la pistola in segno di vittoria e sorride. Un video agghiacciante, che potrebbe essere una squallida messa in scena, costruita ad arte dai jihadisti dell'Isis, abili comunicatori del terrore. Nonostante le due vittime vengano colpite alla testa infatti, non si vede il proiettile uscire, né il sangue sgorgare dalla nuca o dal collo. Ma sono immagini che comunque lasciano sgomenti. Anche perché subito dopo la sequenza dell'uccisione parte il frammento di un altro video che era già stato pubblicato dall'Isis a novembre in cui lo stesso ragazzino appare in un gruppo di bambini kazaki che si addestrano a usare i kalashnikov. "Sarò uno di quelli che vi sgozzerà, kafiri", diceva il ragazzino. Anche in quel caso il filmato era scioccante, quasi irreale. Una ventina di bambini che smontavano e riassemblavano kalashnikov e poi miravano inginocchiati ai loro bersagli. "Sono la nuova generazione, saranno loro che scuoteranno la Terra", recitava una voce fuori campo.

Quanti sono i bambini soldato nel mondo. Il report redatto dall'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite prende in esame i paesi dove è stata confermato l'utilizzo di minori arruolati sia dalle forze governative che da altri gruppi armati, e riporta i dati, ove ci sono, dei nuovi reclutamenti confermati nel 2013, scrive Cristina Da Rold su “L’Espresso” Il fenomeno dei bambini soldato pesa sempre di più, ma non si può contare. Le stime riportate da Amnesty International parlano di 300 mila bambini coinvolti in conflitti armati nel mondo, il 40% dei quali sarebbero bambine. L'Onu ne stima 250 mila. Se si cerca di definire con maggior dettaglio i contorni del fenomeno, il profilo diventa infatti subito sfumato. UNICEF, Human Right Watch, Child Soldier International, Amnesty International, le Nazioni Unite e molte altre realtà che si occupano di salvaguardare le condizioni dei minori nelle aree colpite dalla guerra, riportano la presenza ancora oggi come cinquant'anni fa, di bambini soldato, maschi e femmine, in molti paesi del mondo, dall'Africa al Sud America, al Medio Oriente. Secondo le stime UNICEF per esempio sarebbero 9000 i bambini soldato coinvolti in Sud Sudan, 2500 in India e addirittura 10000 quelli che avrebbero abbracciato le armi nella Repubblica Centrafricana. Tuttavia non ci sono dati certi e le stime spesso divergono di molto fra di loro, soprattutto in ragione della fluidità del fenomeno. Ogni anno infatti vengono effettuati numerosi raid fra la popolazione civile, più o meno noti alle milizie internazionali, dove vengono reclutati nuovi bambini da inserire nelle file degli eserciti, governativi e non. Al tempo stesso però altri vengono sottratti alle forze armate grazie all'azione di realtà come le Nazioni Unite. Il bilancio è dunque difficile. Il punto di riferimento più recente e più dettagliato in questo senso è un Report redatto dall'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite Children and armed conflict, che prende in esame i paesi dove è stata confermato l'utilizzo di bambini soldato sia dalle forze governative che da altri gruppi armati, e riporta i dati, ove ci sono, dei nuovi reclutamenti confermati nel 2013. Come emerge dalla mappa però, solo per una parte di questi paesi, quelli evidenziati in rosso, le Nazioni Unite sono in grado di fornire dei numeri. Per gli altri, quelli colorati in nero, la presenza di bambini soldato per quanto accertata, non è quantificata con esattezza.

Armi giocattolo e fiabe sui martiri, niente tv. Ecco come si educa un bambino al jihad. Nel manuale per la donna jihadista, i consigli pratici per diventare la mamma perfetta. E insegnare ai figli ad essere «combattenti e ad avere paura solo di Allah: la chiave è iniziare a istillare questi valori quando sono ancora piccoli», scrive Daniele Castellani Perelli “L’Espresso”. Niente tv. Sì a pistole giocattolo e freccette. E prima di andare a nanna una bella favola sul jihad. Queste sono solo alcune delle regole che deve seguire una mamma perfetta per educare un piccolo jihadista. Il testo è uno di quelli per cui un mese fa Runa Khan, una donna di Luton, mamma di 6 bambini, è stata condannata in Inghilterra a cinque anni per aver incitato su Facebook al terrorismo. Fa parte di un vero manuale per la donna jihadista, chiamato “Il ruolo della Sorella nel Jihad”. Ma la sezione più interessante è sicuramente quella dedicata all'educazione dei bambini, una specie di “Emilio” rousseauiano pensato per il jihad. Lo è alla luce del ruolo centrale che i bambini sembrano avere nella strategia e nella propaganda dei terroristi islamici, quasi fossero impegnati nella costruzione di un uomo nuovo, fin dai primi anni. Lo confermano ora due notizie macabre degli ultimi giorni: il video del bambino kazako che, puntando una pistola, ucciderebbe per lo Stato Islamico due presunte spie russe e poi festeggia il suo gesto (in realtà dal video non è dmostrato che sia stato lui a ucciderli), e l'uso di almeno una bambina ricoperta di esplosivo per degli attentati compiuti da parte dell'organizzazione nigeriana Boko Haram. Ma già in precedenza erano note le tante foto di bambini vestiti con i simboli dell'Isis che circolano da tempo su Twitter e gli altri social media, tra cui quelle del britannico Siddhartha Dhar in posa con neonato e fucile, ma anche quella di Ismail, di Longarone, in Veneto, che il padre Ismar Mesinovic ha portato con sé in guerra strappandolo alla madre cubana. Alla stessa Runa Khan, 35 anni, sono state trovate foto dei figli con pistole e spade, ma aveva anche indicato dettagli del modo in cui raggiungere la guerra in Siria dall'Inghilterra e su un sito per estremisti si era augurata che un giorno suo figlio diventasse un jihadista. Il manuale era già noto da qualche anno agli specialisti, ma secondo l'istituto americano Memri (Middle East Media Research Institute) ora è tornato particolarmente in auge proprio per l'Isis. Lo dimostra lo stesso caso di Runa Khan, che quel testo l'ha pubblicato su Facebook nel settembre del 2013. Ma cosa dice esattamente il manuale? Nel capitolo “Come educare bambini mujahid (combattente nel jihad, ndr)” si descrive questo compito come «forse il più importante per le donne». Si deve insegnare ai bambini, che siano maschi o femmine, «ad avere paura solo di Allah»: «La chiave è iniziare a istillare questi valori quando sono ancora piccoli. Non aspettate che raggiungano i sette anni, potrebbe essere troppo tardi!». Poi ecco i consigli: «Racconta loro storie della buonanotte che parlino dei martiri e dei mujahideen. Sottolinea che non devono colpire i musulmani, anzi perdonarli, e che devono esprimere la loro rabbia sui nemici di Allah che combattono contro i musulmani. Magari crea un surrogato di nemico, ad esempio un sacco da colpire, e incoraggia i bambini, specialmente i maschi, a usarlo, a costruire la propria forza così come a imparare a controllarsi e a saper dirigere la propria rabbia». E per quanto riguarda lo svago? «Elimina se puoi completamente la tv, che perlopiù insegna cose senza vergogna, anarchia e violenza casuale. Inoltre la tv instilla pigrizia e passività, e contribuisce a un abbandono mentale e fisico. Se non puoi proprio eliminarla, usala per video che trasmettano l'amore per Allah e per il jihad. Ce ne sono alcuni anche sull'addestramento militare». Per i videogiochi il discorso è simile. Meglio di no, ma se proprio non può farne a meno allora sì a quelli militari. Il manuale invita poi a comparare «queste caratteristiche con gli aspetti salutari del gioco e dello sport, da cui può trarre beneficio in termini di disciplina e forza fisica». Qualche esempio? Il tiro al bersaglio con armi giocattolo, il tiro con l'arco e le freccette, «che permettono di sviluppare un buon coordinamento mano-occhio», e giochi militari che siano divertenti. Quanto agli sport, sì a arti marziali, nuoto, equitazione, ginnastica, sci, e poi altre attività come la guida di veicoli, l'orientamento nei boschi, il campeggio e l'addestramento per la sopravvivenza. Ci sono anche consigli di lettura, ovvero libri militari («meglio se con le figure») e siti web, il tutto già a partire da quando il bambino ha «due anni o anche meno»: «Non sottovalutate l'effetto duraturo di ciò che quelle piccole orecchie e quei piccoli occhi possono assimilare nei primi anni di vita!». Il manuale ricorda che «i bambini imitano quello che fanno gli adulti», e invita a iniziare sin dai primi anni perché così «non affronteranno poi battaglie interne quando diventeranno più grandi e saranno più coinvolti nel mondo». Ma a giudicare dalle notizie degli ultimi giorni bisogna dire che questo è un testo a suo modo moderato, laddove ad esempio raccomanda di non tenere le armi vere alla portata dei bambini, e di non usarle davanti a loro, oppure di non uccidere altri musulmani. Vuol dire che Isis e Boko Haram hanno alzato ancora più in là l'asticella. È la conferma che il jihadista di oggi è ancora più spietato di quello di ieri. È una nuova generazione.

Non solo apologia dell'Islam, ma anche tentativo di resuscitare una ideologia morta in nome di una falsa tolleranza.

I partigiani e la lezione di comunismo alle elementari. In Romagna l'Anpi celebra il Pci in un libro per le elementari. E le famiglie romene insorgono, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Papà cosa vuol dire "utero in affitto"?». Domande che ti vengono, all'età di dieci anni, solo se ti capita di leggere di femminismo, comunismo, guerra partigiana e D'Alema, in un libretto gentilmente donato dall'Anpi locale alle scuole elementari di Cervia, nella rossa Romagna, nel corso di una serie di lezioni. L'autore del librettino è Giampietro Lippi, presidente dell'Associazione nazionale partigiani a Cervia, «esponente del Pd» secondo un genitore di una delle scuole coinvolte, Raffaele Molinari, che sul suo blog denuncia l'«indottrinamento di partito» a spese dei bambini. Nel libretto distribuito nelle classi di quinta elementare, nel corso di vari incontri a scuola, non si rievocherebbe solo la storia dei partigiani e delle staffette, perché «tutte le storie sono raccontate per rendere idilliaco il ricordo del Pci, con innumerevoli note dove si citano personaggi del grande Partito comunista, le immagini col pugno alzato... Insomma comunismo ovunque», lamenta Molinari. Il quale riporta alcuni passi del libretto per rendere meglio l'idea: «Ho incontrato allora tanta brava gente. Tra i tanti, uno che ricordo con stima e simpatia, era il padre del nostro D'Alema, che aveva come nome di battaglia "Braccio"». O anche quest'altro: «Le portava l'Unità , perché la leggesse e incominciasse ad interessarsi alle cose vere della vita, ed Anna poco alla volta capì che era importante scegliere il fronte politico con il quale accasarsi e scelse il Pci». I genitori hanno chiesto spiegazioni alla scuola: «Dalle informazioni raccolte in un colloquio con la maestra - spiega Molinari - è risultato che Lippi è stato autorizzato ufficiosamente dalla direzione didattica di Cervia. Non una visita occasionale, ma un vero e proprio programma di lezioni, per tre settimane. Una sorta di arruolamento in vista del settantesimo anno della liberazione di Cervia». Il presidente dell'Anpi di Cervia, invece, è sconcertato dalle accuse: «Assurde, fuori luogo, senza senso - ci spiega al telefono - Io non faccio politica, racconto la storia, se le staffette partigiane erano comuniste o socialiste cosa devo farci, nasconderlo? Io sono un ex democristiano, si figuri, anche se adesso sì, sono iscritto al Pd. Questa iniziativa nelle scuole è nata insieme all'amministrazione comunale (guidata dal Pd, ndr ) e alla direzione didattica, per coinvolgere le scuole nel settantesimo anniversario della Liberazione a Cervia. C'è una bella differenza tra fare propaganda di partito e parlare delle staffette partigiane! Sono sconcertato dal livello culturale di certa gente, non meravigliamoci se l'Italia va male». I più arrabbiati per la sua iniziativa sono i genitori immigrati dall'Europa dell'Est, che del comunismo hanno un ricordo più vivo. Sui cancelli della scuola hanno appeso dei cartelli: «No al comunismo nelle scuole», «Il comunismo rovina i nostri figli», in romeno e altre lingue slave. E, mentre si parla di denunce partite all'indirizzo del presidente Anpi, oggi i genitori inscenano un corteo silenzioso nel centro della città: «In piedi, senza schiamazzi, senza rumore, reggendo in mano un libro di storia come segno della nostra protesta».

"Sì agli immigrati, convinci un leghista". Così la scuola indottrina i nostri figli. Bufera per il tema assegnato da un insegnante agli allievi di una scuola vicentina. Il Carroccio: "È inaccettabile", scrive Giovanni Masini su “Il Giornale”. Un clamoroso caso di indottrinamento politico: è questa l'accusa con cui la Lega Nord del Veneto si scaglia contro un insegnante dell'istituto "Ceccato" di Thiene, in provincia di Vicenza, reo di aver assegnato agli studenti un tema dal titolo "Persuadi un tuo compagno leghista che l'immigrazione non è un problema bensì una risorsa". In difesa del Carroccio si è levata l'europarlamentare Mara Bizzotto, che della Lega è anche vicepresidente regionale: "Quanto successo all'istituto Ceccato è molto grave e conferma come esistano purtroppo insegnanti che mischiano, in modo scorretto e inaccettabile, i propri convincimenti politici con l'insegnamento - continua l'onorevole Bizzotto - La scuola dovrebbe essere un luogo di libertà e una palestra di educazione e di vita, non un luogo di indottrinamento politico secondo i convincimenti politici del professore di turno". "Bene hanno fatto i genitori e gli studenti che hanno segnalato questo grave comportamento da parte dell'insegnante che, mi auguro, sarà severamente ripreso dagli organi competenti - conclude la Bizzotto - I nostri ragazzi hanno bisogno di una scuola che insegni, che funzioni e che svolga il proprio ruolo: i professori che vogliono far comizi o proselitismi politici li devono fare rigorosamente fuori dalle classi e fuori dalle scuole!". L'episodio risale a qualche giorno prima delle ferie natalizie. "Un professore si permette - ha rincarato la dose il consigliere regionale leghista Nicola Finco - di dare giudizi politici in classe su un partito come se il problema in questi giorni non fosse l'islam; nel frattempo i benpensanti radical chic di sinistra si scandalizzano perchè l'assessore regionale all'Istruzione scrive alle scuole affinchè in classe si tratti del problema del terrorismo islamico che è solo e unicamente cronaca".

Tema: «Immigrati sono una risorsa convinci un tuo compagno leghista». La bufera sulla traccia assegnata agli studenti dell'istituto Ceccato di Thiene. Salvini: «Pazzesco». L’europarlamentare Fontana: Pd regali tessera al prof, scrive Elfrida Ragazzo su “Il Corriere della Sera”. La parola «leghista» nel testo di un’esercitazione di italiano scatena la polemica. A sollevarla è il Carroccio attraverso Michele Pesavento, della segreteria politica del partito di Vicenza. Sotto accusa è una traccia per un esercizio di argomentazione proposto da un’insegnante di lettere agli alunni di una classe terza dell’istituto tecnico Ceccato di Thiene. «Dopo aver preso in considerazione i dati sull’immigrazione in Italia e dopo aver letto l’articolo – si legge nel documento diffuso - scrivi un testo argomentativo in cui persuadi un tuo compagno leghista che il fenomeno migratorio non è un problema, bensì una risorsa». Venuto a conoscenza dell’accaduto da alcuni genitori, Pesavento attacca: «Quella traccia è offensiva e razzista, l’insegnante di lettere ha trasformato quell’aula in un “pensatoio politico”». Ed invita il preside a «vigilare su chi ha confuso l’istituto Ceccato con una tribuna elettorale» e la docente in questione «a lasciare a casa tessera e ideologie politiche». Interviene anche il segretario federale della Lega Matteo Salvini: «Pazzesco!», Scrive in un tweet. Il consigliere regionale della Lega Nord Nicola Finco ricorda il caso sollevato da lui stesso sulla presenza dell’eurodeputata Alessandra Moretti, candidata alle elezioni regionali venete per il Pd, ad una festa di un istituto comprensivo di Arzignano prima di Natale. «Basta con la politica in classe. Le aule scolastiche non sono circoli del Partito democratico o della sinistra, serve rispetto – dice – Altrimenti i veri fondamentalisti non sono i leghisti, bensì certi professori di cui si può fare volentieri a meno. Invece di preoccuparsi di leghisti da persuadere, il docente potrebbe spiegare ai ragazzi cosa accade nel mondo in queste ore». L’europarlamentare della Lega Nord Lorenzo Fontana commenta sarcastico il caso di Thiene, Fontana chiosa serio: «La scuola è luogo di istruzione e formazione, non di propaganda politica, anche se è noto come sia un vizio storico della sinistra metterci becco. E poi quel professore dà per scontato l’assunto che l’immigrazione è una risorsa. E se un alunno non la pensasse così che succede? Mi piacerebbe conoscere i metodi di questo prof». E conclude: «Quel professore se proprio ha la fregola della politica può sempre iscriversi al Pd, sempre che non lo sia già. Ma fossi del Partito democratico gli regalerei la tessera. Motivazione: alti servigi al partito e alla causa della sinistra».

«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri).

"La scuola italiana in tutti i suoi gradi e i suoi insegnamenti si ispiri alle idealità del Fascismo, educhi la gioventù italiana a comprendere il Fascismo, a nobilitarsi nel e a vivere nel clima storico creato dalla Rivoluzione fascista". Benito Mussolini. Il fascismo, fin dai primi anni in cui prese il potere si preoccupò di rafforzare le proprie basi ideologiche e il consenso sociale. Uno dei mezzi utilizzati era l'indottrinamento ideologico a partire dalla scuola. Dal neo-governo fascista venne, infatti, approvata la Riforma Gentile che proponeva una nuova forma di organizzazione scolastica, con l'introduzione dell'Esame di Maturità e la Religione come materia obbligatoria. Il partito si preoccupò anche di garantire un'impostazione dei vari programmi secondo un criterio nettamente di parte, introducendo testi scolastici come il noto libro di testo unico per le Elementari. All'organizzazione scolastica si aggiungevano varie forme di indottrinamento legate soprattutto all'attività fisica e alle parate.

Poi le cose son cambiate. E’ nato l’indottrinamento comunista e di sinistra in generale.

Scrive Giorgio Israel. Un ragazzino di 13 anni mi dice di detestare la letteratura. Il suo sguardo scettico, mentre gli vanto la bellezza dei classici e gli parlo della Divina Commedia, mi spinge a una sfida temeraria: «Te ne leggo un canto». Procedo temerariamente, aspettandomi sbadigli e il rigetto finale condito del tipico insofferente sarcasmo adolescenziale. E invece funziona. Tanto funziona che il ragazzino mi chiede se non potremmo fare altri incontri e continuare, e poi chiede: «Ma perché a scuola non ci fanno leggere testi così? Guarda invece cosa mi è toccato in questi giorni». È un brano di Gino Strada sugli “effetti collaterali delle guerre”. Lo leggo tutto e non ha niente di letterariamente valido: è una predica ideologica noiosa scritta in modesto italiano. Colgo l’occasione per sfogliare l’antologia del ragazzino: c’è da restare a bocca aperta. Al brano di Strada seguono due pagine di “competenze di lettura” dove l’alunno deve mostrare di aver capito il testo apponendo crocette nelle caselle giuste. Seguono pagine di indottrinamento sotto il titolo “che cosa succede nei paesi dove c’è la guerra”; poi ancora competenze di lettura e scrittura “contro la guerra”, per finire con una pagina incredibile. Contiene una serie di immagini, per lo più banali o stucchevoli, come quella di un gruppo di bambini a cavalcioni su un cannone, e prescrive il seguente compito: «osserva i cartelli contro la guerra, poi scrivi per ognuno una frase-slogan»…

Come la dobbiamo chiamare? Competenza di manifestazione di piazza? È finita qui?

Niente affatto. Seguono le “competenze grammaticali”, in cui l’alunno è invitato a mostrare di saper far uso della locuzione “sarebbe meglio”: riempi lo spazio con i puntini nella frase «Invece di fare la guerra, sarebbe meglio…», e così via. Seguono le “competenze di cittadinanza attiva”, in cui l’alunno deve dar prova di aver assimilato i concetti di conflitto, guerra e pace, costruendo una “mappa concettuale” sul tema. E, come se non bastasse, l’acme di un tormentone di decine di pagine è una “verifica di fine unità” e… una prova Invalsi. Non capisco in base a quale diritto la scuola pretenda di indottrinare i ragazzi all’idea che tutte le guerre siano egualmente sporche. Dovrei forse accettare che i miei figli considerino la guerra di liberazione dal nazifascismo – grazie alla quale sono potuti venire al mondo – alla stregua della guerra scatenata dalle armate hitleriane? Non saprei immaginare una prepotenza più oscena. Ma andiamo avanti. Ometto di fare un elenco completo degli autori che popolano l’antologia, per non offendere nessuno, anche se credo che né Jovanotti né Luciano Violante abbiano mai compreso nelle loro aspirazioni quella di competere con Tolstoj e Pirandello. Consiglio di sfogliare alcune delle antologie che circolano nelle nostre scuole per constatare che ormai questa è la concezione della letteratura che le ispira. E pongo alcune semplici domande.

Qualcuno può davvero seriamente pensare che questo sia un modo valido per instillare l’interesse per la letteratura, per la lettura, per la scrittura? Non è giunto il momento di interrogarsi seriamente sulla deriva che sta prendendo la funzione istituzionale dell’istruzione?

L’attuale dibattito sulla vicenda della lettura del romanzo di Melania Mazzucco in un liceo romano è tutto centrato attorno al dilemma se sia giusto o no scegliere dei testi adatti a combattere le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere o se tale scelta sia mera pornografia. Pare che per molti, inclusi alcuni dirigenti scolastici e insegnanti, la funzione della scuola sia ormai meramente ideologica. Si dirà che Melania Mazzucco è una vera scrittrice a differenza di Strada ma, la vera questione è se, a fronte del panorama sterminato di letteratura di livello indiscutibilmente alto, e con cui si potrebbero riempire decine di antologie, si preferisce cancellare Leopardi a vantaggio di testi il cui unico indiscutibile merito è di avere una funzione ideologica. Le denunce legali, che finiranno puntualmente nel nulla, sono un’azione senza senso. È più appropriato denunciare (in termini non legali) la deriva di una scuola che sta rinunciando all’educazione al bello, e la guarda con sarcasmo come se fosse orpello di altri tempi; che rinuncia ad appassionare i ragazzi al piacere di leggere prose e poesie di valore universale, a discuterli in classe senza questionari di competenze e senza pagine pieni di imbecilli quesiti a crocette; lasciando che la determinazione di posizioni su temi come il sesso, la famiglia, la guerra o l’ambiente, sia conseguenza della formazione libera di una personalità strutturata sull’amore per la conoscenza, la cultura, la bellezza artistica in tutte le sue forme. La scuola non dovrebbe impicciarsi di imbastire “lotte” contro questo o quello, di educare a pensare in questo o quel modo, di insegnare a compilare cartelli da portare in piazza, selezionando la letteratura su questi criteri. Perché, così facendo, la sua funzione educativa si trasforma in ciò che vi è di più brutto: l’indottrinamento ideologico. Brutto e diseducativo, perché è caratteristico delle società totalitarie e come tale stimola le peggiori forme di intolleranza.

Non potrò mai dimenticare che, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, Alberto Lecco, un grande romanziere dimenticato – dal cui capolavoro “Anteguerra” si potrebbero trarre brani antologici ben più validi di quelli che vengono propinati – fece questo commento: «Il comunismo finito? Comincia solo adesso…». Aveva ragione. Il comunismo dei soviet, dei comitati centrali e delle commissioni centrali di controllo è finito da un pezzo. Ma il comunismo come costruttivismo sociale, come aspirazione a una società basata sull’indottrinamento ideologico, è più vivo che mai, metastatizzato nella forma del “politicamente corretto” che, sotto la veste di una bontà ipocrita e falsa, propina incessantemente le prescrizioni soffocanti di un conformismo sociale costruito a tavolino, in cui non c’è più spazio per il libero sviluppo della personalità.

L’intellighenzia sinistra non finisce mai di stupire, scrive “Il Fazioso”. Certi professoroni dei nostri licei, dopo l’abituale giro in sezione, si impegnano al massimo per trovare occasioni per fare della sana propaganda nelle scuole. E sono veramente fantasiosi se per il loro scopo piazzano a tradimento persino delle versioni di latino contro Berlusconi. Ora la prof mattacchiona tenta di difendersi in ogni modo, spiegando l’alta importanza didattica della versione. Il preside difende la docente parlando di tentativo di incuriosire gli studenti con l’attualità, ovviamente nessuno ha pensato all’opportunità di una versione palesemente contro il premier. Ma che sarà mai? Ci spiegheranno che non c’è dietrologia politica ma piuttosto educazione d’avanguardia. Il prossimo passo è portare Berlusconi nella matematica con qualche problema sul suo patrimonio finanziario (ovviamente condito da qualche passaggio denigratorio). Quanto sono furbi questi sinistri.

Istruzione o Indottrinamento? Si chiede David Icke su “Crepa nel Muro”. La "istruzione" esiste allo scopo di programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo in una realtà che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di subordinazione, di mentalità del non posso, e del non puoi, perché è questo ciò che il sistema vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio viaggio verso la tomba o il crematorio. Ciò che noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la soffoca. Così come disse Albert Einstein, “l’unica cosa che interferisce con il mio apprendimento, è la mia istruzione.” Egli disse anche che "la istruzione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto quanto si è imparato a scuola." Perché i genitori sono orgogliosi nel vedere che i loro figli ricevono degli attestati di profitto per aver detto al sistema esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto dicendo che le persone non debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo parlando di libertà – noi dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a quelle del sistema. C’è anche da riflettere sul fatto che i politici, i funzionari del governo e ancora giornalisti, scienziati, dottori, avvocati, giudici, capitani di industria e altri che amministrano o servono il sistema, invariabilmente sono passati attraverso la stessa macchina creatrice di menti (per l’indottrinamento), cioè la università. Triste a dirsi. Molto spesso si crede che la intelligenza e il passare degli esami siano la stessa cosa ... Una sera mi trovavo in discoteca, e la pista da ballo era vuota perché il DJ aveva messo su della musica che le persone non volevano ascoltare. Questo insopportabile egocentrico si rifiutò di cambiarla, e io chiesi se fosse una scelta così intelligente, date le circostanze. Quello si indignò. Aveva la prova di essere intelligente, avendo un diploma! Che ridere. La intelligenza fondamentalmente consiste nel rendersi conto che le persone non ballano perché la musica fa schifo, e nel mettere al suo posto qualcosa che piaccia; un diploma consiste nel dire al sistema ciò che esso ti ha detto di dire. Cosa c’è di intelligente in questo? Il sistema relativo alla istruzione, o Programma di Distribuzione Automatico di Salsicce è parte essenziale dello ipnotismo sistemico. Il programma della istruzione è organizzato in modo sistematico con tre principali obiettivi:

1 – Impiantare nella realtà un convincimento in linea con la illusione della Matrice. Questo è abbastanza semplice. Non devi fare altro che offrire agli studenti la versione ufficiale della scienza, della storia, della religione e del mondo in generale. Questo viene fatto programmando gli insegnanti attraverso la scuola, la università e la facoltà di magistero; poi li si manda fuori a programmare la generazione successiva con le stesse fesserie che è stato detto loro di insegnare e di credere. Come disse Oscar Wilde: “Quasi tutte le persone sono altre persone. I loro pensieri sono le opinioni di qualcun altro, le loro esistenze una parodia, le loro passioni una citazione.” La maggior parte degli insegnanti, come anche dei medici, degli scienziati, della gente del mondo della informazione, e così via,è ciò che il mio amico Mark Lambert definisce ‘i ripetitori’. Essi non fanno che ripetere ciò che qualcun altro ha detto loro, invece di accedere attraverso la coscienza alla propria verità. Si tratta di una realtà di seconda mano. Il procedimento è simile a quello dello scaricamento di informazioni su disco (insegnante) seguito dalla sua riproduzione in un gran numero di copie (ragazzi e studenti). Nell’ambito di scuole e istituti superiori si ha il permesso di discutere poco o nulla che esuli da questa versione convenzionale della vita, e i punti di riferimento alternativi dai quali osservare questa realtà indottrinata da una altra prospettiva sono scarsi, sempre ammesso che ve ne siano. I ragazzi passano attraverso questo distributore automatico mentale e nel frattempo vivono con adulti (altri ripetitori) che hanno già assorbito la stessa programmazione, e in più guardano mezzi di informazione (altri ripetitori) che ripete a pappagallo la stessa storia ‘ufficiale.’ Non c’è da meravigliarsi se i ragazzi credono che la illusione sia reale quando ogni fonte di ‘informazione’ dice loro che è così.

2 – Trasformare i ragazzi in robot che seguano gli ordini dell'insegnante (sistema). Ciò richiede il Programma del Bastone e della Carota. Si rende molto più facile ai ragazzi la accettazione del volere degli insegnanti (personificazione del sistema), piuttosto che il mettere in discussione la autorità ed i concetti in cui essi dicono di credere. Ricompensa uno e punisci l’altro. "Fa come ti dico e credi a ciò che ti racconto" viene instillato fin dalla più tenera età in quello indottrinamento che chiamiamo scuola, istituto superiore e università. Gli esami rappresentano il sistema che richiede di sentirsi dire ciò che ti hanno detto che devi pensare. Sono la prova che conferma se un download sia andato o meno a buon fine. Quando fate il download di qualcosa su un computer, appare un piccolo box con la scritta: "Vuoi aprire questo file adesso?" Voi lo aprite per assicurarvi che i dati siano stati scaricati correttamente. E’ questo che sono gli esami. I bambini indipendenti, che rifiutano il download, vengono considerati una influenza distruttiva. Avete notato che – mentre possono esserci disaccordi su come si insegna ai ragazzi – raramente vi sono discussioni su cosa viene loro insegnato? Questo perché la Matrice ha una tale presa sulla realtà umana che il cosa venga insegnato è accettato pressoché universalmente. In verità, se le scuole introducessero corsi sulla spiritualità in relazione alla Unità di tutto e alla illusione della forma, i genitori controllati dal Programma Divino protesterebbero furiosamente contro questa offesa alla loro fede cristiana, islamica, ebraica, ecc. ai bambini non solo viene somministrato del veleno per bocca, ma anche attraverso la mente.

3 – Soffocare nella popolazione/bersaglio (ragazzi) qualsiasi idea di unicità e spontaneità. Le scuole sono per lo più zone proibite alla spontaneità e al libero pensiero perché sono consumate dalle regole. Questa è una perfetta preparazione al mondo degli adulti, il quale è strutturato nello stesso modo. La unica differenza è che gli insegnanti per adulti si chiamano agenti di polizia, funzionari statali, ispettori del fisco, più tutti gli altri cloni - per la maggior parte ignari – al servizio della Matrice. Stavo leggendo che in Inghilterra, in una scuola secondaria, è stato proibito agli alunni di tenere per mano o abbracciare il proprio fidanzatino / fidanzatina allo interno dello edificio. Il preside si è giustificato dicendo che un tale comportamento non sarebbe stato consentito ad adulti sul luogo di lavoro. I ragazzi vengono plasmati per diventare una mente collettiva ad alveare, piuttosto che espressioni di unicità. Comportatevi allo stesso modo, e credete allo stesso modo. Un’ultima cosa: perché agli adulti non dovrebbe essere permesso di baciarsi e abbracciarsi sul luogo di lavoro? Accidenti, solo nella matrice lo affetto poteva essere sottoposto ad un regolamento.

Come ottenere l’obbedienza. L'indottrinamento scolastico, scrive Corrado su “Scienza Marcia”. Immaginiamo una ristretta cerchia di persone, un’oligarchia, che voglia mantenere il proprio potere politico/economico sopra una nazione sfruttandone il popolo: quali sono i metodi migliori per consolidare tale potere e renderlo inattaccabile? I metodi sono diversi, anche perché ci sono due strategie di fondo per mantenersi al potere:

1) Quella di esercitare il potere in maniera ferrea e dittatoriale, mostrando palesemente che chi si oppone rischia di venire incarcerato, torturato, ucciso;

2) Quella di fingere di fare tutto il possibile per il popolo, peccato che ci siano i nemici esterni, i nemici interni, le calamità naturali, le crisi ricorrenti del sistema economico, le recessioni, fattori difficilmente controllabili che vanificano gli sforzi che il potere fa “per il bene del popolo”.

Ovviamente questi sono due schemi di massima, che in realtà non si realizzano mai in maniera “pura”. Anche le dittature esplicite nel corso della storia hanno cercato di presentarsi di volta in volta come “necessarie per il bene del popolo, della repubblica, del regno, della nazione” ed hanno cercato di fingere di fare del bene per i propri sudditi. Anche le dittature implicite (come le odierne “democrazie”) pur fingendo di agire per il bene dei sudditi utilizzando il pungo duro con gli avversari più irriducibili, quelli che hanno capito l’ipocrisia del sistema politico e la denunciano, la combattono. Anche nelle nostre finte democrazie che si oppone radicalmente al sistema di potere smascherandone le menzogne rischia di essere incarcerato, torturato, ucciso. In tutti i casi però ci sono degli strumenti che vengono utilizzati da quasi tutte le oligarchie/dittature (esplicita o implicita) per mantenersi saldamente al potere:

- la creazione di finti nemici;

- la divisione del popolo in due o più fazioni che si contrappongono su tematiche di poca importanza (come dicevano i romani “divide et impera” ossia “dividi e governa”);

- il grande risalto dato a manifestazioni di nessun valore, giochi, sport, intrattenimenti futili (ai tempi dei romani c’erano i “circenses”, ossia i giochi del circo);

- la garanzia della sopravvivenza alimentare, senza la quale si rischia una seria rivolta (per governare i romani distribuivano “panem et circenses”, “pane e giochi circensi);

- l’infiltrazione nei movimenti di opposizione di massa per manovrarli a loro insaputa;

- l’utilizzo di tecniche di controllo di massa (tramite l’applicazione delle più raffinate tecniche derivate dallo studio della psicologia di massa, della sociologia);

- il controllo dell’emissione della moneta;

- il controllo sulla formazione della cultura;

- il controllo della scuola;

- il controllo dell’informazione (il cui utilizzo distorto serve anche a nascondere agli occhi della gente la maniera in cui si utilizzano tutti gli altri strumenti di controllo).

Quando avrò più temo forse mi metterò a dimostrare che le nostre “democrazie” sono oligarchie mascherate, che i veri poteri forti che stanno dietro ai burattini che siedono in parlamento non hanno scrupolo ad usare le peggiori forme di violenza e di coercizione contro chi si oppone ad essi. Basterebbe ricordare il clima di violenza e di repressione totalitaria che si è respirato a Genova nel 2001 (governo di destra), e a Napoli pochi anni prima (governo di sinistra) in occasione di due manifestazioni dei no-global per rendersi conto che il potere che comanda le nostre “democrazie” è violento per natura (detto questo non mi confondete con un aderente ai movimenti no-global per carità, non rientro né in quella né in altre etichette). Quando avrò più tempo mi impegnerò a dimostrare come i governi utilizzino tutte le strategie sopra elencate. Per adesso mi limito ad una sola affermazione: sarebbero stupidi se non le utilizzassero. Volete che governi che utilizzano le migliori e più raffinate tecnologie scientifiche (ad esempio per spiare e controllare tutto e tutti) e non usino le più sottili e raffinate strategie di controllo sociale, pensate davvero che si astengano dall’infiltrarsi nei gruppi di opposizione per pilotarli nascostamente ed utilizzarli per i propri fini? Non vi rendete conto che il leader della cosiddetta “opposizione no-global” è un medico che porta acqua al mulino del Nuovo Ordine Mondiale diffondendo il pregiudizio che l’AIDS sia causato dall’HIV? Non vi ricordate di quando il TG della RAI disse che “i servizi segreti italiani erano a conoscenza del piano per il rapimento di Aldo Moro due settimane prima che avvenisse la strage di Via Fani?”. Non vi ricordate di come in quei giorni arrivò una soffiata sul posto in cui era nascosto Moro e di come la polizia evitò di controllare l’informazione? Lo so, l’informazione dei mass-media non aiuta certo a ricordare certi “dettagli” di fondamentale importanza. Se riuscirò un giorno parlerò di come vengono utilizzate tutte queste tecniche di manipolazione/controllo/dominio, ma oggi voglio parlarvi di una di esse in particolare, perché ci lavoro: la scuola. Cosa c’è di meglio della scuola per indottrinare le persone? Se n’era accorta subito la chiesa quando lo Stato Italiano ha deciso di istituire una scuola elementare pubblica. “Orrore! Orrore! - hanno gridato il papa e tutti i preti in coro - sacrilegio! L’istruzione l’abbiamo sempre gestita noi fino ad ora, guai a chi la sottrae al nostro controllo”. Con questo non voglio certo affermare che lo stato abbia inaugurato una scuola pubblica incentrata sulla libertà, perché se l’educazione gestita dai preti era sicuramente di parte, anche la scuola pubblica serviva ad inculcare nei futuri cittadini tutta una serie di idee preconcette: “lo stato è buono”, “il potere è buono”, “il re è buono”, “il re è bello”, “il papa è santo”, “è giusto morire per la patria”, “non ribellarti al potere”. Un tipico esempio è quello della Germania/Prussia ai tempi di Bismarck , il quale affermò senza giri di parola che voleva utilizzare la scuola per infondere uno spirito militaresco nei allievi. A giudicare dai risultati che si sono ottenuti nel giro di 50 anni (Hitler, il nazismo, la seconda guerra mondiale) bisogna dire che quell’indottrinamento militare è stato decisamente “proficuo”. Cosa pensate che sia cambiato da quei lontani termini? La forma sì, certamente la forma è cambiata, ma la sostanza? Nel 2001 ad esempio è stato decretato dal ministro dell’istruzione Moratti l’osservanza di tre minuti di silenzio per commemorare i morti delle torri gemelle a New York, squallida manovra per indurre un’approvazione della guerra USA contro l’Afghanistan e della partecipazione Italiana al conflitto (sebbene in una maniera minore e molto subdola, inviando un contingente al comando degli USA solo dopo l’occupazione militare di quella Nazione e la caduta del vecchio governo). Forse qualcuno pensa che la scuola, almeno quella pubblica, garantisca un confronto fra diversi modi di pensare, diverse opinioni politiche, idee contrapposte. In realtà questo succede limitatamente al fatto che i professori e i maestri hanno diversi orientamenti politici, votano per partiti differenti, e quindi si lasciano sfuggire discorsi e battute contro questo o quell'uomo politico. Per il resto l'omologazione all'interno della classe docente é fortissima, soprattutto quando entrano in gioco la storiografia e la scienza ufficiale, oppure il "sentimento religioso" ed il cosiddetto "amor patrio" (che raramente coincide con il vero amore per la propria terra e per i propri connazionali, mentre troppo spesso é bieco nazionalismo). In tutti questi casi non solo vi é un quasi totale allineamento dei docenti sulle stesse posizioni, ma chi tenta di esprimere il suo dissenso viene spesso trattato come un folle o come un fastidioso rompiscatole. Nei primi anni del 2000 nella scuola italiana (a partire dal già menzionato episodio relativo ai morti dell’11 settembre 2001) si é preso il brutto vizio di indire dei minuti di silenzio per commemorare la morte di alcune persone, facendo così una ben curiosa distinzione fra morti da commemorare e su cui riflettere, e morti su cui é meglio non soffermarsi col pensiero. A quanto pare qualcuno vuole inculcare nelle menti delle persone, e dei alunni in particolare, l'idea che le vite degli esseri umani non abbiano tutte uguale dignità e valore. Per due volte l'iniziativa é stata imposta direttamente dal governo, ma le altre volte sono stati i singoli dirigenti scolastici a decidere "autonomamente" (le virgolette sono dovute al fatto che lo hanno fatto praticamente tutti adeguandosi ad un andazzo nazionale). Di conseguenza l'istituzione scolastica ha cercato di imporre una particolare visione politica della realtà secondo la quale, ad esempio, i 3000 morti delle torri gemelle sono da ricordare e commemorare e sono più importanti sia del milione di iracheni uccisi dalla guerra e dall'embargo negli anni '90, sia dei 3000 bambini che muoiono di fame ogni giorno. Alla stessa maniera i militari italiani (superpagati e volontari) morti a Nassirya sono da ricordare e commemorare per il loro "sacrificio per la pace" a differenza degli operai (sottopagati e sfruttati) che muoiono quotidianamente negli incidenti sul lavoro. In quell'occasione una mia timida espressione di dissenso é stata stigmatizzata dal preside (che era persino contrario alla guerra in Iraq). Non credo che abbia capito che, per quanto mi dispiacesse per la morte di quelle persone, non ritenevo opportuno che la scuola venisse utilizzata per imporre simili commemorazioni dal fine prettamente politico. Avete mai visto una simile commemorazione quando sono morti 10 operai di una fabbrica? A quanto pare per i mass media e per le istituzioni, scuola compresa, la vita di un operaio é meno importante di quella di un militare. Per altro molti militari inviati in Iraq facevano sfoggio nei loro alloggi di simboli fascisti, ed é quindi più che legittimo dubitare del fatto che fossero lì a rischiare la vita per la pace; forse molti di loro si sono ritrovati in Iraq perché attratti dall'alta paga e dalla voglia di un'avventura esotica. Ma la scuola con le sue commemorazioni calate dall'alto impone implicitamente un punto di vista, ed invece che organizzare una riflessione sul conflitto iracheno, una discussione sull'opportunità di quella missione militare all'estero, fa semplicemente da grancassa al trambusto mediatico, e contribuisce al risorgere di quel discutibile "sentimento della patria" che nasconde il rilancio della funzione offensiva dell'esercito; un esercito che, in barba alla costituzione, è stato impiegato in 15 anni per ben 4 volte in operazioni militari al seguito delle guerre statunitensi. Anche quando c'è stata la strage dei bambini in una scuola della Cecenia si è ripetuta a scuola la commemorazione silenziosa; curiosamente questa volta non é stata imposta direttamente dal governo, ma organizzata dal solito trambusto dei mass-media. Ma il copione non è per questo cambiato di molto: siccome i terroristi Ceceni venivano presentati come islamici e siccome gli USA ed i loro alleati erano impegnati in una serie di guerre contro il “terrorismo islamico” qualcuno deve avere deciso di utilizzare anche questo triste avvenimento per orientare la coscienza delle masse, e degli alunni in particolare. E che dire del Papa commemorato col solito minuto di silenzio e ricordato come "uomo di pace"? Proprio lui che col riconoscimento precipitoso delle repubbliche secessioniste della ex-Jugoslavia aveva accelerato un processo che avrebbe portato alla guerra fratricida? Proprio lui che dei preti uccisi nella guerra civile spagnola, aveva beatificato solo quelli fedeli al fascista Franco? E non parliamo delle sue discutibili scelte in ambito religioso per evitare di scrivere un trattato sull'argomento. Intendiamoci, non mi interessa in questa sede discutere sulla bontà o sulla presunta santità del defunto Papa Giovanni Paolo II, quello che intendo rilevare é che la scuola rendendo omaggio alla memoria di alcune persone e dimenticandosi invece di altre, fa una scelta che ha dei significati politici ben precisi, e che puzza tanto di indottrinamento. "La scuola dell'indottrinamento scientifico". Quanto al resto, o meglio, per quanto riguarda tutti gli aspetti controversi della cultura ufficiale che vengono esaminati in questo sito, di confronto e di contrapposizione ce n'é ben poca, ma quello che é peggio è che il confronto o viene vietato o viene ostracizzato in ogni maniera. Se é comprensibile il fatto che i docenti siano stati ingannati da un certo sistema di gestione del potere e della cultura e che quindi non discutano quasi mai argomenti che mettano in dubbio certe presunte verità (in particolare sull'affidabilità della medicina ufficiale, sugli espianti, sull'aids, sulla psichiatria, sulla preistoria), ben diverso é il fatto che quando ci si prova a prospettare un confronto su questi tempi si scatenino i peggiori isterismi che portano perfino a vietare l'approfondimento di certe tematiche controverse. La mia pluriennale esperienza di docente nella scuola superiore mi ha permesso purtroppo di verificare che su certe questioni l'atteggiamento di rifiuto del dissenso e di condanna di chi esprime opinioni difformi é del tutto generalizzato. Ecco un primo esempio.

Espianti e trapianti. Liceo scientifico di Caravaggio, agli inizi del 2000, su proposta di una professoressa la scuola approva una visita ad un ospedale per andare ad assistere in diretta ad un'operazione di trapianto. Al di là del fatto che una simile iniziativa si potrebbe subito giudicare di cattivo gusto, la cosa peggiore è stata la maniera in cui la scuola ha reagito alle proteste contro tale iniziativa. In seguito ad un volantinaggio di protesta della "Lega nazionale contro la predazione degli organi" che cosa ha pensare di fare l'istituzione scolastica per garantire una serena discussione di approfondimento su questo tema controverso? Semplice, ha chiamato un medico favorevole ai trapianti per tenere una conferenza rivolta soprattutto agli alunni delle ultime classi, senza pensare minimamente a prevedere alcun contraddittorio. Come lo volete chiamare questo? … "orientamento guidato"? ...Il caso ha voluto che il giorno stesso in cui era prevista quelle conferenza a favore dei trapianti io fossi stato invitato nella stessa scuola a tenere una relazione sull'embargo in Iraq. Si trattava di iniziative all'interno di quella che viene (spesso impropriamente) chiamata "autogestione", uno spazio di alcuni giorni dedicato a dibattiti, discussioni, approfondimenti su tematiche sociali e politiche di attualità. Finita la mia relazione sull'Iraq sono venuto a sapere che subito dopo iniziava la conferenza sui trapianti. Allora ho chiesto ad alcuni alunni responsabili dello svolgimento di quella "autogestione" se potevo partecipare alla conferenza per esprimere pareri opposti a quelli del conferenziere e permettere un contraddittorio. Per essere corretto non sono entrato nella sala in cui si svolgeva la conferenza prima di chiedere ed ottenere un permesso. Risultato: dopo 10 minuti in cui ho contestato alcune affermazioni del relatore ufficiale arriva il vicepreside ha "espellermi". Ma come, non era un'autogestione? No, risponde il vicepreside, in realtà si trattava di una "co-gestione", ossia un'iniziativa gestita dalla direzione scolastica in collaborazione con gli studenti, ed il mio intervento non era previsto. L'idea di approfittare della presenza di un esperto che potesse ravvivare il dibattito e creare un contraddittorio é ovviamente fuori dalla portata di certe persone. Dopo qualche anno è successo il bis in una scuola in cui insegnavo, quando con una collega di Italiano abbiamo affrontato il tema dei trapianti, facendo leggere articoli pro e contro la donazione degli organi (da notare che la mia collega è moglie di un medico che ha lavorato in rianimazione e certificato alcune “morti cerebrali”), ed a fine anno abbiamo pure organizzato una presentazione ai genitori ed alla scuola il lavoro da noi svolto. In questo “happening di fine anno” sono stati anche presentati i dati:

fra gli alunni di quella classe (primo liceo) che hanno approfondito l’argomento, nonché fra i genitori che erano stati coinvolti nella discussione, l’80% era contrario alla “donazione degli organi”;

fra gli alunni di un’altra classe (sempre una prima liceo), che non aveva mai approfondito la tematica, nonché fra i loro genitori, l’80% era favorevole alla “donazione degli organi”.

In quell’occasione io ho anche espresso (cercando persino di moderarmi a causa della mia “veste istituzionale”) alcune mie perplessità sulla donazione degli organi, mentre un dottore (il marito della mia collega) ha espresso la sua convinzione sulla correttezza della dichiarazione di “morte cerebrale” pur facendo alcuni distinguo sulle modalità con cui avveniva la “donazione”. Risultato: il preside mi ha additato al pubblico disprezzo come indottrinatore durante una riunione collegiale dei docenti della scuola (lo ringrazio per avermi considerato così bravo da indottrinare e convincere non solo i miei alunni ma persino i loro genitori che hanno solo ricevuto dei materiali di opposte tendenze sul trapianto e la donazione degli organi). Come se non bastasse durante un colloquio personale mi ha precisato che i docenti che avevano fatto propaganda esplicita alla donazione degli organi hanno agito bene, mentre io che ho provato (con tutti i miei limiti) ad informare sul pro e sul contro della questione ho agito male ed ho indottrinato gli studenti !!! Ah dimenticavo, il mio preside si vantava di “essere di sinistra” (e che vuol dire)? Ah dimenticavo, due anni dopo hanno fatto in un’altra classe un lavoro di ricerca sui trapianti, avendolo saputo mi sono offerto come collaboratore per contribuire ad una informazione non settaria. Non solo mi hanno escluso, ma nei lavori dei ragazzi non ho visto traccia del dubbio, nemmeno del dubbio, che trapianti/espianti potessero essere poco utili e poco etici. Avete capito come funziona la scuola?

E poi c'è ancora un'altra storia.

"Raccogliamo soldi contro il cancro". Sempre nella stessa scuola mi sono opposto alla raccolta di fondi per un’associazione che “lotta contro la leucemia”, che sostiene i trapiantati di midollo (e che quindi propaganda, sebbene indirettamente, il trapianto di midollo). Ho provato per 4 anni a chiedere su quali basi scientifiche si potesse affermare che il trapianto di midollo fosse utile nella cura della leucemia, e devo dire che a volte ho litigato ferocemente con alcuni docenti (povero me, com’ero ingenuo a quei tempi!). Per 4 anni mi hanno detto che “le prove ci sono”, “te le porteremo prima o poi”. Poi ho chiesto per telefono all’associazione “contro la leucemia” e avessero tali dati. “Non ne abbiamo - è stata la risposta - si rivolga ai medici dell’Ospedale”. Poi finalmente mi sono rivolto a Internet (perché non ci ho pensato prima?) e ho scoperto che la mortalità per leucemia è del 67%, quella per trapianto di midollo … indovinate! Intorno al 66% (con la maggior parte dei decessi nei primi due anni dal trapianto). Un’ottima cura quella del trapianto non c’è che dire, tanto è vero che in quella scuola si usava raccogliere fondi per “la lotta alla leucemia” in memoria di una ragazza leucemica che era stata trapiantata ben due volte ed era morta. Due insuccessi non sono bastati per aprire gli occhi. E adesso cosa credete che sia successo quando ho stampato quei dati (presi dal sito del ministero della sanità e dal sito dell’Istituto nazionale dei tumori) e li ho mostrati ai miei colleghi? Niente, niente di niente, tutto come prima. E si continuano a raccogliere fondi. Avete capito come funziona la scuola?

No, no, non è finita, perchè è la volta del'AIDS!

AIDS: Vietato dissentire. Sempre la solita scuola, propongo di realizzare in alcune classi un lavoro di confronto pro e contro l'ipotesi che l'HIV causi l'AIDS, mi riesco persino a procurare due medici relatori di opposte tendenze. Inizio ad approntare il materiale di studio, pro e contro, presento il progetto in presidenza (anche per i finanziamenti, per quanto piccoli, del caso), e per correttezza lascio (con grande anticipo) una copia del progetto ai colleghi di scienze per stimolare il dibattito e per verificare se da parte loro ci fossero eventuali perplessità. Risultato: i colleghi di scienze non dicono niente fino alla riunione del collegio docenti in cui si discutono i vari progetti ... poi d'improvviso in quell'occasione esplodono tuonando contro di me e dicendo che il mio progetto è pericoloso. E d'altronde come dargli torto? Sì, è pericoloso, i ragazzi potrebbe iniziare a pensare con la loro testa. Ma di cosa avevano paura? Se l'AIDS fosse sicuramente una malattia virale ci vorrebbe poco a smontare le tesi di chi pensa che siano altri i fattori che scatenano tale mortale sindrome. Se fosse tutto così vero, così sicuro, un approfondimento tematico da parte degli studenti, persino un confronto coi fautori di teorie differenti li rassicurerebbe sul fatto che l'AIDS è una malattia infettiva e che bisogna difendersi con ogni mezzo dal contagio dell'HIV. Eppure ... vietato, sissignori, vietato! I dogmi sull'AIDS non si possono discutere. Ovviamente tutti i colleghi intimoriti dalla levata di scudi del team di scienze cosa pensate che abbiano votato? Vietato, vietato, proposta da bocciare! Però questa volta c'è il lieto fine. Uno dei colleghi di scienze ha avuto il coraggio di approfondire la questione, leggere i libri dei "dissidenti" e degli "eretici", confrontare le loro tesi con quelle ufficiali, e poi alla fine dell'anno dichiarare di fronte ai docenti tutti che si era convinto che l'AIDS non fosse una malattia infettiva. Un'altra collega a fine anno mi ha confessato che aveva più dubbi che certezze sull'argomento. Due docenti di scienze su 5 non è poco, specie se sono gli unici che si mettono in discussione, perchè in tal caso la percentuale sale al 100%. Poi ho scopeto che una docente di scienze era particolarmente contraria al mio progetto: aveva lavorato come volontaria in Africa per "curare i malati di AIDS"! Penso proprio che non avrebbe mai accettato di mettere discussione il proprio operato.

Ooops, non è finita! Che ne dite di Telethon?

Soldi per la ricerca genetica. A me non piace per niente (a dire poco) perchè finanzia la vivisezione, perchè la ricerca genetica credo abbia finalità ben diverse da quelle dichiarate, perchè i geni sono solo una parte del problema ma è fondamentale l'interazione con l'ambiente: ci sono diversi casi di malattie "genetiche" che non si manifestano se si segue una certa alimentazione. Ma la lista sarebbe è lunga. Per farla breve, in un'altra scuola (tanto il problema è sempre lo stesso) l'anno scorso si sono raccolti fondi per Telethon, io ero contrario, ho comunicato la mia contrarietà ai docenti che hanno sostenuto l'iniziativa (tali iniziative ovviamente non vengono discusse in nessuna sede, vengono approvate tout court!) e al preside. Dietro mia richiesta e insistenza l'unica motivazione che sono riusciti a produrre per una tale raccolta di fondi è che "si spera che queste ricerche alla fine producano qualche risultato positivo". Qualcuno mi ha detto che però "i ragazzi sono stati informati", non hanno donato soldi a scatola chiusa. "Informati come?" chiedo io. "Con gli opuscoli Telethon!" è l'ingenua risposta. A quanto pare quando si parla di medicina la par condicio non esiste, la scienza ufficiale non si tocca. Avete capito come funziona la scuola?

“Si cambia partendo dai bambini”: prove tecniche di indottrinamento? Scrive il Comitato Articolo 26. Prima di questo, si consiglia di leggere l’articolo precedente (200 milioni per l'educazione di genere) per comprendere i presupposti a partire dai quali vengono sviluppati i ragionamenti qui riportati.

Istruzione: 200 milioni per l’educazione di genere! Introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle attività e nei materiali didattici delle scuole del sistema nazionale di istruzione e nelle università  è il nome di una nuova proposta di legge che si pone, tra gli altri, l’obiettivo di prevenire  il femminicidio e di combattere le discriminazioni. Cosa ci potrai mai essere di male in una iniziativa simile e chi potrebbe non condividere finalità così nobili? Per esempio chi, informandosi e approfondendo, ha visto cadere il velo dell’apparenza e ha ormai chiaro che per “genere” non si intende (solo) il sesso femminile contrapposto al maschile, ma tutta una concezione della sessualità e della persona.  Al contrario, chi si limiterà a restare in superficie accontentandosi di qualche slogan senza volersi affacciare ai contenuti più profondi della “rivoluzione gender”, forse continuerà a ritenere le voci critiche come posizioni incomprensibili e reazionarie, ma con il rischio concreto di venire manipolato da un’ideologia che cerca di far credere che neppure esista. L’attuale classe politica avrà una responsabilità enorme nel caso in cui voglia volgere lo sguardo altrove per non vedere che dietro ai concetti di “educazione alla parità” o di “decostruzione degli stereotipi sessisti”, in realtà si cela una visione radicale ed inaccettabile della persona, dell’identità sessuale e della famiglia. Lo ripetiamo: se l’unica finalità di questi programmi fosse educare al rispetto tra maschi e femmine, valorizzare il ruolo delle donne nella storia o criticare l’oggettivazione dei corpi femminili nelle pubblicità, ne saremmo tutti ben lieti. Ma come è ormai manifesto nelle gender theories, come viene recepito da svariati documenti internazionali e poi messo in pratica anche in molte scuole di casa nostra, educare “alle differenze di genere” troppo spesso sottintende condurre i giovani all’indifferentismo sessuale e al non concepirsi come donne o uomini, ma come individui per i quali la caratterizzazione sessuale, l’identità di genere e l’orientamento sessuale sono fluidi, continuamente modificabili e in fin dei conti irrilevanti. E’ emblematico il fatto che quando si parla di  stereotipi di genere, si finisca sempre a parlare di stereotipi in base all’orientamento sessuale (come del resto fa anche la risoluzione n.2011/2116 per l’eliminazione degli stereotipi di genere in Europa, che la suddetta proposta di legge richiama). Il percorso classico è partire sottolineando le differenze individuali (una donna camionista o un ragazzo amante del  cucito) per arrivare ad affermare che le differenze non esistono affatto, vale a dire che non esiste un quid che sostanzia naturalmente l’umanità come divisa in maschi e femmine. Cosa ne deriva? Che non solo sarebbe indifferente come nasciamo, ma anche il nostro orientamento sessuale, pena il diventare discriminanti. E a partire da questo presupposto, la mamma che fa la torta o la bambina che culla la bambola diventano immagini che indurrebbero ad una disparità tra maschi e femmine e alimenterebbero una cultura misogina: ecco quindi che vanno eliminate dalle teste (e dai testi) degli studenti. Un esempio di educare alle differenze sarebbe il libro “Mi piace Spider Man”, che viene consigliato alla scuola materna dai 4 anni (?!?). La piccola protagonista deve combattere non pochi “stereotipi” per conquistare la sua cartella “da maschio” che le piace tanto. E va bene; ma perché qualche pagina dopo, le fanno dire – a lei che di anni ne avrebbe sei – che ha capito che “da grande potrà avere un fidanzato o una fidanzata”? A sei anni? Come ha scritto pochi giorni fa Karen Rubin su “Il Giornale” a tal proposito,  non si considera che “di un universo femminile che contempla più volti, i bambini piccoli conoscono solo la parte che li riguarda… Poco importa che faccia l’astronauta o la dottoressa: la mamma il piccolo la vorrebbe sempre con sé. E’ degradante tutto ciò?… Si sogna una società dove padri e madri siano interscambiabili e le torte non siano più menzionate, neanche fossero droghe pesanti… C’è un errore in tutto questo. La mamma che cucina e la bambina che culla la bambola non sono stereotipi, sono ruoli di genere che si legano strettamente all’identità di ogni essere umano. Se la mamma prepara il cibo per il suo piccolo non trasmette debolezza ma amore. Se il padre è virile perché protegge i figli e la moglie manda un messaggio di forza e coraggio. Se invece picchia la sua compagna non è una questione da ridurre a stereotipi”. E come conclude la Rubin “duecento milioni di euro – questo l’esborso per questa riforma scolastica a carico nostro, che siamo abituati ad autotassarci per dotare di carta igienica le scuole  dei nostri figli - sono davvero sprecati per censurare le immagini. Usiamoli per educare gli uomini e lasciamo in pace i bambini“.

In un paese democratico sui banchi di scuola ci si dovrebbe sedere per imparare l’arte lunga e difficile della vera libertà, e non per subire un indottrinamento, che appoggia per altro su discutibili basi filosofico-teoretiche spacciate per scientifiche. Da quanto si evince da una recente intervista apparsa su La Repubblica, non la pensa così Valeria Fedeli, PD, vicepresidente del Senato, che parla proprio di un insegnamento che si vuole rendere normativo e vincolante e il cui contenuto ormai dichiarato è l’ideologia gender. In questa intervista con poche parole viene liquidata un’intera civiltà, basata sulla legge di natura e sulla forma corrispondente di razionalità: “i luoghi comuni che inchiodano maschi e femmine a stereotipi, che ignorano quanto l’altra metà del cielo ha fatto in tutti campi”. Come se la porzione più consistente di questi importanti conseguimenti femminili non fosse stata realizzata all’interno della suddetta civiltà. Ci viene da chiederci se la Fedeli si renda conto che la società che programma di decostruire partendo dalla scuola è proprio quella che l’ha condotta a ricoprire il ruolo di vicepresidente del Senato (mentre una donna presiede la Camera e si riscontra una parità tra ministri di sesso maschile e femminile); citando delle frasi della sua intervista ci viene da tranquillizzarla, perché i fatti già dicono altro: oggi parlare come fa lei di passività delle donne può giusto essere un vecchio ricordo stereotipato, mentre il tempo di crisi che le famiglie concrete stanno affrontando ha già messo in fuga tutti i principi azzurri su piazza, per cui i sogni delle femminucce si sono adeguati diventando molto più a buon mercato. L’educazione di genere – che dando credito a qualcuno neppure esisterebbe, quasi fosse una teoria del complotto di pochi reazionari – verrebbe così introdotta tramite un apposito disegno di legge nelle scuole e nelle università nell’intento di spazzare via, in nome di una libertà banalizzata,  l’inaccettabile adeguarsi alla verità dei programmi educativi tradizionali, elaborati dalla razionalità del buon senso naturale e presupponenti la differenza sessuale come dato di fatto autoevidente ed  inamovibile. E’ incredibile il prezzo che si è disposti a pagare pur di distorcere la realtà. E’ impressionante il modo semplicistico con il quale il sistema scolastico venga etichettato come anticaglia da cestinare: le elementari vengono banalizzate come fucina di storielle discriminatorie e non come primo stadio della scolarizzazione, più che mai rispettoso della differenza sessuale, non in nome di un’ideologia conservatrice, ma perché indirizzato ad esseri umani, molto vulnerabili e manipolabili, che trovano in tale differenza il loro primo solido orientamento identitario. Nell’intervista della Fedeli si parla di parità, di uguaglianza, di rispetto, di libertà. Parole altisonanti, politicamente corrette, che incantano lettori ed ascoltatori, che mettono d’accordo tutti, ma lasciate come sono del tutto prive di contenuto, diventano oggetto di una manipolazione semantica gravissima, venendo in modo subdolo riempite di contenuti razionalmente inaccettabili. Ma la cosa più paradossale è che questo peana per la libertà si conclude, nel massimo dispregio del principio di non contraddizione, con un’affermazione programmatica dal sinistro tenore totalitario e liberticida: “si cambia partendo dai bambini, gli uomini di domani“. L’avrebbe condivisa Pol Pot. Si parte dai bambini, arrivando a sottrarne l’educazione sessuale ai violenti e retrogradi genitori, perché solo in esseri indifesi e non ancora formati dal punto di vista razionale può sperare di attecchire in profondità una visione dell’uomo tanto priva di base scientifica e per questo lontana dalla realtà come quella propugnata dall’ideologia ipersessualizzata del gender. E vorremmo chiudere permettendoci una riflessione, un appello che speriamo che la prima firmataria della legge voglia ascoltare: è stato preso in considerazione il fatto che il fenomeno della violenza contro le donne è fortemente connesso al fenomeno dell’ipersessualizzazione della società e del mondo maschile? Domanda: siamo certi che l’investimento dei 200 milioni di euro per tirare la volata al gender e agli standard OMS con la loro sovra-esposizione al sesso fin dalla più tenera età non si riveli un doloroso boomerang proprio per il mondo femminile che si vorrebbe proteggere?

L’ideologia oggi è la mancanza di serietà. Una prof racconta, scrive Marina Valensise su “Il Foglio”. Anna Maria Ansaloni è una prof un po’ speciale, è vero. Insegna al Leonardo da Vinci-Duca degli Abruzzi, il liceo tecnico di via Palestro, quartiere centrale. E’ convinta che la scuola non debba fare quello che “vogliono le famiglie”, ma “formare il cittadino”, e pensa anzi che le famiglie oggi siano spesso ignare dei veri problemi della scuola. Ma su un punto conviene con l’allarme lanciato dal presidente del Consiglio, quando difende l’insegnamento libero contro l’indottrinamento ideologico. “I genitori sanno che i loro figli escono dalla scuola sprovvisti delle competenze che invece loro avevano alla stessa età. Per questo, insistono perché la scuola sia più seria, più attenta alle conoscenze di base, più centrata sulla disciplina e sul rigore”. Anna Maria Ansaloni è un’entusiasta, è un’insegnante che adora insegnare. E’ convinta che l’egemonia di sinistra non sia altro che un ricordo sbiadito: “E’ semplicemente morta. La sinistra non esiste più, nel mondo della scuola è irrilevante, mi pare. Tieni conto che la maggioranza degli insegnanti oggi quarantenni ha vissuto gli ultimi vent’anni con Berlusconi. L’ideologia semmai sopravvive come abitudine di costume, nell’occupazione, che non è un fatto politico, ma un rituale di passaggio”. La prof Ansaloni insegna Italiano e storia in una seconda e terza classe, ha le idee chiare e i mezzi per realizzarle: “Il vero dramma è la scuola media, dove i ragazzi disimparano ciò che apprendono alle elementari. Vedo ragazzi che scrivono a matita perché poi così possono cancellare, ma scrivono compiti di otto pensierini che non sono da scuola superiore. Io perciò lavoro molto sul costruire le regole. I ragazzi purtroppo sono molto lenti e disordinati. Vanno educati a un certo ordine nell’esporre gli argomenti, a una notevole quantità di compiti sistematicamente valutati e compresi, alla chiarezza dal punto di vista linguistico. Fraintendimento e intendimento per loro sono la stessa cosa. Per lavorare sul senso delle parole e sulla forma scritta, devi tornare ai testi appresi a memoria, perché senza chiarezza non c’è conoscenza. Devi fargli capire che la fatica è inevitabile, mettere sanzioni chiare e rispettarle”. La professoressa Ansaloni, dunque, ha rafforzato i programmi di lettura. Una volta al mese riunisce gli studenti di 14 e 15 anni nella biblioteca della scuola per discutere con signore di 60 o 70 anni dello stesso libro, e a volte incontrare l’autore. “Mi piace tantissimo parlare con queste signore, mi ha detto un ragazzino, non sono mica come mia madre. Non è l’alunno a parlare, ma il lettore e il lettore è trasversale”. In questo modo si accrescono le competenze linguistiche, si supera un problema didattico. “Noi adottiamo libri di testo inadeguati ai ragazzi” dice infatti la prof Ansaloni. “Per capirli devi decodificarli, e per questo cerco di costruire una sintesi, di fare scrivere i miei allievi su quel testo, di fargli poi valutare cosa realmente ne hanno capito. Dobbiamo ampliare il lessico. Una volta i nostri figli parlavano con 300 parole, ora ne usano 50. Perciò io punto a rafforzare il programma scolastico col lavoro di lettura e di scrittura e la verifica attraverso i questionari. E’ vero che molti miei colleghi non mi seguono, "lasciami stare, mi dicono, con 1.600 euro al mese, per mantenere moglie e due figli devo fare tre lavori". Ma risultati ci sono. Se dico ai miei ragazzi, guarda, quel tizio non ha né artigli né zanne, loro continuano, sì però non voleva essere sbranato. Vuol dire che qualcosa dei ‘Promessi Sposi’ è rimasto: il lessico e la lettura gli si è sedimentata dentro e in modo naturale”. C’è anche un altro handicap dei giovani d’oggi: nessuno scrive più in corsivo. “Il corsivo è scomparso. Abituati col computer e l’sms scrivono tutti in stampatello, alcuni non sanno più come si scrivono certe maiuscole in corsivo. Non è solo una questione di grafia o calligrafia. In stampatello, usano frasi sintetiche di comunicazione, non di espressione: vado, vengo, anziché – penso di venire, avrei intenzione di andare, con una struttura della frase paratattica, senza principali e secondarie, ma con una sfilza di principali spesso con la stessa forma verbale. Il corsivo invece prevede un certo tempo in cui pensi, elabori, unisci le lettere, ti dà una capacità riflessiva, permette un’elaborazione concettuale che implica l’uso di articoli, aggettivi, la punteggiatura, la varietà di forme verbali e l’espressione di sé. Oggi i ragazzi è proprio questo che vogliono evitare:  non sanno né vogliono scrivere di sé, esprimere emozioni, anche se ce le hanno dentro. Allora devi aiutarli. Io per esempio quando leggiamo un sonetto di Dante, ‘Tanto gentile e tanto onesta pare’, chiedo ai ragazzi di cercare dei raffronti con l’immensità, con Dio, con la spiritualità. Loro li trovano nelle canzoni di Vasco Rossi o Jovanotti, e per me è un successo”. La maggiore soddisfazione, però, Ansaloni dice di averla “tutti i giorni quando entro in classe, perché insegnare mi diverte da morire, quando i ragazzi trascorrono un’ora senza rendersene conto, quando vedo all’intervallo quello con la cresta che ti cita una frase di Manzoni. Adesso sta leggendo il ‘Postino di Neruda’ di Skármeta, e una sua allieva rumena, brava e determinata, che dopo la scuola lavora come babysitter, quasi non ci crede: ‘Professoressa, le metafore le possiamo fare anche noi…’”.

Scuola: arriva il divieto per gli insegnanti di fare propaganda politica e ideologica. Chi sgarra sarà sospeso. Un deputato del Pdl ha proposto un'aggiunta al testo unico sulla scuola per impedire agli insegnanti di fare propaganda politica. Secondo lui questo avverrebbe soprattutto in Emilia Romagna. A vigilare dovranno essere i dirigenti scolastici, scrive Marta Ferrucci su “Studenti”. Fabio Garagnani, deputato del Pdl, ha proposto una aggiunta al testo unico sulla scuola: il divieto per gli insegnanti di fare propaganda politica e ideologica.  Dovranno essere i dirigenti scolastici a vigilare e per chi sgarra è prevista la sospensione da 1 a 3 mesi. "L'importante era inserire nel Testo unico sulla scuola il divieto di fare propaganda politica o ideologica per i professori". Per quanto riguarda le sanzioni queste dovranno essere contenute poi in dettaglio in un provvedimento attuativo della legge. La propaganda politica" -secondo garagnani- "non può trovare tutela nel principio della libertà dell'insegnamento enunciato dall'Articolo 33 della Costituzione. Un conto infatti è tutelare la libertà di espressione del docente, un'altra è quella di consentire che nella scuola si continui a fare impunemente propaganda politica". E sarebbero molti i casi in cui i professori oltrepassano questo limite; per Garagnani accade soprattutto in Emilia Romagna, tra i professori iscritti alla Cgil". Per Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil si tratta di una proposta "delirante" ed ha aggiunto che "gli insegnanti educano, non inculcano". Ha ragione Garagnani o si tratta di una proposta "delirante"?

"Troppi libri comunisti a scuola", Pdl: Ci vuole una commissione d'inchiesta, scrive Agenzia Dire su “Orizzonti Scuola” - Iniziativa di 19 deputati guidati da Gabriella Carlucci, all'indice i testi di storia: "Gettano fango su Berlusconi". Dopo i giudici, anche i libri di testo contro Silvio Berlusconi. Secondo 19 deputati del Pdl, capitanati da Gabriella Carlucci, i testi scolastici di storia, su cui studiano migliaia di ragazzi, nasconderebbero "tentativi subdoli di indottrinamento" per "plagiare" le giovani generazioni "a fini elettorali" dando "una visione ufficiale della storia e dell'attualità asservita a una parte politica", il centrosinistra, "contro la parte politica che ne è antagonista", ossia il centrodestra. Di fronte a questa situazione definita "vergognosa", secondo i parlamentari del Pdl, il parlamento "non può far finta di non vedere" e per questo chiedono, attraverso una proposta di legge, l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta "sull'imparzialità dei libri di testo scolastici". Il progetto di legge è stato depositato alla Camera da Carlucci il 18 febbraio 2011  e assegnato alla commissione Cultura il 14 marzo. In attesa dell'avvio dell'esame, in questi giorni la proposta è stata sottoscritta da altri colleghi di partito (ieri si sono aggiunte nuove firme e altre ancora ne stanno arrivando), tra cui il capogruppo Pdl in commissione Cultura, Emerenzio Barbieri. Nella premessa, gli esponenti di maggioranza si chiedono: "Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano?" E la "battaglia partigiana", secondo il firmatari, viene messa in atto "osannando l'attuale schieramento di sinistra" e "gettando fango sui loro avversari". Per "capire la gravità del problema", sostengono i 19 deputati, "basta sfogliare la maggior parte dei libri che oggi troviamo nelle scuole, sui banchi dei nostri figli". Scopo della Commissione d'inchiesta? "Verificare quali sono i libri faziosi - spiega Barbieri interpellato dalla Dire - e dargli il tempo di adeguarsi prima di farli ritirare dal mercato, mica mandarli al macero...". Gli altri firmatari della proposta di legge Carlucci, che mette all'indice i libri di testo definiti "partigiani", sono: Barani, Botta, Lisi, Scandroglio, Bergamini, Biasotti, Castiello, Di Cagno Abbrescia, Di Virgilio, Dima, Girlanda, Holzmann, Giulio Marini, Nastri, Sbai, Simeoni e Zacchera. Nella premessa, si fanno alcuni esempi dei testi incriminati, specificando che "in Italia, negli ultimi cinquant'anni, lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico" retaggio "dell'idea gramsciana della conquista delle casematte del potere" che "si è propagato attraverso l'insegnamento della storia e della filosofia nelle scuole". Si cita La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, che descrive "tre personaggi storici: Palmiro Togliatti, un uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali; Enrico Berlinguer, un uomo di profonda onestà morale e intellettuale, misurato e alieno alla retorica; Alcide De Gasperi, uno statista formatosi nel clima della tradizione politica cattolica". Ma anche Elementi di storia di Camera-Fabietti, edito da Zanichelli, reo, ad avviso del Pdl, di sostenere che "l'ignominia dei gulag sovietici non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla conversione di Stalin al tradizionale imperialismo". E ancora, la Storia, volume III, di De Bernardi-Guarracino, edito da Bruno Mondadori, per il quale dal 1948 "l'attuazione della Costituzione sarebbe diventato uno degli obiettivi dell'azione politica delle forze di sinistra e democratiche". E si arriva ai tempi più recenti. "Con la caduta del Muro di Berlino e con la fine dell'ideologia comunista in Italia - si precisa nella premessa alla proposta - i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali" e anzi "si rafforzano e si scagliano" contro "la parte politica che oggi è antagonista della sinistra", quella guidata da Berlusconi. Nella proposta di legge Carlucci, sottoscritta alla Camera da altri 18 deputati Pdl per istituire una Commissione d'inchiesta per verificare "l'imparzialità dei libri di testo scolastici", la messa all'indice viene supportata infine dai passaggi che descrivono gli ultimi 15/20 anni di storia politica italiana, ossia l'era berlusconiana. Uno degli esempi che, secondo i firmatari, "osanna" agli occhi degli studenti i partiti di centrosinistra lo si ritrova ne La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, a proposito del Partito democratico della sinistra: "Il Pds - è scritto - intende proporsi come il polo di aggregazione delle forze democratiche e progressiste italiane" con "un programma di riforme politico sociali miranti a rendere più governabile il Paese". Si tira poi in ballo la descrizione che L'età  contemporanea di Ortoleva-Revelli, edito da Bruno Mondadori, fa di Oscar Luigi Scalfaro: "Dopo aver abbandonato l'esercizio della magistratura per passare all'attività politica nel partito democristiano" si è segnalato "per il rigore morale e la valorizzazione delle istituzioni parlamentari". Ma il testo che più si distingue "per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche" è, secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di storia, citano, viene descritta l'attuale presidente del Pd, Rosy Bindi, come la "combattiva europarlamentare" che, ai tempi della militanza nella Democrazia cristiana, sollecitava ad "allontanare dalle cariche di partito" tutti "i propri esponenti inquisiti". E come viene descritto l'antagonista Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di testo, "con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro". Secondo gli autori, "l'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d'Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese". L'elenco dei libri "naturalmente potrebbe continuare ancora per molto - conclude il Pdl - ma bastano questi esempi per capire la gravità della questione".

Bagnasco contro i "campi d'indottrinamento" gender. Scrive Massimo Introvigne su “La Nuova BQ”. Lunedì 24 marzo 2014, aprendo il Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, che la presiede ha affrontato con grande determinazione la problematica della famiglia e dell’ideologia di genere. «La preparazione alla grande assise del sinodo sulla famiglia, che si celebrerà in due fasi nel 2014 e nel 2015, nonché il recente concistoro sul medesimo tema – ha detto Bagnasco – hanno provvidenzialmente riposto l’attenzione su questa realtà tanto “disprezzata e maltrattata”, come ha detto il Papa: commenterei, “disprezzata” sul piano culturale e “maltratta” sul piano politico». Il cardinale ha inquadrato la natura ideologica del problema: la famiglia è diventata il nemico da abbattere. «Colpisce che la famiglia sia non di rado rappresentata come un capro espiatorio, quasi l’origine dei mali del nostro tempo, anziché il presidio universale di un’umanità migliore e la garanzia di continuità sociale. Non sono le buone leggi che garantiscono la buona convivenza – esse sono necessarie – ma è la famiglia, vivaio naturale di buona umanità e di società giusta». Il cardinale è andato oltre: non è rimasto sul generico, ma ha citato come esempio dei maltrattamenti che la famiglia subisce un episodio specifico, su cui – lo ricordiamo per la cronaca, senza rivendicare primogeniture – per prima «La nuova Bussola quotidiana», nel silenzio generale, aveva attirato l’attenzione. «In questa logica distorta e ideologica – ha detto Bagnasco –, si innesta la recente iniziativa – variamente attribuita – di tre volumetti dal titolo “Educare alla diversità a scuola”, che sono approdati nelle scuole italiane, destinati alle scuole primarie e alle secondarie di primo e secondo grado. In teoria le tre guide hanno lo scopo di sconfiggere bullismo e discriminazione – cosa giusta –, in realtà mirano a “istillare” (è questo il termine usato) nei bambini preconcetti contro la famiglia, la genitorialità, la fede religiosa, la differenza tra padre e madre… parole dolcissime che sembrano oggi non solo fuori corso, ma persino imbarazzanti, tanto che si tende a eliminarle anche dalle carte». Durissimo il commento del presidente dei vescovi italiani «È la lettura ideologica del “genere” – una vera dittatura – che vuole appiattire le diversità, omologare tutto fino a trattare l’identità di uomo e donna come pure astrazioni. Viene da chiederci con amarezza se si vuol fare della scuola dei “campi di rieducazione”, di “indottrinamento”. Ma i genitori hanno ancora il diritto di educare i propri figli oppure sono stati esautorati? Si è chiesto a loro non solo il parere ma anche l’esplicita autorizzazione? I figli non sono materiale da esperimento in mano di nessuno, neppure di tecnici o di cosiddetti esperti. I genitori non si facciano intimidire, hanno il diritto di reagire con determinazione e chiarezza: non c’è autorità che tenga». Parole chiarissime: altri vescovi prendano esempio. La strategia enunciata esplicitamente da Papa Francesco nell’esortazione apostolica «Evangelii gaudium» – il Papa di certe questioni, comprese quelle (citate in nota nel documento come esempio delle «questioni» cui si allude) della famiglia e del gender, non parla, chiede che siano gli episcopati nazionali a intervenire – non piace a tanti nostri lettori, e dalle strategie, che non sono Magistero neppure ordinario, si può certo legittimamente dissentire. Però qualche volta le strategie funzionano: dove tace il Papa, i vescovi parlano. È successo negli Stati Uniti, in Polonia, in Croazia, in Portogallo, in Slovacchia. Ora succede anche in Italia, e non si può non ricordare che – come sempre avviene nel nostro Paese – prima di aprire con questa relazione il Consiglio Permanente della CEI venerdì scorso Bagnasco è andato in udienza dal Papa, cui questi testi sono di regola previamente sottoposti. Vediamo se questa rondine farà, come ci auguriamo, primavera.

Genitori, reagite all'imposizione dell'ideologia gender!. L'edizione di domenica di RomaSette, il settimanale della diocesi di Roma, evidenzia e valorizza l'azione del Comitato Articolo 26 contro i molteplici tentativi di introdurre nelle scuole l'ideologia gender, scrive Giuseppe Rusconi su Zenit.org. Per questa domenica iniziale d’Avvento RomaSette - l'inserto settimanale di Avvenire - ha scelto come articolo di apertura un testo sull’ormai allarmante dilagare anche nelle scuole romane – dagli asili nido in poi - dell’imposizione dell’ideologia del gender, secondo la quale la differenza tra maschile e femminile è solo una costruzione culturale e dunque va “decostruita” nel senso che ognuno non è quel che è e si vede, ma ciò che si sente e pensa di essere. Il titolo è “Gender a scuola. La protesta dei genitori”. In un box si danno indicazioni su un modulo, da inviare al dirigente scolastico dell’istituto dei propri figli, per la richiesta di consenso informato sulle iniziative ‘educative’ improntate all’ideologia del gender. Nella stessa pagina, appare su quattro colonne anche un articolo molto chiaro dal titolo: “Strategia Lgbt, i consulenti sono a senso unico”, accompagnato dall’occhiello: “Ventinove associazioni del mondo gay a fianco dell’Unar (Ndr: il noto Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) per la formazione, otto nei progetti finanziati dalla Regione Lazio. Proposta politica con una bozza di ordine del giorno per il Consiglio comunale: indottrinamento tra i banchi”. Si noterà qui subito che proprio la Regione Lazio – retta da Nicola Zingaretti - ha sborsato 120mila euro per i progetti pro-gender, mentre non si risparmia neppure la giunta Marino di Roma Capitale, grazie anche al sostegno entusiasta dell’assessore alla Scuola Alessandra Cattoi, che ha affidato all’associazione lgbt “Scosse” la formazione delle educatrici degli asili nido e delle scuole materne comunali della città. Nell’articolo di Roma Sette si ricorda il caso scoppiato presso l’asilo nido comunale “Castello Incantato”, in zona Bufalotta, laddove ai pargoli si legge ad esempio la “Piccola storia di una famiglia” (casa editrice Stampatello): tale cosiddetta “famiglia” comprende due donne che si fanno donare il “semino” necessario alla procreazione da una clinica olandese, tanto che alla fine la nascitura avrà “due mamme: solo una l’ha portata nella pancia, ma entrambe, insieme, l’hanno messa al mondo. Sono i suoi genitori”. E’ proprio dal tristo episodio del “Castello Incantato” che ha preso spunto l’idea di alcuni genitori di costituire il “Comitato Articolo 26”. Perché 26? Ci si riferisce all’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: I genitori hanno il diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli. Il Comitato è aperto a genitori, docenti, professionisti dell’educazione, di diverso credo religioso e filosofico, che “rifiutano con decisione l’indottrinamento gender nelle scuole italiane di ogni ordine e grado e che rivendicano, in maniera costruttiva, la priorità delle famiglie in tema di affettività e sessualità”. Tra gli obiettivi “diffondere un’informazione oggettiva e scientifica in merito alla cosiddetta ideologia gender”, “vigilare e segnalare gli aspetti ideologici pedagogicamente infondati e pericolosi, di progetti educativi e scolastici relativi a educazione sessuale e/o affettività, educazione alle differenze, lotta alla discriminazione tra bambini e bambine, lotta all’omofobia e/o al bullismo omofobico”, “sostenere e accompagnare il diritto dei genitori ad affermare e perseguire la priorità della propria missione educativa nei confronti dei figli”. Nell’articolo di Roma Sette sulla strategia Lgbt si ricorda inoltre che “a livello nazionale è in piena attuazione” tale strategia triennale, partorita due anni fa dall’Unar “istituito in seno al Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio”. Era il tempo di Monti, poi venne Letta e la strategia andò avanti, così come con Renzi. Del resto è dei giorni 26 e 27 novembre 2014 il corso per dirigenti scolastici organizzato a Roma dal ministero dell’Istruzione e dall’Unar con la collaborazione del Servizio lgbt di Rete nazionale delle Pubbliche amministrazioni antidiscriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere. Il Gruppo nazionale di lavoro è composto da 29 associazioni di settore, tutte rigorosamente lgbt. Il 23 febbraio scorso, il settimanale della diocesi di Roma aveva già dedicato quasi tutta la prima pagina all’ “operazione ideologica” del “gender in classe”, con un editoriale chiaro, pacato e fermo di don Filippo Morlacchi, in cui il direttore dell’Ufficio pastorale scolastica del Vicariato scriveva: “Anche in altri Paesi europei la potente minoranza favorevole al gender ha dettato l’agenda degli impegni scolastici; ma le associazioni di genitori hanno alzato la voce e prodotto agili pubblicazioni per avvertire le famiglie del fenomeno. Forse è tempo che anche in Italia non solo i cattolici, ma tutti gli uomini convinti della bontà della famiglia naturale si esprimano pubblicamente”. Un auspicio che è stato concretizzato in questi mesi da diverse associazioni e comitati a livello cittadino, regionale, nazionale (in primis la Manif pour tous Italia e le Sentinelle in piedi), in buona parte nell’area cattolica ma aperte a tutti. A livello di diocesi, ricordiamo poi l’esemplare "Nota su alcune urgenti questioni di carattere antropologico ed educativo" dei vescovi del Triveneto per la Giornata della vita 2014, la grave preoccupazione della Conferenza Episcopale toscana e di alcuni altri vescovi. Nelle ultime settimane sono successi altri fatti gravi, oltre alle intimidazioni fisiche e verbali con cui sono state bersagliate in diverse città le Sentinelle. Ad esempio una docente di religione cattolica dell’Istituto Pininfarina di Moncalieri è stata fatto oggetto ingiustamente di una pesantissima campagna di stampa originata dalle affermazioni (pare del tutto inventate) di uno studente attivista lgbt. Esposta al pubblico ludibrio dai mass-media, nelle prime reazioni a caldo non è stata certo difesa neppure dall’estemporaneamente remissivo arcivescovo di Torino. Grazie ad Avvenire è stata poi ristabilita la verità almeno per i lettori del quotidiano della Cei, oltre che per l’ambiente locale. La diocesi di Milano dal canto suo è incappata in un paio di decisioni che hanno destato molta perplessità tra non pochi cattolici: le scuse ufficiali per un’indagine statistica non certo segreta (rivolta a oltre seimila docenti di religione cattolica) e la negata solidarietà per un docente di religione (sospeso dalla scuola, con l’Ufficio scuola della Curia che ha aperto un procedimento di verifica) colpevole di aver mostrato a nove alunni di una terza liceo un documentario molto realistico, “L’urlo silenzioso”, su quel che succede durante un aborto. E’ stata la fiera dell’ipocrisia interessata, se si pensa alle tante immagini crude sfornate da tg e trasmissioni varie per ragione di audience. Intanto, in pieno sviluppo dell’applicazione della strategia totalitaria lgbt, l’Unione degli atei e agnostici razionali (Uaar), l’Arcigay, la Rete degli studenti medi ha trovato modo il 18 novembre di inviare una lettera allarmata al Ministro dell’Istruzione, all’Unar e alla Presidenza del Consiglio per denunciare che “stiamo assistendo ad un vero e proprio attacco nei confronti degli studenti e del sistema scolastico tutto, da parte di una frangia conservatrice e omofoba del nostro Paese”. Proclamano e minacciano i firmatari: “Il Ministero, e il Governo tutto, devono avere il coraggio di superare i tabù e di non fare della battaglia alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale un mero spot propagandistico. Riteniamo che il Ministero debba adoperarsi affinché tutte le scuole prevedano programmi didattici strutturati, destinati agli studenti, sull’educazione alle differenze, in cui si parli di identità di genere, orientamento sessuale e sesso biologico, e che investa nella formazione degli insegnanti, fornendo loro gli strumenti necessari così da evitare che casi come quelli sopracitati si ripetano”. Non è finita. Tuonano infatti atei, “studenti medi” e Arcigay: “Chiediamo, infine, di coinvolgere nei tavoli ministeriali le realtà sociali, le associazioni e le organizzazioni studentesche che da anni combattono le discriminazioni e l’omofobia e di far sì che questi percorsi producano finalmente soluzioni concrete”. La lettera contiene poi già una velata minaccia per gli istituti cattolici paritari, che certamente la lobby sogna costretti ad accettare l’auspicato indottrinamento oppure a chiudere. Nel resto d’Europa tentativi di tal genere sono già in corso, come in Gran Bretagna o sono minacciati, come in Francia. Insomma: la legge “antiomofobia” a firma Scalfarotto ancora non è stata approvata e già produce i suoi effetti liberticidi, dato che – oltre alle intimidazioni continue – i propugnatori dell’ideologia del gender si fanno sempre più sfrontati. Il rischio è che, considerato quanto è successo fin qui, molti scelgano il silenzio per evitare di essere lapidati dai media della nota lobby. Quel che è capitato del resto a Guido Barilla è estremamente significativo. Sbilanciatosi l’anno scorso in favore della famiglia del ‘Mulino Bianco’, è stato coperto di insulti e minacce; ha così ritenuto molto opportuno profondersi in mille scuse e agire in modo tale che oggi la Barilla è pienamente riabilitata. Come scrive il Washington Post  ha ottenuto 100/100 nella classifica delle imprese gay-friendly, avendo in un anno fatto “una marcia indietro radicale, aumentando i benefit sanitari per i dipendenti transgender e le loro famiglie, donando soldi per le cause dei diritti gay", oltre che ingaggiare consulenti come il “gay più potente d’America”, David Mixner, fiero dei risultati ottenuti. Ora per la Barilla del Guido rieducato mancano solo gli spot con protagoniste coppie omosessuali. Non temete, verranno presto. Si dovrà poi vedere se qualcuno non preferirà a quel punto assaporare un altro tipo di pasta.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

L’assessore scambia l’Islam per terrorismo. Gli studenti: "Si deve dimettere". All’indomani della strage di Parigi Elena Donezzan, responsabile per l’Istruzione della giunta veneta, scrive un appello ai presidi per parlare di terrorismo, accostandolo alla religione islamica. Scoppia il caso e la rete degli studenti chiede che lasci il suo posto con pubbliche scuse e il ritiro delle frasi incriminate, scrive Michele Sasso “L’Espresso”. Una frase ha scatenato un putiferio: «Se non si può dire che tutti gli islamici sono terroristi, è evidente che tutti i terroristi sono islamici e che molta violenza viene giustificata in nome di una appartenenza religiosa e culturale ben precisa». È giovedì 8 gennaio 2015 e a vergare l’appassionata lettera è l’assessore all’Istruzione della Regione Veneto, Elena Donezzan, che pochi giorni prima aveva promosso un family day a scuola per difendere la famiglia naturale. Scossa per il massacro nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi, torna alla carica non pensandoci troppo sopra. Una circolare indirizzata a tutti i presidi della sua regione intitolata “Terrorismo islamico: parliamone soprattutto a scuola” con passaggi forzati carichi di livore: «Alla luce della presenza dei tanti alunni stranieri nelle nostre scuole e dei loro genitori nelle nostre comunità, soprattutto a loro dobbiamo rivolgere il messaggio di richiesta di una condanna di questi atti, perché se hanno deciso di venire in Europa devono sapere che sono accolti in una civiltà con principi e valori, regole e consuetudini a cui devono adeguarsi e che la civiltà che li sta accogliendo con il massimo della pienezza dei diritti ha anche dei doveri da rispettare». Se il fine è la conoscenza e il dibattito dell’attualità tra i banchi il risultato di questa mossa è disastroso. Via change.org è partita una petizione dell’associazione studenti universitari e della rete degli studenti per chiedere le sue dimissioni con pubbliche scuse allegate e il ritiro delle frasi incriminate. In più di quattromila hanno sottoscritto le motivazioni: «Nella circolare si chiede a tutti i dirigenti di far discutere di quanto accaduto, condannando non solo i fatti e chiedendo a genitori e studenti stranieri di dissociarsi, ma anche la cultura islamica, che alimenta, secondo l’assessore, la genesi di tali attacchi terroristici». A scaldare gli animi l’accostamento della Donezzan tra il massacro di Parigi (e tutto quello che è seguito per 55 ore di paura) con l’aggressione alle porte di Venezia di un quattordicenne tunisino che ha accoltellato il padre di uno studente vittima di bullismo. «Fare un paragone tra un gesto di bullismo e un massacro con armi da fuoco è simbolo di un becero razzismo che non possiamo accettare, specialmente se proveniente da una figura con una certa carica istituzionale», continua la petizione: «Viene da domandarsi se questo parallelo sia frutto di una strumentalizzazione cosciente dei fatti oppure da semplice ignoranza: i casi di bullismo sono diffusi in tutto il Paese, non importa l’origine culturale del ragazzo». Dietro gli studenti anche la Cgil regionale ha preso posizione: «La lettera lascia stupefatti per il forte fondamentalismo ideologico sotteso nelle indicazioni impartite. La scuola deve formare le intelligenze e lo spirito critico di quelli che saranno i cittadini di domani, è un luogo di discussione e riflessione anche per capire quanto accaduto in Francia».

Basta coi finti Charlie. La sinistra si appropria dei simboli di ciò che ha sempre combattuto, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. La mia libertà vale più o meno di quella dei colleghi di Charlie? La nostra libertà, quella di ognuno di noi, compresi la Le Pen e Salvini, quanto vale? E ancora: chi decide la classifica delle libertà? Mi chiedo questo perché stiamo assistendo al più ipocrita degli spettacoli e al più surreale dei dibattiti. Giornalisti, intellettuali e politici di sinistra si sono stretti - dico io giustamente - attorno ai colleghi sterminati dalla furia islamica. Ma, contemporaneamente, dagli stessi è partita una campagna contro chi, come noi, sostiene che il pericolo viene proprio dal Corano, dall'islam e dai suoi imam. In queste ore, in tv e sui giornali, ci stanno facendo passare per dei provocatori, dei seminatori di odio, degli incendiari. Ma dico: se c'è qualcuno che, in decimo, ha sostenuto e scritto negli anni ciò che Charlie ha divulgato con la sua tecnica, siamo proprio noi. Noi siamo Charlie, la Fallaci è Charlie, Magdi Allam è Charlie, Piero Ostellino è Charlie. I liberali tutti sono Charlie. Voi di sinistra siete solo degli approfittatori, vi siete impossessati del corpo di un nemico ucciso per quella libertà di opinione che voi di sinistra negavate prima della strage (satira religiosa sì, ma solo contro il Papa e Gesù) e che ancora ora vorreste negare a noi. Se questo Giornale avesse pubblicato una sola di quelle vignette blasfeme saremmo stati linciati come razzisti, fascisti, pazzi irresponsabili e messi al gabbio dalla solerte magistratura italiana per islamofobia (ci siamo andati comunque vicini, nonostante il reato non esista nei nostri codici). E invece, da domani, sarà gara anche a sinistra per pubblicare le nuove frecciate del primo numero di Charlie Hebdo post attentato. Perché Charlie domani potrà dire sull'islam ciò che pensa e noi dovremmo invece allinearci al politicamente corretto? Non condivido molte cose che sostengono la Le Pen e Salvini, ma se uno «è Charlie» deve essere anche Le Pen e Salvini. Cioè deve essere uomo libero e garantire la libertà di chiunque. Cara sinistra, è facile sostenere i diritti dei morti. Anche perché, se fossero vivi, quelli di Charlie vi farebbero un mazzo tanto, quantomeno una pernacchia lunga da Parigi a Roma.

Se la sinistra odia il popolo, scrive Alessandro Catto su “Il Giornale”. La marcia di Parigi, come da programma, ha scatenato apprezzamento e condanna, sentimenti di simpatia e lontananza. Un’ondata di contraddizioni provenente in primis da quelli che, da questa marcia, avrebbero dovuto sentirsi rappresentati, ovvero i cittadini europei. Un evento che più che storico per meriti fisiologici, si è voluto rendere storico nella sua formulazione, nella sua presentazione ai media, nel dipingerlo come unica risposta possibile ad un attacco verso l’Occidente e i suoi valori. Premetto che per me non è stata una marcia trionfale, tantomeno un successo, soprattutto per quanto riguarda la testa di quel corteo. Coi suoi leaders in giacca e cravatta, i capi di stato, sembrava una pratica di circostanza tremendamente ipocrita e fasulla, qualcosa di fatto perché così c’è scritto che bisogna fare. Un qualcosa incapace di rappresentarmi e di rappresentare moltissime persone come me che dovrebbero, in teoria, essere e sentirsi cittadini europei. Alla testa di quel corteo è andata in scena l’ipocrisia di numerosissimi politici europei che hanno grosse responsabilità riguardo la situazione mediterranea e mediorientale. Vi erano personaggi che fino a ieri ci mostravano i benefici della primavera araba di turno, il suo carattere evangelico ed evangelizzante. Vi erano gli alfieri della democrazia per esportazione, gli alfieri di una Europa che non unisce. C’era un trionfo di bandiere in Piazza della Repubblica, ma bandiere europee ce n’erano pochissime. Quella manifestazione ha avuto più il carattere di un secondo funerale ai morti di Charlie Hebdo che non quello di una rivendicazione di orgoglio, di identità e di appartenenza. Ce l’ha avuto a partire dalla sua formulazione, dall’aver fatto fin dal principio figli e figliastri. Quella manifestazione stessa è figlia pure di una porzione politica che, fin da quando il terribile agguato alla sede parigina di Charlie è avvenuto, si è preoccupata più di fare tribuna politica contro il Salvini o la Le Pen di turno che di offrire tutto il proprio supporto alle vittime. Pare esserci stata più veemenza nell’attaccare i capipartito di destra che sensibilità nel puntare il dito contro i responsabili del fatto di sangue. Ieri non è andata in scena la marcia di una Europa unita ma semmai quella di molte nazioni divise, divise pure al loro interno. Nel sud della Francia, mentre le anime belle europee marciavano a colpi di foto e riprese, è andata in scena la marcia sponsorizzata da Marine Le Pen e dal Front National. La marcia dei dannati, degli ultimi, degli esclusi da tutto. Di quelli che non vanno di moda, che fa sempre prurito ospitare in qualche salotto, di quelli che non parlano di Europa, di Diritti e Democrazia, di concetti maiuscolati. Un partito ed una leader scomodi, che è meglio cancellare ed evitare se si vuole andare in piazza imbellettati e col sorriso. Strano però, perché a suon di parlare di democrazia ci siamo forse dimenticati di farla a casa nostra, e ci siamo dimenticati che quel partito così odiato, temuto, becero per bocca dei professori dei nostri tempi, è il primo partito di Francia per consenso elettorale. Marciamo per la libertà dei popoli dimenticandoci di cos’è il popolo, del suo diritto ad essere rappresentato. Si è preferito usare un fatto tragico per trasformare il tutto nella solita, trita e oramai inascoltabile retorica sul rifiuto dei fascismi, dei razzismi, sull’accoglienza, sulla condanna di una ipotetica strumentalizzazione. Qui l’unica strumentalizzazione che ho visto, personalmente, è stata quella di chi, a cadaveri ancora caldi, ha subito messo in piedi un gioco orribile per colpire l’avversario politico, di chi ha approfittato dell’occasione per provare, tristemente, a ritornare rappresentante del popolo dopo l’usurpazione. La sinistra non dimentica, è vendicativa, non tollera usurpazioni. E quella del Front in Francia e pure della Lega in Italia è una usurpazione in piena regola. In termini elettorali, politici e in termini di consenso. La rabbia monta in partiti di sinistra che non riescono più a farsi intercettori delle istanze popolari più umili, che non sanno dar loro rappresentazione, che si ritrovano smarriti. In questi casi allora si tenta sempre di barrare la strada a chi può divenire l’intercettore della protesta al proprio posto. Può esservi la risposta più scaltra, quella di un centrosinistra in salsa renziana che tenta di attirare gli apparati più moderati della nazione. Ma c’è anche la risposta più rabbiosa, più puerile, e sta alla sua sinistra: quella di chi ha perso tutto, ha perso la propria dimensione elettorale, ha perso il passo nei confronti delle istanze del popolo, di chi come unica arma conserva una sola cosa: l’assalto indiscriminato all’avversario e al suo successo, con tutti i mezzi possibili. La sinistra di oggi pare odiare ferocemente il popolo perché l’ha smarrito, perché sa benissimo che moltissimi operai, cassaintegrati, esodati, sia in Francia che in Italia non vogliono salotti, sofismi, filosofie, teosofie, psicodrammi e buonismi. Vogliono soluzioni immediate, presenze tangibili, capacità di dialogo e rappresentazione, vogliono poter confessare le proprie paure e le proprie necessità, anche quelle politicamente scorrette. E questo ormai, in Europa, non lo si fa nella piazza di Parigi, lo si fa nella piazza di Beaucaire con la Le Pen, lo si fa a Musile di Piave con Salvini. Il popolo è lì, consegnato in toto al nemico a son di cianciare di populismo e demagogia. Parlando proprio di rapporto tra Islam e Occidente sentivo ieri, in una nota trasmissione serale di La7, un giovane dire che “non si può far parlare chi non arriva agli ottocento euro al mese”. Un giovane in giacca, occhiali da hipster, erre arrotata, espressione massima del ben pensare de sinistra in salsa europea. Non me la sento di attaccarlo perché esprime chiaramente quello che è la sinistra oggi. Rifiuto del più povero e del più debole, al quale si può pure tappare la bocca. Negazione del disagio, elogio del buonismo. Rifiuto per le classi più povere e disprezzo delle stesse. Non c’è cosa più trendy, al giorno d’oggi, di usare il termine populismo come offesa. E’ un qualcosa che potrebbe tranquillamente essere adottato come criterio di iniziazione per un percorso che parte dalle giovanili del PD, dalle università, dagli apericena meticci, dai lupanari dell’accoglienza. La sinistra oggi è questa, e sfila in giacca e cravatta dopo aver tentato di esportare la sua democrazia in giro per il mondo. Permetteteci di dissentire, e di preferire la piazza di Beaucaire. Che forse ha ancora il diritto di venir chiamata piazza, e non palcoscenico.

Alessandro Catto, laureato in Storia, collabora anche con l’Intellettuale Dissidente. Si occupa di politica e società. Nemico del pensiero unico, tradizionalista per reazione, popolare per collocazione, identitario per protesta, controcorrente per natura, nemico dichiarato della dittatura culturale da sinistra salottiera. Nato a Camposampiero (Padova) il 22/11/1991.

Maometto. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Maometto (La Mecca, 570 circa – Medina, 8 giugno 632) è stato il fondatore e, per i musulmani, l'ultimo profeta dell'Islam. Considerato dai musulmani di ogni declinazione - ad eccezione degli Ahmadi - l'ultimo esponente di una lunga tradizione profetica all'interno della quale occupa una posizione di assoluto rilievo, Messaggero di Dio (Allah) e Sigillo dei profeti, per citare solo due degli epiteti onorifici che gli sono tradizionalmente riferiti, sarebbe stato incaricato da Dio stesso - attraverso l'arcangelo Gabriele - di divulgare il suo verbo tra gli Arabi.

Prima della Rivelazione. Maometto (che nella sua forma originale araba significa "il grandemente lodato") nacque in un giorno imprecisato (che secondo alcune fonti tradizionali sarebbe il 20 o il 26 aprile di un anno parimenti imprecisabile, convenzionalmente fissato però al 570) a Mecca, nella regione peninsulare araba del Hijaz, e morì il lunedì 13 rabīʿ I dell'anno 11 dell'Egira (equivalente all'8 giugno del 632) a Medina e ivi fu sepolto, all'interno della casa in cui viveva. Sia per la data di nascita, sia per quella di morte, non c'è tuttavia alcuna certezza e quanto riportato costituisce semplicemente il parere di una maggioranza relativa, anche se sostanziosa, di tradizionisti. La sua nascita sarebbe stata segnata, secondo alcune tradizioni, da eventi straordinari e miracolosi. Appartenente a un importante clan di mercanti, quello dei Banu Hashim, componente della più vasta tribù dei Banu Quraysh di Mecca, Maometto era l'unico figlio di ʿAbd Allāh b. ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim e di Āmina bint Wahb, figlia del sayyid del clan dei Banu Zuhra, anch'esso appartenente ai B. Quraysh. Orfano fin dalla nascita del padre (morto a Yathrib al termine d'un viaggio di commercio che l'aveva portato nella palestinese Gaza), Maometto rimase precocemente orfano anche di sua madre che, nei suoi primissimi anni, l'aveva dato a balia a alīma bt. Abī Dhuʿayb, della tribù dei Banū Saʿd b. Bakr, che effettuava piccolo nomadismo intorno a Yathrib. Nell'Arabia preislamica già esistevano comunità monoteistiche, comprese alcune di cristiani ed ebrei. A Mecca - dove, alla morte della madre, fu portato dal suo primo tutore, il nonno paterno ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim, e dove poi rimase anche col secondo suo tutore, lo zio paterno Abu Tàlib - Maometto potrebbe forse aver avuto l'occasione di entrare in contatto presto con quei hanīf, che il Corano vuole fossero monoteisti che non si riferivano ad alcuna religione rivelata, come si può leggere nelle sure III:67 e II:135. Secondo una tradizione islamica, egli stesso era un hanīf e un discendente di Ismaele, figlio di Abramo. La storicità di questo gruppo è comunque discussa fra gli studiosi. Nei suoi viaggi fatti in Siria e Yemen con suo zio, Maometto potrebbe aver preso conoscenza dell'esistenza di comunità ebraiche e cristiane e dell'incontro, che sarebbe avvenuto quando Maometto aveva 9 o 12 anni, col monaco cristiano siriano Bahīra - che avrebbe riconosciuto in un neo fra le sue scapole il segno del futuro carisma profetico - si parla già nella prima biografia (Sīra) di Maometto, che fu curata, vario tempo dopo la morte, da Ibn Isāq per essere poi ripresa in forma più "pia" da Ibn Hishām. Oltre alla madre e alla nutrice, due altre donne si presero cura di lui da bambino: Umm Ayman Baraka e Fātima bint Asad, moglie dello zio Abū Tālib. La prima era la schiava etiopica della madre che lo aveva allevato dopo il periodo trascorso presso con Halīma, rimanendo con lui fino a che Maometto ne propiziò il matrimonio, dapprima con un medinese e poi col figlio adottivo Zayd. Nella tradizione islamica Umm Ayman, che generò Usama ibn Zayd, fa parte della Gente della Casa (Ahl al-Bayt) e il Profeta nutrì sempre per lei un vivo affetto, anche per essere stata una delle prime donne a credere al messaggio coranico da lui rivelato. Altrettanto importante fu l'affettuosa e presente sua zia Fātima bint Asad, che Maometto amava per il suo carattere dolce, tanto da mettere il suo nome a una delle proprie figlie e per la quale il futuro profeta pregò spesso dopo la sua morte. I numerosi viaggi intrapresi per via dell'attività mercantile familiare - dapprima con lo zio e poi come agente della ricca e colta vedova Khadīja bt. Khuwaylid - dettero a Maometto occasione di ampliare in maniera significativa le sue conoscenze in campo religioso e sociale. Sposata nel 595 Khadìja bint Khuwàylid (che restò finché visse la sua unica moglie), egli poté dedicarsi alle sue riflessioni spirituali in modo più assiduo e, anzi, pressoché esclusivo. Khadìja fu il primo essere umano a credere nella Rivelazione di cui Maometto era portatore e lo sostenne con forte convinzione fino alla sua morte avvenuta nel 619. A lui, in una vita di coppia senz'altro felice, dette quattro figlie - Zaynab, Ruqayya, Umm Khulthūm e Fāima, detta al-Zahrāʾ (tutte premorte al padre, salvo l'ultima) - oltre a due figli maschi (al-Qàsim e ʿAbd Allah) che morirono tuttavia in tenera età.

Rivelazione. Nel 610 Maometto, affermando di operare in base a una Rivelazione ricevuta, cominciò a predicare una religione monoteista basata sul culto esclusivo di Dio, unico e indivisibile. In effetti il concetto di monoteismo era diffuso in Arabia da tempi più antichi e il nome Allah (principale nome di Dio nell'Islam) significa semplicemente "Iddio". Gli abitanti dell'Arabia peninsulare e di Mecca - salvo pochi cristiani e zoroastriani e un assai più consistente numero di ebrei - erano per lo più dediti a culti politeistici e adoravano un gran numero di idoli. Questi dèi erano venerati anche in occasione di feste, per lo più abbinate a pellegrinaggi (in arabo: mawsim). Particolarmente rilevante era il pellegrinaggio panarabo, detto ajj, che si svolgeva nel mese lunare di Dhu l-Hijja ("Quello del Pellegrinaggio"). In tale occasione molti devoti arrivavano nei pressi della città, nella zona di Mina, Muzdalifa e di ʿArafa. Gli abitanti di Mecca avevano anche un loro proprio pellegrinaggio urbano (la cosiddetta ʿumra) che svolgevano nel mese di rajab in onore del dio tribale Hubal e delle altre divinità panarabe, graziosamente ospitate dai Quraysh all'interno del santuario meccano della Kaʿba. Maometto, come altri anīf, era solito ritirarsi a meditare, secondo la tradizione islamica, in una grotta sul monte Hira vicino Mecca. Secondo tale tradizione, una notte, intorno all'anno 610, durante il mese di Ramadan, all'età di circa quarant'anni, gli apparve l'arcangelo Gabriele (in arabo Jibrīl o Jabrāʾīl, ossia "potenza di Dio": da "jabr", potenza, e "Allah", Dio) che lo esortò a diventare Messaggero (rasūl) di Allah con le seguenti parole: « (1) Leggi, in nome del tuo Signore, che ha creato, (2) ha creato l'uomo da un grumo di sangue! (3) Leggi! Ché il tuo Signore è il Generosissimo, (4) Colui che ha insegnato l’uso del calamo, (5) ha insegnato all'uomo quello che non sapeva». Turbato da un'esperienza così anomala, Maometto credette di essere stato soggiogato dai jinn e quindi impazzito (majnūn, "impazzito", significa letteralmente "catturato dai jinn") tanto che, scosso da violenti tremori, cadde preda di un intenso sentimento di terrore. Secondo la tradizione islamica Maometto poté in quella sua prima esperienza teopatica sentire le rocce e gli alberi che gli parlavano. Preso dal panico fuggì a precipizio dalla caverna in direzione della propria abitazione e nel girarsi vide Gabriele sovrastare con le sue ali immense l'intero orizzonte (per quel "gigantismo" che caratterizza le "realtà angeliche", anche in contesti diversi da quello islamico) e lo sentì rivelargli di essere stato prescelto da Dio come suo messaggero. Non gli fu facile accettare tale notizia ma a convincerlo della realtà di quanto accadutogli, provvide innanzi tutti la fede della moglie e, in seconda battuta, quella del cugino di lei, Waraqa ibn Nawfal, che alcuni indicano come cristiano ma che, più verosimilmente, era uno di quei monoteisti arabi (anīf) che non si riferivano tuttavia a una specifica struttura religiosa organizzata. Dopo un lungo e angosciante periodo in cui le sue esperienze non ebbero seguito (fatra), Gabriele tornò di nuovo a parlargli per trasmettergli altri versetti e questo proseguì per 23 anni, fino alla morte nel 632 di Maometto.

È ancora oggetto di disputa la questione riguardante l'analfabetismo di Maometto. Si nota come la sua professione di commerciante abbia potuto portarlo in contatto con altre lingue e altre culture, e come sia intervenuto, secondo una tradizione riportata da Tabari, per apportare una correzione riguardante la sua firma nel Trattato di udaybiyya. Ci sarebbe poi una lettera autografa, conservata nel museo Topkapi di Istanbul. Secondo alcuni, tutto deriverebbe da un equivoco riguardante l'espressione a lui riferita di al-Nabī al-ummī che può voler dire in effetti "il profeta ignorante" ma anche, e più verosimilmente, "il profeta della comunità (araba)" o "il profeta di una cultura non basata su testi sacri scritti". Altre fonti fanno notare come le personalità in grado di leggere e scrivere, nel periodo precedente all'Egira, fossero una quindicina, tutte conosciute per nome, e in effetti il Corano sarebbe il più antico libro arabo in prosa. Studiosi occidentali fanno notare come le tribù nomadi, compresa quella di Maometto, disprezzassero la scrittura, privilegiando la trasmissione orale delle conoscenze. La maggior parte dei musulmani propende per un analfabetismo del loro Profeta, escludendo pertanto radicalmente che egli abbia potuto leggere la Bibbia o altri testi sacri, che del resto sarebbero comparsi in forma scritta solo diverso tempo dopo la sua morte. Maometto cominciò dunque a predicare la Rivelazione che gli trasmetteva Jibrīl, ma i convertiti nella sua città natale furono pochissimi per i numerosi anni che egli ancora trascorse a Mecca. Fra essi il suo amico intimo e coetaneo Abu Bakr (destinato a succedergli come califfo, guida della comunità islamica che si fondò con lenta ma sicura progressione malgrado l'assenza di precise indicazioni scritte e orali in merito) e un gruppetto assai ristretto di persone che sarebbero stati i suoi più validi collaboratori: i cosiddetti "Dieci Benedetti" (al-ʿashara al-mubashshara). La Rivelazione da lui espressa dunque - raccolta dopo la sua morte nel Corano, il libro sacro dell'Islam - dimostrò la validità del detto evangelico per cui "nessuno è profeta in patria". Maometto ripeté per ben due volte per intero il Corano nei suoi ultimi due anni di vita e molti musulmani lo memorizzarono per intero ma fu solo il terzo califfo ʿUthmān b. ʿAffān a farlo mettere per iscritto da una commissione coordinata da Zayd b. Thābit, segretario del Profeta. Così il testo accettato del Corano poté diffondersi nel mondo a seguito delle prime conquiste che portarono gli eserciti di Medina in Africa, Asia ed Europa, rimanendo inalterato fino ad oggi, malgrado lo Sciismo vi aggiunga un capitolo (Sura) e alcuni brevi versetti (ayat).

Gli ultimi anni a Mecca e l'Egira. Nel 619, l'"anno del dolore", morirono tanto suo zio Abu Talib, che gli aveva garantito affetto e protezione malgrado non si fosse convertito alla religione del nipote, quanto l'amata Khadìja. Fu solo dopo ripetute insistenze che Maometto contrasse nuove nozze, tra cui quelle con ʿĀʾisha bt. Abī Bakr, figlia del suo più intimo amico e collaboratore, Abu Bakr. L'ostilità dei suoi concittadini tentò di esprimersi con un prolungato boicottaggio nei confronti di Maometto e del suo clan, con il divieto di intrattenere con costoro rapporti di tipo economico commerciale, i troppi vincoli parentali creatisi però fra i clan della stessa tribù fecero fallire il progetto di ridurre a più miti consigli Maometto. Nel 622 il crescente malumore dei Quraysh nel veder danneggiati i propri interessi - a causa dell'inevitabile conflitto ideologico e spirituale che si sarebbe radicato con gli altri arabi politeisti (che con loro proficuamente commerciavano e che annualmente partecipavano ai riti della ʿumra del mese di rajab) - lo indusse a rifugiarsi con la sua settantina di correligionari, a Yathrib, trecentoquaranta chilometri più a nord di Mecca, che mutò presto il proprio nome in Madīnat al-Nabī, "la Città del Profeta" (Medina). Il 622, l'anno dell'Egira (emigrazione), divenne poi sotto il califfo 'Omar ibn al-Khattàb il primo anno del calendario islamico, utile alla tenuta dei registri fiscali e dell'amministrazione in genere.

La Umma e l'inizio dei conflitti armati. Inizialmente Maometto si ritenne un profeta inserito nel solco profetico antico-testamentario, ma la comunità ebraica di Medina non lo accettò come tale. Nonostante ciò, Maometto predicò a Medina per otto anni e qui, fin dal suo primo anno di permanenza, formulò la Costituzione di Medina (Rescritto o Statuto o Carta, in arabo aīfa) che fu accettata da tutte le componenti della città-oasi e che vide il sorgere della Umma, la prima Comunità politica di credenti. Nello stesso tempo, con i suoi seguaci, condusse attacchi contro le carovane dei Meccani e respinse i loro contrattacchi. L'ostilità di Maometto nei confronti dei suoi concittadini si concretizzò nel primo vittorioso scontro armato ai pozzi di Badr, alla successiva disfatta di Uud e alla finale vittoria strategica di Medina (Battaglia del Fossato) contro i politeisti Quraysh che lo avevano inutilmente assediato.

L'atteggiamento verso gli ebrei. In tutte queste circostanze Maometto colpì in diversa misura anche gli ebrei di Medina, che si erano resi colpevoli agli occhi della Umma della violazione del Rescritto di Medina e di tradimento nei confronti della componente islamica. In occasione dei due primi fatti d'armi furono esiliate le tribù ebraiche dei Banū Qaynuqāʿ e dei Banū Naīr, mentre dopo la vittoria nella cosiddetta "battaglia" del Fossato (Yawm al-Khandaq), i musulmani decapitarono tra i 700 e i 900 uomini ebrei della tribù dei Banū Qurayza, arresasi ai seguaci del Profeta in conseguenza del fallimento dell'assedio dei Quraysh e dei loro alleati arabi, protrattosi per 25 giorni. Le loro donne e i loro bambini furono invece venduti come schiavi sui mercati d'uomini di Siria e del Najd, dove vennero quasi tutti riscattati dai loro correligionari di Khaybar, Fadak e di altre oasi arabe higiazene. La cruenta decisione fu probabilmente la conseguenza dell’accusa di intelligenza col nemico durante l’assedio ma la sentenza non fu decisa da Maometto che invece affidò il responso sulla punizione da adottare a Saʿd b. Muʿādh, sayyid dei Banū ʿAbd al-Ashhal, clan della tribù medinese dei Banu Aws e un tempo principale alleato dei B. Quraya. Questi, ferito gravemente da una freccia (tanto da morirne pochissimi giorni più tardi) e ovviamente pieno di rabbia e rancore, decise per quella soluzione estrema, non frequente ma neppure del tutto inconsueta per l'epoca. Che non si trattasse comunque di una decisione da leggere in chiave esclusivamente anti-ebraica potrebbe dimostrarcelo il fatto che gli altri B. Quraya che vivevano intorno a Medina, e nel resto del ijāz (circa 25.000 persone), non furono infastiditi dai musulmani, né allora, né in seguito. In proposito si è anche espresso uno dei più apprezzati storici del primo Islam, Fred McGrew Donner, che, nel suo Muhammad and the believers (Cambridge, MA, The Belknap Press of Harvard University Press, 2010, p. 74), afferma « dobbiamo... concludere che gli scontri con altri ebrei o gruppi di ebrei furono il risultato di particolari atteggiamenti o comportamenti politici di costoro, come, per esempio, il rifiuto di accettare la leadership o il rango di profeta di Muhammad. Questi episodi non possono pertanto essere considerati prove di un'ostilità generalizzata nei confronti degli ebrei da parte del movimento dei Credenti, così come non si può concludere che Muhammad nutrisse un'ostilità generalizzata nei confronti dei Quraysh perché fece mettere a morte e punì alcuni suoi persecutori appartenenti a questa tribù. (Fred M. Donner, Maometto e le origini dell'islam, ediz. e trad. di R. Tottoli, Torino, Einaudi, 2011, p. 76-77). » Una minoranza di studiosi musulmani rifiutano di riconoscere l'incidente ritenendo che Ibn Ishaq, il primo biografo di Maometto, abbia presumibilmente raccolto molti dettagli dello scontro dai discendenti degli stessi ebrei Qurayza. Questi discendenti avrebbero arricchito o inventato dettagli dell'incidente prendendo ispirazione dalla storia delle persecuzioni ebraiche in epoca romana.

La conquista dell'Arabia e la morte. Nel 630 Maometto era ormai abbastanza forte per marciare su Mecca e conquistarla. Tornò peraltro a vivere a Medina e da qui ampliò la sua azione politica e religiosa a tutto il resto del Hijaz e, dopo la sua vittoria nel 630 a unayn contro l'alleanza che s'imperniava sulla tribù dei Banū Hawāzin, con una serie di operazioni militari nel cosiddetto Wadi al-qura, a 150 chilometri a settentrione di Medina, conquistò o semplicemente assoggettò vari centri abitati (spesso oasi), come Khaybar, Tabūk e Fadak, il cui controllo aveva indubbie valenze economiche e strategiche.

Due anni dopo Maometto morì a Medina, dopo aver compiuto il Pellegrinaggio detto anche il "Pellegrinaggio dell'Addio", senza indicare esplicitamente chi dovesse succedergli alla guida politica della Umma. Lasciava nove vedove - tra cui ʿĀʾisha bt. Abī Bakr - e una sola figlia vivente, Fāima, andata sposa al cugino del profeta, ʿAlī b. Abī ālib, madre dei suoi nipoti al-asan b. ʿAlī e al-usayn b. ʿAlī. Fatima, piegata dal dolore della perdita del padre e logorata da una vita di sofferenze e fatiche, morì sei mesi più tardi, diventando in breve una delle figure più rappresentative e venerate della religione islamica.

Origine del nome. "Maometto" è la volgarizzazione italiana fatta in età medievale del nome "Muhammad", utile semplificazione della pronuncia. La parola araba "muhammad", che significa "grandemente lodato", è infatti un participio passivo di II forma (intensiva) della radice [h-m-d] (lodare). Secondo lo studioso francese Michel Masson], invece, nelle lingue romanze, e tra queste l'italiano, si osserva una storpiatura del nome del profeta in senso spregiativo (e da ciò deriverebbero, a suo dire, il francese Mahomet e l'italiano Macometto). Allo stesso modo si esprimono alcuni scrittori italiani che ritengono che il nome "Maometto" non sarebbe di diretta origine araba, ma "un'italianizzazione" adottata all'epoca per costituire una sintesi dell'espressione spregiativa di "Mal Commetto", volta a conferire una connotazione negativa al Profeta dell'Islam.

Maometto secondo i non musulmani. Dopo un protratto periodo di indifferenza nei confronti dell'Islam, superficialmente equivocato dalla Cristianità occidentale e orientale, come una delle tante eresie del Cristianesimo nelle dispute con cristiani, questi ultimi sottolinearono sovente il carattere sincretistico della religione di Maometto, basata allo stesso tempo su tradizioni arabe preislamiche (come il culto della Pietra Nera della Mecca) e su tradizioni cristiane siriache ed ebraiche, e mossero critiche alla personalità di Maometto, alla formazione e trasmissione del testo coranico e alla diffusione dell'islam attraverso la spada. Nell'Occidente medievale Maometto fu considerato per oltre cinque secoli un cristiano eretico. Dante Alighieri - non consapevole del profondo grado di diversità teologica della fede predicata da Maometto, per l'influenza su di lui esercitata dal suo Maestro Brunetto Latini, che riteneva Maometto un chierico cristiano di nome Pelagio, appartenente al casato romano dei Colonna - lo cita nel canto XXVIII dell'Inferno tra i seminatori di scandalo e di scisma nella Divina Commedia assieme ad Ali ibn Abi Tàlib, suo cugino-genero, coerentemente con quanto da lui già scritto ai versetti 70-73 del canto VIII dell'Inferno:« ...«Maestro, già le sue meschite / là entro certe ne la valle cerno, / vermiglie come se di foco uscite / fossero... » in cui le "meschite" (evidente deformazione della parola del volgare castigliano mezquita, derivante dall'arabo masjid, che significa moschea) della città di Dite sono le "vermiglie" abitazioni della città dannata ove dimorano gli eresiarchi cristiani. È questo (e non altro) il motivo per cui nella basilica di San Petronio a Bologna, in un celebre affresco, Maometto fu raffigurato all'inferno, secondo la descrizione di Dante, con il ventre squarciato, come spaccata era la comunità cristiana a causa dei suoi vari scismi. Il motivo per cui Dante lo colloca tra i seminatori di discordie e non tra gli eresiarchi è probabilmente dovuto a una leggenda medievale che parla di Maometto come vescovo e cardinale cristiano, che poi avrebbe rinnegato la propria fede, deluso per non aver raggiunto il papato o per altra ragione e avrebbe creato una nuova religione «mescolando quella di Moisè con quella di Cristo». Secondo una tradizione diffusa tra i musulmani, il Negus di Abissinia - che ospitò gli esiliati musulmani quando Maometto era in vita - avrebbe attestato la sua fede in lui come profeta di Dio.

Si può ridere di Dio? Mentre il divino evoca risate, il demoniaco spande paura, scrive Paolo Pegoraro su  “Aleteia”. Ricordiamo tutti il monaco cieco che, ne Il nome della rosa, avvelena quanti si avvicinano al prezioso scritto nel quale Aristotele difende la commedia e il riso. È vero che la tristezza intossica, meno che il Medioevo sia stato un’epoca di cupa e triste penitenza. Eric Auerbach, nel suo immortale studio Mimesis, ha documentato che la struttura portante della narrativa cristiana, a partire dai Vangeli, è proprio la commedia… non la tragedia. E Dante, con la sua Comedìa, ne è la pietra miliare. Lo affianca il prologo che Francois Rabelais – frate francescano (a suo modo), monaco benedettino (a suo modo), parroco diocesano (a suo modo) – antepone al Gargantua et Pantagruel: «Altra cosa non può il mio cuore esprimere / vedendo il lutto che da voi promana: / meglio è di risa che di pianti scrivere, / ché rider soprattutto è cosa umana». Altrettanto si potrebbe dire per il suo predecessore padano, il monaco, poi ex monaco, infine di nuovo monaco Teofilo Folengo. La tradizione del grottesco e del caricaturale crebbe febbrilmente in Occidente: dalle deformi statue gotiche alle pagine grottesche di Flannery O’Connor fino al caricaturale Vangelo secondo Biff di Christopher Moore. Per contrapporsi e disgregare le istituzioni, si dirà. Fosse pure, il fatto è che la tradizione comico-grottesca crebbe qui come non altrove. Prolificò qui un umorismo religioso, dissacrante, talora perfino blasfemo. Nessuna sorpresa: le barzellette più sconce vengono bisbigliate in sacrestia. Come si rapporta, allora, Dio con il ridere? Il grande poeta irlandese Patrick Kavanagh espose il suo pensiero in maniera convincente nella composizione A View of God and the Devil (Una visione di Dio e del Diavolo – traduzione dell’autore).

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Ho incontrato Dio Padre sulla strada e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi: divertente, sperimentale, irresponsabile sulle frivolezze. Non era un uomo che vorrebbe essere eletto al Consiglio né impressionerebbe un vescovo o un circolo di artisti. Non era splendido, spaventoso o tremendo e neppure insignificante. Questo era il mio Dio che fece l’erba e il sole e i ciottoli nei ruscelli in aprile; questo era il Dio che ho incontrato in una vecchia cava colma di denti-di-leone. Questo era il Dio che ho incontrato a Dublino mentre vagavo per strade inconsapevoli. Questo era il Dio che covò sui campi erpicati di Rooney accanto alla statale Carrick il giorno che i miei primi versi furono stampati io lo conobbi e mai ebbi paura di morte o dannazione e seppi che la paura di Dio era il principio della follia.

Il Diavolo anche il Diavolo ho incontrato, e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi: solenne, noioso, conservatore. Era l’uomo che il mondo eleggerebbe al Consiglio, sarebbe nella lista degli invitati al ricevimento di un vescovo, assomigliava a un artista. Era il tizio che scrive di musica sui quotidiani andava in collera quando qualcuno rideva; era grave su cose senza peso; dovevi fare attenzione al suo complesso d’inferiorità perché era consapevole di non essere creativo.

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Colpisce che il primo aggettivo scelto da Kavanagh per descrivere il “suo” Dio sia proprio amusing (“divertente”) in opposizione a quel povero diavolo che «andava in collera quando qualcuno rideva». Perché rideva proprio di lui, probabilmente, abituato a prendersi “dannatamente” sul serio. Mentre il divino sa essere irresponsabile «sulle frivolezze», il demoniaco è grave «su cose senza peso». Mentre il divino evoca risate, il demoniaco spande paura. Mentre il divino umorismo ha mille sfumature, la “dannata” serietà è monolitica e monotona. Il Dio di Kavanagh è un Dio autoironico. Non è possibile deriderlo semplicemente perché è Lui il primo a ridere di se stesso. Non si può ridere “di” Dio semplicemente perché si può ridere soltanto “con” Lui. Proprio perché così prolificamente creativo (egli “cova” i campi come una chioccia) e fantasioso, non sorprenderebbe se fosse Lui in persona l’autore delle migliori storielle su se stesso. Se il demoniaco rivela il proprio «complesso d’inferiorità» irrigidendosi di continuo, nel vano tentativo di nascondere la propria sterilità, per contro il sigillo della creatività senza limiti è l’umiltà (umile, yet not insignificant!). E, fra tutte, l’autoironia è la forma di umiltà più bella. Perché l’autoironia è una forma di umiltà così autentica che proprio non ci riesce, a prendersi sul serio.

Chiunque sa ridere degli altri, basta avere un granello d'intelligenza; ma per ridere con loro di se stessi, occorre un'oncia di santità.

Divina Commedia. Dante aveva già capito tutto: ecco dove e come aveva messo Maometto. C'è una satira anti-Maometto più feroce di quella di Charlie Hebdo. Circola liberamente in Europa e non solo da secoli. A scriverla fu uno dei più grandi scrittori della storia dell'Occidente. E la si studia anche in tutte le scuole. Mette il profeta musulmano e Alì, suo cugino, genero e successore come Califfo, nientemeno che all'inferno, nel canto XXVIII dedicato ai seminatori di discordia. Lui, l'anti-Maometto, è nientemeno che Dante e l'opera è la Divina Commedia. In cui Maometto viene messo nella bolgia più "sozza" che si possa immaginare, piena di corpi mutilati e orrendamente sfigurati. C'è che secondo le convinzioni dell'epoca, condivise evidentemente da Dante, l'islam era il risultato di uno scisma nell'ambito della cristianità: come riporta il Corriere della Sera, il cardinale o monaco Maometto, amareggiato per non aver conseguito il papato, avrebbe fondato una nuova dottrina. Per questo Dante lo immagina nella nona bolgia, squarciato dal mento all'ano, "infin dove si trulla" (ovvero dove si scorreggia). Alì con la faccia spaccata dal mento alla fronte. Questo perchè, secondo Dante, i seminatori di discordia nell'aldilà erano condannati a subire il contrappasso adeguato, soffrendo nel loro corpo le stesse mutilazioni di cui sono stati artefici in vita.

Dante, Maometto e Charlie Hebdo, scrive “Biuso”.

«Già veggia, per mezzul perdere o lulla,

com’io vidi un, così non si pertugia,

rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva e ‘l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,

guardommi e con le man s’aperse il petto,

dicendo: ‘Or vedi com’ io mi dilacco!”

vedi come storpiato è Mäometto!’»

(Inferno, XXVIII, 22-31).

Così Dante Alighieri descrive la figura ripugnante dello ‘scismatico’ Maometto, tagliato/squartato come lui volle tagliare/squartare l’unità cristiana del Mediterraneo. Ancora una volta i monoteismi confermano tutta la loro carica di violenza, gli uni contro gli altri. Nel presente i più pericolosi e armati di tali monoteismi sono quello di Israele e quello degli islamisti. Massacrare i redattori del giornale parigino Charlie Hebdo perché hanno «offeso il Profeta» è semplicemente ripugnante. E conferma ancora una volta tutta la violenza insita nell’Identità senza Differenza, nell’Uno.

«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dèi di fronte a me. […]  Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti» (Deuteronomio, cap. 5, versetti 6-10).

«Allah testimonia, e con Lui gli Angeli e i sapienti, che non c’è dio all’infuori di Lui, Colui Che realizza la giustizia. Non c’è dio all’infuori di Lui, l’Eccelso, il Saggio». (Corano, sura III, versetto 18).

«Egli Allah è Unico, Allah è l’Assoluto. Non ha generato, non è stato generato e nessuno è eguale a Lui» (Corano, sura CXII, versetti 1-4).

«E i miscredenti che muoiono nella miscredenza, saranno maledetti da Allah, dagli angeli e da tutti gli uomini. Rimarranno in questo stato in eterno e il castigo non sarà loro alleviato, né avranno attenuanti. Il vostro Dio è il Dio Unico, non c’è altro dio che Lui, il Compassionevole, il Misericordioso» (Corano, sura II, versetti 161-163).

Dante e l’Islam. È ormai assodata l’influenza di molte fonti musulmane sull’autore della Divina Commedia. Ma oggi, turbati dalla violenza fondamentalista, tendiamo a dimenticare i rapporti profondi tra la cultura araba e quella occidentale, scrive Umberto Eco su “L’Espresso”. Nel 1919 Miguel Asín Palacios pubblicava un libro (“La escatologia musulmana en la Divina Comedia”) che aveva fatto subito molto rumore. In centinaia di pagine identificava analogie impressionanti tra il testo dantesco e vari testi della tradizione islamica, in particolare le varie versioni del viaggio notturno di Maometto all’inferno e al paradiso. Specie in Italia ne era nata una polemica tra sostenitori di quella ricerca e difensori dell’originalità di Dante. Si stava per celebrare il sesto centenario della morte del più “italiano” dei poeti, e inoltre il mondo islamico era guardato piuttosto dall’alto al basso in un clima di ambizioni coloniali e “civilizzatrici”: come si poteva pensare che il genio italico fosse debitore delle tradizioni di “extracomunitari” straccioni? Ricordo che alla fine degli anni Ottanta avevamo organizzato a Bologna una serie di seminari sugli interpreti “deliranti” di Dante, e quando ne era uscito un libro (“L’idea deforme”, a cura di Maria Pia Pozzato) i vari saggi si occupavano di Gabriele Rossetti, Aroux, Valli, Guénon e persino del buon Pascoli, tutti accomunati come interpreti eccessivi, o paranoici, o stravaganti del divino poeta. E si era discusso se porre nella schiera di questi eccentrici anche Asín Palacios. Ma si era deciso di non farlo perché ormai tante ricerche successive avevano stabilito che Asín Palacios forse era stato talora eccessivo ma non delirante. Ormai è assodato che Dante abbia subito l’influenza di molte fonti musulmane. Il problema non è se lui le avesse avvicinate direttamente ma come sarebbero potute pervenirgli. Si potrebbe cominciare dalle molte visioni medievali, dove si raccontava di visite ai regni dell’oltretomba. Sono la “Vita di san Maccario romano”, il “Viaggio di tre santi monaci al paradiso terrestre”, la “Visione di Tugdalo”, sino alla leggenda del pozzo di san Patrizio. Fonti occidentali, certo, ma ecco che Asín Palacios le paragonava a tradizioni islamiche, mostrando che anche in quei casi i visionari occidentali avevano appreso qualcosa dai visionari dell’altra sponda del Mediterraneo. E dire che Asín Palacios non conosceva ancora quel “Libro della Scala”, ritrovato negli anni Quaranta del secolo scorso, tradotto dall’arabo in castigliano e poi in latino e antico francese. Poteva conoscere Dante questa storia del viaggio nell’oltretomba del Profeta? Poteva averne avuto notizia attraverso Brunetto Latini, suo maestro, e la versione latina del testo era contenuta in una “Collectio toledana”, dove Pietro il Venerabile, abate di Cluny, aveva fatto raccogliere testi arabi filosofici e scientifici - tutto questo prima della nascita di Dante. E Maria Corti si era molto battuta per riconoscer la presenza di queste fonti musulmane nell’opera dantesca. Chi oggi voglia leggere qualcosa su almeno un resoconto della avventura oltremondana del Profeta trova da Einaudi “Il viaggio notturno e l’ascensione del profeta”, con una prefazione di Cesare Segre. Il riconoscere queste influenze non toglie nulla alla grandezza di Dante, con buona pace degli antichi oppositori di Asín Palacios. Tanti autori grandissimi hanno porto orecchio a tradizioni letterarie precedenti (si pensi, tanto per fare un esempio all’Ariosto) e tuttavia hanno poi concepito un’opera assolutamente originale. Ho rievocato queste polemiche e queste scoperte perché ora l’editrice Luini ripubblica il libro di Asín Palacios, con il titolo più accattivante di “Dante e l’Islam”, e riprende la bella introduzione che Carlo Ossola ne aveva scritto per la traduzione del 1993. Ha ancora senso leggere questo libro, dopo che tante ricerche successive gli hanno in gran parte dato ragione? Lo ha, perché è scritto piacevolmente e presenta una mole immensa di raffronti tra Dante e i suoi “precursori” arabi. E lo ha ai giorni nostri quando, turbati dalle barbare follie del fondamentalismi musulmani, si tende a dimenticare i rapporti che ci sono sempre stati tra la cultura occidentale e la ricchissima e progredita cultura islamica dei secoli passati.

Maometto prima di Dante all'inferno. Un viaggio miracoloso che precede e forse ispira la «Commedia». Ma è solo apologetico, scrive Segre Cesare su “Il Corriere della Sera”. Nei suoi ultimi dieci anni Maria Corti era tutta presa dal problema dei contatti arabo-cristiani nella letteratura medievale. Punti di riferimento, sostanzialmente due: il tema del viaggio di Ulisse oltre le colonne d'Ercole, forse derivato da tradizioni arabe, e gli eventuali contatti fra la Commedia e un testo musulmano, il Libro della Scala, che narrava il miracoloso viaggio notturno di Maometto dalla Mecca a Gerusalemme e la sua successiva visita nei regni oltramondani. Per i due protagonisti, Ulisse e Dante, l'obiettivo è il mondo dei morti: sfiorato da Ulisse, attraversato da Dante. Le ricerche della Corti diedero spunto ad articoli e conversazioni, dibattiti, interviste. Ci si potrebbe stupire di tanto interesse per problemi che non trovarono del tutto le soluzioni desiderate, ma davvero stimolante per il lettore era già la possibilità di immergersi in problematiche di ricerca sempre più raffinate, che, indipendentemente dalle auspicate conclusioni, attraversavano punti nodali della cultura del Medioevo.Si sa che fra cultura musulmana e cultura occidentale esisteva una notevole interrelazione, che l'intensa attività traduttoria rese ancora più stretta. Si traduceva, naturalmente, dall'arabo al latino e alle lingue romanze, e non viceversa. Tra le opere tradotte, c'è il cosiddetto Libro della Scala: l'originale arabo è perduto, così come la sua prima versione spagnola, opera di un medico ebreo legato al re di Castiglia Alfonso el Sabio, ma rimangono due traduzioni, una latina e una francese, derivate dalla versione spagnola e da ascrivere (sicuramente la prima, forse la seconda) a un notaio toscano, Bonaventura da Siena, esule, dopo il 1260, presso Alfonso.Il Libro della Scala è forse la traduzione dall'arabo che ha suscitato più interesse, ma non tanto nel mondo medievale, quanto semmai presso i lettori moderni, e per una ragione molto semplice: le sue vere o apparenti rassomiglianze con la Commedia. Che Dante abbia conosciuto e imitato il popolare libro arabo?La prima curiosità per l'opera si era manifestata dopo l'edizione del testo latino pubblicata da Enrico Cerulli (1949): nella postfazione, Cerulli insisteva sul problema dei rapporti tra Libro e Commedia, riferendosi ai concetti di plagio e di imitazione (due concetti, sia detto per inciso, che ora noi trattiamo diversamente, parlando piuttosto di intertestualità e interdiscorsività). Poi tutto si calmò, almeno fino agli studi della Corti. Ora, una nuova edizione del Libro ci consente di riprendere il discorso, alla luce anche di nuove scoperte e prospettive. Il problema non è più analizzare le affinità, ma distinguere tra ciò che accomuna le due opere perché elemento diffuso nella cultura del tempo, e ciò che è stato trasposto di proposito dall'una all'altra narrazione. Si tenga conto che nel Medioevo lo scambio d'invenzioni e d'immagini era frequentissimo, anche tra gli apologeti delle tre fedi monoteistiche.La nuova edizione che ci propone Anna Longoni, allieva della Corti (Il libro della Scala di Maometto, Bur, pp. 368, ? 13), ha come pregio maggiore quello di offrirci un'edizione filologica della versione (o riscrittura) latina, testimoniata da due manoscritti, uno vaticano, dell'inizio del XIV secolo, e l'altro conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi, affiancata da una precisa traduzione in italiano moderno. Ma non vanno trascurati né l'Introduzione, molto informata, né, in appendice, la ristampa del principale articolo della Corti su Dante e la cultura islamica.In partenza, direi che gli elementi congiuntivi tra Libro e Commedia sono soprattutto la strutturazione dei regni ultraterreni e la descrizione delle pene dei dannati, mentre quello disgiuntivo è lo spirito completamente diverso che anima le due opere. La Commedia ha finalità didattiche, filosofiche e narrative, in fondo anche autocelebrative; il Libro della Scala è l'esaltazione di Allah e della sua potenza, e la consacrazione di Maometto come profeta. In più, la Commedia è primariamente un'opera d'arte, mentre il Libro della Scala è opera eminentemente apologetica. Ma ciò che allontana la Scala dalla Commedia è la diversissima tradizione che caratterizza le due opere. Perché i temi del «viaggio notturno» e dell'«ascensione al cielo» di Maometto, di cui il Libro della Scala presenta una redazione particolare, sono maturati attraverso il tempo: concepiti già all'epoca di Maometto (VII secolo), sono stati rielaborati precocemente (dice la tradizione) da Ibn'Abbas, cugino del Profeta, riscritti nel IX secolo. E continuano tuttora a circolare, anche a livello popolare (in proposito, si può leggere l'edizione del Viaggio di Ibn'Abbas a cura di Ida Zilio-Grandi, Einaudi 2010). Della Commedia viceversa sappiamo tutto, o quasi, dato che ci è noto chi l'ha scritta e quando. Nel tessuto dello stesso Libro è evidente la bipartizione tra il «viaggio notturno» di Maometto per andare dalla Mecca a Gerusalemme su una specie di ippogrifo, e il «Libro della scala», in senso stretto, che prevede l'ascensione di Maometto, attraverso la scala di Giacobbe, dall'inferno al paradiso, sino all'incontro con Allah. A un certo punto le due parti sono state cucite assieme: si tenga conto che si tratta di un'opera a tradizione orale, dunque aperta a qualunque contaminazione, anche se va riconosciuto che il contenuto rimane in fondo unitario. Ma Dante come avrebbe potuto conoscere il Libro della Scala? S'era inventata una favola ingegnosa, senza prove: Brunetto Latini, ambasciatore dei guelfi fiorentini alla corte di Alfonso el Sabio, una volta tornato a Firenze, avrebbe potuto riassumere al suo discepolo Dante il Libro, o qualche sua parte. Ma oggi gli studi sull'islamismo medievale sono molto più approfonditi, e sappiamo persino di vere scuole di arabo, in Inghilterra, a Hereford, o nel Convento di Miramar a Maiorca, oltre naturalmente alla scuola di Toledo. Il prodotto più consistente di questi circoli di studiosi è la Collectio Toletana, un'antologia di testi arabi, tra cui il Corano, tradotti in latino, e ampiamente diffusi nell'Europa medievale. Anche la convinzione che in Italia il Libro fosse sconosciuto, già smentita dai versi di Fazio degli Uberti, che nel Dittamondo (1336) cita un «Libro che Scala ha nome» e riassume in qualche verso i costumi musulmani, è ora solennemente confutata (2011) da Luciano Gargan, che ha trovato il Libro citato in un catalogo bolognese del 1312, che elenca i libri di un frate domenicano, Ugolino.Ma insomma Dante ha conosciuto o no il Libro della Scala? Tutti i critici, anche la Corti e la Longoni, hanno cercato, con equilibrio, le prove più consistenti. Certo, Dante, come tutti i grandi, è capace di trovare spunti e suggerimenti ovunque, e può aver raccattato qualcosa anche da lì. Però bisogna rendersi conto delle sue prospettive e delle sue presupposizioni culturali. Cosa poteva trovare in un libro nettamente popolare, dove il gusto dell'iperbole («misura in lunghezza quanto potrebbe percorrere un uomo in cinquecento anni»; «ognuno di questi serpenti ha in bocca diciottomila denti, ciascuno dei quali è grande tanto quanto una di quelle piante chiamate palme») si mescola con quello dei colori, sicché Maometto avanza tra quinte di veli colorati? C'è qualche scena grandiosa, ma l'unico sentimento che suscita è lo stupore. Noi siamo vittime del gusto moderno per il primitivo, e abbiamo tutto il diritto di accostare il Libro della Scala alla Commedia. Ma quanto a metterli sullo stesso piano, a qualcuno è lecito essere riluttante.

«Dante antisemita e islamofobo. La Divina Commedia va tolta dai programmi scolastici». L'accusa di Gherush92 organizzazione di ricercatori consulente dell'Onu, scrive “Il Corriere della Sera”. in alternativa alcune parti del capolavoro andrebbero espunte dal testo. La Divina Commedia deve essere tolta dai programmi scolastici: troppi contenuti antisemiti, islamofobici, razzisti ed omofobici. La sorprendente richiesta arriva da «Gherush92», organizzazione di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale con il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti.

ANTISEMITISMO - «La Divina Commedia - spiega all'Adnkronos Valentina Sereni, presidente di Gherush92 - pilastro della letteratura italiana e pietra miliare della formazione degli studenti italiani presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposta senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all'antisemitismo e al razzismo». Sotto la lente di ingrandimento in particolare i canti XXXIV, XXIII, XXVIII, XIV. Il canto XXXIV, spiega l'organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell'apostolo che tradì Gesù)»; «giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio, persona infida, traditore» (così scrive De Mauro, Il dizionario della lingua italiana). Il significato negativo di giudeo è poi esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell'antisemitismo. «Studiando la Divina Commedia - sostiene Gherush92 - i giovani sono costretti, senza filtri e spiegazioni, ad apprezzare un'opera che calunnia il popolo ebraico, imparano a convalidarne il messaggio di condanna antisemita, reiterato ancora oggi nelle messe, nelle omelie, nei sermoni e nelle prediche e costato al popolo ebraico dolori e lutti». E ancora, prosegue l'organizzazione, «nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù; i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti».

MAOMETTO - Ma attenzione. Il capolavoro di Dante conterrebbe anche accenti islamofobici. «Nel canto XXVIII dell'Inferno - spiega ancora Sereni - Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l'Islam come una eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli. L'offesa - aggiunge - è resa più evidente perchè il corpo "rotto" e "storpiato" di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi considerati un'offesa».

OMOSESSUALI - Anche gli omosessuali, nel linguaggio dantesco i sodomiti, sarebbero messi all'indice nel poema dell'Alighieri. Coloro che ebbero rapporti «contro natura», sono infatti puniti nell'Inferno: i sodomiti, i peccatori più numerosi del girone, sono descritti mentre corrono sotto una pioggia di fuoco, condannati a non fermarsi. Nel Purgatorio i sodomiti riappaiono, nel canto XXVI, insieme ai lussuriosi eterosessuali. «Non invochiamo nè censure nè roghi - precisa Sereni - ma vorremmo che si riconoscesse, in maniera chiara e senza ambiguità che nella Commedia vi sono contenuti razzisti, islamofobici e antisemiti. L'arte non può essere al di sopra di qualsiasi giudizio critico. L'arte è fatta di forma e di contenuto e anche ammettendo che nella Commedia esistano diversi livelli di interpretazione, simbolico, metaforico, iconografico, estetico, ciò non autorizza a rimuovere il significato testuale dell'opera, il cui contenuto denigratorio è evidente e contribuisce, oggi come ieri, a diffondere false accuse costate nei secoli milioni e milioni di morti. Persecuzioni, discriminazioni, espulsioni, roghi hanno subito da parte dei cristiani ebrei, omosessuali, mori, popoli infedeli, eretici e pagani, gli stessi che Dante colloca nei gironi dell'inferno e del purgatorio. Questo è razzismo che letture simboliche, metaforiche ed estetiche dell'opera, evidentemente, non rimuovono».

CRIMINI - «Oggi - conclude Sereni - il razzismo è considerato un crimine ed esistono leggi e convenzioni internazionali che tutelano la diversità culturale e preservano dalla discriminazione, dall'odio o dalla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e a queste bisogna riferirsi; quindi questi contenuti, se insegnati nelle scuole o declamati in pubblico, contravvengono a queste leggi, soprattutto se in presenza di una delle categorie discriminate. È nostro dovere segnalare alle autoritá competenti, anche giudiziarie, che la Commedia presenta contenuti offensivi e razzisti che vanno approfonditi e conosciuti. Chiediamo, quindi, di espungere la Divina Commedia dai programmi scolastici ministeriali o, almeno, di inserire i necessari commenti e chiarimenti». Certo c'è da chiederci cosa succederebbe se il criterio proposto da «Gherush92» venisse applicato ai grandi autori della letteratura. In Gran Bretagna vedremmo censurato «Il mercante di Venezia» di Shakespeare? O alcuni dei racconti di Chaucer? Certo è che il tema del politicamente corretto finisce sempre più per invadere sfere distanti dalla politica vera e propria. Così il Corriere in un articolo del 1996 racconta come, al momento di scegliere personaggi celebri per adornare le future banconote dell'euro, Shakespeare fu scartato perchè potenzialmente antisemita Mozart perché massone, Leonardo Da Vinci perché omosessuale. Alla fine si decise per mettere sulle banconote immagini di ponti almeno loro non accusabili di nulla.

Dante "razzista", follia Onu: bandire Divina Commedia. L'associazione Gherush92, consulente delle Nazioni Unite: "Offende ebrei, musulmani, gay. Non va studiata a scuola", scrive di Caterina Maniaci su “Libero Quotidiano”. L’hanno recitata a migliaia, ovunque nel mondo; l’hanno citata, letta, studiata, commentata in milioni di volumi e per intere generazioni. È persino diventata una sorta di fenomeno sociale, dopo che Vittorio Sermonti prima e Roberto Benigni poi l’hanno declamata a un pubblico sempre più numeroso, fino ad approdare in tv. Ma nessuno, fino a oggi, si era mai immaginato di poter parlare della Divina Commedia in questi termini: ossia come un’opera piena di luoghi comuni, frasi offensive, razziste, islamofobiche e antisemite che difficilmente possono essere comprese e che raramente vengono evidenziate e spiegate nel modo corretto. Definisce così il contenuto di numerose terzine dantesche “Gherush92”, organizzazione  di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale per il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e   che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti, razzismo, antisemitismo, islamofobia. E proprio secondo questa organizzazione il poema di Dante andrebbe eliminato dai programmi scolastici o, quanto meno, letto con le dovute accortezze. Sotto la lente censoria sono finiti, in particolare, i canti dell’Inferno XIV, XXIII, XXVIII e XXXIV. Il canto XXXIV, spiega l’organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell’apostolo che tradì Gesù)»; «giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico   pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio,   persona infida, traditore». Il significato negativo di giudeo è esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell’antisemitismo. E ancora, prosegue l’organizzazione, «nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù;  i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti». Il poema, spiega  Valentina Sereni,  presidente di Gherush92, «pilastro della letteratura italiana e pietra  miliare della formazione degli studenti italiani, presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposto senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo». Spiega ancora Sereni: «Nel canto XXVIII dell’Inferno  Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l’Islam come un’eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano, in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli». «L’offesa», aggiunge, «è resa più evidente perché il corpo “rotto” e “storpiato” di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi   considerati un’offesa». La stessa Sereni, da noi ricontattata, ci spiega che lo studio sulla Divina Commedia è stato eseguito dai ricercatori  di Gherush92 «dopo alcuni mesi di riflessione». Il gruppo «si finanzia con le quote dei soci iscritti». Alla domanda se esistono nuovi studi su altre opere letterarie, risponde: «Ci stiamo lavorando e più avanti saranno diffusi». Nessun timore che, utilizzando simili criteri di analisi, tutta la letteratura italiana delle origini possa essere considerata razzista, omofoba e antisemita? «Non è colpa nostra se ci sono opere d’arte italiane eventualmente  razziste», ribadisce la Sereni, perché «è l’insegnamento della Divina Commedia che deve essere contestualizzato e siccome viene insegnata e proclamata oggi, il contesto è oggi. Oggi possiamo e dobbiamo fare queste osservazioni sul razzismo nella Divina Commedia e in altre opere d’arte. D’altra parte il razzismo contro le stesse entità esisteva tanto allora quanto oggi». Tutto chiaro e preciso. Ma pur essendo Gherush92 consulente dell’Onu, status di tutto rispetto e cosa che non è concessa proprio a tutte le organizzazioni, la sede a Roma, segnalata  nel sito dell’United Nations Department of Economic and Social Affairs, è inesistente: a quell’indirizzo non risulta nessuna organizzazione. Lo abbiamo scoperto personalmente. Una zona di quasi campagna, nella periferia nord della Capitale, tra villette e piccoli capannoni aziendali. Il numero civico non corrisponde, anzi non esiste. Chiediamo in giro. «Associazione Gherush92? Mai sentita, qui non c’è», risponde una ragazza che esce da un cancello. In effetti, ci viene confermato dalla stessa associazione che quell’indirizzo non è valido e non ce n’è un altro cui fare riferimento...

Il nemico che trattiamo da amico. (Questo articolo fu pubblicato sul Corriere della Sera il 16 luglio 2005). All’indomani dell’attentato terroristico di matrice islamica che ha insanguinato la redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo, si inseriscono nel dibattito pubblico di queste ore, le riflessioni di Oriana Fallaci sul rapporto tra Islam e Occidente. L’articolo fu scritto dopo la strage alla metropolitana di Londra del 7 luglio 2005 da Oriana Fallaci.

Ora mi chiedono: «Che cosa dice, che cosa ha da dire, su quello che è successo a Londra?». Me lo chiedono a voce, per fax, per email, spesso rimproverandomi perché finoggi sono rimasta zitta. Quasi che il mio silenzio fosse stato un tradimento. E ogni volta scuoto la testa, mormoro a me stessa: cos' altro devo dire?!? Sono quattr'anni che dico. Che mi scaglio contro il Mostro deciso ad eliminarci fisicamente e insieme ai nostri corpi distruggere i nostri principii e i nostri valori. La nostra civiltà. Sono quattr' anni che parlo di nazismo islamico, di guerra all' Occidente, di culto della morte, di suicidio dell' Europa. Un' Europa che non è più Europa ma Eurabia e che con la sua mollezza, la sua inerzia, la sua cecità, il suo asservimento al nemico si sta scavando la propria tomba. Sono quattr' anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia» e mi dispero sui Danai che come nell' Eneide di Virgilio dilagano per la città sepolta nel torpore. Che attraverso le porte spalancate accolgono le nuove truppe e si uniscono ai complici drappelli. Quattr' anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell' Apocalisse dell' evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna.

Incominciai con «La Rabbia e l'Orgoglio». Continuai con «La Forza della Ragione». Proseguii con «Oriana Fallaci intervista sé stessa» e con «L' Apocalisse». E tra l'uno e l'altro la predica «Sveglia, Occidente, sveglia». I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. (Reato che prevede tre anni di galera, quanti non ne riceve l'islamico sorpreso con l'esplosivo in cantina). Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia di destra». Sì, è vero: sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra all'Occidente, Culto della Morte, Suicidio dell'Europa, Sveglia Italia Sveglia. Sì, è vero: sia pur senza ammettere che non avevo torto l'ex segretario della Quercia ora concede interviste nelle quali dichiara che questi terroristi vogliono distruggere i nostri valori, che questo stragismo è di tipo fascista ed esprime odio per la nostra civiltà».

Sì, è vero: parlando di Londonistan, il quartiere dove vivono i ben settecentomila musulmani di Londra, i giornali che prima sostenevano i terroristi fino all'apologia di reato ora dicono ciò che dicevo io quando scrivevo che in ciascuna delle nostre città esiste un'altra città. Una città sotterranea, uguale alla Beirut invasa da Arafat negli anni Settanta. Una città straniera che parla la propria lingua e osserva i propri costumi, una città musulmana dove i terroristi circolano indisturbati e indisturbati organizzano la nostra morte. Del resto ora si parla apertamente anche di terrorismo-islamico, cosa che prima veniva evitata con cura onde non offendere i cosiddetti musulmani moderati. Sì, è vero: ora anche i collaborazionisti e gli imam esprimono le loro ipocrite condanne, le loro mendaci esecrazioni, la loro falsa solidarietà coi parenti delle vittime. Si, è vero: ora si fanno severe perquisizioni nelle case dei musulmani indagati, si arrestano i sospettati, magari ci si decide ad espellerli. Ma in sostanza non è cambiato nulla. Nulla. Dall'antiamericanismo all'antioccidentalismo al filoislamismo, tutto continua come prima. Persino in Inghilterra. Sabato 9 luglio cioè due giorni dopo la strage la BBC ha deciso di non usare più il termine «terroristi», termine che esaspera i toni della Crociata, ed ha scelto il vocabolo «bombers». Bombardieri, bombaroli. Lunedì 11 luglio cioé quattro giorni dopo la strage il Times ha pubblicato nella pagina dei commenti la vignetta più disonesta ed ingiusta ch'io abbia mai visto. Quella dove accanto a un kamikaze con la bomba si vede un generale anglo-americano con un' identica bomba. Identica nella forma e nella misura. Sulla bomba, la scritta: «Killer indiscriminato e diretto ai centri urbani». Sulla vignetta, il titolo: «Spot the difference, cerca la differenza».

Quasi contemporaneamente, alla televisione americana ho visto una giornalista del Guardian, il quotidiano dell' estrema sinistra inglese, che assolveva l'apologia di reato manifestata anche stavolta dai giornali musulmani di Londra. E che in pratica attribuiva la colpa di tutto a Bush. Il criminale, il più grande criminale della Storia, George W. Bush. «Bisogna capirli». Cinguettava «la politica americana li ha esasperati. Se non ci fosse stata la guerra in Iraq...». (Giovanotta, l'11 settembre la guerra in Iraq non c'era. L'11 settembre la guerra ce l'hanno dichiarata loro. Se n'è dimenticata?). E contemporaneamente ho letto su Repubblica un articolo dove si sosteneva che l'attacco alla subway di Londra non è stato un attacco all'Occidente. E' stato un attacco che i figli di Allah hanno fatto contro i propri fantasmi. Contro l'Islam «lussurioso» (suppongo che voglia dire «occidentalizzato») e il cristianesimo «secolarizzato». Contro i pacifisti indù e la magnifica varietà che Allah ha creato. Infatti, spiegava, in Inghilterra i musulmani sono due milioni e nella metropolitana di Londra non trovi un inglese nemmeno a pagarlo oro. Tutti in turbante, tutti in kefiah. Tutti con la barba lunga e il djellabah. Se ci trovi una bionda con gli occhi azzurri è una circassa». (Davvero?!? Chi l' avrebbe mai detto!!! Nelle fotografie dei feriti non scorgo né turbanti né kefiah, né barbe lunghe né djellabah. E nemmeno burka e chador. Vedo soltanto inglesi come gli inglesi che nella Seconda Guerra Mondiale morivano sotto i bombardamenti nazisti. E leggendo i nomi dei dispersi vedo tutti Phil Russell, Adrian Johnson, Miriam Hyman, più qualche tedesco o italiano o giapponese. Di nomi arabi, finoggi, ho visto soltanto quello di una giovane donna che si chiamava Shahara Akter Islam).

Continua anche la fandonia dell'Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo. Vale a dire delle moschee che esigono e che noi gli costruiamo. Nel corso d' un dibattito sul terrorismo, al consiglio comunale di Firenze lunedì 11 luglio il capogruppo diessino ha dichiarato: «E' ora che anche a Firenze ci sia una moschea». Poi ha detto che la comunità islamica ha esternato da tempo la volontà di costruire una moschea e un centro culturale islamico simili alla moschea e al centro culturale islamico che sorgeranno nella diessina Colle val d'Elsa. Provincia della diessina Siena e del suo filo-diessino Monte dei Paschi, già la banca del Pci e ora dei Ds. Bé, quasi nessuno si è opposto. Il capogruppo della Margherita si è detto addirittura favorevole. Quasi tutti hanno applaudito la proposta di contribuire all' impresa coi soldi del municipio cioé dei cittadini, e l'assessore all'urbanistica ha aggiunto che da un punto di vista urbanistico non ci sono problemi. «Niente di più facile». Episodio dal quale deduci che la città di Dante e Michelangelo e Leonardo, la culla dell' arte e della cultura rinascimentale, sarà presto deturpata e ridicolizzata dalla sua Mecca. Peggio ancora: continua la Political Correctness dei magistrati sempre pronti a mandare in galera me e intanto ad assolvere i figli di Allah. A vietarne l' espulsione, ad annullarne le (rare) condanne pesanti, nonché a tormentare i carabinieri o i poliziotti che con loro gran dispiacere li arrestano. Milano, pomeriggio dell' 8 luglio cioé il giorno dopo la strage di Londra. Il quarantaduenne Mohammed Siliman Sabri Saadi, egiziano e clandestino, viene colto senza biglietto sull' autobus della linea 54. Per effettuare la multa i due controllori lo fanno scendere e scendono con lui. Gli chiedono un documento, lui reagisce ingaggiando una colluttazione. Ne ferisce uno che finirà all'ospedale, scappa perdendo il passaporto, ma la Volante lo ritrova e lo blocca. Nonostante le sue resistenze, dinanzi a una piccola folla lo ammanetta e nello stesso momento ecco passare una signora che tutta stizzita vuole essere ascoltata come testimone se il poverino verrà processato ed accusato di resistenza. I poliziotti le rispondono signora ci lasci lavorare, e allora lei allunga una carta di identità dalla quale risulta che è un magistrato. Sicché un po' imbarazzati ne prendono atto poi portano Mohammed in questura e qui... Bé, invece di portarlo al centro di permanenza temporanea dove (anziché in galera) si mettono i clandestini, lo lasciano andare invitandolo a presentarsi la prossima settimana al processo cui dovrà sottoporsi per resistenza all' arresto e lesioni a pubblico ufficiale. Lui se ne va, scompare (lo vedremo mai più?) e indovina chi è la signora tutta stizzita perché lo avevano ammanettato come vuole la prassi.

La magistrata che sette mesi fa ebbe il suo piccolo momento di celebrità per aver assolto con formula piena tre musulmani accusati di terrorismo internazionale e per aver aggiunto che in Iraq non c'è il terrorismo, c'è la guerriglia, che insomma i tagliateste sono Resistenti. Sì, proprio quella che il vivace leghista Borghezio definì «una vergogna per Milano e per la magistratura». E indovina chi anche oggi la loda, la difende, dichiara ha fatto benissimo. I diessini, i comunisti, e i soliti verdi. Continua anche la panzana che l'Islam è una religione di pace, che il Corano predica la misericordia e l'amore e la pietà. Come se Maometto fosse venuto al mondo con un ramoscello d'ulivo in bocca e fosse morto crocifisso insieme a Gesù. Come se non fosse stato anche lui un tagliateste e anziché orde di soldati con le scimitarre ci avesse lasciato san Matteo e san Marco e san Luca e san Giovanni intenti a scrivere gli Evangeli. Continua anche la frottola dell' Islam vittima dell'Occidente. Come se per quattordici secoli i musulmani non avessero mai torto un capello a nessuno e la Spagna e la Sicilia e il Nord Africa e la Grecia e i Balcani e l'Europa orientale su su fino all' Ucraina e alla Russia le avesse occupate la mia bisnonna valdese. Come se ad arrivare fino a Vienna e a metterla sotto assedio fossero state le suore di sant'Ambrogio e le monache Benedettine. Continua anche la frode o l'illusione dell'Islam Moderato. Con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un' esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in paesi lontani.

Bé, il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ce l'avevamo in casa l'11 settembre del 2001 cioé a New York. Ce l'avevamo in casa l'11 marzo del 2004 cioé a Madrid. Ce l' avevamo in casa l'1, il 2, il 3 settembre del medesimo anno a Beslan dove si divertirono anche a fare il tiro a segno sui bambini che dalla scuola fuggivano terrorizzati, e di bambini ne uccisero centocinquanta. Ce l'avevamo in casa il 7 luglio scorso cioé a Londra dove i kamikaze identificati erano nati e cresciuti. Dove avevano studiato finalmente qualcosa, erano vissuti finalmente in un mondo civile, e dove fino alla sera precedente s'eran divertiti con le partite di calcio o di cricket. Ce l'abbiamo in casa da oltre trent'anni, perdio. Ed è un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente inserito nel nostro sistema sociale. Cioé col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. E' un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Tale intensità che verrebbe spontaneo gridargli: se siamo così brutti, così cattivi, così peccaminosi, perché non te ne torni a casa tua? Perché stai qui? Per tagliarci la gola o farci saltare in aria? Un nemico, inoltre, che in nome dell' umanitarismo e dell' asilo politico (ma quale asilo politico, quali motivi politici?) accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di Accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che per partorire non ha bisogno della procreazione assistita, delle cellule staminali. Il suo tasso di natalità è così alto che secondo il National Intelligence Council alla fine di quest'anno la popolazione musulmana in Eurabia risulterà raddoppiata. Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all' imam (però guai se arresti l'imam.

Peggio ancora, se qualche agente della Cia te lo toglie dai piedi col tacito consenso dei nostri servizi segreti). Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l' esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca. (Ma quando in seguito alla strage di Londra la Francia denuncia il trattato di Schengen e perfino la Spagna zapatera pensa di imitarla, l'Italia e gli altri paesi europei rispondono scandalizzati no no). Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l' alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che protetto dalla Sinistra al Caviale e dalla Destra al Fois Gras e dal Centro al Prosciutto ciancia, appunto, di integrazione e pluriculturalismo ma intanto ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioé «col liquore». E attenta a non ripeter l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». (Parlo, s'intende, dell' arabo con la cittadinanza italiana che mi ha denunciato per vilipendio all'Islam. Che contro di me ha scritto un lercio e sgrammaticato libello dove elencando quattro sure del Corano chiede ai suoi correligionari di eliminarmi, che per le sue malefatte non è mai stato o non ancora processato). Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. (Parlo, s'intende, dell'arabo con la cittadinanza inglese che per puro miracolo beccarono sulla American Airlines).

Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. (Parlo, s'intende, dell'arabo con cittadinanza olandese che probabilmente anzi spero verrà condannato all' ergastolo e che al processo ha sibilato alla mamma di Theo: «Io non provo alcuna pietà per lei. Perché lei è un'infedele»). Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioé pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino. Continua anche il discorso sul Dialogo delle due Civiltà. Ed apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell' Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall' Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c' è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta.

L' Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. E' incompatibile col concetto di civiltà. E visto che ho toccato questo argomento mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'Islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al Cristianesimo. Nonché per istigazione all' omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l' esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato Italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro degli Interni dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia. (Quanto a voi, signori del Parlamento, congratulazioni per aver respinto la proposta del ministro della Giustizia: abolire il reato di opinione. E particolari congratulazioni all' onorevole di Alleanza Nazionale che oltre ad aver gestito quel rifiuto ha chiesto di abolire il reato d' apologia del fascismo). Continua anche l'indulgenza che la Chiesa Cattolica (del resto la maggiore sostenitrice del Dialogo) professa nei riguardi dell' Islam. Continua cioé la sua irremovibile irriducibile volontà di sottolineare il «comune patrimonio spirituale fornitoci dalle tre grandi religioni monoteistiche». Quella cristiana, quella ebraica, quella islamica. Tutte e tre basate sul concetto del Dio Unico, tutte e tre ispirate da Abramo. Il buon Abramo che per ubbidire a Dio stava per sgozzare il suo bambino come un agnello. Ma quale patrimonio in comune?!?

Allah non ha nulla in comune col Dio del Cristianesimo. Col Dio padre, il Dio buono, il Dio affettuoso che predica l' amore e il perdono. Il Dio che negli uomini vede i suoi figli. Allah è un Dio padrone, un Dio tiranno. Un Dio che negli uomini vede i suoi sudditi anzi i suoi schiavi. Un Dio che invece dell' amore insegna l' odio, che attraverso il Corano chiama cani-infedeli coloro che credono in un altro Dio e ordina di punirli. Di soggiogarli, di ammazzarli. Quindi come si fa a mettere sullo stesso piano il cristianesimo e l' islamismo, come si fa a onorare in egual modo Gesù e Maometto?!? Basta davvero la faccenda del Dio Unico per stabilire una concordia di concetti, di principii, di valori?!? E questo è il punto che nell' immutata realtà del dopo-strage di Londra mi turba forse di più. Mi turba anche perché sposa quindi rinforza quello che considero l' errore commesso da papa Wojtyla: non battersi quanto avrebbe a mio avviso dovuto contro l' essenza illiberale e antidemocratica anzi crudele dell' Islam. Io in questi quattr' anni non ho fatto che domandarmi perché un guerriero come Wojtyla, un leader che come lui aveva contribuito più di chiunque al crollo dell' impero sovietico e quindi del comunismo, si mostrasse così debole verso un malanno peggiore dell' impero sovietico e del comunismo. Un malanno che anzitutto mira alla distruzione del cristianesimo. (E dell' ebraismo). Non ho fatto che domandarmi perché egli non tuonasse in maniera aperta contro ciò che avveniva (avviene) ad esempio in Sudan dove il regime fondamentalista esercitava (esercita) la schiavitù. Dove i cristiani venivano eliminati (vengono eliminati) a milioni. Perché tacesse sull'Arabia Saudita dove la gente con una Bibbia in mano o una crocetta al collo era (è) trattata come feccia da giustiziare. Ancora oggi quel silenzio io non l'ho capito e...

Naturalmente capisco che la filosofia della Chiesa Cattolica si basa sull'ecumenismo e sul comandamento Ama il nemico tuo come te stesso. Che uno dei suoi principii fondamentali è almeno teoricamente il perdono, il sacrificio di porgere l' altra guancia. (Sacrificio che rifiuto non solo per orgoglio cioè per il mio modo di intendere la dignità, ma perché lo ritengo un incentivo al Male di chi fa del male). Però esiste anche il principio dell' autodifesa anzi della legittima difesa, e se non sbaglio la Chiesa Cattolica vi ha fatto ricorso più volte. Carlo Martello respinse gli invasori musulmani alzando il crocifisso. Isabella di Castiglia li cacciò dalla Spagna facendo lo stesso. E a Lepanto c'erano anche le truppe pontificie. A difendere Vienna, ultimo baluardo della Cristianità, a romper l' assedio di Kara Mustafa, c'era anche e soprattutto il polacco Giovanni Sobienski con l' immagine della Vergine di Chestochowa. E se quei cattolici non avessero applicato il principio dell' autodifesa, della legittima difesa, oggi anche noi porteremmo il burka o il jalabah. Anche noi chiameremmo i pochi superstiti cani-infedeli. Anche noi gli segheremmo la testa col coltello halal. E la basilica di San Pietro sarebbe una moschea come la chiesa di Santa Sofia a Istanbul. Peggio: in Vaticano ci starebbero Bin Laden e Zarkawi. Così, quando tre giorni dopo la nuova strage Papa Ratzinger ha rilanciato il tema del Dialogo, sono rimasta di sasso. Santità, Le parla una persona che La ammira molto. Che Le vuole bene, che Le dà ragione su un mucchio di cose. Che a causa di questo viene dileggiata coi nomignoli atea-devota, laica-baciapile, liberal-clericale. Una persona, inoltre, che capisce la politica e le sue necessità. Che comprende i drammi della leadership e i suoi compromessi. Che ammira l' intransigenza della fede e rispetta le rinunce o le prodigalità a cui essa costringe. Però il seguente interrogativo devo porlo lo stesso: crede davvero che i musulmani accettino un dialogo coi cristiani, anzi con le altre religioni o con gli atei come me? Crede davvero che possano cambiare, ravvedersi, smettere di seminar bombe? Lei è un uomo tanto erudito, Santità. Tanto colto. E li conosce bene. Assai meglio di me. Mi spieghi dunque: quando mai nel corso della loro storia, una storia che dura da millequattrocento anni, sono cambiati e si sono ravveduti? Oh, neanche noi siamo stati e siamo stinchi di santo: d' accordo. Inquisizioni, defenestrazioni, esecuzioni, guerre, infamie di ogni tipo. Nonché guelfi e ghibellini a non finire. E per giudicarci severamente basta pensare a quel che abbiamo combinato sessanta anni fa con l' Olocausto. Ma poi abbiamo messo un po' di giudizio, perbacco. Ci abbiamo dato una pensata e se non altro in nome della decenza siamo un po' migliorati. Loro, no.

La Chiesa Cattolica ha avuto svolte storiche, Santità. Anche questo lei lo sa meglio di me. A un certo punto si è ricordata che Cristo predicava la Ragione, quindi la scelta, quindi il Bene, quindi la Libertà, e ha smesso di tiranneggiare. D' ammazzare la gente. O costringerla a dipinger soltanto Cristi e Madonne. Ha compreso il laicismo. Grazie a uomini di prim' ordine, un lungo elenco di cui Lei fa parte, ha dato una mano alla democrazia. Ed oggi parla coi tipi come me. Li accetta e lungi dal bruciarli vivi (io non dimentico mai che fino a quattro secoli fa il Sant' Uffizio mi avrebbe mandato al rogo) ne rispetta le idee. Loro, no. Ergo con loro non si può dialogare. E ciò non significa ch'io voglia promuovere una guerra di religione, una Crociata, una caccia alle streghe, come sostengono i mentecatti e i cialtroni. (Guerre di religione, Crociate, io ?!? Non essendo religiosa, figuriamoci se voglio incitare alle guerre di religione e alle Crociate. Cacce alle streghe io?!? Essendo considerata una strega, un'eretica, dagli stessi laici e dagli stessi liberals, figuriamoci se voglio accendere una caccia alle streghe. Ciò significa, semplicemente, che illudersi su di loro è contro ragione. Contro la Vita, contro la stessa sopravvivenza, e guai a concedergli certe familiarità.

La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. Anche questo lo dico da quattro anni. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all' Africa cioè ai paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Lo stesso Bin Laden ce lo ha promesso. In modo esplicito, chiaro, preciso. Più volte. I suoi luogotenenti (o rivali), idem. Lo stesso Corriere lo dimostra con l'intervista a Saad Al-Faqih, l' esiliato saudita diventato amico di Bin Laden durante il conflitto coi russi in Afghanistan, e secondo i servizi segreti americani finanziatore di Al Qaeda. «E' solo questione di tempo. Al Qaeda vi colpirà presto» ha detto Al-Faqih aggiungendo che l'attacco all'Italia è la cosa più logica del mondo. Non è l'Italia l'anello più debole della catena composta dagli alleati in Iraq? Un anello che viene subito dopo la Spagna e che è stato preceduto da Londra per pura convenienza. E poi: «Bin Laden ricorda bene le parole del Profeta. Voi costringerete i romani alla resa. E vuole costringer l'Italia ad abbandonare l'alleanza con l'America». Infine, sottolineando che operazioni simili non si fanno appena sbarcati a Lampedusa o alla Malpensa bensì dopo aver maturato dimestichezza con il paese, esser penetrati nel suo tessuto sociale: «Per reclutare gli autori materiali, c'è solo l' imbarazzo della scelta».

Molti italiani non ci credono ancora. Nonostante le dichiarazioni del ministro degli Interni, a rischio Roma e Milano, all' erta anche Torino e Napoli e Trieste e Treviso nonché le città d' arte come Firenze e Venezia, gli italiani si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi. Ha ragione Vittorio Feltri quando su Libero scrive che la decadenza degli occidentali si identifica con la loro illusione di poter trattare amichevolmente il nemico, nonché con la loro paura. Una paura che li induce ad ospitare docilmente il nemico, a tentar di conquistarne la simpatia, a sperare che si lasci assorbire mentre è lui che vuole assorbire. Questo senza contare la nostra abitudine ad essere invasi, umiliati, traditi. Come dico nell'«Apocalisse», l'abitudine genera rassegnazione. La rassegnazione genera apatia. L'apatia genera inerzia. L'inerzia genera indifferenza, ed oltre a impedire il giudizio morale l'indifferenza soffoca l'istinto di autodifesa cioè l'istinto che induce a battersi. Oh, per qualche settimana o qualche mese lo capiranno sì d' essere odiati e disprezzati dal nemico che trattano da amico e che è del tutto refrattario alle virtù chiamate Gratitudine, Lealtà, Pietà. Usciranno sì dall'apatia, dall'inerzia, dall' indifferenza. Ci crederanno sì agli annunci di Saad al-Faqih e agli espliciti, chiari, precisi avvertimenti pronunciati da Bin Laden and Company. Eviteranno di prendere i treni della sotterranea. Si sposteranno in automobile o in bicicletta. (Ma Theo van Gogh fu ammazzato mentre si spostava in bicicletta). Attenueranno il buonismo o il servilismo. Si fideranno un po' meno del clandestino che gli vende la droga o gli pulisce la casa. Saranno meno cordiali col manovale che sventolando il permesso di soggiorno afferma di voler diventare come loro ma intanto fracassa di botte la moglie, le mogli, e uccide la figlia in blue jeans. Rinunceranno anche alle litanie sui Viaggi della Speranza, e forse realizzeranno che per non perdere la Libertà a volte bisogna sacrificare un po' di libertà. Che l' autodifesa è legittima difesa e la legittima difesa non è una barbarie. Forse grideranno addirittura che la Fallaci aveva ragione, che non meritava d' essere trattata come una delinquente. Ma poi riprenderanno a trattarmi come una delinquente. A darmi di retrograda xenofoba razzista eccetera. E quando l' attacco verrà, udiremo le consuete scemenze. Colpa degli americani, colpa di Bush.

Quando verrà, come avverrà quell'attacco? Oddio, detesto fare la Cassandra. La profetessa. Non sono una Cassandra, non sono una profetessa. Sono soltanto un cittadino che ragiona e ragionando prevede cose che secondo logica accadranno. Ma che ogni volta spera di sbagliarsi e, quando accadono, si maledice per non aver sbagliato. Tuttavia riguardo all' attacco contro l' Italia temo due cose: il Natale e le elezioni. Forse supereremo il Natale. I loro attentati non sono colpacci rozzi, grossolani. Sono delitti raffinati, ben calcolati e ben preparati. Prepararsi richiede tempo e a Natale credo che non saranno pronti. Però saranno pronti per le elezioni del 2006. Le elezioni che vogliono vedere vinte dal pacifismo a senso unico. E da noi, temo, non si accontenteranno di massacrare la gente. Perché quello è un Mostro intelligente, informato, cari miei. Un Mostro che (a nostre spese) ha studiato nelle università, nei collegi rinomati, nelle scuole di lusso. (Coi soldi del genitore sceicco od onesto operaio). Un Mostro che non s' intende soltanto di dinamica, chimica, fisica, di aerei e treni e metropolitane: s' intende anche di Arte. L'arte che il loro presunto Faro di Civiltà non ha mai saputo produrre. E penso che insieme alla gente da noi vogliano massacrare anche qualche opera d' arte. Che ci vuole a far saltare in aria il Duomo di Milano o la Basilica di San Pietro? Che ci vuole a far saltare in aria il David di Michelangelo, gli Uffizi e Palazzo Vecchio a Firenze, o il Palazzo dei Dogi a Venezia? Che ci vuole a far saltare in aria la Torre di Pisa, monumento conosciuto in ogni angolo del mondo e perciò assai più famoso delle due Torri Gemelle? Ma non possiamo scappare o alzare bandiera bianca. Possiamo soltanto affrontare il mostro con onore, coraggio, e ricordare quel che Churchill disse agli inglesi quando scese in guerra contro il nazismo di Hitler. Disse: «Verseremo lacrime e sangue». Oh, sì: pure noi verseremo lacrime e sangue. Siamo in guerra: vogliamo mettercelo in testa, sì o no?!? E in guerra si piange, si muore. Punto e basta. Conclusi così anche quattro anni fa, su questo giornale.

Oriana Fallaci a una terrorista. «Un neonato per te è un nemico?». La giornalista e scrittrice nel 1970 intervistò Rascida Abhedo, palestinese, che fece esplodere due bombe in un mercato di Gerusalemme provocando una carneficina, scrive Oriana Fallaci su “Il Corriere della Sera”. Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e nelle sue interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono - a distanza di molti anni - una forza, un valore e un fascino straordinari. Ecco l’intervista del 1970 all’attentatrice palestinese Rascida Abhedo.

Sembrava una monaca. O una guardia rossa di Mao Tse-tung. Delle monache aveva la compostezza insidiosa, delle guardie rosse l’ostilità sprezzante, di entrambe il gusto di rendersi brutta sebbene fosse tutt’altro che brutta. Il visino ad esempio era grazioso: occhi verdi, zigomi alti, bocca ben tagliata. Il corpo era minuscolo e lo indovinavi fresco, privo di errori. Ma l’insieme era sciupato da quei ciuffi neri, untuosi, da quel pigiama in tela grigioverde, un’uniforme da fatica suppongo, di taglia tre volte superiore alla sua: quella sciatteria voluta, esibita, ti aggrediva come una cattiveria. Dopo il primo sguardo, ti apprestavi con malavoglia a stringerle la mano, che ti porgeva appena, restando seduta, costringendoti a scendere verso di lei nell’inchino del suddito che bacia il piede della regina. In silenzio bestemmiavi: «Maleducata!». La mano toccò molle la mia. Gli occhi verdi mi punsero con strafottenza, anzi con provocazione, una vocetta litigiosa scandì: «Rascida Abhedo, piacere». Poi, rotta dallo sforzo che tal sacrificio le era costato, si accomodò meglio contro la spalliera del grande divano in fondo al salotto dove occupava il posto d’onore. Dico così perché v’erano molte persone, e queste le sedevan dinanzi a platea: lei in palcoscenico e loro in platea. Una signora che avrebbe fatto da interprete, suo marito, un uomo che mi fissava muto e con sospettosa attenzione, un giovanotto dal volto dolcissimo e pieno di baffi, infine Najat: la padrona di casa che aveva organizzato l’incontro con lei. Come lei, essi appartenevano tutti al Fronte Popolare, cioè il movimento maoista che da Al Fatah si distingue per la preferenza a esercitare la lotta coi sabotaggi e il terrore. Però, al contrario di lei, eran tutti ben vestiti, cordiali e borghesi: invece che ad Amman avresti detto di trovarti a Roma, tra ricchi comunisti à la page, sai tipi che fingono di voler morire per il proletariato ma poi vanno a letto con le principesse. La signora che avrebbe fatto da interprete amava andare in vacanza a Rapallo e calzava scarpe italiane. Najat, una splendida bruna sposata a un facoltoso ingegnere, era la ragazza più sofisticata della città: in una settimana non l’avevo mai sorpresa con lo stesso vestito, con un accessorio sbagliato. Sempre ben pettinata, ben profumata, ben valorizzata da un completo giacca-pantaloni o da una minigonna. Non credevi ai tuoi orecchi quando diceva: «Sono stanca perché ho partecipato alle manovre e mi duole una spalla perché il Kalashnikov rincula in modo violento». Stasera indossava un modello francese e il suo chic era così squisito che, paragonata a lei, la monaca in uniforme risultava ancor più inquietante. Forse perché sapevi chi era. Era colei che il 21 febbraio 1969 aveva fatto esplodere due bombe al supermercato di Gerusalemme, causando una carneficina. Era colei che dieci giorni dopo aveva costruito un terzo ordigno per la cafeteria della Università Ebraica. Era colei che per tre mesi aveva mobilizzato l’intera polizia israeliana e provocato Dio sa quanti arresti, repressioni, tragedie. Era colei che il Fronte custodiva per gli incarichi più sanguinolenti. Ventitré anni, ex maestra di scuola. La fotografia appesa in ogni posto di blocco: «Catturare o sparare». La patente di eroe. Al suo tono strafottente, provocatorio, ora s’era aggiunta un’espressione di gran sufficienza: la stessa che certe dive esibiscono quando devono affrontare i giornalisti curiosi. Mi accomodai accanto a lei sul divano. Lasciai perdere ogni convenevole, misi in moto il registratore: «Voglio la tua storia, Rascida. Dove sei nata, chi sono i tuoi genitori, come sei giunta a fare quello che fai». Alzò un sopracciglio ironico, tolse di tasca un fazzoletto. Si pulì il naso, lenta, rimise in tasca il fazzoletto. Si raschiò la gola. Sospirò. Rispose.

«Sono nata a Gerusalemme, da due genitori piuttosto ricchi, piuttosto conformisti, e assai rassegnati. Non fecero mai nulla per difendere la Palestina e non fecero mai nulla per indurmi a combattere. Fuorché influenzarmi, senza saperlo, coi loro racconti del passato. Mia madre, sempre a ripetere di quando andava a Giaffa col treno e dal finestrino del treno si vedeva il Mediterraneo che è così azzurro e bello. Mio padre, sempre a lagnarsi della notte in cui era fuggito con la mia sorellina su un braccio e me nell’altro braccio. E poi a dirmi dei partiti politici che c’erano prima del 1948, tutti colpevoli d’aver ceduto, d’aver deposto le armi, ma il suo era meno colpevole degli altri eccetera. E poi a mostrarmi la nostra vecchia casa al di là della linea di demarcazione, in territorio israeliano. Si poteva vederla dalle nostre finestre e penso che questo, sì, m’abbia servito. Prima di andare a letto la guardavo sempre, con ira, e a Natale guardavo gli arabi che si affollavano al posto di blocco per venire dai parenti profughi. Piangevano, perdevano i bambini, i fagotti. Erano brutti, senza orgoglio, e ti coglieva il bisogno di fare qualcosa. Questo qualcosa io lo scoprii nel 1962 quando entrai a far parte del Movimento nazionale arabo, il Fronte Popolare di oggi. Avevo quindici anni, non dissi nulla ai miei genitori. Si sarebbero spaventati, non avrebbero compreso. Del resto si faceva poco: riunioni di cellula, corsi politici, manifestazioni represse dai soldati giordani» .

Come eri entrata in contatto con quel movimento?

«A scuola. Cercavano adepti fra gli studenti. Poi venne il 1967: l’occupazione di Gerusalemme, di Gerico, del territorio a est del Giordano. Io in quei giorni non c’ero, ero nel Kuwait: insegnavo in una scuola media di una cittadina sul Golfo. C’ero stata costretta perché nelle scuole della Giordania c’era poca simpatia pei maestri palestinesi. L’occupazione di Gerusalemme mi gettò in uno stato di sonnolenza totale. Ero così mortificata che per qualche tempo non vi reagii e ci volle tempo perché capissi che agli altri paesi arabi non importava nulla della Palestina, non si sarebbero mai scomodati a liberarla: bisognava far questo da soli. Ma allora perché restavo in quella scuola a insegnare ai ragazzi? Il mio lavoro lo amavo, intendiamoci, lo consideravo alla stregua di un divertimento, ma era necessario che lo abbandonassi. Mi dimisi e venni ad Amman dove mi iscrissi subito al primo gruppo di donne addestrate dall’FPLP. Ragazze tra i diciotto e i venticinque anni, studentesse o maestre come me. Era il gruppo di Amina Dahbour, quella che hanno messo in prigione in Svizzera per il dirottamento di un aereo El Al, di Laila Khaled, che dirottò l’aereo della TWA, di Sheila Abu Mazal, la prima vittima della barbarie sionista» .

La interruppi: anche questo nome m’era familiare perché ovunque lo vedevi stampato con l’appellativo di eroina e sui giornali occidentali avevo letto che era morta in circostanze eccezionali. Chi diceva in combattimento, chi diceva sotto le torture.

Rascida, come morì Sheila Abu Mazal?

«Una disgrazia. Preparava una bomba per un’azione a Tel Aviv e la bomba scoppiò tra le sue mani» .

Perché?

«Così» .

Raccontami degli addestramenti, Rascida.

«Uffa. Eran duri. Ci voleva una gran forza di volontà per compierli. Marce, manovre, pesi. Sheila ripeteva: bisogna dimostrare che non siamo da meno degli uomini! E per questo in fondo scelsi il corso speciale sugli esplosivi. Era il corso che bisognava seguire per diventare agenti segreti e, oltre alla pratica degli esplosivi, prevedeva lo studio della topografia, della fotografia, della raccolta di informazioni. I nostri istruttori contavano molto sulle donne come elemento di sorpresa: da una ragazza araba non ci si aspettano certe attività. Divenni brava a scattar fotografie di nascosto ma specialmente a costruire ordigni a orologeria. Più di ogni altra cosa volevo maneggiare le bombe, io sono sempre stata un tipo senza paura. Anche da piccola. Non m’impressionava mai il buio. I corsi duravano a volte quindici giorni, a volte due mesi o quattro. Il mio corso fu lungo, assai lungo, perché dovetti anche imparare a recarmi nel territorio occupato. Passai il fiume molte volte, insieme alle mie compagne. A quel tempo non era difficilissimo perché gli sbarramenti fotoelettrici non esistevano, ma la prima volta non fu uno scherzo. Ero tesa, mi aspettavo di morire. Ma presto fui in grado di raggiungere Gerusalemme e stabilirmici come agente segreto» .

Dimmi delle due bombe al supermarket, Rascida.

«Uffa. Quella fu la prima operazione di cui posso rivendicare la paternità. Voglio dire che la concepii da sola, la preparai da sola, e da sola la portai fino in fondo. Avevo ormai partecipato a tanti sabotaggi del genere e potevo muovermi con disinvoltura. E poi avevo una carta di cittadinanza israeliana con cui potevo introdurmi in qualsiasi posto senza destare sospetto. Poiché abitavo di nuovo coi miei genitori, scomparivo ogni tanto senza dare nell’occhio. L’idea di attaccare il supermarket l’ebbi quattro giorni dopo la cattura di Amina a Zurigo, e la morte di Abdel. Nella sparatoria con l’israeliano, ricordi, Abdel rimase ucciso. Bisognava vendicare la morte di Abdel e bisognava dimostrare a Moshe Dayan la falsità di ciò che aveva detto: secondo Moshe Dayan, il Fronte Popolare agiva all’estero perché non era capace di agire entro Israele. E poi bisognava rispondere ai loro bombardamenti su Irbid, su Salt. Avevano ucciso civili? Noi avremmo ucciso civili. Del resto nessun israeliano noi lo consideriamo un civile ma un militare e un membro della banda sionista» .

Anche se è un bambino, Rascida? Anche se è un neonato? (Gli occhi verdi si accesero d’odio, la sua voce adirata disse qualcosa che l’interprete non mi tradusse, e subito scoppiò una gran discussione cui intervennero tutti: anche Najat, anche il giovanotto col volto dolcissimo. Parlavano in arabo, e le frasi si sovrapponevan confuse come in una rissa da cui si levava spesso un’invocazione: «Rascida!». Ma Rascida non se ne curava. Come un bimbo bizzoso scuoteva le spalle e, solo quando Najat brontolò un ordine perentorio, essa si calmò. Sorrise un sorriso di ghiaccio, mi replicò).

«Questa domanda me la ponevo anch’io, quando mi addestravo con gli esplosivi. Non sono una criminale e ricordo un episodio che accadde proprio al supermarket, un giorno che vi andai in avanscoperta. C’erano due bambini. Molto piccoli, molto graziosi. Ebrei. Istintivamente mi chinai e li abbracciai. Ma stavo abbracciandoli quando mi tornarono in mente i nostri bambini uccisi nei villaggi, mitragliati per le strade, bruciati dal napalm. Quelli di cui loro dicono: bene se muore, non diventerà mai un fidayin. Così li respinsi e mi alzai. E mi ordinai: non farlo mai più, Rascida, loro ammazzano i nostri bambini e tu ammazzerai i loro. Del resto, se questi due bambini morranno, o altri come loro, mi dissi, non sarò stata io ad ammazzarli. Saranno stati i sionisti che mi forzano a gettare le bombe. Io combatto per la pace, e la pace val bene la vita di qualche bambino. Quando la nostra vera rivoluzione avverrà, perché oggi non è che il principio, numerosi bambini morranno. Ma più bambini morranno più sionisti comprenderanno che è giunto il momento di andarsene. Sei d’accordo? Ho ragione?»  

No, Rascida.

La discussione riprese, più forte. Il giovanotto dal volto dolcissimo mi lanciò uno sguardo conciliativo, implorante. V’era in lui un che di straziante e ti chiedevi chi fosse. Poi, con l’aiuto di alcune tazze di tè, l’intervista andò avanti.

Perché scegliesti proprio il supermarket, Rascida?

«Perché era un buon posto, sempre affollato. Durante una decina di giorni ci andai a tutte le ore proprio per studiare quando fosse più affollato. Lo era alle undici del mattino. Osservai anche l’ora in cui apriva e in cui chiudeva, i punti dove si fermava più gente, e il tempo che ci voleva a raggiungerlo dalla base segreta dove avrei ritirato la bomba o le bombe. Per andarci mi vestivo in modo da sembrare una ragazza israeliana, non araba. Spesso vestivo in minigonna, altre volte in pantaloni, e portavo sempre grandi occhiali da sole. Era interessante, scoprivo sempre qualcosa di nuovo e di utile, ad esempio che se camminavo con un peso il tragitto tra la base e il supermarket aumentava. Infine fui pronta e comprai quei due bussolotti di marmellata. Molto grandi, da cinque chili l’uno, di latta. Esattamente ciò di cui avevo bisogno» .

Per le bombe?

«Sicuro. L’idea era di vuotarli, riempirli di esplosivo, e rimetterli dove li avevo presi. Quella notte non tornai a casa. Andai alla mia base segreta e con l’aiuto di alcuni compagni aprii i bussolotti. Li vuotai di quasi tutta la marmellata e ci sistemai dentro l’esplosivo con un ordigno a orologeria. Poi saldai di nuovo il coperchio, perché non si vedesse che erano stati aperti e...»  

Che marmellata era, Rascida?

«Marmellata di albicocche, perché?»

Così... Non mangerò mai più marmellata di albicocche. . (Rascida rise a gola spiegata e a tal punto che le venne la tosse).

«Io la mangiai, invece. Era buona. E dopo averla mangiata andai a dormire» .

Dormisti bene, Rascida?

«Come un angelo. E alle cinque del mattino mi svegliai bella fresca. Mi vestii elegantemente, coi pantaloni alla charleston, sai quelli attillati alla coscia e svasati alla caviglia, mi pettinai con cura, mi truccai gli occhi e le labbra. Ero graziosa, i miei compagni si congratulavano: «Rascida!». Quando fui pronta misi i bussolotti della marmellata in una borsa a sacco: sai quelle che si portano a spalla. Le donne israeliane la usano per fare la spesa. Uh, che borsa pesante! Un macigno! L’esplosivo pesava il doppio della marmellata. Ecco perché negli addestramenti ti abituano a portare pesi» .

Come ti sentivi, Rascida? Nervosa, tranquilla?

«Tranquilla, anzi felice. Ero stata così nervosa nei giorni precedenti che mi sentivo come scaricata. E poi era una mattina azzurra, piena di sole. Sapeva di buon auspicio. Malgrado il peso della borsa camminavo leggera, portavo quelle bombe come un mazzo di fiori. Sì, ho detto fiori. Ai posti di blocco i soldati israeliani perquisivano la gente ma io gli sorridevo con civetteria e, senza attendere il loro invito, aprivo la borsa: «Shalom, vuoi vedere la mia marmellata?». Loro guardavano la marmellata e con cordialità mi dicevano di proseguire. No, non andai dritta al supermarket: dove andai prima è affar mio e non ti riguarda. Al supermarket giunsi poco dopo le nove. Che pensi? (Pensavo a un episodio del film La battaglia di Algeri, quello dove tre donne partono una mattina per recarsi a sistemare esplosivi su obiettivi civili. Una delle tre donne è una ragazza che assomiglia straordinariamente a Rascida: piccola, snella, e porta i pantaloni. Passando ai posti di blocco strizza l’occhio ai soldati francesi, civetta. Chissà se Rascida aveva visto il film. Magari sì. Bisognava che glielo chiedessi quando avrebbe finito il racconto. Ma poi me ne dimenticai. O forse volli dimenticarmene per andarmene via prima). Pensavo... a nulla» .

Cosa accadde quando entrasti nel supermarket, Rascida?

«Entrai spedita e agguantai subito il carry-basket, sai il cestino di metallo dove si mette la roba, il cestino con le ruote. Al supermarket c’è il self-service, ti muovi con facilità. La prima cosa da fare, quindi, era togliere i due bussolotti di marmellata dalla mia borsa e metterli nel carry-basket. Ci avevo già provato ma con oggetti più piccoli, non così pesanti, coi bussolotti grandi no e per qualche secondo temetti di dare nell’occhio. Mi imposi calma, perciò. Mi imposi anche di non guardare se mi guardavano altrimenti il mio gesto avrebbe perso spontaneità. Presto i bussolotti furono nel carry-basket. Ora si trattava di rimetterli a posto ma non dove li avevo presi perché non era un buon punto. Alla base avevo caricato i due ordigni a distanza di cinque minuti, in modo che uno esplodesse cinque minuti prima dell’altro. Decisi di mettere in fondo al negozio quello che sarebbe esploso dopo. L’altro, invece, vicino alla porta dove c’era uno scaffale con le bottiglie di birra e i vasetti» .

Perché, Rascida?

«Perché la porta era di vetro come le bottiglie di birra, come i vasetti. Con l’esplosione sarebbero schizzati i frammenti e ciò avrebbe provocato un numero maggiore di feriti. O di morti. Il vetro è tremendo: lanciato a gran velocità può decapitare, e anche i piccoli pezzi sono micidiali. Non solo, la prima esplosione avrebbe bloccato l’ingresso. Allora i superstiti si sarebbero rifugiati in fondo al negozio e qui, cinque minuti dopo, li avrebbe colti la seconda esplosione. Con un po’ di fortuna, nel caso la polizia fosse giunta alla svelta, avrei fatto fuori anche un bel po’ di polizia. Rise divertita, contenta. E ciò le provocò un nuovo accesso di tosse» .

Non ridere, Rascida. Continua il tuo racconto, Rascida.

«Sempre senza guardare se mi guardavano, sistemai i due bussolotti dove avevo deciso. Se qualcuno se ne accorse non so, ero troppo concentrata in ciò che stavo facendo. Ricordo solo un uomo molto alto, con il cappello, che mi fissava. Ma pensai che mi fissasse perché gli piacevo. Te l’ho detto che ero molto graziosa quella mattina. Poi, quando anche il secondo bussolotto fu nello scaffale, comprai alcune cose: tanto per non uscire a mani vuote. Comprai un grembiule da cucina, due stecche di cioccolata, altre sciocchezze. Non volevo dare troppi soldi agli ebrei» .

Cos’altro comprasti, Rascida?

«I cetriolini sottaceto. E le cipolline sottaceto. Mi piacciono molto. Mi piacciono anche le olive farcite. Ma cos’è questo, un esame di psicologia?»

Se vuoi. E li mangiasti quei cetriolini, quelle cipolline?

«Certo. Li portai a casa e li mangiai. Non era un’ora adatta agli antipasti e mia madre disse, ricordo: «Da dove vengono, quelli?». Io risposi: «Li ho comprati al mercato». Ma che te ne importa di queste cose? Torniamo al supermarket. Avevo deciso che l’intera faccenda dovesse durare quindici minuti. E quindici minuti durò. Così, dopo aver pagato uscii e tornai a casa. Qui feci colazione e riposai. Un’ora di cui non ricordo nulla. Alle undici in punto aprii la radio per ascoltar le notizie. Le bombe erano state caricate alle sei e alle sei e cinque, affinché scoppiassero cinque ore dopo. L’esplosione sarebbe dunque avvenuta alle undici e alle undici e cinque: l’ora dell’affollamento. Aprii la radio per accertarmene e per sapere se... se erano morti bambini nell’operazione» .

Lascia perdere, Rascida. Non ci credo, Rascida. Cosa disse la radio?

«Disse che c’era stato un attentato al supermarket e che esso aveva causato due morti e undici feriti. Rimasi male, due morti soltanto, e scesi per strada a chiedere la verità. Radio Israele non dice mai la verità. La verità era che le due bombe avevan causato ventisette morti e sessanta feriti fra cui quindici gravissimi. Bè, mi sentii meglio anche se non perfettamente contenta. Gli esperti militari della mia base avevano detto che ogni bomba avrebbe ucciso chiunque entro un raggio di venticinque metri e, verso le undici del mattino, al supermarket non contavi mai meno di trecentocinquanta persone. Oltre a un centinaio di impiegati» .

Rascida, provasti anzi provi nessuna pietà per quei morti?

«No davvero. Il modo in cui ci trattano, in cui ci uccidono, spenge in noi ogni pietà. Io ho dimenticato da tempo cosa significa la parola pietà e mi disturba perfino pronunciarla. Corre voce che ci fossero arabi in quel negozio. Non me ne importa. Se c’erano, la lezione gli servì a imparare che non si va nei negozi degli ebrei, non si danno soldi agli ebrei. Noi arabi abbiamo i nostri negozi, e i veri arabi si servono lì» .

Rascida, cosa facesti dopo esserti accertata che era successo ciò che volevi?

«Dissi a mia madre: «Ciao, mamma, esco e torno fra poco». La mamma rispose: «Va bene, fai presto, stai attenta». Chiusi la porta e fu l’ultima volta che la vidi. Dovevo pensare a nascondermi, a non farmi più vedere neanche se arrestavano i miei. E li arrestarono. Non appena il Fronte Popolare assunse la paternità dell’operazione, gli israeliani corsero da quelli che appartenevano al Fronte. Hanno schedari molto precisi, molto aggiornati: un dossier per ciascuno di noi. E tra coloro che presero c’era un compagno che sapeva tutto di me. Così lo torturarono ma lui resistette tre giorni: è la regola. Tre giorni ci bastano infatti a metterci in salvo. Dopo tre giorni disse il mio nome, così la polizia venne ad arrestarmi ma non mi trovò e al mio posto si portò via la famiglia. Mio padre, mia madre, mia sorella maggiore e i bambini. Mia madre e i bambini li rilasciarono presto, mio padre invece lo tennero tre mesi e mia sorella ancora di più. Al processo non ci arrivarono mai perché in realtà né mio padre né mia sorella sapevano niente» .

E tu cosa facesti, Rascida?

«Raggiunsi una base segreta e preparai la bomba per la cafeteria dell’Università Ebraica. Questo accadde il 2 marzo e purtroppo io non potei piazzare la bomba, che non ebbe un esito soddisfacente. Solo ventotto studenti restaron feriti, e nessun morto. In compenso le cose peggiorarono molto per me: la mia fotografia apparve dappertutto e la polizia prese a cercarmi ancor più istericamente. Fu necessario abbandonare la base segreta e da quel momento dovetti cavarmela proprio da me. Mi trasferivo di casa in casa, una notte qui e una notte là, per strada mi sembrava sempre d’esser seguita. Un giorno un’automobile mi seguì a passo d’uomo per circa due ore. Esitavano a fermarmi, credo, perché ero molto cambiata e vestita come una stracciona. Riuscii a far perdere le mie tracce e, in un vicolo, bussai disperatamente a una porta. Aprì un uomo, cominciai a piangere e a dire che ero sola al mondo: mi prendesse a servizio per carità. Si commosse, mi assunse e rimasi lì dieci giorni. Al decimo, giudicai saggio scomparire. Ero appena uscita che la polizia israeliana arrivò e arrestò l’uomo. Al processo, malgrado ignorasse tutto di me, fu condannato a tre anni. È ancora in prigione» .

Te ne dispiace, Rascida?

«Che posso farci? In carcere ce l’hanno messo loro, mica io. E io ho sofferto tanto. Tre mesi di caccia continua» .

Ci credo, avevi fatto scoppiare tre bombe! E come tornasti in Giordania, Rascida?

«Con un gruppo militare del Fronte. Si passò le linee di notte. Non fu semplice, dovemmo nasconderci molte ore nel fiume e bevvi un mucchio di quell’acqua sporca. Sono ancora malata. Ma partecipo lo stesso alle operazioni da qui e l’unica cosa che mi addolora è non poter più mettere bombe nei luoghi degli israeliani» .

E non vedere più i tuoi genitori, averli mandati in carcere, ti addolora?

«La mia vita personale non conta, in essa non v’è posto per le emozioni e le nostalgie. I miei genitori li ho sempre giudicati brava gente e tra noi c’è sempre stato un buon rapporto, ma v’è qualcosa che conta più di loro ed è la mia patria. Quanto alla prigione, li ha come svegliati: non sono più rassegnati, indifferenti. Ad esempio potrebbero lasciare Gerusalemme, mettersi in salvo, ma rifiutan di farlo. Non lasceremo mai la nostra terra, dicono. E se Dio vuole...»  

Credi in Dio, Rascida?

«No, non direi. La mia religione è sempre stata la mia patria. E insieme a essa il socialismo. Ho sempre avuto bisogno di spiegare le cose scientificamente, e Dio non lo spieghi scientificamente: il socialismo sì. Io credo nel socialismo scientifico basato sulle teorie marxiste-leniniste che ho studiato con cura. Presto studierò anche Il Capitale: è in programma nella nostra base. Voglio conoscerlo bene prima di sposarmi» .

Ti sposi, Rascida?

«Sì, tra un mese. Il mio fidanzato è quello lì» . (E additò il giovanotto dal volto dolcissimo. Lui arrossì gentilmente e parve affondare dentro la poltrona).

Congratulazioni. Avevi detto che nella tua vita non c’è posto per i sentimenti.

«Ho detto che capisco le cose solo da un punto di vista scientifico e il mio matrimonio è la cosa più scientifica che tu possa immaginare. Lui è comunista come me, fidayin come me: la pensiamo in tutto e per tutto nel medesimo modo. Inoltre v’è attrazione fra noi ed esaudirla non è forse scientifico? Il matrimonio non c’impedirà di combattere: non metteremo su casa. L’accordo è incontrarci tre volte al mese e solo se ciò non intralcia i nostri doveri di fidayin. Figli non ne vogliamo: non solo perché se restassi incinta non potrei più combattere e il mio sogno più grande è partecipare a una battaglia, ma perché non credo che in una situazione come questa si debba mettere al mondo bambini. A che serve? A farli poi morire o almeno restare orfani?»

(Allora si alzò il fidanzato, che si chiamava Thaer, e con l’aria di scusarsi venne a sedere presso di me. Guardandomi con due occhi di agnello, parlando con voce bassissima, dolce come il suo viso, disse che conosceva Rascida da circa tre anni: quando lei insegnava nel Kuwait e lui studiava psicologia all’università. «Mi piacque come essere umano, pei suoi pregi e i suoi difetti. Dopo la guerra del 1967 le scrissi una lettera per annunciarle che sarei diventato fidayin, per spiegarle che l’amavo, sì, ma la Palestina contava più del mio amore. Lei rispose: “Thaer, hai avuto più fiducia in me di quanta io ne abbia avuta in te. Perché tu m’hai detto di voler diventare fidayin e io non te l’ho detto. Abbiamo gli stessi progetti, Thaer, e da questo momento mi considero davvero fidanzata con te”.» «Capisco, Thaer. Ma cosa provasti a sapere che Rascida aveva ucciso ventisette persone senza un fucile in mano?» Thaer prese fiato e congiunse le mani come a supplicarmi di ascoltarlo con pazienza. «Fui orgoglioso di lei. Oh, so quello che provi, all’inizio la pensavo anch’io come te. Perché sono un uomo tenero, io, un sentimentale. Non assomiglio a Rascida. Il mio modo di fare la guerra è diverso: io sparo a chi spara. Ma ho visto bombardare i nostri villaggi e mi sono rivoltato: ho deciso che avere scrupoli è sciocco. Se invece d’essere uno spettatore obbiettivo tu fossi coinvolta nella tragedia, non piangeresti sui morti senza il fucile. E capiresti Rascida.») Certo è difficile capire Rascida. Ma vale la pena provarci e, per provarci, bisogna avere visto i tipi come Rascida nei campi dove diventano fidajat: cioè donne del sacrificio. Lunghe file di ragazze in grigioverde, costrette giorno e notte a marciare sui sassi, saltare sopra altissimi roghi di gomma e benzina, insinuarsi entro reticolati alti appena quaranta centimetri e larghi cinquanta, tenersi in bilico su ponticelli di corde tese su trabocchetti, impegnarsi in massacranti lezioni di tiro. E guai se sbagli un colpo, guai se calcoli male il salto sul fuoco, guai se resti impigliato in una punta di ferro, guai se dici basta, non ce la faccio più. L’istruttore che viene dalla Siria, dall’Iraq, dalla Cina, non ha tempo da perdere con le femminucce: se hai paura, o ti stanchi, ti esplode una raffica accanto agli orecchi. Hai visto le fotografie. Ch’io sappia, neanche i berretti verdi delle forze speciali in Vietnam, neanche i soldati più duri dei commandos israeliani vengono sottoposti ad addestramenti così spietati. E da quelli, credi, esci non soltanto col fisico domato ma con una psicologia tutta nuova. Dice che in alcuni campi (questo io non l’ho visto) le abituano perfino alla vista del sangue. E sai come? Prima sparano su un cane lasciandolo agonizzante ma vivo, poi buttano il cane tra le loro braccia e le fanno correre senza ascoltarne i guaiti. Dopo tale esperienza, è dimostrato, al dolore del corpo e dell’anima non badi più. Al campo Schneller conobbi una fidajat che si chiamava Hanin, Nostalgia. La intervistai e mi disse d’avere venticinque anni, un figlio di sei e una figlia di due. Le chiesi: «Dove li hai lasciati, Hanin?». Rispose: «In casa, oggi c’è mio marito». «E cosa fa tuo marito?» «Il fidayin. Oggi è in licenza.» «E quando non c’è tuo marito?» «Qua e là.» «Hanin, non basta un soldato in famiglia?» «No, voglio passare anch’io le linee, voglio andare anch’io in combattimento.» Poi ci mettemmo a parlare di altre cose, del negozio di antiquariato che essi possedevano a Gerusalemme, del fatto che non gli mancassero i soldi eccetera. La conversazione era interessante, si svolgeva direttamente in inglese, e io non mi curavo del lieve sospiro, quasi un lamento, che usciva dalle pieghe del kaffiah. I grandi occhi neri erano fermi, la fronte era appena aggrottata, e pensavo: poverina, è stanca. Ma poi l’istruttore chiamò, era giunto il turno di sparare al bersaglio, e Hanin si alzò: nell’alzarsi le sfuggì un piccolo grido. «Ti senti male, Hanin?» «No, no. Credo soltanto d’essermi slogata un piede. Ma ora non c’è tempo di metterlo a posto, lo dirò quando le manovre saranno finite.» E raggiunse le compagne, decisa, col suo piede slogato. Per capire Rascida, o provarci, bisogna anche avere visto le donne che hanno fatto la guerra senza allenarsi: affrontando di punto in bianco la morte, la consapevolezza che la crudeltà è indispensabile se vuoi sopravvivere. In un altro campo conobbi Im Castro: significa Madre di Castro. Im essendo l’appellativo che i guerriglieri palestinesi usano per le donne, e Castro essendo il nome scelto da suo figlio maggiore: fidayin. Im Castro era un donnone di quarant’anni, con un corpo da pugile e un volto da Madonna bruciata dalle intemperie. Acqua, vento, sole, rabbia, disperazione, tutto era passato su quei muscoli color terracotta riuscendo a renderli più forti e più duri anziché sgretolarli. Contadina a Gerico, era fuggita nel 1967 insieme al marito, il fratello, il cognato, due figli maschi e due femmine. Qui era giunta dopo Karameh e qui viveva sotto una tenda dove non possedeva nulla fuorché una coperta e un rudimentale fornello con due pentole vecchie. Le chiesi: «Im Castro, dov’è tuo marito?». Rispose: «È morto in battaglia, a Karameh». «Dov’è tuo fratello?» «È morto in battaglia, a Karameh.» «Dov’è tuo cognato?» «È morto in battaglia, a Karameh.» «Dove sono i tuoi figli?» «Al fronte, sono fidayin.» «Dove sono le tue figlie?» «Agli addestramenti, per diventare fidajat. » «E tu?» «Io non ne ho bisogno. Io so usare il Kalashnikov, il Carlov, e queste qui.» Sollevò un cencio e sotto c’era una dozzina di bombe col manico. «Dove hai imparato a usarle, Im Castro?» «A Karameh, combattendo col sangue ai ginocchi.» «E prima non avevi mai sparato, Im Castro? » «No, prima coltivavo grano e fagioli.» «Im Castro, cosa provasti ad ammazzare un uomo?» «Una gran gioia, che Allah mi perdoni. Pensai: hai ammazzato mio marito, ragazzo, e io ammazzo te.» «Era un ragazzo?» «Sì, era molto giovane.» «E non hai paura che succeda lo stesso ai tuoi figli?» «Se i miei figli muoiono penserò che hanno fatto il loro dovere. E piangerò solo perché essendo vedova non potrò partorire altri figli per darli alla Palestina.» «Im Castro, chi è il tuo eroe?» «Eroe è chiunque spari la mitragliatrice.» Le guerre, le rivoluzioni, non le fanno mai le donne. Non sono le donne a volerle, non sono le donne a comandarle, non sono le donne a combatterle. Le guerre, le rivoluzioni, restano dominio degli uomini. Per quanto utili o utilizzate, le donne vi servono solo da sfondo, da frangia, e neanche la nostra epoca ha modificato questa indiscutibile legge. Pensa all’Algeria, pensa al Vietnam dove esse fanno parte dei battaglioni vietcong ma in un rapporto di cinque a venti coi maschi. Pensa alla stessa Israele dove le soldatesse son così pubblicizzate ma chi si accorge di loro in battaglia se non sono una figlia di Moshe Dayan. In Palestina è lo stesso. Dei duecentomila palestinesi mobilitati da Al Fatah, almeno un terzo son donne: intellettuali come Rascida, madri di famiglia come Hanin, signore borghesi come Najat, contadine come Im Castro. Però quasi tutte sono in fase di riposo o di attesa, pochissime vivono nelle basi segrete, e solo in casi eccezionali partecipano a un combattimento. È indicativo, ad esempio, che tra i fidayin al fronte non ne abbia incontrata nessuna e che l’unica di cui mi abbian parlato sia una cinquantaquattrenne che fa la vivandiera per un gruppo di Salt. È indiscutibile, inoltre, che l’unica di cui si possa vantare la morte sia quella Sheila cui scoppiò una bomba in mano. A usare le donne nella Resistenza non ci sono che i comunisti rivali di Al Fatah i quali le impiegano senza parsimonia per gli atti di sabotaggio e di terrorismo. La ragione è semplice e intelligente. In una società dove le donne hanno sempre contato quanto un cammello o una vacca, e per secoli sono rimaste segregate al ruolo di moglie di madre di serva, nessuno si aspettava di trovarne qualcuna capace di dirottare un aereo, piazzare un ordigno, maneggiare un fucile. Abla Taha, la fidajat di cui si parlò anche alle Nazioni Unite per gli abusi che subì in prigione sebbene fosse incinta, racconta: «Quando mi arrestarono al ponte Allenby perché portavo esplosivo, gli israeliani non si meravigliarono mica dell’esplosivo. Si meravigliarono di scoprirlo addosso a una donna. Per loro era inconcepibile che un’araba si fosse tolta il velo per fare la guerra». La stessa Rascida, del resto, spiega che al corso di addestramento le donne venivano incluse come «elemento di sorpresa ». Il discorso cui volevo arrivare, comunque, la morale della faccenda, non è questo qui. È che la sorpresa su cui gli uomini della Resistenza palestinese contavano per giocare il nemico, ha colto di contropiede anche loro. «Tutto credevamo,» mi confessò un ufficiale della milizia fidayin «fuorché le donne rispondessero al nostro appello come hanno fatto. Ormai non siamo più noi a cercarle, sono loro a imporsi e pretendere di andare all’attacco.» «E qual è la sua interpretazione?» gli chiesi. L’ufficiale non era uno sciocco. Accennò una smorfia che oscillava tra il divertimento e il fastidio, rispose: «Lo sa meglio di me che l’amore per la patria c’entra solo in parte, che la molla principale non è l’idealismo. È... sì, è una forma di femminismo. Noi uomini le avevamo chiuse a chiave dietro una porta di ferro, la Resistenza ha aperto uno spiraglio di quella porta ed esse sono fuggite. Hanno compreso insomma che questa era la loro grande occasione, e non l’hanno perduta. Le dico una cosa che esse non ammetterebbero mai in quanto è una verità che affoga nel loro subcosciente: combattendo l’invasore sionista esse rompono le catene imposte dai loro padri, dai loro mariti, dai loro fratelli. Insomma dal maschio». «E sono davvero brave?» «Oh, sì. Più brave degli uomini, perché più spietate. Abbastanza normale se ricorda che il loro nemico ha due facce: quella degli israeliani e la nostra. » «E crede che vinceranno?» «Non so. Dipende dal regime politico che avrà la Palestina indipendente. Capisce cosa voglio dire?» Voleva dire ciò che dice, silenziosamente, Rascida. La società araba non è una società disposta a correggere i suoi tabù sulla donna e sulla famiglia. Le tradizioni mussulmane sono troppo abbarbicate negli uomini del Medio Oriente perché a scardinarle basti una guerra o il progresso tecnologico che esplode con la guerra. Finché dura l’atmosfera eroica, lo stato di emergenza, può sembrare che tutto cambi: ma, quando sopraggiunge la pace, le vecchie realtà si ristabiliscono in un battere di ciglia. Lo si è visto già in Algeria dove le donne fecero la Resistenza con coraggio inaudito e dopo ricaddero svelte nel buio. Chi comanda oggi in Algeria? Gli uomini o le donne? Che autorità hanno le Rascide che un tempo piazzavano le bombe? Perfino gli ex guerriglieri hanno quasi sempre sposato fanciulle all’antica, senza alcun merito militare o politico. Maometto dura: dura più di Confucio. Sicché tutto fa credere che i palestinesi, pur essendo tra gli arabi più europeizzati e moderni, commettano in futuro la stessa scelta o ingiustizia degli algerini: «Brave, bravissime, sparate, aiutate, ma poi via a casa». Ma, sotto sotto, le loro donne lo sanno e, poiché la Storia non offre solo l’esempio dell’Algeria, corrono fin da ora ai ripari. Come? Buttandosi dalla parte di coloro che abbracciano l’ideologia della Cina maoista: cioè il Fronte Popolare di George Abash. In Cina le donne non sono mica tornate a lavare i piatti; stanno anch’esse al potere, hanno vinto. Per vincere è necessario annullare ogni sentimento, incendiare le case dei vecchi, gli ospedali dei bambini, il più innocuo supermarket? E va bene. Per vincere è necessario imbruttirsi, sacrificare i genitori, credere nel socialismo scientifico, rendersi odiose? E va bene. Ciò che conta è non ricadere nel buio come le algerine, quando la pace verrà. Ciò che conta è non rimettere il velo quando gli uomini saranno in grado di cavarsela, come sempre, da soli. Può sembrare un paradosso, e forse lo è. Ma vuotando quei due bussolotti di marmellata e ficcandoci dentro esplosivo, Rascida non fece che comprarsi il domani. In fondo le ventisette creature che essa maciullò a Gerusalemme morirono perché lei si togliesse per sempre il velo e lo trasferisse sul volto dolcissimo del suo fidanzato, l’ignaro Thaer. Amman, marzo 1970 (Tratto da Intervista con il potere, Rizzoli 2009)

"Decapitazioni e orrore, Medusa tra di noi". Il sentimento di Marco Belpoliti per il 2015. Il suo sguardo era scomparso da secoli dall’iconografia collettiva, ma le immagini con le decapitazioni dell’Isis lo hanno fatto tornare. E di nuovo ci pietrifica. Lo scopo dei carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo. Esattamente come accadeva nei supplizi precedenti l’Illuminismo, scrive Marco Belpoliti “L’Espresso” Il primo è stato il fotoreporter americano James Foley. Poi nell’arco di un mese sono stati decapitati un altro reporter statunitense, Steven Sotoff, e il cooperante scozzese David Haines. Il rito pressoché identico prevede che il condannato sia vestito di un camicione arancione, mentre il boia è in nero, con il capo e il viso occultati. Tiene in mano un coltello esibito come strumento di morte. La decapitazione ha generato un immediato senso di orrore lasciando attonita l’intera platea televisiva occidentale. Le immagini della decollazione sono state viste da milioni di persone e commentate da giornali, televisioni, siti internet. Basta? No. Pochi giorni fa la notizia che un commando di talebani pakistani entra in una scuola a Peshawar e uccide a freddo 132 bambini e i loro insegnanti, per poi essere a loro volta uccisi dalle forze di sicurezza. L’orrifico è entrato nelle case degli abitanti dell’Europa e dell’America. Qualcosa che era scomparso da due secoli almeno dalle piazze del Vecchio Continente ha fatto così la sua cruenta riapparizione - per quanto negli ultimi anni ci siano state molte altre decapitazioni, per esempio nelle guerre combattute nell’ex Jugoslavia così come in altri sequestri di ostaggi. Basti ricordare il reporter americano Daniel Pearl, sequestrato in Pakistan e decapitato nel 2002, e il giovane imprenditore Nicholas Berg in Iraq nel 2004: ma non sempre furono così platealmente visibili all’opinione pubblica, e soprattutto non prevedevano la “serializzazione” che caratterizza orrendamente le decapitazioni di oggi. Che appaiono quasi come puntate di una atroce serie, in cui ciascun episodio contiene l’annuncio del successivo. All’inizio del suo volume “Sorvegliare e punire” (1975) Michel Foucault racconta un supplizio, tratto dalla “Gazzetta di Amsterdam”, cui è condannato il 2 marzo 1757 tale Robert-François Damiens. Il suo corpo è squartato tra terribili tormenti sulla pubblica piazza a opera di sei cavalli, che tirano le membra da parti opposte. Nell’arco di pochi decenni da quella data in Europa si smette di amputare, fare a pezzi e marchiare i condannati; il corpo non è più oggetto dello spettacolo pubblico, così da scomparire come “principale bersaglio della repressione penale”. Salvo poi fare la sua terribile ricomparsa con il Terrore, attraverso l’uso della ghigliottina e delle teste mozzate esibite, ancora sulle piazze, durante la Rivoluzione francese. Nel sistema giuridico americano, dove tutt’ora esiste la pena di morte cancellata invece in Europa, ha ricordato di recente Giorgio Mariani, è contemplata l’uccisione del condannato mediante una iniezione letale, sistema indolore e privo di spettacolarità. Nella cultura puritana di quel Paese, almeno sul suo territorio, è respinta come barbara ogni forma di decollazione: la testa non può e non deve essere separata dal corpo, il quale va conservato nella sua integrità nel momento in cui viene eseguita una sentenza di morte. L’orrore che hanno suscitato i filmati dell’Isis proviene anche da questa tradizione, oltre che dal culto del corpo che negli ultimi settant’anni si è diffuso in Occidente. Questo nonostante che nei decenni passati in Europa, come in altri luoghi del Pianeta, siano accaduti fatti terribili, le guerre e i conseguenti massacri della ex-Jugoslavia, o le vicende del genocidio in Uganda, con amputazioni, decapitazioni, squartamenti. In Europa la decapitazione degli ostaggi americani e inglesi nelle mani dei membri dell’Isis sono state vissute come un ritorno al passato, a pratiche medievali, barbariche. Questo nonostante che nella nostra tradizione iconografica sia ben presente l’immagine della decollazione, quella di san Giovanni Battista, o quella di Giuditta nei confronti di Oloferne, come ci ha ricordato non molti anni fa la mostra allestita da Julia Kristeva al Museo del Louvre, poi raccolta in “La testa senza il corpo” (Donzelli). C’è persino un santo, San Dionigi, protettore di Parigi, il cui miracolo è consistito nel mettersi sotto braccio la propria testa tagliata, per mano dei soldati romani, e risalire la collina che prende ora il suo nome nella capitale francese. Per quanto espunto dalla nostra giustizia, l’orrore ritorna continuamente nelle nostre cronache. Si è letto solo pochi giorni fa di una madre che avrebbe ucciso il proprio bambino. L’orrore è cosa ben diversa dal terrore che con gli atti di decapitazione l’Isis vorrebbe provocare nel mondo occidentale, qualcosa di più profondo e radicale. La parola “orrore”, ricorda Adriana Caravero, viene dal verbo latino horreo, di incerta etimologia ma di sicuro significato: indica il rizzarsi dei peli del corpo, il suo tremolio per via dello spavento. Secondo uno studio, a rizzarsi sarebbero i capelli, azione inconsueta ma possibile, che si conserverebbe nel significato della parola italiana “orripilante”. La filosofa nel suo libro “Orrorismo” (Feltrinelli), il cui titolo costituisce un neologismo, sostiene che esiste una “fisica dell’orrore”, collegata a quella dell’agghiacciarsi, reazione fisiologica al freddo, che provoca la cosiddetta “pelle d’oca”. Sono tutti stati del corpo che colpiscono chi è esposto a spettacoli orripilanti. Primo Levi, all’inizio della “Tregua”, descrive la reazione dei giovani soldati russi che raggiungono il Lager dove il deportato si trova nel gennaio del 1945. I russi osservano dall’alto dei loro cavalli lo spettacolo bestiale dei cumuli dei cadaveri abbandonati dai nazisti in fuga. Orrore e insieme ripugnanza, qualcosa di diverso dalla paura, una forma di ribrezzo che in un libro, “Poteri dell’orrore” (Spirali), Julia Kristeva ha definito “ribrezzo”. C’è una figura classica che incarna perfettamente l’orrore di cui si parla: Medusa. La sua visione agghiaccia, paralizza, pietrifica. L’orrore è tale che chiunque ne fissi il viso - gli occhi, lo sguardo, ma anche i capelli a forma di serpenti come l’ha dipinta Caravaggio - viene trasformato in roccia. Quelle che si presentano al nostro sguardo nei film rilasciati nel web dai carnefici dell’Isis sono immagini inguardabili, ripugnanti, che fanno ribrezzo. Lo scopo di questi carnefici non è solo quello di uccidere, bensì d’infierire sul corpo, esattamente come accadeva nei supplizi che precedono le riforme penali prodotte dall’Illuminismo nel diritto occidentale. Si vuole distruggere l’unità del corpo provocando negli spettatori l’orrore. Più questo, ribadisce Caravero, che non il terrore. C’è un’altra figura mitologica che viene spesso evocata proprio per definire l’altro aspetto dell’orrore, cui ci hanno abituato le cronache recenti: Medea. Ripudiata da Giasone a vantaggio della figlia del re di Corinto, Medea uccide i suoi figli per vendetta, come racconta Euripide nella tragedia. Lei, che aveva aiutato il suo uomo a conquistare il Vello d’oro, diventa il modello degli infanticidi a seguire. In una versione del mito citata da Károly Kerényi, Medea taglia a pezzi i corpi delle sue vittime, evocando così la fantasia orripilante dello smembramento. Adriana Cavarero sottolinea come non esista un analogo mito maschile per descrivere l’orrore dell’uccisione dei propri congiunti, e come l’orrore dell’infanticidio sia ascritto alla madre quale segno di una follia estrema. Per riscattare Medea, o almeno cercare di capire l’orrore che la abita, la filosofa ricorda un episodio presente nel libro di W. G. Sebald, “Storia naturale della distruzione” (Adelphi), dedicato ai bombardamenti con cui gli Alleati distrussero le città tedesche nel corso del Secondo conflitto mondiale. Durante una fuga dalle tempeste di fuoco, a una donna si aprì di colpo la valigia che recava. Non conteneva gioielli o oggetti, ma il cadavere di suo figlio. Sebald riporta altri casi in cui le madri recarono con loro nella fuga corpi di bambini soffocati dal fumo o uccisi dai bombardamenti. Nella disperazione, scrive l’autrice, in cui l’orrore le aveva immerse, queste donne cercavano di curare le loro inermi creature oltre la stessa morte. Un modo per salvare i corpi dall’orrore terribile di quella distruzione. Davanti all’orrore delle immagini trasmesse dal web o sui canali televisivi, riportate nelle pagine dei giornali sotto forma di fotografie, a Gaza come in Afghanistan, in Cecenia come in Siria, possiamo decidere legittimamente di distogliere lo sguardo, cambiare canale, girare pagina, per non restare paralizzati, pietrificati da quello che si vede. Per quanto evochino qualcosa di pornografico – piacere morboso insieme all’orrore, com’è stato giustamente detto – non possiamo esimerci dal sapere che queste immagini hanno un valore etico, come ci ha ricordato Susan Sontag in “Davanti al dolore degli altri” (Mondadori). Fanno sorgere domande decisive e ci rendono consapevoli del fatto che esseri umani commettono cose terribili nei confronti di altri esseri umani. Cavarero la chiama “la violenza sull’inerme”, ed è questo il vero orrore che suscitano in noi.

Fatwa e morte. Così uccidono la satira, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Si dice che quando l'uomo con la penna incontra l'uomo con la pistola, l'uomo con la pistola è un uomo morto. Si dice, però. Perché la scia di sangue che ha macchiato libri, pellicole e paginate di giornale fresche d'inchiostro è ben più lunga di quella freschissima lasciata sulle vignette di Charlie Hebdo. Il settimanale che, ironia del destino, nel 2006 aveva deciso di mandare in edicola per solidarietà, insieme a numerosi quotidiani europei, anche italiani, le caricature di Maometto pubblicate l'anno prima sul quotidiano danese Jyllands-Posten e successivamente sul giornale norvegese Magazinet. In uno dei disegni, il profeta dell'Islam era raffigurato con una bomba al posto del turbante (il vignettista Kurt Westergaard da allora vive sotto costante protezione della polizia e solo per miracolo i tentativi di assassinio ai suoi danni non sono riusciti). Alla pubblicazione di quelle immagini, successe il finimondo: dall'Africa, al Medioriente, all'Afghanistan, all'Indonesia esplosero le proteste di piazza. In Nigeria morirono 130 persone negli scontri. A quel punto, il premier norvegese Anders Fogh Rasmussen all'inizio del 2006 raggiunse un accordo con la Lega Araba per la distribuzione di una lettera che era sostanzialmente di scuse e che, pur difendendo il principio della libertà di espressione, stigmatizzava la «demonizzazione» di alcuni gruppi in base all'appartenenza religiosa ed etnica. Il 30 gennaio giunsero le scuse anche del direttore del Jyllands-Posten. L'8 febbraio, una provocazione dell'allora ministro leghista Roberto Calderoli legata alle vignette incriminate, portò ad una violenta protesta in Libia e ad un attacco al consolato italiano di Bengasi, nel quale morirono 11 manifestanti. Ancor prima, il 2 novembre del 2004, c'era stato l'omicidio di Theo van Gogh, il regista olandese di “Submission”, un cortometraggio che aveva fatto scandalo nel mondo islamico per la scelta di scrivere dei versi di una sura del Corano sulla schiena della protagonista. L'assassino, Mohammed Bouyeri, in possesso della doppia cittadinanza olandese e marocchina, intercettò van Gogh nel centro di Amsterdam, esplodendo contro di lui otto colpi di pistola. Gli tagliò anche la gola e gli piantò nella pancia due coltelli, in uno dei quali era conficcato un documento contenente minacce ai governi occidentali, agli ebrei e ad Ayaan Hirsi Ali, deputata di origini somale ed autrice del film insieme a van Gogh. Il film fu ritirato e anche il produttore, Gijs van Vesterlaken, subì gravi minacce. Fino ad allora, l'unica condanna a morte nei confronti di un intellettuale inviso al regime islamico risaliva al 1989 ed era stata spiccata nei confronti dello scrittore britannico di origine indiana Salman Rushdie, all'epoca già una star affermata della narrativa internazionale. Nel suo libro, “I versetti satanici”, aveva fatto allusivamente riferimento alla figura del profeta Maometto. Fu per questo che a febbraio di quell'anno l'ayatollah Khomeini emanò una fatwa nella quale condannava a morte Rushdie, colpevole, a giudizio della massima autorità iraniana, di bestemmia. I killer non riuscirono a trovarlo ma nel 1991, fu accoltellato a morte da uno sconosciuto il traduttore giapponese dell'opera, Hitoshi Igarashi; e nello stesso anno, fu ferito anche il traduttore italiano, Ettore Capriolo, mentre nel 1993 fu la volta dell'editore norvegese del libro. Dopo la morte di Khomeini, la fatwa fu confermata nel 2005 dall'ayatollah Ali Khamenei, ma lo stesso Rushdie ammise che la condanna a morte aveva ormai un valore più retorico che reale. Anche se, nel 2012, lo scrittore fu costretto a rinunciare alla partecipazione al festival internazionale di letteratura di Jaipur, in India. I fanatici della Mecca erano tornati a farsi vivi.

Giannelli: «Non sapremo reagire La nostra società si è assuefatta al peggio», scrive “Luca Rocca su “Il Tempo”. L’uccisione dei giornalisti satirici del Charlie Hebdo, a Parigi, non sorprende Giannelli. Di una cosa il vignettista appare certo: stanno cercando di intimidirci. Ed è anche convinto, inoltre, che l’Occidente sia così assuefatto al peggio, che neanche di fronte a una strage di questa portata sarà in grado di reagire.

Giannelli, tre terroristi imbracciano un kalashnikov e colpiscono al cuore la nostra libertà.

«In questo mondo non mi stupisce più niente. La barbarie del nostro tempo supera qualsiasi immaginazione. Chi mai, fino a pochi anni fa, poteva immaginare che saremmo entrati in un tunnel così buio? Bisognerebbe scavare a fondo alla vicenda, capire le radici di questo odio, da dove proviene».

Nella sua carriera, si è mai imbattuto nell’intolleranza dell’Islam?

«Tanti anni fa, quando collaboravo con Repubblica, io e Forattini fummo convocati da Eugenio Scalfari, il quale ci raccomandò di andarci cauti con le vignette sull’Islam. Ho pensato che avesse ricevuto messaggi allarmanti. Personalmente però non ho mai ricevuto minacce».

Perché colpire la satira?

«L'integralismo islamico è intolleranza all'ennesima potenza, non riguarda solo la satira. Ma è vero che verso lo humor l’Islam ha una chiusura ermetica. Credo, però, che un attacco come quello al Charlie Hebdo rappresenti soprattutto un’intimidazione. Dopo una strage come quella avvenuta in Francia, infatti, anche se inconsciamente, prima di pubblicare un'altra vignetta contro Maometto, ci pensi due volte».

Saremo capaci di reagire?

«Io sono vecchio, ero ottimista e non lo sono più. Ho la sensazione che le reazioni della nostra società siano sempre meno frequenti. Siamo capaci di assuefarci a tutto. Ciò che un tempo ci sarebbe sembrato enorme, adesso ci appare quasi accettabile».

Quello di ieri è l’11 settembre della stampa?

«In un certo qual modo è così, ma non vedremo la stessa reazione vista dopo l’attacco del 2001 alle Torri Gemelle. E sa perché? Perché sono passati più di 10 anni, e lentamente ci siamo abituati a ogni efferatezza».

Krancic: «Per proteggere l’Islam l’Occidente si sta suicidando» , scrive “Il Tempo”. È una tappa del suicidio dell’Occidente. A dirlo, nel giorno in cui gli integralisti islamici assaltano il cuore dell’Europa uccidendo dei disegnatori di satira che la loro «libertà di matita» la indirizzavano anche contro Allah, è uno dei maggiori vignettisti italiani, Alfio Krancic, che si dice sconvolto.

Qual è stato il suo primo pensiero alla notizia della la strage nella redazione del Charlie Hebdo?

«Sono ancora frastornato. Aver colpito un settimanale simbolo della trasgressione satirica, è indicativo del clima di odio che si è scatenato verso le manifestazioni di libertà dell'Occidente».

Lei ha mai realizzato vignette sull'Islam?

«Certo, anche sull’Isis e il “califfo nero” al Baghdadi, prendendo sempre le parti di Assad, Gheddafi, Saddam. Meglio quei regimi arabi laici che salvaguardano le altre religioni e ci proteggono dal fanatismo islamico. Perché quando in quei paesi le dittature cadono, non arriva la democrazia. E lo dimostra anche l'attentato in Francia».

Hai ricevuto minacce per quelle vignette?

«No. In Italia, fortunatamente, la minaccia islamica non ha mai preso di mira la satira, ma qualche giornalista, come Magdi Allam, o qualche politico, come Roberto Calderoli, rei di avere idee non in linea con il pensiero islamico e di manifestarle come desiderano».

Perché la satira sull’Islam provoca morte?

«La colpa è anche del politicamente corretto. Corretto unilateralmente, visto che protegge alcune espressioni religiose, come l'Islam, ma non la nostra religione, il cristianesimo. Una forma sadomasochistica ha pervaso le menti dell'Occidente. Siamo persino arrivati a contemplare il reato di islamofobia. L'Occidente si sta suicidando».

Un massacro come quello di ieri può segnare la fine del multiculturalismo in Europa?

«È molto difficile. Le forze culturali e intellettuali che dominano in Europa sono troppo forti. Impediranno ad alcuni movimenti politici e culturali di prendere il sopravvento sul multiculturalismo. Al contempo, però, la strage inevitabilmente aumenterà l'intolleranza verso gli intolleranti».

Vauro: «Difendo il diritto al gioco della libertà e alla libertà del gioco», scrive Massimiliano Lenzi su “Il Tempo”. «La satira è tale perché da sempre sbeffeggia i potenti ed i prepotenti». Vauro, vignettista e satirico a sinistra da una vita (da Il Manifesto a Servizio Pubblico, su La7) - che trent'anni e passa fa, come racconta a Il Tempo, «ha lavorato pure al Charlie Hebdo» - il giorno dopo l'attentato dei fondamentalisti islamici al giornale satirico francese, è sconvolto ed addolorato. «Sono fuori di me, perché la satira è la libertà assoluta e nessuno deve violentarla. Mai. Perché la satira è da sempre contro tutti i tipi ed ogni forma di fondamentalismi».

Gli chiediamo cosa, secondo lui, toscano che attinge la propria ironia da Cecco Angiolieri in avanti, rappresenti per le nostre libertà ciò che è successo a Parigi.

«Si è colpita un'arte – risponde –, la satira, che è la cosa meno violenta che si possa immaginare perché qualsiasi tema affronti è sempre un gioco. C'è sempre un elemento di gioia e di poesia nell'ironia satirica e l'irruzione di una violenza così assurda e demente incarna un attentato contro la fantasia degli uomini e delle donne. È come se i terroristi assassini avessero fatto irruzione durante l'ora di ricreazione in una scuola, compiendo una strage efferata di bambini, Erodi contro ogni libertà, perché vede, la satira ha sempre una propria componente infantile. E poi devo dirle che che c'è un'altra cosa, ancora, che mi preoccupa...».

Che cosa?

«Quello che mi preoccupa è che sento già parlare di scontri e di guerre di religione. Io – aggiunge – vorrei sperare che la satira non diventi arruolabile da nessuno, mai. Vede, sui social media ieri mi sono arrivati inviti a fare vignette contro Maometto, per dimostrare di avere le palle. Ma io non credo si possa fare satira per dimostrare di avere le palle, perché la forza del ridere deve essere più forte della fine, anche della morte. Quello che voglio ostinatamente difendere, continuare a difendere, è il diritto al gioco della libertà ed alla libertà del gioco. Perché dopo l'attentato vigliacco di Parigi al Charlie Hebdo siamo tutti meno liberi. Ed anche meno felici».

Vincino: «L’Islam non c’entra? Certi soloni vadano a quel paese», scrive ancora Lenzi. «La cosa tragica e divertente, sa quale è? È ascoltare certi Soloni dire che l'Islam non c'entra niente, perché è buono e non c'entra che i killer, uccidendo, hanno gridato di vendicare Maometto, con la frase di rito "Allah akbar": ma andate tutti quanti a quel paese, ipocriti!». Vincino, vignettista de Il Foglio ed anticonformista da una vita intera, non si rassegna all'ecatombe delle libertà che si è consumata ieri nel cuore di Parigi, e alla mollezza di certe reazioni italiane ed occidentali. «Ieri hanno centrato ed ucciso un posto come verità, e non come simbolo. Perché il Charlie Hebdo era il luogo dove è nata la libertà di satira in Europa, ed anche la mia. "Il Male" con i suoi autori nacque anche grazie a loro, tutte la rubriche delle copertine rifiutate ad esempio, una colonna straordinaria con 4 vignette terribili in cui potevi mettere le cose più libere ed inimmaginabili». Poi Vincino si sofferma sulle persone, e spiega che «all'interno di Hebdo trovavi poeti veri, come Georges Wolinski, figlio di un polacco e di un'italiana emigrati in Tunisia, un poeta dell'amore e del sesso. E vedere Wolinski morire durante una riunione di satira mi commuove». Perché Vincino, sulla satira, come spiega al nostro giornale, «ha fatto un festival, a Roma, all'epoca di Nicolini. Wolinski era come tutti i veri umili, semplice e generoso. Ma liberi totalmente. E questo vale per il Charlie Hebdo, che perciò va a cozzare con le religioni. Sempre. Poi, oggi, ci sono le religioni che sono un po' più buone ed altre in alcune parti del mondo, più cattive. Cattivissime. L'Hebdo non ha mai ceduto un centimetro sulla vivisezione delle religioni, sia cattolica che islamica. Avevano capito per primi la questione della libertà poste dalle vignette pubblicate dal giornale danese Jyllands-Posten su Maometto, e seguite da mobilitazione contro nei paesi arabi. Roberto Calderoli, una vignetta se la mise su una maglietta sotto la giacca. Noi, comunque sia, speriamo di non finire mai in una maglietta di Calderoli ma quello che ieri è stato attaccato sono l'illuminismo e la nostra civiltà».

Ecco i nomi delle dodici vittime dell'attacco del 7 gennaio 2015 alla redazione di Charlie Hebdo:

- Stephane Charbonnier, alias Charb, vignettista e direttore;

- Georges Wolinski, vignettista;

- Jean Cabut, alias Cabu, vignettista;

- Bernard Verlhac, alias Tignous, vignettista;

- Philippe Honoré, vignettista;

- Bernard Maris, economista ed editorialista;

- Elsa Cayat, psicologa e giornalista;

- Michel Renaud, ex consigliere del sindaco di Clermont Ferrand;

- Mustapha Ourrad, correttore di bozze;

- Fréderic Boisseau, addetto alla portineria;

- Franck Brinsolaro, poliziotto;

- Ahmed Merabet, poliziotto.

Decapitato l’umorismo francese. Quattro celebri vignettisti tra le vittime: Charb, Cabu, Tignous e Wolinski Sull’ultimo numero la caricatura di un terrorista: «Gli auguri entro gennaio», scrive Antonio Angeli su “Il tempo”. Cinque minuti di puro terrore, un muro di piombo e fuoco: alla fine in terra, senza vita, restano in 12. Parigi e il mondo piangono il più grave e sanguinoso atto di terrorismo degli ultimi anni: sono rimasti uccisi 8 giornalisti, 2 agenti, un ospite della redazione e il portiere dello stabile. Delle vittime alcuni sono celebri: vignettisti, inguaribili umoristi, di quelli che se cerchi di mettergli il bavaglio diventano più tenaci, e gli è costata cara, soni diventati bersaglio di una violenza inaudita; una strage che ricorda quella all’inizio di un vecchio film di spionaggio: «I tre giorni del Condor».

Ucciso il direttore del settimanale satirico parigino «Charlie Hebdo», Stéphane Charbonnier detto «Charb» , celebre disegnatore satirico, classe 1967, in passato già minacciato più volte per le vignette su Maometto, e per questo messo sotto la protezione della polizia. Non gli è servito, non è stato sufficiente. Nel numero uscito proprio la scorsa settimana c’è la sua ultima vignetta, profetica e agghiacciante, ora che si è consumato il massacro. Il titolo dell’illustrazione: «Ancora nessun attentato in Francia», sotto il pupazzetto che raffigura un terrorista islamico, con la barba e il mitra sulle spalle, che dice: «Aspettate! Abbiamo tempo fino alla fine di gennaio per fare gli auguri». Caduti sotto il fuoco dei terroristi i tre più importanti vignettisti della testata: Cabu, Tignous e Georges Wolinski, molto famoso anche in Italia, da anni. Nell’attentato è rimasto ucciso anche l’economista Bernard Maris, azionista della testata parigina.

Jean Cabut meglio noto come Cabu , 76 anni, antimilitarista e di spirito anarchico, ha collaborato con tutte le principali testate francesi come caricaturista e disegnatore di fumetti. Attualmente disegnava sia per «Charlie Hebdo» che per il suo principale concorrente, «Le Canard Enchainé». Per «Pilote», una delle principali riviste francesi di fumetti, aveva creato il personaggio del «Grand Duduche», liceale maldestro. Era il padre del cantante Mano Solo, morto di malattia nel 2010. Charb, 47 anni, disegnatore satirico, collaborava anche con il quotidiano del partito comunista «L’Humanité» e due delle principali riviste francesi di fumetti, «Fluide Glacial» e «L’Echo des Savanes». Sue le strisce, irriverenti e al limite del pornografico, del cane Maurice, bisessuale e anarchico, e Patapon, gatto asessuato e fascista.

Ucciso anche Bernard Verlhac, detto Tignous , 57 anni. I suoi disegni venivano pubblicati da «Charlie Hebdo», «Marianne» e «Fluide Glacial».

E poi c’era il più famoso di tutti, fumettista e vignettista noto, non solo in Francia, ma anche in Europa, per il suo caratteristico taglio caustico nel rappresentare la quotidianità. È Georges Wolinski , con «Charlie Hebdo» collaborava da anni. Nato a Tunisi il 28 giugno del ’34, Wolinski aveva esordito come disegnatore per la rivista «Hara-Kiri», dalla quale era poi passato a «Action», «Paris-Presse», «Hara-Kiri Hebdo», «L’Humanité», e infine «Paris-Match». Attualmente era anche capo redattore di «Charlie Mensuel». Wolinski aveva ottenuto la popolarità con i fatti del maggio del ’68, attraverso la rivista «Action». La sua cifra stilistica era costituita dalla capacità di porre l’accento sui personaggi, dall'ampio uso di doppi sensi, anche sessuali - tanto da farlo conoscere a molti come l'umorista del sesso - e dal taglio caustico nel rappresentare il cinismo quotidiano. Il fumettista era anche noto per avere collaborato, negli anni ’70, con Georges Pichard creando il personaggio di Paulette.

Bernard Maris era invece un professore d’economia allo Iep di Tolosa e attualmente insegnava anche all’Istituto di studi europei dell’università Parigi-VIII. Il 68enne era anche una firma per diversi giornali, come «Le Monde», «Le Figaro Magazine» e «Le Nouvel Observateur». Del settimanale satirico era stato uno dei fondatori, con l’11% delle azioni, e fino al 2008 direttore aggiunto. Era uno dei principali studiosi della globalizzazione «etica e sociale». Un grande intellettuale francese, tra le sue attività, anche la scrittura, con la pubblicazione di diverse opere letterarie.

Non tutte le firme del settimanale satirico sono state messe a tacere. È una carneficina che «ha decapitato» il settimanale, come succede in «Siria e in Iraq»: così ha reagito Bernard «Willem» Holtrop, vignettista di «Charlie Hebdo», scampato all’assalto che ricorda che le vittime «non sono dei colleghi, sono degli amici». E la carneficina del settimanale parigino ha scatenato una silenziosa, gigantesca reazione, a livello mondiale. In Francia tantissime persone sono scese in strada con un cartello: «JeSuisCharlie», «Io sono Charlie», con il chiaro riferimento alla testata. L'ambasciata americana a Parigi ha anche cambiato la sua icona Twitter in #JeSuisCharlie, in segno di sostegno alla Francia. «La libertà di espressione è un diritto umano», ha twittato Amnesty Italia.

Charlie Hebdo, una storia di satira irriverente. La testata è nota per le vignette e illustrazioni, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo, scrive “Il Tempo”. Charlie Hebdo è un settimanale satirico di tradizione libertaria, dal tono irriverente e anticonformista. Il giornale difende le libertà individuali e ha un orientamento di sinistra, fortemente anti religioso. Charlie Hebdo è noto per le vignette e illustrazioni, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo. Anche se prende di mira principalmente i politici di destra, il settimanale non risparmia neanche i partiti di sinistra francesi. Secondo l'attuale direttore, il disegnatore Stéphane Charbonnier, noto come Charb, il giornale riflette "tutte le componenti del pluralismo di sinistra e perfino dell'astensionismo".

Nel 2006 il giornale suscitò polemiche pubblicando una serie di caricature del profeta Maometto, diffuse inizialmente dal quotidiano danese Jyllands-Posten. Nella settimana precedente le illustrazioni avevano suscitato proteste in alcuni Paesi musulmani. Diverse organizzazioni musulmane francesi, tra cui il Consiglio francese del culto musulmano, chiesero di seguito di mettere al bando il numero del settimanale contenente altre caricature di Maometto, ma la richiesta non fu accolta.

Nel 2011 la sede del giornale venne colpita da alcune bombe molotov; l'attacco fu lanciato prima dell'uscita nelle edicole di un numero con in copertina un'altra vignetta satirica con Maometto. Il sito web del settimanale fu invece preso di mira da hacker. La storia di Charlie Hebdo comincia negli anni '60 ed è strettamente legata a quella del mensile Hara-Kiri, lanciato da Georges Berniere e François Cavanna, e definito da loro stessi "un giornale stupido e cattivo".

La rivista fu al centro di diverse polemiche e fu interdetta dalla magistratura nel 1961 e poi nel 1966. Trasformata successivamente in settimanale, a novembre del 1970 la rivista suscitò critiche dopo la morte di Charles de Gaulle, titolando in copertina "Bal tragique à Colombey - un mort", ossia 'Ballo tragico a Colombey, un mortò, con un riferimento alla residenza del generale. Di seguito le pubblicazioni di Hara-Kiri vennero bloccate dal ministero dell'Interno francese, ma i giornalisti aggirarono il divieto lanciando una nuova pubblicazione, Charlie Hebdo, che deve il nome al famoso personaggio del fumetto Peanuts. Il settimanale rimase chiuso tra il 1981 e il 1992 dopo un calo del numero di lettori. Prima di Charb a guidarlo furono François Cavanna e Philippe Val. La rivista è pubblicata ogni mercoledì.

Matite satiriche. Satiriche come le penne di sinistra che alzano le sopracciglia quando si parla di satira di destra.

Charlie Hebdo, parlano Staino, Altan, Vauro e Makkox: «La satira non si fa intimidire». Dopo l'attentato al giornale satirico francese, che ha causato dodici vittime, parlano alcuni dei più celebri fumettisti italiani. Che piangono gli amici scomparsi e dicono: "Questi omicidi devono far crescere la nostra voglia di contrastare l'oscurantismo", scrive Daniele Castellani Perelli su “L’Espresso”. Hanno la voce rotta. Cercano le parole giuste. Promettono che nulla cambierà nel loro lavoro, ma temono che niente sarà più come prima. Alcuni dei più noti vignettisti italiani, da Staino a Altan, da Vauro a Makkox, commentano al telefono con “l'Espresso” la tragedia parigina, l'assalto al giornale satirico “Charlie Hebdo”.

Il dolore più grande è quello di Sergio Staino, che nell'attacco ha perduto un amico, il disegnatore Georges Wolinski. «La mia prima reazione è stata di andare a vedere se tra le vittime ci fosse Georges. Lo reputavo improbabile, visto che non lavora all'interno della redazione. E invece hanno ammazzato anche lui, significa che sapevano che oggi era prevista la riunione», racconta Staino: «Avevo conosciuto Wolinski all'inizio degli anni Ottanta, quando ero andato a visitare la redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi. Poi era stato più volte mio ospite, e aveva anche partecipato a un mio film del 1992, “Non chiamarmi Omar”, con Ornella Muti, ricordo che si era innamorato di Stefania Sandrelli». Staino, storico disegnatore dell'“Unità”, ha fatto vignette su Hamas e l'Islam politico, ma mai sulla religione musulmana in sé. Tuttavia ha sempre difeso il diritto alla libertà di espressione, anche quando, dice, «le vignette erano artisticamente di scarso valore, come quelle su Maometto, una peggiore dell'altra, pubblicate in Danimarca dallo“Jyllands Posten”». La cosa che più lo colpisce è che i terroristi abbiano voluto colpire i più deboli: «Non sono andati a colpire che ne so la Cia, ma dei vignettisti. È come attaccare la Croce Rossa, è una cosa da vigliacchi». E ora? Cambierà qualcosa nel mondo della satira? I vignettisti si autocensureranno? «No, non succederà mai», risponde Staino: «La nostra molla sono la ricerca della verità, lo sberleffo dei fondamentalisti, il dubbio, l'antidogmatismo. Questi omicidi accresceranno la nostra voglia di contrastare l'oscurantismo». 

È d'accordo anche Vauro, storica matita del “Manifesto” prima e di “Servizio pubblico” e “Annozero” poi. «Non credo che reagiremo con quella forma tremenda di censura che è l'autocensura. Noi che viviamo di satira siamo, che piaccia o no, degli istintivi. In noi domina quell'elemento ludico, infantile, anche inopportuno come spesso sono inopportuni i bambini, un elemento che non si fa intimorire dalle minacce di un gruppo di intolleranti». Vauro conosceva Wolinski, e dice di essere rimasto annichilito davanti alla notizia dell'attacco. Lo hanno colpito molto anche certi inviti che gli sono arrivati sui social network, che gli dicevano «Ora disegna Maometto se hai le palle». «Io ho disegnato Maometto, e ho anche “affrescato” i muri dell'ospedale di Emergency a Kabul al tempo dell'oscurantismo talebano. Non mi farò fermare dai fondamentalisti islamici, ma non devo neanche dimostrare niente a nessuno».

Anche Francesco Tullio Altan, storico vignettista di “Espresso” e “Repubblica”, ha perso degli amici oggi. Non nasconde che ora possa diventare più difficile, per un vignettista, ironizzare sull'Islam, ma non crede che l'attacco sia da intendersi contro il mondo della satira: «Come gli attentati alle metropolitane o ai treni, questo non è che un episodio della grande guerra contro la libertà in generale». 

Makkox, infine. Il disegnatore del “Post” e di “Gazebo” ammette di aver sentito crescere in sé una rabbia davanti alla notizia. «Quei nomi, quei colleghi di cui a casa ho i libri...», dice incredulo, per poi confessare il suo tormento interiore: «Oggi cambia tutto. Questo attacco ci radicalizzerà tutti, spingerà tutti noi a essere manichei, è come una chiamata alle armi. Il discorso pubblico verrà sconvolto. Da un lato vorrei dire liberamente che non mi piacciono le vignette contro Maometto o Gesù, che non le trovo efficaci, che il problema sono l'Isis e i preti pedofili e non le religioni, però poi penso subito che un'opinione così non potrò più esprimerla, perché potrei essere accusato di stare dalla parte dei “nemici”. Dall'altra la rabbia che provo mi spinge a prendere posizione, a non tirarmi indietro». La satira si farà più cauta? «Sì farà magari meno cauta, si radicalizzerà, il rischio è che perderemo tutti un po' il senso critico, vincerà l'estremista che è in noi, mentre proprio ora avremmo bisogno di essere razionali». 

Tutti sono consapevoli dei tanti rischi che si aprono. Dice Vauro: «Quello che è successo a Parigi, una vera azione militare, non deve innescare nuove guerre, non dobbiamo inventare nuovi nemici dove non ce ne sono e generare nuovi conflitti armati». Guardando all'Italia, Staino aggiunge: «Il pericolo è ora che nella vicenda inzuppino il pane i fondamentalisti di casa nostra, la destra becera e intollerante. A destra come a sinistra abbiamo bisogno che le persone più illuminate guidino il dibattito, e aiutino la parte migliore del mondo musulmano a farsi sentire».

Vauro Senesi e il "coccodrillo" per Charlie Hebdo: pioggia di insulti sui social. La doppia morale di Vauro Senesi. Va in tv con la maglia "Je suis Charlie", salvo scordarsi le sue feroci critiche alle vignette di "Charb". Su twitter infatti è scoppiata la bufera dopo il coccodrillo in diretta tv del vignettista di Santoro a Sevizio Pubblico dedicato alle vittime del massacro di Charlie Hebdo: "Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo. Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre. Questi mostri li abbiamo creati noi", afferma Vauro da Santoro. Ma dimentica quelle sue parole di qualche tempo fa contro le vignette di Charlie Hebdo: "Questi disegni sono messaggi violenti che provocano reazioni violente". Implacabile la reazione del web: "Vauro sei un paraculo". 

Criticava Charlie, ora lo piange Tutti contro il coccodrillo Vauro. Il vignettista di Santoro indossa la maglietta di solidarietà, ma quando i francesi pubblicarono i disegni anti islam li accusò di provocare "reazioni violente". E il web si scatena: "Che paraculo", scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale”. Sui social, che non sono la rappresentazione del mondo, ma ne incorniciano comunque un pezzo, c'è chi ricorda che le vignette contro i cristiani non hanno mai prodotto vittime, ecco la differenza tra noi e loro: «Bella la vita Vauro, neh!». C'è chi spegne la tv, perché non può sopportare «Vauro, Ruotolo e tutti quei quaquaraquà che ora alzano le matite al cielo, ma fino a ieri invece...». C'è chi non si ricorda, fino l'altro giorno, vignette di Vauro sull'Islam, e chi ricorda invece che Vauro attaccò le vignette danesi anti-Maometto perché, disse, «messaggi violenti provocano reazioni violente». C'è chi ironizza sul fatto che ora «in Italia aspettiamo la risposta di Vauro, che con sprezzo del pericolo farà una vignetta molto aggressiva. Su Berlusconi o Renzi». E chi, esagerando come solo Twitter è capace di esagerare, nel suo micidiale mix di sintesi e cinismo, digrigna la tastiera: «Vauro con la maglietta "Jesuischarlie", lui, amico dei terroristi islamisti...». E in effetti, l'altra sera, in una trasmissione come Servizio Pubblico di Santoro che faticava parecchio, tra distinguo e cautele, tra buonismo e correctness politica, ad avvicinare i termini «terrorismo» e «Islam», faceva impressione (per alcuni pena) vedere Vauro Senesi, in arte Vauro, in pratica un disegnatore con le sue debolezze e i suoi talenti, come tutti noi, indossare a favore di telecamera la t-shirt con la scritta Je suis Charlie . Che, si vedeva, era fuori taglia, e non solo metaforicamente. Perché a Vauro quella maglietta stava strettissima. Piange i colleghi francesi, ma nega che ci sia una guerra in corso. Condanna i terroristi, ma non dice mai «terroristi islamici». Sbuffa: «Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel Medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo», ma dimentica che i passi li ha fatti la civiltà cristiana, in avanti: e infatti per quanto ritenga esecrabili le vignette satiriche contro il Papa, Comunione e liberazione non ha mai organizzato una crociata su Parigi. Un po' troppi «ma», quando ci sono persone uccise a colpi di Ak47 in nome di Allah. Ieri, sul Corriere della sera , in un pezzo nascosto a pagina 15, non richiamato in prima né postato sul sito del quotidiano, Pierluigi Battista ha firmato un pezzo dal titolo «Vauro e gli altri che bocciarono quelle vignette "provocatorie"», smascherando l'ipocrisia di chi, come Vauro appunto o come Ruotolo, oggi piangono gli eroici giornalisti di Charlie Hebdo , ma ieri li consideravano irresponsabili, dei provocatori. E Vauro ha subito risposto su Dagospia invocando, per par condicio, la censura subita per una vecchia vignetta su Berlusconi. Perdendo sia il senso della misura sia quello del ridicolo. «Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre - ha detto - Questi mostri li abbiamo creati noi». La colpa, anche se a sparare sono gli «altri», è sempre nostra. Per il resto, quella che ci stanno disegnando davanti agli occhi, è una vignetta già vista tante volte. Dentro ci sono molte matite perfettamente appuntite nell'offendere il sentimento religioso cristiano, più spuntate nel farlo con i simboli musulmani. Un'unica mina, una doppia morale. E non fa ridere.

Quell'odio a ritmo di rap dove "balla" il deputato Pd. Molti dei jihadisti, tra cui uno di quelli di Parigi, cantavano le rime violente in voga nelle comunità islamiche, Italia inclusa. In un video compare l'onorevole Chauki, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Ormai non si può più. Ora che il video del killer parigino Chérif Kouachi in versione rapper ha fatto il giro del mondo (ma è stato girato nel 2005), è impossibile non riconoscere il fil rouge che collega tanti jihadisti a questa espressione musicale. Dopotutto anche il presunto carnefice dell'ostaggio decapitato James Foley è l'inglese Abdel-Majed Abdel Bary che, prima di sparire, aveva un microscopico seguito londinese come rapper. E pure qui in Italia le rime violente vanno di moda, con varie sfumature. Si va da Amir Issa che nel video Ius Music , (in cui canta «da Palermo a Torino scoppierà un casino»), ha ospitato un deputato Pd di origini marocchine (Khalid Chauki), ai rapper che incitano all'odio mortale come Anas El Abboubi, ora ventenne, arrestato a giugno 2013 per «addestramento finalizzato al terrorismo internazionale» però poi rilasciato dopo pochi giorni: adesso sarebbe ad Aleppo con il nome di Anas Al-Italy e, come si legge sul suo profilo Facebook, di professione «lavora presso la Jihad». Quand'era in Italia, lui di origini marocchine ma arrivato giovanissimo in provincia di Brescia, rappava: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata, tengo il bersaglio sulla Crociata». Hai letto bene. Dopo, dalla Siria ha annunciato, keffiah al collo e kalashnikov in mano, di aver abbracciato la sharia con i ribelli siriani. Certo i toni sono diversi, ma sempre aggressivi. Intollerabilmente. Ci sono rapper ultrafamosi come Busta Rhymes, Ice Cube, Nas, Everlast o Jay Z che hanno inserito nelle proprie rime espliciti e tolleranti riferimenti alla fede musulmana. E uno, non proprio famoso per coerenza come Snoop Dogg, si è convertito all'Islam per tre anni dal 2009 prima di passare al Rastafarianesimo. Rap islamico si può ascoltare pure in rete e scaricare in free download e, per quanto aggressivo e colorito, rimane lontano dall'integralismo. Come quello celebrato quattro anni fa a Lignano Sabbiadoro dai Giovani Musulmani d'Italia con il concorso di «anashid islamiyà», ossia canzoni islamiche in arabo. Un altro conto sono le rime che inneggiano alla lotta armata e mortale. Sono un segno di quanto pericolosamente, e nell'indifferenza pressoché totale di quasi tutta la politica e l'informazione, la Jihad abbia fatto propri gli strumenti di comunicazione tipici del mondo giovanile: il rap è il linguaggio musicale più usato dagli under 30 e i terroristi lo hanno capito. Dopo una prima e lunga fase di totale chiusura a forme musicali (ad esempio l'Afghanistan talebano era un paese orfano di ogni tipo di musica) hanno drammaticamente assorbito i linguaggi giovanili occidentali per piegarli alla propria propaganda assassina. Ad aprile il rapper olandese-libanese Hozny ha pubblicato un video che mostrava la macabra messinscena dell'esecuzione del deputato Geert Wilders. E proprio in quei giorni il tedesco Deso Dogg (vero nome Denis Mamadou Cuspert) è morto combattendo con i ribelli dell'Isis in Siria. Follie totali. Ora, anche in questo caso, il rischio emulazione si dilata. E senza dubbio il rap, stile di protesta nato negli anni '70 per cantare il bisogno dei neri americani di uscire dai «ghetti» metropolitani, offre la metrica adatta e soprattutto l'indice di penetrazione popolare più alto in tutto l'Occidente. Quindi non sarà difficile che in un futuro immediato saltino fuori altri esempi di integralismo rap. Mutatis mutandis , il punk o il metal sono stati passioni fugaci di terroristi in epoche non troppo lontane. Ma il segreto per non trasformare le eccezioni in una regola è non generalizzare. Oltre che un errore, l'equazione rap = terrorismo sarebbe un assist imperdonabile alla peggiore delle propagande.

Terrorismo, provate a mettervi nei panni di un musulmano. Khalid Chaouki, parlamentare del Pd, parla a cuore aperto dei fatti di Parigi e delle colpe dell'Islam, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Khalid Chaouki è nato a Casablanca, in Marocco. Ha 32 anni, è arrivato in Italia da bambino, è cresciuto tra Parma e Reggio Emilia. È tra i fondatori dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia”, della quale è diventato presidente, siede nella consulta per l’islam istituita al ministero dell’Interno, da ultimo è stato eletto alla Camera dei deputati nelle file del Partito Democratico.

Come vive un musulmano quello che sta succedendo a Parigi?

«Con grande tensione, paura e sconcerto. Con la consapevolezza che bisogna tradurre in azione concreta e positiva le sensazioni che affollano la nostra mente».

Proprio in questo momento leggiamo che i terroristi sono rimasti uccisi durante le irruzioni delle forze speciali, ma tra i morti ci sarebbero anche alcuni ostaggi.

«Altri morti innocenti. Spero almeno sia la fine di un incubo, spero che le prossime ore siano di silenzio e raccoglimento».

Torniamo a voi musulmani.

«I fatti di questi giorni impongono una riflessione a tutti noi musulmani, ci dobbiamo guardare dentro, aprire una riflessione e interrogare sul ruolo che vogliamo avere nella società del futuro. Una riflessione che deve essere trasparente, visibile, alla luce del sole».

Cosa c’è dentro il cuore di un musulmano?

«C’è grande dispiacere. C’è angoscia, per l’immagine e l’utilizzo che viene fatto della tua religione. C’è vergogna, nel vedere la tua fede che viene associata alla morte. C’è un dolore profondo, che non viene percepito dall’esterno».

Basta manifestarlo, urlare se serve.

«Infatti, io credo che noi musulmani proprio in queste ore dobbiamo fare un passo avanti, andare oltre e costruire le basi di quello che sarà il modello di convivenza nel futuro».

Trasformare questi eventi tragici in occasione positiva?

«Nella loro tragicità, i fatti di Parigi ci offrono l’opportunità per toglierci di dosso il peso che noi musulmani ci portiamo dietro dall’11 settembre. È arrivato il momento di urlare al mondo la nostra rabbia per il modo in cui viene sottomessa e manipolata la nostra religione».

La moschea in Italia viene considerata come una sorta di Rubicone, la linea che non bisogna attraversare, la bandierina che non bisogna issare sul nostro territorio. Alla luce di quello che sta succedendo in Francia e nel mondo, non pensa che sia una scelta controproducente? Non pensa che sarebbe più facile la prevenzione contro i cosiddetti cani sciolti se ci fossero dei luoghi di aggregazione e preghiera con regole chiare e accettate da tutti? E con possibilità di controllo maggiore da parte delle autorità?

«Sarebbe tutto molto più semplice. Purtroppo l’Italia ha sprecato troppi anni in balia della propaganda, senza ragionare da paese serio. Il diritto al culto va regolamentato, e la moschea può diventare una occasione per isolare chi si nasconde e fa proselitismo dentro gli scantinati».

I fatti a cui assistiamo in diretta televisiva dalla Francia, lei come li giudica, atti di terrorismo o guerra?

«Si tratta di guerra, una guerra asimmetrica che va combattuta con una forte controffensiva culturale da parte di tutti, con il mondo musulmano che deve diventare il nostro principale alleato».

Cosa rimprovera al mondo musulmano?

«Il tentativo di etichettare questi fatti come la deriva violenta di un piccolo gruppo criminale. Non è così. La questione è molto più ampia e ci investe nel profondo. Nel mondo musulmano c’è un problema di reinterpretazione dei testi sacri alla luce della modernità, va sancito in modo solenne il rapporto pacifico con l’Occidente. Ci sono nodi teologici irrisolti che poi portano a gesti criminali».

C’è il pericolo di gesti inconsulti nei confronti delle comunità musulmane?

«Sta già accadendo in Svezia e in Francia, sono state lanciate molotov contro moschee. Serve un senso di unità molto forte, serve lo sforzo di tutti, come sta avvenendo in Francia, con i musulmani che si stanno riversando sulle strade per manifestare sgomento, indignazione e condanna».

Lei è oggetto di insulti sui social network, come li vive, come li sopporta?

«Il mio impegno civile è sempre stato di frontiera, vengo criticato anche da molti islamici che mi accusano di essere troppo moderato».

Non ha paura?

«A volte fa male, a volte fa paura. Ma se accetti una sfera pubblica e ti impegni per un’Italia migliore, allora devi essere preparato a fare i conti con una società impaurita dai fomentatori di odio professionisti».

Cosa le fa più male delle immagini che ci arrivano da Parigi?

«Il senso di impotenza che sta vivendo un grande paese come la Francia. Il totale black-out di una città meravigliosa come Parigi, che adoro e che ho visitato con mia moglie. Le fotografie di una Parigi deserta ci sbattono in faccia il fallimento di tutti noi».

Charlie Hebdo siamo tutti noi. La strage nel giornale parigino è un attacco alla nostra stessa idea di civiltà. Una sfida portata dall’estremismo fondamentalista che l’occidente deve affrontare e vincere. Perché in gioco c’è il nostro modello di convivenza, scrive Gigi Riva su “L’Espresso”. Hanno sparato e ucciso nella sede del giornale satirico francese “Charlie Hebdo” ma è come se lo avessero fatto nelle case di noi tutti. Perché quelle pallottole sono idealmente indirizzate contro uno dei valori su cui si regge la nostra idea di civiltà, progresso, democrazia. È un pilastro fondativo della modernità occidentale il considerare che la satira è, deve essere, libera e nessun potere, fosse anche un potere che fa ascendere la propria fanatica legittimità direttamente da un dio, si può arrogare il diritto di imbrigliarla. “Charlie hebdo” ha avuto il coraggio di ribadirlo, nella sua gloriosa e travagliata storia (irridente anche nei confronti dei regnanti di Francia), davanti alle minacce per i titoli, gli editoriali e le vignette che hanno avuto come bersaglio l’Islam e Maometto (l’ultima, pubblicata sul sito pochi minuti prima dell’assalto, la vedete qua sotto). La vignetta di “Charlie Hebdo” con il califfo che augura: “e soprattutto la salute”Ma l’estremismo fondamentalista non tollera lo sberleffo, mette al bando il sorriso. Vuole pervadere di cupezza censoria e regolare nei dettagli la vita di sudditi da ridurre all’obbedienza. Tutto il contrario di quanto l’Europa e i suoi cittadini hanno deciso per se stessi, almeno dai Lumi in poi, da quando la libertà di espressione è diventata un diritto inalienabile accanto agli altri che definiscono la dignità degli umani. Che l’attacco a queste conquiste, a questo modo di intendere la partecipazione alla vita pubblica, avvenga a Parigi, aggiunge una suggestione simbolica che rende ancor più potente l’atto e chiama a una reazione altrettanto decisa e coesa. La capitale francese è il luogo dove i valori alla base della nostra convivenza hanno trovato la culla. Anche quello dove la laicità si è declinata in quella dottrina dell’assimilazionismo per cui coloro che abitano nel Paese sono perciò “citoyen de la République”, tutti uguali davanti alla legge secolare, con l’opportunità di esercitare il culto che preferiscono a patto che non interferisca coi supremi diritti dello Stato. Un modello di integrazione che ha coinvolto mezzo milioni di ebrei, cinque milioni di musulmani e recentemente entrato in sofferenza anche, e soprattutto, a causa di una crisi economica che ha contrapposto immigrati vecchi e nuovi e francesi delle classi meno agiate. Mai tuttavia, nemmeno nelle rivolte delle banlieue datate 2006, era stato messo in discussione l’ordine dei valori. Anzi: i disperati rivoltosi chiedevano di essere “più francesi”, di avere le stesse chance degli altri “citoyen”. ma ora che il conflitto si è radicalizzato in Medioriente, ora che lo Stato Islamico offre una terra, un credo e un irresistibile richiamo alla violenza nichilista, ecco che alcune frange esportano la guerra in Europa in un furore iconoclasta che ha l’obiettivo di radere al suolo, e a casa nostra, ciò che rende l’occidente un originale e riuscito paradigma di emancipazione. Non siamo ancora a quella catarsi catastrofista che lo scrittore Michel Houellebecq tratteggia nel suo ultimo romanzo “Sottomissione”, ma il livello dello scontro col fanatismo islamista si è alzato con “Charlie Hebdo” e merita che si aprano finalmente gli occhi. Ci si renda conto della realtà emergenziale e si chiami alla comune difesa di un modo di vivere a cui non vogliamo rinunciare, gli stessi fratelli islamici europei non infatuati del Jihad. Per fortuna, la stragrande maggioranza.

1. MOSTRARE O CENSURARE I DISEGNI DI CHARLIE HEBDO: ORA I MEDIA SI DIVIDONO. Enrico Franceschini per “la Repubblica”. Siamo tutti Charlie Hebdo: lo dicono i cartelli della gente nelle strade di tutta Europa, lo affermano i titoli dei giornali di tutto l’Occidente. Ma non tutti i giornali occidentali — pur condannando come barbaro l’attacco di Parigi e difendendo il diritto del settimanale francese di fare satira come vuole su quello che vuole — hanno ripubblicato le vignette messe sotto accusa dagli estremisti islamici. Il mondo dei media si è per il momento diviso fra chi non pubblica nulla o soltanto vignette che non ritraggono Maometto e chi invece ha pubblicato proprio il materiale che ha fatto infuriare gli islamisti, come la famosa copertina di Charlie Hebdo in cui il Profeta ammonisce: «Vi farò dare 100 frustate se non morite dal ridere!» Adesso un appello lanciato da Timothy Garton Ash, docente di relazioni internazionali a Oxford, columnist del Guardian e di Repubblica, autore di saggi di successo, chiede a tutti i giornali d’Europa di pubblicare le vignette più “forti” del settimanale francese come gesto collettivo in difesa della libertà di stampa. Ma le opinioni in materia appaiono contrastanti. In Gran Bretagna nessun quotidiano ha pubblicato le vignette di Charlie Hebdo. «Siamo dei codardi», scrive amaramente un columnist del Times. Viceversa Tony Barber, commentatore del Financial Times, definisce «editorialmente stupida» la scelta del settimanale parigino di provocare consapevolmente l’ira dei musulmani e lo giudica «non il miglior campione di libertà di espressione»: uscito prima sul sito, il suo articolo è stato ritoccato ieri sera, cancellando questi due severi giudizi, che hanno scatenato sdegno sui social network, ma li ha ripristinati nella versione cartacea pubblicata ieri mattina. Non finisce qui. In America il Washington Post afferma: «Non pubblichiamo mai immagini che possono offendere qualunque religione» e il New York Times segue la stessa linea. Ma il quotidiano del Watergate deve incassare le critiche di una delle sue firme di punta, Carl Bernstein, che con Bob Woodword fece esplodere quello scandalo. In Danimarca alcuni giornali hanno pubblicato le vignette e altri no. L’ Huffington Post, il Daily Beast, Slate e altre testate online le hanno pubblicate; la Bbc e la Cnn no. D’altra parte, come denuncia il blog statunitense Gawker, considerato in patria una sorta di “tempio” della controinformazione, il Daily Telegraph britannico e il New York Daily News hanno pensato bene di “pixelare”, quindi rendendole irriconoscibili, le copertine più controverse contro il Profeta e l’Islam. Stephen Pollard, direttore del Jewish Chronicle, un giornale britannico, pone il dilemma in questi termini: «Il mio istinto giornalistico mi dice di pubblicare tutto, ma che diritto ho di rischiare la vita dei miei redattori?».

2. MA PER L’AMERICA I DISEGNI SUL PROFETA MANCANO DI RISPETTO. Paolo Mastrolilli per “La Stampa”. L’attacco terroristico di Parigi sta spaccando i media americani. Non nella condanna dell’attentato, ovviamente unanime, ma nella opportunità di ripubblicare le vignette del periodico Charlie Hebdo, che hanno provocato la furia degli estremisti. I grandi giornali come New York Times, Washington Post, Wall Street Journal e Usa Today hanno scelto di non farlo. La linea usata dai loro direttori è abbastanza simile: non pubblichiamo immagini che sono state pensate con lo scopo dichiarato di offendere la religione e mancarle di rispetto. Descriverle basta, per compiere il servizio di informazione dovuto al lettore. Questa posizione per certi versi si riflette nella prudenza che la stessa Casa Bianca aveva usato nel settembre del 2012, quando la diffusione di un video giudicato offensivo verso Maometto aveva generato proteste in molti Paesi del Medio Oriente. Era seguito poi l’assalto al consolato americano di Bengasi, che però in seguito si è scoperto essere un’operazione premeditata di un gruppo terroristico. Allora il portavoce del presidente Obama, Jay Carney, aveva commentato proprio alcune vignette pubblicate da Charlie Hebdo, dicendo che non metteva in discussione il diritto di stamparle, ma il giudizio della direzione che aveva deciso di farlo. In altre parole, la libertà di espressione andava sempre difesa, ma forse si potevano evitare le provocazioni. Più dura ancora è stata la reazione ieri del gruppo cattolico conservatore Catholic League. Il suo direttore, Bill Donohue, ha detto che «i musulmani hanno il diritto di essere arrabbiati». Naturalmente Donohue non giustifica l’attentato, però aggiunge che «se Stephane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo, fosse stato meno narcisista, oggi sarebbe ancora vivo. Maometto per me non è sacro, ma non mi è mai passato per la testa di insultare deliberatamente i musulmani offendendolo». Questa linea non è stata condivisa da tutti, nelle redazioni dei giornali americani. La pagina degli editoriali del Washington Post, che nella tradizione dei media Usa ha una gestione separata e autonoma dalla direzione, ha pubblicato una vignetta di Charlie Hebdo, e lo stesso ha fatto l’edizione online del Wall Street Journal. Usa Today invece ha optato per mettere le altre vignette che hanno condannato l’attacco di Parigi, mentre diversi giornali hanno stampato foto in cui si vedono i disegni contestati del periodico francese. L’editorialista del New York Times Ross Douthat ha commentato così: «Se qualcuno vuole ammazzarti per una cosa che vuoi dire, significa che quella cosa va detta». Il dibattito dunque è aperto, fra l’opportunità di prendere decisioni editoriali che non siano apertamente mirate a creare guai, e il dovere di evitare sempre la censura e difendere la libertà.

3. PLANTU: “CONTINUEREMO A PRENDERE IN GIRO. CON LE MATITE DENUNCIAMO LE VIOLENZE”. Cesare Martinetti per “la Stampa”. E adesso? «Il faut continuer se moquer», dice Plantu, non dobbiamo smettere di prendere e prendersi in giro con i disegni. Dunque la satira vive, a Parigi, a cominciare dal grande bureau di Jean Plantu, al settimo piano di Le Monde. Il suo studio è una foresta popolata dalle sagome dei suoi personaggi, la sua scrivania un accumulo di bruillon, schizzi, prove, colori. Plantu ci mostra la vignetta che ha appena concluso per il giornale di oggi: una macchia rossa in strada, il tricolore a mezz’asta sulla tour Eiffel, la bandiera di Charlie Hebdo sull’ingresso dell’Eliseo, una Marianna in lacrime, due barbuti che si allontanano con il kalashnikov sulle spalle e il topolino (l’alter ego del disegnatore) che li guarda reggendo un cartello: «gros connards», diciamo grandi bastardi.

Plantu dal 1985 disegna la vignetta sulla prima pagina di Le Monde e dieci anni fa ha creato «Cartoonist for peace». Che fate?

«Cerchiamo ogni giorno di dialogare con disegnatori cristiani, ebrei, musulmani, agnostici, atei e arriviamo talvolta a fare dei ponti con le nostre piccole matite là dove altri con le loro asce scavano fossati».

Nel vostro programma c’è l’impegno ad essere rispettosi dei credenti. Ci riuscite sempre?

«Ci sono mille modi di raccontare le cose, ho passato la notte qui al giornale a ricevere disegni dal medioriente, dal maghreb di tutte le religioni. C’è l’immagine seria e rispettosa e ci può essere quella un po’ folle. E noi vogliamo tentare di essere più forti degli intolleranti, essere impertinenti senza offendere i credenti. Bisogna continuare la battaglia avendo rispetto per il dolore delle persone che vivono in Iraq o in Afghanistan e smettere di dire che la guerra è lontana. No è qui, a casa nostra».

Ma se c’è di mezzo la religione tutto si complica. Come si superano queste divisioni?

«A noi non interessa sapere se Gesù Cristo ha camminato sulle acque o cosa ha fatto Maometto. Quello che ci interessa è: c’è una donna lapidata? Non è un problema di religione ma di diritti umani, e prendiamo matite e pennarelli per denunciare le violenze. E capita che ci riusciamo perché l’arte e la creatività sono sempre più forti dell’intolleranza».

Lei ora si sente un bersaglio?

«Non lo considero un problema. Io lavoro molto con le scuole. Un disegno è qualcosa che ognuno vede, se ne appropria, ci si può esprimere in mille modi, lascio la mia matita a qualcun altro. Oggi siamo con tutto il cuore con Charlie Hebdo e tutti possono firmare questo disegno, la mano è anonima».

A Charlie Hebdo qualcuno aveva passato il segno del rispetto?

«Io penso che gli artisti abbiano tutti i diritti, di disegnare e fare il ritratto di chiunque. Ciò detto siamo nel 2015, e bisogna fare attenzione perché laggiù all’angolo della strada c’è un mascalzone che aspetta soltanto che gli facciamo un regalo per liberare la sue folle armate di kalashnikov e granate. Abbiamo creato l’associazione dieci anni fa per battere l’imbecillità dei farabutti».

I quattro di Charlie erano nell’associazione?

«Solo Tignous».

4. LA LIBERTÀ DEGLI ALTRI. Francesco Merlo per “la Repubblica”. Non ci piacciono le vignette anti islamiche di Charlie Hebdo , anche se abbiamo sempre pensato che fosse suo pieno diritto pubblicarle. Erano coerenti infatti con la natura canzonatoria e provocatoria di quel giornale, con la sua idea di satira vasta e disinteressata, con quell’accanimento derisorio portato alle estreme conseguenze dinanzi al quale, scriveva Italo Calvino «mi faccio piccolo piccolo». «Perché — aggiungeva — supera la soglia del particolare per mettere in questione l’intero genere umano, confinando con una concezione tragica del mondo». E tuttavia non ci piacciono quelle vignette neppure dopo l’enormità dell’atto terroristico e l’immenso dolore per la morte di 12 persone libere e innocenti. Appartengono infatti alla grammatica della blasfemia e non a quella della trasgressione, anche se, sbeffeggiando il profeta Maometto, più che bestemmia in senso stretto quelle caricature erano empietà aggressiva in una città, Parigi, dove tantissime jeunes filles musulmane passeggiano per gli Champs-Élysées con i capelli al vento. A Parigi sono musulmane le studentesse universitarie, le impiegate, le giornaliste, e sono arabi musulmani i grandi chirurghi e i piccoli venditori di frutta, le star del pop e i professori universitari, gli edicolanti e i camerieri dei ristoranti. Tutti laici come i calciatori eredi di Zidane e come il poliziotto finito con un colpo di Kalashnikov dal fanatico terrorista, con un accanimento selvaggio che offende tutti i codici militari e in nome di un Dio killer che svilisce qualsiasi Dio. Di sicuro al Dio macellaio la stragrande maggioranza dei musulmani francesi non crede e non crederà mai. Dunque sono un pretesto le vignette blasfeme. Se Charlie Hebdo non fosse mai esistito i terroristi avrebbero sparato in un bar, in una stazione del metrò o in un aeroporto. Le vignette sono l’alibi dell’attacco e del ricatto all’Occidente, più insidioso per noi, spaventati da una violenza irriducibile dalla quale è difficile difendersi, che per le frustrazioni nazionaliste, etniche e religiose di quella minoranza di profughi ribelli e di barbuti arrabbiati e confusi dalla quale provengono i terroristi in cerca di una scusa per uccidere. Dal punto di vista militare questo nuovo terrorismo diffuso prova a rilanciare, a partire dalla città più civile tollerante e laica d’Europa, il famoso scontro di civiltà. Ma la strage nella sede di un giornale rischia di armare di più i francesi tentati da Marine Le Pen che i francesi musulmani che, per la verità, non sono tentati né dallo Stato Islamico né da Al Qaeda. La bestemmia diventa così uno di quei dispositivi accidentali della storia, come il naso di Cleopatra per esempio. E basta guardare la felicità dei leghisti italiani e le reazioni scomposte dei fanatici delle Leghe Sante. I 12 morti di Parigi sono come un richiamo della foresta per i nostri cristianisti con il Crocifisso tra i denti che papa Francesco aveva messo a cuccia, un ritorno alla natura per l’estrema destra razzista pronta alla difesa di una Francia e di un’Europa bianche e cristiane. La paura sui cui soffiano è quella dall’islamizzazione immaginata nel romanzo Sottomissione da Houellebecq, preso in giro proprio dalla copertina di Charlie Hebdo: «Le predizioni del mago Houellebecq: “Nel 2015 perdo i denti... ” (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e “nel 2022, faccio il Ramadan!”». La verità è che persino la rabbia delle squadracce di banlieue a Parigi, anche se araba e violenta, non è governata dagli integralisti islamici. E in fondo questi terroristi così barbari sono quelli che non ce l’hanno fatta, gli scarti feroci di un’integrazione che è invece riuscita, non solo in Francia. E sono due volte disadattati, sia in Francia sia nelle milizie islamiche dove devono sempre conquistarsi i quarti di nobiltà terrorista sgozzando e massacrando più degli altri. Ieri a caldo una vignetta di Charlie Hebdo mostrava un energumeno tutto bardato di nero incappucciato e sudato che entrava in Paradiso mitragliando e gridando: «dove sono le mie vergini?». Riceveva questa risposta al tempo stesso canzonatoria e malinconica: «Sono nel paradiso dei vignettisti ». Disadattato anche là. È già stato scritto che Charlie Hebdo aveva deriso, e certamente avrebbe continuato a farlo, anche i simboli delle altre religioni. E ricordo bene le natiche del Papa, il matrimonio omosessuale tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e la masculinità di Shiva, senza risparmiare neppure Buddha, un dio “parzialmente scremato”. Si rideva forte e facile con Charlie Hebdo, perché la scurrilità di Maometto, raffigurato prono con le stelline sulle terga, quando ti arriva sotto gli occhi, è più veloce del pensiero. E certo è ancora libertà d’espressione la violazione dei codici del rispetto delle religioni. Ma non avere stampato le bestemmie è stato il nostro codice di libertà di espressione, coniugata, ancora di più adesso che siamo tutti sotto choc, con il controllo degli istinti. La laicità e la secolarizzazione comportano infatti anche un governo dell’invocazione e dell’imprecazione: della preghiera, che non è un selvaggio rito collettivo, e della bestemmia, soprattutto del Dio altrui. Ma viviamo in una parte del mondo — ecco la differenza — dove la libertà è la cosa più importante. Non conta che gli altri la pensino come me: ma che siano liberi di pensare e di esprimere le loro idee con il solo limite del rispetto delle leggi. Ecco perché difendiamo la libertà di Charlie di esprimersi secondo la sua natura e le sue modalità, le sue libere scelte, anche quando non sono le nostre. Facciamo sapere a tutti gli estremisti religiosi del mondo che mai rinunzieremo alla critica e alla satira, anche delle religioni, e non accetteremo un ritorno all’inquisizione e alla punizione fisica delle bestemmie, al medioevo islamico. Anche se non diventeremo mai, come vorrebbero gli estremisti islamofobi, tutti sbeffeggiatori di Maometto.

Terrorismo islamico a Parigi: massacro al giornale Charlie Hebdo. Due terroristi fanno irruzione nella redazione di Charlie Hebdo armati di kalashnikov, poi fuggono a Reims. Tra i dodici morti c'è il direttore Charb. Un poliziotto giustiziato per strada, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Armati di kalashnikov due terroristi hanno assaltato la redazione di Charlie Hebdo. Cinque minuti di sangue e quello che è l'attentato più cruento commesso in Francia dal 1961, ai tempi della guerra di Algeria, fa ripiombare Parigi e l'intera Europa nell'incubo del fondamentalismo islamico. Al grido di "Vendicheremo il Profeta" due uomini incappucciati e vestiti di nero hanno fatto irruzione nella reception del settimanale satirico e hanno aperto il fuoco. A terra i cadaveri crivellati di colpi di dodici persone. Tra questi il direttore Stephane Charbonnier, che firma le vignette Charb, e altri sette giornalisti. Una raffica di colpi, almeno una trentina, con i mortali AK47. Dodici morti a terra e i giornalisti in fuga sui tetti. Un assalto che porta la firma della jihad islamica. La colpa di Charb e dei disegnatori di Charlie Hebdo? Aver pubblicato vignette satiriche su Maometto. Già nel 2011 la redazione fu distrutta da una molotov. L’attentato, che non provocò vittime, avvenne nel giorno dell'uscita del numero speciale dedicato alla vittoria elettorale degli islamisti in Tunisia. Il titolo "Maometto direttore responsabile di Charia Hebdo" era un gioco di parole sulla sharia. Anche nell'ultimo numero non è mancata la provocazione: in copertina campeggia una foto dello scrittore Michel Houellebecq, al centro di polemiche per il romanzo Sottomissione che racconta l’arrivo al potere in Francia di un presidente islamico. A fare irruzione è stato un commando armato formato da Said e Cherif Kouachi, due fratelli franco-algerini di 32 e 34 anni legati alla rete terrorista yemenita e da poco tornati dalla Siria. Oltre a Charb i due hanno ammazzato otto giornalisti (tra questi Jean Cabut detto Cabu, Tignous, Georges Wolinski, Bernard Maris e Philippe Honoré), il poliziotto Franck D., un ospite della redazione (Michel Renaud) e il portinaio. Tra gli undici feriti c'è il giornalista Philippe Lançon. Dopo il blitz sono scappati a bordo di una Seat guidata dal 18enne Hamyd Mourad. Durante la fuga hanno investito un passante e hanno ingaggiato un secondo scontro a fuoco con le forze di polizia. Immagini di violenza inaudita che sono state riprese dai tetti: l'agente Ahmed Merabet è stato giustiziato con un colpo alla testa mentre si trovava, inerme, ferito a terra. Solo dopo diverse ore le teste di cuoio dei reparti Raid sono riuscite a localizzarli a Reims. Il presidente francese Francois Hollande ha parlato di "attentato terroristico di eccezionale barbarie, un attentato alla nostra libertà". Un attentato che arriva a stretto giro da altri tre inquietanti attacchi al grido "Allah hu Akbar". Il 22 dicembre a Nantes, nella Francia nord occidentale, un camion è stato lanciato sul tradizionale mercatino natalizio ferendo undici persone. Nemmeno ventiquattr'ore prima a Digione, nel nord est del Paese, un 40enne alla guida di una Renault Clio aveva travolto la folla mandando all'ospedale 13 persone. Sempre al grido di "Allah hu Akbar". Vicende troppo simili e troppo vicine per non metterle in relazione tra loro. A queste va poi aggiunta una terza, quella di Jouè-lès-Tours dove un convertito all'Islam è entrato nel commissariato cittadino e ha aggredito tre poliziotti. Una scia di sangue nel nome di Allah.

Dal direttore Charb al mitico Wolinski, la strage della satira nella redazione di Charlie Hebdo. Tra le dodici vittime dell'assalto anche cinque celebri vignettisti: il direttore, il vecchio e storico creatore di "Paulette", Cabu, Tignous e Honoré, scrive Francesco Fasiolo su “La Repubblica”. Un giornale satirico simbolo della libertà di stampa e di espressione. Questo è diventato Charlie Hebdo nel corso degli anni. E per questo è tragicamente divenuto anche l'obiettivo simbolo del terrorismo. Dieci collaboratori uccisi in redazione, tra loro alcuni dei grandi vignettisti famosi ben oltre i confini francesi. Una storia cominciata nel 1960, quando nacque Hara-Kiri, definito dai suoi fondatori (tra cui Cabu e Georges Wolinski, tra le vittime dell'attentato) "un giornale stupido e cattivo", da subito protagonista di innumerevoli battaglie e censurato un paio di volte dalla magistratura francese. E' nel 1970 che lo stesso gruppo, dopo l'ennesimo scandalo (una copertina che ironizzava sulla morte di Charles De Gaulle e che costò al giornale il blocco delle pubblicazioni) diede vita al "Charlie Hebdo", riferimento al celebre Charlie Brown dei Peanuts. Da allora sono stati attacchi, sarcasmo e ironie contro la destra, ma anche la gauche, su tutti i fronti e tutti i temi.

Vignette su Maometto. È però nel 2006 che l'Hebdo diventa noto al pubblico internazionale con la scelta di ripubblicare le dodici controverse vignette su Maometto del giornale danese Jyllands-Posten. Immediate arrivarono le proteste di esponenti del mondo islamico, il giornale fu incriminato per razzismo e l'allora direttore Philippe Val fu assolto nel 2008 da un tribunale francese. Nel novembre 2011 esce "Charia Hebdo", il numero speciale dedicato alla vittoria degli islamisti in Tunisia. In copertina una immagine di Maometto che promette "Cento frustate se non morite dal ridere". Prima che l'edizione arrivasse nelle edicole, la sede della rivista viene distrutta da un incendio provocato da un lancio di molotov. Il numero vende 400.000 copie, il direttore Charb viene minacciato di morte e messo sotto protezione.

Le vittime. Charb era il nome d'arte di Stéphane Charbonnier, 47 anni, alla guida del settimanale dal maggio 2009. Insieme a lui, nell'attentato sono morti anche altri quattro vignettisti: Cabu, Tignous, Philippe Honoré e Georges Wolinski. E' proprio quest'ultimo il nome più noto anche fuori dalla Francia. Controcorrente e provocatorio Wolinski, nato a Tunisi nel 1934, lo è sempre stato. Gli italiani lo hanno conosciuto sin dagli anni 70, quando leggevano su Linus le sue storie dissacranti. Disegnatore e sceneggiatore, con Georges Pichard crea il personaggio di Paulette, inizialmente su Charlie Mensuel e poi protagonista di pubblicazioni autonome. La protagonista è una giovane ricchissima, che ha almeno due particolarità: è di sinistra e appare spesso, in pratica sempre, nuda o seminuda. Le sue storie sono sempre in bilico tra l'erotico e il politico, perché la ragazza, in opposizione con la sua vantaggiosa situazione economica e sociale, è pienamente calata nel clima degli anni '70, tra lotte studentesche, manifestazioni contro la guerra in Vietnam, suggestioni hippy. Se in passato Wolinski è stato al centro di polemiche, accusato di immoralità o pornografia per le nudità e le tematiche trattate (tra i suoi libri "Il porcone maschilista" e "Le donne pensano solo a quello") , a 80 anni era uno dei nomi più importanti del fumetto mondiale. Una fama che gli è stata riconosciuta nel 2005, con la vittoria del Grand Prix di Angouleme, in pratica l'equivalente nel mondo dei comics dell'Oscar alla carriera, e con una grande retrospettiva del 2012 alla Bibliotheque Nationale de France, dove sono custoditi tutti i suoi archivi.  Cabu, vero nome Jean Cabut, 76 anni, era uno dei pilastri di Charlie Hebdo, sin dalla fondazione di Hara-Kiri. Il suo nome era rimbalzato sui media di tutto il mondo quando nel febbraio 2006, in piena polemica per le vignette danesi su Maometto, disegnò in copertina il Profeta che insultava i fondamentalisti. Tra i suoi lavori, molto famoso in Francia è "Mon Beauf", serie su un francese medio, razzista e maschilista. Bernard Verlhac era invece il vero nome di Tignous, 57 anni, che lavorava anche per Fluide glacial, storicamente uno dei più importanti magazine francesi di fumetti. Al suo attivo otto libri. Il più recente, intitolato "5 ans sous Sarkozy" (Cinque anni sotto Sarkozy) è stato pubblicato nel 2011. Fa venire i brividi oggi l'ultima vignetta di Charb, pubblicata sull'ultimo numero di Charlie Hebdo, mostrava un terrorista islamico sotto la scritta: "Ancora nessun attentato in Francia". "Aspettate" diceva l'uomo armato "Abbiamo ancora tutto gennaio per farvi i nostri auguri".

Il dissacrante Charlie Hebdo, nato alla sinistra della sinistra, scrive Anna Maria Merlo su “Il Manifesto”. Il settimanale. Da sempre indipendenti, dagli industriali e dalla pubblicità. Vignette e reportage corrosivi. Non solo contro l’islam: il primo bersaglio sono state la chiesa cattolica e l’estrema destra. Cabu e Wolinski, che sono stati assassinati ieri assieme al più giovane Charb, nell’attentato che ha fatto 12 vittime nella redazione del settimanale Charlie Hebdo, sono stati protagonisti fin dagli anni ’60 dell’avventura, iniziata con Hara-Kiri, della stampa satirica libertaria francese della seconda metà del XX secolo. All’inizio, c’erano personalità come Topor, Reiser, lo scrittore François Cavanna, che hanno l’idea di pubblicare la versione francese di Linus italiano. Nel ’70, dopo varie censure di cui è vittima Hara-Kiri – l’ultima, a novembre, dopo la morte di De Gaulle, per un titolo dissacrante – il gruppo fonda Charlie Hebdo (dal nome di un personaggio di Schultz e con un riferimento ironico a Charles De Gaulle). Della prima versione di Charlie Hebdo usciranno, fino all’81, 580 numeri. Un altro numero uscirà nell’82. Nel ’92, la testata rinasce. Fa effetto oggi, di fronte agli avvenimenti, ricordare che la società costi­uita allora per il rilancio si chiamava Les Etitions Kalachnikof. Nel ’92 partecipa già Charb, che dal 2009 era diret­ore della pubblicazione. Charlie Hebdo ha radici nella sini­tra della sinistra, ma non ha mai avuto una linea editoriale precisa. La sua storia è fatta di battaglie, di scontri, di abbandoni, di ostracismi, di ritorni. E di molte polemiche, anche interne alla redazione: nel 2002, un articolo a difesa del libro La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci, viene subito criticato. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 ci sono prese di posizione conflittuali contro una parte dell’estrema sinistra, accusata di non aver condannato gli islamisti per antiamericanismo. Philippe Val, che all’inizio degli anni 2000 diventa direttore della pubblicazione, accusa Tariq Ramadan di essere un propagandista antisemita. Val nel 2005 difende il «sì» al referendum sul Trattato costituzionale europeo, altri difendono il «no» – che sarà vitto­rioso – sulle pagine del settimanale. Charlie Hebdo non si limita alla satira, ma pubblica anche reportage sulla società e sulle grandi questioni dell’attualità mondiale (in particolare, alla fine degli anni ’70, importanti inchieste sull’estrema destra). Oncle Bernard (l’economista Bernard Maris, assassinato anch’egli ieri) ha firmato cronache economiche sempre di grande interesse. La caratteristica di Charlie Hebdo, con le sue vignette corrosive che molto spesso hanno disturbato, è sempre stata l’indipendenza, dalle ideologie come dal denaro. «Non vogliamo ricchi industriali come azionisti – aveva detto Charb nel 2010 – e non vogliamo neppure dipendere dalla pubblicità. Non prendiamo quindi gli aiuti di Stato che vanno ai giornali cosiddetti “di deboli introiti pubblicitari”, visto che non abbiamo pubblicità. L’indipendenza, l’indipendenza totale, ha un prezzo». Charlie Hebdo ha sempre lottato contro tutti i fanatismi. Il primo bersaglio è stata la chiesa cattolica, in quanto religione maggioritaria in Francia. Le vignette sono state sempre corrosive, a volte anche con una certa pesantezza. Il settimanale molte volte è stato denunciato, dai politici, dai cattolici, di recente dai musulmani. Charb ha sempre precisato: la critica è sull’«alienazione delle fede», qualunque essa sia. Nel 2006, Charlie Hebdo pubblica le caricature di Maometto del giornale danese Jyllands Posten, arricchite da altre vignette firmate dai disegnatori del settimanale. Il Consiglio francese del culto musulmano chiede la censura del numero e sporge denuncia. L’allora presidente, Jacques Chirac, condanna le «provocazioni manifeste». Ne seguirà un processo nel 2007, dove ha testimoniato, a favore della libertà di stampa, anche François Hollande, non ancora presidente. La storia delle caricature di Maometto, che sembra all’origine del massacro di ieri, era già stata la causa di un incendio criminale di cui era stata vittima la sede di Charlie Hebdo nel novembre 2011. La redazione, allora, era stata ospitata per due mesi da Libération. Altre caricature di Maometto susciteranno polemiche e denunce nel 2012. La copertina in edicola di Charlie Hebdo questa settimana prende in giro lo scrittore Michel Houellebecq, di cui ieri è uscito l’ultimo libro, Soumission, che racconta dell’elezione di un islamista alla presidenza della Repubblica francese nel 2022.

L'attentato che spazza via le certezze della sinistra. L'attentato terroristico di Parigi è riuscito là dove le innumerevoli stragi dei cristiani hanno fallito: ha risvegliato la coscienza della sinistra italiana ed europea contro l'Islam. Tutto, compreso quello moderato, scrive Roberto Bettinelli su “L’Informatore”. Il massacro nella redazione del giornale satirico Charles Hebdo è riuscito là dove le innumerevoli stragi dei cristiani in tutto il mondo hanno fallito: ha risvegliato l’ottusa coscienza della sinistra italiana ed europea contro l'Islam. Michele Serra su Repubblica ha evocato «la terza guerra mondiale» sentenziando che «esiste un fanatismo islamista terrificante contro il quale l’Islam per primo è chiamato a mobilitarsi». Fino ad ora nessuno mai nel campo della sinistra, e men che meno un esponente illustre della sua intellighenzia come l’ex direttore di Cuore, si era spinto fino a pronunciare una condanna che per la prima volta varca il confine fra l’Islam moderato e l’Islam dei terroristi. Serra l’ha fatto, e nel farlo, ha sicuramente interpretato lo stato d’animo di gran parte del popolo della sinistra che è stato scosso in profondità e con una forza mai provata in precedenza dalla ferocia di un fondamentalismo che ha preso di mira un valore intoccabile come la libertà di stampa e di satira. Una reazione inedita che rivela come per la cultura politica che anima Repubblica esista una gerarchia delle libertà. E fra queste la libertà di stampa e di satira, uno dei generi prediletti dalla sinistra, siano da collocare su un gradino più alto della libertà di religione. La prova che non ci sbagliamo è che in questa occasione Serra e il giornale più letto e autorevole della sinistra italiana hanno preso posizione contro tutto l'Islam, anche quello moderato, rompendo con la lettura ideologica che li separa nettamente e che non è disposta a tollerare nessuna sovrapposizione. E sono stati costretti a farlo da una macabra beffa che cade tragicamente a poche settimane dalla risoluzione del parlamento europeo che ha riconosciuto, per iniziativa del Pse, il diritto alla Palestina di costituire uno stato autonomo. Un'azione diplomatica che sembrava assicurare la pace ma che ha contribuito a innescare la risposta dei terroristi che hanno attaccato il giornale diretto da Stephan Charbonnier, colpevole di aver ripetutamente pubblicato vignette e fumetti contro Maometto e Al Baghdadi, il leader dell’Isis. Lo scenario non poteva essere più chiaro. Da un lato l'Europa che, sulla spinta di un’adesione incondizionata e irresponsabile al dogma del multiculturalismo, riconosce il diritto palestinese di formare un proprio stato nonostante la massiccia presenza di formazioni legate ad Al Quaeda nella striscia di Gaza e in Cisgiordania; dall’altro il terrorismo islamico che colpisce a morte una delle capitali più importanti dell’Unione Europea, uccide 12 persone tra giornalisti e poliziotti, getta nell’incubo perenne degli attentati l’intero occidente. Adesso che i ‘lupi solitari’ hanno travolto con la loro furia omicida un simbolo della libertà di stampa e di satira come Charles Hebdo, la sinistra insorge e attacca l’Islam, tutto, che dovrebbe ribellarsi e comportarsi «come fece la sinistra con le Brigate Rosse». Così suggerisce Serra stabilendo un parallelo fra quello che avrebbe fatto il Pci negli anni di piombo e quello che dovrebbero fare oggi i mussulmani che non si riconoscono nella brutalità di Al Quaeda e dell’Isis. Il consiglio di Serra è apprezzabile, ma ha l’odore fastidioso dell’ipocrisia. A sconfiggere le Brigate Rosse non fu il Pci ma furono i carabinieri del generale Alberto Dalla Chiesa. L’Italia divenne il teatro di uno scontro spietato. Vinse lo Stato. E per un solo motivo: fra i due contendenti fu il più duro e implacabile. Lo stesso deve valere per i terroristi che ammazzano e muoiono nel nome di Allah. Ci saranno altri attentati e altri morti. L’alleanza dell’Islam moderato può essere utile ai fini della vittoria finale. Ma non può bastare. L’Europa e l’occidente, se non vogliono soccombere, non hanno altra scelta che porre fine alle illusioni di un multicuralismo che è l'esatto contrario del rispetto delle identità dei popoli. Ma soprattutto devono accettare di avere di fronte un nemico che vuole la loro fine con tutti i mezzi disponibili. E fare altrettanto. 

Charlie Hebdo, quella satira “cattiva” che disturbava i perbenisti. Il giornale francese è stato bersaglio di polemica da parte degli esponenti musulmani per le sue vignette su Maometto. Venne più volte chiuso e poi riaperto, scrive Cesare Martinetti su “La Stampa”. Un simbolo del giornalismo francese, un giornale nato e cresciuto negli anni 70, che si autodefiniva con ironia “bete e méchant”, bestiale e cattivo, iconoclasta, un giornale che disturbava l’opinione pubblica perbenista, capace anche di ironizzare su Charles De Gaulle il giorno della sua morte e che per questo chiuso per un po’. Nato dalle ceneri di Hara-Kiri, lanciato da Georges Bernier e François Cavanna, Charlie Hebdo è un giornale a fumetti satirico che ha fatto della provocazione la sua cifra costituente. “Journal bete et méchant”, secondo l’autodefinizione degli autori. Vi hanno lavorato negli anni caricaturisti come Francis Blanche, Topor, Fred, Reiser, Wolinski, Gébé, Cabu. Più volte chiuso e poi riaperto in seguito a denunce e a crisi editoriali. Il nome Charlie viene scelto nel 1969 quando il giornale appare sostanzialmente come versione francese dell’italiano Linus e come quest’ultimo prendi il nome da un personaggio dei Peanuts (Charlie Brown). Nel 1992 assume l’attuale identità. Il giornale è sostanzialmente espressione di una sinistra culturale. Tuttavia vi si trovano le opinioni e le posizioni più diverse e anche contrapposte. Nel 2002 aveva preso posizione a favore di Oriana Fallaci quando venne pubblicata in Francia “La rabbia e l’orgoglio”, il suo pamphlet contro i cedimenti occidentali all’islamismo. Nel 2006 CB pubblicò le famose vignette di satira su Maometto e i costumi musulmani che erano uscite sul settimanale danese Jyllands-Posten provocando manifestazioni violente di protesta in tutto il mondo islamico. Disegnatori e giornalisti danesi vennero minacciati ripetutamente. Charlie Hebdo scelse di pubblicare quelle vignette aggiungendone altre francesi per solidarietà e per marcare una linea di libertà di espressione contro tutte le intolleranze religiose. La pubblicazione provocò proteste nella comunità musulmana francese, il Consiglio del culto musulmano chiese che il giornale venisse sequestrato, lo stesso presidente della Repubblica Jacques Chirac censurò la scelta di Charlie Hebdo. Da allora il giornale – che pure tratta con articoli e vignette tutti i temi di società - è stato bersaglio di polemica da parte degli esponenti musulmani. Da allora un presidio di polizia era stato istituito davanti alla sede del giornale.

Charlie Hebdo, la storia della rivista già colpita per le vignette su Maometto. Il settimanale ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. Pubblicato la prima volta nel 1970, scatena subito polemiche all'indomani dei funerali del generale Charles de Gaulle. Nel 2011 la sede viene incendiata, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Satirico, irriverente e anticonformista. E’ questo lo spirito di Charlie Hebdo, il settimanale francese che questa mattina è stato preso di mira da un commando di terroristi armati che hanno compiuto una strage nella sede parigina. Il giornale ha un orientamento libertario, di sinistra e fortemente anti-religioso. E si pone l’obiettivo di difendere le libertà individuali. La rivista è soprattutto nota per le sue vignette e illustrazioni politicamente scorrette, ma anche per gli articoli incentrati su politica, cultura, estrema destra, cattolicesimo, islam e giudaismo. E anche se prende di mira principalmente i politici di destra, il settimanale non risparmia i partiti di sinistra francesi. Secondo l’attuale direttore, il disegnatore Stéphane Charbonnier, noto come Charb, il giornale riflette “tutte le componenti del pluralismo di sinistra e perfino dell’astensionismo”. Nel 2006 il giornale suscitò polemiche pubblicando una serie di caricature del profeta Maometto, diffuse inizialmente dal quotidiano danese Jyllands-Posten e vendendo 400.000 copie. In Italia le vignette vennero riprese dal ministro delle Riforme Roberto Calderoli che in un’intervista televisiva indossò una maglietta con le illustrazioni, un episodio che scatenò forti reazioni popolari nel mondo arabo, culminate con alcuni morti in Libia. Il numero di Charlie Hedbo incendiò proteste violente nei Paesi mussulmani. Diverse organizzazioni musulmane francesi, tra cui il Consiglio francese del culto musulmano, chiesero di seguito di mettere al bando il numero del settimanale contenente altre caricature di Maometto, ma la richiesta non fu accolta. A fine 2011, la redazione venne completamente distrutta da un incendio doloso e il sito del giornale venne attaccato dagli hacker dopo un numero speciale denominato Sharia Hebdo. Attacchi di matrice islamica, secondo gli inquirenti. Temporaneamente, la redazione si trasferì nei locali del quotidiano Liberation, per poi migrare in nuovi locali; l’attacco fu lanciato prima dell’uscita nelle edicole di un numero con in copertina un’altra vignetta satirica con Maometto. La storia di Charlie Hebdo comincia negli anni ’60 ed è strettamente legata a quella del mensile Hara-Kiri, lanciato da Georges Berniere e François Cavanna, e definito da loro stessi “un giornale stupido e cattivo”. La rivista fu al centro di diverse polemiche e fu interdetta dalla magistratura nel 1961 e poi nel 1966. Trasformata successivamente in settimanale, uscì in edicola per la prima volta nel 1970, ispirato a Charlie Brown. A novembre dello stesso anno la rivista suscitò critiche dopo la morte di Charles de Gaulle, titolando in copertina ‘Bal tragique à Colombey – un mort’, ossia ‘Ballo tragico a Colombey, un morto’, con un riferimento alla residenza del generale. Di seguito le pubblicazioni di Hara-Kiri vennero bloccate dal ministero dell’Interno francese, ma i giornalisti aggirarono il divieto lanciando una nuova pubblicazione, Charlie Hebdo, che deve il nome al famoso personaggio del fumetto Peanuts. Il settimanale rimase chiuso tra il 1981 e il 1992 dopo un calo del numero di lettori. Prima di Charb a guidarlo furono François Cavanna e Philippe Val. La rivista è pubblicata ogni mercoledì, ha una tiratura media settimanale di 100.000 copie, con 15.000 abbonati.

Giuliano Ferrara alza i toni l’8 gennaio 2015 durante «Servizio Pubblico» su La7. Il direttore de Il Foglio ritiene che la strage di Parigi non sia "terrorismo" ma che faccia parte di un'ampia strategia voluta dal mondo islamico per «andare contro l'Occidente cristiano-giudaico». «Questa è una Guerra Santa, se non lo capite siete dei coglioni!», tuona Ferrara.

Vietato parlare di Islam, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Dopo la strage di Parigi esiste ancora la libertà di stampa? Si può ancora pubblicare oppure no un’opinione anche quando questa è politicamente scorretta? Ieri tutti i quotidiani traboccavano di articoli di fondo inneggianti alla libertà minacciata dall’assassinio a sangue freddo del direttore e dei principali collaboratori di Charlie Hebdo. E però gli stessi quotidiani si guardavano bene dal prendere di petto la questione, preferendo nascondere se non cancellare la parola islam. Sulla prima pagina del Corriere per trovarla ci si doveva sottoporre a una vera caccia al tesoro. Il titolo a tutta pagina non parlava di strage islamica o di terrorismo islamico, ma di «Attacco alla libertà. Di tutti». Ah sì? E da parte di chi? Per scoprirlo bisognava leggere il sommario su una colonna: «Al grido di “Allah è grande” tre terroristi assaltano il giornale delle vignette satiriche su Maometto: 12 vittime». Per capire poi che l’islam c’entra qualcosa, l’occhio doveva cascare sull’occhiello sfumato (una colonna) che sovrastava l’editoriale di Ernesto Galli Della Loggia: «Islam, la vera questione». Ecco, la notizia era lì, nell’occhiello. Solo allora si scopriva che l’islam c’entra qualcosa in quello che è accaduto a Parigi, perché Galli della Loggia scriveva che esiste un problema islam, «un insieme di religione, di cultura e storia, riguardante in totale circa un miliardo e mezzo di esseri umani dove nel complesso (nel complesso perché vi sono anche le eccezioni e sarebbe da stupidi ignorarle) vigono regole diverse e perlopiù incompatibili con quelle che vigono in quasi tutte le parti del mondo». Questo è il punto. Ma il Corriere ha pensato bene di nasconderlo il più possibile, titolando sull’11 settembre dell’Europa, di cui peraltro nell’articolo non si fa nemmeno cenno e che comunque sarebbe sbagliato perché l’Europa ha già avuto i suoi 11 settembre con le bombe nel metrò di Londra (52 morti) e sui treni alla stazione di Madrid (191 morti). 

Vietato illudersi: l'islam è il nemico, continua Belpietro. "È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità". Sono passati dieci anni da quando Oriana Fallaci scrisse queste frasi sulla prima pagina del Corriere. La più conosciuta e stimata giornalista italiana era appena stata denunciata per vilipendio all’Islam, perché nei suoi libri e nei suoi articoli si era permessa di metterci in guardia contro il Mostro, così lo chiamava, e di mettere in dubbio la fandonia dell’Islam buono contro quello cattivo. Oriana si opponeva alla nascita della moschea di Colle val d’Elsa, sosteneva che il mondo occidentale era in guerra e doveva battersi, attaccava il multiculturalismo, la teoria dell’accoglienza indiscriminata, la dottrina cattolica che insegna ad amare il nemico tuo come te stesso. E per questo, per quel che scriveva, fu considerata pazza dall’intellighezia progressista mondiale, quasi che l’integralista fosse lei, lei armata di penna e taccuino e non gli islamici armati di esplosivi, coltelli e kalashnikov che noi abbiamo invitato nelle nostre case e nelle nostre città, consentendo loro - in virtù della libera circolazione imposta dal trattato di Schengen - di viaggiare a loro piacimento, senza controlli e con la possibilità di organizzare qualsiasi massacro. Oriana è morta da anni, ma le sue nere profezie si stanno realizzando puntuali come erano state previste. Quel che è accaduto ieri nella redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo, una delle poche testate che anni fa difesero nel silenzio generale il coraggio della scrittrice toscana, è esattamente ciò che lei aveva immaginato.

Il lungo incubo di Coco: «Ho aperto quella porta e hanno sparato a tutti». Parla la vignettista che per prima ha incontrato i due attentatori del «Charlie Hebdo» I due boia incappucciati le hanno puntato i kalashnikov alla testa, scrive Elisabetta Rosaspina “Il Corriere della Sera”. «Faccio attenzione quando si tratta di religione. Ci penso due volte prima di fare un disegno. Ma non mi autocensuro, è fuori questione» garantiva tre anni fa «Coco» al sito della cittadina di Carquefou (Loira Atlantica) dove ogni anno, dal 2000, si organizza il festival dei caricaturisti. Era stata lei, Corinne Rey, giovane disegnatrice, allora non ancora trentenne, ma già affermata nel mondo della stampa, a disegnare il manifesto dell’happening del 2011. Un signore dalle grandi fauci che inghiotte il mondo infilzato su uno stecchino, come fosse un’oliva. È lei, Corinne Rey, la mamma cui mercoledì mattina, sotto gli uffici di Charlie Hebdo , a Parigi, i due boia incappucciati hanno puntato i kalashnikov alla testa, ingiungendole di comporre il codice d’ingresso alla sede della redazione, l’ultimo ostacolo tra i killer e le loro prede. Gli assassini non l’hanno riconosciuta come una delle firme del settimanale e, forse, l’hanno risparmiata per questo. O perché, come invece ha ipotizzato lei, non si sono accorti che scivolava al riparo di una scrivania. Ma quella carneficina resterà negli occhi della giovane donna per sempre. «Superato l’ingresso hanno sparato a Wolinski poi a Cabu. Erano seduti uno accanto all’altro. Tutto è durato cinque minuti, forse anche meno. Una pioggia di colpi», ha rivissuto poco dopo il suo incubo, parlando al telefono con i colleghi de «L’Humanité ». Sotto choc, ma anche sotto protezione, come testimone diretta e ravvicinata di quel bagno di sangue, Coco si è salvata perché era andata a prendere la figlioletta all’asilo. Come lei, è scampata al massacro anche un’altra disegnatrice della redazione decimata, Catherine Meurisse, arrivata in provvidenziale ritardo alla riunione settimanale. Catherine ha fatto in tempo a incrociare i due uomini mascherati mentre fuggivano dal palazzo e ha intuito che qualcosa di terribile doveva essere accaduto. Anche se qualche altro passante si era fermato incuriosito, convinto che si stesse girando un film d’azione. È salva Coco, anche se ha visto e sentito morire i suoi colleghi e se non potrà più togliersi dalle orecchie e dalla memoria le urla di soddisfazione dei carnefici che gridavano i nomi delle loro vittime mentre sparavano, come in un sordido appello: «Pagherete per aver insultato il Profeta».

Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore.

A Parigi, in un indeterminato ma prossimo futuro, vive François, studioso di Huysmans, che ha scelto di dedicarsi alla carriera universitaria. Perso ormai qualsiasi entusiasmo verso l’insegnamento, la sua vita procede diligente, tranquilla e impermeabile ai grandi drammi della storia, infiammata solo da fugaci avventure con alcune studentesse, che hanno sovente la durata di un corso di studi. Ma qualcosa sta cambiando. La Francia è in piena campagna elettorale, le presidenziali vivono il loro momento cruciale. I tradizionali equilibri mutano. Nuove forze entrano in gioco, spaccano il sistema consolidato e lo fanno crollare. È un’implosione improvvisa ma senza scosse, che cresce e si sviluppa come un incubo che travolge anche François. Sottomissione è il romanzo più visionario e insieme realista di Michel Houellebecq, capace di trascinare su un terreno ambiguo e sfuggente il lettore che, come il protagonista, François, vedrà il mondo intorno a sé, improvvisamente e inesorabilmente, stravolgersi.

La Parigi "sottomessa" di Houellebecq divide i politici francesi. Il romanzo sull'islam fa discutere. Hollande: "Non si deve cedere a paura e angoscia". Le Pen: "E' fiction ma potrebbe diventare realtà", scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Questa sera Michel Houellebecq si difenderà dalle accuse scatenate dalle anticipazioni del suo nuovo romanzo Sottomissione (da domani in Francia, in Italia dal 15 gennaio per Bompiani). Lo farà sul canale televisivo France2, intervistato da David Pujadas. Ma lo scrittore ha già rivendicato il diritto, sulla Paris Review , di trattare temi d'attualità, anche scomodi. Respinte le accuse di razzismo e islamofobia, ha osservato la crisi dei valori dell'Illuminismo, il rifiuto crescente della modernità, il ritorno delle religioni, il suicidio dell'Europa e la lotta dei francesi per restare in vita. Il libro entra in pieno nel dibattito in corso da tempo in Francia sull'identità nazionale e sul corretto rapporto con l'immigrazione, specie quella di matrice religiosa musulmana. In Sottomissione , le elezioni presidenziali del 2022 sono vinte dal candidato del neonato partito musulmano, che batte la destra di Marine Le Pen grazie all'appoggio sia dei socialisti sia dei repubblicani. Parigi accetta di buon grado l'islamizzazione morbida propugnata dal nuovo governo. La Francia, forse l'intera Europa, rinuncia alla libertà avvertita come un inutile fardello, il retaggio di un passato ormai finito. La sfiduciata cultura occidentale non può non cedere di fronte alle forti rivendicazioni identitarie dei musulmani. Il protagonista di Sottomissione , un professore esperto di Joris Karl Huysmans, accetta senza opporsi l'islamizzazione dell'università, e in questo segue a suo modo le orme dell'oggetto dei suoi studi. Huysmans, l'autore di A ritroso , passò infatti dal Naturalismo al Cattolicesimo («lo fece per ragioni estetiche, restando freddo di fronte alle grandi domande di Pascal», precisa Houellebecq nella citata intervista alla Paris Review ). Fantapolitica? Dipende dai punti di vista. Dopo critici, filosofi e opinionisti, sono intervenuti i pesi massimi della politica francese. Il presidente della Repubblica, il socialista François Hollande, ha detto che leggerà Sottomissione non appena possibile. Nel frattempo osserva che la tentazione di denunciare «la decadenza, il declino, di esternare pessimismo e dubitare di se stessi» è una costante di molta letteratura, non solo di questo secolo. «Ciascun autore è libero di esprimere quello in cui crede. Il mio compito, invece, è invitare i francesi a non cedere alla paura, all'angoscia». Perché nel Paese ci sono «forze positive» capaci di porre rimedio alle situazioni incerte e di migliorare le condizioni generali. Del resto, pochi giorni prima di Natale, Hollande aveva dichiarato che gli immigrati servono, e il resto è demagogia. Di parere radicalmente opposto la leader del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, tra i personaggi del romanzo stesso: « Sottomissione è un libro interessante. È fiction ma potrebbe diventare realtà. Il patto pro islam tra socialisti e repubblicani, in opposizione alla nostro destra, si può già osservare a livello comunale o regionale».

Houellebecq, l’ultimo “Charlie Hebdo” dedicato al suo nuovo libro. Il romanziere sotto scorta ora piange l’amico morto. Disse: «Non sento una responsabilità particolare per quello che scrivo. Un romanzo non cambia la storia», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Michel Houellebecq è scoppiato in singhiozzi, ieri, quando ha saputo che tra i morti c’era il suo amico Bernard Maris, economista alla Banca di Francia ed editorialista a “Charlie Hebdo”. Sul numero della rivista uscito poche ore prima della strage, Maris conclude con queste parole quello che sarà l’ultimo articolo della sua vita: «Ancora un romanzo magnifico. Ancora un colpo da maestro». Si riferisce a “Sottomissione”, il libro di Houellebecq che negli stessi momenti cominciava finalmente a essere venduto nelle librerie, dopo settimane di indiscrezioni, distribuzioni illegali su Internet e polemiche che, come solo in Francia può accadere, passano rapidamente dalla letteratura alla politica. È stata una giornata spaventosa per tutti. Michel Houellebecq non ha potuto che viverla in modo ancora più drammatico, per le persone colpite a lui vicine e perché quella, fino alle 11 e 30 era la «sua» giornata, quella dell’uscita del libro più atteso dell’anno, da giorni sulle prime pagine di tutti i giornali. Una giornata preceduta la sera prima da un suo intervento al tg delle 20 sul canale pubblico France 2, in cui lo scrittore di tanti romanzi tra analisi della società e profezia aveva risposto con la consueta flemma alle domande del conduttore David Pujadas. «Non sente di avere una responsabilità particolare, lei che è uno scrittore così importante e seguito?», chiedeva Pujadas. «No - aveva risposto Houellebecq -, forse un saggio può cambiare la storia, non un romanzo». Il giornalista alludeva a una voglia di provocazione - tante volte negata - di Houellebecq, che in “Sottomissione” mette in scena il fantasma più angosciante per la società francese di questi giorni: un Islam trionfante, che ha ragione per vie democratiche di una civiltà giudaico-cristiana ormai estenuata, spossata dall’Illuminismo e dal fardello di libertà che pesa su ogni essere umano. Meglio la sottomissione, allora, suggerisce François, il protagonista del romanzo: delle donne all’uomo (la poligamia viene incoraggiata, più mogli smettono di lavorare e restano a casa ad accudire un unico marito), e di tutta la società a Dio. Anzi, ad Allah. Per questo, Houellebecq è stato accusato di soffiare sul fuoco, di usare la paura per vendere libri. Ma Houellebecq è uno scrittore, di sicuro il più celebre e forse il migliore scrittore francese contemporaneo, non un opinionista né tantomeno un uomo politico. Ha il diritto di descrivere la realtà, e anche di offrirci la sua idea di quel che la realtà potrà diventare tra qualche anno, «esagerando e velocizzando», come dice lui stesso. Da quando in autunno si è saputo che il suo prossimo romanzo avrebbe dipinto questa Francia del 2022 in mano all’Islam, l’Islam per certi versi rassicurante (donne a parte) del nuovo presidente della Repubblica Mohammed Ben Abbes, il dibattito culturale - e politico - francese ha cominciato a incentrarsi su Sottomissione , fino a esserne completamente monopolizzato. L’azione militare dei terroristi è stata talmente efficace da essere probabilmente pianificata da mesi, dicono le fonti di polizia: l’uscita di Sottomissione e l’ultimo numero della rivista non c’entrano nulla. I piani si sovrappongono perché c’è la coincidenza dell’uscita nelle librerie, e perché l’ultimo Charlie Hebdo esibisce in copertina una splendida vignetta firmata Luz, almeno lui per fortuna scampato al massacro, che dipinge Houellebecq con l’eterna sigaretta e un ridicolo cappello con stelle e pianeti. Titolo: «Le predizioni del mago Houellebecq», e lo scrittore che dice «Nel 2015 perdo i denti...» (i suoi problemi odontoiatrici sono noti) e «Nel 2022, faccio il Ramadan!». Nell’ultima pagina di Charlie Hebdo , come sempre, «le copertine alle quali siete scampati»: e riecco Michel Houellebecq in braccio a una Marine Le Pen sognante che canta «Sarai il mio Malraux», disegnato da Cabu, morto nell’attentato; Houellebecq in ginocchio che sniffa una pista di cocaina stesa per strada e il titolo «Houellebecq convertito all’Islam?», disegnato da Coco, alias Corinne Rey, la donna che sotto la minaccia delle armi ha aperto la porta della redazione ai terroristi; infine, ecco un ritratto poco avvenente di Houellebecq, lo strillo «Scandalo!» e il titolo «Allah ha creato Houellebecq a sua immagine!». La firma è di Charb, il direttore, l’uomo che più di tutti gli assassini volevano uccidere. Michel Houellebecq è ovviamente sotto la protezione della polizia, come lo sono le redazioni di tutti i giornali e i locali della casa editrice Flammarion, che ieri sono rimasti chiusi. Nel romanzo, gli islamici prendono il potere vincendo le elezioni grazie a un’alleanza con gli esangui partiti di centrosinistra e di centrodestra. Prima che l’ordine coranico regni sovrano sulla Francia e l’Europa, in base al sogno di Ben Abbes di rifondare un impero romano con l’Islam al posto del Cristianesimo, in Sottomissione (uscirà in Italia il 15 gennaio per Bompiani) ci sono scontri, un timido debutto di guerra civile. E la guerra civile, il caos, sono evocati nelle dichiarazioni di mesi fa di Éric Zemmour, l’opinionista che con il bestseller Le suicide français ha generato furiose polemiche su razzismo e islamofobia, con la sua accusa rivolta ai musulmani di Francia di essere «un popolo nel popolo».

Negli ultimi giorni i migliori intellettuali e scrittori francesi, da Michel Onfray a Emmanuel Carrère, si sono pronunciati sulla polemica Houellebecq. Charlie Hebdo, Michel Houellebecq sospende la promozione di Sottomissione, scrive Angela Iannone. L'attentato di matrice terroristica al settimanale satirico francese coincide con la pubblicazione del romanzo di Michel Houellebecq, "Sottomissione". Michel Houellebecq ha deciso di "sospendere la promozione" del suo libro "Sottomissione" perché "profondamente turbato dalla morte del suo amico Bernard Maris, ucciso nell'attacco terrorista al settimanale Charlie Hebdo, nel quale sono state uccise altre undici persone". Lo ha annunciato il suo agente Francois Samuelson, secondo quanto riportato dai media francesi. Lo scrittore, che è sotto scorta, lascerà Parigi, come ha precisato il suo editore Flammarion. L'attentato terroristico alla redazione di "Charlie Hebdo", il settimanale satirico attaccato da un commando armato stamattina, coincide con due pubblicazioni. La prima è la copertina del settimanale stesso, che aveva proprio oggi come protagonista Michel Houellebecq, lo scrittore francese che nel suo ultimo romanzo "Sottomissione", immagina una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani e lancia un allarme sulla progressiva islamizzazione del Paese. La seconda è proprio la pubblicazione di "Sottomissione", che è in uscita oggi nelle librerie francesi. Charlie Hebdo riportava oggi la caricatura dello scrittore travestito da mago, il cui titolo era "Le previsioni del mago Houellebecq" con lo scrittore francese che dice "Nel 2015 perdo i miei denti" e poi "Nel 2022 faccio il Ramadan". Sottomissione è un romanzo fantapolitico che ipotizza una Francia futura nelle mani dell'integralismo islamico. Un Paese in cui un leader musulmano impone l'islamizzazione forzata a tutti  gli abitanti. Circa 300 pagine con una tiratura di 150mila copie diffuse illegalmente già prima della pubblicazione ufficiale, suscitando non poche polemiche tra l'opinione pubblica francese, che si è divisa commentando il titolo come "sublime" o "irresponsabile". Intervistato dalla radio France-Inter, Houellebecq ha minimizzato lo scandalo, ritenendo che non è sia quello il vero senso del libro e che "la parte del romanzo che fa paura  è piuttosto precedente all'arrivo dei musulmani al potere. (...) Si può dire che quello è terrificante, questo regime". "Nel mio libro -continua - l'Islam non è per nulla radicale, al contrario, è una delle religioni più pacifiche che si possano immaginare. Non penso che il mio libro dipinga un Islam minaccioso".

Charlie Hebdo, Houellebecq e Sottomissione, il libro fatale. La strage nel giorno dell'uscita di Sottomissione, scrive “L’Ansa”. Gli assalitori che hanno sparato e ucciso nella sede del settimanale satirico Charlie Hebdo non hanno scelto un giorno a caso: oggi, 7 gennaio 2015, esce in Francia l'ultimo libro di Michel Houellebecq, Sottomissione (traduzione letterale della parola Islam), che in Italia arriverà il 15 gennaio. Proprio a questo libro del controverso autore di Le particelle elementari, Piattaforma, La possibilità di un'isola, il numero di Charlie Hebdo aveva dedicato un articolo e la copertina con una vignetta che ritrae lo scrittore vestito da mago e il titolo: Le previsioni del mago Houellebecq; le profezie dello scrittore sono: Nel 2015 perderò i denti, nel 2022 farò il ramadan. Perché Sottomissione proprio di questo parla: di una Francia governata nel 2022 dai Fratelli Musulmani, che riescono ad andare al governo grazie ad una (poco) incredibile alleanza con quel resta di centristi e sinistra alleate al musulmano moderato  Mohammed Ben Abbes, leader di Fraternité musulmane, contro lo strapotere di Marine Le Pen.  Non è solo l'ennesimo allarme di Houellebecq contro la progressiva islamizzazione del Paese. Come ha scritto Emmanuelle Carriere, Houellebecq ha il merito di essere l'unico a parlare di un problema che esiste ma che molti intellettuali sembrano ignorare. Non solo: per Carriere quella di Houllebecq è una posizione politicamente e sociologicamente ragionevole. L'Occudente si arrende per così dire dolcemente all'Islam, sfinito da secoli di razionalità e illuminismo eccessivamente responsabilizzanti. Nell'acceso dibattito intellettuale francese sul libro e sullo scrittore, non è l'unica recensione positiva incassata da Houellebecq: un altro intellettuale 'scorretto', Michel Onfray , noto per il suo trattato di ateologia e per le sue posizioni anti-cristiane e favorevole al libertinismo, ha parlato di Europa come Continente morto che volontieri si consegna all'Islam dopo averlo fatto con i mercati. E dunque, per Sottomissione, di uno scenario assolutamente plausibile. Proprio ieri, Houllebecq aveva parlato al canale francese France 2 per rivendicare il suo diritto di trattare temi di attualità e soprattutto di sottolineare la crisi dei valori dell'illuminismo e della modernità.

"Ecco la mia Francia nelle mani dell'Islam". Parla lo scrittore Michel Houellebecq. I musulmani prendono il potere. E opprimono le donne. Lo scrittore più provocatorio d’Oltralpe qui racconta “Sottomissione” il suo nuovo romanzo. E dice: «Il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono cattivi musulmani», scrive Sylvain Bourmeau su “L’Espresso”. Michel Houellebecq, lo scrittore più controverso di Francia, non ama parlare con i giornalisti. Per il lancio del suo nuovo romanzo, “Sottomissione”, ha dato una sola  intervista al critico Sylvain Bourmeau, che in vent'anni lo ha incontrato decine di volte e che, malgrado le critiche sincere che gli riserva anche in questa occasione, si è guadagnato la sua fiducia. “L'Espresso” pubblica in esclusiva per l'Italia il lungo colloquio che parte dalla trama del nuovo romanzo, ancora più provocatorio dei precedenti. Il libro è uscito in Francia proprio nel giorno dell'attentato a Charlie Hebdo (in Italia esce il 15 per Bompiani). E lo scrittore, che dopo aver subito un processo per islamofobia non vive più in Francia ma è a Parigi per il lancio del libro, è stato posto sotto scorta. Al centro di “Sottomissione” c'è una Francia trasformata in uno stato islamico dopo la vittoria alle presidenziali del leader di un partito  musulmano. Un'ipotesi irrealistica? Non secondo Houellebecq, che ipotizza un ballottaggio con la leader della destra xenofoba Marine Le Pen. «Per la Le Pen mi pare del tutto verosimile che arrivi al ballottaggio già alle elezioni del 2017», spiega lo scrittore. «Quanto al partito musulmano, mi sono reso conto che i musulmani vivono in una situazione del tutto alienata. Sono molto lontani dalla sinistra e ancor di più dagli ecologisti. E non si vede perché dovrebbero votare per la destra, che li rifiuta. Quindi l'idea di un partito musulmano mi sembra plausibile». Il nuovo romanzo sfrutta la paura dell'Islam che serpeggia per la Francia, ammette Houellebecq. Che però è convinto che «non si può definire  “Sottomissione” una predizione pessimista». Anche perché, dichiara a sorpresa, «il Corano è decisamente meglio di quello che pensavo, di lettura in rilettura. La conclusione più evidente è che i jihadisti sono dei cattivi musulmani. La guerra santa di aggressione non è permessa per principio, e  solo la predicazione è valida. Dunque si può dire che ho cambiato un po’ opinione. È per questo che non ho l’impressione di essere nella situazione di dover avere paura. Ho l’impressione che ci si possa mettere d’accordo». 

«La civiltà dell’Europa è sfinita». Onfray promuove Houellebecq. «È un continente morto, oggi in mano ai mercati. Domani forse all’islam», scrive Stefano Montefiori su “Il Corriere della Sera”. Il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione , immagina una Francia del 2022 governata da un presidente musulmano e un nuovo ordine sociale che prevede poligamia e donne che restano a casa a occuparsi di mariti e figli in omaggio a una religione - l’islam - che ha trionfato sulla civiltà dell’Illuminismo. Prima ancora dell’uscita (il 7 gennaio in Francia per Flammarion e il 15 gennaio in Italia per Bompiani) il libro scatena polemiche e discussioni, tra riconoscimento del valore letterario e critiche a una presunta voglia di provocazione. Il «Corriere» ha sollecitato l’opinione di Michel Onfray, uno dei più noti intellettuali francesi, autore di decine di opere tra le quali il celebre Trattato di ateologia e una Controstoria della filosofia (Ponte alle Grazie); un pensatore ateo che ha letto - e amato - il romanzo del momento.

Visto che «Sottomissione» è un romanzo e non un saggio, è possibile separare il valore letterario dal contenuto profetico?

«È un esercizio di stile, una fiction politica ma anche metafisica: un romanzo sull’ignavia delle persone, degli universitari in particolare. Un romanzo molto anarchico di destra. Un libro sulla collaborazione, vecchia passione... francese! Come un universitario specialista di Huysmans può convertirsi all’islam? Ne scopriamo le ragioni poco alla volta: la promozione sociale in seno all’istituzione riccamente finanziata dai Paesi arabi, gli stipendi mirabolanti dei convertiti, la possibilità della poligamia, una ragazza per il sesso, un’altra meno giovane per la cucina, una terza se si vuole, il tutto continuando a bere alcool... Questo libro è meno un romanzo sull’islam che un libro sulla collaborazione, la fiacchezza, il cinismo, l’opportunismo degli uomini...».

La parte più scioccante è forse il destino riservato alle donne. Qual è la sua opinione? È concepibile nella nostra società un’evoluzione simile?

«La nostra epoca è schizofrenica: bracca il minimo peccato contro le donne e, per fare questo, milita per la femminilizzazione dell’ortografia delle funzioni, la parità nelle assemblee, la teoria di genere, il colore dei giocattoli nelle bancarelle di Natale; la nostra epoca prevede che ci si arrabbi se si continua a rifiutare auteure o professeure (femminili di autore e professore ), ma fa dell’islam una religione di pace, di tolleranza e di amore, quando invece il Corano è un libro misogino quanto può esserlo la Bibbia o il Talmud. Se si vuole continuare a essere misogini con la benedizione dei sostenitori del politicamente corretto, l’islam alla Houellebecq è la soluzione!».

In una sua prima intervista alla «Paris Review», Houellebecq decreta la fine dell’Illuminismo e il grande ritorno della religione (l’islam, ma non solo). In quanto pensatore ateo, qual è la sua reazione?

«Credo che abbia ragione. I suoi romanzi colgono quel che fa l’attualità del nostro tempo: il nichilismo consustanziale alla nostra fine di civiltà, la prospettiva millenarista delle biotecnologie, l’arte contemporanea fabbricata dai mercati, le previsioni fantasticate della clonazione, il turismo sessuale di massa, i corpi ridotti a cose, la loro mercificazione, la tirannia democratica, la sessualità fine a se stessa, l’obbligo di un corpo performante, il consumismo sessuale, eccetera. Quindi, utilizzare i progressi incontestabilmente compiuti dall’islam in terra d’Europa per farne una fiction sull’avvenire della Francia è un buon modo per pensare a quel che è già».

Houellebecq descrive una società francese ed europea stanca, affaticata dalla perdita di valori tradizionali. Cosa pensa? L’Europa è condannata, come dicevano i neocon americani?

«Houellebecq continua a dipingere il ritratto di una Francia post-68. E ha ragione di vedervi un esaurimento, meno in rapporto con il breve termine del Maggio 68 che con il lungo periodo della civiltà giudaico-cristiana che crolla. Questa civiltà è nata con la conversione di Costantino all’inizio del IV secolo, il Rinascimento intacca la sua vitalità, la Rivoluzione francese abolisce la teocrazia, il Maggio 68 si accontenta di registrarne lo sfinimento. Siamo in questo stato mentale, fisico, ontologico, storico. Houellebecq è il ritrattista terribile di questo Basso Impero che è diventata l’Europa dei pieni poteri consegnati ai mercati. L’Europa è morta, ecco perché i politici vogliono farla!».

La mia impressione, leggendo il libro, è che si finisca per credere alla profezia. In questo sta l’abilità di scrittore di Houellebecq? O la sua previsione è davvero plausibile?

«È in effetti uno dei talenti di questo libro: il racconto è estremamente filosofico perché è estremamente credibile... Sottomissione rivaleggia con 1984 di Orwell, Fahrenheit 451 di Bradbury, Il mondo nuovo di Huxley. Per me è il migliore libro di Houellebecq, e di gran lunga. La sottomissione di cui diamo prova nei confronti di ciò che ci sottomette è attualmente sbalorditiva. È un altro sintomo del nichilismo nel quale ci troviamo».

Evocando l’islam, Houellebecq agita un fantasma molto presente nella Francia di oggi, come dimostrano i libri di Alain Finkielkraut e Éric Zemmour. È giustificata, questa preoccupazione dell’identità?

«Ricorrere alla parola fantasma è già un modo di prendere una posizione ideologica. Esiste una realtà che non è un fantasma e che coloro che ci governano nascondono: divieto di statistiche etniche sotto pena di farsi trattare da razzisti ancor prima di avere detto alcunché su queste cifre, divieto di rendere note le percentuali di musulmani in carcere sotto pena di farsi trattare da islamofobi al di fuori di qualsiasi interpretazione di queste famose cifre, eccetera. Non appena si nasconde qualcosa, si attira l’attenzione su quel che è nascosto: se non esiste che un fantasma, allora che si diano le cifre, saranno loro a parlare...».

Edward Luttwak: Islam significa «sottomissione», E questo è il suo vero obiettivo finale. L'ambiguità vi porta al macello. L'Europa, in particolare, tiene il piede in due scarpe, scrive  di Goffredo Pistelli su “Italia Oggi”. A Edward Luttwak il politically correct non fa velo. Questo ebreo americano d'origine rumena, politologo e esperto di studi strategici, quando viene chiamato a parlare di terrorismo islamico, non infiocchetta distinguo ma dice quello che pensa. E il suo pensiero è spesso durissimo. È il caso di questa conversazione che ci ha concesso a poche ore dalla strage del Charlie Hebdo a Parigi.

Domanda. Mr. Luttwak questo attentato, nel cuore dell'Europa, è per gli Europei un brutto risveglio, non trova?

Risposta. Il punto non è solo di svegliarsi ma di agire.

D. Vale a dire?

R. Quello che c'è da fare è chiaro: dovete delegittimare questo trionfalismo musulmano.

D. Ma come, c'è un attacco terroristico e lei mi parla del trionfalismo? Che c'entra?

R. Centra, perché il trionfalismo è quello che crea un'atmosfera per cui qualcuno si sente in diritto di uccidere la gente.

D. Ma a quale trionfalismo si riferisce?

R. Quello praticato da persone, ragazze magari, che vanno con il hijab indosso per dimostrare la loro partecipazione a questa forma estrema di islamismo. Magari parlano perfettamente l'italiano, sono carine e gentili, dicono «non siamo affatto sottomesse», ma poi difendono Hamas, con la sua costituzione genocida.

D. Si riferisce a quel dibattito piuttosto animato che ha avuto in dicembre durante una puntata di Announo (in cui Luttwak, collegato dagli Usa, si toglieva l'auricolare quando parlava una giovane esponente musulmana in studio, ndr)?

R. Non mi riferisco a niente in particolare. Dico che queste persone vendono falsità a cominciare dall'etimologia stessa di Islam, che vuol dire «sottomissione», mentre loro dicono che significhi «amore».

D. Quella musulmana non è una religione come tutte le altre?

R. No, perché appunto vuole tutte le altre sottomesse. E in questa sottomissione prevede che le persone e gli Stati chinino il capo. Il disegno è che lo faccia Roma, Parigi, Washington.

D. Non c'è possibilità di discussione, quindi?

R. È inutile perdersi in chiacchiere con gente come Tariq Ramadani (scrittore e imam ginevrino di origine egiziana, che piace molto al mondo francofono, ndr), dovete sfrondare, dovete smettere di legittimarli o vi ritroverete quattro pazzoidi col kalashinikov in pugno, come questi di Parigi, che magari fino a ieri avevano fatto il ragioniere, l'architetto, il medico.

D. Sfrondare come?

R. Smettendo per esempio di parlare per acronimi: basta dire Isis. Cominciate a chiamarlo Stato islamico. E a cessare di trattare la religione musulmano come le altre. Capisco, che sia troppo spinoso, ma dovete ammettere che l'unico scopo di quel credo è sottomettere gli altri.

D. Nessuno la fa, secondo lei?

R. Ci sono già editori e giornalisti che, in Europa, hanno deciso di non occuparsi di questi cose e stare alla larga da queste vicende. La sottomissione comincia così.

D. E con gli islamici europei nessun dialogo è possibile allora?

R. L'unico dialogo è questo: «Riformatevi e diventate un altro tipo di religione». Non possono venire a dirci che non stanno con Isis perché sono brutti e cattivi, in quanto tagliatori di teste, e schierarsi con Hamas che, all'articolo 7 della propria Costituzione, prevede l'uccisione di tutti gli ebrei. Il giornalista, l'intellettuale e chiunque altro appoggi Hamas non merita di stare nella società civile, in quanto sostiene un'intenzione genocida proclamata.

D. Ma l'Europa della politica che cosa dovrebbe fare?

R. Essere meno ipocrita. Francois Hollande lo è quando avalla l'idea di un Islam moderato. È una falsa moderazione: l'imam che non perde un congresso sul dialogo interreligioso, lo trovi poi su YouTube con le prediche in arabo con cui chiama tutti alla jihad, alla guerra santa. I politici europei smettano di essere ipocriti perché, così facendo, indeboliscono milioni di post-islamici del Vecchio Continente.

D. Di chi parliamo?

R. Di quegli immigrati, oggi spesso cittadini francesi, tedeschi, belgi, olandesi, che hanno voltato le spalle alla religione musulmana perché hanno capito che è irreformabile. Sono quelli che lasciano andare le loro moglie vestite all'occidentale, che non menano le loro figlie perché si scoprono le braccia. Vivono in Europa e oggi sono in imbarazzo a causa dell'ipocrisia di tanti vostri primi ministri.

D. Che cosa c'è nelle menti di chi ha organizzato l'attentato di Parigi? Le bombe ai treni in Spagna, nel 2004, spodestarono José Maria Aznar, impedendone la rielezione. Le raffiche parigine vogliono favorire l'avvento delle destre in Europa? Vogliono alzare il livello di scontro?

R. Alzare il livello dello scontro sarebbe sbagliato. Però siete di fronte a una scelta: o delegittimate l'Islam o delegittimate la democrazia.

Macellai islamici. Una dichiarazione di guerra all'Europa e alla libertà. Ma noi #nonabbiamopaura, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Questa è guerra. Altro che islam buono e islam cattivo, altro che multiculturalismo come risorsa e porte aperte all'immigrazione come dovere, altro che «cani sciolti». Hanno fatto strage di giornalisti nel cuore di Parigi, cioè nel cuore dell'Europa, in nome di Allah. Qualcuno li ha addestrati, qualcuno li ha istruiti, qualcuno li ha mandati a sparare agli inermi colleghi del settimanale satirico Charlie Hebdo (la cui testata oggi è affiancata alla nostra in segno di solidarietà). E siccome loro hanno urlato, tra una raffica e l'altra, che il mandante è Allah, ecco allora io dico: per loro Allah è il capo dei terroristi che vogliono sopprimere le basilari libertà dell'Occidente. Dico che l'immigrazione selvaggia è il grimaldello per entrare nella nostra storia, nelle nostre città. Dico che non ci sarà mai possibilità di integrazione, perché come scriveva Oriana Fallaci «non è vero che la verità sta sempre nel mezzo, a volte sta da una sola parte». E non ho dubbi che la parte giusta è la nostra, quella di una «civiltà superiore» (sempre per citare Oriana) che mai si sognerebbe di alzare un dito su Crozza per le sue imitazioni satiriche di Papa Francesco. Abbiamo un problema di polizia, di servizi segreti che fanno acqua, ma prima ancora abbiamo un problema politico e culturale di soggezione (vero presidente Boldrini?) nei confronti dei nostri carnefici, passati (vedi le scuse per Guantanamo), presenti (le cautele e i distinguo di oggi) e futuri. Io odio questa gente, così come gli uomini liberi hanno odiato nazisti e stalinisti. Il problema non è farsi ammazzare, ma farlo in silenzio. È spalancare le porte di casa senza nulla chiedere in cambio al nemico che si presenta con la faccia affamata e sofferente del profugo. È rinunciare a crocefissi, presepi e tradizioni per non offenderli. È inculcare - anche da parte di eminenti cardinali della Chiesa - nei nostri bambini l'idea che Gesù e Allah pari sono. È stato rinunciare - e lo dico da laico - a inserire le «radici cristiane» nella Costituzione europea. È non capire che siamo sull'orlo di una guerra civile europea tra islamici di passaporto europeo e il resto d'Europa. Non kamikaze invasati, ma banditi con tecniche brigatiste che vogliono salvare la loro vita, togliendola agli altri in nome di Allah. Per ribadire la nostra libertà, oggi ripubblichiamo quelle vignette che sono costate la vita ai colleghi francesi, senza che una sola di esse violasse le leggi di quel Paese. A noi i terroristi non hanno mai fatto paura. Ci fanno più paura le «attenuanti culturali» con cui la nostra magistratura troppo spesso giustifica le violazioni delle nostre leggi. E il termine «inarrestabile» usato per arrendersi all'immigrazione selvaggia. Avanti così, qui di «inarrestabile» ci sarà solo la fine dell'Occidente. E a questo gioco, noi non ci staremo mai. Che piaccia o no ad Allah.

L'editoriale-shock del Financial Times: "Stupidi i giornalisti di Charlie Hebdo", scrive “Libero Quotidiano”. È una voce fuori dal coro, una presa di posizione durissima e controcorrente mentre tutto il mondo condannava la strage nella redazione di Charlie Hebdo stringendosi alle famiglie dei morti. E' quella del quotidiano britannico Financial Times, che in un editoriale sul suo sito online afferma che i giornalisti e i vignettisti della rivista satirica francese si sono comportati in modo “stupido”. Il Ft accusa il magazine, che in passato era stato già colpito per la pubblicazione delle vignette su Maometto, di aver peccato di “stupidità editoriale” attaccando l’Islam. “Anche se il magazine si ferma poco prima degli insulti veri e propri, non è comunque il più convincente campione della libertà di espressione“, si legge ancora. Sui social network gli altri media offrono giornalisti e solidarietà, ma il giornale della City invece attacca chi ha con quelle vignette causato la reazione terroristica. “Con questo non si vogliono minimamente giustificare gli assassini, che devono essere catturati e giudicati, è solo per dire che sarebbe utile un po’ di buon senso nelle pubblicazioni che pretendono di sostenere la libertà quando invece provocando i musulmani sono soltanto stupidi”. L'editoriale si chiede anche “quale impatto” gli omicidi “avranno sul clima politico, e in particolare le sorti di Marine Le Pen e il suo estrema destra Fronte Nazionale“.

Altro che moderati. Nel Corano i precetti dei killer. La carneficina della redazione del giornale francese mostra all'Occidente la verità che ci rifiutiamo di vedere. È il Corano a prescrivere l'omicidio contro gli "infedeli", scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Ciò che veramente mi sconvolge è il fatto che, subito dopo la condanna di rito e scontata della strage nella sede di Charlie Hebdo , la preoccupazione generale di tutti, quasi tutti, dal presidente americano Obama al presidente della Camera Boldrini, è di scagionare l'islam sostenendo che l'islam è una religione di pace, che Maometto non c'entra, che la stragrande maggioranza dei musulmani «moderati» sono contrari alla violenza e che i terroristi islamici sono una scheggia impazzita che offende il «vero islam». Eppure se c'è un caso emblematico che ci fa toccare con mano la contiguità e la consequenzialità sul piano del pensiero e dell'azione tra i sedicenti musulmani moderati e i terroristi islamici è proprio questo caso specifico che mette a confronto il divieto assoluto di raffigurare Maometto, precetto condiviso da tutti i fedeli di Allah, con l'esercizio della libertà d'espressione che è il fulcro della nostra civiltà occidentale. Questa strage è la punta dell'iceberg di un contesto saturo di odio per la diffusione di vignette satiriche nei confronti del profeta dell'islam, alimentato e condiviso da lunghi anni da tutti i musulmani di Francia. A partire dai «moderati» della Grande Moschea di Parigi, che rappresenta l'islam istituzionale ed è il referente del governo francese, e dai militanti «moderati» dell'Uoif (Unione delle organizzazioni islamiche in Francia) che s'ispirano all'ideologia dei Fratelli musulmani, che nel 2007 intentarono e persero un processo contro Charlie Hebdo perché aveva ridiffuso delle vignette su Maometto bollate come blasfeme pubblicate dal quotidiano danese Jyllands-Posten . Così come altri terroristi islamici, evidentemente meno professionisti di quelli di ieri, avevano devastato nel 2011 la sede di Charlie Hebdo con una bottiglia molotov. Quella di ieri è stata una vera e propria azione di guerra condotta da terroristi che hanno combattuto e che uccidono spietatamente i nemici di Allah. Probabilmente si tratta di reduci dalla Siria o dall'Irak, dove si stima che almeno 600 cittadini francesi si siano uniti ai terroristi dell'Isis, dello Stato islamico dell'Irak e del Levante. Una realtà che ci obbliga a prendere atto che il terrorismo islamico nella sua versione più feroce è ormai un fenomeno endogeno, interno all'Europa, e che i suoi protagonisti sono cittadini europei musulmani. Così come nel maggio 2013 due terroristi islamici britannici, di origine nigeriana, decapitarono a Londra il soldato venticinquenne Lee Rigby, ieri a Parigi abbiamo assistito a un atto di guerra inedito per il contesto urbano europeo. La Francia, che è il Paese europeo che accoglie il maggior numero di musulmani è, insieme alla Gran Bretagna, il Paese multiculturalista per antonomasia, quello più a rischio di attentati terroristici islamici. E non è un caso. Quanto è accaduto evidenzia il fallimento di un modello di convivenza che precede il fallimento dell'attività dei servizi di sicurezza. Alla base c'è l'ideologia del relativismo con cui noi europei ci autoimponiamo di non usare la ragione per non entrare nel merito dei contenuti delle religioni, perché aprioristicamente le vogliamo mettere sullo stesso piano attribuendo così a ebraismo, cristianesimo e islam la stessa valenza, finendo per legittimare l'islam a prescindere da ciò che prescrive il Corano e da ciò che ha detto e ha fatto Maometto. Così come c'è l'ideologia parallela del multiculturalismo che ci ha portato a concedere a ciascuna comunità etnico-confessionale il diritto di autogovernarsi anche se, ad esempio, la poligamia e l'uccisione dell'apostata in cui credono indistintamente tutti i musulmani, sono in flagrante contrasto con il nostro Stato di diritto. Il fallimento dei servizi di sicurezza è anch'esso legato a un deficit culturale frutto della tesi ideologica secondo cui l'islam è buono a prescindere mentre i terroristi islamici non sarebbero dei «veri musulmani», anche se - come si è ripetuto ieri - massacrano invocando «Allah è grande» e chiarendo «vendicheremo il nostro profeta Maometto». Noi europei saremo inesorabilmente condannati ad essere sconfitti fintantoché non prenderemo atto che il terrorista islamico è solo la punta dell'iceberg di un retroterra che l'ha fatto emergere e che si sostanzia di una filiera che inizia laddove si pratica il lavaggio di cervello predicando e inculcando l'odio, la violenza e la morte nei confronti dei nemici dell'islam. La strage di Charlie Hebdo sostanzia il frutto avvelenato del reato di «islamofobia», il divieto di criticare l'islam, il Corano e Maometto. Si tratta di un pericolo che conosciamo bene anche in Italia. Quell'atrocità potremmo viverla anche qui a casa nostra.

Quell'islam moderato che dietro le quinte finanzia la guerra santa. Dai movimenti che in Italia bruciano false bandiere dell'Isis a Turchia e Qatar, che fingono amicizia con l'Occidente e danno soldi alla jihad, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Non ho mai avuto dubbi che i musulmani possono essere delle persone moderate, essendolo stato per 56 anni. Ma non credo affatto nei militanti del cosiddetto «islam moderato». Quelli che ad esempio lo scorso 21 settembre in Piazza Affari a Milano, usando uno stratagemma e ingannando il pubblico credulone compresi i giornalisti, diedero alle fiamme non la bandiera dell'Isis, che reca la scritta «Non vi è altro dio al di fuori di Allah» e «Maometto è l'inviato di Allah», bensì un drappo nero su cui avevano scritto a mano in italiano «Isis». Eppure stampa e tv hanno titolato: «I musulmani moderati bruciano la bandiera dell'Isis»! La verità è semplice: di islam ce n'è uno solo, Allah è lo stesso per i moderati e per i terroristi, Maometto è il profeta a cui si rifanno tutti i musulmani indistintamente. Bisogna ammettere che in fatto di bandiere fasulle i musulmani nostrani eccellono. Quando il 5 gennaio 2009 circa un migliaio di islamici arruolati dall'Ucoii (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia) occuparono lo spazio antistante la Basilica di San Petronio a Bologna (che custodisce l'affresco di Giovanni da Modena con Maometto all'Inferno tra i seminatori di discordie, così come lo volle Dante), e diedero alle fiamme le bandiere israeliane, la Procura di Bologna li assolse perché erano da considerarsi «un drappo artigianalmente predisposto con un simbolo grafico», che deve essere ritenuto «un simulacro» e «un tentativo di emulazione», ma non la bandiera israeliana ufficiale! In realtà la contiguità tra i militanti del sedicente «islam moderato» e i terroristi islamici non si limita alla devozione dei nomi di Allah e di Maometto che fanno sì che la bandiera dell'Isis non possa essere bruciata, ma abbraccia l'insieme di un'ideologia che promuove la conversione all'islam, l'instaurazione della sharia e la riesumazione del Califfato. Il caso eclatante è quello della Turchia del regime islamico di Erdogan. A partire dal 2005 l'Occidente si è affidato totalmente alla Turchia nell'illusione che sarebbe riuscito a portare l'«islam moderato» dalla sua parte nella guerra contro Al Qaida. Assecondando la volontà di Erdogan, Stati Uniti e Unione Europea legittimarono politicamente i Fratelli Musulmani che sono riusciti a prendere il potere nei Territori palestinesi con Hamas, in Tunisia con Ennahda, in Libia e in Egitto, mentre in Siria hanno scatenato la guerra del terrore contro Assad. Ebbene la verità è che i turchi sono presenti in massa al vertice e nelle fila delle organizzazioni terroristiche, 2000 in seno a Jabhat al Nusra, affiliata ad Al Qaeda in Siria, e 3000 in seno all'Isis, forti del sostegno di Erdogan che fornisce loro assistenza militare, cure mediche e denaro in cambio del petrolio estratto nello «Stato islamico». Altro caso significativo della contiguità tra l'«islam moderato» e il terrorismo islamico è quello del Qatar, principale finanziatore dei Fratelli Musulmani in tutto il mondo e dei gruppi terroristici affini in Siria, Libia e Tunisia, particolarmente impegnato negli investimenti in Europa come copertura alla più massiccia campagna di costruzione di moschee. Soltanto in Italia, a fronte dell'acquisto di alberghi di lusso, il St. Regis e l'InterContinental a Roma, il Gallia a Milano, il Four Seasons a Firenze e i resort sulla Costa Smeralda, il Qatar Charity Foundation ha donato 6 milioni di dollari ai centri islamici in Sicilia, mentre altre decine di milioni di dollari sono state donate - così come si legge sul suo sito - ai centri islamici a Saronno, Colle Val d'Elsa, Frosinone, Lecco, Roma, Ferrara, Bergamo, Sesto San Giovanni, Modena, Città di Castello, Vicenza, Verona, Torino, Mortara, Olbia, Mirandola, Taranto, Milano, Argenta (Ferrara), Gavardo (Brescia), Quingentole (Mantova). La verità è che il loro jihad, la guerra santa islamica, si traduce comunque nella nostra sottomissione: noi «perdiamo la testa» sia quando i terroristi ci decapitano, sia quando i «moderati» ci condizionano a tal punto da impedirci di usarla per salvaguardare la nostra civiltà.

Il predicatore radicale Choudary: "L'islam non crede alla libertà di pensiero". Dopo l'attacco a Charlie Hebdo difende l'idea che ci debbano essere dei limiti. "Le conseguenze sono note a tutti", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. "L'islam non è pace, ma piuttosto sottomissione ai comandi del solo Allah. Per questo i musulmani non credono nell'idea della libertà d'espressione, perché le loro parole e azioni sono determinate dalla rivelazione divina e non basate sui desideri della gente". La pensa così Anjem Choudary, un predicatore radicale tra i più ascoltati in Europa, intervistato su queste pagine alcuni mesi fa da Barbara Schiavulli, per un reportage nell'Europa estremista. Dopo l'attacco contro la redazione del Charlie Hebdo, in cui sono morte dodici persone, tra le quali giornalisti e il direttore del magazine satirico, ha riassunto in una lettera pubblicata da Usa Today il suo pensiero sui fatti, in netta contraddizione con opinioni molto più moderate espresse da altri imam e fedeli musulmani. "Persino i non musulmani che sposano l'idea della libertà di pensiero sono d'accordo sul fatto che comporti delle responsabilità", scrive Choudary, che ammonisce: "Le potenziali conseguenze dell'insultare il Messaggero Muhammad sono note a musulmani e non musulmani". Parole che suonano come un tentativo di giustificare fatti impossibili da legittimare. "Proprio perché l'onore del Profeta è qualcosa che tutti i musulmani vogliono difendere, molti prenderanno la legge nelle proprie mani", aggiunge il predicatore radicale, che ricorre poi a un argomento molto utilizzato da chi si colloca su posizioni estremiste come le sue. "I governi occidentali sono contenti di sacrificare libertà e diritti quando complici di torture e rendition - scrive - o quando limitano la libertà di movimento ai musulmani, sotto le mentite spoglie della difesa della sicurezza nazionale". E al governo francese chiede perché "mettere a rischio i propri cittadini" continuando a provocare il mondo islamico, come accusa il Charlie Hebdo di avere fatto. Parole, quelle del predicatore, che stupiscono fino a un certo punto. Già in passato aveva lodato gli attentatori dell'11 settembre e al Giornale aveva detto: "Bin Laden è il nostro eroe. Purtroppo è morto, ma la lotta continua anche senza di lui".

Chi l'ha visto il servizio pubblico sulla carneficina dei giornalisti? La figuraccia della Rai, scrive Maurizio Caverzan su “Il Giornale”. Il servizio pubblico della Rai? Chi l'ha visto?. Ma anche L'apprendista stregone e Che Dio ci aiuti . Sono i programmi trasmessi nella serata della strage terroristica di Parigi, definita da molti osservatori l'11 settembre dell'Europa. Niente speciali, zero edizioni straordinarie. Titoli che, riletti oggi, svelano un sapore autocritico verso quella che è una delle pagine più nere dell'informazione pubblica. Facevi zapping da un canale all'altro, mercoledì sera, e trovavi un programma di cronaca nera, un film qualsiasi, su Raiuno addirittura la replica di una fiction. L'informazione può attendere. E il famigerato approfondimento, totem dei talk show che sgomitano quotidianamente nei nostri teleschermi, può mettersi in fila. Senza spingere. Quando invece ci sono dodici morti causati da un atto terroristico nella redazione di un giornale della capitale francese, tutti assenti. In vacanza o chissà. Dopo i tg che hanno conquistato ascolti ben al di sopra della media, lo Speciale TgLa7 di Enrico Mentana è stato un approdo obbligato come lo zapping sulle reti all news , a cominciare da Rainews24 , la più solerte fin dal mattino a rendersi conto della gravità dell'accaduto. Su Mediaset, Retequattro ha aperto una lunga finestra dopo il tg con Mario Giordano e Paolo Del Debbio, mentre Matrix di Luca Telese è andato in onda in edizione straordinaria. In Rai solo a notte inoltrata arriverà uno spezzone di Porta a Porta nel tentativo di tamponare una falla gigantesca. Ma dopo il collegamento con Di Bella e le dichiarazioni del ministro Alfano, vedere Gigi D'Alessio e Lina Sastri commuoversi per la scomparsa del povero Pino Daniele aveva un inevitabile effetto-extraterrestre. Servizio pubblico latitante. Lacunoso. Ritardatario. Sui social network è un diluvio di proteste, di lamentele contro un canone - il cui pagamento la Tv pubblica ricorda in questi giorni con petulanza - purtroppo non corrisposto da servizi all'altezza in un momento storico come questo. Il ritardo sulla notizia si è accumulato fin dalla tarda mattinata quando, come ha notato tal Nicolino Berti su Twitter , «solo Raitre in edizione straordinaria su Parigi, Raiuno deve prima far scolare la pasta alla Clerici». I telegiornali Rai hanno fior di corrispondenti nella Ville Lumière, anche uno di lunga esperienza come Antonio Di Bella. Ma quella di mercoledì 7 gennaio, prima giornata post-festività, rimarrà una pagina buia. Il giorno dopo, la polemica infiamma. Il sindacato dei giornalisti Rai si straccia le vesti («Come si può parlare di riforma se poi di fronte a una vicenda di questa portata, il servizio pubblico non reagisce mettendo in campo almeno su una delle tre reti uno speciale di prima serata?»). Proteste arrivano da quasi tutte le forze politiche che hanno deciso di chiedere spiegazioni al dg Luigi Gubitosi. Riflessi appannati dai troppi dolciumi nelle calze della befana? Sottovalutazione dell'accaduto? Disabitudine alle dirette su fatti internazionali? Intoppi o veti burocratici sembrano da escludere. Non risulta, infatti, che siano state avanzate richieste di modifica dei palinsesti della prima serata dai vari direttori di rete o di testata ai quali compete la valutazione degli avvenimenti. Spostare la replica di Che Dio ci aiuti non sarebbe stato difficile nemmeno per i vertici di Viale Mazzini. Ora, dopo l'ennesima giornata nera, ci si augura che qualcosa cambi. E che Dio aiuti la Rai.

Toh, sui giornali i terroristi non sono più «islamici», scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. I «terroristi islamici» non esistono. Oggi vengono occultati dai mezzi di comunicazione di massa con l'eufemismo «jihadisti». Ma quanti italiani sanno che cosa significhi «jihadisti» o «jihad»? Il motto dei Fratelli musulmani evidenzia il significato più genuino del jihad : «Allah è il nostro obiettivo. Il Profeta è il nostro leader. Il Corano è la nostra legge. Il jihad è il nostro sentiero. Morire lungo il sentiero di Allah è la nostra aspirazione massima». Il divieto di usare il termine «terrorismo islamico» fu formalizzato nel 2006 (...)(...) dall'Unione europea. È sconvolgente il fatto che mentre i terroristi islamici sgozzano, decapitano e massacrano in ottemperanza ai versetti coranici e ai detti e fatti attribuiti a Maometto, l'Occidente - pur di negare l'evidenza - si sia spinto fino a «scomunicare» i terroristi islamici. Lo scorso 14 settembre, dopo la decapitazione dell'ostaggio britannico David Haines, il premier Cameron ha detto che i terroristi islamici dell'Isis «non sono musulmani ma mostri», «dicono di fare questo in nome dell'islam. È assurdo, l'islam è una religione di pace». Anche il presidente americano Obama, intervenendo all'Assemblea generale dell'Onu lo scorso 24 settembre, ha scagionato l'islam: «Gli Stati Uniti non saranno mai in guerra contro l'islam. L'islam insegna la pace». Ma lo sanno Obama e Cameron che il capo supremo del sedicente «Stato islamico», l'autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, oltre ad essere musulmano ha un dottorato di ricerca in Scienze islamiche? Secondo loro questi tagliatori di teste se non sono musulmani che cosa sarebbero? Di quale islam parlano? Il Corano è unico e di Maometto ce n'è solo uno. Il vescovo di Mosul, Emile Nona, intervistato da l'Avvenire lo scorso 12 agosto, ha detto che l'ideologia dei terroristi islamici «è la religione islamica stessa: nel Corano ci sono versetti che dicono di uccidere i cristiani, tutti gli altri infedeli», e che i terroristi islamici «rappresentano la vera visione dell'islam». Eppure il 23 ottobre, sotto l'egida della presidente della Camera Laura Boldrini, la stampa cattolica ( L'Avvenire , Famiglia Cristiana e la Fisc), hanno promosso la campagna «Anche le parole possono uccidere», in cui si denuncia anche l'uso della parola «terrorista» in rapporto ai musulmani. Sempre la Boldrini aveva sponsorizzato nel 2007, da portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, con l'Ordine nazionale dei giornalisti e la Federazione nazionale della stampa, la «Carta di Roma», in cui si chiede di sostituire la parola «clandestino» con «migrante». Ebbene, dopo che nessun mezzo di comunicazione di massa usa più la parola «clandestino», ci ritroviamo in un'Italia in cui la clandestinità non solo non è più reato ma in cui risorse nazionali sono spese per favorire l'auto-invasione. Inevitabilmente accadrà lo stesso con l'abolizione della parola «terrorista islamico». Già oggi i terroristi islamici con cittadinanza europea, che rientrano dopo aver ucciso, sgozzato e decapitato in Siria e Irak, vengono accolti con la disponibilità riservata al figliol prodigo della parabola evangelica. Consentiamo che nelle moschee e sui siti Internet si predichi l'odio e la violenza nei nostri confronti, concependolo come libertà d'espressione fintantoché non si traduce concretamente nella nostra morte. Di questo passo finiremo per giustificare i terroristi islamici fino a legittimarli, sottoscrivendo noi stessi il nostro suicidio e la fine della nostra civiltà.

L'unica paura della sinistra? Che vincano gli "islamofobi". Dal Pd agli intellettuali progressisti il grande timore non è per la diffusione del radicalismo omicida islamico, ma per la crescita di consensi della destra, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Una minaccia paurosa, un nemico dentro casa, travestito da anonimo cittadino ma pronto a colpire con la forza cieca dell'odio: è lui, l'«islamofobo». Sì c'è qualche terrorista islamico armato di kalashnikov e lanciarazzi che stermina innocenti, ma il vero problema, il vero pericolo che corrono Francia, Italia ed Europa, adesso, più che l'ascesa degli islamisti, è l'ascesa dei terribili «islamofobi», che con la scusa degli sterminii in nome di Allah rischiano di prendere parecchi voti, e questo l'Occidente non può accettarlo. Bernardo Valli su Repubblica , in un commento a caldo sui dodici morti di Charlie Hebdo, ha subito ravvisato, con un brivido lungo la schiena, il vero rischio implicito nell'attentato: «Attizzare l'islamofobia». Un pericolo da combattere con uno spiegamento di forze speciali, intelligence, ed editorialisti istruiti per educare il volgo, che sennò si impressiona e poi vota male. Scende in campo anche Federico Rampini, sempre sul giornale di De Benedetti, con la domanda che in queste ore attanaglia l'Europa dopo gli attentati jihadisti e le minacce di nuovi morti: «E adesso Marine Le Pen all'Eliseo?». Cioè la domanda non è «E adesso come ci difendiamo?» o «Adesso che fare con il radicalismo islamico», ma «E adesso Marine Le Pen all'Eliseo?». La sconvolgente conseguenza politica della carneficina, osserva l'esperto di esteri di Repubblica , è infatti che si rafforzano «i partiti xenofobi in tutta l'Europa», mentre sarebbe bene si rafforzasse il centrosinistra che piace più a De Benedetti. Adesso «una vittoria di Marine Le Pen nella corsa all'Eliseo è più probabile», mentre la Lega Nord e le formazioni «anti-immigrati» in ascesa ovunque «raccoglieranno più consensi». Ci sarebbe da arrestare i terroristi solo per il favore fatto a Le Pen e Salvini. Terrorizzato anche Khalid Chaouki, deputato Pd di origine marocchina, tra i fondatori dei Giovani Musulmani d'Italia : «Questa tragedia rischia di trasformarsi in un'occasione d'oro per l'estrema destra francese e italiana e per gli ambienti antislamici - scrive preoccupato su Il Garantista - Temo che Marine Le Pen non si lascerà sfuggire l'occasione di cavalcare l'ondata emotiva francese e soffiare sul fuoco pericoloso dell'islamofobia; perciò è doveroso ribadire con forza che noi siamo contro il terrorismo di qualsiasi matrice ma anche contro l'islamofobia, che ne è l'altra faccia». Le feroci cellule islamofobe, fagocitate dai famosi «ambienti antislamici». Gente pericolosa da cui difendersi. Nessun problema culturale di integrazione dell'Islam trova invece l'ex ministro (per mancanza di prove, direbbe Dagospia ) Cécile Kyenge, miracolata da un seggio all'Europarlamento, che invece ravvede una seria minaccia nei fondamentalisti delle brigate Salvini, riconoscibili dalle felpe: «L'unico problema culturale lo ha creato chi come Salvini e la Lega Nord avvelena la società con i suoi proclami di odio e emargina il diverso, stigmatizzandolo» spiega l'ex ministra di origine congolese, che poi mette sullo stesso piano l'Isis e la Lega Nord. «Dobbiamo fermare tutti i moderni califfi fomentatori di odio, inclusi i nuovi professionisti dell'odio politico» come l'odiato Salvini. Sempre dal Pd è il giorno di Lia Quartapelle, giovane promessa di partito alla Farnesina e poi sfumata, che su La7 ha ripetuto la vecchia storia sulle paure sfruttate dagli estremisti di destra, «che fanno lo stesso gioco dei terroristi», mentre «nessun terrorismo è di matrice religiosa». Tutti allievi, però, di Laura Boldrini, che vorrebbe persino epurare il dizionario: «la parola “clandestino” - spiegò - andrebbe cancellata, è carica di pregiudizio e negatività». Gli islamofobi, invece, direttamente ai campi di rieducazione.

A Servizio Pubblico l'islam che sta coi macellai di Parigi: "Fascisti, se la sono cercata". Gli inviati di Santoro nelle banlieue francesi danno voce alla rabbia dei musulmani: "Hanno fatto bene ad ammazzarli, erano razzisti", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. È la storia di due ragazzi di banlieue sprofondati nell’abisso dell’estremismo e del terrore. Sono Cherif e Said Kouachi, i due franco-algerini di 32 e 34 anni, che ieri hanno insanguinato la Francia nella strage contro Charlie Hebdo.  Eppure, il primo era ben noto all’antiterrorismo di Parigi, condannato nel 2008 per aver partecipato alla filiera delle Buttes-Chaumont, cellula islamica del nord della capitale che tra il 2003 e il 2005 era impegnata nella recluta di combattenti per al Qaeda in Iraq. Ed è proprio in queste banlieue che, ieri sera, Servizio Pubblico ha portato le proprie telecamere. Nel salotto di Michele Santoro va in scena il volto violento dell'islam. "Hanno fatto bene ad ammazzarli - tuona un intervistato - erano razzisti". "Non sono stati gli islamici - fa eco un altro - è tutta una trappola". La strage alla redazione parigina di Charlie Hebdo fa da margine. Eppure le dodici persone ammazzate gridano ancora vendetta. I jihadisti che le hanno fatte fuori a colpi di kalashnikov sono ancora a piede libero. E a Servizio Pubblico c'è pure chi li giustifica, chi li difende, chi è pronto a stare dalla loro parte. Dalla parte dei violenti. Per Santoro, invece, è l'occasione buona per invitare i francesi a non votare il Front National di Marine Le Pen. Perché, a conti fatti, l'unica paura della sinistra è che alla fine vincano i partiti che loro considerano "islamofobi". Dal Partito democratico all'intellighenzia progrsessista non c'è una voce che grida contro il violento diffondersi dell'estremismo islamico. Sono tutti concentrati a tuonare contro la destra che, dall'Italia alla Francia, vede crescere i propri consensi di giorno in giorno. Eppure gli stessi servizi trasmessi dagli inviati di Servizio Pubblico parlano chiaro. Il quartiere di Saint Denis è la fotografia della polveriera su cui siede l'intera europa. Qui la concentrazione di immigrati è altissima. La stragrande maggioranza sono di fede islamica. E sono pronti a difendere, anche davanti alle telecamere, il massacro alla redazione di Charlie Hebdo. "Adesso daranno la colpa a noi - si lamenta un giovane - è sempre così". "Se è successo quello che è successo - fa eco un altro - è perché qualche colpa quelli di Charlie Hebdo ce l'hanno avuta". E ancora: "Se si offende il Profeta è naturale che qualcuno si vendichi". Mentre nelle piazze parigine si manifesta al grido Je suis Charlie, a Saint Denis di solidarietà per le dodici persone ammazzate non c'è spazio. Anche a Reims, città dei fratelli Said e Cherif Kouachi, la musica è la stessa. Nel quartiere di Croix Rouge, dove vivevano i due terroristi islamici, sono molti disposti a difenderli: "Li conoscevo, non sono terroristi". "Non possono essere stati loro - assicura un altro - è tutto un complotto".

Non eravate americani, ora non siete Charlie. Ieri come oggi dichiararsi tutti paladini della libertà è una menzogna vigliacca. Perché abbiamo rinunciato da tempo alla certezza di stare dalla parte giusta, scrive Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. Bugiardi, quelli che dicono o scrivono «Siamo tutti Charlie Hebdo». Mentono ora, come hanno mentito quasi 14 anni fa, quando scrivevano o dicevano «siamo tutti americani», all'indomani dell'11 settembre. È una vigliacca menzogna e qui non si parla del sentirsi oggi paladini della libertà di stampa e di satira. Qui si parla di molto di più. Dell'Occidente che si mette sul petto o sull'account dei social network lo slogan per sentirsi parte di qualcosa alla quale in realtà ha rinunciato da tempo: la certezza di stare dalla parte giusta. Ci abbiamo rinunciato quando abbiamo accettato che passasse la filosofia dei «distinguo». Il fanatismo islamico non conosce differenze: colpisce Stati e persone, militari e civili, cultura e satira. Uccide senza pietà, come ha fatto a Parigi. E la nostra risposta è il dubbio che in fondo ce la siamo cercata. O di più: che magari ci sia sotto la complicità o la manina di chissà quale potere o servizio segreto. La teoria del complotto sulla strage di Charlie Hebdo adesso appartiene a Beppe Grillo, ma presto penetrerà un pezzetto alla volta esattamente come è accaduto 14 anni fa per le Torri Gemelle. È uno dei sintomi della nostra sconfitta preventiva, questo. Aiuta la rimozione, la presa di distanza dall'evento che sconvolge le nostre coscienze nell'immediato, ma poi passa via. Il paragone con l'11 settembre sta in questo: è un ricordo sbiadito, una memoria residua, una rievocazione appannata. Dov'è finito il «siamo tutti americani» del giorno dopo? Non c'è: è sparito così in fretta da non lasciare più spazio nemmeno alla retorica. Quattordici anni sono pochi per ridurre solo a una data il momento che ha cambiato la storia, eppure non c'è un altro fatto che sia diventato passato con la stessa velocità. Sembra che l'Occidente abbia un pudore tutto suo ad alimentare la memoria e a piangere i propri morti: qualcosa che assomiglia alla paura di dare fastidio all'islam e alla vergogna per essersi sentiti tutti colpiti al cuore. Ricordiamo ossessivamente il 25 aprile, nonostante molti di noi non fossero neanche nati quel giorno e invece dimentichiamo l'11 settembre che invece abbiamo vissuto in diretta. Il secondo sintomo della nostra sconfitta sta nell'incapacità di accettare che a una guerra sporca si risponde con leggi straordinarie e a volte anche con qualcosa che sta al confine con la legge. L'hanno fatto tutti i Paesi occidentali quando hanno battuto il terrorismo domestico. Con il terrore internazionale no. Di più, abbiamo messo in discussione tutto: l'apertura di Guantanamo, gli interrogatori ai presunti terroristi, gli arresti dei sospetti. Abbiamo fatto passare i servizi segreti di tutto il mondo per criminali. Abbiamo rinunciato di fatto alla guerra in Afghanistan, convinti che i presupposti fossero sbagliati. Così via alla guerra del drone che ha pulito molte coscienze, ma in realtà ha fatto molti più morti. Anche la clamorosa campagna di autocritica sulle torture è stata un errore colossale. Noi processiamo (soprattutto noi stessi), loro fanno stragi. Allora, che significato ha il nostro senso di colpa? È una sconfitta doppia, perché rende l'Occidente ancora più vulnerabile. Qualcuno davvero pensa che se i governi avessero usato o usassero solo mezzi totalmente leciti la violenza cesserebbe o si ridurrebbe? No. Anzi, forse è il contrario. L'Occidente darebbe il segnale della sua debolezza e presterebbe il fianco a un'escalation del fanatismo. I fondamentalisti attaccano nel centro di una metropoli europea con i kalashnikov e noi applichiamo leggi ordinarie? Non abbiamo capito. Non capiamo. Non capisce soprattutto la politica, assente da 14 anni nel dibattito sulla guerra al terrorismo. Guardate l'imbarazzante reazione dell'Europa ai fatti di Parigi: non una sola voce comune, né tantomeno una voce forte di condanna o di presa d'atto che si tratta di una guerra dichiarata sul nostro territorio. L'Europa non esiste, punto. E più che sull'euro, sulla crisi, sull'austerità, lo dimostra sul terrorismo. Siamo in balia della nostra apatia e della nostra ideologia remissiva: la verità è che ci siamo autoconvinti che l'Occidente sia colpevole. Le immagini di Parigi hanno fatto rimbalzare quelle di Londra 2013, quando due inglesi di origine nigeriana uccisero sgozzandoli due agenti nell'indifferenza collettiva. Nessuna reazione. Paura, punto. L'Occidente si protegge chiedendo scusa. Perché? Ci siamo dimenticati che non siamo noi quelli dalla parte sbagliata. Ci siamo dimenticati che noi siamo le vittime.

Sull'islam aveva ragione quella "pazza" di Oriana Fallaci. L'odio per l'Occidente, il fallimento dell'integrazione: in queste righe sembra di leggere la cronaca di oggi, scrive Oriana Fallaci su “Il Giornale”. Leggete queste righe come fossero un saggio scritto ieri, e avrete una valida analisi dei fatti di attualità degli ultimi giorni. Ma, com'è ovvio, le righe che seguono sono state scritte da Oriana Fallaci non in queste ore, ma all'indomani dell'11 settembre del 2001, dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Parole scritte con rabbia e con l'intensità di cui lei era capace, ma anche con coraggio. Un coraggio che dette fastidio a chi preferiva non intendere le sue ragioni. Abbiamo deciso di ripubblicare un estratto dei suoi scritti sul rapporto tra l'Islam e l'Occidente, che si possono leggere in versione integrale nei libri editi da Rizzoli:

Con "La rabbia e l'orgoglio" (2001), Oriana Fallaci rompe un silenzio durato dieci anni, dalla pubblicazione di "Insciallah", epico romanzo sulla missione occidentale di pace nella Beirut dilaniata dallo scontro tra cristiani e musulmani e dalle faide con Israele. Dieci anni in cui la Fallaci sceglie di vivere ritirata nella sua casa newyorchese, come in esilio, a combattere il cancro. Ma non smette mai di lavorare al testo narrativo dedicato alla sua famiglia, quello che lei chiama "il-mio-bambino", pubblicato postumo nel 2008, "Un cappello pieno di ciliege". L'undici settembre le impone di tornare con furia alla macchina da scrivere per dar voce a quelle idee che ha sempre coltivato nelle interviste, nei reportage, nei romanzi, ma che ha poi "imprigionato dentro il cuore e dentro il cervello" dicendosi "tanto-la-gente-non-vuole-ascoltare". Il risultato è un articolo sul "Corriere della Sera" del 29 settembre 2001, un sermone lo definisce lei stessa, accolto con enorme clamore in Italia e all'estero. Esce in forma di libro nella versione originaria e integrale, preceduto da una prefazione in cui la Fallaci affronta alle radici la questione del terrorismo islamico e parla di sé, del suo isolamento, delle sue scelte rigorose e spietate. La risposta è esplosiva, le polemiche feroci. Mentre i critici si dividono, l'adesione dei lettori, in tutto il mondo, è unanime di fronte alla passione che anima queste pagine.

"La forza della ragione" (2004) voleva essere solo un post-scriptum intitolato "Due anni dopo", cioè una breve appendice a "La rabbia e l'orgoglio". Ma quando ebbe concluso il lavoro, Oriana Fallaci si rese conto di aver scritto un altro libro. L'autrice parte stavolta dalle minacce di morte ricevute per "La rabbia e l'orgoglio" e, identificandosi in tal Mastro Cecco che a causa di un libro venne bruciato vivo dall'Inquisizione, si presenta come una Mastra Cecca che, eretica irriducibile e recidiva, sette secoli dopo fa la stessa fine. Tra il primo e il secondo rogo, l'analisi di ciò che chiama l'Incendio di Troia, ossia di un'Europa che a suo giudizio non è più Europa, ma Eurabia, colonia dell'Islam.

Oriana Fallaci intervista se stessa (2004).  “Scrivere per libertà e disobbedienza”: è il monito che ha sempre guidato Oriana Fallaci e che ha ispirato anche questo libro, terzo e ultimo volume della Trilogia iniziata con La Rabbia e l’Orgoglio (2001) e proseguita con La Forza della Ragione (2004). Completando le sue riflessioni sul declino morale e intellettuale della nostra civiltà, la grande scrittrice costruisce una lunga intervista a sé stessa e la arricchisce con uno straordinario Post-Scriptum che si rifà all’Apocalisse dell’evangelista Giovanni. Con la sua scrittura magistrale, potente, provocatoria, la Fallaci ci offre un’accorata testimonianza della sua vita e del suo pensiero: scrive con la consueta schiettezza di terrorismo islamico e della crisi europea, racconta la sua lotta contro il cancro, rimarca principi etici da difendere senza compromessi, colpisce con durissimi fendenti la pavidità della politica e traccia il ritratto senza sconti di un Occidente rassegnato e indifeso, sempre più prossimo al rischio di andare in frantumi.

Un atto di giustizia rileggerli oggi che il quadro è ancora più chiaro e molti, che le davano della pazza, sono costretti ad ammettere che invece ci aveva visto giusto.

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Sono anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia». Anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell'Apocalisse dell'evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna. Incominciai con La Rabbia e l'Orgoglio . Continuai con La Forza della Ragione . Proseguii con Oriana Fallaci intervista sé stessa e con L'Apocalisse . I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia di destra». E sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra all'Occidente, Culto della Morte, Suicidio dell'Europa, Sveglia Italia Sveglia.

Il nemico è in casa. Continua la fandonia dell'Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo. E con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un'esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in Paesi lontani. Be', il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ed è un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente inserito nel-nostro sistema sociale. Cioè col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. È un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Un nemico che in nome dell'umanitarismo e dell'asilo politico accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all'imam. Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l'esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca.

Il crocifisso sparirà. Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l'alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioè «col liquore». E attenta a non ripeter l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioè pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino.

Dialogo tra civiltà. Apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell'Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall'Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c'è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta. L'Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà.

Una strage in Italia? La strage toccherà davvero anche a noi, la prossima volta toccherà davvero a noi? Oh, sì. Non ne ho il minimo dubbio. Non l'ho mai avuto. E aggiungo: non ci hanno ancora attaccato in quanto avevano bisogno della landing-zone, della testa di ponte, del comodo avamposto che si chiama Italia. Comodo geograficamente perché è il più vicino al Medio Oriente e all'Africa cioè ai Paesi che forniscono il grosso della truppa. Comodo strategicamente perché a quella truppa offriamo buonismo e collaborazionismo, coglioneria e viltà. Ma presto si scateneranno. Molti italiani non ci credono ancora. Si comportano come i bambini per cui la parola Morte non ha alcun significato. O come gli scriteriati cui la morte sembra una disgrazia che riguarda gli altri e basta. Nel caso peggiore, una disgrazia che li colpirà per ultimi. Peggio: credono che per scansarla basti fare i furbi cioè leccarle i piedi.

Multiculturalismo, che panzana. L'Eurabia ha costruito la panzana del pacifismo multiculturalista, ha sostituito il termine «migliore» col termine «diverso-differente», s'è messa a blaterare che non esistono civiltà migliori. Non esistono principii e valori migliori, esistono soltanto diversità e differenze di comportamento. Questo ha criminalizzato anzi criminalizza chi esprime giudizi, chi indica meriti e demeriti, chi distingue il Bene dal Male e chiama il Male col proprio nome. Che l'Europa vive nella paura e che il terrorismo islamico ha un obbiettivo molto preciso: distruggere l'Occidente ossia cancellare i nostri principii, i nostri valori, le nostre tradizioni, la nostra civiltà. Ma il mio discorso è caduto nel vuoto. Perché? Perché nessuno o quasi nessuno l'ha raccolto. Perché anche per lui i vassalli della Destra stupida e della Sinistra bugiarda, gli intellettuali e i giornali e le tv insomma i tiranni del politically correct , hanno messo in atto la Congiura del Silenzio. Hanno fatto di quel tema un tabù.

Conquista demografica. Nell'Europa soggiogata il tema della fertilità islamica è un tabù che nessuno osa sfidare. Se ci provi, finisci dritto in tribunale per razzismo-xenofobia-blasfemia. Ma nessun processo liberticida potrà mai negare ciò di cui essi stessi si vantano. Ossia il fatto che nell'ultimo mezzo secolo i musulmani siano cresciuti del 235 per cento (i cristiani solo del 47 per cento). Che nel 1996 fossero un miliardo e 483 milioni. Nel 2001, un miliardo e 624 milioni. Nel 2002, un miliardo e 657 milioni. Nessun giudice liberticida potrà mai ignorare i dati, forniti dall'Onu, che ai musulmani attribuiscono un tasso di crescita oscillante tra il 4,60 e il 6,40 per cento all'anno (i cristiani, solo 1'1 e 40 per cento). Nessuna legge liberticida potrà mai smentire che proprio grazie a quella travolgente fertilità negli anni Settanta e Ottanta gli sciiti abbiano potuto impossessarsi di Beirut, spodestare la maggioranza cristiano-maronita. Tantomeno potrà negare che nell'Unione Europea i neonati musulmani siano ogni anno il dieci per cento, che a Bruxelles raggiungano il trenta per cento, a Marsiglia il sessanta per cento, e che in varie città italiane la percentuale stia salendo drammaticamente sicché nel 2015 gli attuali cinquecentomila nipotini di Allah da noi saranno almeno un milione.

Addio Europa, c'è l'Eurabia. L'Europa non c'è più. C'è l'Eurabia. Che cosa intende per Europa? Una cosiddetta Unione Europea che nella sua ridicola e truffaldina Costituzione accantona quindi nega le nostre radici cristiane, la nostra essenza? L'Unione Europea è solo il club finanziario che dico io. Un club voluto dagli eterni padroni di questo continente cioè dalla Francia e dalla Germania. È una bugia per tenere in piedi il fottutissimo euro e sostenere l'antiamericanismo, l'odio per l'Occidente. È una scusa per pagare stipendi sfacciati ed esenti da tasse agli europarlamentari che come i funzionari della Commissione Europea se la spassano a Bruxelles. È un trucco per ficcare il naso nelle nostre tasche e introdurre cibi geneticamente modificati nel nostro organismo. Sicché oltre a crescere ignorando il sapore della Verità le nuove generazioni crescono senza conoscere il sapore del buon nutrimento. E insieme al cancro dell'anima si beccano il cancro del corpo.

Integrazione impossibile. La storia delle frittelle al marsala offre uno squarcio significativo sulla presunta integrazione con cui si cerca di far credere che esiste un Islam ben distinto dall'Islam del terrorismo. Un Islam mite, progredito, moderato, quindi pronto a capire la nostra cultura e a rispettare la nostra libertà. Virgilio infatti ha una sorellina che va alle elementari e una nonna che fa le frittelle di riso come si usa in Toscana. Cioè con un cucchiaio di marsala dentro l'impasto. Tempo addietro la sorellina se le portò a scuola, le offrì ai compagni di classe, e tra i compagni di classe c'è un bambino musulmano. Al bambino musulmano piacquero in modo particolare, così quel giorno tornò a casa strillando tutto contento: «Mamma, me le fai anche te le frittelle di riso al marsala? Le ho mangiate stamani a scuola e...». Apriti cielo. L'indomani il padre di detto bambino si presentò alla preside col Corano in pugno. Le disse che aver offerto le frittelle col liquore a suo figlio era stato un oltraggio ad Allah, e dopo aver preteso le scuse la diffidò dal lasciar portare quell'immondo cibo a scuola. Cosa per cui Virgilio mi rammenta che negli asili non si erige più il Presepe, che nelle aule si toglie dal muro il crocifisso, che nelle mense studentesche s'è abolito il maiale. Poi si pone il fatale interrogativo: «Ma chi deve integrarsi, noi o loro?».

L'islam moderato non esiste. Il declino dell'intelligenza è il declino della Ragione. E tutto ciò che oggi accade in Europa, in Eurabia, ma soprattutto in Italia è declino della Ragione. Prima d'essere eticamente sbagliato è intellettualmente sbagliato. Contro Ragione. Illudersi che esista un Islam buono e un Islam cattivo ossia non capire che esiste un Islam e basta, che tutto l'Islam è uno stagno e che di questo passo finiamo con l'affogar dentro lo stagno, è contro Ragione. Non difendere il proprio territorio, la propria casa, i propri figli, la propria dignità, la propria essenza, è contro Ragione. Accettare passivamente le sciocche o ciniche menzogne che ci vengono somministrate come l'arsenico nella minestra è contro Ragione. Assuefarsi, rassegnarsi, arrendersi per viltà o per pigrizia è contro Ragione. Morire di sete e di solitudine in un deserto sul quale il Sole di Allah brilla al posto del Sol dell'Avvenir è contro Ragione.

Ecco cos'è il Corano. Perché non si può purgare l'impurgabile, censurare l'incensurabile, correggere l'incorreggibile. Ed anche dopo aver cercato il pelo nell'uovo, paragonato l'edizione della Rizzoli con quella dell'Ucoii, qualsiasi islamista con un po' di cervello ti dirà che qualsiasi testo tu scelga la sostanza non cambia. Le Sure sulla jihad intesa come Guerra Santa rimangono. E così le punizioni corporali. Così la poligamia, la sottomissione anzi la schiavizzazione della donna. Così l'odio per l'Occidente, le maledizioni ai cristiani e agli ebrei cioè ai cani infedeli.

La Parigi della Fallaci capitale d'Eurabia e dei collaborazionisti. Nella Trilogia, molti passi sulla Francia ormai contro-colonizzata dall'immigrazione musulmana. Colpa (anche) degli intellettuali,, scrive Alessandro Gnocchi su “Il Giornale”. Secondo Oriana Fallaci, Parigi era la capitale d'Eurabia. Quest'ultimo termine, introdotto nel dibattito dalla storica Bat Ye'Or (in Eurabia , Lindau), descrive il futuro del Vecchio Continente dilaniato al suo interno dallo scontro con l'islam. Alla radice ci sono gli accordi di cooperazione tra Europa e Paesi arabi firmati negli anni Settanta. L'Europa avrebbe fornito tecnologia ai Paesi arabi in cambio di greggio e manodopera. Si teorizzava la necessità di una forte immigrazione, presto diventata accesso incontrollato, verso le nostre sponde. La massiccia presenza di stranieri in Europa, secondo la Fallaci, era il cavallo di Troia di una colonizzazione al contrario. Rileggiamo La Forza della Ragione (Rizzoli, 2004). Per i difensori dell'Occidente, Parigi è persa. «Non è facile avere coraggio in un Paese dove esistono più di tremila moschee» e i musulmani sono così numerosi (ben oltre l'ufficiale dieci per cento della popolazione). In Francia «il razzismo islamico cioè l'odio per i cani-infedeli regna sovrano e non viene mai processato, mai punito». Gli imam dichiarano di voler sfruttare la democrazia «per occupare territorio» e sovvertire le leggi laiche in favore della sharia. L'antisemitismo è in crescita. I quartieri di troppe città, stravolte dal cambiamento demografico, hanno perso l'identità francese per acquisire quella magrebina. Di fronte a queste tesi, l'intellighentia scese compatta in campo per screditare la Fallaci. La giornalista fu tra i primi, in Europa, a sperimentare strumenti ed effetti del politicamente corretto. Ripercorriamo questa vicenda esemplare. La Rabbia e l'Orgoglio (Rizzoli) esce a Parigi nel maggio 2002. Mentre la prima tiratura di 25 mila copie va esaurita in due settimane, gli intellettuali si esibiscono sui giornali. Ad aprire la polemica è il settimanale Le Point . Secondo il filosofo Bernard-Henri Lévy, il libro della Fallaci è paragonabile alle peggiori opere antisemite come Bagatelle per un massacro di Louis-Ferdinand Céline: «È un libro razzista. Con meno talento, è un Bagatelle antiarabo». Stessa linea per Françoise Giroud su Le Nouvel Observateur : «La Fallaci tocca nel lettore qualcosa di profondo, d'inconfessato, che egli negherà sempre di aver pensato ma che queste pagine cariche di odio e di disprezzo rischiano di illuminare brutalmente». Il sociologo Gilles Kepel su Le Monde imputa al libro di aver sancito la vittoria di Osama bin Laden, trascinando l'Occidente sul campo della reazione isterica. Una voce fuori dal coro? Charlie Hebdo ammette la verità di fondo del libro. Ma anche il settimanale satirico, di fronte alla reazione dei lettori, è costretto a «ritrattare» (in parte). All'inizio di giugno, la Fallaci risponde sul Corriere della Sera . L'articolo Eppure con la Francia non sono arrabbiata è accompagnato da brani composti in francese per La Rabbia e l'Orgoglio e ora tradotti in italiano. In breve: la specie tutta europea dei «voltagabbana» (o collaborazionisti) trova la sua origine e massima espressione in Francia fin dal Medioevo. Tra i voltagabbana più abili nello schierarsi sempre dalla parte vincente, ci sono gli intellettuali. Oggi ha vinto il politicamente corretto. E quindi... «Queste creature patetiche, inutili, questi parassiti. Questi falsi sanculotti che vestiti da ideologi, giornalisti, scrittori, teologi, cardinali, attori, commentatori, puttane à la page, grilli canterini, giullari usi a leccare i piedi ai Khomeini e ai Pol Pot, dicono solo ciò che gli viene ordinato di dire. Ciò che gli serve a entrare o restare nel jet-set pseudointellettuale, a sfruttarne i vantaggi e i privilegi, a guadagnar soldi». Gli intellettuali hanno rimpiazzato l'ideologia marxista con la «viscida ipocrisia» che «in nome della Fraternité (sic) predica il pacifismo a oltranza cioè ripudia perfino la guerra che abbiamo combattuto contro i nazifascismi di ieri, canta le lodi degli invasori e crucifigge i difensori». La cultura è il regno delle mode. La moda «o meglio l'inganno che in nome dell'Humanitarisme (sic) assolve i delinquenti e condanna le vittime, piange sui talebani e sputa sugli americani, perdona tutto ai palestinesi e nulla agli israeliani». La moda «o meglio la demagogia che in nome dell'Égalité (sic) rinnega il merito e la qualità, la competizione e il successo». La moda «o meglio la cretineria che in nome della Justice (sic) abolisce le parole del vocabolario e chiama gli spazzini “operatori ecologici”». La moda «o meglio la disonestà, l'immoralità, che definisce “tradizione locale” e “cultura diversa” l'infibulazione ancora eseguita in tanti paesi musulmani». La moda di magnificare le conquiste culturali dell'islam per farlo apparire superiore all'Occidente. E infine la moda «che permette di stabilire un nuovo terrorismo intellettuale: quello di sfruttare a proprio piacimento il termine “razzismo”. Non sanno che cosa significa eppure lo usano lo stesso». Passano dieci giorni. Tre associazioni francesi denunciano la Fallaci per islamofobia e incitazione al razzismo. Era accaduto, poco prima, anche a Michel Houellebecq, a causa dei duri giudizi sull'islam contenuti nel romanzo Piattaforma (Bompiani) e ribaditi in un'intervista. Il tribunale di Parigi assolve la Fallaci mentre La Rabbia e l'Orgoglio supera le duecentomila copie. Quanta fatica sprecata per liquidare la Fallaci. Oriana guardava lontano mentre gli intellettuali non si sono accorti dei processi storici e delle ideologie di morte che hanno davanti agli occhi.

Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. L i chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio ; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell' Annie Taylor Award , il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero : «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle , la Patrie du Laïcisme , la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité , dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste , dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr ) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits , la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione . Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera , nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico» : «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.

La guerra siriana si combatteva in Italia. Tra il 2011 e il 2012 sono state commesse, tra Milano e Roma, più di venti azioni violente di chiara matrice jihadista con obiettivo soprattutto i cristiani. A rivelarlo è un'indagine della polizia e dai magistrati anti-terrorismo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Un piccolo spezzone della guerra civile siriana si è combattuto in Italia. Ma era ancora troppo presto per capirlo. Tra il 2011 e il 2012 sono state commesse, tra Milano e Roma, più di venti azioni violente di chiara matrice jihadista: ferimenti, aggressioni, pestaggi, danneggiamenti, devastazioni, minacce e intimidazioni. Le vittime appartengono alle minoranze politico-religiose più perseguitate dalle milizie islamiste in Siria: le violenze in Italia hanno colpito soprattutto cristiani. A rivelarlo è un'indagine, avviata dalla polizia e dai magistrati anti-terrorismo di Milano, che viene ricostruita in un articolo del settimanale “l'Espresso”. Da quando è esplosa la guerra civile in Siria, le forze di polizia di tutti i Paesi occidentali hanno cominciato a sorvegliare le partenze degli estremisti verso i fronti di guerra. A Milano la Digos ha messo sotto controllo, in particolare, un gruppo di siriani residenti da anni tra Milano, Como e Monza: spariti dall’Italia, sono ricomparsi, mitra in pugno, in una serie di foto e video pubblicati su Internet tra febbraio e luglio del 2012. Solo a quel punto la polizia, ricostruendo le loro precedenti attività in Italia, ha scoperto che quegli stessi jihadisti siriani avevano già colpito, segretamente, anche a casa nostra. L’unica azione visibile si è svolta nella notte del 10 febbraio 2012 nel centro di Roma: un plotone di oppositori siriani ha dato l’assalto all’ambasciata di Damasco, che è stata occupata e devastata. Quel raid di protesta contro il regime del presidente-dittatore Bashar El-Assad è stato organizzato proprio dal gruppo di estremisti che poi sono partiti per la guerra in Siria. Nei mesi successivi le indagini della polizia hanno collegato alla stessa cellula jihadista molte altre azioni violente, mai denunciate per paura. Tra le vittime, due siriani di fede cristiana, che gestivano un bar a Cologno Monzese. Il loro locale è stato devastato nell'estate 2011 da un commando di oltre trenta uomini armati di bastoni e spranghe di ferro. Sulla saracinesca è poi comparsa una scritta in arabo: «Per tutti i siriani: quelli che sono a favore del presidente devono stare attenti. In Siria ci penseremo noi. Quelli che ammazzano nel jihad, vivono con Dio». Nella primavera 2012, dopo altre gravi intimidazioni, i due cristiani hanno ceduto il bar e si sono trasferiti. Un altro agguato di stampo jihadista ha colpito due siriani che lavorano regolarmente tra Milano e la Brianza: uno è cristiano, l’altro della minoranza sciita-alauita, ma i loro amici più cari sono sunniti. Il 16 luglio 2011 hanno partecipato a una fiaccolata filo-Assad organizzata da un'associazione di cui fanno parte anche cittadini italiani. Mentre tornavano a casa in macchina, sono stati circondati e picchiati ferocemente da almeno 15 sprangatori jihadisti. Le due vittime, sanguinanti a terra, sono state salvate dall'arrivo dei carabinieri. Il cristiano è stato ricoverato al San Raffaele con una gamba spappolata e operato più volte. A una spedizione punitiva è sfuggito anche un religioso legato alla Fratellanza Musulmana, il partito allora al potere in Egitto, che aveva messo al bando le sette jihadiste dalle moschee milanesi. A quel punto l’ala dura dei salafiti siriani lo ha minacciato di morte: «Sei un traditore.... Ti uccideremo a coltellate... Ti sgozzeremo come un cane». Dopo mesi di indagini, la Digos ha smascherato gli esponenti più violenti del gruppo jihadista milanese. Ma a quel punto erano già partiti tutti per la guerra. Uno dei più sanguinari è stato identificato in due video-choc, girati in Siria nel maggio 2012 (e scoperti da un fotoreporter della Rai): con il mitra a tracolla, si è fatto riprendere con un plotone di uomini armati, mentre uccidevano con un colpo alla testa sette prigionieri di guerra, legati e torturati.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

Le vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.

Magdi come la Fallaci processati per le loro idee. La scrittrice finì alla sbarra in Italia, Francia e Svizzera per i suoi scritti sul pericolo islamico E anche lei diceva: «Non mi faccio intimidire», scrive “Il Giornale”. Li chiamava «i miei trofei». E di «trofei», alias processi per reato d'opinione a causa delle idee sull'islam espresse in libri e articoli, Oriana Fallaci ne ha subiti diversi nel corso della sua vita, in tutta Europa, dalla Francia alla Svizzera. E naturalmente pure in Italia, anche se l'ultimo, a Bergamo, è cominciato a giugno del 2006, due mesi prima che lei morisse, il 15 settembre. Oriana Fallaci come Magdi Cristiano Allam, anzi molto di più. A parte «l'amicizia complessa», così la definì Allam quando lei morì, che li legava sul fronte comune della denuncia dei pericoli del fondamentalismo islamico e del suo radicamento in Europa, c'è anche la persecuzione per via giudiziaria delle opinioni che li accomuna. Per Allam, oggi, si tratta di un procedimento avviato dal Consiglio di disciplina nazionale dell'Ordine dei giornalisti che lo accusa di «islamofobia». Per la Fallaci, all'epoca, erano invece veri e propri processi penali, per vilipendio all'islam, razzismo, xenofobia. La sostanza, però, non cambia: vietato essere critici nei confronti dei musulmani, pena la gogna, anche giudiziaria. Si arrabbiava, la Fallaci, per quei quattro processi: due in Francia, a partire dal 2002 (quello per «razzismo», nel 2003, si chiuse con la sua assoluzione) e uno in Svizzera, tutti legati a La rabbia e l'orgoglio ; e un altro in Italia, nel 2006, finito con la sua morte. Li chiamava sì trofei ma li riteneva profondamente ingiusti. Ecco come lei stessa li raccontava a novembre del 2005 nel discorso di ringraziamento per il conferimento dell' Annie Taylor Award , il cui testo è stato pubblicato qualche giorno fa da Libero : «I trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni Paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle , la Patrie du Laïcisme , la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité , dove per vilipendio all'islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste , dove tre anni fa gli ebrei francesi della Licra (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica in fronte) si unì ai musulmani francesi del Mrap (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l'Orgueil (La rabbia e l'orgoglio, ma la richiesta fu respinta, ndr ) o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: “Attenzione! Questo libro può costituire un pericolo per la vostra salute mentale”. Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweits , la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il ministro della Giustizia osò chiedere al mio ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell'islam viene impartita nel mio paese». Era furibonda, la Fallaci, per il processo di Bergamo, legato ad alcune affermazioni contenute in La forza della ragione . Un processo travagliato, partito dalla denuncia, nel 2004, di Adel Smith, il presidente all'epoca del'Unione dei Musulmani d'Italia che aveva definito il crocifisso un «cadaverino nudo inventato per spaventare i bambini musulmani». Il pm aveva chiesto l'archiviazione per la Fallaci, ma il gip l'aveva rigettata, imponendo l'imputazione coatta. Ecco cosa scriveva la stessa Fallaci a luglio del 2005, sul Corriere della Sera, nel celebre articolo dopo gli attentati di Londra «Il nemico che trattiamo da amico» : «Mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al cristianesimo. Nonché per istigazione all'omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l'esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi, anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo Van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro dell'Interno dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia». Al processo, iniziato il 9 giugno del 2006, la Fallaci non si presentò per scelta. Per quel processo ricevette attestati di solidarietà da mezzo mondo, pure dall'ex presidente polacco Lech Walesa. E quel processo finì nel nulla. Alla fine lo beffò la morte della giornalista e scrittrice, il 15 settembre del 2006.

L’ordine dei giornalisti contro Allam così si calpesta la libertà di opinione, scrive Pierluigi Battista su “Il Corriere della Sera”. Trasformare in un crimine un’opinione, per quanto criticabile, non dovrebbe rientrare nei compiti di uno Stato che voglia conservare la sua anima liberale, figurarsi di un Ordine professionale come quello dei giornalisti. E invece mettere sotto accusa le opinioni di un commentatore come Magdi Cristiano Allam è diventato l’occupazione estiva dell’Ordine dei giornalisti. Una parodia dell’Inquisizione che fa di un’associazione di categoria, nata durante il fascismo e senza eguali in nessun’altra democrazia liberale con l’eccezione del post-salazariano Portogallo, un tribunale abusivo che si permette di interpretare a suo modo i princìpi della libertà di espressione e che si permette di emettere verdetti sulle opinioni espresse da un proprio associato. Già l’Italia è caricata da una pletora di reati d’opinione mai smaltiti in tutti gli anni della Repubblica post-fascista. Non c’è bisogno di processi aggiuntivi istruiti da chi si arroga il diritto di giudicare le opinioni altrui solo perché munito del tesserino di un Ordine professionale. Se un giornalista commette un reato, dovrà essere giudicato come tutti gli altri cittadini da un Tribunale della Repubblica. Piccoli tribunali del popolo che si impancano a misuratori dell’eventuale «islamofobia» di Allam sono invece pallide imitazioni di epoche autoritarie che non distinguevano tra reato e opinione. Mentre la libertà d’opinione, dovremmo averlo imparato, è indivisibile e non dovrebbe essere manipolata a seconda delle predilezioni ideologiche. Si vuole criticare Allam? In Italia c’è il pluralismo della critica e dell’informazione e il conflitto delle idee è il sale di una democrazia liberale. La giustizia fai da te, i tribunali delle corporazioni che si permettono di intromettersi non su un comportamento, o su una grave negligenza professionale, bensì sul contenuto di un articolo, sono invece il residuo di un’intolleranza antica, e che non sopporta la diversità delle opinioni, anche delle più estreme. Per cui i censori dell’Ordine potrebbero rimettere nel cassetto i loro processi, togliersi la toga dell’inquisitore e ammettere di aver commesso un errore. Non è mai troppo tardi per la scoperta della libertà.

Caso Allam, una decisione sconcertante. Su "Il Giornale", il presidente dell'Odg: "Magdi potrà difendersi". Ma la vicenda resta sconcertante risponde Alessandro Sallusti.

Caro direttore, leggo i servizi dedicati all'Odg in relazione a una vicenda che riguarda Magdi Cristiano Allam. Debbo dirti che alcuni toni e non poche espressioni mi sconcertano. L'idea che ci siano degli intoccabili non appartiene alla mia cultura né, a leggere il Giornale, alla tua. Potrei tacere, perché solo un ignorante (nel senso che non conosce le cose) può non sapere che il Consiglio nazionale di disciplina è organismo autonomo, voluto come tale da una legge dello Stato. Ma, come ben sai personalmente, non amo le fughe, tanto da essere stato - doverosamente, a mio avviso, ma ugualmente andando contro «corrente» - accanto a te quando a Milano eri sotto processo. Se non si trattasse di Allam mi verrebbe il sospetto che questa vicenda vien cavalcata per riaccendere l'attenzione su un impegno personale e politico. Ma le cose non stanno esattamente come si afferma, pur citando correttamente i passaggi di un capo di incolpazione. Non so, essendo estraneo all'organismo, come finirà. Ma so che ad Allam sono state accordate, doverosamente, tutte le opportunità di acquisire i documenti, contenuti nel fascicolo, che riterrà utili. Di più: ha eccepito che i termini di 30 giorni non gli erano sufficienti e gli uffici, mi assicurano, gli hanno formalizzato un prolungamento che, mi riferiscono, è stato di sua soddisfazione. Ma si tende a trasmettere una informazione distorta. Allam non è stato processato. Ci si è limitati a ritenere «non manifestamente infondato» un esposto presentato da una associazione (sconosciuta, perchè sul web non c'è traccia), «Media e diritto», che si duole per alcune affermazioni contenute suoi articoli. Personalmente non mi sarei sentito oltraggiato (ma non mi sento «intoccabile», come scritto in premessa), ma, anzi, avrei colto la notizia non tanto (né solo) come l'opportunità di rivendicare la possibilità di dire quel che penso, ma anche per argomentarne più approfonditamente le ragioni. Ancor di più, non mi sarei scandalizzato perché questa procedura conferma che non ci sono «intoccabili» e che le ragioni di tutti vengono valutate con attenzione. Una differenza non marginale, ad esempio e senza generalizzazioni, con chi vive di una giustizia, sommaria e tutta sua, sgozzando davanti alla telecamera un giornalista. Enzo Iacopino, Presidente dell'Ordine nazionale dei giornalisti.

Caro presidente, in effetti ho provato sulla mia pelle la tua solidarietà e te ne sono riconoscente e grato. Il che non ha impedito che nostri solerti colleghi mi ri-processassero, nonostante la «grazia» che mi ha concesso il presidente Napolitano, e condannassero a due mesi di sospensione (l'appello, come saprai è a giorni). Ma questa è un'altra storia. È vero, come dici, che non ci devono essere intoccabili, ma chissà perché chi la pensa in un certo modo è più toccato di altri. E quando ad allungare le mani sono colleghi od organi che sia pure autonomi riconducibili all'Ordine dei giornalisti, allora mi preoccupo. Mi piacerebbe che l'Ordine, e tutto ciò che ruota attorno ad esso, si battesse sempre e comunque per la libertà di pensiero ed espressione, di chiunque. Perché è questo, per stare in tema, che distingue la nostra società da quella islamica, il più delle volte fondata sulla sharia. A quei signori che hanno fatto l'esposto bastava spiegare questa semplice verità non trattabile: ci spiace, ma da noi si è liberi di pensare, dire e scrivere, ciò che si crede, per eventuali reati rivolgersi alla magistratura ordinaria. Alessandro Sallusti.

Vogliono toglierci la libertà di critica. Il cardine della democrazia è mettere in discussione (anche) le religioni, scrive Ida Magli su "Il Giornale". Islamofobia: strano concetto da usare in un procedimento disciplinare. «Fobia» è, infatti, termine medico che definisce un particolare disturbo psichico, presente in genere nelle nevrastenie, e che si presenta come paura, ripulsione non infrenabile nei confronti di un qualsiasi fenomeno della realtà. Freud ha aggiunto poi, con le teorie psicoanalitiche sull'inconscio, una spiegazione ulteriore del comportamento fobico affermando che il paziente è indotto a razionalizzare la propria fobia attribuendola agli aspetti negativi degli oggetti o delle persone di cui teme. Siamo sempre nel campo della psichiatria. Da qualche anno tuttavia, in Europa, e in Italia in particolar modo, le accuse di «fobia» si sprecano. Non si può aprire bocca su un qualsiasi argomento senza incorrere in questo rischio. Sarebbe bene, invece, cominciare a ricordarsi quanto cammino abbiamo fatto, quante lotte intellettuali e fisiche abbiamo dovuto sostenere, soprattutto noi, gli italiani, per giungere alla civiltà cui oggi apparteniamo. Abbiamo sofferto e pagato con il carcere e con il sangue non tanto la libertà concreta, quanto la certezza della ricerca scientifica e delle sue conoscenze, disgiunta dal pensiero filosofico, da quello politico e da qualsiasi fede religiosa. Finalmente siamo giunti anche noi, italiani, a poter godere di una democrazia totalmente laica in cui il rispetto per le convinzioni dei singoli cittadini non comporta l'impossibilità di discuterle. Questo è il punto fondamentale di una democrazia sicura di se stessa e della forza della propria libertà: ogni cittadino può e deve poter parlare con tutti gli altri di qualsiasi argomento perché vive in un gruppo ed è la vita di gruppo che forma una società e un popolo. È secondo questi principi di convivenza nella democrazia che si ha il diritto, ma soprattutto il dovere, di discutere delle religioni. Oggi nessuno ritiene, in nessuna parte del mondo, che le religioni non facciano parte integrante delle culture e delle società. E ogni religione, proprio perché religione (religio è legame fra più individui) non è un fatto privato, né può essere trattato da nessuno, né singoli né governi né istituzioni, come un fatto privato. In Italia, poi, per la sua particolare storia, le discussioni e le critiche, anche fortissime, ad associazioni cattoliche, a vescovi, a parroci, a Papi, non sono mai mancate. Sarebbe sufficiente ricordarsi i dibattiti appassionati per la legislazione sul divorzio e sull'aborto. I cattolici hanno fatto allora tutto il possibile per sostenere le loro tesi che erano appunto fondate su norme dettate da un testo sacro, il Vangelo; altrettanto hanno fatto i partiti laici, e alla fine si sono svolti con assoluta libertà i relativi referendum. Cosa sarebbe stato dell'Italia, della democrazia in Italia, se qualcuno avesse pensato che i giornalisti non potevano discutere delle norme di un testo sacro, che bisognava porre loro il bavaglio, o intimorirli con provvedimenti disciplinari? Ho citato esplicitamente il Vangelo perché gli italiani possono supporre che il Corano, scritto diversi secoli dopo la venuta di Gesù, debba in qualche modo somigliargli, riprendere qualcuna delle sue tesi fondamentali. Siccome è vero il contrario perché il Corano è fondato sull'Antico Testamento, sulla legge del taglione, sulla vendetta contro i nemici, sull'obbligo di convertire gli infedeli, sui tabù dell'impurità, è quindi agli antipodi del Vangelo e agli antipodi della civiltà in cui viviamo. Visto che i musulmani sono già numerosissimi sul suolo italiano e aumentano ogni giorno, è dovere e diritto degli italiani sapere quali siano le norme di comportamento imposte da Maometto ai suoi fedeli, i quali, appunto in quanto fedeli, dovrebbero ritenerle giuste e averle fatte proprie. Ma chi dovrebbe informarli se non i giornalisti? L'ipocrisia non è nell'interesse di nessuno oggi in Italia. Intervengano i musulmani o i loro giornalisti (non gli imam) insieme a noi sui giornali e ci assicurino che, pur essendo fedeli a Maometto, ritengono sbagliate la giustizia del taglione, le norme sull'inferiorità e l'impurità delle donne, sulla fustigazione degli omosessuali, sulla lapidazione delle adultere, sull'uccisione degli infedeli... Noi gli crederemo.

Haisam Sakhanh, il jihadista che andava in tv all'Infedele di Gad Lerner, scrive “Libero Quotidiano”. L'orrore dei tagliagole, giorno dopo giorno, ora dopo ora, sconvolge l'Occidente. Solo poche ore fa, il video delle quattro sospette spie decapitate dai fanatici dell'Islam. Immagini strazianti, terrificanti, e che fanno ancor più paura perché è sempre più chiaro che i seguaci della jihad ce li abbiamo in casa. Sono molti, alcuni noti, altri no. C'è un Imam che giura: "Ci prenderemo il Vaticano". E c'è anche chi invece, in passato, andò in televisione. Due anni fa, per la precisione. Stiamo parlando di Haisam Sakhanh, nome di battaglia Abu Omar, che un tempo viveva nel milanese e che, una volta, si fece vedere negli studi de L'Infedele, la trasmissione di Gad Lerner su La7. Da mercoledì la procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui: la sua foto, ora, appare su tutti i giornali. Eppure era chiaro da tempo chi fosse, questo Abu Omar. Come ricorda Il Giornale, già nell'aprile del 2013 fu girato un video in cui il siriano-milanese si rese protagonista dell'orrore: assieme ad altri militanti prese parte all'esecuzione di 7 soldati filo-governativi, un colpo e testa e via, gli uomini in ginocchio vengono ammazzati. Nel 2012, inoltre, le autorità italiane non ritennero necessario svolgere qualche approfondimento su mister Haisam, ex elettricista a Cologno Monzese, e la sua rete: fu arrestato al termine di un assalto all'ambasciata di Roma. Haisam e i suoi vengono interrogati, indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata e rinviati a giudizio per direttissima. Ma non accadde nulla: tornò libero e riprese a fare proselitismi, nel nostro Paese, a Milano e hinterland. La replica di Lerner, via blog, arriva nel pomeriggio ed è velenosa. "Fra gli altri siriani che parteciparono alla trasmissione come pubblico, senza intervenire, scopriamo ora da una fotografia pubblicata su Facebook che si infiltrò un elettricista di Cologno Monzese, tale Haisam Sakhanh, che nel frattempo è entrato nella milizia Isis col nome di battaglia Abu Omar". "Naturalmente - spiega Lerner - io non ho invitato proprio nessun jihadista in trasmissione, né tre anni fa né mai. Tanto meno costui ha mai preso la parola all'Infedele. Ma per certe testate ogni occasione è buona per insultare".

Noi censurati, il jihadista invitato in tv da Lerner. L'elettricista di Cologno andato a combattere per l'Isis in Siria è indagato per terrorismo, ma due anni fa in Italia veniva trattato da eroe della rivolta, scrive Gian Micalessin su "Il Giornale. I tagliagole amici e complici dell'Isis li avevamo in casa. Vivevano e manifestavano a Milano, mentre a Roma godevano delle migliori coperture. E così quando polizia della Capitale li arrestava mentre assaltavano e devastavano le sedi diplomatiche, i magistrati li rimettevano in libertà. Del resto i ministri del governo Monti, gli stessi che rispedivano i nostri marò nella trappola indiana, ricevevano i loro capi politici alla Farnesina trattandoli alla stregua di eroi. Gad Lerner, nel frattempo, li invitava nel suo salotto televisivo. E Pier Luigi Bersani, allora segretario del Pd, non si faceva problemi ad appoggiarli concionando da un palco adornato con la bandiera dei ribelli. La stessa bandiera in cui s'avvolgevano le sprovvedute attiviste Vanessa Marzullo e Greta Ramelli inghiottite qualche settimana fa dall'inferno siriano. Ma siamo nel Belpaese. Un paese dove l'Ordine dei Giornalisti indaga chi critica l'Islam, ma si guarda bene dall'obbiettare se qualcuno da voce ad un terrorista. E dunque non succedeva nulla. E così anche quando Il Giornale , si permetteva di mostrare i volti e documentare le atrocità di questi signori tutti facevano vinta di non vedere, di non sapere, di non capire. Guardate questo signore. Il suo vero nome è Haisam Sakhanh, il suo nome di battaglia è Abu Omar. Da mercoledì, da quando l'assai sollecita procura di Milano ha fatto sapere di star indagando su di lui, tutti fanno a gara a parlarne. La sua foto campeggia dal Corriere della Sera a Repubblica e i telegiornali fanno a gara nel descriverlo come il reclutatore dei jihadisti di Milano e dintorni. Bella scoperta. Sul Giornale la sua foto era già comparsa l'11 gennaio accanto a un titolo che recitava «Cercate killer islamici? Eccone uno». Come lo sapevamo? Semplice. A differenza degli «ignari» magistrati, politici, diplomatici e di tanti colleghi, sempre pronti a chiuder gli occhi quando le notizie non sono politicamente corrette, non c'eravamo fatto scrupoli a identificare i protagonisti dell' agghiacciante video girato nell'aprile 2013 nella provincia siriana di Idlib e pubblicato lo scorso settembre sul sito web del New York Times . In quel video il siriano-milanese Sakhanh-Abu Omar è protagonista, assieme ad altri militanti guidati dal comandante Abdul Samad Hissa, della spietata esecuzione di 7 soldati governativi appena catturati. Nel filmato indossa un giubbotto marroncino, impugna il kalashnikov e ascolta il comandante che spiega a lui e altri nove militanti perché sia giusto e doveroso ammazzare i prigionieri. Subito dopo preme il grilletto e infila un proiettile nella nuca di un soldato denudato e fatto inginocchiare ai suoi piedi. A gennaio dopo la nostra denuncia nessuno muove un dito. Ma questa non è una novità. Ben più grave è che nessuno si curi di accertare i contatti e i collegamenti di Haisam alias Abu Omar nel febbraio 2012 quando il militante viene arrestato al termine di un vero e proprio assalto all'ambasciata siriana di Roma. Un assalto durante il quale guida alcuni complici all'interno degli uffici della sede diplomatica devastandoli e malmenando alcuni impiegati. Interrogati dal giudice Marina Finiti e indagati per danneggiamento, violazione di domicilio e violenza privata aggravata Haisam e i suoi vengono rinviati a giudizio per direttissima. Ma anche allora non succede nulla. Lui torna libero, continua a far proseliti e a guidare il suo gruppetto basato a Milano e dintorni. Tra questi si distingue l'amico Ammar Bacha che il 19 agosto 2012 non si fa problemi a pubblicare un video in cui i decapitatori dell'Isis (Stato Islamico dell'Iraq e del levante) illustrano la propria attività con il consueto corollario di atrocità e violenze. Anche stavolta tutti fanno finta di non vedere. Del resto solo pochi mesi prima, il 13 maggio 2012, il ministro Giulio Terzi ha incontrato alla Farnesina il Presidente del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), Bourhan Ghalioun, capo politico di quei ribelli già allora finanziati dal Qatar e monopolizzati dall'estremismo di Al Qaida e dell'Isis. E così qualche mese dopo pm e polizia si guardano bene dal fermare il signor Sakhanh e il suo sodale. E loro fuggono in Turchia e poi in Siria. Dove possono finalmente dedicarsi alla loro attività più congeniale. Ovvero uccidere e massacrare.

Le decapitazioni di Isis e gli allarmi della Fallaci. Il video dell'uccisione di James Foley riporta alla mente le parole (inascoltate) della scrittrice, scrive Marco Ventura su Panorama. E quindi non è "un conflitto di civiltà" quello che è sotto gli occhi di tutti in Iraq, Siria, Africa? Il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, sempre così graziosamente politically correct, nega in Parlamento la matrice di "civiltà" nei sanguinosi eventi di queste ore e nella risposta di Stati Uniti e Europa, quasi dovessimo vergognarci di difendere i valori dell'Occidente contro una versione esasperata e integralista dell'Islam globale. Ma è così? Arancione e nero. Sapete a cosa penso guardando quell’immagine surreale, terribilmente cinematografica, del giornalista americano James Foley in tuta arancione come i prigionieri di Guantanamo inginocchiato davanti a un paesaggio desertico, il busto eretto e il mento dritto, la postura fiera incongruente con le parole che deve pronunciare, e poi guardando quella figura di morte nera accanto a lui, in piedi, quel tagliagole mascherato dell’Is, coltello in mano, che si rivolge direttamente in inglese a Barack Obama (“You, Obama”) prima di decapitare la sua vittima? Penso, ecco, a Oriana Fallaci. Ai profeti inascoltati che l’Italia ha avuto, e al fatto che per vedere meglio nel futuro si sono dovuti trasferire all’estero, negli Stati Uniti, e da lì vaticinare, puntare l’indice, declamare il j’accuse, le loro omelie laiche da italiani che amano l’Italia e disprezzano però una certa Italia (e Europa). La Fallaci come Prezzolini, isolato nel suo esilio americano (e svizzero). Penso a quanti hanno criticato la Fallaci degli ultimi anni considerando i suoi scritti, le sue invettive finali (o definitive) contro l’invasione islamica, il pericolo islamico, la brutalità islamica, una sorta di metastasi del pensiero, quasi un cancro dello spirito parallelo al male che le consumava il corpo. Ascoltate (sì, ascoltate) quello che Oriana scriveva “Ai lettori” all’indomani dell’11/9, in apertura de “La rabbia e l’orgoglio” (Rizzoli): “Dall’Afghanistan al Sudan, dall’Indonesia al Pakistan, dalla Malesia all’Iran, dall’Egitto all’Iraq, dall’Algeria al Senegal, dalla Siria al Kenya, dalla Libia al Ciad, dal Libano al Marocco, dalla Palestina allo Yemen, dall’Arabia Saudita alla Somalia, l’odio per l’Occidente cresce. Si gonfia come un fuoco alimentato dal vento, e i seguaci del fondamentalismo islamico si moltiplicano come i protozoi d’una cellula che si scinde per diventare due cellule poi quattro poi otto poi sedici poi trentadue. All’infinito”. Ognuno di quei paesi evoca oggi qualcosa di terribile che è avvenuto (che avviene). I talebani comandano ancora in Afghanistan (fino in Pakistan). In Egitto la primavera araba è morta con l’avvento dei Fratelli musulmani, finalmente stroncati dalla restaurazione del generale Al-Sisi. In Libia gli islamisti proclamano il Califfato di Bengasi, guerreggiano e spargono odio e caos anche se nelle elezioni hanno dimostrato di valere poco più del 10 per cento. Tra Somalia e Kenya i guerriglieri islamisti di Al Shabaab fanno incursioni omicide lungo le strade, stragi nei centri commerciali a Nairobi. In paesi come la Nigeria che la Fallaci non citava (la sua lista oggi sarebbe più lunga) i massacri islamisti e i rapimenti delle studentesse sono firmati dalle milizie di Boko Haram. Nello Yemen dei sequestri operano cellule di Al-Qaeda. In Palestina, Hamas usa i civili come scudi umani e lancia razzi su Israele con l’obiettivo di cancellare lo Stato ebraico dalle mappe. Con l’Iran rimane il contenzioso nucleare. Di Iraq e Siria sappiamo. In Libano spadroneggiano gli Hezbollah. L’Arabia Saudita e gli altri paesi del Golfo non sono ancora usciti dall’ambiguità, chi più e chi meno, di sostenere o chiudere un occhio sui finanziamenti alle formazioni integraliste. E così via. Dal 2001 sono passati 13 anni e le parole de “La rabbia e l’orgoglio” si avverano. “Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. Distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri…”. Oriana tuonava contro “i nuovi Mori”. Dietro le figure in nero, che c’erano anche allora, vedeva i colletti bianchi, che ci sono ancora. Ascoltiamola. “I nuovi Mori con la cravatta trovano sempre più complici, fanno sempre più proseliti. Per questo diventano sempre di più, pretendono sempre di più. E se non stiamo attenti, se restiamo inerti, troveranno sempre più complici. Diventeranno sempre di più, otterranno sempre di più, spadroneggeranno sempre di più. Fino a soggiogarci completamente. Fino a spegnere la nostra civiltà. Ergo, trattare con loro è impossibile. Ragionarci, impensabile. Cullarci nell’indulgenza o nella tolleranza o nella speranza, un suicidio. E chi crede il contrario è un illuso”. Chissà che non dovremo darle ragione, nonostante il nostro perbenismo intellettuale, pure sui rischi dei flussi migratori. Proprio in conclusione del suo pamphlet la Fallaci scrive infatti dell’Italia che “nonostante tutto esiste. Zittita, ridicolizzata, sbeffeggiata, diffamata, insultata, ma esiste. Quindi guai a chi me la tocca. Guai a chi me la invade, guai a chi me la ruba. Perché (se non l’hai ancora capito te lo ripeto con maggiore chiarezza) che a invaderla siano i francesi di Napoleone o i tedeschi di Hitler o i compari di Osama Bin Laden, per me è lo stesso. Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem”. E per finire: “Stop. Quello che avevo da dire l’ho detto… Ora basta. Punto e basta”.

Oriana Fallaci, la sua lezione su Libero Quotidiano: Maestra di libertà. la profezia sull'Islam fanatico, gli insulti della sinistra, i processi. Il testo di cui oggi iniziamo la pubblicazione - per gentile concessione di Edoardo Perazzi, nipote e erede della Fallaci - è quello di un discorso pronunciato da Oriana Fallaci nel novembre del 2005. La grande toscana fu insignita del Annie Taylor Award, un premio conferito dal Centro Studi di cultura popolare di New York. Il suo discorso, in versione integrale inglese, fu pubblicato pochi giorni dopo da Il Foglio. Poi, il primo dicembre del 2005, Libero ne pubblicò la versione italiana, col permesso della stessa Fallaci, che volle rivederne personalmente la forma (modificandola tramite memorabili telefonate con l'allora responsabile delle pagine culturali Alessandro Gnocchi). Abbiamo deciso di ripubblicare questo testo perché pensiamo che oggi, a quasi dieci anni di distanza, sia più attuale che mai. Bé: un premio intitolato a una donna che saltò sopra le Cascate del Niagara, e sopravvisse, è mille volte più prezioso e prestigioso ed etico di un Oscar o di un Nobel: fino a ieri gloriose onorificenze rese a persone di valore ed oggi squallide parcelle concesse a devoti antiamericani e antioccidentali quindi filoislamici. Insomma a coloro che recitando la parte dei guru illuminati che definiscono Bush un assassino, Sharon un criminale-di-guerra, Castro un filantropo, e gli Stati Uniti «la-potenza-più-feroce, più-barbara, più-spaventosa-che-il-mondo-abbia-mai-conosciuto». Infatti se mi assegnassero simili parcelle (graziaddio un’eventualità più remota del più remoto Buco Nero dell’Universo), querelerei subito le giurie per calunnia e diffamazione. Al contrario, accetto questo «Annie Taylor» con gratitudine e orgoglio. E pazienza se sopravvaluta troppo le mie virtù. Sì: specialmente come corrispondente di guerra, di salti ne ho fatti parecchi. In Vietnam, ad esempio, sono saltata spesso nelle trincee per evitare mitragliate e mortai. Altrettanto spesso sono saltata dagli elicotteri americani per raggiungere le zone di combattimento. In Bangladesh, anche da un elicottero russo per infilarmi dentro la battaglia di Dacca. Durante le mie interviste coi mascalzoni della Terra (i Khomeini, gli Arafat, i Gheddafi eccetera) non meno spesso sono saltata in donchisciotteschi litigi rischiando seriamente la mia incolumità. E una volta, nell’America Latina, mi sono buttata giù da una finestra per sfuggire agli sbirri che volevano arrestarmi. Però mai, mai, sono saltata sopra le Cascate del Niagara. Né mai lo farei. Troppo rischioso, troppo pericoloso. Ancor più rischioso che palesare la propria indipendenza, essere un dissidente cioè un fuorilegge, in una società che al nemico vende la Patria. Con la patria, la sua cultura e la sua civiltà e la sua dignità. Quindi grazie David Horowitz, Daniel Pipes, Robert Spencer. E credetemi quando dico che questo premio appartiene a voi quanto a me. A tal punto che, quando ho letto che quest’anno avreste premiato la Fallaci, mi sono chiesta: «Non dovrei esser io a premiare loro?». E per contraccambiare il tributo volevo presentarmi con qualche medaglia o qualche trofeo da consegnarvi. Mi presento a mani vuote perché non sapevo, non saprei, dove comprare certa roba. Con le medaglie e i trofei ho un’esigua, davvero esigua, familiarità. E vi dico perché. Anzitutto perché crediamo di vivere in vere democrazie, democrazie sincere e vivaci nonché governate dalla libertà di pensiero e di opinione. Invece viviamo in democrazie deboli e pigre, quindi dominate dal dispotismo e dalla paura. Paura di pensare e, pensando, di raggiungere conclusioni che non corrispondono a quelle dei lacchè del potere. Paura di parlare e, parlando, di dare un giudizio diverso dal giudizio subdolamente imposto da loro. Paura di non essere sufficientemente allineati, obbedienti, servili, e venire scomunicati attraverso l’esilio morale con cui le democrazie deboli e pigre ricattano il cittadino. Paura di essere liberi, insomma. Di prendere rischi, di avere coraggio. «Il segreto della felicità è la libertà. E il segreto della libertà è il coraggio», diceva Pericle. Uno che di queste cose se ne intendeva. (Tolgo la massima dal secondo libro della mia trilogia: La Forza della ragione. E da questo prendo anche il chiarimento che oltre centocinquanta anni fa Alexis de Tocqueville fornì nel suo intramontabile trattato sulla democrazia in America). Nei regimi assolutisti o dittatoriali, scrive Tocqueville, il dispotismo colpisce il corpo. Lo colpisce mettendolo in catene o torturandolo o sopprimendolo in vari modi. Decapitazioni, impiccagioni, lapidazioni, fucilazioni, Inquisizioni eccetera. E così facendo risparmia l’anima che intatta si leva dalla carne straziata e trasforma la vittima in eroe. Nelle democrazie inanimate, invece, nei regimi inertamente democratici, il dispotismo risparmia il corpo e colpisce l’anima. Perché è l’anima che vuole mettere in catene. Torturare, sopprimere. Così alle sue vittime non dice mai ciò che dice nei regimi assolutisti o dittatoriali: «O la pensi come me o muori». Dice: «Scegli. Sei libero di non pensare o di pensare come la penso io. Se non la pensi come la penso io, non ti sopprimerò. Non toccherò il tuo corpo. Non confischerò le tue proprietà. Non violenterò i tuoi diritti politici. Ti permetterò addirittura di votare. Ma non sarai mai votato. Non sarai mai eletto. Non sarai mai seguito e rispettato. Perché ricorrendo alle mie leggi sulla libertà di pensiero e di opinione, io sosterrò che sei impuro. Che sei bugiardo, dissoluto, peccatore, miserabile, malato di mente. E farò di te un fuorilegge, un criminale. Ti condannerò alla Morte Civile, e la gente non ti ascolterà più. Peggio. Per non essere a sua volta puniti, quelli che la pensano come te ti diserteranno». Questo succede, spiega, in quanto nelle democrazie inanimate, nei regimi inertamente democratici, tutto si può dire fuorché la Verità. Perché la Verità ispira paura. Perché, a leggere o udire la verità, i più si arrendono alla paura. E per paura delineano intorno ad essa un cerchio che è proibito oltrepassare. Alzano intorno ad essa un’invisibile ma insormontabile barriera dentro la quale si può soltanto tacere o unirsi al coro. Se il dissidente oltrepassa quella linea, se salta sopra le Cascate del Niagara di quella barriera, la punizione si abbatte su di lui o su di lei con la velocità della luce. E a render possibile tale infamia sono proprio coloro che segretamente la pensano come lui o come lei, ma che per convenienza o viltà o stupidità non alzano la loro voce contro gli anatemi e le persecuzioni. Gli amici, spesso. O i cosiddetti amici. I partner. O i cosiddetti partner. I colleghi. O i cosiddetti colleghi. Per un poco, infatti, si nascondono dietro il cespuglio. Temporeggiano, tengono il piede in due staffe. Ma poi diventano silenziosi e, terrorizzati dai rischi che tale ambiguità comporta, se la svignano. Abbandonano il fuorilegge, il criminale, al di lui o al di lei destino e con il loro silenzio danno la loro approvazione alla Morte Civile. (Qualcosa che io ho esperimentato tutta la vita e specialmente negli ultimi anni. «Non ti posso difendere più» mi disse, due o tre Natali fa, un famoso giornalista italiano che in mia difesa aveva scritto due o tre editoriali. «Perché?» gli chiesi tutta mesta. «Perché la gente non mi parla più. Non mi invita più a cena»). L’altro motivo per cui ho un’esigua familiarità con le medaglie e i trofei sta nel fatto che soprattutto dopo l’11 Settembre l’Europa è diventata una Cascata del Niagara di Maccartismo sostanzialmente identico a quello che afflisse gli Stati Uniti mezzo secolo fa. Sola differenza, il suo colore politico. Mezzo secolo fa era infatti la Sinistra ad essere vittimizzata dal Maccartismo. Oggi è la Sinistra che vittimizza gli altri col suo Maccartismo. Non meno, e a parer mio molto di più, che negli Stati Uniti. Cari miei, nell’Europa d’oggi v’è una nuova Caccia alle Streghe. E sevizia chiunque vada contro corrente. V’è una nuova Inquisizione. E gli eretici li brucia tappandogli o tentando di tappargli la bocca. Eh, sì: anche noi abbiamo i nostri Torquemada. I nostri Ward Churchill, i nostri Noam Chomsky, i nostri Louis Farrakhan, i nostri Michael Moore eccetera. Anche noi siamo infettati dalla piaga contro la quale tutti gli antidoti sembrano inefficaci. La piaga di un risorto nazi-fascismo. Il nazismo islamico e il fascismo autoctono. Portatori di germi, gli educatori cioè i maestri e le maestre che diffondono l’infezione fin dalle scuole elementari e dagli asili dove esporre un Presepe o un Babbo Natale è considerato un «insulto ai bambini Mussulmani». I professori (o le professoresse) che tale infezione la raddoppiano nelle scuole medie e la esasperano nelle università. Attraverso l’indottrinazione quotidiana, il quotidiano lavaggio del cervello, si sa. (La storia delle Crociate, ad esempio, riscritta e falsificata come nel 1984 di Orwell. L’ossequio verso il Corano visto come una religione di pace e misericordia. La reverenza per l’Islam visto come un Faro di Luce paragonato al quale la nostra civiltà è una favilla di sigaretta). E con l’indottrinazione, le manifestazioni politiche. Ovvio. Le marce settarie, i comizi faziosi, gli eccessi fascistoidi. Sapete che fecero, lo scorso ottobre, i giovinastri della Sinistra radicale a Torino? Assaltarono la chiesa rinascimentale del Carmine e ne insozzarono la facciata scrivendoci con lo spray l’insulto «Nazi-Ratzinger» nonché l’avvertimento: «Con le budella dei preti impiccheremo Pisanu». Il nostro Ministro degli Interni. Poi su quella facciata urinarono. (Amabilità che a Firenze, la mia città, non pochi islamici amano esercitare sui sagrati delle basiliche e sui vetusti marmi del Battistero). Infine irruppero dentro la chiesa e, spaventando a morte le vecchine che recitavano il Vespro, fecero scoppiare un petardo vicino all’altare. Tutto ciò alla presenza di poliziotti che non potevano intervenire perché nella città Politically Correct tali imprese sono considerate Libertà di espressione. (A meno che tale libertà non venga esercitata contro le moschee: s’intende). E inutile aggiungere che gli adulti non sono migliori di questi giovinastri. La scorsa settimana, a Marano, popolosa cittadina collocata nella provincia di Napoli, il Sindaco (ex seminarista, ex membro del Partito Comunista Italiano, poi del vivente Partito di Rifondazione Comunista, ed ora membro del Partito dei Comunisti Italiani) annullò tout-court l’ordinanza emessa dal commissario prefettizio per dedicare una strada ai martiri di Nassiriya. Cioè ai diciannove militari italiani che due anni fa i kamikaze uccisero in Iraq. Lo annullò affermando che i diciannove non erano martiri bensì mercenari, e alla strada dette il nome di Arafat. «Via Arafat». Lo fece piazzando una targa che disse: «Yasser Arafat, simbolo dell’Unità (sic) e della Resistenza Palestinese». Poi l’interno del municipio lo tappezzò con gigantesche foto del medesimo, e l’esterno con bandiere palestinesi. La piaga si propaga anche attraverso i giornali, la Tv, la radio. Attraverso i media che per convenienza o viltà o stupidità sono in gran maggioranza islamofili e antioccidentali e antiamericani quanto i maestri, i professori, gli accademici. Che senza alcun rischio di venir criticati o beffati passano sotto silenzio episodi come quelli di Torino o Marano. E in compenso non dimenticano mai di attaccare Israele, leccare i piedi all’Islam. Si propaga anche attraverso le canzoni e le chitarre e i concerti rock e i film, quella piaga. Attraverso uno show-business dove, come i vostri ottusi e presuntuosi e ultra-miliardari giullari di Hollywood, i nostri giullari sostengono il ruolo di buonisti sempre pronti a piangere per gli assassini. Mai per le loro vittime. Si propaga anche attraverso un sistema giudiziario che ha perduto ogni senso della Giustizia, ogni rispetto della giurisdizione. Voglio dire attraverso i tribunali dove, come i vostri magistrati, i nostri magistrati assolvono i terroristi con la stessa facilità con cui assolvono i pedofili. (O li condannano a pene irrisorie). E finalmente si propaga attraverso l’intimidazione della buona gente in buona fede. Voglio dire la gente che per ignoranza o paura subisce quel dispotismo e non comprende che col suo silenzio o la sua sottomissione aiuta il risorto nazi-fascismo a fiorire. Non a caso, quando denuncio queste cose, mi sento davvero come una Cassandra che parla al vento. O come uno dei dimenticati antifascisti che settanta e ottanta anni fa mettevano i ciechi e i sordi in guardia contro una coppia chiamata Mussolini e Hitler. Ma i ciechi restavano ciechi, i sordi restavano sordi, ed entrambi finirono col portar sulla fronte ciò che ne L’Apocalisse chiamo il Marchio della Vergogna. Di conseguenza le mie vere medaglie sono gli insulti, le denigrazioni, gli abusi che ricevo dall’odierno Maccartismo. Dall’odierna Caccia alle Streghe, dall’odierna Inquisizione. I miei trofei, i processi che in Europa subisco per reato di opinione. Un reato ormai travestito coi termini «vilipendio dell’Islam, razzismo o razzismo religioso, xenofobia, istigazione all’odio eccetera». Parentesi: può un Codice Penale processarmi per odio? Può l’odio essere proibito per Legge? L’odio è un sentimento. È una emozione, una reazione, uno stato d’animo. Non un crimine giuridico. Come l’amore, l’odio appartiene alla natura umana. Anzi, alla Vità. È l’opposto dell’amore e quindi, come l’amore, non può essere proibito da un articolo del Codice Penale. Può essere giudicato, sì. Può essere contestato, osteggiato, condannato, sì. Ma soltanto in senso morale. Ad esempio, nel giudizio delle religioni che come la religione cristiana predicano l’amore. Non nel giudizio d’un tribunale che mi garantisce il diritto di amare chi voglio. Perché, se ho il diritto di amare chi voglio, ho anche e devo avere anche il diritto di odiare chi voglio. Incominciando da coloro che odiano me. Sì, io odio i Bin Laden. Odio gli Zarkawi. Odio i kamikaze e le bestie che ci tagliano la testa e ci fanno saltare in aria e martirizzano le loro donne. Odio gli Ward Churchill, i Noam Chomsky, i Louis Farrakhan, i Michael Moore, i complici, i collaborazionisti, i traditori, che ci vendono al nemico. Li odio come odiavo Mussolini e Hitler e Stalin and Company. Li odio come ho sempre odiato ogni assalto alla Libertà, ogni martirio della Libertà. È un mio sacrosanto diritto. E se sbaglio, ditemi perché coloro che odiano me più di quanto io odi loro non sono processati col medesimo atto d’accusa. Voglio dire: ditemi perché questa faccenda dell’Istigazione all’Odio non tocca mai i professionisti dell’odio, i mussulmani che sul concetto dell’odio hanno costruito la loro ideologia. La loro filosofia. La loro teologia. Ditemi perché questa faccenda non tocca mai i loro complici occidentali. Parentesi chiusa, e torniamo ai trofei che chiamo processi. Si svolgono in ogni paese nel quale un figlio di Allah o un traditore nostrano voglia zittirmi e imbavagliarmi nel modo descritto da Tocqueville, quei processi. A Parigi, cioè in Francia, ad esempio. La France Eternelle, la Patrie du Laïcisme, la Bonne Mère du Liberté-Egalité-Fraternité, dove per vilipendio dell’Islam soltanto la mia amica Brigitte Bardot ha sofferto più travagli di quanti ne abbia sofferti e ne soffra io. La France Libérale, Progressiste, dove tre anni fa gli ebrei francesi della LICRA (associazione ebrea di Sinistra che ama manifestare alzando fotografie di Ariel Sharon con la svastica sulla fronte) si unì ai mussulmani francesi del MRAP (associazione islamica di Sinistra che ama manifestare levando cartelli di Bush con la svastica sugli occhi). E dove insieme chiesero al Codice Penale di chiudermi in galera, confiscare La Rage et l’Orgueil o venderla con il seguente ammonimento sulla copertina: «Attenzione! Questo librò può costituire un pericolo per la vostra salute mentale». (Insieme volevano anche intascare un grosso risarcimento danni, naturalmente). Oppure a Berna, in Svizzera. Die wunderschöne Schweitz, la meravigliosa Svizzera di Guglielmo Tell, dove il Ministro della Giustizia osò chiedere al mio Ministro della Giustizia di estradarmi in manette. O a Bergamo, Nord Italia, dove il prossimo processo avverrà il prossimo giugno grazie a un giudice che sembra ansioso di condannarmi a qualche anno di prigione: la pena che per vilipendio dell’Islam viene impartita nel mio paese. (Un paese dove senza alcuna conseguenza legale qualsiasi mussulmano può staccare il crocifisso dai muri di un’aula scolastica o di un ospedale, gettarlo nella spazzatura, dire che il crocifisso «ritrae-un-cadaverino-nudo-inventato-per-spaventare-i-bambini-mussulmani». E sapete chi ha promosso il processo di Bergamo? Uno dei mai processati quindi mai condannati specialisti nel buttare via i crocifissi. L’autore di un sudicio libretto che per molto tempo ha venduto nelle moschee, nei Centri Islamici, nelle librerie sinistrorse d’Italia. Quanto alle minacce contro la mia vita cioè all’irresistibile desiderio che i figli di Allah hanno di tagliarmi la gola o farmi saltare in aria o almeno liquidarmi con un colpo di pistola nella nuca, mi limiterò a dire che specialmente quando sono in Italia devo essere protetta ventiquattro ore su ventiquattro dai Carabinieri. La nostra polizia militare. E, sia pure a fin di bene, questa è una durissima limitazione alla mia libertà personale. Quanto agli insulti, agli anatemi, agli abusi con cui i media europei mi onorano per conto della trista alleanza Sinistra-Islam, ecco alcune delle qualifiche che da quattro anni mi vengono elargite: «Abominevole. Blasfema. Deleteria. Troglodita. Razzista. Retrograda. Ignobile. Degenere. Reazionaria. Abbietta». Come vedete, parole identiche o molto simili a quelle usate da Alexis de Tocqueville quando spiega il dispotismo che mira alla Morte Civile. Nel mio paese quel dispotismo si compiace anche di chiamarmi «Iena», nel distorcere il mio nome da Oriana in «Oriena» e nello sbeffeggiarmi attraverso sardoniche identificazioni con Giovanna d’Arco. «Le bestialità della neo Giovanna d’Arco». «Taci, Giovanna d’Arco». «Ora basta, Giovanna d’Arco».

Scontro di (in)civiltà. Oriana Fallaci: le galline della sinistra in ginocchio dagli islamici. Per gentile concessione dell’erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del «Annie Taylor Award», prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Lo scorso agosto venni ricevuta in udienza privata da Ratzinger, insomma da Papa Benedetto XVI. Un Papa che ama il mio lavoro da quando lesse Lettera a un bambino mai nato e che io rispetto profondamente da quando leggo i suoi intelligentissimi libri. Un Papa, inoltre, col quale mi trovo d’accordo in parecchi casi. Per esempio, quando scrive che l’Occidente ha maturato una sorta di odio contro sé stesso. Che non ama più sé stesso, che ha perso la sua spiritualità e rischia di perdere anche la sua identità. (Esattamente ciò che scrivo io quando scrivo che l’Occidente è malato di un cancro morale e intellettuale. Non a caso ripeto spesso: «Se un Papa e un’atea dicono la stessa cosa, in quella cosa dev’esserci qualcosa di tremendamente vero»). Nuova parentesi. Sono un’atea, sì. Un’atea-cristiana, come sempre chiarisco, ma un’atea. E Papa Ratzinger lo sa molto bene. Ne La Forza della Ragione uso un intero capitolo per spiegare l’apparente paradosso di tale autodefinizione. Ma sapete che cosa dice lui agli atei come me? Dice: «Ok. (L’ok è mio, ovvio). Allora Veluti si Deus daretur. Comportatevi come se Dio esistesse». Parole da cui desumo che nella comunità religiosa vi sono persone più aperte e più acute che in quella laica alla quale appartengo. Talmente aperte ed acute che non tentano nemmeno, non si sognano nemmeno, di salvarmi l’anima cioè di convertirmi. Uno dei motivi per cui sostengo che, vendendosi al teocratico Islam, il laicismo ha perso il treno. È mancato all’appuntamento più importante offertogli dalla Storia e così facendo ha aperto un vuoto, una voragine che soltanto la spiritualità può riempire. Uno dei motivi, inoltre, per cui nella Chiesa d’oggi vedo un inatteso partner, un imprevisto alleato. In Ratzinger, e in chiunque accetti la mia per loro inquietante indipendenza di pensiero e di comportamento, un compagnon-de-route. Ammenoché anche la Chiesa manchi al suo appuntamento con la Storia. Cosa che tuttavia non prevedo. Perché, forse per reazione alle ideologie materialistiche che hanno caratterizzato lo scorso secolo, il secolo dinanzi a noi mi sembra marcato da una inevitabile nostalgia anzi da un inevitabile bisogno di religiosità. E, come la religione, la religiosità finisce sempre col rivelarsi il veicolo più semplice (se non il più facile) per arrivare alla spiritualità. Chiusa la nuova parentesi. E così ci incontrammo, io e questo gentiluomo intelligente. Senza cerimonie, senza formalità, tutti soli nel suo studio di Castel Gandolfo conversammo e l’incontro non-professionale doveva restare segreto. Nella mia ossessione per la privacy, avevo chiesto che così fosse. Ma la voce si diffuse ugualmente. Come una bomba nucleare piombò sulla stampa italiana, e indovina ciò che un petulante idiota con requisiti accademici scrisse su un noto giornale romano di Sinistra. Scrisse che il Papa può vedere quanto vuole «i miserabili, gli empi, i peccatori, i mentalmente malati» come la Fallaci. Perché «il Papa non è una persona perbene». (A dispetto di ogni dizionario e della stessa Accademia della Crusca, il «perbene» scritto "per bene"). Del resto, e sempre pensando a Tocqueville, alla sua invisibile ma insuperabile barriera dentro-la-quale-si-può-soltanto-tacere-o-unirsi-al-coro, non dimentico mai quello che quattro anni fa accadde qui in America. Voglio dire quando l’articolo La Rabbia e l’Orgoglio (non ancora libro) apparve in Italia. E il New York Times scatenò la sua Super Political Correctness con una intera pagina nella quale la corrispondente da Roma mi presentava come «a provocateur» una «provocatrice». Una villana colpevole di calunniare l’Islam... Quando l’articolo divenne libro e apparve qui, ancora peggio. Perché il New York Post mi descrisse, sì, come «La Coscienza d’Europa, l’eccezione in un’epoca dove l’onestà e la chiarezza non sono più considerate preziose virtù». Nelle loro lettere i lettori mi definirono, sì, «il solo intelletto eloquente che l’Europa avesse prodotto dal giorno in cui Winston Churchill pronunciò lo Step by Step cioè il discorso con cui metteva in guardia l’Europa dall’avanzata di Hitler». Ma i giornali e le TV e le radio della Sinistra al Caviale rimasero mute, oppure si unirono alla tesi del New York Times. Tantomeno dimentico ciò che è avvenuto nel mio paese durante questi giorni di novembre 2005. Perché, pubblicato da una casa editrice che nella maggioranza delle quote azionarie appartiene ai miei editori italiani, e da questi vistosamente annunciato sul giornale che consideravo il mio giornale, in un certo senso la mia famiglia, un altro libro anti- Fallaci ora affligge le librerie. Un libro scritto, stavolta, dall’ex vice-direttore del quotidiano che un tempo apparteneva al defunto Partito Comunista. Bé, non l’ho letto. Né lo leggerò. (Esistono almeno sei libri su di me. Quasi tutti, biografie non-autorizzate e piene di bugie offensive nonché di grottesche invenzioni. E non ne ho mai letto uno. Non ho mai neppure gettato lo sguardo sulle loro copertine). Ma so che stavolta il titolo, naturalmente accompagnato dal mio nome che garantisce le vendite, contiene le parole «cattiva maestra». So che la cattiva maestra è ritratta come una sordida reazionaria, una perniciosa guerrafondaia, una mortale portatrice di «Orianismo». E secondo l’ex vice-direttore dell’ex quotidiano ultracomunista, l’Orianismo è un virus. Una malattia, un contagio, nonché un’ossessione, che uccide tutte le vittime contaminate. (Graziaddio, molti milioni di vittime. Soltanto in Italia, la Trilogia ha venduto assai più di quattro milioni di copie in tre anni. E negli altri ventun paesi è un saldo bestseller). Ma questo non è tutto. Perché nei medesimi giorni il sindaco milanese di centro-destra mi incluse nella lista degli Ambrogini: le molto ambite medaglie d’oro che per la festa di Sant’Ambrogio la città di Milano consegna a persone note, o quasi, nel campo della cultura. E quando il mio nome venne inserito, i votanti della Sinistra sferrarono un pandemonio che durò fino alle cinque del mattino. Per tutta la notte, ho saputo, fu come guardare una rissa dentro un pollaio. Le penne volavano, le creste e i bargigli sanguinavano, i coccodè assordavano, e lode al cielo se nessuno finì al Pronto Soccorso. Poi, il giorno dopo, tornarono strillando che il mio Ambrogino avrebbe inquinato il pluriculturalismo e contaminato la festa di Sant’Ambrogio. Che avrebbe dato alla cerimonia del premio un significato anti-islamico, che avrebbe offeso i mussulmani e i premiati della Sinistra. Quest’ultimi minacciarono addirittura di respingere le ambite medaglie d’oro e promisero di inscenare una fiera dimostrazione contro la donna perversa. Infine il leader del Partito di Rifondazione Comunista dichiarò: «Dare l’Ambrogino alla Fallaci è come dare il Premio Nobel della Pace a George W. Bush». Detto questo, onde rendere a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, devo chiarire qualcosa che certo dispiacerà ad alcuni o alla maggioranza di voi. Ecco qua. Io non sono un Conservatore. Non simpatizzo con la Destra più di quanto non simpatizzi con la Sinistra. Sebbene rifiuti ogni classificazione politica, mi considero una rivoluzionaria. Perché la Rivoluzione non significa necessariamente la Presa della Bastiglia o del Palais d’Hiver. E certamente per me non significa i capestri, le ghigliottine, i plotoni di esecuzione, il sangue nelle strade. Per me la Rivoluzione significa dire «No». Significa lottare per quel «No». Attraverso quel «No», cambiare le cose. E di sicuro io dico molti «No». Li ho sempre detti. Di sicuro vi sono molte cose che vorrei cambiare. Cioè non mantenere, non conservare. Una è l’uso e l’abuso della libertà non vista come Libertà ma come licenza, capriccio, vizio. Egoismo, arroganza, irresponsabilità. Un’altra è l’uso e l’abuso della democrazia non vista come il matrimonio giuridico dell’Uguaglianza e della Libertà ma come rozzo e demagogico egualitarismo, insensato diniego del merito, tirannia della maggioranza. (Di nuovo, Alexis de Tocqueville...). Un’altra ancora, la mancanza di autodisciplina, della disciplina senza la quale qualsiasi matrimonio dell’uguaglianza con la libertà si sfascia. Un’altra ancora, il cinico sfruttamento delle parole Fratellanza-Giustizia-Progresso. Un’altra ancora, la nescienza di onore e il tripudio di pusillanimità in cui viviamo ed educhiamo i nostri figli. Tutte miserie che caratterizzano la Destra quanto la Sinistra. Cari miei: se coi suoi spocchiosi tradimenti e le sue smargiassate alla squadrista e i suoi snobismi alla Muscadin e le sue borie alla Nouvel Riche la Sinistra ha disonorato e disonora le grandi battaglie che combatté nel Passato, con le sue nullità e le sue ambiguità e le sue incapacità la Destra non onora certo il ruolo che si vanta di avere. Ergo, i termini Destra e Sinistra sono per me due viete e antiquate espressioni alle quali ricorro solo per abitudine o convenienza verbale. E, come dico ne La Forza della Ragione, in entrambe vedo solo due squadre di calcio che si distinguono per il colore delle magliette indossate dai loro giocatori ma che in sostanza giocano lo stesso gioco. Il gioco di arraffare la palla del Potere. E non il Potere di cui v’è bisogno per governare: il Potere che serve sé stesso. Che esaurisce sé stesso in sé stesso.

Maestra di libertà. Oriana Fallaci e l'Islam: "Diventeremo l'Eurabia. Il nemico è in casa nostra e non vuole dialogare". Per gentile concessione dell'erede Edoardo Perazzi, continuiamo la pubblicazione del discorso che Oriana Fallaci pubblicò nel 2005, quando fu insignita del Annie Taylor Award, prestigioso riconoscimento statunitense. I temi che la Fallaci affronta sono quelli delle sue celebri opere, tutte edite da Rizzoli. Questo può apparir demagogico, semplicistico, e perfino superficiale: lo so. Ma se analizzate i fatti vedrete che la mia è pura e semplice verità. La verità del bambino che nella fiaba dei Grimm, quando i cortigiani lodano le vesti del re, grida con innocenza: Il re è nudo. Pensateci ragionando sull'attuale tragedia che ci opprime. Perbacco, nessuno può negare che l'invasione islamica dell'Europa sia stata assecondata e sia assecondata dalla Sinistra. E nessuno può negare che tale invasione non avrebbe mai raggiunto il culmine che ha raggiunto se la Destra non avesse fornito alla Sinistra la sua complicità, se la Destra non le avesse dato il imprimatur. Diciamolo una volta per sempre: la Destra non ha mai mosso un dito per impedire o almeno trattenere la crescita dell’invasione islamica. Un solo esempio? Come in molti altri paesi europei, in Italia è il leader della Destra ufficiale che imita la Sinistra nella sua impazienza di concedere il voto agli immigrati senza cittadinanza. E questo in barba al fatto che la nostra Costituzione conceda il voto ai cittadini e basta. Non agli stranieri, agli usurpatori, ai turisti col biglietto di andata senza ritorno. Di conseguenza, non posso essere associata né con la Destra né con la Sinistra. Non posso essere arruolata né dalla Destra né dalla Sinistra. Non posso essere strumentalizzata né della Destra né della Sinistra. (E guai a chi ci prova). E sono profondamente irritata con entrambe. Qualunque sia la loro locazione e nazionalità. Attualmente, per esempio, sono irritata con la Destra americana che spinge i leader europei ad accettare la Turchia come membro dell’Unione Europea. Esattamente ciò che la Sinistra europea vuole da sempre. Ma le vittime dell’invasione islamica, i cittadini europei, non vogliono la Turchia a casa loro. La gente come me non vuole la Turchia a casa sua. E Condoleezza Rice farebbe bene a smetterla di esercitare la sua Realpolitik a nostre spese. Condoleezza è una donna intelligente: nessuno ne dubita. Certo, più intelligente della maggioranza dei suoi colleghi maschi e femmine, sia qui in America che al di là dell’Atlantico. Ma sul paese che per secoli fu l’Impero Ottomano, sulla non-europea Turchia, sulla islamica Turchia, sa o finge di sapere assai poco. E sulla mostruosa calamità che rappresenterebbe l’entrata della Turchia nell’Unione Europea conosce o finge di conoscere ancora meno. Così dico: Ms. Rice, Mr. Bush, signori e signore della Destra americana, se credete tanto in un paese dove le donne hanno spontaneamente rimesso il velo e dove i Diritti Umani vengono quotidianamente ridicolizzati, prendetevelo voi. Chiedete al Congresso di annetterlo agli stati Uniti come Cinquantunesimo Stato e godetevelo voi. Poi concentratevi sull’Iran. Sulla sua lasciva nucleare, sul suo ottuso ex-sequestratore di ostaggi cioè sul suo presidente, e concentratevi sulla sua nazista promessa di cancellare Israele dalle carte geografiche. A rischio di sconfessare l’illimitato rispetto che gli americani vantano nei riguardi di tutte le religioni, devo anche chiarire ciò che segue. Come mai in un Paese dove l’85 per cento dei cittadini dicono di essere Cristiani, così pochi si ribellano all’assurda offensiva che sta avvenendo contro il Natale? Come mai così pochi si oppongono alla demagogia dei radicals che vorrebbero abolire le vacanze di Natale, gli alberi di Natale, le canzoni di Natale, e le stesse espressioni Merry Christmas e Happy Christmas, Buon Natale, eccetera?!? Come mai così pochi protestano quando quei radicals gioiscono come Talebani perché in nome dei laicismo un severo monumento a gloria dei Dieci Comandamenti viene rimosso da una piazza di Birmingham? E come mai anche qui pullulano le iniziative a favore della religione islamica? Come mai, per esempio, a Detroit (la Detroit ultra polacca e ultra cattolica le ordinanze municipali contro i rumori proibiscono il suono delle campane) la minoranza islamica ha ottenuto che i muezzin locali possano assordare il prossimo coi loro Allah-akbar dalle 6 del mattino alle 10 di sera? Come mai in un paese dove la Legge ordina di non esibire i simboli religioni nei luoghi pubblici, non consentirvi preghiere dell’una o dell’altra religione, aziende quali la Dell Computers e la Tyson Foods concedono ai propri dipendenti islamici i loro cortili nonché il tempo per recitare le cinque preghiere? E questo a dispetto del fatto che tali preghiere interrompono quindi inceppano le catene di montaggio? Come mai il nefando professor Ward Churchill non è stato licenziato dall’Università del Colorado per i suoi elogi a Bin Laden e all’11 Settembre, ma il conduttore della Washington radio Michael Graham è stato licenziato per aver detto che dietro il terrorismo islamico v’è la religione islamica? Ed ora lasciatemi concludere questa serata affrontando altri tre punti che considero cruciali. Punto numero uno. Sia a Destra che a Sinistra tutti si focalizzano sul terrorismo. Tutti. Perfino i radicali più radicali. (Cosa che non sorprende perché le condanne verbali del terrorismo sono il loro alibi. Il loro modo di pulire le loro coscienze non pulite). Ma nel terrorismo islamico non vedo l’arma principale della guerra che i figli di Allah ci hanno dichiarato. Nel terrorismo islamico vedo soltanto un aspetto, un volto di quella guerra. Il più visibile, sì. Il più sanguinoso e il più barbaro, ovvio. Eppure, paradossalmente, non il più pernicioso. Non il più catastrofico. Il più pernicioso e il più catastrofico è a parer mio quello religioso. Cioè quello dal quale tutti gli altri aspetti, tutti gli altri volti, derivano. Per incominciare, il volto dell’immigrazione. Cari amici: è l’immigrazione, non il terrorismo, il cavallo di Troia che ha penetrato l’Occidente e trasformato l’Europa in ciò che chiamo Eurabia. È l’immigrazione, non il terrorismo, l’arma su cui contano per conquistarci annientarci distruggerci. L’arma per cui da anni grido: «Troia brucia, Troia brucia». Un’immigrazione che in Europa-Eurabia supera di gran lunga l’allucinante sconfinamento dei messicani che col beneplacito della vostra Sinistra e l’imprimatur della vostra Destra invadono gli Stati Uniti. Soltanto nei venticinque paesi che formano l’Unione Europea, almeno venticinque milioni di musulmani. Cifra che non include i clandestini mai espulsi. A tutt’oggi, altri quindici milioni o più. E data l’irrefrenabile e irresistibile fertilità mussulmana, si calcola che quella cifra si raddoppierà nel 2016. Si triplicherà o quadruplicherà se la Turchia diventerà membro dell’Unione Europea. Non a caso Bernard Lewis profetizza che entro il 2100 tutta l’Europa sarà anche numericamente dominata dai musulmani. E Bassan Tibi, il rappresentante ufficiale del cosiddetto Islam Moderato in Germania, aggiunge: «Il problema non è stabilire se entro il 2100 la stragrande maggioranza o la totalità degli europei sarà mussulmana. In un modo o nell’altro, lo sarà. Il problema è stabilire se l’Islam destinato a dominare l’Europa sarà un Euro-Islam o l’Islam della Svaria». Il che spiega perché non credo nel Dialogo con l’Islam. Perché sostengo che tale dialogo è un monologo. Un soliloquio inventato per calcolo dalla Realpolitik e poi tenuto in vita dalla nostra ingenuità o dalla nostra inconfessata disperazione. Infatti su questo tema dissento profondamente dalla Chiesa Cattolica e da Papa Ratzinger. Più cerco di capire e meno capisco lo sgomentevole errore su cui la sua speranza si basa. Santo Padre: naturalmente anch’io vorrei un mondo dove tutti amano tutti e dove nessuno è nemico di nessuno. Ma il nemico c’è. Lo abbiamo qui, in casa nostra. E non ha nessuna intenzione di dialogare. Né con Lei né con noi. Di Oriana Fallaci.

Montanelli Fallaci, libro a 4 mani. Finì a “ti disprezzo” e “ti credevo migliore”, scrive Riccardo Galli su Blitz Quotidiano. Il titolo lo si sarebbe potuto trovare facilmente e avrebbe potuto, magari, suonare più o meno così: “L’impossibile libro a 4 mani”. E’, anzi era il progetto editoriale targato Rizzoli che poco meno di mezzo secolo fa avrebbe voluto dare i natali ad un libro scritto da due monumenti del giornalismo italiano: Indro Montanelli e Oriana Fallaci. Un progetto naufragato però ancor prima di reificarsi a causa delle personalità delle due “penne”. Personalità a dir poco ingombranti e, di certo, poco disponibili ad una posizione di non protagonista assoluto. Foss’anche nella stesura di un libro. Un progetto abortito e sconosciuto, almeno sino a che Paolo Di Paolo, raccogliendo materiale per un libro su Montanelli, non si è ritrovato tra le mani una lettera della Fallaci. Una lettera in cui la giornalista, da New York, scriveva alla moglie di Montanelli parlandole proprio del libro in questione: “Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra”. Da questo frammento è partita una ricerca che ha svelato la storia, o almeno parte di essa, del libro mai nato. Una storia che Di Paolo racconta sul Corriere della Sera. “Cinque anni prima – agosto 1971 – erano stati (Montanelli e la Fallaci ndr.) sul punto di scrivere un volume a quattro mani, ma il progetto naufragò. Questo libro mai nato rischiava di essere un capo lavoro: provate ad immaginare due penne simili – così sopra la media di chiunque scriva oggi, così brillanti, così feroci e libere – nello stesso spazio editoriale”. “’Niente schemi rigidi, niente cattedre da una parte o dall’altra’ precisa la Fallaci scrivendo alla moglie di Indro, Colette Rosselli, il 7 agosto del ’71,. Mentre lavoravo ad un libro su Montanelli – racconta Di Paolo sul Corriere – ho ritrovato questa curiosa lettera: l’Oriana racconta a Colette di aver tardato ad iniziare il lavoro per una serie di ragioni – una febbre tropicale presa durante un servizio in Asia, la malattia della madre e dello zio Bruno, ma anche una ‘comprensibile paura, una comprensibile timidezza che un po’ per volta mi aveva invaso’”. Da questa traccia si possono quasi immaginare i due, Montanelli e la Fallaci, uno al di qua e una al di là dell’Atlantico, da New York dove viveva, scambiarsi appassionate lettere. Internet, e con lui le e-mail, erano ancora lontani da venire e, per comunicare, i due dovevano per forza di cose ricorrere all’unico sistema allora efficiente: carta e penna. E allora lettere. Lettere in cui la Fallaci confida un pizzico di timore reverenziale alla moglie di quello che comunque, complici i 20 anni di differenza, considera in qualche modo un maestro. E lettere in cui il “maestro” manifesta comunque l’ammirazione per quella che ai suoi occhi è una “ragazzina”, seppur piena di talento. Lettere in cui dalla timidezza si passa alle idee e, rapidamente, allo scontro e alla fine ai veri e propri insulti. Una parabola in cui si possono riconoscere i caratteri dei due che, idee politiche a parte, hanno effettivamente contribuito a fare la storia del giornalismo italiano. La rabbia e l’orgoglio che, prima di divenire il titolo del libro probabilmente più celebre della Fallaci, erano parte integrante e caratterizzante della giornalista. E poi l’indisponibilità ad accettare lezioni da una “ragazzina” e le differenti visioni del mondo e, soprattutto, della Resistenza che Montanelli e che la Fallaci hanno e che saranno alla base della rottura tra i due. Dall’idea di un lavoro fatto insieme infatti a questo si arriva: ad una rottura praticamente definitiva tra i due. Anche se, entrambi, non smetteranno di riconoscere il valore dell’altro. “Ti disprezzo”, scriverà Montanelli. “Ti credevo migliore” le risponderà la Fallaci. Epitaffio di una collaborazione che avrebbe potuto essere magnifica ma che non poteva in realtà essere.

E poi c'è quello che nessuno ha mai detto. L'Oriana Fallaci che visse la storia di Gesù in diretta. "Stampo da mezzo secolo L'Evangelo di Maria Valtorta, 10 volumi. Contiene dettagli inediti che solo una testimone oculare può aver visto", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Immaginate un'Oriana Fallaci al fianco di Gesù, pronta a osservare e a riferire tutto ciò che vede, con una dovizia di particolari da lasciare attoniti; una cronista dalla penna insuperabile, molto più attenta di Marco, Matteo, Luca e Giovanni, i quattro evangelisti che narrarono la vita del Nazareno in modo succinto o riferendo episodi dei quali non furono testimoni diretti. Quella donna è esistita. Si chiamava Maria Valtorta. La cosa incredibile è che nacque a Caserta il 14 marzo 1897 e morì a Viareggio il 12 ottobre 1961. Ciononostante ha lasciato 122 quaderni di scuola - in tutto 13.193 pagine - compilati in uno stato di ascesi mistica fra il 1943 e il 1947, nei quali descrive per filo e per segno l'infanzia, la predicazione, i miracoli, la passione, la morte, la resurrezione e l'ascensione al cielo del Salvatore, citando luoghi, personaggi e dialoghi che nei Vangeli non compaiono. Ho potuto vedere alcuni di questi quaderni: la grafia, sgorgata da sette penne stilografiche tuttora conservate, è nitida, regolare, senza ombra di correzioni o tremori. Eppure la Valtorta era paraplegica, rimase inchiodata nel letto per 27 anni, fino al decesso, e come scrittoio doveva usare le proprie ginocchia arcuate, che infatti al momento di chiuderla nella bara erano ancora piegate in quella posa innaturale. Emilio Pisani, 79 anni, laureato in giurisprudenza, è da sempre il curatore e l'editore unico dell'opera monumentale ricavata da questi quaderni, L'Evangelo come mi è stato rivelato. Sono 10 volumi, per un totale di 5.000 pagine. Oltre 10 milioni di caratteri. Ciò significa che il racconto valtortiano è 25 volte più lungo dei quattro Vangeli canonici. «Quante copie sono in circolazione? Non lo so, c'è chi dice milioni», si sottrae pudico lo stampatore. Una cosa è certa: dal 1956 a oggi è stato tradotto persino in arabo, cinese, coreano, giapponese, russo, lituano, ucraino, croato, indonesiano, vietnamita, malayalam, tamil, rwandese e swahili. Oltre una trentina di lingue. Pisani, fondatore del Cev, il Centro editoriale valtortiano, va considerato un editore unico anche per il fatto che nessun altro suo collega al mondo ha in catalogo un solo autore. Né mi era mai capitato d'incontrare un editore che arde nel caminetto di casa i manoscritti inediti di questo suo autore. In gioventù Maria Valtorta perse il padre molto presto e così si risolse a scrivere un romanzo autobiografico, Il cuore di una donna, dal quale sperava di ricavare qualche soldo per la famiglia. In realtà non volle mai pubblicarlo e ordinò a Marta Diciotti, la governante-infermiera che la assistette dal 1935 sino alla fine, di distruggerlo. La donna non ebbe però il coraggio di farlo. «Nel 2001, prima di morire, la Diciotti consegnò il testo a me e a mia moglie», rievoca Pisani. «Lo aprimmo soltanto 10 anni più tardi. Erano pagine fittissime. Senza leggere neppure una riga , ci parve giusto bruciarle. Le ceneri le spargemmo qui fuori, nell'aiuola delle rose, che da allora fioriscono ancora più rigogliose». La villetta dei Pisani è nel giardino in cui ha sede la casa editrice, a Isola del Liri. Dal 2012 è più vuota: Claudia Vecchiarelli, insegnante di lettere e traduttrice che aveva aiutato il marito a diffondere il verbo della Valtorta, è morta di tumore. Il suo Emilio, un uomo mite dagli occhi limpidi come l'acqua delle cascate che si ammirano nel paesino della provincia di Frosinone, le ha dedicato un libro, Lettera a Claudia, in cui ripercorre la straordinaria avventura capitata a entrambi. Insieme hanno dato vita alla Fondazione Maria Valtorta Cev onlus, che amministra l'eredità materiale e spirituale della veggente e che ha acquistato dai Servi di Maria la sua casa di Viareggio, ora trasformata in museo. Per testamento sono finiti a loro tutti i documenti autografi della «evangelista», inclusi i famosi quaderni, oggi custoditi a Isola del Liri. Proprio in questi giorni gli italiani Marco Ruopoli e Matteo Ferretti e il mauritano Mor Amar, della cooperativa Sophia di Roma, hanno ultimato di digitalizzarli in alta definizione, per cui presto saranno consultabili in Pdf. Dopodiché gli originali finiranno in un caveau climatizzato, isolati dalla luce e dalla polvere.

Com'è diventato l'editore di Maria Valtorta?

«Cominciai come correttore di bozze con mio padre Michele, che negli anni Venti aveva aperto insieme al cognato Arturo Macioce una tipografia specializzata nella stampa di vite dei santi e trattati di teologia per il Vaticano e gli istituti religiosi. Una copia dell' Evangelo, dattilografata con la carta carbone dal direttore spirituale della Valtorta, il servita padre Romualdo Migliorini, fu data in lettura a Camillo Corsanego, notaio dei conclavi e decano degli avvocati concistoriali per le cause dei santi, il quale, benché sposato e padre di 6 figli, poteva fregiarsi del titolo di monsignore. Un'altra copia andò all'arcivescovo Alfonso Carinci, che era stato insegnante del futuro Pio XII all'Almo Collegio Capranica. Un'altra ancora al famoso endocrinologo Nicola Pende, che rimase impressionato dalla “perizia con cui la Valtorta descrive, nella scena dell'agonia di Gesù sulla croce, una fenomenologia che solo pochi medici consumati saprebbero esporre”. Quando i Servi di Maria chiesero al Sant'Uffizio il permesso di pubblicare il testo, la risposta fu negativa. Al che mio padre, che era stato convocato a Roma per stamparlo, si assunse l'onere di farlo come editore in proprio e nel 1952 firmò il primo contratto di edizione con la Valtorta».

Lei l'ha conosciuta?

«Certo. Andai a trovarla a Viareggio, dove il Venerdì santo del 1943 ebbe la prima rivelazione e il primo dettato».

Fu una visione? O udì una voce?

«Penso a un fenomeno interiore. Diceva di vedere Gesù e Maria accanto a sé e di essere stata fisicamente presente agli episodi narrati nei Vangeli. Leggendo la sua Autobiografia, mi ero convinto che fosse una grande donna. Giaceva nel letto e ripeteva spesso: “Che sole c'è qui!”, anche se fuori pioveva. Era in uno stato di isolamento psichico, come se avesse offerto il suo intelletto a Dio. Non le interessava comunicare con il resto dell'umanità. Quando nel 1956 ebbe fra le mani il primo volume del suo Evangelo che avevamo appena stampato, lo guardò distrattamente e lo appoggiò sulla coperta, come se non le appartenesse».

Che cosa sa della mistica?

«Era la figlia unica di Giuseppe Valtorta, mantovano, ufficiale di cavalleria, e di Iside Fioravanti, cremonese, docente di francese. A 4 anni, nell'asilo delle orsoline a Milano, le sue coetanee erano spaventate da un Cristo deposto dalla croce, raffigurato con crudo verismo nella cappella dell'istituto. Lei, invece, avrebbe voluto aprire l'urna in cui era deposto per mettergli nella mano trafitta dal chiodo il confetto che la nonna le dava ogni mattina accompagnandola a scuola. Studiò nel collegio Bianconi di Monza e nel 1917 entrò nel corpo delle infermiere volontarie che a Firenze curavano i feriti della Grande guerra. Si fidanzò due volte e per due volte sua madre, una donna fredda, dispotica, terribile, le mandò a monte il matrimonio. Nel 1920 fu aggredita per strada da un giovane facinoroso, che le diede una mazzata sui reni gridando: “Abbasso i signori e i militari!”. A causa dell'aggressione, nel 1934 rimase paralizzata dalla cintola in giù».

Ma che ha di speciale L'Evangelo ?

«Introduce personaggi e racconti che nei Vangeli sinottici non appaiono. Giovanni dice solo che Giuda era un ladro. Nell' Evangelo si spiega che rubò del denaro a Giovanna di Cusa, moglie di un intendente di Erode. Lo stesso Giuda si accorge che il Maestro piange dopo aver resuscitato il figlio della vedova di Nain, al quale la Valtorta dà per la prima volta un nome, Daniele. Interrogato dal discepolo traditore sul motivo di quelle lacrime, Gesù risponde: “Penso a mia madre”. L' Evangelo presenta figure sconosciute, come Giovanni di Endor, ex ergastolano, e Sintica, schiava greca assai colta, convertiti al cristianesimo. Per una delazione di Giuda al sinedrio, vengono esiliati ad Antiochia, da dove inviano lettere al Nazareno in cui descrivono la città della Siria con immagini e toponimi che hanno sbalordito lo studioso francese Jean-François Lavère e il mineralogista Vittorio Tredici. Quest'ultimo era di casa in Palestina e annotò come la Valtorta superasse “la normale cognizione geografica o panoramica” facendola diventare “addirittura topografica e più ancora geologica”».

L'autrice potrebbe aver attinto questi particolari in qualche biblioteca.

«E quale, considerato che non era in grado di muoversi? I libri che teneva in casa li ho io e nessuno di essi tratta della città di Seleucia Pieria, o dei monti Casio e Sulpio, o dei colonnati di Erode. Ma la cosa più strabiliante è che la Valtorta riporta in modo minuzioso la pianta e persino il colore rosso delle pareti di un palazzo che Lazzaro di Betania, resuscitato da Gesù a quattro giorni dalla morte, possedeva sulla collina di Sion. Soltanto nel 1983 un'équipe di archeologi diretta dal professor Nahman Avigad della Hebrew University di Gerusalemme ritrovò i resti della dimora, perfettamente corrispondenti alla descrizione fattane dalla mistica 40 anni prima».

Mi sfugge il senso di tanta meticolosaggine narrativa.

«Ma non sfugge a Gesù, che il 25 gennaio 1944 impartì alla Valtorta - è lei a riportarlo - questo comando: “Ricorda di essere scrupolosa al sommo nel ripetere quanto vedi. Anche una inezia ha un valore e non è tua, ma mia. Più sarai attenta ed esatta e più sarà numeroso il numero di coloro che vengono a Me”».

L'Osservatore Romano il 6 gennaio 1960 bollò L'Evangelo come «una vita di Gesù malamente romanzata».

«Inevitabile. Pochi giorni prima, il 16 dicembre 1959, era stato condannato dal Sant'Uffizio. Fu l'ultima opera messa nell' Indice dei libri proibiti, prima che Paolo VI lo abolisse: per non liberare il carcerato, demolirono il carcere. Il tutto a causa di qualche passaggio giudicato scabroso, come il racconto di Aglae, un'ex prostituta che confida a Maria di Nazaret il modo in cui un soldato romano la adescò dopo averla vista nuda».

Però nel 1985 l'allora cardinale Joseph Ratzinger ribadì la condanna.

«Con un distinguo: spiegò che la pubblicazione fu a suo tempo vietata “al fine di neutralizzare i danni che può arrecare ai fedeli più sprovveduti”. Quindi ai fedeli più avveduti non può arrecare danno, non essendovi in essa nulla contro la fede. Il cardinale Dionigi Tettamanzi, quand'era segretario della Cei, avrebbe preteso che inserissi nel colophon una postilla per avvertire i lettori che l'opera non è di origine soprannaturale. Ma chi sono io per arrogarmi questa autorità?».

È vero che Pio XII stimava la Valtorta?

«È vero che lesse l' Evangelo in dattiloscritto e che disse a padre Migliorini: “Pubblicatelo così com'è. Chi legge capirà”. Di sicuro lo capì San Pio da Pietrelcina. La bolognese Rosi Giordani nel 1989 mi scrisse che Elisa Lucchi di Forlì chiese al frate in confessione: “Padre, ho udito parlare dei libri di Maria Valtorta. Mi consigliate di leggerli?”. La risposta fu: “Non te lo consiglio, ma te lo ordino!”».

Ha notato che i veggenti, così numerosi nei secoli scorsi, sono spariti?

«Non sono mai stato né a Lourdes, né a Fatima, né a Medjugorje, pur rispettando chi ci va. Non aggiungerebbero nulla alla mia fede. La Valtorta non ambì mai a farsi conoscere. Il suo Evangelo doveva camminare nel mondo senza essere del mondo; pretese persino che la prima edizione uscisse in forma anonima. Una sola volta lo reclamizzai con un'inserzione a pagamento su Tuttolibri della Stampa: ebbene, nelle settimane seguenti ricevetti un unico ordine, evento mai capitato in precedenza. Come se l'opera rifiutasse la pubblicità».

Sorprendente.

«Le dico di più. Nel 1973 la salma della Valtorta fu esumata a Viareggio per essere traslata a Firenze, nella Basilica della Santissima Annunziata, dove vi è il celebre affresco della Madonna, a lei molto caro, che secondo Pietro Bargellini sarebbe stato completato da un angelo. Il servita Corrado Berti si aspettava un evento straordinario, per esempio il ritrovamento del corpo incorrotto. Invece affiorarono poche ossa, che fecero l'estremo viaggio con me alla guida dell'auto, mia moglie accanto e la governante Marta sul sedile posteriore».

Perché me lo racconta?

«Perché sul letto di morte la Valtorta aveva la mano sinistra già bluastra, mentre la destra, quella con cui aveva scritto L'Evangelo, era ancora rosea, come se fosse viva: nel 1961 fu considerato un segno del cielo. E la vuol sapere una cosa? Le uniche ossa che mancavano quando la disseppellimmo erano proprio quelle della mano destra. Dissolte. Come se la mistica volesse dirci per l'ultima volta: “Non pensate a me. Pensate a Lui”».

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

Papa Francesco condanna la strage di Charlie Hebdo, ma "non si può insultare la fede", scrive “Libero Quotidiano”. "È una aberrazione uccidere in nome di Dio" ma "non si può insultare la fede degli altri". Con queste parole, pronunciate a bordo dell’aereo diretto nelle Filippine e riferite da Radio Vaticana, Papa Francesco interviene sull’azione dei terroristi islamici a Parigi contro Charlie Hebdo. "Non si può prendere in giro la fede", avverte il Papa.  "C’è un limite, quello della dignità di ogni religione". Per Bergoglio, sia la libertà di espressione che quello di una fede a non essere ridicolizzata "sono due diritti umani fondamentali". Alla domanda di un cronista francese che gli chiedeva "fino a che punto si può andare con la libertà di espressione", il Pontefice ha chiarito: sì alla libera espressione "ma se il mio amico dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno". Questo il limite che secondo il Papa regola la libertà religiosa: "Non si giocattolizza la religione degli altri", dice Bergoglio. Francesco ha ricordato che la "libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere". Neppure, dice il Papa, "si offende la religione", ma in questo caso "non si reagisce con violenza". Poi ha spiegato, "senza mancare di rispetto a nessuno" che "dietro ogni attentato suicida c'è uno squilibrio, non so se mentale, ma certamente umano". In una nota diramata subito dopo la strage Bergoglio aveva condannato "ogni forma di violenza, fisica e morale, che distrugge la vita umana, viola la dignità delle persone, mina radicalmente il bene fondamentale della convivenza pacifica fra le persone e i popoli, nonostante le differenze di nazionalità, di religione e di cultura". Il Papa aveva precisato che "qualunque possa esserne la motivazione, la violenza omicida è abominevole, non è mai giustificabile e la vita e la dignità di tutti vanno garantire e tutelate con decisione. Ogni istigazione all’odio va rifiutata, il rispetto dell’altro va coltivato". E ancora: tre giorni fa Bergoglio, ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, aveva detto che "la tragica strage avvenuta a Parigi" è una dimostrazione che "gli altri non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti: l’essere umano da libero diventa schiavo, ora delle mode, ora del potere, ora del denaro e perfino di forme fuorviate di religione". Rispetto alle minacce dirette dai terroristi fondamentalisti di matrice islamica contro il  Vaticano e il pontefice, Papa Francesco assicura di affrontare questo pericolo "con una buona dose di incoscienza". Il Papa - come riferisce ancora Radio Vaticana - afferma semmai di "temere soprattutto per l’incolumità della gente", con migliaia di fedeli che tradizionalmente affollano le sue udienze generali in piazza San Pietro e gli ’Angelus’ dal Palazzo Apostolico e sottolinea che "il miglior modo per rispondere alla violenza è la mitezza".

Ferrara su Papa Francesco: "Le sue parole su Charlie non sono una gaffe. Sono molto peggio", scrive “Libero Quotidiano”. "Se dici una parolaccia su mia mamma ti devi aspettare un pugno", ha detto ieri Papa Francesco a proposito della libertà di espressione e della blasfemia. "È aberrante uccidere in nome di Dio", ha detto il gesuita Bergoglio, ma è sbagliato anche "insultare le religioni". Parole molto forti pronunciate mentre era in aereo in volo verso le Filippine che hanno in qualche modo hanno stupito cattolici e non. E proprio a quelle parole Giuliano Ferrara dedica oggi il suo editoriale sul Foglio sottolineando che "il fantasma di Voltaire e della sua irrisione delle religioni, dai maomettani ai papisti agli ebrei, il fantasma di un Charlie del Settecento, è ancora troppo vivo, nonostante si faccia finta di averne cancellato anche il ricordo con il Concilio ecumenico vaticano II". "Perché il Papa ha parlato in modo da essere identificabile come il tutore dell' autodifesa della dignità delle religioni invece che come il custode della sacralità della vita umana e del diritto alla libertà d' espressione?", si chiede il direttore del Foglio. La risposta arriva un paragrafo più sotto: "Non credo sia una gaffe, modalità a parte, ché il magistero posta aerea è effettivamente un po' troppo colloquiale per valere erga omnes. Non ha perso la brocca, il Papa, il che sarebbe umano, possibile, riparabile. C' è dell'altro. C'è la convinzione, comune al Papa e a molta cultura irenista occidentale, che si debba convivere con l'orrore, che il distacco concettuale e spirituale dell'islam dalle pratiche violente del jihad è una conquista che spetta eventualmente all'islam di realizzare, che non esiste alternativa alla sottomissione o all'abbandono al dialogo interreligioso". Del resto, spiega Ferrara nell'articolo firmato con l'elefantino rosso, "per quanto si voglia essere Papa del secolo e nel secolo, per quanti omaggi si facciano, anche per i creduloni, alla libertà piena di coscienza come fondamento della fede, della possibilità della fede, alla fine quel che conta è non perdere il contatto con l'universo islamico, e la chiesa sa bene, ben più e meglio di altri, che il nemico violento non è il terrorismo ma l'idea coranica radicalizzata di cui il terrorismo è il frutto". "Parole e gesti del Papa, le risate risuonate nella carlinga del suo aereo, la metafora del pugno risanatore che colpisce e ripara l'offesa alla dignità, la declamazione tra pause teatrali del concetto "è normale, è normale", tutto questo non è gaffe", conclude Ferrara. "E' di più e peggio". "La piazza araba militante, gli imam che predicano nelle moschee e riluttano a un rigorosa condanna della decimazione con fucile a pompa di redazioni di giornale e negozi ebraici, da ieri si sentono meno isolati, meglio protetti dalla convergenza con il Papa di Roma".

Giuliano Ferrara: "#JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly, vi spiego perché provo pena e ammirazione per gli stragisti di Parigi", scrive “Libero Quotidiano”. Controcorrente. Sempre. Sin dal principio della questione, che ne è anche il presupposto, ossia quell'idea di essere in "guerra santa" contro l'islam gridata negli studi di Servizio Pubblico, idea espressa pochi minuti dopo l'attacco al Charlie Hebdo in un videoeditoriale sul sito del Il Foglio. "Guerra santa", appunto, il presupposto di Giuliano Ferrara, un concetto rifiutato con sdegno da gran parte dell'auditorio, da chi opera dei distinguo forse necessari, ma non per l'Elefantino. E sul tema, Ferrara, ci torna nel suo editoriale su Il Foglio di lunedì, pur prendendolo da una prospettiva diametralmente opposta che emerge sin dal - controverso - titolo: "#JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly: ecco perché". Il direttore parafrasa lo slogan #JeSuisCharlie e lo dedica ai tre protagonisti dell'orrore di Parigi, ai tre terroristi islamici. Ferrara spiega nell'attacco: "Una pena profonda e un'ammirazione per il loro fanatico coraggio mi legano ai nemici, ai fratelli Said e Sherif Kouachi e Amely Coulibaly. In un certo senso di origine cristiana, #JeSuisKouachi e #JeSuisCoulibaly". L'Elefantino prosegue: "Hanno assassinato persone più o meno come me, libertini della mia razza culturale e civile, gente che disegnava e rideva e sbeffeggiava, con una tinta blasfema che non ho ma che comprendo perfettamente nella dismisura anarchica e fragile e folle del loro essere artisti in una società secolarizzata e nihilista". Il direttore traccia nitidamente i contorni del suo sentimento, della "pena" e dell'"ammirazione", e sottolinea: "Mi vengono non da quella abbondanza di misericordia e di accoglienza che è diventata una pappa senza intimo rigore logico, senza giustizia linguistica, senza verità che non sia sentimentale. Non dal cuore ma dalla testa. Perché non è vero che tutto questo, come ha infelicemente detto Francois Hollande e come ripete lo stolto collettivo sul teatro mondiale della correttezza politica, non ha nulla a che fare con l'islam". I dettagli multiculturali - Ferrara nel suo editoriale si addentra nel "diritto come sharia, come legge divina", parla di Egitto, di Torquato Tasso dell'eroe cristiano Tancredi. Un lungo presupposto per rimarcare come "i dettagli meno multiculturali della storia tragica di Parigi sono come scomparsi". E secondo lui, senza comprendere a fondo quei "dettagli", non si può comprendere a fondo l'intera vicenda, che come Ferrara ha ripetuto negli ultimi giorni non è "terrorismo", bensì "guerra santa". Tornando sui terroristi, l'Elefantino ricorda come "hanno scelto di eseguire un ordine divino che impone di castigare la blasfemia come è accaduto a Charlie Hebdo". E ancora: "Hanno scelto la morte degli altri, e la loro, in un rito culturale di conversione e arruolamento, di esecuzione della legge coranica, al quale hanno saputo corrispondere fino alla fine nella follia della testimonianza di gioventù, uscendo allo scoperto e sparando all'impazzata davanti alla falange dei gendarmi di cuoio, oppure pregando alle cinque, ora del blitz, e correndo poi verso l'esecuzione nel negozio kosher". I dettagli, appunto. Ferrara insiste ancora sui dettagli, e nella conclusione dell'articolo di fondo ribadisce: "Sono dettagli importanti, sono il punto di vista che conta, più della rapida capacità di allineamento menzognero al mainstream politico islamo conformista di un capo Hezbollah o di un presidente iraniano che si dissociano a sorpresa". Il punto, per il direttore, è che il pensiero buonista e dominante rischia di far perdere il fuoco dell'obiettivo. Così Ferrara sottolinea, riferendosi ai terroristi: "Se li degradate a lupi, degradate voi stessi. Disconoscete il nemico. Non sarete mai capaci di combatterlo né di amarlo. Al posto del vangelo, libro eccelso, primitivo e terribile e selvaggio, metterete il prontuario della cultura del piagnisteo, una specie di ideologia che fa dello scontro di religione e di civiltà in atto una storiaccia di cronaca nera e di impazzimento terrorista". Ma per Ferrara, bene ribadirlo ancora una volta, è tutt'altro: è "guerra santa".

Mario Giordano: Basta, ecco perché non posso più dire "Je suis Charlie Hebdo", scrive su “Libero Quotidiano”. Scusate, ma devo dire una cosa un po’ difficile, forse persino un po’ dolorosa. Anche per me stesso. Però devo dirvela: è da stamattina che non mi sento più tanto Charlie. Anzi, proprio per nulla. Je ne suis pas Charlie. Je ne suis plus Charlie. Ne ho avuto la netta sensazione sfogliando il nuovo numero del settimanale satirico francese appena arrivato in edicola. Guardavo le pagine, diventate loro malgrado il simbolo della nostra civiltà offesa, e pensavo: ma possono essere davvero il simbolo della nostra civiltà offesa? Abbiate pazienza, ma io in quelle vignette non mi riconosco. Nemmeno un po’. Anzi, al contrario: penso che qui dentro, dentro questi fogli della sinistra sessantottarda, dentro questa cultura anarchica e distruttiva, dentro questi schizzi blasfemi che fanno a pezzi i nostri valori, dentro gli sberleffi che mettono alla berlina i nostri credi, ci sia il motivo vero della debolezza occidentale. Il motivo per cui siamo in balia di un nemico così terribile come quello islamico. Sia chiaro: da questo nemico terribile Charlie Hebdo va difeso con ogni mezzo perché dobbiamo salvare la libertà di espressione. Ed è stato giusto, per una settimana, essere diventati tutti Charlie, con quello slogan che ha riempito le piazze, Je suis Charlie, Nous sommes Charlie... Ma un conto è difendere la libertà di esprimersi, un conto è difendere ciò che viene espresso: la differenza, ne converrete, non è nemmeno così sottile. Siamo pronti alla battaglia per garantire la libertà di Charlie Hebdo di disegnare e scrivere ciò che vuole. Ma allo stesso modo dobbiamo essere liberi di dire che quello che Charlie Hebdo disegna e scrive non ci piace. Nemmeno un po’. Perché Charlie Hebdo incarna in sé il peggio del nichilismo post-Sessantotto, il peggio del gauchisme radical-nullista, il peggio della rivoluzione permanente ed effettiva. Si sono messi contro gli islamici perché amano da sempre mettersi contro tutto: contro gli ebrei, contro i cattolici, contro la Patria, contro l’esercito, contro le istituzioni, contro la famiglia, contro l’ordine, contro la sicurezza, contro la polizia, contro il commercio, contro le imprese, contro l’idea stessa di nazione e contro ogni Dio. Amano, cioè, mettersi contro tutto quello che costituisce il fondamento stesso di questa società occidentale, che pure oggi li difende a spada tratta. Ma da cui loro - ne siamo sicuri - continuano a sentirsi estranei. Anzi: avversari. Perché, diciamocela tutta, questa società occidentale che li difende a spada tratta a loro fa un po’ schifo. E allora Je suis Charlie, sicuro, fin che devo difendere il diritto di questi colleghi a dire la loro opinione. Ma Je ne suis plus Charlie se devono identificarmi con loro, che bestemmiano Dio, insultano le tradizioni, e usano il sacrosanto diritto di opinione per minare la società che glielo garantisce. Dunque, da oggi, visto che il settimanale è di nuovo uscito, scusate ma Je ne suis plus Charlie. Je ne suis plus Charlie perché non voglio e non posso accettare che i simboli della nostra società attaccata dal terrore islamico diventino proprio coloro che la nostra società la odiano. Coloro che la vorrebbero abbattere. E che la mettono in pericolo ogni giorno attaccandola nei suoi valori fondamentali. Se, in questa battaglia, dobbiamo metterci in fila dietro una bandiera, mi piacerebbe che essa fosse la bandiera della libertà dell’Occidente. Non un foglio che l’Occidente, al contrario, lo disprezza. Invece si sta compiendo proprio questo. Un po’ per interesse (operazione Hollande), un po’ per soggezione culturale (la predominanza della sinistra), alla fine la difesa dell’Europa colpita al cuore si è trasformata nella difesa tout court dei contenuti (assai discutibili) di una rivista. Fateci caso: anche se nella carneficina di Parigi sono morti agenti, ebrei, custodi di palazzo, alla fine tutto si riduce al simbolo di Charlie Hebdo. Al suo messaggio irresponsabile e irriverente. Questo è l’errore fondamentale. Perché non dobbiamo dimenticare che nella guerra contro il fondamentalismo islamico la loro forza è la nostra debolezza. Se loro osano alzare le armi contro di noi è perché noi siamo in ginocchio, se credono di poterci sottomettere ai loro valori è perché noi abbiamo rinunciato ai nostri, se ritengono di poterci imporre le loro tradizioni è perché noi abbiamo rinunciato alle nostre. E di questa rinuncia il settimanale francese è la dimostrazione più lampante. Perciò, dopo essere stato per una settimana Cabu, Charb, Wolinski, Tignous, da oggi mi sento in dovere di dirvi: maintenenat non plus. Ora non più. Per difenderci davvero non possiamo essere Charlie.

Dopo Charlie Hebdo: perché bisogna fermare la censura dei buoni. Si comincia a ritenere che chi critica vignette blasfeme sia contro la libertà. E chi ha una posizione culturale ben definita ostacoli l'integrazione, scrive Marco Cobianchi su “Panorama”. Temo che dalla grandiosa marcia parigina nasca un nuovo tipo di censura. La censura dei buoni. La censura di quelli che vogliono abbassare i toni; quelli che se dici che siamo di fronte ad una guerra e non a dei terroristi, fomenti l’odio; quelli che sanno ciò che è opportuno dire e cosa no e se non collabori, allora sei un guerrafondaio, un estremista, un fondamentalista anche tu. Oppure un cretino. La censura dei buoni è funzionale al disegno del potere: nessun leader europeo (Hollande è scusato) ha osato esprimere un’opinione diversa dal “sono terroristi, la religione non c’entra” e così i assassini diventano “sedicenti islamici” e a chi fa notare che mentre macellavano innocenti gridavano “Allah Akbar” viene tacciato di perseguire lo scontro di civiltà. Ecco perché i terroristi sono diventati "sedicenti islamici". Davanti a chi ha una posizione diversa i buoni sono pronti a sventolare il ditino inquisitore spiegando che così non si fa il bene dell’umanità che consiste nell’integrazione e nel dialogo. E siccome l’ostacolo maggiore al dialogo sarebbe avere una posizione culturale, religiosa, sociale ben definita, allora la colpa della mancata integrazione è tua. L’unica posizione culturale accettata diventa così quella laica che, indifferente a tutto, non fomenta l’odio. Perciò bisogna, adesso più di prima, stare attenti a non cadere nell’eccesso contrario facendo passare l’idea che Charlie Hebdo è un giornale di anarchici scapigliati e va difeso mentre chi ritiene le sue vignette volgari, blasfeme e ripugnanti sta armando le mani degli assassini. Bisogna stare attenti a non accusare chi esercita la propria libertà di critica di intelligenza con il nemico. Bisogna vigilare, perché questo tipo di censura dei buoni è in grado di devastare lo spazio pubblico togliendo libertà a chi non è allineato con il pensiero mainstream. Quello secondo il quale solo chi non crede in niente accetta tutto ed è pronto a dialogare con chiunque. Per dirsi cosa, poi, non si sa. La censura dei buoni è quella che pensa che la pace nel mondo, che si raggiunge con l’integrazione, è un fine talmente nobile che della libertà della singola persona si può anche fare a meno.

Solidarietà già finita: "Charlie se l'è cercata". E Greta e Vanessa no? Buonismo addio, per i vignettisti trucidati spuntano i distinguo. Per le nostre cooperanti amiche dei nostri nemici, invece..., scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Dire che non siamo sorpresi ci farebbe apparire presuntuosi, nonostante avessimo segnalato, già dal giorno della strage di Parigi, il diffondersi dell'opinione che i giornalisti di Charlie Hebdo se lo sono cercata. Certo, nel mondo dell'islam radicale hanno esultato perché chi ha offeso Maometto, secondo il loro delirante pensiero, va punito con la morte. Ma scoprire che, anche in Europa, ci sia più d'uno che definisca l'orrendo massacro solo una brutale conseguenza delle continue provocazioni del settimanale satirico, ci fa inorridire. Perché questo significa abbracciare le tesi dei fondamentalisti e diventare, di fatto, loro fiancheggiatori. Esageriamo? Tutt'altro. È come se si giustificassero le stragi delle foibe, perpetrate dai partigiani di Tito contro la popolazione italiana di Venezia Giulia e Dalmazia alla fine della seconda guerra mondiale: il regime fascista è stato brutale durante l'occupazione dell'ex Jugoslavia, quindi è naturale e giusto che tutti gli italiani, indistintamente, siano sterminati. Una tesi riprovevole, anche se tanto cara, fino a pochi anni fa, ai comunisti nostrani. Ma Charlie Hebdo non è stato neppure un regime brutale. Ha esagerato nella sua satira anti religiosa? Secondo la legge, no. E, fino a prova contraria, nei Paesi del Vecchio Continente sono in vigore norme in sintonia con la democrazia moderna e non con la sharia. Se la maggioranza dei cittadini deciderà in futuro di modificare le leggi sulla libertà d'espressione, allora giornali e tv si adegueranno. Ma guai a farlo per compiacere qualcuno o nel nome del «politicamente corretto». Se uno crede che la satira superi i limiti della decenza, può sempre rivolgersi a un tribunale e chiedere giustizia. Nei Paesi civili funziona così, almeno fino a quando anche in Europa, grazie alla politica delle porte aperte, non nasceranno le prime teocrazie. È comprensibile che Papa Francesco ritenga inaccettabile che la fede sia ridicolizzata, lui è un leader religioso. Meno accettabile è che lo sostengano esponenti laici, garanti della libertà d'espressione o, addirittura, fondatori di giornali satirici, come Henri Roussel, uno dei padri di Charlie Hebdo , che ha criticato il direttore assassinato per le sue scelte editoriali. La blasfemia non è più un reato, grazie alla laicità dello Stato, e in Francia questo è accaduto già nel 1789. Non sappiamo se a spingere queste persone sia la paura o altro, ma il loro modo di interpretare le stragi del terrorismo jihadista è uno schiaffo ai nostri valori e un assist a chi dell'estremismo continua a fare la sua bandiera. Se si usasse la stessa malevolenza, oggi si dovrebbe dire che Vanessa Marzullo e Greta Ramelli andavano lasciate al loro destino perché se la sono cercata. Sono entrate illegalmente in Siria attraverso la Turchia, sapevano di andare in un Paese dove era in corso una guerra civile, hanno fatto una scelta di parte diventando amiche del «nemico». Cosa si aspettavano, che sventolare una bandiera anti Assad avrebbe fornito loro l'immunità?

Siria, Candiani (Ln): Magistratura indaghi onlus per circonvenzione d'incapaci, scrive “Libero Quotidiano”. “Nella vicenda di Greta e Vanessa consiglierei ai magistrati di aprire un filone di indagine anche per ‘circonvenzione d’incapaci’: devono essere perseguite anche quelle associazioni ed onlus poco serie che spingono le persone a rischiare la vita, senza le adeguate tutele e i minimi requisiti di sicurezza”. A dirlo il senatore leghista Stefano Candiani, in relazione alla liberazione delle due cooperanti. “La magistratura faccia approfondite indagini sui ‘reclutatori’ che, indottrinando al terzomondismo, mandano allo sbaraglio i giovani e li espongono così ai peggiori pericoli”. Candiani punta il dito contro “l’atteggiamento irresponsabile e colpevole di chi fa ideologia a basso costo, mettendo a rischio la vita di attivisti, militanti, cooperanti, e di chi è poi chiamato a occuparsi dei rapimenti”. “Oggi i cattivi maestri sono responsabili di aver messo a repentaglio vite umane e, nella malaugurata ipotesi (peraltro non smentita da Gentiloni) che sia stato pagato un riscatto, anche di tutti gli italiani nel mondo, che oggi rischiano di essere prede facili del crimine internazionale, che ha capito la scarsa serietà del paese italico”.

Ma così siamo il bancomat dei terroristi, scrive Francesco Maria De Vigo su “Il Giornale”. Sono libere. Sono vive. È una buona notizia e, ora più che mai, ne abbiamo bisogno. Ma ci sono tanti “ma”. E non si possono tacere. Il primo è che se loro stanno bene, in compenso, il nostro stato non gode di altrettanta buona salute. Il governo infatti avrebbe pagato dodici milioni di euro di riscatto per Greta e Vanessa. Un conto salatissimo in un Paese che, per legge, congela i beni dei parenti di chi è stato sequestrato. Ma qui i parenti, si fa per dire, sono lo Stato, siamo noi. Ed è noto che per lo Stato non valgono le leggi dello Stato. Bene, dunque dobbiamo farci una domanda: è giusto pagare i terroristi? Perché è chiaro che se noi – gli italiani, gli occidentali -, paghiamo il riscatto per ogni nostro concittadino, ogni nostro concittadino – italiano, occidentale -, diventa un salvadanaio deambulante per qualsiasi tagliagola. Una slot machine facile da sbancare. Ma così ci trasformiamo nel bancomat dei terroristi. Ed è abbastanza stupido. Dodici milioni sono tanti, abbastanza per armare un plotone di jihadisti (nel deep web con 1500 euro si compra un kalashnikov). Non possiamo dare la paghetta, e che paghetta!, a chi ci vuole sbudellare. Parliamoci chiaro: possiamo farci carico di tutti gli sprovveduti che pensano di farsi una “vacanza intelligente” in una zona di guerra, di fare il buon samaritano a spese nostre? No. Non lo dico solamente perché le due ragazze pensavano che Assad fosse il babau e i suoi nemici dei chierichetti vessilliferi della libertà più specchiata (questo lo pensava – erroneamente o con complicità – anche buona parte della stampa internazionale). Lo dico perché lo Stato italiano non può fare da badante a qualunque suo cittadino, che si tratti del più stupido o del più intelligente, si cacci nei guai nell’ultimo pertugio del mondo. Specialmente in un periodo in cui non riesce a garantire la minima sussistenza anche a chi se ne sta comodamente seduto sul divano di casa sua. Ma avanza un’altra domanda: perché lo Stato che non ha trattato (giustamente) con le Br tratta con gli jihadisti? Trattare significa arrendersi. E in questo momento è l’ultima cosa da fare.

L’Italia finanzia il terrorismo internazionale a forza di riscatti, scrive Giusi Brega su “L’Ultima Ribattuta”. Il nostro Governo ha l’abitudine di pagare i riscatti chiesti dai terroristi per restituirci i nostri connazionali rapiti. In questo modo contribuisce a finanziare le organizzazioni eversive internazionali come l’Isis e innesca un circolo vizioso. In queste ore stanno avendo luogo le trattative per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria e apparse, il 31 dicembre, in un video postato su YouTube nel quale le ragazze supplicano il nostro governo di riportarle a casa prima che vengano uccise. Le fonti non escludono che il video sia stato girato per dare alle autorità italiane la prova in vita delle due ragazze e che successivamente è stato reso pubblico dai rapitori per «alzare il prezzo del riscatto». Riscatto che l’Italia è sicuramente pronta a pagare visto che, ogniqualvolta il nostro Governo si ritrovi a trattare con il terrorismo internazionale per la liberazione degli ostaggi, finisce sempre con l’aprire il portafogli: i prigionieri tornano a casa e, anche se le Istituzioni si guardano bene dal confermarlo, è risaputo che dietro alla liberazione c’è stato il pagamento di un riscatto che va a confluire dritto dritto nelle tasche delle organizzazioni eversive: un giro di affari che a livello internazionale è stimato in 125 milioni di dollari (dal 2008 ad oggi) a cui l’Italia contribuisce in maniera considerevole. Fare i terroristi costa. Il business degli ostaggi rende parecchio. Ed è un guadagno facile. Soprattutto se si ha a che fare con un Paese come l’Italia sempre pronta a pagare quanto chiesto. Fonti di stampa sostengono, infatti, che dal 2004 ad oggi il nostro Paese abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per 14 ostaggi catturati dai terroristi operativi nelle zone a rischio del mondo. Qualche esempio: per liberare lo scorso maggio il cooperante italo-svizzero Federico Motka, il nostro governo ha versato nelle casse degli jihadisti qualcosa come 6 milioni di euro. Anche per il rilascio del giornalista Domenico Quirico (sequestrato in Siria il 9 aprile 2013 e rilasciato l’8 settembre) sembra sia stato pagato un riscatto di oltre 4 milioni di dollari. Ricordate Giuliana Sgrena? La giornalista del Manifesto fu rapita nel febbraio del 2004 in Iraq e liberata un mese dopo grazie al sacrificio del funzionario del Sismi Nicola Calipari e a fronte del pagamento di 6 milioni di dollari. E le due Simone? Simona Pari e Simona Torretta furono rilasciate nel settembre 2004 dopo aver fatto pagare un riscatto di 11 milioni di dollari. E poi Marco Vallisa (il tecnico italiano rapito in Libia nel luglio scorso) per il quale sembra sia stato pagato un riscatto di 4 milioni di dollari. I nostri governi dal 2004 ad oggi si sono guadagnati la fama di “pagatori di riscatti” elargendo milioni di euro di denaro pubblico finanziando così la follia omicida di organizzazioni come l’Isis  pronte a usare il denaro per uccidere e torturare, mettendo a repentaglio la sicurezza e la democrazia mondiale. Come se ciò non bastasse, questo atteggiamento mette a repentaglio l’incolumità dei nostri connazionali all’estero trasformandoli in “merce preziosa”. Per fare in modo che i sequestri non siano più considerati una risorsa di finanziamento e rompere questo circolo vizioso basterebbe applicare le norme internazionali in vigore che proibiscono di pagare riscatti ai terroristi come stabilito da una risoluzione delle Nazioni Unite (approvata dopo l’11 settembre 2001) e da un accordo sottoscritto dai Paesi del G8. D’altra parte se il sequestro avviene in Italia, la magistratura blocca i beni del sequestrato. Non si capisce perché se il sequestro avviene all’estero si finisca sempre col pagare un riscatto milionario (con i soldi dell’erario, cioè i nostri).

Vanessa e Greta: I commenti di Magdi Allam e Adriano Sofri, scrive Niccolò Inches su “Melty”. Il video messaggio di Vanessa e Greta, detenute in Siria dal gruppo jihadista Al Nusra, ha scatenato il dibattito sull'opportunità dell'iniziativa umanitaria delle due attiviste. Il punto di vista di Adriano Sofri e Magdi Cristiano Allam. La pubblicazione del video messaggio di Vanessa e Greta, le due attiviste umanitarie scomparse nel luglio scorso mentre si trovavano in Siria, ha confermato l'ipotesi del rapimento. Le due ragazze sarebbero nelle mani del gruppo jihadista Al Nusra, cellula legata ad Al Qaeda, attiva nel paese arabo in cui è in corso una guerra civile tra i corpi militari fedeli al regime di Bachar Al Assad e i ribelli, tra i quali non figurano solo forze democratiche ma anche numerosi nuclei del fondamentalismo islamico. In Siria era detenuto anche il giornalista de “La Stampa” Domenico Quirico, liberato nel 2013 quando soffiava il vento di una “guerra lampo” pensata dagli Stati Uniti di Barack Obama (poi mai realizzata per via della resistenza della Russia di Putin e della Cina). Su Quirico, però, non si scatenò il vespaio di commenti offensivi e sessisti apparsi sul web per attaccare la presunta irresponsabilità delle due giovani cooperanti. Ogni conflitto porta con sé il rischio di sequestri e violenze nei confronti di cittadini stranieri: il caso di Vanessa e Greta si accoda a quanto successo in passato a Giuliana Sgrena, le due Simone, Daniele Mastrogiacomo e altri in Iraq. Come puntualmente si verifica ad ogni notizia di rapimento, inoltre, scoppia dunque la polemica tra i partigiani dell'intransigenza, quelli che il racconto della guerra o un aiuto umanitario non possono valere il prezzo di un riscatto (specialmente se dovesse servire a riempire le casse dei terroristi), e coloro che tessono le lodi di una – pur rischiosa – iniziativa, in nome di valori universali e cosmopoliti. Sul rapimento di Vanessa e Greta (ecco chi sono le due cooperanti) sono intervenuti due illustri rappresentanti di entrambi i fronti, all'interno di due editoriali: la critica di Magdi Cristiano Allam, autore di “Non perdiamo la testa” (pamphlet di denuncia della presunta cultura violenta veicolata dall'Islam) e firma del Giornale da una parte, dall'altra l'ossequio dell'ex esponente di Lotta Continua – condannato per l'omicidio Calabresi - Adriano Sofri, oggi penna di Repubblica. Ne riportiamo alcuni passaggi.

Magdi Allam: i riscatti finanziano i terroristi. “Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebberosequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico (…) Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta!”

Adriano Sofri difende le due cooperanti. “Furono istruttive certe reazioni al sequestro. Con tanti auguri di uscirne sane e salve, per carità, ma con un abietto versamento di insulti, a loro e famiglie. Stiano a casa a giocare con le bambole, sono andate a farsi il selfie coi terroristi, non ci si sogni di riscattarle con “i nostri soldi”, paghino gli irresponsabili genitori… Un genitore si sentì costretto a spiegare che sua figlia era maggiorenne, che lui l’aveva dissuasa, che non poteva legarla… Io mi sforzerei di dissuadere una ragazza che, per amore dei bambini senza cibo senza medicine e senza amore, volesse partire per la Siria. Non potrei legarla, e soprattutto non potrei fare a meno di ammirarla (...) Greta e Vanessa [sono] donne, e giovani: troppo giovani e troppo donne, verrebbe da dire, in questa euforica infantilizzazione anagrafica universale. Avevano alle spalle un’esperienza da invidiare di conoscenza e aiuto al proprio prossimo in Africa e in Asia, e della stessa Siria erano veterane. Questa volta andavano ad Aleppo col proposito preciso della riparazione di tre pozzi, per gente privata anche dell’acqua (…) I ritratti che ne fanno delle creaturine in balia di slogan e smancerie sono contraddetti da una loro mania contabile scrupolosa ed efficiente, e dall’idea che la rivoluzione sia l’autorganizzazione di ospedali, scuole, mense… (…) Gli insulti contro Vanessa e Greta avevano argomenti come il tifo per Bashar al Assad e il precetto di farsi gli affari propri: farsi gli affari di Bashar al Assad, insomma (…) perché riscattare vite a pagamento? Perché sì, perché la minaccia che incombe su una persona, la mano già alzata sul suo capo –era vero per Aldo Moro- viene prima della preoccupazione sul vantaggio che il carnefice trarrà dall’incasso di oggi”.

Vanessa Marzullo e Greta Ramelli: vittime del cuore o “incoscienti da salvare”? Scrive “Blitz Quotidiano”. Il sequestro ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli ha provocato sul Giornale un titolo di prima pagina un po’ fuori falsariga nazionale: “Due italiane rapite in Siria. Altre incoscienti da salvare”. È il titolo a un articolo di Luciano Gulli, sulla stessa linea, che si stacca dal tono generale degli articoli sul rapimento ad Aleppo di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli che ha suscitato un turbine di solidarietà e notizie, mentre certamente i servizi segreti italiani hanno iniziato a prelevare, dai conti segreti e fuori della giurisdizione del Fisco, i milioni di euro che serviranno per pagare il loro riscatto. Proprio pochi giorni fa il New York Times aveva messo in fila tutti i rapimenti opera di gruppi terroristici, indicando tutti i paesi che hanno alimentato le casse di Al Qaeda con i riscatti per liberare connazionali. La cosa sorprendente è che non solo L’Italia paga, ma anche Francia, Austria, Svizzera e la rigorosissima Germania. Vicende angosciose come i rapimenti si risolvono in bagni di lacrime collettive e pagamenti occulti, exploit come ai tempi di Maurizio Scelli, e poi tutti tornano ai loro problemi di tutti i giorni, in attesa del prossimo. Luciano Gulli invece va giù piatto e definisce Vanessa Marzullo e Greta Ramelli “due incoscienti da salvare sull’orlo del baratro” scrivendo così: “Solidarietà, certo, mancherebbe. Come si fa a non essere vicini, a non sperare il meglio per due ragazze che invece di andarsene al mare con gli amici decidono di passare l’estate in Siria, tra le macerie, sotto le bombe, ogni giorno col cuore in gola per dare una mano ai bambini di quel martoriato Paese? Meno bello – e questo è l’aspetto che varrà la pena sottolineare, quando tutto sarà finito – è gettare oltre l’ostacolo anche i soldi dei contribuenti per pagare riscatti milionari o imbastire complesse, rischiose, talvolta mortali operazioni di recupero di certe signorine che oltre alla loro vita non esitano a mettere a repentaglio anche quella degli altri. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, sparite nel nulla sei giorni fa ad Aleppo, sequestrate da una banda di tagliagole torneranno, ne siamo certi. Ma quando saranno di nuovo tra noi qualcuno dovrà spiegar loro che la guerra, le bombe, quei territori «comanche» dove morire è più facile che vivere sono una cosa troppo seria, troppo crudele per due ragazzine. Che sognare di andare in battaglia «per dare una mano», per «testimoniare», come troppe volte abbiamo visto fare a tante anime belle, dalla Bosnia all’Irak di Saddam, è una cosa che si può sognare benissimo tra i piccioni di piazza del Duomo, un selfie dopo l’altro, abbracciate strette strette, quando il rischio maggiore è di beccarsi un «regalo» dai pennuti. Ma senza i nervi, la preparazione, il carattere, l’esperienza che ti dice cosa fare e cosa non fare; senza quel rude pragmatismo che ti viene dopo aver battuto i marciapiedi di tante guerre è meglio stare a casa. Non ci si improvvisa reporter di guerra e non ci si improvvisa neppure cooperanti senza aver imparato come si fa, come ci si comporta, come è fatto il sorriso che ti salverà la vita quando ti troverai di fronte a un mascalzone che vuole i tuoi soldi e le tue scarpe, o al ragazzino che sbuca dall’angolo di una casa, e per rabbia, per vendetta, o anche solo per paura, lascia partire una raffica di mitra che può spedirti all’altro mondo in un amen. Sono le stesse cose che scrivemmo nel settembre di dieci anni fa, quando a Bagdad vennero liberate Simona Torretta e Simona Pari. Le «due Simone» uscirono incolumi da un’avventura durata tre settimane. Non così andò l’anno dopo, quando sempre a Bagdad rapirono la giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Per liberarla, quella volta, morì l’agente del Sismi Nicola Calipari. Che dire di più, in queste ore? Niente. Fermiamoci qui. Intrecciamo le dita, sperando di rivedere presto queste altre «Simone»”.

Vanessa e Greta a Roma: l'incubo è finito, scrive Giulia Vola su “Magazine delle donne”. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie rapite in Siria a luglio sono tornate in Italia questa mattina. Ad accoglierle il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. A far discutere il maxi riscatto che l'Italia avrebbe pagato per la loro liberazione. Libere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le volontarie ventenni rapite in Siria lo scorso luglio sono tornate in Italia questa mattina all'alba accolte all'aeroporto di Ciampino dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni: è festa grande a Gavirate (Varese), il paese di Greta, e a Brembate (Bergamo), quello di Vanessa. L’annuncio è arrivato nel tardo pomeriggio di giovedì con un tweet di Palazzo Chigi, seguito dalla conferma - alla Camera - del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi. Nel frattempo il premier Matteo Renzi aveva chiamato la famiglia di Greta per anticipare quella notizia che ha cambiato la vita di due famiglie che per mesi hanno temuto il peggio ma non hanno mai perso la fiducia. Nemmeno quando, lo scorso 31 dicembre, erano apparse in quel video diffuso dai rapitori in supplicavano "il nostro governo di riportarci a casa". Ieri la richiesta è stata esaudita e nei due piccoli centri lombardi le campane hanno suonato a festa spezzando quell'attesa straziante durata sei mesi, da quando le tracce delle due ragazze si erano perse ad Abizmu, poco lontano da Aleppo, nel Nord della Siria. Eppure, mentre in Lombardia si festeggia, a Roma c’è (già) chi fa polemica. Soprattutto dopo che la tv di Dubai al Aan - ripresa anche dal Guardian - ha parlato di 10 milioni di dollari, poco più di 12 milioni di euro versati nelle tasche dei rapitori. Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini tuona contro l’eventualità che si sia pagato un riscatto: "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il Governo avesse pagato 12 milioni sarebbe uno schifo" ha commentato senza mezzi termini seguito a ruota dal compagno di partito Roberto Calderoli e dalla forzista Maria Stella Gelmini, tutti accomunati dalla stessa domanda: è legittimo pagare sapendo che il denaro finanzierà gruppi terroristi? Nella polemica è entrato anche Roberto Saviano. Lo scrittore anticamorra, che vive una vita da sequestrato in casa, ha affidato a Facebook una lettera sfogo: “Care Greta e Vanessa, sono felice per la vostra liberazione, e come me lo sono in tanti. Ma vi aspetterà anche un’Italia odiosa, che vi considera ragazzine sprovvedute che invece di starsene a casa sono andate a giocare in Siria. Diranno che sono stati spesi molti soldi, molto più del valore della vostra vita". Secondo Saviano quelle dichiarazioni sono frutto del "senso di colpa per non avere coraggio, dell’insofferenza dell’incapace che fermo al palo cerca di mitigare la propria mediocrità latrando contro chiunque agisca". D'altra parte, anche di Saviano, costretto a uno strettissimo regime di protezione che annulla la sua libertà personale, molti hanno detto  che se l’è andata a cercare sfidando la camorra con il suo lavoro. "Spero saprete sottrarvi a questo veleno - scrive alle due volontarie -. Un’altra parte di questa Italia è convinta che il vostro sia stato un atto di coraggio e di umanità, e che nessuno possa essere considerato causa del proprio rapimento”. I commenti al post di Saviano sono il ritratto di un paese in difficoltà con il concetto di eroe e di coraggio: madri e padri trepidanti che condividono la gioia delle famiglie si mescolano a insulti contro le due ragazze e recriminazioni sul presunto riscatto. Uno scenario che si ripete: dopo Je suis Charlie, ora è la volta di Je suis Greta e Vanessa, identità che sui Social, in questi momenti, va per la maggiore. Il governo italiano naturalmente nega di aver pagato (ma non potrebbe fare diversamente). Resta il fatto che la La Jabhat al-Nusra, "il fronte di sostegno per il popolo siriano" vicino ad al Qaeda che aveva in custodia Greta e Vanessa e gli altri gruppi terroristici più o meno affiliati incassano, secondo il New York Times, circa 2 milioni di euro a ostaggio liberato. Denaro versato "in gran parte dagli europei" sottolinea il quotidiano del Paese che ha scelto la linea dura rifiutandosi di pagare. Ma oggi è il giorno della felicità e delle prime dichiarazioni che le ragazze faranno in Procura a Roma. Per le recriminazioni e le polemiche c'è tutto il tempo:  ''Quando la vedrò le darò un grande abbraccio - ha commentato emozionato Salvatore Marzullo, il papà di Vanessa -. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle''.

15 gennaio 2015. Vanessa e Greta liberate: si festeggia? No! Scrive Alberta Ferrari su “L’Espresso”. E’ ufficiale da poche ore: Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, giovanissime cooperanti sequestrate a luglio in Siria da terroristi jihadisti sono state liberate; stanotte giungeranno in volo dalla Turchia in Italia.  Prima di sapere il loro destino e ignorando volutamente la querelle sollevata da chi metteva in discussione motivazioni e/o imprudenza delle delle ragazze, avevo stigmatizzato l’inaudita violenza sessista che “la pancia” degli italiani riversava nei loro confronti in rete, con modalità becere e inaccettabili indipendentemente dal merito delle questioni. Come da previsioni e in linea con la politica estera italiana (differente, per esempio, da quella degli USA) è ovvio che sia stato pagato un riscatto, del quale iniziano a circolare cifre non confermate: 12 milioni di euro. E immediatamente, con le giovani non ancora a casa, persino tra i commentatori più pacati oltre il 90% esprime aperto malumore. Qualcuno premette che è un sollievo che siano state liberate, ma la maggior parte si limita a commenti come questo: “un solo pensiero nella mente di tutti gli italiani: E IO PAGOOOOOOOOOO”. Su facebook, cloaca massima di eiezioni senza filtro cerebrale, il concetto comincia a prender forma con le tristemente note modalità: invettiva, insulto, augurio di torture stupro morte etc. che rendono impossibile ogni civile argomentazione. Facciamocene una ragione perché questo background culturale si applica a tutte le donne: un caso apparentemente lontanissimo come l’annuncio di Emma Bonino di avere un tumore al polmone è stato gratuitamente accolto con analoga marea di triste commentario insultante e sessista, in cui la malattia diventa l’arma con cui colpire e augurare ogni male. Questo è il popolo che si riversa senza filtro sui social ed è bene conoscere, non ignorare. Perché il fenomeno denuncia che il degrado della pancia degli italiani sta arrivando alla barbarie e che le donne sono tipicamente oggetto delle più violente invettive. Nessuno stupore se nel nostro Paese i femminicidi non accennano a diminuire. Chi poi politicamente a questa “pancia” fa facile riferimento titillandone i riflessi pavloviani, ricordi che le masse strumentalizzate sono pericolose e volubili: si innamorano dell’uomo forte, pronti a rinnegarlo e sputare addosso al suo cadavere quando cambia il vento. Accusata personalmente da un commentatore di “becero buonismo” per il fatto che additavo la barbarie degli insulti alle ragazze senza addentrarmi in giudizi sul loro comportamento, oggi che sono in salvo mi permetto di esprimere anche riflessioni nel merito. Purchè rimanga ben chiaro che invettive e insulti rimangono condannabili in sè. Bene, Vanesssa e Greta: bentornate. Potrei essere vostra madre e forse a 20 anni ero più fulminata di voi. Tuttavia vi prego: appena scese dall’aeroporto non dite (come si è sentito in passato) “siamo pronte a tornare”. Non andate a fare le eroine nei talk show. Magari invece, riflettete con persone autorevoli, che si intendono di volontariato e di Paesi in guerra e fate tesoro, magari autocritica, di questa esperienza a lieto fine. Perché vedete, il problema dei milioni di euro di riscatto contiene sì tanta ipocrisia (basterebbe rinunciare a una costosa arma bellica o recuperare denaro da chi delinque o evitare gli sprechi che sono la vera piaga del nostro Paese), ma non merita per questo indifferenza: è pur sempre denaro dei vostri concittadini, che di questi tempi non se la passano troppo bene. Inoltre come pensate che verrà usato? Le vostre vite salvate al prezzo di altre, quando questo denaro diventerà altre armi (che sono arrivate e arrivano nonostante voi, ridimensioniamo anche questa ricorrente e ipocrita colpevolizzazione). Io non sono esperta del settore, quindi mi sono documentata attraverso contatti a me molto vicini; persone esperte che ideologicamente avrebbero ogni motivo per sostenere la vostra posizione. Il problema è che la vostra posizione non è sostenibile. perché, come sostiene la collega Chiara Bonetti (un anno in Mozambico, 6 mesi in Uganda, un anno in Tibet): nella scelta di andare all’estero in qualità di membro onlus o ong governativa, è fondamentale evitare personalismi e schieramenti. All’estero in veste ufficiale non sono ammesse improvvisazioni: si va nel mondo a titolo non personale, bensì a rappresentare il proprio Paese (che infatti si fa carico dei tuoi rischi), una civiltà e un modo di lavorare. Nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di esporsi a pericoli inaccettabili: proprio perché il prezzo del rischio non si paga di persona ma coinvolge potenzialmente tutti coloro che svolgono un’attività anche lontanamente simile, nonché i contribuenti del vostro Paese. All’estero esistono regole molto diverse da quelle con cui si è cresciuti: è imperativo non improvvisare. Ci vuole umiltà, cultura (tanta), una rete d’appoggio, esperienza. Tutte cose che a 20 anni con una onlus fai-da-te (con un terzo individuo che si è smarcato ed è rimasto a casa) sono ampiamente mancate. Ragazze, io diversamente da altri non entro nel merito della vostra buona fede, della nobiltà dei vostri obiettivi: non posso sapere. Ma l’avventatezza è analoga a quella di sciatori fuoripista/scalatori imprudenti che si mettono nei guai dopo aver contravvenuto a regole da bollino rosso o per semplice, sventata inesperienza: possono provocare smottamenti che uccideranno altre persone, oppure mettere a repentaglio la vita di chi deve soccorrerli in condizioni estreme. Termino lasciandovi le riflessioni di due grandi uomini, Walter Bonatti e Reinhold Messner, fini acrobati tra coraggio e paura: “Non esiste il coraggio senza la paura – dice Bonatti – bisogna aver paura delle cose paurose, di ciò che è sconosciuto, ma per combattere il terrore bisogna cercare di conoscere ciò che fa paura. Bisogna costruire il coraggio e poi usarlo”. “La paura – dice Messner – ti spiega bene il limite che non devi superare: fin qui va bene, oltre… scendi. Come è successo a te, davanti alla parete del Pilier d’Angle”. “Ho provato una paura spaventosa – confessa Bonatti – ed ero già molto esperto. Quella notte sono arrivato con il mio compagno, Luigi Zampieri, sotto al Col de la Fourche, a un’ora dall’attacco sono rimasto impietrito di fronte a quella parete che con un gioco di riflessi lunari mi è apparsa una lavagna levigatissima. L’unica cosa evidente che spiccava erano i grandi seracchi pronti a caderti addosso. Ho avuto una paura folle e sono stato un bel po’ a pensare, a chiedermi come fare. Fino a quando, saggiamente, ho concluso che era meglio tornare a casa. E sono tornato a casa. Qualche mese dopo sono tornato, la montagna non era più in condizioni così favorevoli, ma era favorevole il mio spirito, ero pronto. L’abbiamo attaccata e l’abbiamo spuntata”. Buon rientro ragazze, sono felice di riavervi a casa.

Le “stronzette di Aleppo” se la sono cercata, scrive Alberta Ferrari. Vanessa Marzullo e Greta Ramelli sono due giovanissime cooperanti italiane di 20 e 21 anni rapite in Siria a luglio 2014. Sulla loro presenza in una zona tanto pericolosa e in assenza di una solida organizzazione alle spalle le polemiche sono state sempre accese, spesso con toni grossolani e cinici (vedi “le stronzette di Aleppo” di Maurizio Blondet). Il tema di fondo: “due incoscienti sprovvedute” ci mettono nei guai. Linguaggio offensivo, squalificante e, stupore!, sessista: “con la guerra non si scherza e da bambine è bene che non si giochi alle piccole umanitarie, ma con la barbie”. Tra i commenti più soavi. Le due ragazze avevano fondato con il 47enne Roberto Andervill il progetto Horryaty per raccogliere aiuti destinati alla popolazione civile in Siria. Certo sprovvedute queste giovanissime entusiaste, ma non improvvisate. Vanessa, di Brembate, studia mediazione linguistica e culturale all’Università di Milano. Greta, di Besozzo, studentessa, è una volontaria della Croce Rossa e ha già prestato attività di cooperazione in Zambia e in India. Partono per la Siria a febbraio 2014 e vi tornano a luglio attraversando il confine turco con il giornalista de “Il Foglio” Daniele Ranieri. Tre giorni dopo vengono rapite ad Abizmu dopo essere state attirate nella casa del “capo del Consiglio rivoluzionario” locale, mentre Ranieri riesce a fuggire e a dare l’allarme. Per inciso, tocca notare un silenzio assordante – diversamente dai commenti al vetriolo riservati alle ragazze – su questo accompagnatore più che adulto che riesce a darsela a gambe. Nessuno che si stracci le vesti: “incosciente, quella è guerra vera e hai pure coinvolto due ragazze, ma stare a casa a giocare ai soldatini no? minimo meritavi il sequestro pure tu”. Sull’identità dei rapitori si avvicendavo ipotesi: jihadisti dell’Isis, gruppi criminali intenzionati a chiedere un riscatto, compravendita delle ragazze. Capodanno ci sorprende con un importante aggiornamento. Un video su youtube chiarisce che le giovani sono sequestrate dal gruppo jihadista al-Nusra. Le ragazze sono state private del loro abbigliamento e vestono la tunica nera abaya. Parla Greta Ramelli senza mai alzare lo sguardo (“supplichiamo il nostro governo e i suoi mediatori di riportarci a casa prima di Natale. Siamo in estremo pericolo e potremmo essere uccise”) mentre Vanessa Marzullo espone un cartello che riporta la data del 17 dicembre 2014. Personalmente, cercando di non cadere in trappole di superficiale buonismo, ritengo che l’eccessivo rischio e le relative conseguenze che ora non possiamo non fronteggiare, siano ragionevolmente da attribuire più alla responsabilità di chi autorizza e deve controllare viaggi in Paesi sede di guerre da bollino rosso che non all’entusiasmo giovanile dell’impegno fai-da-te. Mi ha turbato, leggendola come segno di imbarbarimento, l’impressionante sequenza di commenti intrisi di cinismo e grettezza che ho letto su Facebook, a commento della notizia del video riportata da Ilfattoquotidiano.it. In base al giornale, commentatori più “collocati a sinistra”, in teoria.

Riporto un campione di questi commenti: del resto fortemente ripetitivi.

Gianni C. ALTRI EURI di chi fa fatica buttati a PUTTANE…………

Fabrizio T. Riportarli a casa in cambio di armi? ? Mai!! Così per colpa di queste 2 idiote ne muoiono 1000.

Gianni P. io penso che “quelli che se la cercano” se la debbano poi sbrogliare.

Maria C. Se le tenessero. Nessuna pietà per chi si caccia nei guai, pur sapendolo.

Fiorni R. Quelle son andate per far carriera, vedi la nostra boldrinazza, vedi simona pari e dispari.

Giuseppe T. Che se le tenessero!

Giulio S. Tenetevele.

Donatella N. Ah si? Tenetevele.

Antonio M. Spero proprio di non avere figli così stupidi.

Angelo M. Per queste due nessuna pietà. ….all’inizio erano contente del sequestro ora che le scarpe gli vanno strette chiedono aiuto. ….tempo scaduto adesso subite il velo e la schiavitù di questo popolo musulmano.

Michele C. Ma fanculo stateve a casa.

Leone B. La guerra nn è un gioco per bambine in cerca di visibilità.

Lamberto C. SE NE STAVANO A CASA LORO NN GLI SAREBBE SUCCESSO NULLA. Se la son cercata.

Bartolomeo A. …. due incoscienti che non possono essere lasciate sole, due imbecilli che da presuntuose epocali, hanno pensato che i loro bei visini, accompagnati dai soliti buoni propositi terzomondialisti o giù di lì, potessero intenerire le carogne in generale che si contendono la siria e non solo…

Enrico D. sono andate li per supportare i tagliagole. se dovessero essere liberate dovrebbero essere processate per aver appoggiato dei terroristi! luride scrofe!

Carlo F. adesso la bandiera arcobaleno non la sventolano più ahahhahahhaahahhaaha.

Antonella R. Visto che non le ha obbligate nessuno ad andare la !!! Sono solo cavoli loro !! A me non me ne importa niente!!

Mino T. Credo che i buonisti, che sono la vera metastasi di questo paese , dovrebbero dare il buon esempio e partire per la Siria a loro spese (…) Per quanto mi riguarda hanno avuto ciò che si meritano.

Graziella T. Prima i nostri maro’, visto che sono andati per lavoro? Loro nonostante che gli si è detto di NON ANDARE, loro sono andate …se la sono cercata.

….. qualche timida voce fuori dal coro si trova ….

Roberto D. Per estendere il concetto, molti hanno perfino contrastato il ritorno in italia del medico italiano che curava l’ebola in africa. Il concetto è: “fai il medico in africa? WOW sei mitico… cosa? ti sei ammalato e vuoi tornare qui e così ci infetti tutti? Ma stai in africa, d’altronde…te la sei andata a cercare”. Ecco di questa gente stiamo parlando.

Daniela C. Son state delle sprovvedute ma vanno portate a casa.

Dominique B. Leggendo gran parte delle risposte invece, mi chiedo chi siano le bestie, quelli che hanno sequestrato le ragazze o quelli che commentano qui…

Emma R. Non ho mai letto tanta cattiveria pressapochismo crudeltà cinismo etc etc nei commenti ad un solo post !!!!! Complimenti a tutti.

Marianna L. Cercasi umanità

Concludo facendo mio il commento al video di Marina Terragni: “Che queste ragazze possano tornare a casa presto e levarsi quegli stracci dalla testa”.

“Menefreghismo assoluto per le attiviste rapite in Siria” e I CARE, continua la Ferrari Poiché i commenti violenti, odiosi e sessisti da me segnalati con stupore e raccapriccio due giorni fa verso le due cooperanti Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, rapite in Siria si sono rivelati vero allarme di una deriva crescente, qualcuno ieri alle 13.00 ha avuto l’idea geniale di creare una pagina Facebook che raccogliesse il turpe dileggio e le offese rivolte in questi giorni con sadico e ottuso accanimento . A seguire uno de tanti post della pagina. In 24 ore 1250 like alla pagina. Per darvi un’idea: io nella mia pagina professionale, che si occupa di salute della donna e i particolare di tumore al seno, il più frequente nel sesso femminile ad ogni età, non sono arrivata a 5000 like in oltre 2 anni. Il che dimostra chiaramente il potere d’attrazione che l’invettiva sessista esercita su gran parte di persone becere, quelli che girano sul social e si esprimono come al bar, offrendo un affresco sociologico veramente degno d’attenzione e preoccupazione. Sul mio post precedente, che segnalava la violenza brutale montante contro le due ragazze ricercandone retroterra culturali e contraddizioni (sugli adulti che le hanno aiutate / accompagnate, silenzio totale), si è aperto con mio sollievo un nutrito dibattito. I commenti hanno riguardato varie criticità della questione, compresa la scelta delle ragazze di addentrarsi in una zona di guerra senza protezione e la loro presunta simpatia per una fazione di combattenti (gli stessi peraltro che le avrebbero rapite), tuttavia il confronto di punti di vista differenti si è svolto in modo civile, contribuendo ad affrontare il problema con più strumenti conoscitivi. A chi invoca il menefreghismo, che evoca il triste “me ne frego” passato alla storia senza gloria né onore, contrappongo, fuori da un contesto religioso ma come espressione basilare di umanità, l’invito di Sabrina Ancarola (che giustamente non dimentica gli altri ostaggi in Siria) che ci ricorda il motto di don Milani: I Care.

Le stronzette di Aleppo, scrive Maurizio Blondet su “Il Punto di Prato”. Vanessa e Greta. Anni 20 e 21.Andate in Aleppo presso i ribelli anti-regime per un progetto umanitario. Progetto che,a quanto è dato dedurre, consisteva in questo:farsi dei selfie e postarli sui loro Facebook:su sfondi di manifestazioni anti-Assad, sempre teneramente abbracciate (Inseparabili, lacrimano i giornali), forse per fare intendere di essere un po’ lesbiche (è di moda), nella città da tre anni devastato teatro di una guerra senza pietà e corsa da milizie di tagliagole. La loro inutilità in un simile quadro è palese dalle loro foto, teneramente abbracciate, con le loro tenere faccine di umanitarie svampite, convinte di vivere dalla parte del bene in un mondo che si apre, angelicamente, grato e lieto al loro passo di volontarie. Una superfluità che i giornali traducono così: Le due ragazze avevano deciso di impegnarsi in prima persona per dare una risposta concreta alle richieste di aiuto siriane. Vanessa è studentessa di mediazione linguistica e culturale, Greta studentessa di scienze infermieristiche: niente-popò-di-meno! Che fiori di qualifiche! Due studentesse ( m’hai detto un prospero!), che bussando a varie Onlus erano riuscite a far finanziare il Progetto Horryaty, da loro fondato. Secondo una responsabile della Onlus che ha sganciato i quattrini alle due angeliche, il loro progetto era finalizzato ad acquistare kit di pronto soccorso e pacchi alimentari,da distribuire al confine. Ostrèga, che progettone! Nella loro ultima telefonata,chiedevano altri fondi. Pericolo per le loro faccine angeliche, o le loro tenerissime vagine? No,erano sicure:avevano capito una volta per tutte che i cattivi erano quelli di Assad,e loro stavano coi buoni,i ribelli. E i buoni garantivano per loro. Si sentivano protette. Nell’ultima telefonata hanno detto che avevano l’intenzione di restare lì. Un Paese serio le abbandonerebbe ai buoni, visto che l’hanno voluto impicciandosi di una guerra non loro di cui non capiscono niente, in un mondo che a loro sembra ben diviso tra buoni e cattivi. Tutt’al più, candidarle al Premio Darwin (per inadatti alla lotta per la vita), eventualmente alla memoria… Invece la Farnesina s’è sùbito attivata, il che significa una cosa:a noi contribuenti toccherà pagare il riscatto che i loro amici, tagliagole e criminali, ossia buoni, chiederanno. E siccome le sciagure non vengono mai sole, queste due torneranno vegete, saranno ricevute al Quirinale, i media verseranno fiumi di tenerezza, e pontificheranno da ogni video su interventi umanitari, politiche di assistenza, Siria e buoni e cattivi di cui hanno capito tutto una volta per tutte. Insomma, avremmo due altre Boldrini.

La liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due cooperanti italiane rapite in Siria sei mesi fa, ha innescato due reazioni contrapposte: sollievo e soddisfazione espresse dalle istituzioni (lungo applauso in Parlamento dopo l'annuncio del ministro Boschi in Aula), polemiche e livore da rappresentanti delle opposizioni a cui è seguita una corsa all'emulazione sui social network, scrive “Ibtimes”. Non poteva mancare il commento di Matteo Salvini: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia. Presenteremo oggi stesso un'interrogazione al ministro degli Esteri per appurare se sia stato pagato un solo euro per la liberazione delle due signorine". Ma la palma dell'uscita più strumentale è del capogruppo di Forza Italia in Emilia-Romagna, Galeazzo Bignami: "Le due ragazze amiche dei ribelli siriani e sequestrate dai ribelli siriani sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli. Per inciso si liberano queste qui mentre chi porta la divisa e rappresenta lo stato è ancora in arresto in india. Bello schifo". Altri esponenti di centrodestra hanno puntato l'indice sulla questione riscatti. "Finita la fase di legittima soddisfazione, serve che il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa" le parole di Massimo Corsaro (Fratelli d'Italia). "Doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove" sostiene anche l'ex ministro Maria Stella Gelmini. Le strumentalizzazioni hanno dato il là a commenti simili anche degli utenti sui social network.  "Un riscatto milionario per due sceme", "sia chiaro a tutti che sono ben altri i cervelli da far rientrare". Altri ancora imitano Bignami nell'improprio parallelo con la vicenda dei marò. Oppure si leggono frasi sulla guerra "non adatta" alle donne. O ancora che non è giusto pagare 12 milioni di dollari (questa la presunta cifra pagata per liberare le due ragazze) per gente che "va in vacanza". Legittimo discutere sugli effetti collaterali delle possibile impreparazione delle cooperanti in zone di guerra, che si pongono in una situazione di oggettivo pericolo e mettono in difficoltà il paese. Ma non in quanto donne, né si può sostenere che le due fossero in Siria per prendere il sole. Strumentale, improprio e spesso in malafede, ogni altro genere di discorso o commento. Cosa c'entra la vicenda dei due marò, accusati di omicidio in India? Suggeriscono forse di corrompere gli indiani allo scopo di ottenere la liberazione di Latorre e Girone? Ipocrita anche la reazioni sul pagamento del riscatto, non perché sul tema non ci sia da discutere ma perché viene da pensare "da che pulpito parte la predica?". Il fatto che l'Italia (come Francia, Spagna o Svizzera) abbiano pagato in passato riscatti milionari ai sequestratori è il segreto di Pulcinella. Simona Pari e Simona Torretta (altre due cooperanti, stavolta in Iraq, 2004), Giuliana Sgrena (2005), Clementina Cantoni (2005), Rossella Urru (2011) e Mariasandra Mariani (2011) sono tutti sequestri che si sono probabilmente conclusi con il pagamento di un riscatto (ad Al-Qaeda o altre organizzazioni legate al fondamentalismo). Chi governava in quegli anni? Quel centrodestra che oggi attacca a testa bassa.

Ostaggi italiani, non sempre è finita bene, scrive “La Voce D’Italia”. Il primo rapimento recente di italiani nel mondo a lasciare il segno nella memoria collettiva è del 2004, in Iraq. Vengono sequestrati a Baghdad 5 contractor, Fabrizio Quattrocchi, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. Quattrocchi viene ucciso, gli altri liberati. Indimenticabile il video in cui la vittima dice ai carnefici: “vi faccio vedere come muore un italiano”. Lo stesso anno sempre in Iraq vengono rapiti il freelance Enzo Baldoni, ucciso poco dopo, e le due cooperanti Simona Torretta e Simona Pari, liberate dopo 19 giorni. Nel 2005 tocca alla giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Subito dopo la sua liberazione, un militare americano uccide per sbaglio il funzionario del Sismi Nicola Calipari che era andato a prenderla. Nel 2007 in Afghanistan viene rapito dai talebani il giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo, poi liberato. In Mali nel 2009 Al Qaida rapisce due coniugi italiani, Sergio Cicala e Philomene Kabouré. Vengono liberati l’anno dopo. L’inviato della Stampa Domenico Quirico viene rapito due volte: la prima volta nel 2011 in Libia per due giorni (con i colleghi Elisabetta Rosaspina e Giuseppe Sarcina, entrambi del Corriere della Sera, e Claudio Monici di Avvenire); la seconda volta nel 2013 in Siria per cinque mesi. I pirati somali nel 2011 catturano due navi mercantili italiane, la Savina Caylyn, con 5 italiani a bordo, e la Rosalia D’Amato, con 6 italiani. Gli ostaggi vengono liberati insieme alle unità lo stesso anno, dopo mesi di prigionia. Nel 2011 nel Darfur in Sudan viene catturato dai ribelli locali il cooperante di Emergency Francesco Azzarà, liberato dopo 124 giorni. Lo stesso anno gli shabaab somali catturano al largo della Tanzania l’italo-sudafricano Bruno Pellizzari, mentre si trova sulla sua barca a vela con la fidanzata sudafricana. Viene liberato dopo un anno e mezzo con un blitz dell’esercito somalo. In Algeria nel 2011 i terroristi islamici sequestrano la turista Sandra Mariani e la cooperante Rossella Urru. Entrambe vengono liberate nel 2012. In quello stesso anno finisce invece tragicamente il rapimento in Nigeria dell’ingegnere Franco Lamolinara, sequestrato dai jihadisti nel 2011: l’italiano viene ucciso dai sequestratori durante un blitz delle forze speciali di Londra, che volevano liberare un ostaggio britannico tenuto con lui. Nessuna notizia dopo oltre tre anni del cooperante Giovanni Lo Porto, sequestrato in Pakistan nel 2012 mentre lavorava per una ong tedesca, né del gesuita padre Paolo Dall’Oglio. Quest’ultimo scompare in Siria nel 2013, mentre cerca di mediare a Raqqa per la liberazione di un gruppo di ostaggi. Voci contrastanti lo danno prima per morto, poi prigioniero dell’Isis. Nel 2014 in Libia vengono rapiti due tecnici italiani, in due diversi episodi: l’emiliano Marco Vallisa e il veneto Gianluca Salviato, entrambi liberati dopo diversi mesi.

Greta e Vanessa a casa, polemiche sul riscatto: «Pagati 10 milioni di dollari», scrive “Il Messaggero”. È stata la tv di Dubai al Aan a ipotizzare che possa essere stato pagato un riscatto di 12 milioni di dollari (poco più di 10 milioni di euro) ai qaedisti anti-Assad del Fronte al Nusra per il rilascio di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due giovani italiane rapite in Siria nel luglio scorso e liberate giovedì. La voce, denunciata in Italia dal leader della Lega Matteo Salvini, è ripresa anche dal Guardian online, secondo cui si tratta di «un'informazione non confermata». «Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!», scrive in un tweet Salvini. Il governo italiano, come d'uso, nega di avere pagato un riscatto e incassa intanto l'ennesimo successo sul fronte della liberazione di ostaggi (sono stati oltre una dozzina negli ultimi 10 anni gli italiani sequestrati all'estero). A dare consistenza alle voci sul pagamento tuttavia in questo caso c'è anche un tweet di un account ritenuto vicino ai ribelli siriani anti-Assad in cui si parla di un "riscatto di 12 milioni di dollari” per la liberazione delle due italiane. La Jabhat al-Nusra, «il fronte di sostegno per il popolo siriano», è cresciuto esponenzialmente grazie alle vittorie sul campo ma anche a una incredibile disponibilità di armi e fondi per combattere contro le forze del presidente siriano Bashar al Assad. La sua fonte principale di finanziamento, oltre alle generose donazioni che arrivano dall'estero, è proprio quello che arriva dai riscatti: il New York Times ha stimato che al Qaida e i gruppi affiliati abbiano incassato oltre 125 milioni di dollari negli ultimi 5 anni, la massima parte versati «dagli europei». Il Fronte è stato fondato alla fine del 2011, nel pieno della rivolta contro il governo siriano, quando l'allora emiro di al Qaida in Iraq, e ora leader dell'Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, inviò i primi combattenti in Siria. Considerato "meno sanguinario" del ramo iracheno di al Qaida, il Fronte si è attribuito diversi attacchi anche contro i civili: nei primi tre mesi del 2012 si rende protagonista di diversi attentati, alcuni kamikaze, a Damasco e Aleppo contro le forze governative siriane, decine i morti. Nel 2013 Nusra finisce al centro di quello che evolverà in scontro violento tra Baghdadi e Ayman al Zawahri: il califfo dichiara che al Nusra è parte di al Qaida in Iraq nella nuova formazione Isis. Ma a giugno il leader di al Qaida lo smentisce. L'ostilità tra Nusra e Isis sfocia in aperti combattimenti che secondo alcune fonti lasciano sul campo 3.000 uccisi tra i jihadisti dei due fronti. Alla fine dell'anno Nusra rapisce 13 monache da un monastero cristiano che verranno rilasciate nel marzo del 2014. Pochi mesi dopo, il 27 agosto, mentre l'Isis guadagna le prime pagine per la barbara esecuzione di James Foley, Nusra in controtendenza libera lo scrittore americano Peter Theo Curtis, rapito due anni prima. Il Qatar gioca un ruolo di primo piano nelle trattative per il rilascio. Alla famiglia era stato chiesto un riscatto di 3 milioni di dollari «cresciuti fino a 25». Il giorno dopo la liberazione dell'americano, il 28, il Fronte gruppo avanza in Golan e cattura 45 peacekeeper dell'Onu, che vengono liberati l'11 settembre. L'ultima stima dei think tank Usa è che il Fronte possa contare su oltre 6.000 combattenti ben addestrati, dislocati soprattutto nella regione di Idlib. Nelle zone controllate da Nusra vige la Sharia e sono state introdotte le corti islamiche.

Due video «cifrati» in 15 giorni. Così i rapitori hanno alzato il prezzo. I ribelli: «Pagati 12 milioni di dollari». La banda di terroristi non è legata all’Isis. Le stragi di Parigi usate per alzare la posta. La cifra diffusa sembra comunque esagerata, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Lo scambio sarebbe avvenuto tra domenica e lunedì, dopo l’arrivo di un video che forniva la nuova prova in vita delle due ragazze rimaste prigioniere in Siria quasi sei mesi. Un filmato per sbloccare definitivamente la trattativa, con la consegna della contropartita ai sequestratori. Sembra esagerata la cifra di dodici milioni di dollari indicata dai ribelli al regime di Assad, ma un riscatto è stato certamente pagato, forse la metà. E tanto basta a scatenare la polemica, alimentata da chi sottolinea come il versamento sarebbe avvenuto proprio nei giorni degli attentati a Parigi. È l’ultimo capitolo di una vicenda a fasi alterne, con momenti di grande preoccupazione, proprio come accaduto dopo la strage di Charlie Hebdo e del supermercato kosher, quando i mediatori avrebbero tentato di alzare ulteriormente la posta. Saranno Greta Ramelli e Vanessa Marzullo a fornire ai magistrati i dettagli della lunga prigionia, compreso il numero delle case in cui sono state tenute. Ieri sera, dopo essere arrivate in un luogo sicuro - probabilmente in Turchia - e prima di essere imbarcate sull’aereo per l’Italia, sono state sottoposte al «debriefing» da parte degli uomini dell’ intelligence , come prevede la procedura che mira a ottenere notizie preziose sul gruppo che le ha catturate il 31 luglio scorso e su quelli che le hanno poi gestite nei mesi seguenti. Attivare i primi contatti per il negoziato non è stato semplice, anche se si è avuta presto la certezza che a rapirle era stata una banda di criminali, sia pur islamici, e non i jihadisti dell’Isis. A metà agosto, quando il Guardian ha rilanciato l’ipotesi che fossero tra gli ostaggi internazionali del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi, i mediatori italiani si sono affrettati a smentire proprio nel timore che la trattativa potesse fermarsi. Circa un mese dopo è arrivata la prima prova per dimostrare che le ragazze stavano bene. E da quel momento è partita la trattativa degli 007, coordinata da Farnesina e Palazzo Chigi. Secondo le notizie iniziali a organizzare il sequestro è il «Free Syrian Army», l’esercito di liberazione della Siria. Ma la gestione delle prigioniere avrebbe avuto fasi alterne, con svariati cambi di «covo» e nell’ultima fase ci sarebbe stata un’interferenza politica di «Jabat al-Nusra», gruppo della galassia di Al Qaeda che avrebbe preteso un riconoscimento del proprio ruolo da far valere soprattutto rispetto alle altre fazioni e contro l’Isis. Non a caso, poco dopo la conferma dell’avvenuto rilascio delle due giovani, un uomo che dice di chiamarsi Muahhed al Khilafa e si firma sulla piattaforma Twitter con l’hashtag dell’Isis posta un messaggio per attaccare «questi cani del fronte al-Nusra che rilasciano le donne crociate italiane e uccidono i simpatizzanti dello Stato Islamico». Del resto è proprio la situazione complessa della Siria ad alimentare sin da subito la sensazione che il sequestro non possa avere tempi brevi. E infatti la «rete» attivata per dialogare con i sequestratori ha a che fare con diversi interlocutori, non tutti affidabili. Con il trascorrere del tempo le richieste diventano sempre più alte, viene accreditata la possibilità che i soldi non siano sufficienti per chiudere la partita, che possa essere necessario concedere anche altro. A novembre si sparge la voce che una delle due ragazze ha problemi di salute, si parla di un’infezione e della necessità che le vengano dati farmaci non facilmente reperibili in una zona così segnata dalla guerra. Qualche giorno dopo arrivano invece buone notizie, un emissario assicura che Greta e Vanessa sono in una casa gestita esclusivamente da donne. Informazioni controverse che evidentemente servono a far salire la tensione e dunque il valore della contropartita per la liberazione. A fine novembre c’è il momento più complicato. I rapitori cambiano infatti uno dei mediatori facendo sapere di non ritenerlo più «attendibile». Si cerca un canale alternativo e alla fine si riesce a riattivare il contatto, anche se in scena compare «Jabat al-Nusra» e la trattativa assume una connotazione più politica. La dimostrazione arriva quando si sollecita un’altra prova in vita di Greta e Vanessa e il 31 dicembre compare su YouTube il video che le mostra vestite di nero, mentre chiedono aiuto e dicono di essere in pericolo. È la mossa che mira ad alzare il prezzo rispetto ai due milioni di dollari di cui si era parlato all’inizio. Quel filmato serve a chiedere di più, ma pure a lanciare il segnale che la trattativa può ormai entrare nella fase finale. Anche perché contiene una serie di messaggi occulti che soltanto chi sta negoziando può comprendere, come il foglietto con la data «17-12-14 wednesday» che Vanessa tiene in mano mentre Greta legge il messaggio, che sembra fornire indicazioni precise. Si rincorre la voce che entro qualche giorno possa avvenire il rilascio. Ma poi c’è una nuova complicazione. Il 7 gennaio i terroristi entrano in azione a Parigi, quattro giorni dopo arriva un nuovo video. Questa volta viaggia però su canali riservati. L’intenzione dei sequestratori sembra quella di alzare ulteriormente la posta, la replica dell’Italia è negativa. Si deve chiudere e bisogna farlo in fretta. L’ intelligence di Ankara fornisce copertura per il trasferimento oltre i confini siriani delle due prigioniere. Ieri mattina gli 007 avvisano il governo: è fatta, tornano a casa.

Greta e Vanessa, malate e maltrattate nelle mani dei sequestratori, scrive “Libero Quotidiano”. Sono stati mesi molto duri quelli trascorsi da prigioniere. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo ora sono finalmente libere, ma ciò che hanno dovuto subire durante il sequestro le ha molto provate sia psicologicamente che fisicamente. A rivelarlo sono gli 007 che hanno trovato fin dall'inizio della vicenda un canale di mediazione e dunque un interlocutore che ha permesso ai nostri servizi di "monitorare" costantemente le cooperanti per tutta la durata della trattativa. Hanno vissuto momenti molto difficili, rivela al Messaggero chi ha seguito in questi mesi la sorte di Greta e Vanessa. Una delle due è stata poco bene in salute, ma le sono stati forniti i medicinali e gli antibiotici per curarsi. Hanno subito soprusi, sorvegliate di continuo da uomini armati. L'intelligence spiega che le due ragazze erano nelle mani di banditi comuni e che Jahbat Al Nusra, il movimento vicino ad al Quaeda in Siria al quale era stato attribuito erroneamente il sequestro, avrebbe solo fornito soprattutto copertura politica, proprio perché quella parte di territorio a Nord della Siria è totalmente nelle loro mani. A sequestrarle, in realtà, sarebbero stati membri del Jaish al-Mujahideen, sigla che racchiude una decina di gruppi islamisti (alleati del Free Syrian Army, l' esercito siriano libero), una forza armata che combatte contro il governo di Bashar al-Assad. Poi sarebbero state "vendute" più volte, senza mai finire, fortunatamente, nelle mani dell' Isis, né in territori controllati da loro. Tutto quello che hanno passato resterà indelebile nella loro mente e nel loro cuore, ma oggi è il momento della gioia. All'alba Greta e Vanessa sono arrivate a Ciampino accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che alle 13 riferirà sulla vicenda alla Camera. Poi sono state condotte all’ospedale militare del Celio per gli opportuni controlli medici. Più tardi saranno ascoltate in procura a Roma. Solo al termine della deposizione potranno tornare finalmente nelle loro città che ieri, dopo mesi di tensione e angoscia, alla notizia della loro liberazione sono esplose di gioia. "E' un momento di grande felicità - ha detto il fratello della ragazza, Matteo Ramelli -, speriamo che Greta possa tornare presto a casa. La Farnesina ha fatto un lavoro fantastico, e anche i nostri concittadini sono stati meravigliosi". Alcuni automobilisti, passando davanti alla casa di Greta a Gavirate, un paese affacciato sul lago di Varese, hanno suonato il clacson, in segno di giubilo per la liberazione. E ieri sera il parroco del paese, don Piero Visconti, ha voluto "ringraziare il Signore" durante in momento di preghiera nell'oratorio di Gavirate. "Se tutti i giovani sapessero rischiare come ha fatto Greta - spiega - il mondo sarebbe un posto migliore. Spero che il suo esempio possa sostenere anche le tante altre persone che vogliono vivere donando amore agli altri". Il sindaco del paese, Silvana Alberio, ha incontrato i genitori, per esprimere la vicinanza di tutta la comunità. "Siamo felicissimi - racconta la madre di Greta - non vediamo l'ora di riabbracciarla". Altrettanta gioia è stata espressa dai familiari di Vanessa. "E' una grande gioia - dice emozionato Salvatore Marzullo, il papà che lavora in un ristorante di Verdello, il paese dove da qualche tempo vive appunto con la figlia. Appresa la notizia è scoppiato in lacrime. Dopo "un'angoscia unica", è arrivata "una gioia immensa che aspettavamo da mesi e che non si può descrivere", ha aggiunto. Momenti di sfiducia? "No - ha risposto - c'era preoccupazione e tristezza, ma abbiamo avuto sempre fiducia nel risultato. La Farnesina ci rassicurava sempre, devo ringraziare loro che sono riusciti a farci restare sempre ottimisti". "Quando la vedrò - ha concluso - le darò un grande abbraccio. Portiamola a casa e poi ci saranno tante cose da dirle".

Greta e Vanessa liberate in Siria, il retroscena sulla trattativa: i banditi, Al Nusra, il riscatto milionario, scrive “Libero Quotidiano”. La trattativa per liberare e riportare in Italia Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le giovani cooperanti lombarde rapite in Siria lo scorso 31 luglio e atterrate nella notte tra giovedì e venerdì a Ciampino, accolte dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nonostante la smentita dell'intelligence italiana, tutte le ricostruzioni non escludono l'ipotesi di un riscatto di 12 milioni di dollari pagato dalle nostre autorità ai rapitori, anzi. Innanzitutto, però, occorre fare chiarezza su chi siano i "rapitori". "Banditi verniciati da islamisti": così li avrebbero etichettati i servizi italiani che hanno lavorato al caso di Greta e Vanessa. Di sicuro, non erano né dello Stato islamico né della fazione jihadista rivale, Al Nusra. A dare supporto logistico a questa banda più o meno improvvisata sarebbero stati i ribelli anti-Assad del Syrian Free Party, l'esercito libero siriano. Attraverso mediatori vicini ai ribelli "buoni" siriani Farnesina e intelligence hanno cercato per mesi un canale per risolvere positivamente la vicenda. A dicembre, però, improvvisamente si complica tutto. Tra 23 e 31, riporta Repubblica, a inizio mese secondo il Corriere della Sera, vengono meno i contatti. Poi, la sera di Capodanno, spunta in rete il video delle due italiane vestite di nero dal covo dei rapitori. Sarebbe stato un segnale al governo italiano: per liberare Greta e Vanessa servono soldi, più di quanti ipotizzati. La posta, insomma, si è alzata e il perché si scopre presto: sarebbero cambiati i mediatori. I rapitori si sarebbero infatti avvicinati ad Al Nusra, i "rivali" dell'Is che qualcuno, in maniera molto ottimistica, definisce "meno feroci" dei tagliagole del Califfato. L'unica differenza in realtà è che se questi ultimi i prigionieri li sgozzano in diretta video, i primi preferiscono venderli per fare soldi, molti soldi. Che servono ad acquistare armi, addestrare milizie (anche kamikaze), corrompere governi ed eserciti. Insomma, alimentare l'industria del terrore. Al Nusra fa pubblicare quel video, la notte del 31 dicembre, contro la volontà dei servizi italiani. Seguono giorni frenetici, fino agli attentati di Parigi che emotivamente potrebbero portare il governo di Roma a pagare ancora di più per non avere sulla coscienza la morte atroce di due ragazze. I jihadisti lo sanno, e alzano la posta. L'Italia chiede un'altra prova che le rapite siano vive e gli uomini di Al Nusra girano un secondo video, questa volta riservato e non pubblicato sul web. E' il segnale: Greta e Vanessa stanno bene e si possono liberare. A che prezzo, forse non lo si scoprirà. Lo scrittore Erri De Luca, che già in passato ha espresso posizioni controverse sulla questione della linea Alta velocità Torino-Lione, ha commentato la liberazione dal suo account twitter. "Se è stato pagato un riscatto - ha scritto -, per una volta sono stati spesi bene i soldi pubblici". A tal proposito, il leader della Lega Matteo Salvini ha affermato: "La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia ma l'eventuale pagamento di un riscatto che permetterebbe ai terroristi islamici di uccidere ancora sarebbe una vergogna per l'Italia". Come dire: i terroristi islamici si finanziano anche con questi riscatti.

Vanessa e Greta, samaritane innamorate del kalashnikov. Sui loro profili Facebook frasi pesanti e immagini forti. E amicizie con combattenti che posano con i cadaveri, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Fotomontaggi con il kalashnikov avvolto dai fiori, l'appello per salvare un barcone di clandestini, insulti alle Nazioni Unite e amici combattenti in Siria sono le tracce lasciate su Facebook di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli prima di sparire. Non proprio profili di buone samaritane, ma piuttosto di attiviste che appoggiano la lotta armata contro il regime di Damasco. Peccato che proprio fra i loro amici combattenti si annidino i presunti rapitori pronti a lucrare sulle due ragazze prese in ostaggio. Adesso che è apparsa la «prova in vita», ovvero il primo video delle due sequestrate, raccontiamo chi sono Vanessa e Greta attraverso le loro stesse parole o immagini postate in tempi non sospetti. Marzullo pubblica sul suo profilo la foto di un gruppo di soldatini di plastica. In mezzo c'è una ballerina dipinta di rosa, che imbraccia un fucile mitragliatore. Il primo ottobre 2013, un certo Ahmad Lion of Islam scrive in inglese: «Carina. Così adesso vieni a combattere con noi eroina. In qualsiasi momento sei la benvenuta». Un altro post mostra il fotomontaggio di un kalashnikov avvolto dai fiori ed il 24 luglio 2013 Vanessa si rivolge al presidente siriano, Bashar al Assad, con una frase che lo invita a darsi fuoco, dopo aver bruciato tutto nel suo Paese. Il primo aprile non ha dubbi e scrive: «Assad non è siriano, non è musulmano, non è laico (…). Assad non è neppure umano». L'8 febbraio, posta un inequivocabile «Onu di merda. Posso descrivere solo così il mio stato d'animo in questo momento». La deriva a favore dei ribelli siriani è evidente anche dalle risposte ad uno strano questionario in inglese che chiede cosa bisognerebbe fare in Siria? La prima risposta è «armare l'Esercito libero siriano». I giornalisti come Monica Maggioni, direttore di Rai news 24 che osa intervistare Assad, vengono insultati e sbeffeggiati. Il pensiero a senso unico delle due ragazze in ostaggio in Siria risulta evidente dalle immagini postate su Facebook. Un cartello del novembre 2012 è rivolto all'Occidente con la seguente scritta in inglese: «Allah o Akbar è un grido di vittoria. Nessun panico». Oppure un diretto «Cari Onu…Usa…Nato Vi odio». Il 3 giugno Vanessa lancia un appello «urgente» salva clandestini di Nawal Syriahorra, che chiede a «siriani/arabofoni di contattare» un telefono satellitare «presente sull'imbarcazione di cui ha parlato in questi giorni, con almeno 450 persone a bordo abbandonate al mare. Chiamare sperando che qualcuno risponda e chiedere: sono tutti vivi? c'è gente in acqua? la donna ha partorito? sono stati raggiunti da italiani o maltesi? Al più presto!». Il vero cognome di Nawal potrebbe essere Sofi, una fervente attivista della fallita primavera araba di Damasco di origine marocchina, che favorirebbe l'arrivo dei profughi siriani in Italia. La pasionaria partecipava alle stesse manifestazioni dove è stato fotografato Hassam Saqan, che in Siria si è fatto immortalare in un video di brutale esecuzione di soldati governativi prigionieri dei ribelli. Vanessa su Facebook ha postato una frase in italiano non perfetto scritta su un muro e firmata da Nawal Sofi: «Qui in Siria unico terrorista Bashar el Assad 15/3/2013 Mc- Italy».Greta Ramelli non è da meno come amicizie in rete con combattenti in Siria. Le piace molto una foto con dei miliziani in mimetica nella zona di Idlib, dove probabilmente le due ragazze sono trattenute in ostaggio. La didascalia non è proprio un esempio di pacifismo: «La bellezza e la forza sconvolgente della natura: tanto è stato il sangue versato che ora al suo posto spuntano dei meravigliosi fiori rossi». Abu Wessam, un giovane ribelle mascherato, amico in rete di Greta, posta le foto delle due ragazze in piazza Duomo a Milano con la bandiera dell'Esercito siriano libero. Su Facebook l'amico più importante dell'attivista «umanitaria» è Mohammad Eissa, il comandante delle Brigate dei martiri di Idlib, che in rete si fa fotografare davanti a una dozzina di corpi di nemici uccisi. Il gruppo islamista ha avuto rapporti altalenanti con l'Esercito libero, formazione laica e filoccidentale della guerriglia, ma pure con Al Nusra, la costola di Al Qaida in Siria, che rivendica il rapimento. Probabilmente il barbuto comandante aveva garantito protezione anche nei viaggi precedenti in Siria alle due ragazze innamorate della rivolta siriana. Questa volta qualcosa è andato storto e gli «amici» ribelli di Vanessa e Greta si sono trasformati in carnefici, o almeno così sembra.

Greta e Vanessa, il giornalista del Foglio: "Non mi trovavo con loro". Daniele Raineri scrive che, quando avvenne il sequestro delle due italiane, era ad alcuni chilometri di distanza. "Cercavano anche me", scrive Lucio Di Marzo su “Il Giornale”. C'era anche Daniele Raineri con Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, la sera che le due italiane sono state rapite in Siria? Questo si è detto dal giorno del loro sequestro, sostenendo che l'inviato del Foglio fosse riuscito a fuggire dall'abitazione dove si trovavano tutti e tre, mentre le due volontarie venivano catturate. Una storia su cui oggi ha detto la sua anche il diretto interessato, che in un articolo pubblicato sul quotidiano di Giuliano Ferrara sostiene invece che no, quella notte non si trovava con le due ragazze italiane. "Ero a circa venticinque chilometri dalla casa dov'erano loro", scrive Raineri. In una casa di campagna, usata come base dai ribelli, "a sud di Aleppo". La versione del giornalista sembra dunque smentire uno dei dettagli legati al sequestro, spiegando che nell'abitazione ("Il capo della casa era un ex soldato delle forze speciali di Assad") ci è rimasto fino al mattino alle cinque. Poi alcuni colpi alla porta e la notizia, portata da due siriani, del sequestro di Greta e Vanessa, per mano di un gruppo che in quel momento non si riesce a identificare. Forse - prova a ricostruire il Fatto Quotidiano, grazie ad alcuni documenti del Ros - sono "rimaste vittime proprio di quelli che volevano soccorrere", se è vero che il loro progetto era anche in funzione di supporto a quell'Esercito libero composto da gruppi che l'Occidente ha spesso identificato come moderati.

Greta e Vanessa, due ingenue o due fiancheggiatrici del terrorismo? Si chiede Milano Post. Greta e Vanessa, due ragazze ventenni, lombarde volontarie del Progetto Horryaty, una Onlus fondata da Roberto Andervill poche settimane prima del presunto rapimento delle due cooperanti. Progetto Horryaty opera in maniera del tutto svincolata dalle varie Ong presenti in territorio siriano e, stando alle dichiarazioni ufficiali dei responsabili della Onlus, in Italia si occupano di raccolta fondi e sensibilizzazione, in Turchia comprano gli aiuti, teoricamente materiale sanitario, che vengono poi distribuiti in zone diverse della Siria. Questo ufficialmente, scavando e cercando la verità troviamo un Roberto Andervill nel cui profilo Facebook, al momento chiuso, si leggevano frasi di odio verso i presidenti delle Comunità Ebraiche italiane, contro Magdi Allam e, giusto per non deludere la sua sinistra ideologia, messaggi di pace (eterna) verso gli Ebrei. Detto questo passiamo direttamente ad osservare Greta e Vanessa e vi siete mai chiesti cosa c’è scritto sul cartello che reggono in quella famosa foto in cui vengono ritratte avvolte dalla bandiera siriana in Piazza Duomo?

Sveliamo l’arcano, il quel cartello c’è scritto:” Agli eroi di Liwa Shuhada grazie per l’ospitalità e se D-o vuole vediamo la città di Idlib libera quando ritorneremo”. Chi sono gli eroi di Liwa Shuhada? Presto detto: Liwa Shuhada Al-Islam, in italiano Brigata dei martiri dell’Islam, è un’organizzazione, secondo i maggiori esperti di terrorismo internazionale, terroristica di stampo jihadista, molto vicina al Fronte Al-Nusra, il nome di Al-Qaeda in Siria per intenderci, e responsabile di numerosi attentati a Damasco. Inoltre, stando alle ultime indiscrezioni, pare, dalle varie intercettazioni in mano ai R.O.S., che le due ragazze avesse già intessuto da tempo rapporti con cellule del fronte anti-Assad, in Italia, cellule che oggi chiamiamo “foreign fighters” e che in Francia hanno seminato morte e terrore pochi giorni fa. Quindi ho forti dubbi che si trattasse di due ventenni ingenue e sprovvedute, considerato che erano già state in Siria, che avevano già dato aiuti ai “guerriglieri” e che si stavano recando ancora in Siria per distribuire kit di pronto soccorso ai membri della Brigata dei Martiri dell’Islam, probabilmente gli stessi che le hanno “rapite”, o sarebbe meglio dire nascoste da occhi indiscreti, messe all’ingrasso per poi richiedere il solito riscatto per la “liberazione” dei presunti ostaggi. Certo però che rispetto alle due Simone, in Iraq, e della Sgrena, Greta e Vanessa sono state decisamente più “professionali”. Mentre le prime hanno fruttato alla causa del terrorismo “solo” undici milioni di dollari (5 per le due cooperanti e 6 per la Sgrena), Greta e Vanessa hanno da sole fatto regalare ai terroristi ben 12 milioni di dollari, anche se negati dal ministro degli Esteri Gentiloni, si sa che Italia, Francia, Germania e Spagna preferiscono pagare. “Non c’è nulla per cui si debba chiedere scusa” queste le parole del padre di Vanessa. Eh no caro signore, c’è invece da chiedere scusa. Sua figlia e la sua amica devono chiedere scusa ai cittadini italiani, visto che i soldi pagati per “liberarle” da una prigionia a pane e kebab, provengono dalle tasse che egli italiani pagano. Devono porgere le loro scuse, implorando il perdono, a tutte quelle famiglie che perderanno un loro caro ed a tutte le innocenti vittime che quei 12 milioni di dollari, regalati al terrorismo islamico, causeranno in Medio Oriente o in Europa.

Vanessa e Greta, cosa non torna nella loro storia: le quattro accuse di Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Il governo si è dato da fare per smentire di aver pagato un riscatto in cambio della liberazione di Vanessa e Greta. «Solo illazioni» ha dichiarato il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, il quale subito dopo ha però aggiunto che nel caso delle due cooperanti italiane l’esecutivo si è comportato come i precedenti (che infatti pagavano), precisando che per Palazzo Chigi e dintorni dà la priorità al salvataggio di vite umane (tradotto: pazienza se ci sono costate 12 milioni, tanto sono soldi dei contribuenti). Con il rientro delle due ragazze e le rassicurazioni del ministro si vorrebbe così chiudere la faccenda, mettendo una pietra sopra l’imbarazzante trattativa con i terroristi. Si dà il caso che però la vicenda sia tutt’altro che archiviabile ma necessiti di ulteriori approfondimenti, soprattutto dopo la rivelazione di una serie di antefatti. Ieri in un articolo del Fatto quotidiano si dava conto dell’esistenza di una informativa dei Ros sulla missione siriana di Vanessa e Greta. Non un rapporto compilato dopo la sparizione delle due ragazze, ma una nota predisposta prima della partenza. Quanto prima? Leggendo l’articolo non è dato sapere, ma si capisce che la relazione del reparto operativo dei carabinieri risale al periodo in cui le due giovani lombarde stavano organizzando il viaggio. Vi state chiedendo perché l’Arma si occupasse di due esponenti di un’organizzazione non governativa intenzionate a partire per la Siria? Perché le due entrano in contatto con un pizzaiolo emiliano che i Cc tengono d’occhio ritenendolo un militante islamico. Così, per caso, intercettano Vanessa e Greta che si mettono d’accordo con il tipo e a lui raccontano nel seguente ordine due cose: di voler partire per la Siria per consegnare kit di pronto soccorso alla popolazione civile ma anche ai combattenti islamici, così che gli oppositori al regime di Assad possano curarsi in caso di ferite. Secondo, Greta in una conversazione spiega di godere di una specie di lasciapassare, in quanto sostenitrice della rivoluzione e protetta dall’Esercito Libero. La ragazza non dice al telefono di essere in contatto con gente dello stato islamico, anzi, assicura che quelli dell’Esercito Libero non impongono neppure il velo alle donne. Come è finita si sa, con un sequestro che le ha consegnate nelle mani di una banda vicina ad Al Qaeda, cioè l’organizzazione che poi l’avrebbe rapita. Nell’articolo si fa cenno anche a un universitario in collegamento con i ribelli ed anche ad un medico. Risultato: leggendo il Fatto si apprendono le seguenti informazioni. La prima, forse scontata ma fino a ieri non molto documentata, è che sul territorio italiano operano dei militanti che inviano denaro e aiuti ai combattenti islamici. Due: Vanessa e Greta non sono partite per la Siria per andare ad aiutare i bambini, per lo meno non solo: in Siria sono andate per consegnare kit di pronto soccorso ai miliziani, che se non è un aiuto a chi combatte poco ci manca. Tre: le giovani appoggiavano la rivoluzione e consegnando i medicinali volevano contribuire materialmente a sostenerla. Quattro: se sono finite nelle mani di tagliagole che le hanno rapite e segregate per più di cinque mesi, liberandole solo in cambio di un riscatto multimilionario, è perché qualcuno dei loro amici le ha tradite. Ne consegue che i carabinieri sapevano tutto, del viaggio e anche dei contatti con i militanti islamici, ma nessuno ha fatto niente, lasciando partire le ragazze e dunque facendole finire nelle mani dei rapitori. Non solo: qualcuno in Italia si dà addirittura da fare per agevolare la partenza e poi forse per agevolare anche il sequestro, così che la fiorente industria dei rapimenti ad opera dei militanti islamici possa prosperare e soprattutto finanziare la guerriglia e il terrorismo. Infine, come spiegava ieri il nostro Francesco Borgonovo, risulta evidente da questo rapporto che molte delle organizzazioni non governative in apparenza dicono di voler aiutare chi soffre, ma nella sostanza hanno rapporti poco trasparenti con chi combatte. Altro che ragazzine finite in un gioco più grande di loro. Greta e Vanessa pensavano di fare la rivoluzione e invece sono finite in una prigione dalle parti di Aleppo, perché la rivoluzione non è un pranzo di gala e se poi è islamica si va a pranzo con il boia. Risultato: la faccenda è tutt’altro che chiusa e il governo non può pensare di cavarsela con l’intervento reticente del ministro Gentiloni. Essendoci di mezzo la sicurezza nazionale (la gente che aiuta i combattenti l’abbiamo in casa) e soprattutto i soldi dei contribuenti vorremmo andare fino in fondo. E state sicuri che per quanto ci riguarda faremo di tutto per farlo.

Crolla l'alibi pacifista. Ecco tutte le prove delle amicizie jihadiste. Altro che pacifiste: i kit di pronto soccorso portati in Siria somigliano più a quelli militari. Ed erano destinati a gruppi di combattimento, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Il ministro Paolo Gentiloni, protagonista in Parlamento di una difesa a spada tratta di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, avrebbe fatto meglio a consultarsi prima con i carabinieri del Ros. Carabinieri che, magari, avrebbero potuto mostrare pure a lui le intercettazioni delle telefonate, pubblicate da Il Fatto Quotidiano , tra le due suffragette lombarde e alcuni fiancheggiatori dei gruppi jihadisti siriani. Telefonate assai scomode e imbarazzanti. Telefonate da cui emerge con chiarezza come le due ragazzine non ambissero al ruolo di crocerossine neutrali, ma piuttosto a quello di militanti schierate e convinte. Militanti tradite dai propri stessi «amichetti» e riportate a casa solo grazie al trasferimento nella cassaforte della formazione al qaidista di Jabat Al Nusra, o di qualche altro gruppetto jihadista, di una decina di milioni di euro sottratti ai cittadini italiani. Milioni con cui i fanatici siriani, o quelli europei passati per le loro fila, potrebbero ora organizzare qualche atto di terrorismo in Italia o altrove nel Vecchio Continente.

Che Greta e Vanessa progettassero di mettere in piedi qualcosa di diverso da una normale organizzazione umanitaria, Il Giornale lo aveva intuito subito dopo il sequestro. Esaminando su Facebook le gallerie fotografiche di «Horryaty» - l'associazione creata assieme al 46enne fabbro di Varese Roberto Andervill - quel che più saltava agli occhi era l'aspetto chiaramente «militare» dei «kit di pronto soccorso» distribuiti da Greta e Vanessa in Siria. I kit, contenuti in tascapane mimetici indossabili a tracolla, assomigliavano più a quelli in dotazione a militanti armati o guerriglieri che non a quelli utilizzati da infermieri o personale paramedico civile. Anche perché la prima attenzione di medici e infermieri indipendenti impegnati sui fronti di guerra non è quella di mimetizzarsi ma piuttosto di venir facilmente identificati come personaggi neutrali, non coinvolti con le parti in conflitto. Un concetto assolutamente estraneo a Greta Vanessa. Nelle telefonate scambiate prima di partire con Mohammed Yaser Tayeb - un 47enne siriano trasferitosi ad Anzola in provincia di Bologna ed identificato nelle intercettazioni del Ros come un militante islamista - Greta Ramelli spiega esplicitamente di voler «offrire supporto al Free Syrian Army», la sigla (Esercito Libero Siriano) che riunisce le formazioni jihadiste non legate al gruppo alaaidista di Jabat Al Nusra o allo Stato Islamico. L'acquisto dei kit di pronto soccorso mimetici da parte di Greta e Vanessa è documentato dalle ricevute pubblicate sul sito di Horryaty il 12 maggio di quest'anno, subito dopo la prima trasferta siriana delle due «cooperanti». La ricevuta, intestata a Vanessa Marzullo, certifica l'acquisto in Turchia di 45 kit al costo di 720 lire turche corrispondenti al cambio dell'epoca a circa 246 euro. La parte più interessante è però la spiegazione sull'utilizzo di quei kit. Nel rapporto pubblicato su Horryaty, Greta e Vanessa riferiscono con precisione dove hanno spedito o portato latte, alimenti per bambini, medicine e ogni altro genere di conforto non «sospetto». Quando devono spiegare dove sono finiti quei tascapane mimetici annotano solo l'iniziale «B.» facendo intendere di parlare di un avamposto militare dei gruppi armati il cui nome completo non è divulgabile per ragioni di sicurezza. Nelle telefonate con l'«amichetto» Tayeb registrate dai Ros, Greta Ramelli si spinge invece più in là. In quelle chiacchierate Greta spiega che i kit verranno distribuiti «a gruppi di combattimento composti solitamente da 14 persone». Spiegazione plausibile e circostanziata visto che in ambito militare una squadra combattente, dotata di uno specialista para-medico, conta per l'appunto dalle 12 alle 15 unità. L'elemento più inquietante, annotato dai Carabinieri del Ros a margine delle intercettazioni, sono però i contatti tra l'«amichetto» Tayeb e Maher Alhamdoosh, un militante siriano iscritto all'Università di Bologna e residente a Casalecchio del Reno. Con Maher Alhamdoosh s'erano coordinati - guarda un po' il caso e la sfortuna - anche Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali e Susan Dabous, i giornalisti italiani protagonisti nella primavera 2013 di un reportage in Siria conclusosi anche in quel caso con un bel sequestro. Un sequestro seguito da immancabile ed esoso riscatto pagato, anche allora, dai generosi contribuenti italiani. Quel silenzio su Giovanni Lo Porto rapito tre anni fa in Pakistan. Il cooperante palermitano sparito il 19 gennaio 2012 durante una missione per conto della ong tedesca Welt Hunger Hilfe, scrive Gianluca Mercuri su “Il Corriere della Sera”. Oggi 19 gennaio 2015 sono tre anni che Giovanni Lo Porto è sparito. Era arrivato da tre giorni in Pakistan per fare il suo lavoro - ridare alloggi alle popolazioni colpite dall’alluvione del 2010 - per conto della ong tedesca Welt Hunger Hilfe. Il 19 gennaio 2012 l’hanno rapito insieme al collega Bernd Muehlenbeck, che lo scorso ottobre è stato liberato dalle forze speciali di Berlino: si sa che non era più insieme a Giovanni da un anno e nulla di più. Intorno al cooperante palermitano, un silenzio che ha oscillato tra la prudenza d’obbligo e la reticenza pelosa. Il governo chiede il basso profilo, parenti e amici non ci stanno e lanciano appelli che raccolgono migliaia di adesioni. Un segnale è arrivato finalmente dal ministro degli Esteri, che rispondendo venerdì in Parlamento su Greta e Vanessa ha ricordato sia padre Dall’Oglio sia Giovanni, «due vicende alle quali lavoriamo con discrezione giorno per giorno». Lo Porto ha un profilo inattaccabile perfino dagli sciacalli del web: 40 anni, studi solidi tra Londra e Giappone, esperienze sul campo in Croazia, Haiti e anni prima nello stesso Pakistan, dove nel 2012 era tornato con un progetto finanziato dall’Ue. Insomma, tutto fuorché un avventuriero. Gentiloni va preso alla lettera, fino a prova contraria: l’Italia non lascia indietro nessuno dei suoi cittadini e per nessuno lesina mezzi. Tre anni dopo, è il minimo che si deve a Giovanni Lo Porto.

Greta e Vanessa tradite da chi volevano aiutare, scrive “Libero Quotidiano”. Greta e Vanessa sarebbero state rapite proprio da chi volevano aiutare. Le due ragazze infatti, riporta il Fatto, erano partite per la Siria non per aiutare i civili, le vittime della guerra, ma per sostenere i combattenti islamici anti-Assad con kit di salvataggio. E' il retroscena sul sequestro delle due volontarie che si legge in alcune informative del Ros dove vengono riportate alcune intercettazioni di aprile tra Greta Ramelli - che stava organizzando il suo viaggio in Medioriente - e un siriano di Aleppo di 47 anni, Mohammed Yaser Tayeb, pizzaiolo di Anzolo in Emilia, che gli investigatori considerano un militante islamista legato ad altri siriani impegnati in "attività di supporto a gruppi di combattenti operativi in Siria a fianco di milizie contraddistinte da ideologie jihadiste". In sostanza il progetto delle due cooperanti era "rivolto a offrire supporto al Free Syrian Army ora supportato dall'occidente in funzione anti Isis ma anch'esso composto da frange di combattenti islamisti alcuni dei quali vicini ad Al Qaeda", a sostenere "un lavoro in favore della rivoluzione", e non a dare un aiuto neutrale. Si legge nell'informativa una telefonata tra Greta e Mohammed Yasser Tayeb così sintetizzata: "Greta precisa  che un primo corso si terrà in Siria con un operatore che illustrerà ai frequentatori (circa 150 persone tra civili e militari) i componenti del kit di primo soccorso e il loro utilizzo. la donna dice che ha concordato con il leader della zona di Astargi di consegnare loro i kit e cje a loro volta li distribuiranno ai gruppi di combattenti composti da 14 persone in modo che almeno uno degli appartenenti a questi gruppi fosse dotato del kit e avesse partecipato al corso". Tayeb secondo gli investigatori si attivò concretamente per aiutarle e le mise in contatto con un altro siriano residente a Budrio, Nabil Almreden, nato a Damasco, medico chirurgo in pensione. Tayeb gli chiede di inviare in siria una lettera di raccomandazione per Vanessa, "verosimilmente - annota il ros - un accredito presso una non meglio istituzione all'interno del territorio siriano".

Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono libere. Incassato con sollievo l'annuncio di Palazzo Chigi, con le due giovani cooperanti italiane rapite in Siria lo scorso 31 luglio e già di ritorno in Italia, il mondo politico e non solo già si divide, perché in ballo ci sono 12 milioni di dollari, scrive “Libero Quotidiano”. Quelli che secondo i ribelli siriani sarebbero stati pagati per la liberazione delle italiane, notizia che i nostri servizi hanno smentito seccamente. "Se veramente per liberare le due amiche dei siriani il governo avesse pagato un riscatto di 12 milioni, sarebbe uno schifo!", ha incalzato il segretario della Lega Nord Matteo Salvini. E c'è chi come il capogruppo di Forza Italia alla Regione Emilia Romagna, Galeazzo Bignami, arriva a chiedere un "contrappasso" per le giovani volontarie temerarie: "Adesso le due tipe si mettano a lavorare gratis fino a quando non ripagheranno all'Italia quanto noi abbiamo dovuto versare, in nome della loro amicizia, ai ribelli siriani". "Sono state liberate immagino dietro pagamento di lauta ricompensa ai ribelli siriani - scrive Bignami su Facebook -. Ora che sono libere penso si possa dire con chiarezza che di chiaro in questa storia non c'è nulla. A partire dal fatto che questo sequestro pare proprio un gran favore fatto dalle loro amiche ai ribelli". Sui social network e sui siti, il commento di molti utenti è critico. E anche tra i lettori di Liberoquotidiano.it l'umore non è di sola soddisfazione per la liberazione delle due giovani. E' tutto il centrodestra ha porre la questione al governo. Secondo Mariastella Gelmini di Forza Italia, è "doveroso chiederci se un eventuale riscatto pagato a dei terroristi non sia una fonte di finanziamento per portare la morte in Europa e altrove. Non vorrei che l'Occidente finisse vittima di un corto circuito provocato dai terroristi che dispensano la morte e la vita a secondo delle convenienze". Se la Gelmini chiede spiegazioni al ministro degli Esteri Paolo Gentoloni ("Lui e il governo faranno bene a chiarire rapidamente la vicenda in tutti i suoi aspetti rilevanti"), sulla stessa linea si pone Massimo Corsaro di Fratelli d'Italia: Greta e Vanessa "hanno esposto loro stesse e l'intero Stato italiano a una situazione di rischio e difficoltà coscientemente con la loro volontaria presenza in un Paese in gravi condizioni e una pesante presenza del terrorismo, il ministro Boschi ci dica se è in grado di escludere che da qualunque fonte di finanziamento pubblico sia stato un centesimo per riportare le due ragazze a casa".

"Pagato riscatto da 12 milioni" Quante armi compreranno? Giallo sui soldi, un tweet dei rapitori fa scoppiare la polemica Dal 2004 a oggi abbiamo versato già 61 milioni ai terroristi, spiega Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Non possiamo che gioire per la liberazione di Vanessa Marzullo e di Greta Ramelli, le quali, dopo essere state quasi sei mesi nelle mani dei tagliagole jihadisti, potranno oggi finalmente riabbracciare le loro famiglie. Fatta questa doverosa premessa, non possiamo esimerci dall'esprimere un senso di vergogna e di disapprovazione per le modalità con cui il governo ha risolto la questione. È vero che siamo da anni abituati a pagare riscatti a talebani, pirati e terroristi per riportare a casa chi si avventura in zone altamente pericolose, ma averlo fatto consapevoli di foraggiare l'industria dei sequestri è perlomeno riprovevole. «Dodici milioni di dollari» proclamano i rapitori del Fronte Al Nusra, cioè circa dieci milioni di euro per riempire le casse del gruppo qaedista siriano, che fa dei sequestri una delle sue principali fonti di finanziamento per procurarsi armi e reclutare combattenti. C'è poco da scherzare o da sorridere. Secondo una stima fatta dal New York Times , Al Qaeda e i gruppi affiliati avrebbero incassato negli ultimi cinque anni almeno 125 milioni di dollari, versato in gran parte dai governi europei. I riscatti pagati dalla sola Italia dal 2004 a oggi a vari gruppi combattenti, ammontano a 61 milioni di euro. Un'industria fiorente, con un fatturato considerevole, alimentato proprio dai quei Paesi disposti e abituati a sborsare denaro per soddisfare le richieste dei terroristi. Quali clienti migliori per i piccoli eredi di Osama bin Laden. E l'Italia è un obiettivo «privilegiato». E pensare che Amedy Coulibaly, il terrorista islamico protagonista della strage nel supermercato ebraico di Parigi, aveva chiesto un mutuo di poco più di 30mila euro per finanziare la sua azione e quella dei fratelli Kouachi nella redazione di Charlie Hebdo. Fate una semplice calcolo di quanti Coulibaly si potrebbero mettere in pista con i dieci milioni di euro pagati dal nostro governo…. Inevitabili quindi, le proteste e le polemiche scaturite subito dopo l'annuncio del pagamento di un riscatto per liberare Vanessa e Greta. Lega, Fdi e Forza Italia hanno subito chiesto chiarimenti in Parlamento. «La liberazione delle due ragazze mi riempie di gioia - ha detto il leader del Carroccio Matteo Salvini -. Ma l'eventuale pagamento di un riscatto, che permetterebbe ai terroristi di uccidere ancora, sarebbe una vergogna per l'Italia». La Lega presenterà un'interrogazione al ministro degli Esteri proprio «per appurare se sia stato pagato un solo euro per le due signorine». «Un fatto assai grave - gli ha fatto eco il deputato leghista Molteni -. Il primo pensiero va alle famiglie. Va detto però che noi non abbiamo mai condiviso né giustificato le motivazioni della loro missione pseudomondialista». Chiede chiarezza anche Mariastella Gelmini, vicecapogruppo alla Camera di Forza Italia. «Quando si riconquista la libertà e la vita, ogni persona ragionevole non può che esultare - ha affermato - Adesso, con altrettanta ragionevolezza, il governo e il ministro degli Esteri devono riferire sulle modalità di questa liberazione».

Ora li paghiamo pure per farci mettere il velo. Il governo deve riportarle a casa. Ma ci costerà milioni e così finanzieremo i terroristi. Vietiamo alle Ong di andare in quei posti, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Tranne improbabili e comunque non auspicabili colpi di scena, Greta Ramelli e Vanessa Marzullo rientreranno presto in Italia. Le trattative volgono alla fine e concernono esclusivamente, così come è stato sin dall'inizio del loro singolare sequestro lo scorso 31 luglio, l'entità della cifra da pagare. Le due ragazze erano simpatizzanti degli stessi gruppi islamici che le avrebbero sequestrate. In un cartello in arabo con cui si sono fatte immortalare nel corso di una manifestazione svoltasi in Italia si legge: «Agli eroi della Brigata dei Martiri - Grazie dell'ospitalità - Se Allah vorrà presto Idlab sarà liberata - E noi ci torneremo». La «Brigata dei Martiri», in arabo Liwa Shuadha, è un gruppo di terroristi islamici il cui capo, Jamal Maarouf, ha ammesso di collaborare con Al Qaida. Comunque sia, nel caso degli ostaggi italiani detenuti dai terroristi islamici i riscatti si misurano in milioni di euro, per la precisione dai 5 milioni in su per i sequestri in Siria e Irak, «solo» un milione o poco più per i sequestri finora verificatisi in Libia. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Per avere un riferimento dell'entità della cifra da corrispondere ai terroristi islamici che detengono le due ragazze italiane, teniamo presente che l'ultimo ostaggio italo-svizzero, Federico Motka, sequestrato anche lui in Siria il 12 marzo 2013, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro. Nel video postato su YouTube Greta e Vanessa sono sostanzialmente tranquille, recitano un copione impartito loro, i loro sguardi s'incrociano con quelli dei carcerieri dietro la telecamera per assicurarsi di essere state diligenti. È un video diretto a noi cittadini italiani per prepararci psicologicamente ad abbracciare le due ragazze in cambio del pagamento di un lauto riscatto. Sostanzialmente diverso era il video del 2005 che ci mostrò Giuliana Sgrena disperata e in lacrime supplicando le autorità di intervenire per il suo rilascio. Ebbene quel drammatico messaggio era diretto al governo, forse inizialmente restio a sborsare la cifra richiesta tra i 6 e gli 8 milioni di euro. Saremo tutti contenti di riavere vive Greta e Vanessa. Però è ora di porre fine a queste tragiche farse il cui conto salatissimo paghiamo noi italiani. Il governo vieti alle nostre associazioni civili di operare nelle zone dove imperversano il terrorismo islamico o i conflitti armati. È ora di dire basta alle sedicenti associazioni «senza scopo di lucro» che lucrano con il denaro degli italiani, soldi pubblici e privati, per sostenere la causa dei nemici della nostra civiltà. E poi ci tocca pure pagare ingenti riscatti quando vengono sequestrati o si fanno sequestrare. Basta! 

Finché "mandiamo" ostaggi siamo più vulnerabili. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo? Continua Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Che cosa aspetta il nostro ministero degli Esteri a vietare tassativamente a tutti i cittadini italiani di recarsi nei Paesi dove imperversa il terrorismo islamico, a cominciare da Irak, Siria, Libia, Nigeria e Somalia? Nel caso specifico dell'Italia dobbiamo farlo sia perché avendo dato prova di essere un «buon pagatore», finiamo per alimentare le risorse finanziarie con cui i terroristi islamici accrescono i loro efferati crimini, sia perché le recenti decapitazioni di quattro ostaggi occidentali (due americani e due britannici) evidenziano che i terroristi islamici sono del tutto indifferenti al fatto che fossero degli «amici», solidali con i musulmani. Si stima che dal 2004 l'Italia abbia pagato complessivamente 61 milioni di euro per liberare Simona Pari e Simonetta Torretta, Maurizio Agliana, Umberto Cupertino e Salvatore Stefio, Giuliana Sgrena, Clementina Cantoni, Daniele Mastrogiacomo, Rossella Urru, Maria Sandra Mariani, Sergio Cicala e Philomene Kabouree, Federico Motka, Domenico Quirico. Con noi i terroristi islamici vanno sul sicuro: hanno la certezza che il governo italiano pagherà. Esattamente l'opposto della politica adottata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. La prova: mentre l'italo-svizzero Federico Motka, sequestrato il 12 marzo 2013 insieme al britannico David Haines, entrambi operatori umanitari, è stato rilasciato il 26 maggio scorso dietro il pagamento di un riscatto di 6 milioni di euro, Haines è stato decapitato dai terroristi dell'Isis (Stato Islamico dell'Irak e del Levante) il 14 settembre scorso. Diciamo che probabilmente i terroristi islamici considerano più vantaggioso sfruttare gli ostaggi italiani per finanziare la loro guerra criminale, rispetto al tornaconto politico che potrebbero avere dalla reazione alla loro decapitazione prendendo realisticamente atto che l'Italia conta poco sulla scena internazionale. Eppure avrebbero dovuto ringraziare Haines per l'aiuto dato ai musulmani. Era stato ribattezzato lo «scozzese matto» per la sua estrema disponibilità e dedizione a favore dei bisognosi. Aiutava tutti, soprattutto i musulmani. Anche l'altro britannico, Alan Henning, decapitato lo scorso 3 ottobre, semplice autista di taxi di Eccles, vicino Manchester, era amico dei musulmani. Sua moglie Barbara aveva invano implorato i terroristi dell'Isis: «Alan è un uomo pacifico, altruista, che ha lasciato la sua famiglia e il suo lavoro per portare un convoglio di aiuti in Siria, per aiutare chi ha bisogno, insieme con i suoi colleghi musulmani e i suoi amici». Anche il giornalista americano James Foley, decapitato dai terroristi dell'Isis lo scorso 19 agosto, era un simpatizzante dei gruppi islamici che combattono il regime di Assad in Siria. La madre Diane, appresa la barbara esecuzione del figlio, ha detto: «Ringraziamo Jim per tutta la gioia che ci ha dato. È stato straordinario, come figlio, fratello, giornalista e persona, ha dato la propria vita cercando di mostrare al mondo le sofferenze del popolo siriano». Ugualmente il secondo giornalista americano, Steven Sotloff, decapitato lo scorso 3 settembre, era un ebreo affascinato dal mondo islamico. La madre Shirley si era rivolta direttamente al Califfo Abu Bakr Al-Baghdadi: «Steven è un giornalista che è venuto in Medio Oriente per raccontare la sofferenza dei musulmani nelle mani dei tiranni. È un uomo degno di lode e ha sempre aiutato i più deboli. Chiedo alla tua autorità di risparmiare la sua vita e seguire l'esempio del Profeta Maometto che ha protetto i musulmani». La prossima vittima preannunciata dei terroristi islamici, l'americano Peter Edward Kassig, di soli 26 anni, è anche lui un cooperante che ha fondato l'organizzazione umanitaria Special emergency response and assistance (Sera), addirittura convertito all'islam. Ebbene, nell'attesa che si ottenga la liberazione di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, cooperanti simpatizzanti dei terroristi islamici rapite lo scorso 31 luglio, e padre Paolo Dall'Oglio, anche lui filo-islamico, rapito il 29 luglio 2013, il governo vieti tassativamente i viaggi degli italiani in questi Paesi sia per porre fine alla vergogna dei riscatti pagati ai terroristi islamici sia per prevenire l'assassinio dei nostri connazionali.

Greta e Vanessa libere: il dilemma davanti alla loro generosità. Pagare i riscatti per i prigionieri dei jihadisti è sbagliato e ingiusto. Eppure davanti alle due ragazze ci dobbiamo interrogare sull'indicibile, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Questo articolo è stato scritto il 3 gennaio quando Greta Ramelli e Vanessa Marzullo, le due amiche rapite in Siria, erano apparse in tv vestite di nero con il capo coperto. Lo riproponiamo oggi che le due giovani sono state liberate. Una riflessione su giudizi, generosità e difficoltà di decidere se e quando un riscatto va pagato. "Noi siamo Greta Ramelli e Vanessa Marzullo". Greta e Vanessa. Due amiche, unite dal desiderio di portare aiuto ai bambini in Siria. Ingenue, avventate, forse. Non giudichiamole. Ma noi non abbiamo il diritto di giudicarle. Mi urtano i (troppi) commenti che le dipingono in un linguaggio sprezzante come invasate manipolate e sprovvedute la cui prigionia crea un problema e pone un dilemma a chi deve gestirla (pagare o non pagare il riscatto? finanziare o no i rapitori? favorire o no con la trattativa altri sequestri?). Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Greta e Vanessa sono due giovani donne maggiorenni (il 31 dicembre Vanessa ha compiuto 22 anni, Greta ne ha uno di meno) che non fanno parte della schiera di chi non si cura degli altri, di chi bada solo a se stesso, di chi concepisce la propria esistenza fra routine e saltuari bagordi di fine settimana o fine anno. Il capodanno e compleanno di Vanessa è stato terribile. Ma è quella la strada che Vanessa, e con lei Greta, ha scelto. Voglio pensare che Vanessa e Greta fossero consapevoli di quel che facevano. Ma se anche non lo fossero state, credo nella verità dei loro intenti. Generosi. E coraggiosi. L'incoscienza che fa parte della vita. E se pure condivido il sospetto di molti, che non fossero del tutto lucide quando hanno valutato i rischi, credo che difficilmente si possano prevedere tutte le conseguenze di una decisione, nel momento della scelta. E, anzi, che una certa incoscienza faccia parte della vita, se la si vuole vivere. C’è chi ha parlato di plagio, insinuando una qualche adesione delle due giovani donne a un messaggio ideologico di chissà quale banda di predoni o gruppo islamico estremista che le tiene in ostaggio. Da quel video cosa si vede? Chi le guarda così, da lontano, da inesperto, le vede diversamente da come esemplarmente le ha viste (e ne ha scritto su “La Stampa”). Domenico Quirico, costretto pure lui da ostaggio, da “schiavo”, a registrare un messaggio. Dice Quirico che quel giorno lui era felice, perché il video era un modo per avvicinarsi alla famiglia e alla liberazione. Ma il commento si conclude con la distanza tra quelle immagini di Greta e Vanessa e la verità dell’avvicinamento, solo in quanto di nuovo visibili, alla loro vita di prima, alla famiglia. A se stesse. Ma da quel video si può solo dedurne il loro essere vive in quel momento. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Sì, colpisce vedere la fotografia di Greta e Vanessa sorridenti, una accanto all’altra come lo sono nelle foto da amiche del cuore nei giorni di festa (e magari di protesta) e il fotogramma di quei 23 lunghissimi secondi in cui si ritrovano ancora vicine ma senza sorriso, vestite di nero col capo coperto, Greta che recita il messaggio rigorosamente a occhi bassi, Vanessa che mostra un foglietto ambiguo con una data non verificabile (il 17 dicembre) e per ben due volte alza gli occhi, prima subito riabbassandoli consapevole d’aver infranto una regola o commesso un’imprudenza, poi guardando di lato, quasi astraendosi dal messaggio, dal luogo e dall’ora, e assumendo un’espressione seria (ma da bambina, così simile a certe espressioni vaghe dei nostri figli, delle nostre figlie). Un dilemma terribile. Gli anglosassoni non pagano riscatti. È una regola chiara. Un dovere forte. Perché il riscatto finanzia il terrore. Perché pagando si incentiva il business dei rapimenti. Perché chi si vede pagata la liberazione ha la vita salva e gli altri, di altre nazionalità, no e questo non è giusto. E perché chi è adulto e affronta il pericolo deve anche esser pronto a subirne le conseguenze (il problema è di chi viene sequestrato, non del governo, soprattutto se non si ha indosso l’uniforme e non si svolge un ruolo istituzionale, da militare, ambasciatore, 007). E tuttavia, ci interroga la generosità di quelle giovani donne andate in Siria, credendoci. E mai come in questo caso si pone un dilemma terribile per chi è chiamato a fare di tutto per liberarle. C’è, qui, un fossato incolmabile tra il detto e l’indicibile.

5 motivi per cui non bisogna pagare riscatti. È bellissimo che Greta e Vanessa siano libere. Ma versare denaro ai sequestratori è sbagliato: condanna a morte altri ostaggi e indebolisce il paese, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.

1 - Dare un tesoretto ai sequestratori. Che siano stati pagati 12 milioni, di meno, o di più, il punto è che le bande di sequestratori, che sono anche manipoli di guerriglieri nei teatri dell’avanzata islamista in Iraq e Siria, hanno oggi un tesoretto da investire in armi o in nuovi rapimenti. Esattamente come in Italia (in Sardegna, in Calabria) qualche decennio fa. Ricordate l’anonima sequestri?

2 - La condanna a morte degli altri ostaggi. Il pagamento del riscatto per gli ostaggi italiani condanna a morte gli ostaggi degli altri Paesi. Chi rifiuta categoricamente di trattare con i sequestratori (soprattutto se terroristi) vede sistematicamente i propri ostaggi uccisi, sgozzati, decapitati, mentre magari i loro compagni di “cella” vengono rilasciati a suon di quattrini. È giusto?

3 - Il presente costruisce il futuro. Il presente costruisce il futuro. Chi paga oggi, pagherà domani. E allora perché non continuare a rapire tutti gli sprovveduti/e italiani/e che mossi da sentimenti di generosità verso i sofferenti delle zone più sventurate del pianeta si tuffano a sprezzo del pericolo in tutte le avventure umanitarie? (Ovvio che qui si pone un serio problema di equilibrio tra volontariato e sicurezza: se lo pongono l’ONU e i grandi organismi internazionali, a maggior ragione dovrebbero porselo i singoli e le piccole associazioni fai-da-te).

4 - Chiudere la fabbrica degli ostaggi. L’ostaggio è sempre lo strumento di un ricatto. Un’arma. Lo Stato deve quindi porsi a sua volta la questione di come “chiudere” la fabbrica degli ostaggi. Può farlo sposando la tesi (che personalmente condivido) di Stati Uniti e Gran Bretagna, di dire in anticipo (e poi agire di conseguenza e coerentemente) che nessun riscatto sarà mai pagato. O lo si può fare cercando il più possibile di impedire che italiani si trovino nelle zone a rischio dove la probabilità di essere rapiti, date certe condizioni, è troppo alta.

5 - Sottomettersi o vincere. Perché uno Stato paga riscatti? Per mancanza di senso dello Stato dei suoi governanti. L’uccisione di un ostaggio, per un’opinione pubblica come quella italiana, è una sconfitta della quale ha colpa il governo, mentre la sua liberazione è una vittoria. Sbagliato. Qui gli errori sono due. Di chi ci governa, perché dimostra non saper essere leader. E di noi che non abbiamo la maturità nazionale dei Paesi anglosassoni che affrontano le guerre con lo spirito di chi vuol vincerle e non di chi si sottomette. 

In Italia i rapimenti sono finiti grazie al blocco dei beni. Decisione terribile e a prima vista disumana. Ma giusta. Ma nel caso di Greta e Vanessa che sono tornate libere (ed è bellissimo che questo sia successo, che i genitori possano riabbracciarle, che siano vive), ci sono mille altre ragioni perché non accada mai più che venga pagato un riscatto. Ecco perché.

Vanno allo sbaraglio e noi paghiamo. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. La vedova di Enzo Baldoni, ucciso dieci anni orsono in Irak da assassini islamici (la cui umanità è nota), in un'intervista rilasciata alcuni giorni fa alla Repubblica , afferma di non essersi dimenticata di me e di Renato Farina che, all'epoca dei fatti, fummo molto critici con il povero pubblicitario-pubblicista perché aveva deciso di trascorrere le ferie nel Paese di Saddam Hussein (con l'ambizione di redigere un reportage) anziché - poniamo - a Rimini, dove non avrebbe rischiato nulla. Comprendo lo stato d'animo della signora e il suo rancore nei nostri confronti, visto come si è tragicamente conclusa l'avventura in Medioriente di suo marito. Ovvio, davanti alla morte, anche se avvenuta in circostanze sulle quali si può discutere, è giusto che prevalgano le ragioni del cuore su quelle del cervello. Ora il problema incarnato da Baldoni si ripropone negli stessi termini: mi riferisco al rapimento avvenuto in Siria di due ragazze italiane (alcune settimane fa) che si sono recate in quelle terre infuocate nei panni di cooperatrici. La storia di queste fanciulle è analoga a quella delle famose due Simone, loro coetanee, che, in occasione della seconda guerra del Golfo, erano andate a Bagdad per aiutare non si sa bene chi, e furono sequestrate dalle solite teste calde imbevute di Corano. La loro vicenda terminò felicemente. Nel senso che i nostri servizi segreti si mossero abilmente, trattarono sul riscatto, lo pagarono con i soldi dello Stato italiano, e liberarono entrambe le scriteriate turiste. Meglio così. Poi fu la volta di Giuliana Sgrena, giornalista del Manifesto, anch'essa finita ostaggio degli islamici e scarcerata grazie al pagamento di una somma rilevante versata dall'Italia ai banditi. Ma sorvoliamo per non farla tanto lunga. Ciò che ci preme osservare è l'inutilità dell'esperienza. C'è gente che, nonostante i precedenti, continua incoscientemente a sfidare il destino - notoriamente cinico e baro - e a mettere a repentaglio la pelle correndo in soccorso di chi non desidera essere soccorso, in Paesi in cui vige la legge del taglione, che non è neppure una legge, bensì una minaccia verso chiunque non adori Allah. Infatti, Greta Ramelli (di Varese) e Vanessa Marzullo (Brembate, lo stesso Comune di Yara, la tredicenne morta ammazzata 4 anni addietro), senza riflettere un secondo, quando hanno avuto l'opportunità di trasferirsi qualche giorno in Siria, sono partite piene di entusiasmo, appoggiate da un'organizzazione umanitaria, convinte di fare del bene. A chi? Ai siriani martoriati dalla guerra, dalle violenze che subiscono quotidianamente vittime di ingiustizie atroci. Ottime intenzioni, non abbiamo dubbi. Ma possibile che non ci sia nessuno in grado di far presente a chi si appresta a raggiungere il Vicino Oriente che non è il caso di affrontare certi viaggi densi di insidie? Possibile non informare i volontari che, persuasi di contribuire a salvare il mondo, in realtà vanno incontro a situazioni da cui è improbabile uscire vivi? Questo è il punto. Non condanniamo assolutamente coloro che, ignari delle trappole disseminate nei territori dove si combatte, vi si recano per il nobile scopo di aiutare persone in drammatiche difficoltà. Ma consentiteci di deplorare almeno quei pazzi che incitano tanti giovani a emigrare, sia pure temporaneamente, in luoghi nei quali uccidere una mosca o un cristiano è lo stesso. È sbagliato pensare che un atto d'amore sia sufficiente a rabbonire chi ti odia da secoli perché rappresenti, fisicamente, il nemico da eliminare. Occorre rieducare i diseducatori che in modo subdolo trascinano i giovani, e perfino vari adulti, a compiere imprudenze che non raramente portano all'irreparabile: sequestri ed esecuzioni capitali con metodi tribali. È un'operazione complicata e forse velleitaria. Ma non c'è altro da fare. Descrivere come eroi i Baldoni, le Simone, le Sgrene e anche le due ragazze tuttora in mano ai folli islamisti, cioè Greta e Vanessa, significa distorcere la realtà e la logica. Volare laggiù nel deserto, a qualsiasi titolo, equivale a percorrere l'autostrada contromano. Non si può pretendere di farla franca. L'evento più probabile è crepare ammazzati. Baldoni, pace all'anima sua, abbacinato da non si sa chi e che cosa, andò incontro alla propria fine senza valutare che in taluni casi la generosità sconfina nella stoltezza; le due Simone si salvarono perché al tempo avevamo ancora dei servizi segreti efficienti; idem la Sgrena; mentre Greta e Vanessa sono state abbandonate a se stesse. Auguriamo loro di tornare, ma non contino sui nostri 007, ormai disarmati e privi di forza contrattuale. L'unico consiglio a chi sogna un soggiorno in Medioriente per aiutarne i popoli è questo: lasciate perdere. Le vacanze più intelligenti hanno quale meta Viserbella o Milano Marittima, almeno finché non saranno state invase dai cammellieri.

Scandalizzarsi è un'ipocrisia Quante vite salvate da un patto. Dai sequestri De Martino e Cirillo ai rapimenti di Mastrogiacomo e Sgrena: i negoziati con camorra, Br e terroristi islamici hanno consentito di evitare spargimenti di sangue, scrive “Il Giornale”. Esiste uno Stato immaginario che non si piega e non scende a patti, e anche nei momenti più difficili preferisce affrontare le conseguenze più tragiche anziché trattare col nemico. Ed esiste poi uno Stato reale che ufficialmente fa la faccia feroce ma sotto traccia incontra, dialoga, si aggiusta. Che promette, e a volte mantiene. Che riceve promesse, e quasi sempre qualcosa incassa. Se davvero - perché di questo in fondo si tratta - qualcuno ha trattato con Cosa Nostra la consegna di Totò Riina, beh, non sarà stata né la prima né l'ultima volta che il do ut des ha fatto la sua silenziosa comparsa nella guerra tra Stato e antistato. Il catalogo è lungo e ricco, e appartiene in buona parte alle cronache del terrorismo: quello domestico, all'epoca della furia omicida delle Brigate rosse e dei loro epigoni, quanto quello islamico in giro per il mondo. Ma non è che le vicende del crimine organizzato non portino anch'esse traccia di accordi sottobanco: nella sentenza d'appello ai calabresi che nel 1997 rapirono a Milano Alessandra Sgarella, una piccola nota a piè di pagina dà atto che a un boss in carcere vennero promessi benefici penitenziari in cambio delle sue pressioni per la liberazione dell'ostaggio. Si poteva fare, non si poteva fare? Si fece e basta, e la Sgarella tornò a casa dopo quasi un anno di terribile prigionia. Non fu, giurano gli addetti ai lavori, l'unica volta che un sequestro dell'Anonima si risolse così. D'altronde esiste un precedente storico anche se poco esplorato, il memorabile sequestro di Guido De Martino, figlio del segretario del Psi, rapito nel 1977 dalla malavita napoletana e rilasciato dopo una colletta tra banche, partiti, servizi. Nei rapporti con il terrorismo di ogni risma ed etnia, la trattativa sotterranea è invece - almeno in Italia - una prassi e quasi un'arte, spesso esercitata quasi alla luce del sole. A partire dal caso più noto e peggio concluso, quando intorno al sequestro del presidente democristiano Aldo Moro sorse addirittura un «partito della trattativa» che agiva per pubblici proclami senza che nessuno si indignasse o aprisse inchieste; e persino gli emissari della trattativa nel fronte brigatista avevano nomi e cognomi di pubblico dominio, e pubblicamene discusse se erano le possibili contropartite alla liberazione di Moro. Poi finì come finì, ma nessuno finì sotto inchiesta per avere cercato di salvare Moro. Nessuno venne incriminato per avere trattato sottobanco con frange di brigatisti la consegna di James Lee Dozier, il generale americano sequestrato subito dopo Moro. Si indagò, invece, ma senza quagliare granché, sulla più spudorata delle trattative, quella che portò alla liberazione dell'assessore napoletano Ciro Cirillo, sequestrato anche lui dalle Brigate Rosse, e tornato a casa dopo che per salvarlo si era mosso una specie di circo fatto di agenti segreti, politici, imprenditori, tutti a baciare la pantofola di Raffaele Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata che nel supercarcere dove era richiuso riceveva visite una dopo l'altra. Il pasticcio era tale che qualche anno fa Cirillo, ormai ottuagenario, disse di non voler raccontare nulla fino alla morte. «È tutto scritto in un memoriale da un notaio». Ma dove la decisione di scendere a patti è stata una costante, tanto notoria quanto inconfessata, è quando l'Italia si è trovata a fare i conti con il terrorismo islamico: una prassi così costante da suscitare l'indignazione degli alleati e della loro intelligence, ma resa inevitabile dalla commozione con cui vengono seguiti i casi dei nostri connazionali rapiti qua e là per il mondo. Per i poveri Quattrocchi e Baldoni, rapiti e ammazzati in Irak, per allacciare una trattativa mancò il tempo, non la volontà. Da allora in poi, è quasi incalcolabile il fiume di fondi riservati dei servizi segreti finiti nelle tasche della jihad pur di riportare in patria i malcapitati. Si racconta che la telefonata a casa che i rapitori concessero a Domenico Quirico, l'inviato della Stampa sequestrato in Siria, sia costata all'erario una robusta bolletta. E cifre ben maggiori sono servite per ottenere il rilascio delle due Simone, la Pari e la Torretta, sequestrate nel 2004 a Baghdad, o dell'inviato speciale di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. Qualche dettaglio emerse a margine della vicenda finita tragicamente della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena: il 4 marzo 2005 un funzionario del Sismi consegnò a un emissario dei rapitori il riscatto, in Kuwait o negli Emirati Arabi. L'emissario diede il via libera, a Baghdad la giornalista venne liberata e consegnata a un'altra squadra del Sismi. Ma sulla strada per l'aeroporto l'auto dei nostri 007 fu attaccata per errore da un posto di blocco degli americani, nell'uragano di colpi il capodivisione Andrea Calipari perse la vita, il suo collega Andrea Carpani venne centrato al petto, anche l'autista venne sfiorato, e solo la Sgrena uscì miracolosamente incolume. Nonostante lo choc e le polemiche, neanche i retroscena di quella trattativa sono mai stati ufficialmente resi noti. La sostanza è che si tratta, da sempre. E forse anche nel 1992, quando magistrati e poliziotti venivano fatti saltare in aria col tritolo insieme a interi tratti di autostrada, ci fu chi decise di tastare gli umori dell'altra parte, e non arretrò inorridito quando la testa di Riina venne offerta in cambio di questa o quella concessione.

L'ideologia contro Quattrocchi: "I killer non erano terroristi". La Corte d'Assise riconsidera le motivazioni dell'esecuzione del contractor in Irak. Come se le uniche vite preziose fossero quelle della Sgrena o delle due Simone, scrive Gian Micalessin su “Il Giornale”. Incredibile e raccapricciante. Non vi sono altri aggettivi per definire le motivazioni della sentenza della Corte d'Assise di Roma che manda assolti due degli assassini di Fabrizio Quattrocchi, la guardia privata rapita in Irak assieme a Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino che il 14 aprile 2004 davanti agli aguzzini pronti a freddarlo con un colpo alla nuca urlò «Vi faccio vedere come muore un italiano». Quell'atto di coraggio e di dignità gli valsero una medaglia d'oro al valor civile che il presidente della Repubblica Azeglio Ciampi così motivò: «Vittima di un brutale atto terroristico rivolto contro l'Italia, con eccezionale coraggio ed esemplare amor di Patria, affrontava la barbara esecuzione, tenendo alto il prestigio e l'onore del suo Paese». Ma gli atti di un Presidente della Repubblica non valgono nulla. Motivando la sentenza che lascia impuniti Ahmed Hillal Qubeidi e Hamid Hillal Qubeidi, due responsabili del rapimento catturati durante la liberazione di Stefio, Agliana e Cupertino, i giudici spiegano che l'identità dei due non è comprovata, il loro collegamento con gruppi eversivi non è evidente e - dulcis in fundo - l'esecuzione non è un atto di terrorismo. Insomma i due imputati, catturati mentre facevano la guardia a Stefio, Agliana e Cupertino, passavano di lì per caso e non sono stati identificati con precisione neppure durante gli anni trascorsi nella galera irachena di Abu Ghraib. I nostri giudici evidentemente la sanno più lunga degli inquirenti americani e iracheni che interrogarono i due imputati vagliandone generalità e responsabilità. Verrebbe da chiedersi come, ma porsi domande troppo complesse non serve. Dietro questa sentenza e le sue motivazioni non c'è il codice penale, ma l'ideologia. La stessa ideologia formulata dal giudice Clementina Forleo che nel gennaio 2005 assolse dall'accusa di terrorismo il marocchino Mohammed Daki e i tunisini Alì Toumi e Maher Bouyahia pronti a trasformarsi in kamikaze islamici in Irak. Nella motivazione del caso Quattrocchi quell'ideologia raggiunge la perfezione. Pur di mandare liberi due assassini i giudici arrivano a mettere in dubbio che l'uccisione di un eroe italiano decorato con la medaglia d'oro sia un atto terroristico. E per convincerci scrivono che «non è chiaro se quell'azione potesse avere un'efficacia così destabilizzante da poter disarticolare la stessa struttura essenziale dello stato democratico». Una motivazione sufficiente a far assolvere anche gli assassini di Moro visto che neppure quell'atto bastò a disarticolare lo stato italiano. Ma i magistrati superano se stessi quando tentano di convincerci che il collegamento dei due sospettati con i gruppi eversivi non è provato. L'assassinio di Quattrocchi viene deciso, come tutti sanno, per far capire al nostro governo che solo accettando il ritiro dall'Irak verrà garantita la salvezza degli altri rapiti. Ma evidentemente ricattare l'Italia uccidendo un suo cittadino e tenendone prigionieri altri tre per 58 giorni non è un atto sufficientemente eversivo. E a far giudicare eversori e terroristi gli assassini di Quattrocchi non basta neanche l'ammissione di uno degli aguzzini che racconta all'ostaggio Cupertino di aver partecipato all'attentato di Nassirya costato la vita a 19 italiani. Quelle per i magistrati sono semplici vanterie. Ma non stupiamoci troppo. Il problema anche qui non è la giustizia, bensì l'ideologia. In Italia, persino nelle aule giudiziarie, qualcuno continua a ritenere che le uniche vite preziose siano quelle di chi la pensa come lui. Soprattutto se quelli come lui sono «umanitari» di sinistra come le due Simone o giornaliste «democratiche» come Giuliana Sgrena. Le vite di chi non la pensa allo stesso modo invece valgono poco o nulla. Per questo uccidere l'eroe Fabrizio Quattrocchi non è reato.

Ostaggi «buoni» e «cattivi». Scontro tra destra e sinistra, scrive Paolo Conti su “Il Corriere della Sera” Possono esistere «buoni» e «cattivi», giudicati a seconda della necessità polemica da destra e da sinistra, persino tra gli italiani rapiti dai terroristi iracheni? Ora nelle loro mani, e sul video di Al Jazira, c'è Enzo Baldoni. Ma proviamo a fare un passo indietro, a tornare ad aprile, quando gli ostaggi si chiamavano Salvatore Stefio, Maurizio Agliana e Umberto Cupertino, quando Fabrizio Quattrocchi venne trucidato dalle Falangi di Maometto. Sui giornali della sinistra campeggiarono per intere settimane le stesse parole chiave: «mercenari», «vigilantes». Il manifesto parlò di «privatizzazioni da combattimento», l'Unità di «Mestiere della guerra». Scoppiò una durissima polemica quando Vauro, il giorno dopo l'assassinio di Fabrizio Quattrocchi, nella sua vignetta del giorno sul manifesto mostrò un dollaro penzolante da un pennone e sotto il titolo «morire per denaro» commentò con la battuta: «Banconote a mezz'asta». Liberazione insistette sulla tesi della collaborazione dei quattro italiani con i servizi segreti e irrise Piero Fassino che parlò di uccisione di un «civile inerme» («Viene da dire: ma di che cosa stanno parlando?»). Quando il centrodestra definì «eroico» il famoso ultimo momento di vita di Quattrocchi («ti faccio vedere come muore un italiano») ancora il manifesto titolò immediatamente «Eroi di scorta». Ora il rito in parte si ripete, specularmente opposto. La provocazione ieri è venuta da Libero: grande foto del pacifista Baldoni sotto il titolo «Vacanze intelligenti» e giù, nel sommario: «Aveva detto: "cerco ferie col brivido". E' stato accontentato». In perfetta linea con la titolazione il commento di Renato Farina. Si chiede come mai sia così rilassato nel video di Al Jazira: «Perché dovrebbero fargli del male? E' un giocherellone della rivoluzione... Dopo le ferie intelligenti, cominciamo a fare quelle sconvolgenti». Poi, più in là: «Signori di Al Qaeda, proprio dal vostro punto di vista, non vale la pena di ammazzarlo. Restituitecelo, farà in futuro altri danni all'Occidente come testimonial della crudeltà capitalistica». Quanto a Il giornale, è stato l'unico quotidiano a relegare la notizia in centro pagina, ben al di sotto di due inchieste. Commenta Franco Debenedetti, senatore ds: «Credo sia giusto cercare una logica nelle azioni di qualcuno, comprendere il senso delle scelte per esempio nel caso di un rapimento perché tutto questo può contribuire alla liberazione di un ostaggio. Ma i commenti così diversi propongono davvero una gran bella gara...» Qual è il suo giudizio su questo contrasto? «Ricordo che ai tempi dei tre rapiti, questo insistere sul loro ruolo di "mercenari" suggeriva quasi l'idea che si fossero andati a cercare una simile sorte. Un modo per esorcizzare il problema, di allontanarlo, come se il lavoro di vigilante non fosse onorevole come tanti altri, e anzi spesso indispensabile nella complessa ricostruzione dell' Iraq. E magari fosse meno nobile di un'occupazione intellettuale come quella del reporter». E quanto invece alla reazione di Libero? «Sinceramente mi sembra solo e soltanto agghiacciante. Comunque sia, insisto, mi pare davvero una bella gara...». Concorda Marcello Veneziani, intellettuale apprezzato dalla destra: «La figura di Quattrocchi combaciava con una mentalità che aveva caro il senso dell'onore e l'amor patrio. Invece Baldoni coltiva, lo abbiamo letto, valori dichiaratamente pacifisti. Motivazioni diverse, lontane, che hanno spinto le "tifoserie" a schierarsi da una parte e dall'altra, visto che in questa faccenda sembra contare ancora una labile appartenenza ideologica». E allora, Veneziani? «Allora sono state eccessive entrambe le reazioni. Voglio dire che sulla motivazione che spinge qualcuno a una scelta ci possono essere divisioni, diversità di vedute. Ma sulla vicenda in sé no: sono di rigore in ogni caso attenzione, rispetto, solidarietà...».

De Luca, quando la rivolta è un "marchio" da vendere. Dopo decenni di marxismo, sopravvive l'idea che uno scrittore debba essere militante. Ma di tanto impegno restano solo narcisismo e nostalgia attira-lettori, scrive Massimiliano Parente su “Il Giornale”. L'hashtag è #iostoconerri, e ci mancherebbe non stessi con lui, processato per essersi pronunciato contro la TAV e aver detto che secondo lui sabotarla è giusto. Uno potrà dire quello che vuole? Si può dire che gli Stati Uniti si sono abbattuti le Torri Gemelle da soli, si può essere perfino pro-Isis, Giulietto Chiesa è ancora stalinista, e portiamo in tribunale Erri De Luca? E poi sfiliamo con i cartelli Je suis Charlie? Ecco, Je suis Errì. Oddio, che effetto. E però che bello. È uno di quegli scrittori che invidio, e in Italia ce ne sono tantissimi. Non hanno bisogno di scrivere grandi opere, neppure opere medie. Errì poi scrive dei librini così tascabili che in tasca ce ne vanno venti, una pacchia. L'ultimo di Errì si intitola La parola contraria . Quattro euro e ve lo portate via, generosa la Feltrinelli. Piccolo ma denso: dentro c'è tutta la coscienza contraria di Errì. Per esempio Errì spiega che «può darsi che nella mia educazione emotiva napoletana ci fosse la predisposizione a una resistenza contro le autorità». Una cosa tipo: «Io i tass' nun le pag, ma vattenne và, accà niusciun'è fess». Oppure: «Chiust'o tren' che sa vò muov' veloce sa da fermà, compà». Je suis Errì, e un'altra cosa assurda è l'accusa di istigazione: ma vi pare che Errì possa aver istigato qualcuno a fare qualcosa? Casomai è stato istigato lui a diventare Errì. Come sono istigati tutti gli scrittori italiani, convinti da centocinquant'anni di marxismo intellettuale che si debba essere impegnati civilmente per essere intelligenti. Anzi peggio ancora: intellettuali. Non per altro perfino Aldo Busi, che non è di Napoli ma di Montichiari, su Alias denuncia il progresso tecnologico e rimpiange i casellanti. E Antonio Moresco, che non è di Napoli ma di Mantova, ha organizzato una nuova marcia della nota serie Cammina Cammina, la Repubblica Nomade, per essere tutti migranti. Che cagate. No, pardon, Je suis Errì. Che figate. Je suis Errì, e quanto erano belli i tempi di Lotta Continua. Dove c'erano tutti i migliori intellettuali, scrive Errì. Anche Pasolinì. E lo stesso Errì. Io non sono mai stato di Lotta Continua, neppure a favore di Lotta Continua, ma poi per caso ho scoperto che il mio amore Sasha Grey si è dichiarata simpatizzante di Lotta Continua. E quindi perfetto, je suis Errì, non voglio più essere Parente, che schifo. «Voglio essere lo scrittore incontrato per caso, che ha mischiato le sue pagine ai nascenti sentimenti di giustizia che formano il carattere di un giovane cittadino». Uno di quegli scrittori «che fa alzare d'improvviso e lasciare il libro perché è montato il sangue in faccia, pizzicano gli occhi e non si può continuare a leggere». E io che pensavo fosse l'allergia e stavo cercando un antistaminico. Invece è perché je suis Errì, il libro sta cominciando a fare effetto, mi sto trasformando in un giovane cittadino con dei sentimenti di giustizia e un'educazione emotiva napoletana con il sangue montato in faccia. A questo serve la letteratura. Per cui, siccome je suis Errì, ho buttato il libro e mi sono messo a protestare contro uno che ha parcheggiato sulle strisce pedonali, per sentimento di giustizia. Però poi mi sono accorto che il proprietario della macchina era negro, pardon di colore, e siccome je suis Errì mi sono scusato, sarà arrivato sicuramente da Lampedusa, e Errì dice che «dare cibo, acqua, vestiti, alloggio, premura per gli ammalati, i prigionieri, i morti: le sette opere di misericordia sono state compiute da loro, che vivono sul mare e usano leggi opposte. E non sono LampeduSanti, ma semplicemente LampeduSani. La rima nord e sud, Val di Susa e Lampedusa, riscatta oggi il titolo di cittadini da prepotenze che li vogliono sudditi». Ma come gli vengono, a Errì, questi giochi di parole? Val di Susa/Lampedusa, un genio. E poi ho pensato: chissà cosa succederebbe a scaricare qualche migliaio di profughi al mese direttamente da Lampedusa in Val di Susa, chissà dove lo manderebbero Errì, i valsusini. Ma poi ho pensato che era una malignità, i valsusini accoglierebbero tutti con rose e fiori e canti popolari e cantantando je suis Errì. Perché, questo il senso profondo delle parole del libro di Errì, «a ogni lettore spetta la sorpresa di fronte alla mescola improvvisa tra i suoi giorni e le pagine di un libro».

E quando avrete finito di leggere il libro avrete una bellissima mescola, vi assicuro. E anche voi potrete dire: Je suis Errì.

IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.

La Camorra nel business degli abiti usati. Così i boss lucravano sui cassonetti gialli. Un'organizzazione legata alla malavita campana ha fatto milioni gestendo il giro d'affari dei vestiti lasciati per beneficenza dai cittadini nei contenitori ai lati delle strade. Un giro gestito da cooperative sociali borderline e per cui sono finite in manette 14 persone. E sullo sfondo il ruolo di Carminati e Buzzi e la gestione anomala dell'Ama, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Vestiti usati, stracciati, sporchi, sono oro per la camorra. Magliette, pantaloni, maglioni e giubbotti, che finiscono nei cassonetti gialli ben visibili ai lati delle strade di ogni quartiere sono il nuovo business per i clan e di Mafia Capitale. Così hanno saputo trasformare una merce senza più alcun valore in una montagna di quattrini. La scoperta della Squadra Mobile di Roma guidata da Renato Cortese e coordinata dalla procura antimafia di Roma ha dell'incredibile. Ma rende bene l'idea di come le cosche sappiano sfruttare qualunque possibilità di fare soldi. In manette sono finite quattordici persone accusate di traffico illecito di rifiuti e associazione per delinquere che aveva tra i suoi scopi quello di raccogliere, trasportare, cedere e gestire una quantità enorme di indumenti usati grazie agli appalti ricevuti dalle amministrazioni pubbliche che senza gara hanno affidato ad alcune cooperative il servizio. Lavori conquistati a Roma, in Abruzzo, in Campania. Ma il traffico vero e proprio aveva come terminali il Sud Africa, i Paesi del Nord Africa e l'Est Europa. A capo dell'organizzazione, secondo gli inquirenti, il boss della camorra Pietro Cozzolino elemento di vertice del clan di Portici-Ercolano (Napoli) e il fratello Aniello. Uno dei promotori sarebbe invece Danilo Sorgente, titolare della cooperativa New Orizon, una delle due coop che a Roma hanno gestito da monopoliste il settore del recupero degli abiti usati. «Un sistema collaudato di “rete” mediante il quale le imprese riescono ad acquisire affidamenti diretti per il servizio di raccolta della frazione tessile differenziata presso i Comuni di Lazio, Campania e Abruzzo, attraverso compiacenze politiche e collaudati meccanismi procedurali di facilitazione degli affidi» si legge nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip del tribunale della Capitale. Complicità politiche dunque, molte delle quali ancora tutte da scoprire. Sindaci, assessori, consiglieri comunali, che avrebbero intrattenuto, non solo a Roma e dintorni, rapporti con gli indagati e con le cooperative pigliatutto. In rapporto sia con Legacoop che con la Caritas per quanto riguarda il recupero degli indumenti usati. Imprese sociali che godevano anche di uno speciale regime fiscale e di agevolazioni per l'assunzione di persone svantaggiate, come per esempio i detenuti. La gestione dell'affare prevedeva il finto recupero della merce raccolta e la sistematica falsificazione dei documenti di trasporto e dei certificati di «igienizzazione»: la legge prevede che gli abiti raccolti prima di poterli reinserire nel mercato vadano disinfettati e ripuliti. L'associazione scoperta dalla polizia, invece, per risparmiare non avrebbe effetuato questo passaggio e spediva direttamente all'estero i prodotti, che senza questo passaggio potevano diventare nocivi per la salute. Un esempio: una delle cooperative coinvolte, Lapemaia onlus, nei primi otto mesi del 2012 ha smerciato quasi tre tonnellate di abiti usati tra la Tunisia la Polonia e la Campania, guadagnando mezzo milione di euro. Il ricarico su ogni chilo venduto all'estero andava dai 35 ai 58 cent. Spiccioli che vanno moltiplicati per le 12 mila tonnellate: a tanto corrisponde, secondo uno degli indagati, il business. La spedizione, dai porti di Salerno e Civitavecchia, avveniva attraverso società di intermediazione che servivano a facilitare la falsificazione dei documenti e la spedizione verso Nord Africa e Europa dell'Est. Il meccanismo insomma è sempre lo stesso. Il tipico giro bolla che permette di declassificare i rifiuti. Un meccanismo che gli imprenditori della camorra conoscono molto bene. Con questo meccanismo è stata infatti avvelenata la provincia di Caserta trasformandola in Gomorra. I documenti raccolti dalla squadra Mobile coinvolgono indirettamente la società partecipata dal Comune di Roma Ama Spa, l'ente che affida il servizio già coinvolta nell'indagine Mafia Capitale . Il giudice per le indagini preliminari ha un giudizio netto su come è stata gestita la società e punta il dito sul potere che esercita il braccio destro del boss Massimo Carminati sull'azienda : «Tutti (gli indagati ndr) trovano la premessa del loro agire nella disfunzionale gestione di Ama SpA, nel fattuale potere gestorio in essa esercitato dal referente di tutte le cooperative sociali, Salvatore Buzzi, il cui assenso è stato la premessa della ripartizione del territorio comunale per la raccolta del tessile». In altre parole è stato necessario il permesso del ras delle cooperative romane, Buzzi, perché la camorra e gli imprenditori indagati potessero lucrare sugli abiti usati. A Buzzi, pur non facendo parte di questa associazione scoperta dalla Mobile, «si deve, tuttavia, l’operatività del sistema», grazie a lui è possibile l'aggancio all'ambito istituzionale, al mondo di sopra. Insomma è Buzzi «il raccordo terminale delle consorterie che si dividono l’affare dei rifiuti tessili a Roma», e lo farebbe tramite un imprenditore, tale Mario Monge, presidente dell'importante consorzio Sol.co che dal Comune di Roma ha pure ottenuto la gestione di un bene confiscato alla mafia, il nuovo cinema Aquila. Così come la stessa cooperativa Horizons, che fa parte di Sol.co e che gestisce quello che un tempo era il quartier generale di Enrico Nicoletti, il cassiera della banda della Magliana. È Monge. secondo gli inquirenti, che organizza l'incontro tra i titolari delle cooperative coinvolte nel traffico, l'ex assessore della giunta capitolina ai tempi di Veltroni Dante Pomponi e i rappresentati della Coin, per programmare un eventuale affidamento del servizio a Roma Sud ed Est. Buzzi e Monge, stando agli atti dell'indagine, dialogano e sono in rapporti. Anzi gli investigatori su questo sono più precisi: «Chi vuole vincere non paga più – come un tempo – solo alla Pubblica Amministrazione, in un contesto che è solo corruttivo, ma paga al titolare di poteri di fatto all’interno della Pubblica Amministrazione, poteri che sono correlati al dominio della strada(cioè Buzzi e "er Cecato ndr), e che si proiettano nel mondo istituzionale, condizionandolo anche con la corruzione, poteri che sono, in una parola, di stampo mafioso». A conferma di ciò riportano un episodio: «Le cooperative che risultano vincenti all’apertura delle buste 2013 (per la raccolta degli indumenti usati) sono quelle che hanno rinunciato all’appalto per la raccolta del rifiuto multimateriale, e sono quindi gratificate dal Buzzi». Ama Spa è per gli investigatori roba di Carminati. «Ama S.p.a. società posseduta dal comune di Roma, all’interno della quale – sotto l’occhiuta regia di Carminati  - si è svolta la collocazione in posizione apicale di soggetti che rispondono a un’organizzazione che non può che dirsi mafiosa, per i mezzi che utilizza, per i soggetti che la praticano e per la finalità che la animano». Parole pesanti che si aggiungono ai risultati dell'inchiesta su Mafia Capitale. Ma non finisce qui: «Buzzi , interfaccia economico di Carminati, che costituisce il regista anche dell’Ati Roma ambiente, aggregato di consorzi di imprese cooperative che è costola del più ampio disegno di ripartizione degli appalti distribuiti dall’Ama spa, in materia di verde pubblico , raccolta multimateriale dei rifiuti, raccolta del tessile». L'ipotesi della procura è che oltre a Mafia Capitale in Roma Ambiente ci sia anche la camorra guidata dal boss Cozzolino, uno degli artefici del grande traffico internazionale. Per questo secondo i detective della Mobile «vi è una concreta emergenza documentale, che consentono di chiarire che nemmeno gli appalti per i rifiuti tessili, connotati, peraltro, da un giro d’affari di milioni d’euro, sono sfuggiti alla regola della programmazione e del controllo nell’erogazione; e alla stura, anche, ad attività di interesse della criminalità organizzata, che hanno compromesso totalmente i beni della salute e dell’igiene pubblica, pur di massimizzare i profitti, nei Pesi esteri destinatati dell'invio».

Il business milionario degli abiti usati. Ogni anno circa 10mila tonnellate di vestiti finiscono nei cassonetti gialli presenti in tutte le città italiane. Ma solo una piccola parte arriva a chi ne ha davvero bisogno o viene utilizzata per sostenere progetti di solidarietà. Su questo enorme giro d'affari, grazie a regolamenti poco chiari e all'assenza di controlli, spuntano molte associazioni ambigue e la stessa criminalità organizzata. Come confermano anche gli ultimi sviluppi dell'inchiesta su Mafia Capitale che hanno portato all'arresto di 14 persone, scrivono Luigi Dell'Olio e Clemente Pistilli, con un commento di Carlo Ciavoni su “La Repubblica”.

Le troppe ambiguità di un circuito opaco scrive Luigi Dell'Olio. "Raccolta indumenti usati: grazie per il vostro aiuto", recita l'adesivo a caratteri cubitali apposto sul cassonetto giallo. Una scena che si può incontrare a Roma, Milano, Napoli, così come in centinaia di centri italiani di piccole e medie dimensioni. Ogni giorno decine di persone si recano presso i cassoni e vi depositano gli abiti che non utilizzano più, convinti di dare conforto ai più poveri. Complice la presenza di didascalie negli adesivi relativi alle principali destinazioni. Peccato che le cose non vadano sempre così: la maggior parte degli abiti raccolti, infatti, finisce nel circuito del riciclo, venduta a negozi specializzati in abiti vintage o a chi gestisce le bancarelle del mercato. Nel migliore dei casi, una piccola quota viene destinata a organizzazioni caritatevoli, ma la rendicontazione in merito è molto deficitaria e solo pochi (che fanno della trasparenza un tratto distintivo della loro attività) accettano di parlare. Così non sorprende che sul business si siano fondate organizzazioni criminali, che operano attraverso truffe ai cittadini e intimidazioni nei confronti degli operatori onesti. L'ultima conferma arriva dai 14 arresti eseguiti giovedì 15 gennaio dai carabinieri nell'ambito dell'inchiesta su Mafia Capitale. La raccolta differenziata dei rifiuti tessili è cresciuta sensibilmente negli ultimi tempi fino a raggiungere il 12% del totale (che si aggira su 80mila tonnellate annue), pari a 2 kg a persona, secondo stime dell'Ispra (ministero dell'Ambiente). Che tali rimangono, dato che non esiste un censimento ufficiale proprio per la carenza informativa di cui si è già accennato. Gli operatori del mercato formano un ventaglio molto ampio: vi sono enti caritatevoli così come organizzazioni senza fini di lucro attive nella cooperazione internazionale, ma anche aziende commerciali, oltre che cooperative sociali. Senza trascurare i casi di società for profit che agiscono in collaborazione con associazioni per i poveri, ma destinando a queste ultime solo poche briciole (spesso gli impianti di raccolta vengono collocati strategicamente accanto alle chiese). Il tratto comune a quasi tutte queste iniziative è che quasi mai gli abiti raccolti finiscono per coprire e scaldare i più poveri. Anche se va riconosciuto che donare gli abiti resta un valore, così come l'attività di chi utilizza i proventi della rivendita per finalità sociali/caritatevoli. La maggior parte dei comuni italiani ha affidato il servizio a operatori che raccolgono gli abiti dai cassonetti e li vendono a ditte di stoccaggio per pochi centesimi al pezzo (da 20 a 30, in base alla loro qualità). Il trattamento degli abiti raccolti prevede prima la selezione (escludendo i capi destinati al riutilizzo, ad esempio perché troppo rovinati) e poi l'igienizzazione, da effettuare prima che gli abiti siano rimessi nel ciclo post consumo. Diverse inchieste della magistratura hanno però messo in luce la non corretta gestione della filiera degli abiti usati (senza le giuste autorizzazioni per lo stoccaggio e per  il trasporto). Il fatto che non si abbia il pieno controllo della filiera presta il fianco ad  attività di trattamento illecito di rifiuti. Un fenomeno che ha portato anche a diversi arresti e accertamenti da parte dei carabinieri per l'ambiente. La scorsa primavera la Procura di Roma ha aperto un'indagine in merito, rilevando il diffuso interesse della camorra per questo business (i cassonetti gialli sono 1.800 nella Capitale, per un incasso annuo intorno ai 2 milioni di euro), che si è manifestato anche attraverso intimidazioni alle aziende impegnate nella filiera, dirette a eliminare la concorrenza. Partendo da alcune denunce anonime, il sostituto procuratore della Capitale, Alberto Galanti, ha scoperto che gli abiti usati, una volta prelevati, venivano rivenduti (soprattutto all'estero) senza i dovuti trattamenti di igienizzazione che la normativa impone prima della commercializzazione. Un filone di questa indagine è passato sotto la competenza della Direzione Investigativa Antimafia, che messo nel mirino i presunti legami tra i clan camorristici e diverse aziende impegnate nell'igienizzazione dei capi, con sede a Capua e San Sebastiano al Vesuvio, che avrebbero rilasciato attestati di trattamenti conformi alla legge, in realtà mai avvenuti. Per la mala campana non si tratta di una novità dato che già nel 2011 la Dda di Firenze aveva eseguito un centinaio di arresti dopo la scoperta di un traffico illecito di indumenti usati provenienti dalla raccolta sul territorio, in larga parte gestito dal clan camorristico Birra-Iacomino di Ercolano. Il processo che è seguito ha portato per la prima volta alla condanna di mafia per un imprenditore toscano "per condotta connessa alla sua attività imprenditoriale". Raccolti alla rinfusa e imballati, spiega il Report Ecomafie di Legambiente, gli abiti erano stati messi in vendita al pubblico nelle bancarelle dei vari mercati rionali, senza alcuna precauzione igienica, saltando dunque le fasi di selezione, cernita e igienizzazione, previste dalla procedura. Nello stesso filone si è mossa anche l'indagine New Trade, che lo scorso anno ha portato la Dda di Firenze a indagare il titolare di una ditta di Prato, che avrebbe messo in piedi un sistema di traffici illeciti di rifiuti plastici e abiti usati verso Cina e Tunisia. Gli indumenti venivano rivenduti senza trattamenti igienico-sanitari in Africa e nei mercatini vintage italiani. Il traffico è stimato per migliaia di tonnellate. Secondo gli inquirenti, a gestire il traffico una rete organizzata di trafficanti, che parallelamente aveva messo in atto sul territorio anche attività di stampo mafioso come estorsioni e usura.  Sono in attesa di processo anche gli imprenditori denunciati a Potenza in seguito all'operazione Panni Sporchi, che ha scoperto un flusso illegale di scarti tessili, con proiezioni anche verso l'Albania e alcuni paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Fingendo un'attività umanitaria, gli indumenti usati venivano raccolti e rivenduti illegalmente in Italia e all'estero. L'operazione ha portato al sequestro preventivo di 18 automezzi impiegati nel trasporto in tutta la penisola e alla denuncia di 57 persone, indagate per associazione a delinquere finalizzata alla realizzazione di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, falso ideologico e truffa, per un giro d'affari valutato dai forestali "in alcuni milioni di euro l'anno". Tra i denunciati, anche 15 funzionari comunali che hanno autorizzato la raccolta degli stracci senza aver verificato il possesso delle relative autorizzazioni da parte degli addetti alla raccolta. "Girando di casa in casa o attingendo ai cassonetti adibiti al recupero di indumenti  -  scrivono gli investigatori del Corpo forestale dello Stato  -  i presunti responsabili hanno raccolto abiti usati per commercializzarli sul territorio nazionale e internazionale".  Inoltre, spesso capita che qualcuno tiri fuori i sacchetti dai cassonetti e si appropri dei pezzi migliori, lasciando a terra il resto. Si tratta di illeciti, commessi da persone che vivono di espedienti: alcuni tra loro prelevano gli abiti per indossarli, ma la maggior parte li usa per venderli nei mercatini abusivi. Complessivamente, il danno alla raccolta è minimo, anche se questo produce un disordine ambientale. Vi è poi un mercato parallelo relativo alle aree private. Sarà capitato a tutti di trovare, affissi su portoni e citofoni, volantini per la raccolta di indumenti usati, con l'indicazione del giorno e dell'ora per il ritiro. Si tratta per lo più di biglietti anonimi o con indicazioni approssimative, che difficilmente consentono di risalire a chi gestisce il servizio. In questi casi, la raccomandazione è di segnalare il fatto alle autorità. A San Donato (Milano), addirittura, sono stati scoperti cassonetti abusivi collocati sui marciapiedi cittadini, di colore e conformazione simile a quelli ufficiali, ma abusivi (privi di logo e posizionati senza autorizzazioni). Le indagini dei carabinieri sono partite proprio grazie alla segnalazione di un cittadino. Al di là degli illeciti, la sensazione diffusa è di una scarsa trasparenza nel mercato. In pochi accettano di raccontare il proprio business, di spiegare quanta parte dell'incasso genera profitti e quanto invece viene destinata ad azioni caritatevoli. "Occorrerebbero normative per obbligare gli operatori del mercato a una maggiore trasparenza informativa nei confronti della comunità", osserva Karina Bolin, presidente dell'organizzazione umanitaria Humana People to People Italia, che nella Penisola gestisce 4.788 contenitori all'interno di 946 comuni e impiega 120 persone, con una raccolta che lo scorso anno è stata di 15,45 tonnellate. "Pubblichiamo ogni anno un bilancio delle attività svolte", rivendica Bolin ricostruendo la filiera: "Gli abiti estivi in buono stato vengono inviati in Africa (1,034 tonnellate lo scorso anno), dove sono regalati solo in casi di emergenza. Negli altri casi sono venduti a prezzi accessibili per ottenere fondi da impiegare per i progetti sociali attivi localmente. Gli abiti non adeguati all'invio in Africa, vengono venduti in Italia e in altri paesi europei, sia al dettaglio sia all'ingrosso. Con i fondi ricavati, oltre ad autofinanziare la nostra attività, impieghiamo gli utili per i progetti di sviluppo nei Paesi emergenti (pozzi, scuole e interventi sanitari) e per azioni sociali e di tutela ambientale in Italia. Andrebbe inoltre imposto l'obbligo di trasparenza dell'intera filiera, dalla raccolta degli abiti usati fino alla loro destinazione finale, e una rendicontazione adeguata", prosegue Bolin. "Anche perché non è giusto trarre in inganno i cittadini, inducendoli a pensare che i vestiti siano destinati a un'attività sociale: al contrario in questo settore si muovono molti operatori non in regola, spesso non controllati dalle istituzioni per la mancanza di adeguati strumenti di verifica".

Le mani della Camorra sugli stracci di Roma, scrive Clemente Pistilli. Gli abiti usati a Roma non hanno più la puzza degli stracci e neppure quell'odore acre ma caldo della beneficenza. Sulle pezze è ormai forte il profumo dei soldi e a imprimerlo sono state le mafie, camorra napoletana in testa. Un affare da oltre due milioni di euro l'anno quello dei 1.800 bidoni gialli sparsi nella capitale, dove i romani svuotano il guardaroba. Troppo ricco per sfuggire ai clan, che da circa un decennio - in base alle ultime indagini condotte dall'Antimafia capitolina - starebbero cercando di imporre la loro legge a suon di minacce e attentati, a partire da quelli alle tre principali cooperative che raccolgono i vestiti vecchi per conto dell'Ama, municipalizzata incaricata dell'igiene urbana, fino a trovare anche qualche forma di intesa con quelle che erano le loro vittime e a rientrare nella spartizione degli appalti pubblici con regista Mafia Capitale. Un business ideato dalle mafie ad Ercolano, in Campania, esportato in Toscana, a Prato, e infine nel Lazio e in Abruzzo, con protagonisti ex collaboratori di giustizia fuori controllo. I tentacoli stretti dai clan sulla capitale sono stati scoperti dopo due anni di indagini compiute dalla Mobile di Roma sulle tonnellate di stracci dirette in Africa e nell'Europa dell'Est, secondo la Dda senza disinfettare e ripulire gli abiti usati raccolti, e con una denuncia presentata nella scorsa primavera ai carabinieri di Cisterna di Latina da un imprenditore del posto, Alfonso Balido, originario di Napoli, impegnato nella Balidex, società che stocca vestiti vecchi. Un anello della catena delle pezze. L'Ama ha dato l'appalto per svuotare i cassonetti degli stracci a due consorzi, per i quali lavorano cinque cooperative. Le coop vendono i vecchi vestiti alle aziende come quella di Cisterna, che a loro volta li cedono a società campane che si occupano della cernita. E di passaggio in passaggio il valore delle pezze cresce. Basta poi evitare la sterilizzazione, o imporre i prezzi alle ditte di stoccaggio, e le somme schizzano verso l'alto. Proprio quello che fa la camorra. A Balido un gruppo di campani ha cercato di imporre il pizzo, furiosi perché aveva iniziato ad acquistare dalla coop New Horizons, prima appannaggio di una loro azienda con sede a Ferentino, nel frusinate. L'imprenditore, con la sua denuncia, il 12 giugno ha fatto arrestare dai carabinieri i fratelli Simone e Pietro Cozzolino, ex pentiti in libertà, e i nipoti dei due, Vincenzo Cozzolino e Vincenzo Scava. Le indagini sono poi andate avanti e le prove dell'estorsione mafiosa, per il pm antimafia romano Lina Cusano, sono talmente evidenti che ha chiesto e ottenuto dal gip Anna Maria Gavoni il giudizio immediato per i quattro, difesi dagli avvocati Giuseppe Bucciante e Giusi Grigoli, un processo iniziato il 16 dicembre a Latina. Gli inquirenti però hanno scoperto anche il cuore dell'infiltrazione della camorra delle pezze. Alla coop Lapemaia, tra il 2004 e il 2009, il deposito è stato bruciato tre volte e alla New Horizons una volta. Il titolare de Lapemaia, Marcelo Rodolfo Ocana, cinque anni fa, denunciò alla polizia: "Temo seriamente per la cooperativa, per la mia incolumità e quella dei miei venti dipendenti, considerando che, notoriamente, il mercato in questione interessa le organizzazioni criminali, camorra in particolare". Ma le intimidazioni sarebbero continuate. "Cozzolino a Cisterna fece capire  -  ha dichiarato lo scorso anno Ocana ai carabinieri  -  che la piazza di Roma era sua". Minacce infine anche alla coop Rau, come confermato agli inquirenti da un socio della cooperativa, Biagio Di Marzio: "Cozzolino mi minacciò in un bar sulla Prenestina Nuova". Ma c'è di più. A un tratto alcune delle coop vittime delle intimidazioni, come Lapemaia e la New Horizons, avrebbero preso parte all'affare illecito degli stracci che, senza alcuna sanitizzazione, venivano spediti all'estero, sotto la regia sempre di Pietro Cozzolino, e del fratello Aniello, latitante dal 2008, tanto che anche manager, come Ocana, e dipendenti delle cooperative sono stati arrestati giovedì scorso. Senza contare che per l'Antimafia sporchi sarebbero anche gli stessi appalti affidati dall'Ama per raccogliere gli stracci, frutto di "compiacenze politiche e collaudati meccanismi procedurali di facilitazioni degli affidi", in cui avrebbe avuto un ruolo di primo piano sempre quel Salvatore Buzzi ritenuto la cassaforte dei fasciomafiosi. E Balido? "La metà dei clienti che avevo a Napoli non vuole più lavorare con me", ci ha confessato due mesi fa, attendendo l'esito del processo in corso a Latina. Il prezzo che si paga denunciando la camorra. Come distinguere gli operatori seri. Come si è detto, nel settore della raccolta di indumenti usati regna la confusione in merito alle modalità di valorizzazione dei capi e dei ritorni per la comunità. Ma la situazione non è del tutto trasparente nemmeno sul fronte dei cassonetti perché, accanto a quelli posizionati in accordo con le amministrazioni comunali, spesso vi sono iniziative estemporanee, nelle quali è difficile persino capire chi sono i promotori e chi si occupa della raccolta. Alcuni accorgimenti possono aiutare a fare una scelta consapevole: sul contenitore per la raccolta degli indumenti devono essere indicati gli estremi della società o associazione che si occupa della raccolta, con un numero di telefono (se c'è solo un cellulare e non un fisso qualche sospetto può essere legittimo), l'indirizzo della sede e il sito Internet. È fondamentale, inoltre, che sia indicata la finalità dell'iniziativa di raccolta. Chi ha dubbi sulla conformità del cassonetto, può verificarne la regolarità telefonando al proprio Comune, che possiede la mappatura completa dei contenitori autorizzati. In alcuni centri queste indicano si trovano anche online.

Ogni città raccoglie a modo suo, scrive Luigi Dell'Olio. La situazione è molto diversificata a livello nazionale, quanto a modalità della raccolta e soggetti impegnati nell'attività. Il tratto comune (tranne poche eccezioni) è la scarsa trasparenza in merito all'incasso della raccolta e alla quota destinata effettivamente a iniziative sociali.

A Torino la municipalizzata Amia ha messo a punto un prontuario online con indicazioni puntuali: il materiale da conferire (abiti, maglieria, biancheria, cappelli, coperte, borse,  scarpe e accessori per l'abbigliamento), le modalità ("gli abiti usati devono essere riposti in sacchetti o imballaggi ben chiusi") e le destinazioni ("il materiale in buono stato viene gestito da aziende che lo mandano nei Paesi in via di sviluppo, mentre ciò che resta viene riciclato per l'ottenimento di materie prime, quali ad esempio la lana rigenerata").

Genova si è dotata di un sistema di tracciabilità che privilegia la trasparenza. Collegandosi al sito Staccapanni si ricavano informazioni sul servizio  -  curato dalla Fondazione Auxilium e dalla Caritas Diocesana, in collaborazione Amiu (Azienda Multiservizi e d'Igiene Urbana) e della cooperativa sociale Emmaus, che cura materialmente il servizio. Nello spazio Web sono presenti i numeri dell'attività (260 contenitori, 1.400 tonnellate raccolte), oltre alla destinazione dei capi, che segue tre strade: una parte viene selezionata e distribuita alle persone in stato di bisogno. Quello che avanza e risulta in buono stato, viene venduto ad operatori del mercato dell'abito usato, mentre il materiale in pessimo stato viene ritirato come pezzame industriale, senza che ciò produca ricavi economici.

A Milano la raccolta è affidata a un gruppo di cooperative sociali organizzate da Caritas Ambrosiana e Compagnia delle Opere, che provvedono al loro riutilizzo o riciclaggio. La capofila è la onlus Vesti Solidale, che ha messo a punto il sito Internet "Dona Valore", la stessa scritta che campeggia sui cassonetti che aderiscono all'iniziativa, con la rendicontazione delle attività svolte. "Complessivamente impieghiamo circa 50 lavoratori provenienti da situazioni di disagio", spiega il responsabile dalla onlus Carmine Guanci. "Dall'amministrazione comunale non riceviamo nulla; l'80% dei proventi della rivendita serve per coprire i costi del servizio e pagare gli stipendi. Il resto finisce nelle iniziative sociali". Nel 2013 sono stati destinati 290mila euro a sostegno dei progetti presentati dalle cooperative promosse da Caritas Ambrosiana e socie del Consorzio Farsi Prossimo. Un dato in crescita rispetto ai 228mila euro del 2012.

Il Comune di Padova ha affidato il servizio alla Caritas Diocesana, che ha predisposto il sito Internet "Che fine fanno", con l'intento di garantire trasparenza alla gestione del materiale riposto nei contenitori gialli. Il servizio è materialmente svolto da un gruppo di cooperative sociali  -  Città solare, Il Grillo, Cooperativa Ferracina, Montericco e Cooperativa Sociale insieme  -  che, attraverso accordi con alcuni comuni e con le società Etra, Acegas-Aps, Veritas, PadovaTre gestiscono la raccolta degli indumenti nel territorio della Diocesi patavina, che comprende cinque province venete. Al termine del processo di recupero e smaltimento le cooperative sociali destinano una parte degli utili derivanti dallo smaltimento o vendita (il 7%) per la realizzazione di alcuni progetti di Caritas Padova, rendicontati sul sito.

A Bologna hanno da poco debuttato i nuovi contenitori studiati da Hera, singolari per colorazione (il grigio, che si armonizza con i cassonetti stradali) e la "vestizione" (giocata su icone che hanno l'obiettivo di rendere facilmente comprensibile ai cittadini la funzione del cassone), con l'obiettivo di far crescere i numeri, dopo che già nel 2013 è stato raggiunto il livello ragguardevole di 647 tonnellate. Materialmente la raccolta è stata affidata al consorzio di cooperative sociali Ecobi, che è subentrato alla gestione frammentata che ha caratterizzato gli anni precedenti. Riunisce imprese locali, come La Fraternità (Ozzano), La Piccola Carovana (Crevalcore) e Pictor (Budrio). Vestiti e scarpe, per il momento, vengono stoccati presso gli impianti di due Onlus (Fraternità e Piccola Carovana). Una volta a regime, invece, Ecobi farà autorizzare a Ozzano un vero impianto di trattamento e selezione, che consentirà un puntuale controllo di tutta la filiera, dalla raccolta alla reimmissione sul mercato, posti di lavoro. Le cooperative infatti, potranno rivendere il materiale raccolto e tenere per le proprie attività sociali i ricavi. Questo sistema permette di non avere costi per Hera né, per il Comune.

A Roma lo scorso anno sono state raccolte 9.500 tonnellate di abiti usati (contro le 7.250 dell'anno precedente), attraverso 1.800 contenitori (nel 2008 erano appena 504), dislocati in tutto il territorio della capitale. Il prelievo (effettuato una volta a settimana, con l'impiego di 61 operai) viene svolto dall'associazione temporanea di impresa Roma Ambiente, composta da due consorzi, l'Alberto Bastiani e Il Solco. Entrambi contattati per questo servizio, non hanno voluto fornire numeri sulla raccolta e sulle destinazioni dei proventi. Di certo si sa che i numeri in gioco sono rilevanti: l'incasso stimato annuo è di 2 milioni di euro all'anno, tanto che ora l'Ama (spa del Comune di Roma) ha in corso il nuovo bando per l'assegnazione triennale del servizio, dal quale conta di incassare una somma consistente. La raccolta viene effettuata da un totale di 61 operatori (le coop danno lavoro anche a ex-detenuti, offrendo loro una possibilità di reinserimento), in media una volta a settimana. Il 15% circa degli abiti usati raccolti finisce nei negozi di vintage, il 45% nei Paesi in via di sviluppo soprattutto in Africa, il 25% viene impiegato come pezzame e il resto diventa scarto o finisce in beneficenza.

Infine a Napoli tre anni fa è stata bandita una gara d'appalto, che ha visto primeggiare il duo composto dalla Onlus Ambiente Solidale e della F. lli Esposito Sas. Gli aggiudicatari, che hanno posizionato un contenitore ogni 1.500 residenti, sono tenuti a corrispondere ad Asia (Agenzia servizi di igiene ambientale) Napoli 3 centesimi per ogni Kg di rifiuto raccolto. Somme che compongono un fondo impiegato per attività umanitarie.

Beffa atroce, ma resistiamo al cinismo, commenta Carlo Ciavoni. La solidarietà, il sentimento umano di aiutare il prossimo, che prende forma in azioni organizzate o individuali e spontanee, mostra a volte il suo volto fasullo, furbo, arcigno. Tutto così diventa più sgradevole, molto di più di quando ci si sente semplicemente fregati, da qualcuno che t'infila le mani in tasca per rubare, o ti raggira con un trucco. L'atto solidale, sospinto da ideali religiosi o laici che siano - quando viene tradito e sbeffeggiato, in chi lo compie si trasforma in un dolore acuto, come un chiodo nella propria intimità etica. La storia dei cassonetti gialli, con tutti quegli indumenti regalati a chi ne ha bisogno, si aggiunge ad altre beffe compiute alle spalle di chi cerca di cambiare in meglio la vita dei disgraziati di questo mondo i quali, senza chiederlo, dovrebbero ricevere senza troppi maneggi ciò che viene loro donato. Purtroppo, l'universo della Cooperazione e del volontariato nella sua complessità non è stato ancora analizzato a fondo. C'è da comprendere, infatti, quali proporzioni abbia davvero il fenomeno della speculazione sugli aiuti umanitari, se esiste, e che profilo ha il volto nascosto della Cooperazione, in ogni sua forma possibile. Si calcola, ad esempio, che nel mondo operino circa 50mila Organizzazioni non governative (Ong) e che le attività riferibili al cosiddetto Terzo settore (cioè Ong, Onlus, fondazioni, enti di carità, cooperative, soprattutto agenzie Onu) muovano un mare di denaro di circa 400 miliardi di dollari. Valentina Furlanetto - giornalista a Radio 24 - un paio d'anni fa ha scritto un saggio, assai contestato per la verità, anche con ottime ragioni, ma che ha avuto comunque il merito di accendere l'attenzione su un aspetto in questo ambito di cose, altrimenti nascosto dalla "nebbia" dei buoni sentimenti. Il saggio s'intitola L'industria della carità - Da storie e testimonianze inedite il volto nascosto delle beneficenza - Chiarelettere - 243 pagine, 13.90 euro). La Furlanetto sferra un attacco frontale al mondo della Cooperazione e del volontariato. E traccia un elenco di organizzazioni da lei annoverate fra le più ricche: Save the Children, World Visione Feed the Children (circa 1,2 miliardi di dollari di bilancio ciascuna). Poi si domanda da dove provengano quei soldi e si risponde che arrivano da enti pubblici o da donazioni private. La giornalista denuncia sprechi, ma anche i vuoti del nostro sistema d'assistenza e sottolinea come il Terzo settore sia lievitato negli ultimi quarant'anni: da una ventina che erano negli anni '60, le Ong italiane (una piccola porzione del Terzo settore) oggi riconosciute ufficialmente sono 248, coinvolte in 3.000 progetti in 84 Paesi del mondo, e impegnano 5.500 persone, con un budget gestito di circa 350 milioni di euro l'anno. Bene, detto tutto ciò, va però precisato che, semmai tutto questo "esercito" non ci fosse - e sono tutti a dirlo - quella parte del mondo, circa l'80% dell'umanità, non avrebbe compiuto enormi progressi per quanto riguarda la riduzione delle morti per fame, nel calo vistoso della mortalità infantile e della povertà in genere, oltre che aver aumentato complessivamente la scolarità. La macchina solidale costa: è vero. E sicuramente il rapporto tra quanto viene investito nei progetti di aiuto e il valore reale che resta sul terreno potrà (dovrà) migliorare di molto, a vantaggio dei beneficiari. Ma è altrettanto vero che la stragrande maggioranza dei cooperanti (che non vanno confusi con i missionari) lavora compiendo scelte spesso difficili di distacco dal proprio ambiente, con stipendi nient'affatto faraonici (almeno nella stragrande maggioranza dei casi) e che comunque riescono sempre a portare a termine programmi di sviluppo o interventi d'emergenza in contesti spessissimo difficili e pericolosi. In casi come questo dei cassonetti di raccolta fasulli, dunque, sarebbe bene non dar sfogo a fantasie che mettano tutto e tutti nello stesso calderone, in una baraonda "de magna-magna" che davvero sarebbe sbagliato e ingiusto associare a questo complicatissimo mondo. La totalità delle organizzazioni che lavorano per aiutare il prossimo, nelle emergenze, nei progetti di sviluppo, o nel lavoro sottile e complesso di chi punta sulla crescita della consapevolezza dei diritti (ignorati da intere popolazioni nel modo povero) lo fanno in totale trasparenza. Tutto è migliorabile, certo, ma sarebbe un grave errore mescolare tutto questo patrimonio di passioni e competenze con fattacci di cronaca nera dai quali, come nella vicenda dei cassonetti gialli, non a caso, fa capolino anche la camorra.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO.

ANTONIO GIANGRANDE. Alla domanda rispondo come dr. Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto e per gli effetti riconosciuta dal Ministero Dell’Interno.

Per dare una risposta un po’ lunghina, ma estremamente esauriente ed esaustiva, bisogna partire dalla concezione che si ha dei mafiosi in Italia. Nel calcio, così come nella politica, specie a sinistra, vige il concetto che se si vince e si ha successo, si vale, se si perde, gli altri han rubato. Ergo: tu sei ricco e di successo, allora sei un mafioso. Così come molte associazioni antiracket ed antiusura, che non sono di sinistra o riconducibili alla CGIL, la mia associazione non è inserita nel sistema precostituito dell’antimafia Grasso-Ciotti-ANM/MD e per gli effetti vedo e denuncio le storture di una struttura mediatico-giudiziaria. Non ho il megafono dei media di sinistra col paraocchi ideologico, né tantomeno di quelli di destra, occupati ad osannare Berlusconi. Per questo non mi rimane che testimoniare il presente nei miei libri. In particolare: “Mafiopoli” e “Usuropoli e fallimentopoli”. Tornando alla domanda. La risposta la danno gli stessi protagonisti più noti della cronaca dimenticata. Mi astengo dal dilungarmi sulla mia storia. Un ristorante bruciato e dalla burocrazia mai risarcito, né fatto ricostruire. Dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Comunque in regime di sottomissione ideologica l’establishment ha altre cose da pensare rispetto a quello che il popolo anela.

PINO MANIACI. Beni sequestrati, Maniaci: “Gli dei delle misure di prevenzione”. Il direttore di Telejato è stato ascoltato in Commissione regionale antimafia. In quella sede ha presentato il suo dossier sui curatori dei patrimoni sottratti ai boss di Cosa nostra: “Sono sempre gli stessi e gestiscono patrimoni immensi. A volte con problemi di incompatibilità”, scrive Riccardo Campolo su “L’Ora Quotidiano”. “A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: Dara, Modica de Mohac, Benanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre. Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”. “Un lungo e intenso confronto in Commissione Antimafia regionale. Abbiamo appena finito di ascoltare Pino Maniaci, direttore di Telejato. Pino dipinge un quadro a tinte fosche, tante ombre e poche luci, ci fornisce spunti interessanti, soprattutto sulla gestione dei beni confiscati, e nei prossimi giorni ci consegnerà un dossier dettagliato che studieremo con attenzione. Gli ho detto, salutandolo, che non è solo e che deve continuare a fare il suo lavoro, il giornalista, come sempre ha fatto: con la schiena dritta e la testa alta”. Lo scrive sui social network il vicepresidente della Commissione regionale Antimafia, Fabrizio Ferrandelli. a conclusione dell’audizione del direttore della Tv di Partinico al centro di continue intimidazioni.

LUIGI ORSINO. Vittime di camorra abbandonate dallo Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Scrive “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la camorra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e nei confronti di quei cittadini collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai l’eroe!” Bene, la storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da uomini? Questa storia, come tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici. Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro. Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà  era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abito con la famiglia. Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo  dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10. A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “ perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre u.s. l’Ufficiale Giudiziario , con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato omicidio. In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini ha evitato che nuove e,  forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti. Luigi Orsino»

“DENUNCIA IL RACHET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito. Vogliamo fare luce su un particolare che ci ha colpito molto e che, a nostro avviso, rappresenta la chiave del “problema camorra” e nello stesso tempo la sua vera forza. La collusione tra questa e le istituzioni, ma soprattutto, la collusione tra camorra e cittadini. Chiunque, inaspettatamente, può rivelarsi un camorrista, anche il più insospettato e insospettabile amico di famiglia. In questo caso è venuta fuori la figura di un commercialista il cui vero lavoro è quello di segnalare alla camorra le aziende che fatturano bene e che vanno a gonfie vele, arrotondando con attività di estorsione, mentre il lavoro contabile è soltanto una copertura. Che questo principio entri bene nelle nostre teste. Il nemico non è soltanto fuori.

PINO MASCIARI: «Costretto a sparire e autoproteggermi perché abbandonato dalla scorta in Calabria», scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il suo telefono cellulare torna raggiungibile 19 minuti dopo la mezzanotte ma il Sole-24 Ore riesce a mettersi in contatto con Pino Masciari – il testimone di giustizia calabrese che per oltre 36 ore era scomparso a Cosenza – solo alle 9.31 di oggi. Ha la barba lunga e sta poco al telefono. «La scorta mi ha detto che non mi avrebbe riportato a casa. Mi ha girato le spalle e se ne è andata. A quel punto ho dovuto tutelarmi e sono stato costretto a fare tutto da solo senza dare notizie a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono mosso da solo e non nascondo che nel primo tratto di strada mi hanno riconosciuto e sono stato preso dal panico. Con mezzi di fortuna mi sono messo all'opera per tornare a casa, a Torino, dove sono giunto ieri sera tardi». In altre parole, come lui stesso scrive sul sito, «mi sono sentito costretto ad auto-proteggermi e a tornare a casa, non ritenendo giusto di esporre i civili che mi stavano accompagnando in quanto versavo, per l'ennesima volta, privo di protezione in terra di Calabria». Da quel momento ha staccato il cellulare perché, dice, «sarebbe stato possibile essere rintracciato da chiunque». A casa l'aspettavano moglie e figli che – a quanto dichiara al Sole-24 Ore lo stesso Masciari - nulla sapevano. E che per 36 ore hanno cercato di avere notizie. E che per 36 ore nulla hanno intuito se è vero che la coniuge di Pino ha cercato di averne in ogni modo e che ancora nel pomeriggio di ieri aveva un rappresentante del servizio scorte di Torino accanto a lei in casa. Notizie sulla sua scomparsa che - a quanto si apprende solo questa mattina nel momento in cui è stato pubblicato il comunicato stampa nel sito di Pino Masciari – la prefettura (di Torino? Di Cosenza?, non è dato sapere visto che manca l'intestazione) sapeva. E lo Stato (qualunque fosse la prefettura) non le ha comunicate alla moglie? A quanto sembra no anche se è umanamente difficile da credere. Alle ore 9 di ieri mattina la prefettura ha infatti ricevuto questo comunicato spedito via fax dallo stesso Masciari: «Oggetto: Urgente Comunicazione Giuseppe Masciari. La presente, quale documento ufficiale, è per comunicare che in questo momento sono a Cosenza, Calabria, e sono stato " abbandonato" dal personale di scorta, con la conseguenza che sto provvedendo di rientrare a Torino con mezzi pubblici o di fortuna. Vani sono stati i tentativi di contattare il personale di scorta di riferimento di ………… . Pertanto mi rivolgo a Lei per un intervento immediato che tuteli la mia persona e per denunciare il susseguirsi di mancate condizioni di sicurezza che avvengono, in particolar modo in Calabria, e che mi espongono a serio rischio. Reputo le autorità preposte responsabili se dovesse accadere qualcosa alla mia persona. Cordialità» . Questa la nuda cronaca (conclusiva o dovremo aspettarci la versione dello Stato, attraverso le spiegazioni del Viminale?) di due giornate delle quali non si sentiva francamente il bisogno.

Chi è Giuseppe Masciari?

Il mio nome è Giuseppe Masciari, un imprenditore edile calabrese, nato a Catanzaro nel 1959. Sono stato sottoposto a programma speciale di protezione dal 18 ottobre 1997, insieme a mia moglie (medico odontoiatra) e ai miei due bambini. Dal 2010, fuoriuscito dal Programma Speciale di Protezione, vivo sotto scorta. Ho denunciato la ‘ndrangheta e le sue collusioni con il mondo della politica. La criminalità organizzata ha distrutto le mie imprese di costruzioni edili, bloccandone le attività sia nelle opere pubbliche che nel settore privato, rallentando le pratiche nella pubblica amministrazione dove essa è infiltrata, intralciando i rapporti con le banche con cui operavo. Non ho accettato le pressioni mafiose dei politici e del racket della ‘ndrangheta. Il sei per cento ai politici e il tre per cento ai mafiosi, ma anche angherie, assunzioni pilotate, forniture di materiali e di manodopera imposta da qualche capo-cosca o da qualche amministratore, pretese di regali di appartamenti e costruzioni gratuite, finanche acquisto di autovetture: questo fu il prezzo che mi rifiutai di pagare. Fummo allontanati dalla nostra terra per l’imminente pericolo di vita in cui ci siamo trovati esposti, insieme alla mia famiglia. Da quando operavo nella mia attività con le mie aziende, non mi sono arreso mai ai soprusi della ‘ndrangheta, mi ribella, riferisco tutto all’Autorità Giudiziaria e denuncio; tanto fu ferma la mia scelta di non cedere ai ricatti che  arrivai al punto di dover chiudere tutte le mie imprese licenziando nel settembre 1994 gli ultimi 58 operai rimasti.

Ingresso nel Programma Speciale di Protezione. Il 18 Ottobre 1997 io, mia moglie Marisa e i miei due figli appena nati entrammo nel programma speciale di protezione e scompariamo dalla notte al giorno: niente più famiglia, lavoro, affetti, niente più Calabria. Testimonio nei principali processi contro la ‘ndrangheta e il sistema di collusione, quale parte offesa costituendomi come parte civile. Divento “il principale testimone di giustizia italiano”, così definito dal procuratore generale Pier Luigi Vigna. Inizia il CALVARIO: accompagnamenti con veicoli non blindati, con la targa della località protetta, fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, intimidito, lasciato senza scorta in diverse occasioni relative ai processi in Calabria, registrato negli alberghi con il mio vero nome e cognome, senza documenti di copertura. Troppi episodi svelano le falle del sistema di protezione che dovrebbe garantire sicurezza per me e la mia famiglia.

Lo Stato istituisce la figura del testimone di giustizia. 2001. Con la legge 45/2001 si istituisce la figura del testimone di giustizia, cittadino esemplare che sente il senso civico di testimoniare quale servizio allo Stato e alla Società. Il 28 Luglio 2004, la Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica che “sussistono gravi ed attuali profili di rischio, che non consentono di poter autorizzare il ritorno del Masciari e del suo nucleo familiare nella località di origine. Ritenuto che il rientro non autorizzato nella località di origine potrebbe configurare violazione suscettibile di revoca del programma speciale di protezione”.

Revoca del programma speciale di protezione. Il 27 Ottobre 2004, tre mesi dopo, la stessa Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica il temine del programma speciale di protezione. Tra le motivazioni si indica che i processi erano terminati. Cosa non vera: i processi erano in corso e la D.D.A. di Catanzaro emetteva in data , 6 febbraio 2006 successiva alla delibera, attestato che i processi era in corso di trattazione.

Ricorso contro la revoca. 19 Gennaio 2005, faccio ricorso al TAR del Lazio contro la revoca, azione che mi permette di rimanere sotto programma di protezione in attesa di sentenza.

Il programma cessa in ogni caso. 1 Febbraio 2005, senza tenere conto del ricorso già in atto, la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno delibera ancora una volta di “ invitare il testimone di giustizia Masciari Giuseppe ad esprimere la formale accettazione della precedente delibera ricordando che alla mancata accettazione da parte del Masciari, seguirà comunque la cessazione del programma speciale di protezione”.

Non posso testimoniare ai processi. Il 19 Maggio 2006, il mio legale invia una nota alle Autorità competenti per segnalare che i Tribunali erano stati notiziati “della fuoriuscita del Masciari dal programma di protezione” e che pertanto non risultavo essere più soggetto a scorta per accompagnamento nelle sedi di Giustizia. Mi sono recato ugualmente nei processi con senso di DOVERE, accompagnato dalla società civile.

Sentenza del TAR: diritto alla sicurezza. Gennaio 2009, dopo 50 mesi a fronte dei 6 mesi stabiliti dalla legge 45/2001 art.10 comma 2 sexies-, il TAR del Lazio pronuncia la sentenza riguardo il ricorso e stabilisce l’inalienabilità del diritto alla sicurezza, l’impossibilità di sistemi di protezione o programmi a scadenza temporale predeterminata e ordina al Ministero di attuare le delibere su sicurezza, reinserimento sociale, lavorativo, risarcimento dei danni. Per tramite del mio legale faccio richiesta formale dell’ottemperanza della sentenza.

Sciopero della fame e della sete. Aprile 2009 Non avendo ricevuto nessuna risposta dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, annuncio la volontà di cominciare il 7 aprile lo sciopero della fame e della sete, fintanto che non vedrò rispettati i diritti della mia famiglia ancor prima che i miei. Lo sciopero della fame è l’ultima risorsa, supportata dlla società civile e dagli “Amici di Pino Masciari” vista l’urgente necessità di tornare a vivere che dichiarano: «Grazie a Pino Masciari abbiamo imparato ad amare lo STATO. Dodici anni di sofferenza e esilio sono un prezzo altissimo che i Masciari hanno pagato con dignità, senza mai rinnegare la scelta fatta. E’ ora che questo STATO riconosca loro quanto dovuto. Noi, Società Civile, non possiamo accettare questa scelta senza lottare fino all’ultimo istante al fine di evitare l’ennesimo estremo sacrificio della famiglia Masciari. Basta una firma, e la volontà di apporla. Per i cittadini, lo STATO e la Costituzione. Per la Famiglia Masciari.» Il 14 maggio termina lo sciopero della fame e della sete a seguito dell’impegno preso dalla Presidenza della Repubblica attraverso la nota del 12 maggio, che da quel momento mi  assegna scorta e tutela adeguata e ulteriori vetture di staffetta, che mi hanno accompagnato.

Due eventi preoccupanti. Il 21 luglio 2009, sul davanzale della mia ex sede della ditta di costruzioni (attualmente ufficio legale di mio fratello), a Vibo Valentia, è stato ritrovato un ordigno inesploso. Il 19 agosto l’abitazione in località segreta nella quale risiedo con la mia famiglia, è stata violata. In questo caso si è trattato probabilmente di ladri comuni (cosa comunque gravissima, a riprova della vulnerabilità cui siamo soggetti), nel precedente è stata invece la ‘ndrangheta, che ricorda di non avere fretta, non dimentica.

L’uscita dal Programma speciale di protezione. Nel 2010 ho concordato la conclusione del Programma Speciale di Protezione in comune sintonia con il Ministero dell’Interno, dando cosi inizio ad una nuova fase della mia vita e quella della mia famiglia, con le Istituzioni e la società civile al mio fianco. Oggi vivo alla luce del sole, pur rimanendo “sotto scorta”.

L’inizio di una nuova vita. «”Quando istituzioni e società civile si assumono le proprie responsabilità lo Stato vince. In questo credo e continuo a credere ed è per questo che sono certo che la mia vicenda si concluderà con la giusta reintroduzione sia in ambito lavorativo che sociale ed umano“.» In questi anni ho girato l’Italia, ho solidarizzato con i familiari delle vittime di mafia ed altre associazioni, persino oltre confine, sono stato a raccontare la mia storia in numerosissimi istituti scolastici e incontri organizzati dalla società civile. Inoltre ho ottenuto la cittadinanza onoraria di molte città.  E infine, si è deciso – insieme a mia moglie – di raccontare la nostra storia in un libro. Si intitola “Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta”, lo ha pubblicato la casa editrice torinese “Add”.

COSIMO MAGGIORE. L’ultimatum del testimone di giustizia Cosimo Maggiore: “Mi hanno lasciato solo”, scrive Paolo de Chiara il 14 gennaio 2015 su “19 luglio 1992”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, ‘Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura’), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche ‘pentiti’) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Si barrica nella sua azienda venduta all’asta e tenta il suicidio, l’imprenditore che denunciò il racket: “Vaffanculo Stato”. L’intervista realizzata da Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. Ha perso tutto, ora anche la sua azienda venduta all’asta. Questa mattina i nuovi proprietari hanno cambiato il lucchetto e si sono appropriati dell’azienda di Cosimo Maggiore, l’imprenditore di San Pancrazio Salentino che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma come la maggior parte dei testimoni è stato abbandonato dallo Stato.  In un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket e il malaffare. Una volta raccolte le  testimonianze poi vengono lasciati al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia  è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Ma questi ultimi servono, e quindi vengono protetti. I testimoni, come molti di loro raccontano “vengono usati e poi mandati via… per loro siamo solo dei rompiglioni” Questa è una delle frasi più volte lette nel libro del giornalista Paolo De Chiara che in “Testimoni di giustizia” riporta la storia e le interviste ad molti di coloro che hanno denunciato e si sono opposti alle organizzazioni criminali. La storia di Cosimo Maggiore ve l’abbiamo già raccontata in un nostro reportage.  Alla sua triste vicenda oggi si aggiunge un nuovo tassello. Lui  non solo non  ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti ma la sua azienda è stata venduta all’asta  perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. Oggi è sfiorato nella sua mente il pensiero di farla finita, di saltare in aria in quel capannone che è stata la sua vita. Ma non ce l’ha fatta, ha guardato la foto dei suoi e ha deciso di continuare a vivere. Arrabbiato, amareggiato, deluso, con la dignità calpestata si lascia sfuggire in questa intervista: “vaffanculo allo Stato”.

Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio, scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta. Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti, ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».

L’azienda del testimone di giustizia finisce all’asta. “Pronto a barricarmi dentro”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche pentiti) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Il testimone di giustizia abbandonato dallo Stato. “Maledetto il giorno che ho denunciato, maledico questo Stato e le persone che mi hanno convinto a denunciare e che mi hanno lasciato solo”. È l’imprenditore Cosimo Maggiore che parla, un testimone di giustizia di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. La stessa località che ospita la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Cosimo è stanco, è abbattuto. Ha denunciato i suoi estorsori, uomini della Sacra Corona Unita, finiti in galera e condannati grazie al suo senso civico. Alla sua onestà di cittadino perbene. Vittima di estorsione e di minacce da parte dei mafiosi del posto. La mafia pugliese, sanguinaria e violenta, che sembra quasi dimenticata. Lo stesso ‘trattamento’ riservato alla ‘ndrangheta, sino a qualche tempo fa. Ha perduto la sua azienda e la speranza. “Oggi non lavoro più, cazzeggio tutto il giorno su facebook, la mia valvola di sfogo. Il mio capannone è stato messo all’asta. Mi hanno fatto terra bruciata intorno. Sono solo, con la mia famiglia. Sai chi ha acquistato all’asta il mio capannone? Un prestanome delle persone che ho denunciato. Ma nessuno entrerà nella mia struttura, a costo di farmi saltare in aria”. Cosimo ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Alfano, al Prefetto, al Generale dei Carabinieri. “Non ho ricevuto risposta da nessuno. L’unica cosa che hanno fatto è stato il ritiro delle armi, legalmente detenute. Le ho regalate ai miei amici dell’Arma”. Cosimo Maggiore ha una scorta, due carabinieri (“tutto ciò che mi resta, due angeli custodi”) che lo seguono ovunque. “Ho ricevuto premi come imprenditore coraggio, tutti mi dicono sei coraggioso, hai le palle, servono persone come te. Sono uno scemo, mi sento solo e abbandonato”. Ma quando inizia la sua storia di testimone di giustizia? “Otto anni fa, nel 2006, quando vennero da me dei soggetti per una proposta”. Una ‘assicurazione’, un’estorsione di 500euro al mese, da destinare alle famiglie dei carcerati. “Non accettai la proposta”. Cosimo pensa a lavorare, ha diversi cantieri aperti, costruzioni da ultimare. Si occupa di infissi. Va avanti per la sua strada, a testa alta. Ma i delinquenti non mollano la presa. Si rifanno vivi dopo qualche mese. “Vengo convocato in un appartamento, dove trovo una bella sorpresa. Non c’erano lavori da effettuare, ma una nuova proposta da accettare. Pretendevano anche gli interessi arretrati, circa 2mila euro al mese”. Nella stanza erano “presenti Occhineri Antonio e Musardo Mario”, entrambi detenuti. Cosimo continua a subire pressioni, strani sguardi, avvertimenti. Racconta la sua drammatica storia a un ispettore della squadra mobile e denuncia nel 2007. “Ho avuto paura, questa è brutta gente. Hanno collegamenti con le forze dell’ordine e non solo”. Sino ad oggi ha collezionato 32 denunce, “è stato tutto inutile”. Le pressioni continuano senza soste. “Un mio compare, vicino a questa organizzazione criminale, mi avvicina diverse volte. Pretendono che ritiri la querela, mi incontrano”. È presente anche Bruno Andrea, capo indiscusso della zona, oggi in carcere con una trentina d’anni da scontare. Fratello di Ciro, capo storico della Scu, già condannato all’ergastolo. “Mi fanno parlare con un avvocato, che a tavolino, mi spiega cosa devo fare”. Il ‘compare’ continua la sua azione, “non potevo immaginare che anche lui potesse appartenere all’organizzazione. Gli dissi che non doveva farsi più vedere, ricordo una sua frase, non potrò mai più dimenticarla: ‘fai attenzione, non sai chi hai sfidato. Sono gli stessi criminali che, tempo fa, hanno ammazzato e seppellito sotto un terreno due giovani”. Cosimo Maggiore è una brava persona, non la ritira la denuncia. Si posiziona dalla parte dello Stato (che in molte circostanze non si dimostra tale e con la ‘S’ maiuscola), vuole e cerca giustizia. La sua dettagliata testimonianza manda in galera sette soggetti. Diventa quasi un eroe. Nel 2007 a San Pancrazio il Presidente della Provincia convoca un consiglio monotematico, coinvolgendo tutti i sindaci (di Brindisi e provincia), i politici, la Camera di Commercio e le autorità locali. Tutti insieme per celebrare “l’imprenditore coraggioso, tutti volevano aiutarmi. Ad oggi non ho mai visto nessuno. Dopo la denuncia è cominciato il mio calvario”. Nel 2008 i riconoscimenti pubblici: il premio 112 dell’Arma dei Carabinieri e il premio imprenditore coraggio. Iniziano i problemi anche con la sua attività. “Mano a mano comincio a perdere i lavori”. ‘Non possiamo saltare anche noi in aria’ – le parole ripetute all’infinito – potevi pensarci prima. Te la sei cercata. Perde tutti i lavori. “Ed iniziano altri problemi, le ingiunzioni. Mi avevano avvisato, me lo avevano detto chiaramente: ‘te la faremo pagare. Rimarrai da solo come un cane’. Si è avverato tutto”. Il testimone di giustizia non si dà pace. “Il mio capannone è stato messo all’asta, nessuno ha applicato l’articolo 20 della legge 44 del 1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura). La banca non ha mai accettato questa legge, nessuna sospensione. Solo una presa per il culo”. Si legge nell’interrogazione dell’aprile 2014, a firma del senatore Iurlaro: “Chi denuncia il racket dovrebbe essere tutelato ai sensi di quanto stabilito dalla legge del 1999. Chi è vittima dell’estorsione e denuncia il racket, si rivolge alle associazioni anti racket proprio perché ne presume l’adeguata esperienza assistenziale, invece, nel territorio brindisino, il signor Maggiore ha ricevuto solo danni per inadeguata assistenza. È stato persino danneggiato pesantemente, per il mancato interessamento volto alla sospensione dei termini di 300 giorni ex art.20, come era suo diritto e come, da prassi, ottiene la vittima di estorsione e/o usura che abbia denunciato ed abbia presentato domanda di accesso al Fondo”. Cosimo ha 47 anni, una moglie e due figli. Ma come vive la famiglia Maggiore questa assurda situazione? “Preferisco non parlarne. Con me hanno vinto loro, i mafiosi. Siamo rimasti soli, tremendamente soli. Vado sempre in giro con una lettera intestata alla mia famiglia. Mi resta soltanto una strada: il suicidio”.

Un ex imprenditore chiede aiuto: “La SCU ha mantenuto la sua promessa: Io non vivo più”, scrive Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”   “Se non paghi finirai di lavorare”; “Se denunci avrai finito di vivere”; “Se ti fai parte civile, muori”. Firmato La Scu (Sacra corona unita). Questo e molto altro lo ha vissuto – e continua a vivere – sulla sua pelle Cosimo Maggiore, oggi 47enne, ex imprenditore di San Pancrazio Salentino, piccolo paese in provincia di Brindisi. ‘Ex’ perché oggi Maggiore si ritrova senza un lavoro e senza la sua azienda. Perché? Perché un bel giorno mentre nel Salento stava per sbocciare la Primavera al cancello della sua azienda di infissi si è presentato il pizzo. Una macchia nera che avvolge e distrugge tutto: il lavoro, la libertà, la serenità, la vita. L’imprenditore, che si è piegato pochissime volte ai ricatti della criminalità organizzata, è stato costretto al pagamento attraverso intimidazioni e minacce, ma poi aggrappandosi alle sue forti spalle ha deciso di recarsi dalle forze dell’ordine e denunciare. Dal 2006 ad oggi per Cosimo Maggiore e la sua famiglia, sono stati anni di lotte, minacce, denunce, arresti, paure. L’imprenditore da otto anni vive sotto protezione. Al suo fianco ci sono sempre due carabinieri – definiti da lui gli angeli custodi – che non lo perdono di vista. Una vita che oramai non si può più definire vita. Un’azienda ereditata dal padre che dopo venti anni di duro lavoro si è sgretolata, ma non a causa della crisi o della mancanza di lavoro, ma a causa del giro del racket. Cosimo Maggiore non si è inginocchiato ai piedi della Scu e ha denunciato, non una sola volta, ma più volte fino a far arrestare anche il boss della frangia torrese della Sacra corona unita, Andrea Bruno insieme ai suoi compari. Oggi però dopo anni di inferno, Cosimo Maggiore – considerato dallo Stato un Testimone di giustizia e vittima del racket – sostiene che a sbattergli le porte in faccia sia stato proprio lo Stato e le associazioni Antiracket e sostiene, ancora, che a vincere sia stata la Scu. Il suo capannone, infatti, lo Stato lo ha venduto all’asta. Una parte, quindi, della sua ex azienda è stata acquistata da terze persone. L’imprenditore di San Pancrazio Salentino lo scorso settembre ha presentato un’ennesima denuncia presso l’Arma dei carabinieri. In quella querela Maggiore dichiara a chiare lettere che il suo capannone sarebbe stato acquistato da un prestanome. Già in passato Maggiore aveva rilasciato qualche dichiarazione, ma oggi per la prima volta ha accettato di parlare in una video-intervista.

LUIGI COPPOLA. Sono disposto a darmi fuoco. Parla il testimone di giustizia Luigi Coppola. Abbandonato dallo Stato, scrive Paolo De Chiara sul suo blog. “La camorra ha iniziato, ma le Istituzioni stanno continuando il lavoro”. Non usa mezzi termini il testimone di giustizia Luigi Coppola per spiegare la sua situazione. Difficile e drammatica per lui e per la sua famiglia. La famiglia Coppola, per una scelta coraggiosa e dignitosa, è costretta ad elemosinare un posto per dormire. Tutto è cominciato nel 2001. Luigi era un commerciante di auto a Boscoreale, in provincia di Napoli. Stanco delle vessazioni della camorra, denuncia le estorsioni e l’usura. Grazie alle sue denunce si aprono le porte del carcere per alcuni esponenti camorristici locali. Oggi la famiglia Coppola è stata abbandonata dallo Stato. Ritornati nella loro terra, dopo aver girato il Paese, hanno toccato con mano la diffidenza della gente comune. “Un giorno sono entrato insieme alla mia scorta in un noto ristorante di Pompei. A me e mia moglie è stato impedito di sederci a tavola”. Nel gennaio del 2010 il Viminale ha revocato la scorta e la vigilanza fissa. Per lo Stato l’imprenditore Coppola non rischia nulla. Solo per un ricorso al Tar viene risparmiata la scorta. Non è facile, nel BelPaese, la vita dei testimoni di giustizia. Per l’europarlamentare Sonia Alfano: “le loro storie, purtroppo, sono tutte uguali: eroi civili che hanno denunciato i fatti criminosi che hanno subito o di cui sono venuti a conoscenza e che, dopo i processi (le cui sentenze quasi sempre si soffermano sulla nobiltà del loro gesto) sono stati abbandonati dallo Stato, estromessi dai programmi di protezione, lasciati senza sicurezza e senza mezzi di sostentamento”. Luigi Coppola, membro della consulta anticamorra del comune di Boscoreale e coordinatore di uno sportello antiracket, continua la sua solitaria battaglia. “Sono anche disposto a darmi fuoco davanti al Viminale. E’ un mese che ho lasciato l’albergo per motivi economici e nessuno si è curato di noi”.

Coppola, a chi si riferisce?

“Allo Stato”.

Cosa chiede allo Stato?

“Di essere ricevuto e di cercare una soluzione al mio grosso problema. Nel momento in cui lo Stato mi abbandona definitivamente sotto il profilo della sicurezza la camorra metterà in atto il proprio atto criminale”.

Ha ricevuto altre minacce?

“Sto vivendo temporaneamente presso l’abitazione di mio fratello. Ultimamente si sono registrati degli sgradevoli episodi. Qualcuno, scambiando mio fratello per me, gli ha dato del cornuto. C’è stata una regolare denuncia fatta da mio fratello”.

Esiste una petizione promossa dal comitato per la tutela dei testimoni di giustizia, tra i firmatari Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Angela Napoli, Giuseppe Lumia, Elio Veltri. A che punto siamo?

“Non ricordo bene se siamo a 1300 o 1400 adesioni. C’è l’intenzione, entro questo mese, di portarla all’attenzione del Capo dello Stato per vedere se almeno lui ci riceva”.

Nel luglio scorso Sonia Alfano ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica per illustrare la situazione dei testimoni di giustizia. Siete stati ricevuti dal Capo dello Stato?

“No, l’incontro non c’è mai stato. A parte la lettera dell’onorevole Alfano, mi ci sono recato personalmente al Quirinale. Insieme a mia moglie abbiamo fatto lo sciopero della fame, ma in tre giorni e tre notti nessuno si è visto. Ho avuto una sola risposta dal Quirinale. In quei giorni sono scesi dei funzionari che mi hanno comunicato che il Capo dello Stato non può interferire in decisioni che devono essere prese da altri organi dello Stato”.

Il neo ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato che “si interesserà al caso”.

“Il ministro ancora non si è interessato. L’altro giorno sono stato ricevuto dal senatore Giuseppe Lumia e prima dell’incontro sono riuscito ad ascoltare le dichiarazioni della Cancellieri alla Camera dei Deputati, un’interrogazione a risposta immediata sull’altro caso del testimone di giustizia Cutrò. Il ministro ha risposto anche sugli altri testimoni, affermando che il Viminale si è sempre preso cura dei testimoni e nulla sarebbe stato lasciato al caso. Io sono la prova che tutto ciò è falso e sfido la Cancellieri a smentirmi”.

Lei era un rivenditore di automobili a Boscoreale. Nel 2001 denuncia l’estorsione e l’usura della camorra…

“E viene decapitato definitivamente il clan Pisacane di Boscoreale, vengono tratti in arresto un reggente del clan Cesarano, più due suoi cognati. In più vengono arrestati appartenenti al clan Gionta di Torre Annunziata e numerose persone che avevano fatto usura nei miei confronti. In totale 30 persone. Per pagare la camorra fui costretto ad acquisire denaro a tassi usurai. Grazie alle mie dichiarazioni è stato anche sciolto il Comune di Boscoreale per infiltrazioni camorristiche”.

Nel 2002 venite inseriti nel programma di protezione per i testimoni di giustizia…

“Grazie al sostituto procuratore Giuseppe Borrelli, che lavora attualmente presso la Procura di Catanzaro. Prima stava alla Dda di Napoli. Prima di lui, chi aveva preso la situazione in mano non aveva ritenuto opportuno attivare nessuna misura di sicurezza. In quel periodo ho subito due aggressioni e ci sono i referti ospedalieri che lo provano”.

Nel 2007 la famiglia Coppola rientra in Campania, precisamente a Pompei. 

“Avevamo scelto Pompei perché ritenuta tranquilla”.

E come siete stati accolti dalle Istituzioni, dalla gente?

“Peggio della camorra. Al sindaco sono state portate delle petizioni che sono state girate alla Direzione Distrettuale Antimafia e all’ex prefetto di Napoli. Il sindaco non ha mai dimostrato sensibilità nei nostri confronti, anche quando siamo stati costretti a vivere nelle auto blindate”.

Come spiega la frase “a voi non si loca e non si vende…”.

“Mi auguro che sia solo un fattore di paura, ma non credo che il Comune di Pompei possa avere paura. Questa è discriminazione”.

Dopo i vari gradi di giudizio, nel 2009, i processi aperti grazie alla sua testimonianza arrivano in Cassazione.

“Ventitre di loro vengono definitivamente condannati per associazione di stampo mafioso. Da un mesetto è uscito il reggente, il braccio destro del clan Pisacane. Stiamo parlando di un clan che fino ad oggi non ha prodotto pentiti e che ha tutta la voglia di rimettersi in piedi, di riprendersi il territorio per continuare con la droga, con le estorsioni e con l’usura”.

Per lo Stato la famiglia Coppola non rischia nulla. Viene revocata la vigilanza fissa e la scorta.

“Alla revoca mi oppongo con un ricorso al Tar. La scorta viene mantenuta, ma la vigilanza non viene rimessa. La camorra dà il proprio segno di apprezzamento con proiettili inesplosi e una bottiglia incendiaria. Attualmente ho ancora la scorta, ma so che stanno operando per eliminarla”.

Oggi come vive la famiglia Coppola?

“A carico di mio fratello e di mia madre, senza un centesimo. Il 24 gennaio le banche mi iscriveranno al recupero crediti e sarà per me la morte civile. E se tutto questo avverrà mi darò fuoco davanti al Viminale”.

Lei ha due figlie.

“Frequentano il liceo”.

A scuola come vengono trattate?

“Non bene. Vengono viste come degli appestati dai loro amici, sicuramente condizionati dai genitori”.

L’ex sottosegretario Mantovano le disse: “cerchiamo di non prenderci il dito, la mano e il braccio”.

“Ho presentato regolare denuncia alla Procura di Roma”.

Esiste lo Stato nei suoi territori?

“Stato è una parola troppo grossa. La camorra ha preso il posto dello Stato”.

L'IMPRENDITORE LUIGI COPPOLA, PERSEGUITATO DALLA CAMORRA E ABBANDONATO DALLO STATO. Inizia nel lontano 1993 la triste storia di Luigi Coppola , 47enne sposato, con 2 figlie, scrive E. Lampitella su “Globuli Azzurri”. Da venditore d’auto a perseguitato dalla Camorra. Coppola è uno dei tanti che denunciano i propri aguzzini ma rimangono sotto traccia. Grazie alle sue deposizioni, nel 2001 sono state arrestate più di 34 persone di 4 Clan diversi, tra cui il Boss Pesacane. L’imprenditore è rimasto vittima delle attenzioni di tre clan diversi. Colpa, la sua, vendere auto in un trivio che è sotto la “giurisdizione” di 3 clan diversi, tra Bosco Reale, Boscotrecase e Torre Annunziata, che lo vedevano come potenziale riciclatore. Rappresentava un boccone prelibato per il loro malaffare . E’ così entrato in una vera e propria spirale del terrore, a causa dei rifiuti alle pesanti richieste di estorsione e riciclaggio di più esponenti malavitosi che si palleggiavano il cittadino onesto di turno. Ma La storia di luigi Coppola non si ferma qui, dopo aver collaborato con la giustizia alla fine di 10 anni passati in mano ad usurai per pagare il pizzo ai camorristi, Coppola è rimasto solo. Abbandonato dallo stato e ridotto alla fame, costretto a dormire in auto con la scorta. Un’ordinanza del Viminale, che fa seguito alle richieste avanzate da Coppola, nega al collaboratore di giustizia il programma di protezione. Luigi Coppola stasera racconterà la sua storia a Globuli Azzurri, programma di Samuele Ciambriello, sempre sensibile a queste tematiche.

LUIGI LEONARDI. Camorra, denunciò chi gli chiedeva il pizzo: abbandonato dallo Stato e dalla famiglia, scrive Giovanni Gaudenzi su Theblazonedpress.it. Luigi Leonardi ha 39 anni, ed è stato per molti anni uno degli imprenditori più ricchi di Napoli. Guadagnava anche 250 mila euro a settimana, con la sua attività di fabbricazione d’impianti d’illuminazione e 4 negozi sparsi per la provincia partenopea. Oggi non guadagna praticamente nulla, e le sue imprese non esistono più. Perchè ha osato denunciare i taglieggiatori mandati dalla camorra, che gli chiedevano oltre 24 mila euro al mese per garantirgli la loro protezione. Lui, invece di sottostare al vile ricatto dei clan, ha scelto di ribellarsi, presentando 18 denunce negli ultimi 12 anni. Sulle sue dichiarazioni sono basati 2 processi, il primo dei quali ha portato a 63 condanne in primo grado. Per il commerciante nessuna protezione, nessuna misura precauzionale come quelle previste per i pentiti. Perché Leonardi, con i camorristi, non ha mai voluto avere nulla da spartire. E’ stato aggredito a sprangate, nel 2009, ed è finito in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. L’uomo è stato anche sequestrato per 24 ore, a Secondigliano. Ma non si è arreso, sfidando la mala e perdendo tutto quello che aveva, negozi compresi. Ora chiede solo che lo Stato provveda a proteggerlo e che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia, insieme al risarcimento dei danni subiti. “Rifarei tutto- spiega- Con la camorra non ho mai voluto compromettermi.” Il cugino del padre, Antonio Leonardi, è sospettato di essere affiliato alla famiglia mafiosa dei Di Lauro. Ed è questa la ragione per la quale la sua famiglia lo ha abbandonato, lasciandolo solo a combattere la sua battaglia: “Se mi fossi rivolto a lui- dice- avrebbe risolto immediatamente la questione. Ma ho scelto di stare dalla parte della legalità. Adesso, alla mia situazione, deve pensarci lo Stato.” 

Camorra, denunciò i clan. La famiglia lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce. Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la parola da 5 anni. Adesso l'imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e un risarcimento, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi, nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno, a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31 maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5 ai 17 anni. Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli. Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui esordisce affermando che, rispetto ai testimoni di giustizia, “i pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto ai collaboratori”. L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza. Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e Ottaviano, ognuno dei quali pretendenva la propria fetta sul fatturato di Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà 2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”. “In quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi, nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”. Oggi le fabbriche non esistono più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan. Problemi che sono l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo, l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato, ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare, malgrado il prezzo da pagare”. Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai 250 mila euro a settimana che fatturava versando regolamente tasse e contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato. “Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro. “Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non succedeva niente”, gli hanno detto. Invece lui ha parlato, prima con i carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega Francesco De Falco, che oggi rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”, afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato dovrebbe pensare”.

TIBERIO BENTIVOGLIO. Tiberio Bentivoglio, imprenditore antimafia: «Ho denunciato, Equitalia mi porta via la casa». Rompe il muro di omertà contro la 'ndrangheta, ma resta solo. Così, tra silenzi, lentezze burocratiche e casa ipotecata, si umilia il coraggio di chi denuncia le cosche di Reggio Calabria, scrive Gelsomino Del Guercio su “L’Espresso”. «Sto perdendo casa e lavoro, ho già perso la serenità familiare. Allora oggi mi chiedo: conviene denunciare i propri aguzzini come ho fatto io?». E' il grido di un uomo disperato quello che affida a "l'Espresso" Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino 61enne sotto scorta e testimone di giustizia dal 1992, cioè da quando si è ribellato ai suoi estorsori. Da allora per Tiberio è iniziato un lungo calvario. Gli hanno voltato le spalle gran parte dei suoi concittadini di Condera, la frazione di Reggio Calabria dove abita e dal 1979 è titolare di un negozio, la "Sanitaria S.Elia" che vende prodotti elettro medicali e articoli per la prima infanzia. Perché da quelle parti sfidare i boss è un sacrilegio. Ma sopratutto gli hanno voltato le spalle le istituzioni, che lo hanno abbandonato a se stesso nonostante gli appelli al consiglio regionale della Calabria, alla Commissione Parlamentare Antimafia , al ministro dell'Interno Angelino Alfano e persino a papa Francesco. In questi giorni la parabola di Tiberio è giunta al capolinea. Sommerso dai debiti, con un fatturato crollato negli ultimi nove anni del 75% (cioè 2 milioni e mezzo di euro in meno) e un conseguente danno per mancato guadagno che si aggira ad oltre 800 mila euro, l'imprenditore è sull'orlo del crac e dirà addio al suo negozio e non solo. Il colpo finale è arrivato tra le fine di settembre e i primi giorni di ottobre. Equitalia gli ha inviato l'avviso di vendita all'asta della sua abitazione, già ipotecata da oltre un anno per 991mila euro. L'iter prima dello sfratto durerà circa sei mesi. L'ipoteca di Equitalia era arrivata perché da nove anni non paga più i contributi all'Inps dei propri dipendenti (ora rimasti in due, prima erano in cinque) ai quali fino all'anno scorso riusciva a versare a mala pena gli assegni con gli stipendi. «Ho sempre pagato tutto regolarmente ai lavoratori fin quando ho potuto», sottolinea l'imprenditore. Per il danno erariale relativo ai contributi Inps, sua moglie (la loro è un'azienda familiare) ha subito due condanne in primo grado dal tribunale di Reggio Calabria per appropriazione indebita (pena sospesa): la prima un anno fa, la seconda una settimana fa. «Il paradosso è che adesso diventiamo noi i "pregiudicati"…», afferma sconsolato Tiberio. Come se non bastasse, da qualche settimana si è fatto incalzante il pressing delle banche, che dopo l'ipoteca sull'abitazione hanno ritirato gli affidamenti: non concedono più alcuna forma di credito, mutui e prestiti a Bentivoglio. Sono stati ridotti i carnet degli assegni a lui destinati perché sui suoi conti correnti non c'è abbastanza denaro per pagare i fornitori del negozio (circa 150). Il risultato è che le banche, come da legge, hanno inoltrato gli assegni scoperti ai notai - il cosiddetto "protesto" - e per l'imprenditore si prospettano nuove sanzioni amministrative (che comunque non riuscirà a pagare). L'ennesima batosta è arrivata sabato 4 ottobre quando ha ricevuto il preavviso di sfratto dai proprietari del negozio, perché, ormai da un anno, non ha i soldi per pagare l'affitto. Invece il 10 dicembre 2014 il tribunale di Reggio stabilirà se Tiberio dovrà abbandonate il deposito annesso al negozio perché anche in quel caso è "forzatamente" moroso nei confronti del proprietario. Ma perché un uomo libero, un imprenditore coraggioso, un testimone di giustizia, fondatore peraltro di "Reggio Libera Reggio", iniziativa anti racket nata in città il 20 aprile 2010, si è ritrovato in una condizione così assurda, al punto da ritenere che sia stata una cosa sconveniente, un errore, denunciare la 'ndrangheta? E' giusto che in un Paese civile si debba pagare tacitamente il pizzo per non ridursi in questo stato di disperazione? Quest'ultima domanda, tanto più in queste ore, se la stanno ponendo Tiberio, la moglie e sopratutto i suoi figli, «psicologicamente devastati da questa vicenda», dice lui. Nelle sue parole traspare un rimorso rabbioso per quella battaglia iniziata 20 anni fa. «Mi sono rifiutato di riconoscere il loro sistema criminale e sono stato costretto a subire una serie di punizioni e perfino un tentato omicidio che si verificò dopo la condanna di alcuni malavitosi da me nominati nelle denunce». Episodi agghiaccianti, sette in totale. Il primo nel 1992 (furto al negozio), altri due nel 1998 (furto e attentato). Quindi un attentato dinamitardo al negozio nell’aprile 2003 e un incendio nel 2005. Nel giugno 2008 va a fuoco il capannone-deposito. Nel febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando nel suo frutteto, alle 6 del mattino. «Solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portavo a tracolla sulle spalle. Gli autori del tentato omicidio a oggi restano ignoti, mentre io continuo a trascinarmi su una sola gamba in quanto l’altra ha riportato lesioni permanenti causati dai proiettili». Da quel momento a Bentivoglio è stata potenziata la scorta, ora di "terzo livello", cioè assegnata ad una persona "ad alto rischio". Questa serie di intimidazioni ha scatenato un primo, ma graduale allontanamento della clientela dal negozio. E' lunga la lista degli amici che hanno cominciato a far finta di non vederlo, a non salutarlo in strada, a schivarlo. Peggio ancora dopo che il testimone di giustizia, nel 2007, ha denunciato la presunta connivenza del parroco locale don Nuccio Cannizzaro con Santo Crucitti, presunto boss di Condera-Pietrastorta. Il reato di favoreggiamento di cui era accusato il sacerdote è stato prescritto a luglio 2014 e a Condera, dopo la pronuncia del Tribunale di Reggio, si è festeggiato con caroselli d'auto e fuochi d'artificio. «Don Nuccio da queste parti è molto temuto, ma sta di fatto che in Italia la giustizia è lentissima», ammonisce Bentivoglio. Non solo la giustizia, ma lo è anche la burocrazia, che ha scagliato il colpo di grazia contro la "Sanitaria S.Elia". C'è una legge, la 44 del 1999, che prevede aiuti alle vittime di mafia. «Per l'attentato al negozio del 2003 ho ricevuto 3400 euro a fronte di 120mila euro di danni. Per l'incendio del 2005 ho avuto circa 300mila euro in tre anni, e per l'incendio al capannone del 2008 circa 400mila euro, tanto quanto il valore della merce bruciata, ma sempre dopo tre anni». In teoria la normativa stabilisce che lo Stato ripaghi la vittima entro 60 giorni dal fatto. «In realtà la media di attesa è molto più lunga - sentenzia Bentivoglio - intanto, ogni volta che ho subito un agguato, in attesa di ricevere quei soldi sono rimasto anni ed anni con il mio negozio e il deposito distrutti». I clienti in fuga, la liquidità che viene a mancare, le difficoltà nel pagare i fornitori, un mix micidiale, «che mi è costato 2 milioni e mezzo di euro in nove anni, a tanto ammonta il calo del mio fatturato e 800mila di mancato guadagno che è alla base del mio indebitamento verso Stato, fornitori, locatari. In confronto a ciò gli indennizzi ricevuti in tre anni, non compensano praticamente nulla». Sempre per la legge 44/99, gli è valso 16mila euro il tentato omicidio del 2011 (soldi ricevuti nel 2014), e poiché quella norma sospende i provvedimenti esecutivi per 10 mesi, è rimasto tutelato dall'avviso di sfratto del proprietario del deposito fino a settembre 2013. «Non ho mai trovato gente disponibile ad affittare un locale ad una persona come me, che ha già subito una serie di attentati». Eppure l'imprenditore-coraggio non vuol rassegnarsi ad un epilogo che sembra scritto. «Griderò fino all’ultimo giorno di vita - chiosa Bentivoglio - non voglio e non posso finire così. Io ho fatto il mio dovere ma sto perdendo tutto. Se non avessi una famiglia mi sarei già suicidato».

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

Equitalia, strozzini di Stato: per 2.100 euro ne vogliono 3 mila, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest'ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,66 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?». Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n.28 rate mensili». Rateizzare - Il piano di ammortamento - scrivono - è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi di mora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano. Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta. Tassi di interesse - Il primo gennaio 2014 scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: gli uffici giudiziari applicano il 4,5%. L'ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell'1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l'ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.

Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.

Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due  presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza,  lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente  piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato  nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri  tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero.  E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà  lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e  condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali.  Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari.  Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.

La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica  villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.

Da un fatto ad un al'atro.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

"Pizzo come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina militare. Secondo l'accusa, da più di 10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e responsabili degli uffici imponevano il pizzo  alle aziende fornitrici e dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o ostacolare i pagamenti.  "Come la malavita organizzata", il pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il "sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette. I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5° reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili, assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni. La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato, compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".

Marina Militare e appalti, 7 arresti per concussione, scrive “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Un “vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all’intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell’agire della malavita organizzata”. Lo scrive il gip di Taranto Pompeo Carriere nell’ordinanza di custodia cautelare, richiesta dal pm Maurizio Carbone, notificata a 7 indagati, tra militari e civili, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti gestiti dalla Marina militare. La tangente imposta era pari al 10% dei profitti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno arrestato il vice direttore di Maricommi, due ex vice direttori, un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina Militare per concussione. In concorso tra loro – secondo l'accusa – abusando delle loro qualità e dei loro poteri, con la minaccia di ostacolare la regolare emissione dei mandati di pagamento per la esecuzione dei lavori di manutenzione e forniture di servizi e materiale loro affidati per conto della Marina militare, gli indagati hanno costretto “vari imprenditori a versare materialmente al capo del V Reparto di Maricommi, in tempi diversi, più somme di denaro non dovute per importi variabili e altre utilità, per un valore complessivamente comunque equivalente al 10% circa dei profitti derivanti dai servizi svolti”. Somme che il capo reparto, precisa una nota dei carabinieri, “provvedeva a distribuire successivamente in diverse parti percentuali secondo gli accordi tra loro intervenuti”.

Gip: imponevano «pizzo» come malavitosi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E' in corso, nelle provincie di Taranto, Roma e Napoli, l’esecuzione, da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto, di sette ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip su richiesta della locale Procura della Repubblica. Le misure restrittive e contestuali perquisizioni vedono fra i destinatari appartenenti della Marina Militare fra i quali Ufficiali, Sottufficiali e personale civile, ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di concussione nell’ambito di appalti in favore dell’ente. L'inchiesta, avviata dopo la denuncia presentata da un imprenditore che sosteneva di aver pagato tangenti in relazione ad un appalto, sfociò il 12 marzo 2014 nell’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, comandante del quinto reparto di Maricommi, che si occupava di contratti e appalti. L'ufficiale fu bloccato dopo aver ricevuto una busta con 2mila euro dall’imprenditore, che rappresentava – secondo l'accusa – una tranche di una tangente imposta per emettere i mandati di pagamento nei confronti della sua azienda. Il sospetto degli investigatori è che il militare abbia chiesto una tangente del 10 per cento. I carabinieri successivamente perquisirono l’appartamento e l’ufficio di La Gioia trovando altro denaro ritenuto frutto della concussione. Furono sequestrate anche due pen drive dell’arrestato, in cui furono scoperti file con un elenco di imprese. Accanto a ognuna di esse era riportato il valore dell’appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti. Sono cinque ufficiali in servizio a Napoli, Roma e Taranto, un sottufficiale e un impiegato, entrambi in servizio a Taranto, le sette persone portate in carcere dai carabinieri nell’ambito dell’indagine sulle tangenti imposte sugli appalti della Marina Militare. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Sono tutti indagati in concorso con il capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, ex responsabile di Maricommi, arrestato il 12 marzo del 2104 ed attualmente e sottoposto all’obbligo di firma. L’ufficiale fu indagato per concussione nei confronti di una serie di imprenditori locali, assegnatari di servizi per conto della Pubblica Amministrazione nell’ambito degli appalti gestiti dalla direzione di Commissariato per la Marina Militare di Taranto. Al graduato fu sequestrata una somma di denaro contante, suddivisa in singole mazzette, per un ammontare complessivo pari a 44mila euro. Il gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita oggi che il sistema ideato dagli indagati faceva sì che gli imprenditori concussi fossero vittime di una “vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all’altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito”.

Ma non è la prima volta.

Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona: trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli, attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti. L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle navi militari.

E poi....

Denuncia un concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari, accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli, il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore, possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro, ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo. Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino, vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli, noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di Economia dell’università di Bari.

Concorso Università a Bari: 11 indagati tra cui 4 professori, scrive Massimiliano Scagliarini “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una dottoranda con il registratore sempre acceso in tasca e un concorso da ricercatore in Diritto commerciale annullato dal Consiglio di Stato. Un calderone di vita universitaria che ha scatenato una guerra tra Procure, coinvolgendo 11 persone (tra cui 4 docenti) che oggi si ritrovano indagati con l’accusa di aver truccato non solo le selezioni, ma persino l’assegnazione degli incarichi gratuiti di supplenza. Il punto è che la dottoranda Monica Bruno, che dal 2009 ha inviato diverse denunce sulla questione, è moglie di un magistrato di Taranto, Ciro Fiore, all’epoca dei fatti gip nel Tribunale jonico ed oggi trasferito al Minorile. A febbraio il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione delle accuse per una parte dei fatti, ma a inizio giugno il pm di Taranto, Remo Epifani, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini ad 11 persone: oltre ai commissari del concorso annullato, nell’elenco ci sono il vincitore, Giuseppe Sanseverino, 46 anni, di Massafra, ed i docenti baresi Gianvito Giannelli, 54 anni, e Ugo Patroni Griffi, 48 anni. Ce n’è abbastanza per parlare di liti in famiglia. Anche perché Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, della Bruno è stato non solo tutor ma anche testimone di nozze. E Giannelli, ultimamente molto noto alle cronache per l’incarico di curatore fallimentare del Bari calcio, è a sua volta sposato con un sostituto procuratore. Ma quando la commissione che doveva nominare un ricercatore in Diritto commerciale ha prescelto Sanseverino rispetto agli altri tre partecipanti (tra cui c’erano il figlio del professor Giorgio Costantino e la figlia della professoressa Eda Lofoco), la dottoressa Bruno ha preso carta e penna e con l’avvocato Carlo Raffo ha denunciato una serie di presunte irregolarità, arrivando a formulare persino i capi di imputazione: nell’avviso di conclusione delle indagini la procura di Taranto li ha ripresi quasi tutti, e quasi parola per parola. In particolare, la Bruno ha denunciato quello che lei stessa chiama il «metodo del cappello» per l’assegnazione delle supplenze: il professor Patroni Griffi (che per questo è accusato di truffa e falso ideologico) avrebbe presentato domanda salvo poi ritirarla all’ultimo momento, avvantaggiando così - questa è la tesi - il dottor Sanseverino. Un punto su cui la procura di Bari, chiedendo l’archiviazione, aveva però espresso un’opinione contraria: semplicemente perché anche in quei casi Sanseverino poteva comunque vantare i titoli migliori dell’unica altra candidata. Il concorso per ricercatore del 2009, che a breve dovrà essere ripetuto con una nuova commissione e presumibilmente vedrà di nuovo la Bruno ai blocchi di partenza, è stato annullato sulla base di una decisione della giustizia amministrativa sulla valutazione comparativa dei titoli. Per questo la procura di Taranto accusa di abuso d’ufficio sia Sanseverino sia i commissari, tra cui oltre a Giannelli ci sono il bolognese Filippo Paolucci e il campano Ermanno Bocchini. Ma soprattutto, nei guai dopo le denunce (e le registrazioni) della Bruno sono finiti alcuni suoi ex colleghi dottorandi, accusati di favoreggiamento aggravato per aver negato ciò che probabilmente hanno detto a proposito del concorso mentre non sapevano di essere intercettati. Al di là dei docenti di ruolo, il vero beffato di tutta questa storia finora è proprio Sanseverino, che oltre a non aver ottenuto il posto è accusato anche di aver «barato» nel curriculum. Sanseverino ha depositato in procura una lunga memoria, in cui esamina in dettaglio i propri titoli accademici, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, ma passa anche al contrattacco nei confronti della Bruno: ha infatti documentato che la collega, mentre percepiva l’assegno di dottorato da parte dell’Università di Bari, continuava a svolgere l’attività professionale di revisore dei conti. Nel frattempo il dossier di Sanseverino è finito alla Corte dei Conti: questa storia non finirà mai...

Concorso all'Università, 11 indagati illustri. "Truccarono le carte". La selezione per il posto di ricercatore in diritto commerciale internazionale, la procura di Bari archivia, Taranto verso il giudizio. Il Consiglio di Stato annulla la prova, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Un concorso universitario. Undici indagati illustri. Un dibattito tra due procure, quella di Taranto e quella di Bari, che sullo stesso fatto hanno opinioni diverse: a Bari archiviano, nel capoluogo jonico sono pronti ad andare a giudizio. La storia è quella del concorso da ricercatore in diritto commerciale internazionale bandito dall'università di Bari per la sede di Taranto. La selezione viene vinta dal professor Giuseppe Sanseverino. Ma una delle partecipanti, Monica Bruno, non ci sta e presenta il ricorso amministrativo: il Tar le dà torto mentre il Consiglio di Stato ribalta la sentenza e di fatto annulla la prova che infatti si sta rifacendo in queste settimane. Non è chiaro, dicono i giudici amministrativi, in una sentenza in cui parlano tra le altre cose di "eccesso di potere", quali criteri abbia utilizzato la commissione per "sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato", dunque è tutto da rifare.  Il giudizio amministrativo però rappresenta soltanto una fetta di questa storia. La Bruno ha presentato un corposissimo esposto in procura, preparando persino i capi di imputazione. In un primo momento Taranto ha inviato gli atti a Bari, iscrivendo nel registro degli indagati ventinove persone, cioè tutto il consiglio di dipartimento. Con un provvedimento del 26 febbraio del 2014 firmato dal sostituto Luciana Silvestris e dall'aggiunto Giorgio Lino Bruno, Bari però archivia il reato di falso inizialmente ipotizzato. E rimanda le carte a Taranto per ulteriori valutazioni. Nei giorni scorsi la doccia fredda: il pm di Taranto Remo Epifani ha fatto notificare a undici persone un avviso di garanzia. E' indagata l'intera commissione di esame composta dai professori Gianvito Giannelli, Luigi Paolucci ed Ermanno Bocchino. L'accusa è di falso e abuso di ufficio perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al candidato Sanseverino in concorso con il quale agivano, consentendogli il positivo superamento della procedura di valutazione contributiva. Cagionano così un danno ingiusto alla candidata Bruno". Non solo: dice il pm che ci sono anche dei falsi compiuti per "riconoscere al Sanserverino titoli preferenziali inesistenti" per "formulare giudizi favorevoli su pubblicazioni che non potevano essere valutate", il tutto chiaramente per consentire al professore di vincere la prova a scapito della Santoro. Nell'inchiesta è indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi che però non faceva parte della commissione ma che è accusato dalla Santoro e dalla procura di aver favorito Sanseverino, perché suo allievo. Agli atti sono state depositate alcune intercettazioni fatte dalla stessa Santoro nella quale altri docenti, ora iscritti nel registro degli indagati (gli altri sono i professori Ermanno Bocchini, Luigi Paolucci, Anna Zaccaria, Francesco Sporta Caputi, Laura Tafaro, Giuditta Lagonigro, Rosa Calderazzi e Francesco Costantino) raccontavano alla collega di sapere che Sanseverino avrebbe dovuto vincere il concorso perché "aveva dei titoli fortissimi". Sanseverino a sua volta è passato al contrattacco depositando una memoria contro la Bruno (moglie del magistrato Ciro Fiore scrive nella memoria) nella quale fa notare tra le altre cose che la collega avrebbe ricevuto un assegno di ricerca mentre svolgeva altri ruoli, tra i quali “perizie contabili e societarie, curatele fallimentari e procedimenti penali” presso gli uffici giudiziari tarantini. Eppure al titolare dell'assegno è "inibito lo svolgimento - dice Sanseverino - in modo continuativo di rapporti di lavoro nonché l'esercizio di attività libero professionali". Oltre questo c'è poi la questione amministrativa. Come detto il Consiglio di Stato ha annullato il concorso perché la commissione avrebbe favorito Sanseverino a scapito della Bruno. 'Confrontando le relative attività di ricerca - si legge infatti nella sentenza emerge, in termini oggettivi, un dato di prevalenza per la dottoressa Bruno". Dopo la decisione dei giudici amministrativi è stata formata una nuova commissione che però ha interrotto i lavori. La Santoro ha mandato loro una diffida, spiegando che avrebbero dovuto rivalutare soltanto i suoi titoli e quelli di Sanseverino e non quelli di tutti gli altri candidati. Una teoria che non ha convinto però il rettore, Antonio Uricchio, che infatti ha chiesto un parere al Consiglio di Stato per capire come comportarsi ed è in attesa di ricevere una risposta. Per il momento il concorso è bloccato. Intanto però l'avviso è diventato un caso in ambito accademico. Anche se tutte le persone coinvolte si dicono serenissime. Se da una parte il legale di Patroni Griffi, Ugo Paliero, si dice sicurissimo di chiarire tutto in tempi stretti anche vista la "posizione marginale" del suo assistito, il difensore del professor Giannelli, Vito Mormando spiega: "I rilievi che gli vengono mossi fanno riferimento a presunte e opinabili irregolarità amministrative, tra l'altro già travolte dalla sentenza del Tar e dal decreto di approvazione degli atti da parte del rettore. Comunque un dato è pacifico: il concorso si è svolto presso l'università di Bari. La competenza non è tarantina".

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.

La mappa anche le guardie fanno i ladri. Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA. Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università. Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie? La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”. La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.

Una macchina senza benzina. Che non va avanti. Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”. A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.

L’authority chiama in causa la politica. Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.

Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza. Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni.

Consiglieri, commessi e segretari. Ecco il Parlamento dei parenti. La burocrazia più ricca di intrecci familiari d’Italia? È quella delle Camere. Legami L’ex tesoriere della Margherita Lusi aveva il fratello in Senato e il cognato alla Camera, scrive Sergio Rizzo “Il Corriere della Sera”. Chi guarda con apprensione alla fusione fra le amministrazioni di Camera e Senato, per possibili traumi o crisi di rigetto, si può tranquillizzare. Il ruolo unico è già stato realizzato, con reciproca soddisfazione, per via familiare. La recente nomina all’impegnativo incarico di segretario generale di Montecitorio di Lucia Pagano, figlia dell’ex consigliere della Camera Rodolfo Pagano e moglie del nuovo capo dell’informatica di Palazzo Madama, Mauro Fioroni, ne è la certificazione più limpida. In Italia non esiste burocrazia con intrecci parentali e dinastici così diffusi e profondi come in quella del Parlamento. A tutti i livelli: da quelli più bassi ai più elevati. E altri casi, oltre a quello di Lucia Pagano, rendono bene l’idea. Il suo vice Aurelio Speziale, per esempio, è sposato con Gloria Abagnale, consigliere del Senato. Giovanni Gifuni, consigliere della Camera, è figlio dell’ex potentissimo segretario generale di Palazzo Madama Gaetano Gifuni. Mentre l’ex vicesegretario generale della Camera Carlo Goracci è il papà di Alessandro Goracci, alto funzionario del Senato. E se il padre di Ugo Zampetti, fino a qualche giorno fa capo indiscusso della burocrazia di Montecitorio, era il responsabile della biblioteca di Palazzo Madama, quello dell’attuale segretario generale del Senato Elisabetta Serafin era solo un commesso. Commesso come anche il papà di Daniela D’Ottavio, consigliera d’Aula. A dimostrazione del fatto che l’ascensore sociale, fermo ormai ovunque, qui non è mai andato in manutenzione. «vietato» Anche se qualche volta s’inceppa. Figlio di un ex consigliere della Camera, Fabrizio Castaldi ne sarebbe diventato a 43 anni uno dei segretari generali più giovani di sempre se la sua candidatura non fosse naufragata in extremis. Come quella di Giacomo Lasorella, incidentalmente fratello della giornalista Rai Carmen Lasorella. E quella del possibile terzo incomodo Costantino Rizzuto Csaky, consorte di Maria Teresa Stella, consigliera della Camera al servizio biblioteca. Parentela, quest’ultima, che ci riporta a un illustre caso del passato. Fece scalpore, cinquant’anni orsono, il matrimonio fra Antonio Michela-Zucco, nipote dell’omonimo inventore della rivoluzionaria macchina di stenotipia, e Magda Sammartino. Erano entrambi stenografi del Senato e la cosa venne considerata causa di incompatibilità. Per rimuoverla fu deciso il trasferimento della moglie alla Camera. Dove Magda Sammartino fu protagonista di una splendida carriera arrivando, prima donna nella storia, all’incarico di vicesegretario generale. Ma erano altri tempi. i Oggi la presenza di coniugi nelle stanze dei bottoni della stessa amministrazione non scandalizza più davvero nessuno. Marito e moglie sono il capo servizio controllo parlamentare Carlo Lomaglio e la direttrice dell’ufficio pubblicazioni della Camera Consuelo Amato: figlia del magistrato ed ex capo dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. Marito e moglie sono Stefano Cicconetti, dirigente di Montecitorio ora in pensione, e la sua collega ancora in servizio Maria Teresa Calabrò: figlia del potentissimo ex presidente del Tar Lazio e dell’Agcom Corrado Calabrò. Marito e moglie sono Alessandro Palanza, ex vicesegretario generale della Camera e la funzionaria Martina Mazzariol. Attualmente vicepresidente della Fondazione Italiadecide di Luciano Violante, Palanza ha guidato a lungo un’amministrazione nella quale aveva un ruolo di rilievo anche sua sorella Maria Rita. Marito e moglie sono Pietro Calandra, alto dirigente del Senato poi finito all’autorità di vigilanza dei lavori pubblici su indicazione del Pd e la funzionaria di Palazzo Madama Stefania Boscaini. Ma si potrebbe andare avanti chissà quanto, notando come il gioco degli intrecci e delle parentele non sia limitato ai soli burocrati. Dice tutto quello intorno alla funzionaria della Camera Giuliana Coppi. Figlia del principe del Foro Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, è sposata a sua volta con un altro avvocato. Non uno dei tanti. Il suo nome è Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia eletto al consiglio superiore della magistratura in quota al partito di Berlusconi. Si potrebbe anche ricordare come il vicesegretario della Camera Guido Letta sia il nipote di Gianni Letta e cugino di Enrico Letta. Oppure che il funzionario del Senato Luigi Ciaurro sia figlio dell’ex ministro liberale Gianfranco Ciaurro, scomparso ormai quindici anni fa. O che Valentina Loiero, figlia dell’ex governatore della Calabria Agazio Loiero, e Giulia Laganà, figlia dell’ex parlamentare del Pd Tana De Zulueta, facciano parte dello staff della presidente Laura Boldrini. La cui segreteria, peraltro, era stata per otto mesi guidata da Marco Cerase, genero di Alberto Asor Rosa, prima che venisse trasferito ad altro incarico per far posto all’astro emergente Castaldi. Come dimenticare poi che l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, ex senatore, aveva il fratello direttore del servizio del Senato, mentre suo cognato Francesco Petricone è funzionario della Camera? E che Cristiano Ceresani, un altro funzionario della Camera già vicecapo legislativo di Gaetano Quagliariello e oggi addirittura capo con il ministro Maria Elena Boschi, è il marito di Simona De Mita, quindi genero dell’ex presidente del Consiglio e attuale sindaco di Nusco Ciriaco De Mita?  

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi.    Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

COSI' HANNO TRUFFATO DI BELLA.

Travaglio: Così hanno truffato Di Bella. Dosi sballate e farmaci scaduti, la sperimentazione della cura Di Bella sarebbe viziata da gravi irregolarità, scrive "La Fucina". A quindici anni dalla fine della sperimentazione il Metodo Di Bella sta tornando a far parlare. Migliaia di pazienti si stanno rivolgendo a Giuseppe Di Bella, che sta portando avanti la terapia inventata dal padre Luigi, per essere curati. Ci sono, inoltre, migliaia di casi di guarigione e i tribunali di diverse città hanno imposto alle ASL locali di rimborsare le cure ad alcuni malati. La sperimentazione di questa terapia alternativa era stata bocciata a fine anni ’90, ma da un’indagine del PM Raffaele Guariniello era emerso che c’erano stati gravi errori nella sperimentazione. È significativo un articolo di Marco Travaglio pubblicato su Repubblica nel settembre del 2000, in cui il giornalista raccontava i lati oscuri della vicenda. Lo riportiamo di seguito: “La sperimentazione della cura Di Bella sarebbe viziata da gravi irregolarità. Peggio: alcuni dei 386 malati di cancro che provarono la “multiterapia” (Mdb) del medico modenese sarebbero stati usati come cavie, trattati con farmaci “guasti e imperfetti”, non si sa con quali effetti sulla salute. E l’ Istituto superiore di Sanità, pur sapendolo, non avrebbe avvertito 50 dei 51 ospedali d’ Italia che sperimentavano i protocolli. Sono queste le conclusioni della lunga e minuzionsa indagine aperta due anni fa dal procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello, in seguito ad alcune denunce, sulla sperimentazione nei 4 “centri di riferimento” di Torino (Molinette, San Giovanni antica sede, Mauriziano e Sant’ Anna) e nei 4 della provincia (gli ospedali di Chivasso, Orbassano, Chieri e Cirè). Un’ indagine che non entra nel merito dell’ efficacia o meno della cura, ma si limita ad analizzare la regolarità della sperimentazione. Quattro gli accusati, tutti dirigenti dell’ Istituto superiore di sanità (Iss): Roberto Raschetti e Donato Greco, coordinatori della sperimentazione del 1998, Stefania Spila Alegiani, responsabile dei preparati galenici, ed Elena Ciranni, che curava i rapporti con i vari centri clinici. Grave l’ ipotesi di reato: “somministrazione di medicinali guasti o imperfetti” (punibile, secondo l’ articolo 443 del codice penale, con la reclusione fino a 3 anni). Il direttore Giuseppe Benagiano, a suo tempo indagato, è stato poi archiviato. Nessuna responsabilità per l’ ex ministro della Sanità Rosi Bindi, sentita come testimone in gran segreto, a Roma, all’ inizio dell’ anno. I 4 indagati hanno ricevuto l’ “avviso di chiusura indagini”. Una sorta di preannuncio di rinvio a giudizio, che poi però non è arrivato: grazie alla legge Carotti, i difensori hanno chiesto e ottenuto dal Pg della Cassazione Nino Abbate il trasferimento dell’ inchiesta a Firenze. Con la curiosa motivazione che i farmaci “incriminati” li produce l’ Istituto farmacologico militare fiorentino. Inutile l’ opposizione di Guariniello il quale, sentenze della Cassazione alla mano, ha ribattuto che il 443 non punisce la produzione o la detenzione, ma la somministrazione di farmaci guasti (avvenuta, appunto, a Torino). Spetterà dunque alla Procura di Firenze – che l’ anno scorso aveva già archiviato un’ altra inchiesta sui protocolli Di Bella – trarre le conclusioni: rinviare a giudizio o chiedere l’ archiviazione. Tutto dipenderà dall’ interpretazione delle irregolarità emerse a Torino: errori in buona fede o condotte dolose? Per Guariniello, la prova del dolo sarebbe in una lettera inviata nel ‘ 98 a un ospedale romano, che chiedeva lumi sulla conservazione e la composizione delle “soluzioni ai retinoidi” previste per i protocolli 1 e 9. Nella lettera i dirigenti dell’ Iss precisavano che quelle sostanze hanno una “validità” di soli 3 mesi, dopo di che “scadono” e vanno buttate. Peccato che la stessa direttiva non sia stata diramata agli altri 50 ospedali che sperimentavano la cura. E che infatti continuarono, ignari di tutto, a somministrare quelle soluzioni ampiamente scadute (addirittura vecchie di 4, 5, 9 mesi) e “deteriorate”. Non solo: un gravissimo errore tecnico avrebbe dimezzato il quantitativo di un componente, un principio attivo, fondamentale per l’ efficacia di quelle soluzioni: l’ “axeroftolo palmitato”. In pratica, per i due protocolli, quella sperimentata non era la multiterapia Di Bella, ma una “variazione sul tema” non dichiarata. Così com’ era emerso nel ‘ 98 per altri due protocolli, frettolosamente ritirati dopo che Guariniello vi aveva scoperto alcune sostanze mancanti e alcune altre (come il tamoxifene del professor Umberto Veronesi) aggiunte da una mano misteriosa. Ma quel capitolo è ancora aperto. A Torino.”

GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?

Cassazione su Ilva: «Giudici tarantini senza condizionamenti», scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.  Il processo sull’inquinamento provocato dall’Ilva si può tranquillamente e legittimamente fare a Taranto perché «non c’è una grave situazione locale tale da condizionarlo» e perché «l’esito non riguarderà il futuro produttivo dello stabilimento siderurgico e dunque anche quello economico-sociale di Taranto ma la condotta di singoli imputati». I provvedimenti adottati dai magistrati tarantini che finora si sono occupati della vicenda «non sono stati il frutto del condizionamento operato da una «grave situazione locale», ma rappresentano piuttosto l'espressione fisiologica dell'esercizio della funzione giudiziaria e non denotano in alcun modo mancanza di imparzialità dell'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo medesimo». La prima sezione penale della Corte di Cassazione ha depositato le 15 pagine di motivazioni con le quali lo scorso 7 ottobre ha respinto l’istanza di rimessione proposta da 15 dei 52 imputati del processo «Ambiente svenduto». Il collegio presieduto da Umberto Giordano (consigliere relatore Margherita Cassano) ha sostanzialmente accolta la tesi del sostituto procuratore generale Enrico Delehaye e della stessa Procura di Taranto che aveva sollecitato, inviando una memoria firmata dal procuratore capo Franco Sebastio e dagli aggiunti che si sono occupati dell’indagine, la permanenza del processo a Taranto. A rivolgersi alla suprema corte erano state le società Riva Fire (guidata da Claudio Riva) e Riva Forni Elettrici (presieduta da Cesare Riva), imputate ai sensi della norma che disciplina la responsabilità giuridica delle imprese; e le persone fisiche Fabio e Nicola Riva, figli del patron Emilio morto lo scorso 30 aprile, l’ex presidente dell’Ilva Bruno Ferrante, gli ex direttori del siderurgico Luigi Capogrosso e Adolfo Buffo, i dirigenti della fabbrica Ivan Dimaggio, Salvatore D’Alò, Salvatore De Felice, Angelo Cavallo, i fiduciari del gruppo Riva Lanfranco Legnani e Giuseppe Casartelli; l’ex responsabile dell’ufficio romana Caterina Vittoria Romeo; l’ex responsabile delle relazioni esterne Girolamo Archinà. A sorpresa, però, il giorno della discussione dell’istanza, aveva aderito alla richiesta di spostamento a Potenza del processo, tramite l’avvocato Luca Sirotti, anche il commissario dell’Ilva Piero Gnudi. L’azienda, sottoposta a commissariamento dal giugno del 2013, è imputata nel procedimento per i profili penali previsti dalla legge 231 del 2001 ma Enrico Bondi, primo commissario, non aveva firmato l’istanza di rimessione. Gnudi, nominato lo scorso giugno dal governo Renzi, aveva evidentemente deciso diversamente dal suo predecessore, dando mandato al suo legale di appoggiare la richiesta di spostamento del processo, con argomenti molto critici nei confronti del gip Patrizia Todisco e del gup Vilma Gilli. I giudici della Suprema Corte però hanno ritenute viziate le argomentazioni dei proponenti che «muovendo da indimostrate inferenze totalizzanti, valorizzano una logica presuntiva e dubita dell'imparzialità di un intero ufficio giudiziario non sulla base di fatti verificabili, ma di mere congetture che non trovano riscontro in circostanze obiettive». La Cassazione tornerà ad occuparsi di «Ambiente svenduto» il 4 febbraio, esaminando l’istanza di ricusazione del gup Vilma Gilli presentata dall’avvocato Michele Rossetti, legale dell’ex assessore provinciale Michele Conserva, uno dei 52 imputati.

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera.

Cassazione su Ilva: «Giudici tarantini senza condizionamenti», scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.  Il processo sull’inquinamento provocato dall’Ilva si può tranquillamente e legittimamente fare a Taranto perché «non c’è una grave situazione locale tale da condizionarlo» e perché «l’esito non riguarderà il futuro produttivo dello stabilimento siderurgico e dunque anche quello economico-sociale di Taranto ma la condotta di singoli imputati». I provvedimenti adottati dai magistrati tarantini che finora si sono occupati della vicenda «non sono stati il frutto del condizionamento operato da una «grave situazione locale», ma rappresentano piuttosto l'espressione fisiologica dell'esercizio della funzione giudiziaria e non denotano in alcun modo mancanza di imparzialità dell'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo medesimo». La prima sezione penale della Corte di Cassazione ha depositato le 15 pagine di motivazioni con le quali lo scorso 7 ottobre ha respinto l’istanza di rimessione proposta da 15 dei 52 imputati del processo «Ambiente svenduto». Il collegio presieduto da Umberto Giordano (consigliere relatore Margherita Cassano) ha sostanzialmente accolta la tesi del sostituto procuratore generale Enrico Delehaye e della stessa Procura di Taranto che aveva sollecitato, inviando una memoria firmata dal procuratore capo Franco Sebastio e dagli aggiunti che si sono occupati dell’indagine, la permanenza del processo a Taranto. A rivolgersi alla suprema corte erano state le società Riva Fire (guidata da Claudio Riva) e Riva Forni Elettrici (presieduta da Cesare Riva), imputate ai sensi della norma che disciplina la responsabilità giuridica delle imprese; e le persone fisiche Fabio e Nicola Riva, figli del patron Emilio morto lo scorso 30 aprile, l’ex presidente dell’Ilva Bruno Ferrante, gli ex direttori del siderurgico Luigi Capogrosso e Adolfo Buffo, i dirigenti della fabbrica Ivan Dimaggio, Salvatore D’Alò, Salvatore De Felice, Angelo Cavallo, i fiduciari del gruppo Riva Lanfranco Legnani e Giuseppe Casartelli; l’ex responsabile dell’ufficio romana Caterina Vittoria Romeo; l’ex responsabile delle relazioni esterne Girolamo Archinà. A sorpresa, però, il giorno della discussione dell’istanza, aveva aderito alla richiesta di spostamento a Potenza del processo, tramite l’avvocato Luca Sirotti, anche il commissario dell’Ilva Piero Gnudi. L’azienda, sottoposta a commissariamento dal giugno del 2013, è imputata nel procedimento per i profili penali previsti dalla legge 231 del 2001 ma Enrico Bondi, primo commissario, non aveva firmato l’istanza di rimessione. Gnudi, nominato lo scorso giugno dal governo Renzi, aveva evidentemente deciso diversamente dal suo predecessore, dando mandato al suo legale di appoggiare la richiesta di spostamento del processo, con argomenti molto critici nei confronti del gip Patrizia Todisco e del gup Vilma Gilli. I giudici della Suprema Corte però hanno ritenute viziate le argomentazioni dei proponenti che «muovendo da indimostrate inferenze totalizzanti, valorizzano una logica presuntiva e dubita dell'imparzialità di un intero ufficio giudiziario non sulla base di fatti verificabili, ma di mere congetture che non trovano riscontro in circostanze obiettive». La Cassazione tornerà ad occuparsi di «Ambiente svenduto» il 4 febbraio, esaminando l’istanza di ricusazione del gup Vilma Gilli presentata dall’avvocato Michele Rossetti, legale dell’ex assessore provinciale Michele Conserva, uno dei 52 imputati.

Lo chiediamo al dr Antonio Giangrande, sociologo storico che sul tema ha scritto : “Malagiustiziopoli. Ingiustizia contro la collettività”, ovvero “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”.

«E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com, CreateSpace.com. Il processo all’Ilva resterà a Taranto e non sarà trasferito a Potenza: lo ha deciso la Corte di Cassazione la sera del 7 ottobre 2014. A presentare la richiesta di rimessione ad altra sede, per legittimo sospetto, erano stati i difensori di alcuni dei 52 imputati per disastro ambientale. I legali di Riva Fire, Ilva spa e di 13 imputati (tra i quali gli avvocati Franco Coppi, Francesco Mucciarelli, Adriano Raffaelli, Nerio Diodà, Stefano Goldstein e Marco De Luca) avevano depositato l’istanza il 5 giugno 2014. Il rigetto è avvenuto il 7 ottobre 2014. In poco meno di 200 pagine, i legali avevano cercato di far perno sull'articolo 45 del codice di procedura penale. Ovvero, come recita l’articolo, "la sicurezza o l'incolumità pubblica", o ancora "la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo sono pregiudicate da gravi situazioni locali" che possono turbare lo svolgimento del processo stesso e non sono neppure eliminabili. Ovvero per “legittimo sospetto”. Dopo l’annuncio i colpevolisti hanno festeggiato, pensando di trovare a Taranto un humus giudiziario favorevole per le loro aspettative. Ma quale è la notizia? Il rigetto scontato dell’istanza? Non ne era convinto del buon esito il buon Franco Coppi, che già ci aveva provato per Sabrina Misseri per il processo sul delitto di Sarah Scazzi. Ma ciò non gli ha impedito di presentare l’istanza insieme agli altri legali. Tarantini non lo sono e per questo hanno avuto il coraggio di presentare l’istanza di rimessione per legittimo sospetto che i magistrati del foro di Taranto non potessero essere sereni per il clima generato dalle campagne di stampa che hanno sobillato l’opinione pubblica. Quella stampa che prima era prona alla grande industria e come escort foraggiata. In attesa delle ovvie motivazioni degli ermellini, i giornalisti, degni di tale titolo facciano una ricerca approfondita dei precedenti ricorsi di Rimessione fatti in tutta Italia. Se non vi è capacità o volontà possono sempre attingere ai miei saggi di inchiesta: “Malagiustiziopoli. Ingiustizia contro la collettività”, ovvero “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”. Il tema è stato trattato e ci si accorgerà che la legge Cirami mai è stata applicata. Perché la legge si applica per i poveri cristi e si interpreta per i poteri forti, specie se corporativi. Una norma disapplicata in abuso di potere ed a spregio dei diritti di difesa.

“L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state solo due.»

Di queste due istanze accolte, però, non ve ne si trova traccia per farne un attendibile riferimento.

Il collegio della prima sezione penale è stato presieduto da Umberto Giordano, consigliere relatore Margherita Cassano che entro trenta giorni, circa, depositerà i motivi del «no» al trasloco del processo Ilva. Senza successo, quindi, i difensori degli imputati - tra i quali il professor Franco Coppi - hanno sostenuto che i giudici tarantini non sarebbero sereni nell’affrontare una vicenda che coinvolge tanta popolazione della città pugliese dove sorgono gli insediamenti dell’acciaieria che riversa le sue polveri sui quartieri vicino agli stabilimenti.

Via libera al Gup Vilma Gilli, allora. Alla sbarra compaiono non solo i vertici Ilva, accusati di aver creato un’associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale della città, ma anche politici, amministratori, funzionari regionali e del ministero dell’Ambiente: dal presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, all’ex presidente della Provincia di Taranto, Gianni Florido, al sindaco della città, Ippazio Stefano, per arrivare ad avvocati (c'è anche un legale Ilva), un poliziotto, un carabiniere e un sacerdote.

Per i manettari: Tutti dentro!!

L’accusa è portata dalla Procura della Repubblica di Taranto, guidata da Franco Sebastio, al quale sono affiancati in questa inchiesta il procuratore aggiunto, Pietro Argentino, e quattro sostituti procuratori.

Da ricordare che mina la credibilità del pool d’accusa l’indagine della procura di Potenza a carico di Pietro Argentino per falsa testimonianza, come tutti sanno, per una deposizione resa a favore del’ex Pm di Taranto Matteo di Giorgio, condannato a 15 anni di carcere dal Tribunale di Potenza.

Come ne sono tutti a conoscenza del conflitto interpersonale tra Sebastio ed Argentino. Nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino.

Quindi un iter giudiziario travagliato che, data la mia esperienza, mi permette, così come ho fatto per il processo Sarah Scazzi, di prevederne il finale: condanna per tutti, salvo prescrizione».

In Italia si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. La Corte di Cassazione – Supremo Organo di Giustizia Italiana – rigetta sistematicamente ogni istanza di rimessione dei processi per legittimo sospetto e ogni richiesta di ricusazione presentata dall’imputato per grave inimicizia con il magistrato che lo giudica. La Corte di Cassazione non applica mai le norme per il giusto processo e, sistematicamente, non solleva mai dalla sua funzione il giudice naturale, anche quando questo non è sereno nel dare i suoi giudizi.

Sarah Scazzi: perché il processo resta a Taranto, scrive Diana De Martino su “Golem Informazione”. In più occasioni la Cassazione ha ricordato come non solo le campagne di stampa, ma anche le pressioni dell’opinione pubblica, non sono di per sé idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice. L’omicidio di Sarah Scazzi è uno di quegli eventi delittuosi che, per una serie di ragioni non tutte comprensibili, ha assunto una dimensione di enorme rilievo sugli organi di informazione, e di riflesso sull’opinione pubblica. Proprio tale abnorme interesse mediatico è stato posto alla base dell’istanza di rimessione presentata dalla difesa di Sabrina Misseri, come è noto imputata assieme alla madre Cosima Serrano, dell’omicidio della giovane Sarah. In sostanza i difensori hanno sostenuto che la campagna di stampa tuttora in corso, dai toni quanto mai accesi ed astiosi nei confronti delle imputate, nonché la pressione dell’opinione pubblica pesantemente schierata per la colpevolezza delle 2 donne, avevano determinato un oggettivo condizionamento nelle attività del Pubblico Ministero e nelle valutazioni del GIP nonché del Tribunale del Riesame di Taranto. A fondamento di tale prospettazione la difesa riepilogava una serie di anomalie riscontrate nell’attività della Procura quali la mancanza di vaglio critico degli interrogatori in cui Michele Misseri, modificando l’originaria versione, aveva accusato la figlia Sabrina; la mancata considerazione delle successive ritrattazioni di tali accuse; l’affidamento di ulteriori consulenze finalizzate ad allineare le conclusioni tecniche con le nuove prospettazioni accusatorie; le iniziative assunte nei confronti dei precedenti difensori di Sabrina Misseri, indagati per fatti inerenti all’esercizio del mandato difensivo; le limitazioni alla corrispondenza dei detenuti Michele e Sabrina Misseri nonché la perquisizione nella cella del Misseri e il sequestro di tutta la corrispondenza rinvenuta. L’attività inquirente era stata orientata, secondo la difesa, dal forte condizionamento che la Procura aveva subito di fronte ad un opinione pubblica ormai schierata contro Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Ma tale inquinamento si era esteso agli uffici giudicanti cosicché, ad avviso della difesa, proprio tale pesante condizionamento spiegava la revoca della misura cautelare nei confronti di Michele Misseri, che pure in numerose interviste continuava a proclamarsi l’unico responsabile dell’omicidio di Sarah Scazzi. L’istanza di rimessione formulata sulla base di tali elementi è stata rigettata dalla Corte di Cassazione, con una motivazione a mio avviso del tutto condivisibile, che mette in luce i vari profili di infondatezza degli argomenti difensivi. Va premesso che l’istituto della rimessione, previsto dall’art. 45 del c.p.p., ha la finalità di garantire l’imparzialità e l’indipendenza del giudice nonché l’inviolabilità del diritto di difesa. In pratica la norma stabilisce che quando, per gravi situazioni ambientali, si presenti come probabile un condizionamento dei giudici, che non potrebbero dunque determinarsi in piena libertà ed indipendenza, il procedimento debba essere trasferiti ad altra sede. Si tratta peraltro di uno strumento eccezionale, che non tollera interpretazioni estensive in quanto la conseguente “translatio iudicii” va a collidere con un altro principio costituzionale ovvero quello del giudice naturale. La prima osservazione che deve essere fatta è che le “gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo” devono anche essere “non altrimenti eliminabili”. Ciò vuol dire che vengono in rilievo non l’imparzialità o l’indipendenza del singolo giudice o dello specifico collegio, perché in tali ipotesi sono previsti gli abituali strumenti dell’incompatibilità, dell’astensione e della ricusazione, tutti meccanismi destinati ad eliminare le situazioni che possono incidere sulla libertà di autodeterminazione e sull’indipendenza del singolo magistrato, senza incidere sul principio del “giudice naturale”. Perciò le “gravi situazioni locali” a cui fa riferimento la norma, e che legittimano il trasferimento del processo ad altra sede, devono essere tali da pregiudicare la libertà di determinazione del complessivo ufficio giudiziario. L’art. 45 c.p.p. dunque autorizza lo spostamento del processo nel caso in cui emerga che la grave situazione ambientale, alternativamente:

1) pregiudichi la libera determinazione delle persone che partecipano al processo;

2) metta in pericolo la sicurezza o l’incolumità pubblica;

3) determini motivi di legittimo sospetto.

Nella vicenda in esame si evidenzierebbero – secondo la prospettazione difensiva – le ipotesi di cui alle lettere a) e c). Al riguardo la giurisprudenza ha in più occasioni specificato che il pregiudizio alla libertà di determinazione degli attori del processo implica l’idea di una vera e propria coazione, fisica o psichica; mentre il legittimo sospetto coinvolge la probabilità, fondata su dati obiettivi e concreti, che risulti compromessa l’imparzialità di giudizio. In sostanza, poiché l’istituto della rimessione serve ad assicurare che il giudizio si svolga secondo gli irrinunciabili criteri di libertà e di indipendenza, esso può essere attivato soltanto in via eccezionale, quando, sulla base di elementi concreti, si possa ipotizzare che il giudice sia coartato fisicamente o psichicamente ad una determinata decisione ovvero vi sia il pericolo che possa essere condizionato.

Non sembra che tale situazione possa ravvisarsi a proposito del procedimento relativo all’omicidio di Sarah Scazzi per i seguenti motivi:

- in primo luogo la situazione che sarebbe alla base del sovvertimento del regolare svolgimento delle dinamiche processuali non è una situazione locale bensì nazionale. Proprio il clamore sulla stampa e sui mezzi televisivi - richiamato dalla difesa - ha evidentemente una ricaduta non sulla realtà del distretto di Taranto bensì su tutto il territorio nazionale: i talk show, i telegiornali, le interviste sui quotidiani, gli stessi social-network raggiungono ogni parte del territorio nazionale, cosicché lo spostamento del processo presso l’ufficio giudiziario di Bari (ai sensi dell’art. 11, richiamato dall’art. 45 c.p.p.) non risolverebbe in alcun modo la situazione di potenziale condizionamento.

- in secondo luogo, tale potenziale condizionamento dei magistrati di Taranto non è stato in alcun modo provato. Ed infatti gli argomenti evidenziati a tale proposito dalla difesa, da cui emergerebbe che l’attività inquirente è stata svolta con una sorta di accanimento o di “interpretazione meramente congetturale e illogica” delle emergenze, rappresentano in realtà - come la Cassazione ha riconosciuto - l’espletamento delle funzioni che l’ufficio di Procura è chiamato a condurre istituzionalmente. Analogamente i provvedimenti giurisdizionali indicati dalla difesa come “l’espressione di un pesante condizionamento ed inquinamento dell’attività giurisdizionale” non sono altro che le motivate e ponderate valutazioni dell’organo giudicante.

Si ha anzi l’impressione che la difesa tenti di ottenere – tramite l’istanza di rimessione – una nuova valutazione degli elementi posti alla base delle misure cautelari, in tale sede non consentita. È evidente che nel successivo corso processuale, il complessivo compendio probatorio dovrà essere sottoposto ad un vaglio particolarmente stringente in relazione alle varie ricostruzioni del delitto emerse nella fase di indagine, ma certo l’eventuale rivisitazione degli elementi emersi spetterà alla Corte d’Assise e non alla Cassazione, né può essere veicolata da un’istanza di rimessione.

Resta da aggiungere che in più occasioni la Cassazione ha ricordato come non solo le campagne di stampa, ma anche le pressioni dell’opinione pubblica, non sono di per sé idonee a condizionare la libertà di determinazione del giudice.

Ed infatti chi svolge funzioni giudiziarie è abituato a compiere scelte ed attività che sono oggetto di attenzione da parte dell’opinione pubblica, e spesso di critica anche esasperata. Ma il giudice non per questo svolge le sue funzioni con un’indipendenza menomata o con un giudizio minato da imparzialità.

Sarah Scazzi. Mentre la Cassazione lascia il processo a Taranto in procura ci si interroga per capire qual è il sogno migliore, scrive Massimo Prati su “Volando Contro Vento”. Volevate il processo a Potenza? Per quale motivo visto che a Taranto, a parte il tribunale invivibile in estate (ma le udienze sono iniziate e siamo solo in autunno), si sta benissimo? E vero, a Potenza l'aria è  fresca e si è meno ossessionati, ma vuoi mettere il gustarsi il mare in inverno? Quindi si resta a Taranto, tutti se ne facciano una ragione perché, come ha detto il procuratore Franco Sebastio, anche fosse cambiata la sede il quadro accusatorio sarebbe rimasto invariato. Per cui, dato che il quadro rimarrà invariato ed il processo si celebrerà nel luogo di origine, dobbiamo aspettarci prima una condanna a 30 anni e poi un'assoluzione in Appello (ultimamente capitano queste cose in Italia)? Può sembrare io vada controcorrente dato che tutti i giornalisti ieri e ieri l'altro hanno scritto di una nuova vittoria delle Misseri (tutti tranne il solito noto che ha scambiato i giudici di Cassazione con quelli di Assise). E questo perché nel Palazzaccio romano si è stabilito che le decisioni dei giudici di Taranto devono essere riviste in quanto fallaci in quasi ogni punto. Ed è vero, la Cassazione ha cassato per l'ennesima volta i giudici di Taranto e, per essere onesti, li ha pure bacchettati di brutto. Ma a guardare bene il tutto non sono io ad andare controcorrente in quanto nella stessa sentenza si accreditano un sogno, basta decidersi e dire quale dei tre portati dagli inquirenti ai giudici si ritiene giusto, le testimonianze ex novo di chi in prima ed in seconda battuta aveva dato orari differenti, ed un range cronologico all'interno del quale Sarah sarebbe morta. Per lo meno si accredita la formula ed il metodo usati dai giudici nell'accettarli. E non può essere che così dato che non è compito della Cassazione andare nel dettaglio e decidere se quanto portato dalla procura ha basi solide, e ci sarà tempo e modo per l'Accusa di ribadirle a processo, le testimonianze, e cercare di farle diventare verità definitive, e ci sarà tempo e modo per la Difesa di provare a tornare alla prima tesi. Ed io credo non sia così complicato, perché se non paiono fallaci quattro testimonianze che cambiano nel tempo, inizialmente concordanti in tutto e per tutto, anticipando o spostando gli orari in modo da tornare ad essere concordanti per affrancare una nuova ricostruzione, significa che il modo di fare chiarezza è ambiguo e non idoneo ad entrare in un processo. Significa che nessun alibi portato a discolpa potrà mai ritenersi valido. E non solo a Taranto ma ovunque ed in qualsiasi processo lo si porti. Significa che ai procuratori basterà convincere chi indirettamente l'alibi l'ha fornito, meglio ancora se assecondato da chi fa tele-disinformazione, specialmente nei più seguiti programmi pomeridiani (vanno bene sia la D'Urso con gli onnipresenti avetranesi, a partire da Anna Pisanò, sia la Venier coi suoi opinionisti e psicanalisti tascabili, buoni per tutte le occasioni, escluso il Marazzita), per poter disporre di una diversa ricostruzione dei fatti, per poter disporre di un maggiore spazio temporale e di un alleato in più. E questo non è ciò che voleva chi ha scritto le tavole della legge. Non lo voleva ma è quanto avviene in Italia, ed è già avvenuto, da quando le indagini sono seguite ossessivamente dai media. Tanto che pare quasi un fatto normale, nei giorni o nei mesi, il cambiare le testimonianze acquisite. E che i giudici credano che il tempo agevoli il ricordo a me pare una presa per i fondelli bella e buona. Come può la mia mente, fra due tre o quattro mesi, ricordare meglio ciò che ha visto ieri o una settimana fa? Come può la mia mente dopo essere stata il bersaglio continuo dei programmi televisivi pregiudizievoli, programmi in cui mi hanno detto e ripetuto che i magistrati "hanno una montagna di prove così" e che quella determinata persona è un'assassina, programmi che mi hanno fatto cambiare idea sull'uomo che inizialmente ritenevo un orco ed ora ritengo manipolato, perché ha "solo" gettato il corpo della nipote in una cisterna piena d'acqua (è stato costretto il poverino)... ripeto, come può la mia mente essere tranquilla e neutrale ad ogni interrogatorio in cui mi si dice che quanto ho dichiarato precedentemente non ci sta nel quadro accusatorio già sistemato e concordante? Come può la mia mente non credere di essersi sbagliata visto che il tam tam mediatico mi continua a dire che non è quello l'orario in cui ho visto e che per essere giusto deve spostarsi di, addirittura, 35/40 minuti? Ma i giudici di Cassazione, oltre ad aver concordato con quelli di Taranto che le procedure giuridiche adottate per anticipare o spostare gli orari erano nelle regole, in un certo senso hanno reso valido, anche se in modo del tutto particolare, uno dei sogni del fioraio. Certo è che in procura devono decidere quale sogno e quale ricostruzione vogliano portare al processo, visto che al momento ne stanno utilizzando tre, ed è ora che optino per la ricostruzione che ritengono migliore. Ma qual'è la migliore? Quella della coppia Cerra/Pisanò che parla di un sequestro avvenuto in via Deledda con Sarah presa per i capelli e trascinata in casa, racconto che si dice fatto dal fiorista alla Cerra poi da questa a sua madre e da quest'ultima ai magistrati? Oppure la migliore è quella delle sorelle Scredo? In questa si è parlato di un sogno dove si diceva ci fosse stato uno strangolamento avvenuto in auto da parte di un ombra robusta dai capelli neri chiamata Sabrina Misseri. Anche nel caso in questione il tutto è partito dalle parole del fiorista, stavolta però da quelle dette alla moglie, che passando di bocca in bocca sono arrivate alla Giuseppina Scredo e sono state scoperte dagli inquirenti, grazie alle intercettazioni telefoniche, mentre la stessa le riportava alla sorella Anna. Ma non sarà che dopo averlo tolto dagli imputati del processo principale, ed averlo messo in stand-by in attesa di decisioni, verrà accettata la ricostruzione dello stesso Buccolieri che, sempre in via onirica, ha semplicemente detto di aver visto la Serrano intimare alla nipote di salire in auto? Perché c'è una enorme differenza fra una testimonianza e l'altra, è innegabile, ed a mio modo di vedere pare che nei giorni, anzi nei mesi, il racconto del fioraio sia stato ripreso da più persone e sia stato, in base a chi lo ha ascoltato e ripetuto, modificato più volte e da più bocche (il solito telefono senza fili). Ma forse la mia è una mente troppo pessimista e condizionata da quanto visto e letto nel tempo, perché la sentenza è sostanzialmente davvero favorevole alle donne ora in carcere. I giudici di Cassazione hanno scoperto quali trucchi sono stati usati da chi continuamente metteva in scena nuovi giochi di prestigio. Hanno scoperto che sarebbe potuto accadere (ma il mio è uno scrivere per assurdo) che Sabrina Misseri fosse processata e condannata due volte, visto che ha due imputazioni diverse per la stessa accusa. Hanno scoperto che non ci sono indizi validi a pronosticare una certa condanna e che, quindi, la ragazza sta in carcere da un anno in base al nulla. Hanno scoperto che non si sa ancora quale sia il luogo in cui i magistrati di Taranto vogliano collocare l'omicidio, in auto, in casa, in garage, sotto il fico, in piazza, dal fiorista? Hanno scoperto che al tribunale di Taranto dal 1987 non amano aggiornarsi sulle Leggi che periodicamente entrano a far parte del Codice Penale italiano. Hanno scoperto che non si è dato spazio alla perizia della Difesa, quella sulla localizzazione dei cellulari, preferendo non aprirla neppure e continuare con la perizia che più li agevolava. Hanno scoperto che a Taranto ci si è dimenticati di ascoltare il Misseri quando ne ha fatto richiesta ed anche dopo, sia quando ha cambiato versione che quando si è inserito agli atti un suo soliloquio, dando di questo un'interpretazione parziale senza chiedere all'occultatore cosa volesse significare in realtà con quelle parole. Hanno scoperto che non si è cercato di capire cosa intendesse dire Sabrina Misseri quando "confessava" la sua colpevolezza ad Anna Pisanò, preferendo accettare le dichiarazioni di quest'ultima senza approfondirne il significato. Hanno scoperto che non esiste motivo alcuno, i giudici di Taranto non l'hanno scritto, che spieghi la carcerazione di Cosima Serrano. Hanno scoperto che i magistrati pugliesi non sanno se questa fosse a conoscenza dello "sfrenato amore" di sua figlia nei confronti di Ivano, non ci sono risultanze che lo provino, hanno scoperto che la si è inserita nel delitto, sia avvenuto in auto oppure in casa o in qualsiasi altra parte, senza giustificarne i motivi. Perché Cosima Serrano avrebbe dovuto aiutare sua figlia ad uccidere la nipote? Per "amore di mamma"? Ed inoltre a Roma hanno capito, salvo poi chiedere ai giudici tarantini di decidere quale ricostruzione accettare (come ho scritto sopra), che non si può ascrivere alle indagate il "sequestro di persona" in base a tre modus operandi onirici differenti e difficilmente provabili. Insomma, il caos continua in quel di Taranto. Però, seppure ora i magistrati debbano mettersi in riga, studiare ed aggiornarsi maggiormente, dopo la sentenza che li ha cassati all'80% nell'animo hanno qualche speranza di condanna in più. Una nasce dai cellulari delle due arpie che il giorno successivo la scomparsa non stavano, come detto dai loro difensori, alla ricerca della nipote ma stazionavano nei pressi di una cisterna. Questo la Cassazione non l'ha cassato, ma per renderlo credibile dovranno trovare il modo di restringere il raggio d'azione della cella che ha agganciato i cellulari, al momento di una ventina di chilometri. Un'altra nasce dal fatto che a Roma non si sono permessi di entrare nello specifico, guardando solo la forma e la scrittura, ed hanno lasciato passare liscia l'affermazione che vuole l'omicidio avvenuto fra le 14.00 e le 14.40. Ciò però non significa che il delitto si sia compiuto fra le 14.05 e le 14.15 (come ha scritto il patologo e come affermano i procuratori) perché potrebbe essere avvenuto anche 25 minuti dopo e restare ugualmente in questo lasso di tempo. Perciò il dire che si possono accettare le ricostruzioni degli orari accertati dalla procura, a riguardo di quanto fatto da Sarah prima della sua morte, anche se pare una forzatura per via delle testimonianze postume, in realtà non è sbagliato. Per capirlo basta fare un ragionamento logico (come ho scritto non toccava alla Cassazione farlo o spiegarlo ma lo si farà in Assise... chi lo spiega questo al giornalista pugliese?). Gli inquirenti tarantini danno credito al dottor Strada che in perizia scrive la morte essere giunta ad un'ora dall'aver mangiato il cordon bleu. E tutto andrebbe a posto se Sarah l'avesse mangiato alle 13.10. Ma le nuove testimonianze della madre e della badante vogliono che la ragazzina lo abbia mangiato alle 13.30, dopo aver ricevuto (a suo dire) il messaggio della cugina e poco prima di prepararsi per uscire di casa (l'orario è agli Atti). Ebbene, in base a questo è capibile da tutti che l'aggressione non può essere iniziata che attorno alle 14.30, e non fra le 14.05 e le 14.15 come si ipotizza nella ricostruzione della procura (che ha inserito appositamente un sms ed una telefonata dell'amica, a cui Sarah non ha risposto, per far credere che alle 14.18 fosse già cadavere). E se l'aggressione si posiziona sulle 14,30, e con quanto portato in Cassazione (pur non volendolo dire) lo dicono i Pm che prendono come base la perizia di Luigi Strada e non io, i minuti disponibili per l'omicidio, parlo di quelli necessari a Sabrina Misseri, tornano ad essere insufficienti per lei ma sufficienti per altri. O vogliamo credere che mentre la figlia spediva e riceveva messaggi la madre faceva il "lavoro sporco"? Perché o crediamo questo o siamo bloccati dalla ricostruzione della procura. Ed a meno che i Pm non tornino da Concetta Serrano e dalla badante romena per cercare un diverso orario del pasto grazie ad altri sforzi mnemonici...

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA. CONTRO LO STRAPOTERE DELLE TOGHE (MAGISTRATI ED AVVOCATI) DISPONETE L’ISTITUZIONE DEL DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO. PROPOSTA DI LEGGE IN CALCE.

PREMESSA

Il Popolo della libertà scende in piazza sabato 11 maggio 2013 a Brescia "in difesa di Silvio Berlusconi". Alle numerose esternazioni di esponenti del suo partito su un "uso politico della giustizia" segue quella dello stesso Berlusconi: "La sentenza di ieri è davvero una provocazione preparata dalla parte politicizzata della magistratura che da vent'anni cerca di eliminarmi come principale avversario della sinistra e il rinvio a giudizio di Napoli fa parte di questo uso politico della giustizia". Da una parte vi è Silvio Berlusconi che si presenta come vittima sacrificale della magistocrazia e dall’altra il solito Marco Pannella con i suoi scioperi della fame e della sete per denunciare la detenzione dei carcerati nei canili per umani. Puntano l’indice su aspetti marginali del problema giustizia. Eppure loro sono anche quei politici che da decenni presentano le loro facce in tv. Tutto fa pensare che non gliene fotte niente a nessuno se i magistrati sono quelli che sono, pur se questi, presentandosi e differenziandosi come coloro che vengono da Marte, sono santificati dalla sinistra come unti dall’infallibilità. Tutto fa pensare che se si continua a dire che Berlusconi è una vittima della giustizia (e solo lui)  e che le celle sono troppo piccole per i detenuti, non si farà l’interesse di coloro che in carcere ci sono, sì, ma sono innocenti. Bene, Tutto questo fa pensare che dopo i proclami tutto rimarrà com’è. E tutto questo nell’imperante omertà dei media che si nascondo dietro il dito dell’ipocrisia. Volete un esempio di come un certo modo di fare comunicazione ed informazione inclini l’opinione pubblica a parlare di economia e solo di economia, come se altri problemi più importanti non attanagliassero gli italiani?

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: «Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!»

«La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera». Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.

Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".

Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»

«Per quanto concerne la remissione per motivi di legittimo sospetto occorre che i capi delle procure generali si attengano a una concezione rigorosamente ristretta dell'istituto». La circolare ministeriale che abbiamo citato non esce dagli archivi del governo Prodi e neppure dal cassetto del terribile ex procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Si tratta invece di una direttiva piuttosto chiara che il ministro fascista Dino Grandi inviava a tutti i tribunali italiani nel 1939, consigliando loro di usare la legittima suspicione con cautela. Eppure se si dà uno sguardo alla storia giudiziaria italiana, se si ritorna su quei casi in cui la legittima suspicione è stata accolta vengono i brividi e si capisce perché la legittima suspicione si trasformi nel legittimo sospetto contro giudici, pubblici ministeri, tribunali. Il caso più drammatico, più doloroso, in cui l'accettazione della legittima suspicione fece danni incalcolabili fu il processo per la strage di piazza Fontana. Non è il caso di soffermarsi più di tanto su quel buco nero della nostra storia. E' tristemente noto: la legittima suspicione riuscì a strappare il processo ai giudici di Milano in un clima golpista e lo trasferì a Catanzaro. Per trent'anni la verità sulla strage rimase sotterrata dalla collusione tra servizi, governi e apparati militari. Il processo di piazza Fontana è il caso più clamoroso ma non certo il primo. Basta scartabellare negli archivi giudiziari per trovare le vittime della legittima suspicione. A due anni dalla fine della guerra si giunge al drammatico processo per la strage di Portella delle Ginestre. Il processo viene spostato da Palermo a Viterbo: la banda di Salvatore Giuliano viene condannata ma i mandanti assolti. Nel 1963 ci imbattiamo nel disastro del Vajont: il processo da Venezia viene trasferito a L'Aquila dove la strage viene definita «evento imprevedibile» e dove governo e Enel vengono assolti. Nello stesso anno il processo per la strage di Ciaculli viene trasferito da Palermo a Catanzaro. Buscetta viene condannato ma altri mafiosi del peso di Pippò Calò se la cavano. Se si leggono gli atti dei processi per mafia si scopre che la richiesta di legittima suspicione viene utilizzata a man bassa, come una chiave magica usata per ottenere in sedi più consone assoluzioni totali o per insufficienza di prove. Il caso più clamoroso è quello di Luciano Liggio, precursore e maestro di Totò Riina. Dopo l'esordio del 1948 con l'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, Liggio nel `58 ammazza il boss concorrente Michele Navarra. Liggio viene processato ma prevale la legittima suspicione: nel processo di Bari il fondatore della corrente dei corleonesi viene assolto dal tribunale di Bari per insufficienza di prove. Un altro caso clamoroso fu quello delle schedature Fiat. Negli anni `60 fu proprio Milano il luogo in cui si celebrò il processo alla Zanzara. Quelli sopra i cinquant'anni si ricorderanno che la Zanzara era un giornalino fatto dagli studenti del Liceo Parini usato per contestare ante litteram le regole del conformismo e dell'educazione borghese. In base a denunce e lamentele della parte più reazionaria dei genitori e dell'opinione pubblica ne nacque un processo che fece grande scandalo. Per evitare che nello scandalo finisse il buon nome di qualche famiglia milanese fu invocato addirittura l'ordine pubblico e per legittima suspicione il processo finì a Genova. Nel 1989, comunque, il legislatore decide che le maglie della legittima suspicione sono troppo larghe e discrezionali e soprattutto che vengono usate come strumento per impedire la celebrazione dei processi. A spingere al cambiamento sono proprio i numerosi processi per mafia finiti con l'assoluzione per insufficienza di prove. Viene introdotta una nuova norma, quella attuale. L'introduzione di questa norma restrittiva taglia le unghie a coloro che usavano la legge come un grimaldello, ma limita anche i diritti di coloro che hanno sospetti fondati . Per tutti gli anni `90 i ricchi avvocati dei ricchissimi imputati per tangenti tentano di utilizzare la legittima suspicione per farla franca. Il caso che tutti ricordano è quello di Bettino Craxi che durante la bufera di tangentopoli chiede attraverso i suoi legali ai giudici della Cassazione di spostare da Milano i numerosi processi a suo carico. La richiesta viene presentata in tutte le sedi processuali ma viene respinta proprio perché la suprema Corte si trova a dover fare i conti con una norma restrittiva che lascia poco scampo a chi vuole fare il gioco delle tre carte.

Il 6 maggio 2013 è stata respinta l'istanza di Berlusconi di trasferimento a Brescia dei suoi processi a Milano. La richiesta di trasferimento è basata sul legittimo sospetto che ci sia un accanimento giudiziario, “un’ostilità” da parte della sede giudiziaria del capoluogo lombardo (che giudica sul caso della giovane marocchina) e da parte della Corte d’Appello, che si occupa del processo Mediaset, nei confronti del Cavaliere. In quaranta pagine, stilate dai legali e giunte in Cassazione a metà marzo, vengono rappresentate una serie di decisioni, atteggiamenti e frasi pronunciate in aula dai giudici che sarebbero la dimostrazione dell’accanimento nei confronti del leader del Pdl; tra queste le ordinanze con cui sono stati negati i legittimi impedimenti, le visite fiscali a carico di Berlusconi ricoverato al San Raffaele per uveite, la sentenza del caso Unipol dove gli non sono state concesse le attenuanti generiche, la fissazione di 4 udienze in 7 giorni nel processo Ruby, e alcune affermazioni in aula del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del presidente del collegio, Giulia Turri. Nel 2003 la richiesta di trasferire da Milano a Brescia i processi del cosiddetto filone toghe sporche (Imi-Sir/Lodo Mondadori), in cui era imputato Cesare Previti (mentre Berlusconi era stato prosciolto per prescrizione) fu respinta dai giudici, i quali ritennero che la situazione prospettata non potesse far ipotizzare un concreto pericolo di non imparzialità a Milano.

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». È l' ennesimo colpo di scena sul caso Avetrana. Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che «turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull'arresto di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo la fuga di notizie che l'aveva preannunciato («Fu un tentativo di linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò versione più volte, accusò sua figlia dell'omicidio e tornò di nuovo al primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»). Per riassumerla con le parole di Coppi: «L'abbiamo sempre detto, in questo procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c'è serenità è giusto trasferirlo». Per argomentare meglio la sua richiesta, Coppi ha citato la sentenza Imi-Sir/lodo Mondadori del 2003 (imputati Previti e Berlusconi) con la quale le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che in quel procedimento non ci fu legittima suspicione. Tutti i punti che in quel processo motivarono la mancanza del legittimo sospetto, nel caso Avetrana dimostrano, secondo Coppi, esattamente il contrario: cioè che esiste la legittima suspicione.

Eppure nonostante il dettato della legge fosse chiaro, la Corte di Cassazione per l'ennesima volta ha rigettato l'istanza.

Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Nonostante ciò da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge Piazza Fontana ll processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969 (foto), ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico Salvatore Giuliano Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica. Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".

C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona". Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.

In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti". Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura". Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini". Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.

Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella. 

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».

Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri. Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri. La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata. Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; dal’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove. Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato. 

Paradossale è anche il fatto che è stato assegnato a Franco Coppi il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof. Coppi è per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato. Il riferimento è, appunto al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Processo la cui levatura professionale rispetto ad altri si è contraddistinta nell’assunzione di due atti fondamentali: richiesta di rimessione del processo per legittimo sospetto e minaccia di ricusazione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini.

Per quanto innanzi detto sarebbe auspicabile la predisposizione di un difensore civico giudiziario a tutela dei cittadini. Senza sminuire le prerogative ed i privilegi dei magistrati a questi doverosamente si dovrebbe affiancare, come organo di controllo, una figura istituzionale con i poteri dei magistrati, senza essere, però, uno di loro, perché corporatisticamente coinvolto. Tutto ciò eviterebbe l’ecatombe di condanne per l’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

PROPOSTA DI LEGGE

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI OPERATORI DELLA GIUSTIZIA

"Presso ogni sede di Corte d’Appello è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO DISTRETTUALE.

Esso svolge un ruolo di Garante della legalità, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione della Giustizia, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi degli operatori amministrativi, degli operatori giudiziari e degli operatori forensi, nei confronti del cittadino.

Il Difensore Civico Giudiziario deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino.

Il difensore civico Giudiziario, ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P..

La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative regionali.

Ogni Presidente di Corte d’Appello si attiva, affinché il Difensore Civico Giudiziario possa avere la facoltà operativa e logistica per poter operare.

Presso il Ministero della Giustizia è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO NAZIONALE, come organo superiore al Difensore Civico Amministrativo e Giudiziario, con compiti di controllo e coordinamento. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni politiche nazionali.

Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari.

La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato, rispettivamente, dell'assise regionale e nazionale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti."

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI UFFICI PUBBLICI E GLI UFFICI DI PUBBLICA UTILITA'

Ogni funzionario, pubblico o privato, addetto ad uno sportello aperto al pubblico, deve essere identificato con cartellino di riconoscimento. 

"Il comma 1 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Ogni Comune, deve istituire la figura del Difensore Civico Amministrativo, con compiti di garanzia della legalità, dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione territoriale in generale e di ogni attività di Pubblica Utilità, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni ed i ritardi nei confronti del cittadino. Il Difensore Civico Amministrativo deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative comunali ).

Il comma 2 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Il Difensore Civico Amministrativo ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P.. Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari).

Il comma 3 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato del Consiglio Comunale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti)".

Le norme precedenti si applicano anche presso i Consigli Provinciali e Regionali.

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI  E PER SEMPRE.

Assenteismo lavoro, alla Calabria la maglia nera. Secondo la Cgia di Mestre ogni dipendente è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La Calabria è la regione più "assenteista" a livello nazionale, scrivono i giornali. Nel 2012 ogni lavoratore dipendente calabrese è rimasto a casa mediamente 34,6 giorni. La media sale addirittura a 41,8 nel settore privato. E' quanto emerge da uno studio condotto dalla Cgia di Mestre secondo cui nel 2012 (ultimo anno in cui i dati sono a disposizione) i giorni di malattia medi registrati tra i lavoratori del pubblico impiego in Italia sono stati 16,72 (con 2,62 eventi per lavoratore), nel settore privato, invece, le assenze per malattia hanno toccato i 18,11 giorni (con un numero medio di eventi per lavoratore uguale a 2,08). Complessivamente sono stati quasi 106 milioni i giorni di malattia persi durante tutto l'anno. Oltre il 30 per cento dei certificati medici che attestano l'impossibilità da parte di un operaio o di un impiegato di recarsi nel proprio posto di lavoro è stato presentato di lunedì. Nel 71,7 per cento dei casi la guarigione avviene entro i primi 5 giorni dalla presentazione del certificato medico.

E nel 2014 centinaia di arresti per assenteismo, scrive Diodato Pirone su “Il Messaggero”. Non lo sa nessuno ma in Italia l'assenteismo è un fenomeno criminologico. Secondo le statistiche delle forze dell'ordine gli arresti per truffa aggravata causati dalle assenze ingiustificate dal lavoro di dipendenti pubblici sono centinaia all'anno. Di certo si supera quota mille con denunce a piede libero e sospensioni. Contrariamente a quello che si crede, infatti, la vita dell'assenteista s'è fatta dura. Giusta o sbagliata che fosse, la crociata dell'ex ministro Renato Brunetta contro i fannulloni ha lasciato in eredità una regola ferrea. Eccola: «E' previsto l'arresto nei confronti dei dipendenti pubblici accusati di falsa attestazione della presenza in servizio». Poche righe che dal 2010 hanno trasformato gli uffici italiani in covi di microcamere e video-spia con codazzo di denunce, tribunali e manette. Una vitaccia, insomma, quella dell'assenteista. Giornaloni e tivvù non ne danno conto perché i singoli arresti, presi in sè, non fanno notizia e al massimo finiscono nelle brevi. Ma la loro massa critica è sbalorditiva: si resta basiti di fronte alla leggerezza con la quale tanta gente, convintissima che i furbi la facciano sempre da padrone in Italia, finisce per rovinarsi la vita. Qualche esempio? Gli arresti del 2014 sono addirittura tambureggianti: a gennaio scattano le manette per due ginecologhe (sorprese nei propri studi privati mentre risultano al lavoro per l'Azienda sanitaria) e quattro impiegati dell'Asl Napoli Nord; a febbraio tocca a 15 addetti ai servizi veterinari della Asl di Vibo Valentia in Calabria e a due giardinieri di un parco pubblico di Napoli. Il 7 marzo finisce in galera un agente della polizia penitenziaria di Piacenza che nei giorni di falsa malattia spacciava droga e qui - caso rarissimo - piovono sberle anche per il suo medico cui la Procura chiude lo studio per avere concesso certificati senza controllo. Ma l'elenco delle amministrazioni dove sono scattate le manette è infinito: ospedali Monaldi e Cotugno di Napoli; Comuni di Sant'Agnello e Torre Annunziata; Università di Trieste e Udine; ufficio del giudice di Pace di Latina; Day SurgerY di Cuneo; Comune di Ancona; provincia di Chieti (dove un capo cantoniere si assentava dal lavoro per effettuare traslochi con i mezzi pubblici di cui era responsabile). Non c'è pace, da Nord a Sud. A giugno si spara nel mucchio nel Consorzio di Bacino Salerno/1: 22 arresti per truffa aggravata e peculato (gli assenteisti si segnavano anche lo straordinario). Ma è da settembre che le retate si moltiplicano: a Montenero di Bisaccia (il paese di Di Pietro) viene arrestato il medico dell'Asl e un suo collaboratore per danni per 70 mila euro causati dalle loro assenze e poi la Calabria alza il tiro con la decisione della Regione di licenziare quattro assenteisti cronici di in un gruppo di impiegati finito totalmente fuori controllo. Impiegati che vengono puniti anche con 5 sospensioni e 41 rimproveri. Ma l'assenteismo di massa della Regione Calabria non è isolato. Alla Asl di Siracusa la Procura ha imposto 9 sospensioni dopo aver scattato 1.500 fotografie ed effettuato 600 ore di videoregistrazioni per provare l'abitudine di 33 fra medici e impiegati di recarsi spesso insieme in piscina invece che al lavoro. Naturalmente dopo aver fatto timbrare agli amici il loro cartellino.

Invece, in contrapposizione all'immagine nefasta della Calabria, a "Presa Diretta" vanno in onda potenzialità e disagi della Calabria raccontata da Iacona, scrive Domenico Grillone su “Strill”. La Calabria l’11 gennaio 2015 scorre sulle immagini di Rai3 nel programma “Presa Diretta” di Riccardo Iacona. Problematiche, risorse, qualità e bellezze della nostra regione sotto la lente d’ingrandimento e questa volta nessuno potrà maledire la Rai ed i suoi giornalisti, colpevoli, secondo una parte dell’opinione pubblica locale, di mostrare sempre una Calabria tutta ‘ndrangheta e malaffare. Nell’occuparsi di dissesto idrogeologico attraverso un viaggio da Sud a Nord fino alla Liguria, “Presa Diretta” ha raccontato le bellezze e soprattutto i tesori tutti da scoprire della Calabria. Nel denunciare “le bruttezze di una terra spesso generate dall’uomo avido di cemento e non solo”, nel nuovo ciclo di trasmissioni le telecamere di “Presa Diretta” si sono soffermate su “un tesoro di potenzialità che potrebbe produrre ricchezza e posti di lavoro: l’arte, il cibo, l’agricoltura, il paesaggio se solo fossero difesi e valorizzati, renderebbero più ricco il nostro paese”. Il racconto di Iacona, quindi, una sorta di viaggio attraverso il quale, pur mantenendo fede al suo classico stile di denuncia “delle promesse fatte e non mantenute, degli errori che si ripetono da sempre” e nel domandarsi “a chi conviene gestire in regime di eterna emergenza la fragilità del nostro territorio?”, riesce a mostrare tutte, o almeno in buona parte, quelle potenzialità che secondo il giornalista dovrebbero essere messe al centro dell’agenda politica. Ma c’è di più. Perché il conduttore, nel raccontare la bellezza che potrebbero arricchirci, ricorda come spesso la cerchiamo in luoghi lontanissimi “quando a pochi chilometri da casa nostra abbiamo dei tesori tutti da scoprire”. “Quello che abbiamo scoperto in Calabria vale per tutta l’Italia che è un tesoro da accarezzare”, spiega Iacona, “se solo si valorizzassero tutte queste risorse e non si abbandonasse il territorio la Calabria sarebbe una regione ricca”. “La Calabria non è solo ‘ndrangheta malaffare e malapolitica. C’è tanta gente che sta già costruendo la Calabria del futuro” che la dice lunga su uno stile di fare giornalismo che, a differenza di quanto qualcuno rimprovera, non è preconcetto ma, al contrario, racconta le storie con stile semplice e diretto. Una trasmissione andata in onda proprio a ridosso dei risultati dello studio di Demoskopica sul tema “L’anno che verrà – il 2015 nell’opinione dei calabresi”, in cui tra l’altro si evidenzia come la fiducia degli stessi calabresi verso la politica, le istituzioni, e soprattutto verso una possibile ripresa economica si attesta su livelli decisamente ai minimi. Iacona con la sua inchiesta dimostra che forse non tutto è perduto per la Calabria, basterebbe solo una presa….di coscienza vera per voltare pagina e riprogrammare il futuro.

Eppure si leggono queste cose.

PALMI: CAPOMAFIA A 14 ANNI, INDAGATA LA FIGLIA DI UN POTENTE DEI GALLICO. Ha 17 anni e sarebbe un capoclan, scrive Alessandro Bevilacqua su “Telemia”. E' l'incredibile storia di una ragazzina di Palmi finita al centro delle indagini della Procura di Reggio Calabria. Secondo gli investigatori la ragazza, figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca armata dei Gallico di Palmi, nel reggino, risulterebbe ancora incensurata. I fatti contestati risalirebbero a quando la giovanissima non aveva neppure 14 anni. Alcuni reati che le vengono imputati sarebbero stati collocati nel periodo successivo al giugno del 2011, mese in cui la ragazza avrebbe compiuto l'età minima prevista dalla legge sui minori per essere imputata di associazione mafiosa. La ragazza, ospite dal 2014 di una famiglia del nord Italia, entrerebbe in un inchiesta che ha consentito di decimare il clan Gallico, nello specifico quella concernente una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. A metà del 2011 gli uomini della Squadra mobile di Reggio Calabria e  del commissariato di Palmi piazzarono nella casa in cui viveva all'epoca la giovane delle cimici che catturarono conversazioni che, sembrerebbe, facessero chiaro riferimento  alle estorsioni. Tra i partecipanti al dialogo anche l'allora 13enne. Pochi minuti dopo la ragazza lasciò la casa in questione per salire in auto insieme ad una donna. Gli investigatori predisposero quel giorno un posto di blocco e il risultato è che finirono tutti in caserma dove si scoprì che la 13enne nascondeva negli slip un foglio di calendario contenente i dettagli delle estorsioni. Per gli investigatori  dal momento che tutti i suoi parenti e membri del clan si trovavano detenuti l'allora 14enne avrebbe svolto il ruolo di reggente e anello di congiunzione tra la famiglia e il territorio fungendo da figura visibile.

«Quella bambina di 14 anni è un capomafia», scrive Francesco Altomonte su “Il Garantista”. Mancano sei mesi al compimento dei suoi 17 anni, ma leggendo i capi di imputazione riportati nell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari sembra di avere a che fare con un boss di lunga data, di un criminale incallito che ha dedicato la sua vita a “mamma ‘ndrangheta”. Lei (sì, stiamo parlando di una ragazzina), figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca Gallico di Palmi, nel Reggino, risulta ancora incensurata, benché la procura dei minorenni di Reggio Calabria l’accusi non solo di associazione mafiosa, ma anche di essere un capo promotore del clan (armato) di riferimento dei suoi genitori. Il primo pensiero che passa nella mente del cronista (o perlomeno dovrebbe passare) è: ma un ragazzina che all’epoca dei fatti non aveva compiuto 14 anni, è imputabile? La risposta è, anzi dovrebbe essere no, ma la data posta in calce al documento che decreta la fine delle indagini preliminari dissiperebbe i dubbi: «Accertato in Palmi e territori limitrofi in epoca successiva al 12.05.2011». Nel giugno di quell’anno (il 2011), infatti, la ragazzina avrebbe compiuto 14 anni, quindi poteva essere perseguita per il delitto associativo. Alcuni fatti che le vengono contestati, infatti, risulterebbero compiuti nei mesi successivi. Da qui, la possibilità da parte della procura dei minori di poterla accusare di associazione mafiosa. La ragazza, che dall’inizio del 2014 è ospite di una famiglia nel nord Italia, entra in una delle tante inchieste che hanno permesso di decapitare il clan Gallico, in particolare quella in cui viene colpita una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. Suo padre e sua madre sono in carcere, lei vive in casa con dei partenti. Gli uomini della squadra mobile di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi, che stanno conducendo le indagini, hanno piazzato delle microspie in quella casa e a metà del 2011 intercettano una conversazione nella quale alcuni indagati parlano di soldi e di qualcosa nascosto all’interno di quella abitazione. Tra i partecipanti alla discussione c’è anche l’allora tredicenne. La ragazza dopo alcuni minuti lascia la casa insieme a una donna finita in carcere alla fine del 2011, Loredana Rao, salendo in auto con lei. Gli investigatori, per capire dove e cosa trasportassero nell’autovettura, piazzano un posto di blocco appena fuori la città. Le due donne pochi minuti dopo intravedono la volante della polizia, fermano la macchina e fanno marcia indietro. Quella è la prova per i poliziotti che qualcosa non quadra. Partono all’inseguimento e bloccano non solo la macchina nella quale viaggiavano la Rao e la ragazzina, ma anche un’altra autovettura con a bordo alcuni uomini della famiglia. La mossa conseguente è il trasferimento di tutti in commissariato per la perquisizione. Per evitare fughe o altri problemi, due poliziotti salgono a bordo delle due macchine. Un agente, si legge nell’informativa redatta dagli uomini della Mobile, durante il tragitto nota che la ragazzina cercava di sistemare qualcosa che aveva nascosto all’altezza dell’inguine. Appena giunti in commissariato chiedono se vogliono essere assistiti da un legale, soprattutto lei che ancora non ha compiuto 14 anni, ma tutti declinano l’invito. La ragazza, però, non si fa neanche perquisire perché spontaneamente consegna alla poliziotta un foglietto contenuto all’interno dello slip. Si scoprirà nel novembre 2011 di cosa si tratta, quando la procura antimafia di Reggio Calabria emette un decreto di fermo con il quale finisce in carcere l’intera rete di presunti estortori. Si trattava di un foglio di calendario sul quale erano state annotate date e cifre. Per gli inquirenti quei dati parlano chiaro: sono appunti per la riscossione del pizzo imposto dal clan Gallico agli imprenditori e commercianti della città. Alcuni di loro, per inciso, collaboreranno alle indagini confermando quanto ricostruito dalle forze dell’ordine. All’interno di un’altra informativa, la ragazzina viene intercettata con il fratello. Per gli inquirenti il parente le starebbe impartendo degli ordini per andare a ritirare delle estorsioni, o per intimarne in pagamento. Siamo nel 2012 e, quindi, per la legge italiana la 14enne è perseguibile e può essere incriminata. L’equazione sembrerebbe questa: siccome tutti i suoi parenti e membri del clan sono dietro le sbarre, dai mammasantissima fino ai fiancheggiatori, l’allora 14enne svolgerebbe il compito di “reggente” della cosca, anello di congiunzione con i detenuti e figura “visibile” della famiglia sul territorio. La ragazzina, intanto, dopo l’arresto di tutti i suoi parenti, compreso suo fratello ancora minorenne, viene data in affidamento a una famiglia del nord Italia dalla quale la giovane, secondo quanto appreso, fugge con regolarità per ritornare a casa. Con altrettanta regolarità viene ripresa e riportata indietro. Secondo quanto saputo nella giornata di ieri, pare che solo ad agosto scorso, il Tribunale dei minori le abbia concesso la possibilità di visitare suo padre in carcere.

Mio marito, ’ndranghetista per sempre. Ma è innocente anche per la legge, scrive Yvone Graf su “Il Garantista". «Racconto la mia storia, una storia qualunque di malagiustizia, di una vita segnata irrimediabilmente da un marchio posto sulle teste della mia famiglia e mai più rimosso: la ‘ndrangheta. Nel lontano 1991 ho incontrato l’uomo che oggi è mio marito. All’epoca lui era un sorvegliato speciale, doveva ancora scontare 4 anni di sorveglianza per una misura di prevenzione. Li abbiamo scontati insieme. Chi vive con un sorvegliato speciale patisce tutte le limitazioni e le conseguenze che ne derivano: andare tutti i giorni in questura a mettere la firma; non uscire da casa prima del alba e rincasare prima del tramonto; stare tutte le notti pronti a subire un controllo improvviso che può coglierti nel sonno profondo e farti rischiare una denuncia per evasione. Aveva 18 anni mio marito quando fu accusato di appartenere a una cosca della ‘ndrangheta e di essere il super killer di questa cosca. L’avevano accusato di una diecina di omicidi, altrettanti tentati omicidi, sequestri di persona, porto abusivo di armi da guerra e chi più ne ha più ne metta. Fu condannato in primo grado tenuto conto della sua giovane età a 101 anni e 6 mesi di carcere. Dopo i vari gradi di giudizio, nel 1990 fu assolto da tutte le incriminazioni per non aver commesso il fatto ma condannato per associazione a delinquere, art. 416 c.p. – all’epoca dei fatti il reato di associazione mafiosa non era ancora codificato. Mio marito si professava innocente. Le accuse specifiche erano cadute ma era rimasta in piedi quella associativa a salvare il teorema degli inquirenti e una misura di prevenzione, appunto, cinque anni di vigilanza. Condannato senza commettere un reato a tre anni di reclusione; cresciuto e vissuto in un paese dove tutti conoscono tutti e tutti si frequentano, giovani, nelle strade e nelle piazze di paese. Per quel ragazzo che era mio marito fu devastante, fu causa di un grave sbandamento. Era vittima di un’ingiustizia che gli stava distruggendo la giovinezza e la vita. Da detenuto si era ammalato di anoressia ed era stato messo ai arresti domiciliari a causa del suo deperimento organico. Poi mandato al confino nel Lazio, solo e lontano dalla famiglia, affetto da una grave depressione ed in balia di una assoluta incertezza sul suo futuro. Poi una sera, sbandato per come era all’epoca, commise il furto di una macchina e fu arrestato e condannato per questo a 4 mesi di reclusione. Dopo questa carcerazione e dopo di aver scontato la sua sorveglianza, nel dicembre del 1994 decidemmo di lasciare l’Italia e di venire in Svizzera, il mio paese di appartenenza. Speravamo di iniziare una vita serena, di trovarci un lavoro entrambi e di vivere lontano da tutto tranquillamente ma ancora una volta questo ci fu impedito dallo stato italiano. Dopo appena 4 mesi che eravamo in Svizzera siamo venuti a sapere che lui era di nuovo ricercato dalla giustizia italiana. Un pentito lo accusava, per sentito dire, di essere il killer di un duplice omicidio avvenuto nei primi anni 80. In primo grado per queste accuse ha preso una condanna a 26 anni di reclusione. Il pm in appello chiese l’ergastolo. Nel 1998 la polizia svizzera esegue l’arresto di mio marito che nel frattempo era stato inserito nella lista dei 500 latitanti più pericolosi d’Italia su mandato internazionale emesso dall’Italia nonostante da subito ci fossimo opposti all’estradizione. Mio marito si dichiarava un perseguitato dalla giustizia italiana. Intanto mio marito ancora lottava con gli effetti collaterali delle prime ingiustizie subite e le loro conseguenze: attacchi di panico, ansia, depressione maggiore. In quel periodo avviammo le pratiche per poterci sposare. Nel ’96 avevo partorito il mio primo figlio che lui non aveva potuto riconoscere in quanto latitante ed ero incinta al 5 mese, al momento del suo arresto, della mia seconda figlia. Nel dicembre del ’98 ci sposammo nel carcere in svizzera e ai miei figli fu riconosciuta la paternità. Nel febbraio 1999 arrivo l’estradizione e mio marito fu prelevato e portato via dalla Svizzera. Per giorni non sono riuscita a sapere dove l’avevano portato. Poi seppi che era nel carcere a Como. Partii subito e mi accompagnò al carcere un avvocato del posto cui il mio legale aveva chiesto una cortesia. Lo fece malvolentieri precisandomi che non era opportuno per un avvocato stare vicino a chi aveva quel genere di imputazioni. Non trovai mio marito a Como. Era stato trasferito in Calabria. Solo dopo tre settimane dall’estradizione ho potuto fare il primo colloquio con lui: devastante! Mio marito era l’ombra di sé, irriconoscibile, lo sguardo spento, movimenti spaventosamente rallentati, assente e incapace di formulare delle frasi compiute. Non gli somministravano la sua terapia e con delle punture di calmanti lo tenevano in quello stato. A marzo 1999 venne assolto con formula piena per non aver commesso il fatto! Ma non tornò libero subito. Continuavano a tenerlo in virtù di un’accusa fumosa e incomprensibile tanto che la Svizzera rifiutò l’estradizione. Mio marito restava però detenuto. Ho dovuto fare il diavolo a quattro con l’appoggio dell’ambasciatore che richiamava il ministero degli Interni al rispetto dei accordi. Per fortuna sul nostro cammino incontrammo un giudice onesto che dovette intimare la scarcerazione al direttore del carcere avvisandolo che rischiava una denuncia per sequestro di persona e mio marito tornò libero. Sembrava tutto finito, a parte le patologie depressive che ancora affliggono mio marito. Ma le conseguenze di una condanna per associazione sono immortali, ti seguono per sempre. Marchiano una persona e la sua famiglia in modo definitivo, incancellabile. La Svizzera nega a mio marito la cittadinanza in virtù di rapporti segreti e di una pericolosità sociale presunta ineluttabilmente e collegata alla qualifica di ‘ndranghetista. Mio marito non aveva commesso alcun reato ma è ‘ndranghetista per sempre per volontà dello Stato italiano, senza diritto di replica e senza speranza di redenzione. Mafioso da innocente, la sua vita, le nostre vite, proprietà dello stato, per sempre. I nostri figli, mafiosi per discendenza ereditaria e così, da padre in figlio, all’infinito.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

«I Tribunali non sono proprietà dei giudici», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. Vogliono rovinare la “festa”. Oggi sarebbe la giornata della giustizia, proclamata dall’Anm per protestare contro la riforma del ministro Orlando e in particolare contro il taglio delle ferie. I penalisti intervengono con una certa, brutale franchezza e mettono in discussione i dati che oggi i magistrati proporranno ai cittadini, per l’occasione liberi di entrare nei Palazzi di giustizia. Intanto, dice il presidente dell’Unione Camere penali Beniamino Migliucci, l’iniziativa del sindacato delle toghe è «la dimostrazione, come se ce ne fosse bisogno, di una concezione proprietaria della giustizia e dei luoghi in cui essa si celebra, da parte dei magistrati». I cittadini, dice, «non hanno bisogno di alcun invito per accedere al Tribunale, luogo sacro in cui si svolgono i processi in nome del popolo italiano». Dopodiché «i numeri forniti dall’Associazione magistrati rischiano di offrire una visione autoreferenziale e alterata della situazione in cui versa la giustizia italiana, nella quale si enfatizza la loro efficienza a tutto discapito di una realtà che ci vede fra i primi paesi in Europa per numero di condanne dalla Corte di Strasburgo». I numeri sono altri, secondo il presidente dei penalisti, «a cominciare dalla sostanziale inattuazione del sistema di controllo sulla responsabilità dei magistrati, dalle frequentissime sentenze di riforma dei giudizi di primo grado, per passare al cospicuo importo dei risarcimenti che lo Stato è costretto ogni anno a pagare per indennizzare le vittime degli errori giudiziari, all’inevitabile ricorso, da parte della magistratura togata, all’ausilio di magistrati onorari, il cui apporto è determinante per il raggiungimento di quegli obiettivi di produttività che la Anm enfatizza». Su una delle “contro-statistiche” proposte da Migliucci interviene anche il cahier de doleance del viceministro della Giustizia Enrico Costa, che dà notizia del boom di risarcimenti per ingiusta detenzione ed errori giudiziari pagati dallo Stato nel 2014. «L’incremento rispetto all’anno precedente è del 41,3%: 995 domande liquidate per un totale di 35 milioni e 255mila euro». Dal 1992, osserva Costa, «l’ammontare delle riparazioni raggiunge così i 580 milioni: sono numeri che devono far riflettere, si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore. Dietro c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare». Le contromisure di Parlamento e governo sono note: da una parte la legge sulla custodia cautelare, che naviga ancora in acque incerte, dall’altra quella sulla responsabilità civile dei giudici, prossima all’approvazione della Camera. Sui problemi più generali del processo penale è ora all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio l’atteso ddl del governo, che si accoda al testo base adottato proprio ieri dai deputati sulla prescrizione. «Sono soddisfatta, abbiamo avviato tutti e due i provvedimenti, coerenti tra loro», dice la presidente Donatella Ferranti. Su un altro capitolo della riforma, la soppressione di alcuni Tribunali, arriva dalla Consulta la bocciatura del referendum con cui alcune regioni avevano impugnato le chiusure. Tra queste, c’erano anche le sedi delle zone terremotate dell’Abruzzo.

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

Tortura, dopo 26 anni l’Italia ancora non riconosce il reato, scrive Andrea Oleandri su “Il Garantista”. 10 dicembre 1984. 3 novembre 1988. 10 dicembre 2004. 5 marzo 2014. 27 ottobre 2014. Cosa hanno in comune tra loro queste cinque date? Molto, per chi conosce la storia della mancata introduzione del reato di tortura nel nostro paese. Era il 10 dicembre 1984 quando l’assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. All’articolo 1 si definiva tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso [...] qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”.Quasi quattro anni dopo, il 3 novembre 1988, nei prossimi giorni “festeggeremo” il ventiseiesimo anniversario, l’Italia ratificò questa Convenzione ma, in questi ventisei anni, il nostro paese non è stato in grado di dotare il proprio codice penale di questo reato. Il 10 dicembre del 2004, a vent’anni dall’approvazione della Convenzione da parte dell’Onu, in un carcere italiano, quello di Asti, accadde un fatto che molto c’entra con la tortura o che molto avrebbe potuto averne a che fare. In quel giorno – e nei giorni successivi – due detenuti, protagonisti di un’aggressione ai danni di un agente penitenziario, vengono sottoposti a violenze e umiliazioni a scopo ritorsivo. Il fatto lo riporta Claudio Sarzotti nel n. 3-2013 della rivista di Antigone. “Nell’immediatezza dei fatti i due vengono denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri, nonostante il freddo dovuto alla stagione invernale, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello, razionandogli il cibo, impedendogli di dormire, insultandoli, strappandogli, nel caso di R.C., il codino e, in entrambi i casi, sottoponendoli nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo, giungendo anche, almeno per C.A., a schiacciargli la testa con i piedi”. Il processo parte solo nel luglio del 2011 – non per le denunce di altri che nel carcere lavoravano, ma solo per alcune intercettazioni che, inizialmente, nulla avevano a che fare con il caso – e si chiude in Cassazione il 27 luglio 2012. Secondo Riccardo Crucioli, giudice di primo grado “i fatti potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura”. Tuttavia, non essendoci il reato, lo stesso viene derubricato. Il 5 marzo 2014 il Senato approva un disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Un testo che differisce dalla convenzione Onu in quanto non prevede la tortura come un reato proprio delle forze dell’ordine, ma lo rende generico con una aggravante per chi faccia parte di un corpo dello stato. Una volta approvato l’atto passa alla Camera dei Deputati dove è tutt’ora fermo. Il 27 ottobre 2014, il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha giudicato l’Italia nell’ambito della Revisione Periodica Universale (UPR). Ancora non sono stati pubblicati i risultati di questa revisione, l’auspicio è, ovviamente, quello di una forte presa di posizione internazionale che spinga, finalmente e con ventisei anni di ritardo, il nostro paese a dotarsi di un reato irrinunciabile per qualsiasi democrazia avanzata. Papa Francesco contro il Carcere. Sono queste le dure parole, pronunciate lo scorso 23 ottobre 2014 da Papa Francesco, del discorso tenuto da Papa Bergoglio di fronte ai membri dell'Associazione Internazionale di Diritto Penale.

«Illustri Signori e Signore! Vi saluto tutti cordialmente e desidero esprimervi il mio ringraziamento personale per il vostro servizio alla società e il prezioso contributo che rendete allo sviluppo di una giustizia che rispetti la dignità e i diritti della persona umana, senza discriminazioni. Vorrei condividere con voi alcuni spunti su certe questioni che, pur essendo in parte opinabili – in parte! – toccano direttamente la dignità della persona umana e dunque interpellano la Chiesa nella sua missione di evangelizzazione, di promozione umana, di servizio alla giustizia e alla pace. Lo farò in forma riassuntiva e per capitoli, con uno stile piuttosto espositivo e sintetico.

Introduzione. Prima di tutto vorrei porre due premesse di natura sociologica che riguardano l’incitazione alla vendetta e il populismo penale.

a) Incitazione alla vendetta. Nella mitologia, come nelle società primitive, la folla scopre i poteri malefici delle sue vittime sacrificali, accusati delle disgrazie che colpiscono la comunità. Questa dinamica non è assente nemmeno nelle società moderne. La realtà mostra che l’esistenza di strumenti legali e politici necessari ad affrontare e risolvere conflitti non offre garanzie sufficienti ad evitare che alcuni individui vengano incolpati per i problemi di tutti. La vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata. Tuttavia, viviamo in tempi nei quali, tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge.

b) Populismo penale. In questo contesto, negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale. Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici:figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste.

I. Sistemi penali fuori controllo e la missione dei giuristi. Il principio guida della cautela in poenam. Stando così le cose, il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni.

II. Circa il primato della vita e la dignità della persona umana. Primatus principii pro homine.

a) Circa la pena di morte. È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone. San Giovanni Paolo II ha condannato la pena di morte (cfr Lett. enc. Evangelium vitae, 56), come fa anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (N. 2267). Tuttavia, può verificarsi che gli Stati tolgano la vita non solo con la pena di morte e con le guerre, ma anche quando pubblici ufficiali si rifugiano all’ombra delle potestà statali per giustificare i loro crimini. Le cosiddette esecuzioni extragiudiziali o extralegali sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionale della forza per far applicare la legge. In questo modo, anche se tra i 60 Paesi che mantengono la pena di morte, 35 non l’hanno applicata negli ultimi dieci anni, la pena di morte, illegalmente e in diversi gradi, si applica in tutto il pianeta. Le stesse esecuzioni extragiudiziali vengono perpetrate in forma sistematica non solamente dagli Stati della comunità internazionale, ma anche da entità non riconosciute come tali, e rappresentano autentici crimini. Gli argomenti contrari alla pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottolineato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziale e l’uso che ne fanno i regimi totalitari e dittatoriali, che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta.

b) Sulle condizioni della carcerazione, i carcerati senza condanna e i condannati senza giudizio. – Queste non sono favole: voi lo sapete bene – La carcerazione preventiva – quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso – costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità. Questa situazione è particolarmente grave in alcuni Paesi e regioni del mondo, dove il numero dei detenuti senza condanna supera il 50% del totale. Questo fenomeno contribuisce al deterioramento ancora maggiore delle condizioni detentive, situazione che la costruzione di nuove carceri non riesce mai a risolvere, dal momento che ogni nuovo carcere esaurisce la sua capienza già prima di essere inaugurato. Inoltre è causa di un uso indebito di stazioni di polizia e militari come luoghi di detenzione. Il problema dei detenuti senza condanna va affrontato con la debita cautela, dal momento che si corre il rischio di creare un altro problema tanto grave quanto il primo se non peggiore: quello dei reclusi senza giudizio, condannati senza che si rispettino le regole del processo. Le deplorevoli condizioni detentive che si verificano in diverse parti del pianeta, costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale, altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non sono altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà.

c) Sulla tortura e altre misure e pene crudeli, inumane e degradanti. – L’aggettivo “crudele”; sotto queste figure che ho menzionato, c’è sempre quella radice: la capacità umana di crudeltà. Quella è una passione, una vera passione! – Una forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza. Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti, la sua principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno. Come dimostrano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio. Questo fenomeno, caratteristico delle carceri di massima sicurezza, si verifica anche in altri generi di penitenziari, insieme ad altre forme di tortura fisica e psichica la cui pratica si è diffusa. Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione – pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale – ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena. La stessa dottrina penale ha un’importante responsabilità in questo, con l’aver consentito in certi casi la legittimazione della tortura a certi presupposti, aprendo la via ad ulteriori e più estesi abusi. Molti Stati sono anche responsabili per aver praticato o tollerato il sequestro di persona nel proprio territorio, incluso quello di cittadini dei loro rispettivi Paesi, o per aver autorizzato l’uso del loro spazio aereo per un trasporto illegale verso centri di detenzione in cui si pratica la tortura. Questi abusi si potranno fermare unicamente con il fermo impegno della comunità internazionale a riconoscere il primato del principio pro homine, vale a dire della dignità della persona umana sopra ogni cosa.

d) Sull’applicazione delle sanzioni penali a bambini e vecchi e nei confronti di altre persone specialmente vulnerabili. Gli Stati devono astenersi dal castigare penalmente i bambini, che ancora non hanno completato il loro sviluppo verso la maturità e per tale motivo non possono essere imputabili. Essi invece devono essere i destinatari di tutti i privilegi che lo Stato è in grado di offrire, tanto per quanto riguarda politiche di inclusione quanto per pratiche orientate a far crescere in loro il rispetto per la vita e per i diritti degli altri. Gli anziani, per parte loro, sono coloro che a partire dai propri errori possono offrire insegnamenti al resto della società. Non si apprende unicamente dalle virtù dei santi, ma anche dalle mancanze e dagli errori dei peccatori e, tra di essi, di coloro che, per qualsiasi ragione, siano caduti e abbiano commesso delitti. Inoltre, ragioni umanitarie impongono che, come si deve escludere o limitare il castigo di chi patisce infermità gravi o terminali, di donne incinte, di persone handicappate, di madri e padri che siano gli unici responsabili di minori o di disabili, così trattamenti particolari meritano gli adulti ormai avanzati in età.

III. Considerazioni su alcune forme di criminalità che ledono gravemente la dignità della persona e il bene comune. Alcune forme di criminalità, perpetrate da privati, ledono gravemente la dignità delle persone e il bene comune. Molte di tali forme di criminalità non potrebbero mai essere commesse senza la complicità, attiva od omissiva, delle pubbliche autorità.

a) Sul delitto della tratta delle persone. La schiavitù, inclusa la tratta delle persone, è riconosciuta come crimine contro l’umanità e come crimine di guerra, tanto dal diritto internazionale quanto da molte legislazioni nazionali. E’ un reato di lesa umanità. E, dal momento che non è possibile commettere un delitto tanto complesso come la tratta delle persone senza la complicità, con azione od omissione, degli Stati, è evidente che, quando gli sforzi per prevenire e combattere questo fenomeno non sono sufficienti, siamo di nuovo davanti ad un crimine contro l’umanità. Più ancora, se accade che chi è preposto a proteggere le persone e garantire la loro libertà, invece si rende complice di coloro che praticano il commercio di esseri umani, allora, in tali casi, gli Stati sono responsabili davanti ai loro cittadini e di fronte alla comunità internazionale. Si può parlare di un miliardo di persone intrappolate nella povertà assoluta. Un miliardo e mezzo non hanno accesso ai servizi igienici, all’acqua potabile, all’elettricità, all’educazione elementare o al sistema sanitario e devono sopportare privazioni economiche incompatibili con una vita degna (2014 Human Development Report, UNPD). Anche se il numero totale di persone in questa situazione è diminuito in questi ultimi anni, si è incrementata la loro vulnerabilità, a causa delle accresciute difficoltà che devono affrontare per uscire da tale situazione. Ciò è dovuto alla sempre crescente quantità di persone che vivono in Paesi in conflitto. Quarantacinque milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa di situazioni di violenza o persecuzione solo nel 2012; di queste, quindici milioni sono rifugiati, la cifra più alta in diciotto anni. Il 70% di queste persone sono donne. Inoltre, si stima che nel mondo, sette su dieci tra coloro che muoiono di fame, sono donne e bambine (Fondo delle Nazioni Unite per le Donne, UNIFEM).

b) Circa il delitto di corruzione. La scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica con i poteri forti. La corruzione è essa stessa anche un processo di morte: quando la vita muore, c’è corruzione. Ci sono poche cose più difficili che aprire una breccia in un cuore corrotto: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21). Quando la situazione personale del corrotto diventa complicata, egli conosce tutte le scappatoie per sfuggirvi come fece l’amministratore disonesto del Vangelo (cfr Lc 16,1-8). Il corrotto attraversa la vita con le scorciatoie dell’opportunismo, con l’aria di chi dice: “Non sono stato io”, arrivando a interiorizzare la sua maschera di uomo onesto. E’ un processo di interiorizzazione. Il corrotto non può accettare la critica, squalifica chi la fa, cerca di sminuire qualsiasi autorità morale che possa metterlo in discussione, non valorizza gli altri e attacca con l’insulto chiunque pensa in modo diverso. Se i rapporti di forza lo permettono, perseguita chiunque lo contraddica. La corruzione si esprime in un’atmosfera di trionfalismo perché il corrotto si crede un vincitore. In quell’ambiente si pavoneggia per sminuire gli altri. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità e l’inimicizia. Il corrotto non percepisce la sua corruzione. Accade un po’ quello che succede con l’alito cattivo: difficilmente chi lo ha se ne accorge; sono gli altri ad accorgersene e glielo devono dire. Per tale motivo difficilmente il corrotto potrà uscire dal suo stato per interno rimorso della coscienza. La corruzione è un male più grande del peccato. Più che perdonato, questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume, una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole. Tuttavia, il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti. La corruzione non può nulla contro la speranza. Che cosa può fare il diritto penale contro la corruzione? Sono ormai molte le convenzioni e i trattati internazionali in materia e hanno proliferato le ipotesi di reato orientate a proteggere non tanto i cittadini, che in definitiva sono le vittime ultime – in particolare i più vulnerabili – quanto a proteggere gli interessi degli operatori dei mercati economici e finanziari. La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che bisogna perseguire con la maggior severità sono quelle che causano gravi danni sociali, sia in materia economica e sociale – come per esempio gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione – come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o per quelle di terzi.

Conclusione. La cautela nell’applicazione della pena dev’essere il principio che regge i sistemi penali, e la piena vigenza e operatività del principio pro homine deve garantire che gli Stati non vengano abilitati, giuridicamente o in via di fatto, a subordinare il rispetto della dignità della persona umana a qualsiasi altra finalità, anche quando si riesca a raggiungere una qualche sorta di utilità sociale. Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana. Cari amici, vi ringrazio nuovamente per questo incontro, e vi assicuro che continuerò ad essere vicino al vostro impegnativo lavoro al servizio dell’uomo nel campo della giustizia. Non c’è dubbio che, per quanti tra voi sono chiamati a vivere la vocazione cristiana del proprio Battesimo, questo è un campo privilegiato di animazione evangelica del mondo. Per tutti, anche quelli tra voi che non sono cristiani, in ogni caso, c’è bisogno dell’aiuto di Dio, fonte di ogni ragione e giustizia. Invoco pertanto per ciascuno di voi, con l’intercessione della Vergine Madre, la luce e la forza dello Spirito Santo. Vi benedico di cuore e per favore, vi chiedo di pregare per me. Grazie».

Decreto Legge Carceri, 8 euro ai detenuti mentre si muore di carcere, scrive Cristina Amoroso su “Il Faro sul mondo”. Altri due detenuti suicidi nei giorni in cui la Camera si apprestava a discutere il decreto legge sulle carceri. Il primo a Padova, un detenuto di 44 anni trovato morto nella cella di un carcere in emergenza nazionale; il secondo a Trento, un detenuto di 32 anni suicida in quello che è considerato un carcere modello. Intanto il decreto legge sulle carceri è approvato in prima lettura alla Camera con 305 sì, 110 no e 30 astenuti. Il decreto completa il “Pacchetto normativo” già approvato nei mesi scorsi in risposta alla sentenza “Torreggiani” della corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condannato l’Italia per la situazione delle carceri. Sentenza scaturita dall’esposto avanzato da Torreggiani ed altri quattromila detenuti per sovraffollamento delle strutture carcerarie tale da determinare un trattamento disumano. Essendo una sentenza pilota, l’Italia aveva un anno di tempo per evitare che la situazione persistesse nel sistema penitenziario. Il provvedimento, che prevede un risarcimento giornaliero in denaro oppure uno sconto di pena ai detenuti che si trovano in condizioni degradanti ed umilianti ed abbiano quindi subito una violazione dei diritti umani, passa ora al Senato. Nel dettaglio, se la pena è ancora da espiare è previsto un abbuono di un giorno ogni dieci passati in celle sovraffollate. Qualora lo sconto di pena non è applicabile interviene il risarcimento in denaro pari ad otto euro giornalieri da consegnare ai detenuti già usciti dal carcere, per cui sono stati previsti 20,3 milioni di euro fino al 2016. Resta difficile non considerare il provvedimento uno “svuotarceri”, destinato a favorire anche mafiosi, nella convinzione dell’assoluta priorità di altri provvedimenti, come il reddito di cittadinanza o l’abolizione di Equitalia, come hanno dichiarato alcuni parlamentari, mentre con il contentino in denaro o lo sconto di qualche giorno non si affronta il problema reale delle carceri italiane: il disumano sovraffollamento in cui i detenuti vivono. Con otto euro passa la paura o passa la tortura? Intanto nel giro di una settimana l’Italia ha riportato altre due condanne. Entrambe dinanzi alla Corte europea dei diritti umani: una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia). Entrambe a conferma della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione). Esse ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in Stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni e molte storie rimangono soltanto dei numeri. Perché i detenuti non rimangono semplici nomi ha provveduto il Dossier 2000-2014, “Morire di carcere”, aggiornato fino al 25 luglio, ad opera di Ristretti Orizzonti, che ha evidenziato i casi di suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose, elencando i detenuti morti dal 2002 al 2014: per cognome, età, data e luogo del decesso. I morti totali nelle carceri dal 2000 al 2014 sono stati 2320, di cui 825 suicidi, nel 2014 i morti in carcere sono stati 82, di cui 24 suicidi. Il dossier “Morire di carcere” rappresenta un contributo importante per far conoscere all’opinione pubblica le reali condizioni del carcere, a cominciare dallo stato di difficoltà e, a volte, di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria. La parte principale del dossier è costituita dalle storie (alcune di poche righe, altre di una pagina) dei detenuti morti nelle carceri italiane, per suicidio, per malattia, per overdose, per “cause non accertate”, riuscendo a restituire un’identità a centinaia di loro, togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli “eventi critici”. Per altrettante persone, morte in carcere, non c’è stato modo di sapere nulla nonostante la rassegna stampa (che ha fatto da base per l’indagine) contenesse notizie tratte da tutti i principali quotidiani nazionali e da molti giornali locali: la conclusione più logica è che, ogni due detenuti che muoiono, uno passa “inosservato”, si legge nella presentazione del Dossier.

Carceri affollate, risarcimento ai detenuti. Così l'Italia prova a salvarsi dai ricorsi. La Camera ha stabilito per ogni recluso che ha vissuto in uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati un indennizzo di 8 euro al giorno o uno sconto di pena. Una decisione per evitare sanzioni dalla Corte europea, che ha spesso richiamato l'Italia. Soddisfatte le associazioni per i diritti, protestano Lega e Movimento 5 Stelle, scrive Federico Formica su “L’Espresso”. L'Italia ci mette una pezza. E per evitare guai peggiori, garantirà un risarcimento in denaro o uno sconto di pena ai detenuti costretti a vivere in situazioni di sovraffollamento talmente gravi da ledere l'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo, secondo il quale “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Camera dei deputati ha infatti approvato con 305 voti favorevoli, 110 contrari e 30 astensioni il “decreto Carceri”, che ora dovrà passare al vaglio del Senato. È un testo destinato a lasciare il segno, dal valore simbolico - e non solo - molto forte. Cosa cambia. Il principio stabilito dal decreto legge è chiaro: chi vive o ha vissuto in condizioni inumane o degradanti nelle nostre carceri, deve essere risarcito in qualche modo. Il testo prevede due strade: Risarcimento di 8 euro per ogni giorno trascorso in carcere in violazione dell'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo; Lo sconto di un giorno di pena residua per ogni dieci vissuti, appunto, nelle condizioni già citate. Il risarcimento in denaro verrà riconosciuto a chi è già uscito dal carcere oppure ai detenuti la cui pena residua è talmente breve che i giorni di “abbuono” sarebbero superiori rispetto a quelli da scontare. Oppure, ancora, a chi ha vissuto in condizioni “inumane o degradanti” per meno di quindici giorni. Lo sconto di pena invece si applicherà a chi è ancora ristretto - nelle condizioni già citate - nelle carceri del nostro Paese. Intendiamoci, il Parlamento italiano non ha scoperto tutto d'un tratto la solidarietà verso i detenuti. Con questo decreto, il nostro Paese cerca infatti di evitare una pioggia di risarcimenti di entità imprevedibile, visto che oltre 6000 detenuti hanno già presentato ricorso alla Corte europea per violazione dell'articolo 3. Non è difficile prevedere l'esito di questi procedimenti, visto che il precedente è già stato fissato dalla sentenza Torreggiani, dal nome di un ex detenuto nel carcere di Busto Arsizio che si rivolse alla Corte Ue. L'8 gennaio 2013, infatti, la Corte ha certificato che il nostro sistema carcerario non solo funziona male, ma lede i diritti più elementari degli esseri umani. Tra i quali, appunto, quelli stabiliti dall'articolo 3. Come conseguenza, i giudici hanno dato all'Italia un anno di tempo per mettere la famosa “pezza”. Cioè per approvare una legge che prevedesse compensazioni e garantisse “una riparazione effettiva” per le violazioni della Convenzione. “Il decreto legge appena approvato a Montecitorio non è una sorpresa, visto che era una procedura obbligata. Ma è sicuramente una buona notizia, nel nome della dignità e del rispetto dei diritti” è il commento di Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone. Il fondo per i risarcimenti ammonterà a 20,3 milioni di euro fino al 2016. Una cifra che potrebbe sembrare piuttosto esigua. Secondo Gonnella, però, “è un calcolo tutto sommato esatto. Teniamo presente infatti che dal gennaio 2013 a oggi il numero dei detenuti è calato da 66.000 a 58.000. I detenuti reclusi in meno di tre metri quadrati sono, al momento, poche decine. La ratio del decreto è quella di risarcire chi, in passato, ha vissuto in quelle condizioni”. Il riferimento ai 3 metri quadrati non è casuale. Nel 2009, infatti, un'altra sentenza della corte europea dei diritti dell'uomo - che tra gli addetti ai lavori è nota come “sentenza Sulejmanovic” - accertò che il detenuto bosniaco che aveva fatto ricorso, Izet Sulejmanovic, era stato recluso in uno spazio di 2,7 metri quadri in una cella del carcere di Rebibbia. Una condizione che violava l'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo. Il Comitato per la prevenzione della tortura ha infatti fissato lo spazio minimo in 7 metri quadri. Il calcolo fu piuttosto semplice: Sulejmanovic - che ottenne un indennizzo di 1000 euro - aveva condiviso una cella da 16,20 metri quadri insieme ad altre cinque persone. Di qui l'assunto: nel momento in cui lo Stato obbliga un detenuto a vivere in meno di tre metri quadrati, gli infligge un trattamento “disumano e degradante”. Stabilita l'entità dei risarcimenti, bisognerà capire in quali casi concederli e in quali no. Insomma, capire di caso in caso quand'è che le condizioni di un detenuto violano la Convenzione. “Il principio finalmente è passato: lo Stato riconosce che una situazione di sovraffollamento grave esiste. In passato era stato messo in dubbio persino questo. Ora è tutta una questione di interpretazione” spiega Alessandro Stomeo, avvocato di Lecce che da anni si occupa di diritti dei detenuti. “I magistrati si rifaranno ai parametri della sentenza Sulejmanovic oppure no? E se il detenuto, pur avendo vissuto in meno di tre metri quadrati, ha comunque passato diverse ore al di fuori della cella, magari perché il direttore della struttura ha consentito il regime delle sezioni aperte, cosa accadrà? In quel caso, dubito che possa essere riconosciuto il risarcimento”. Il regime delle sezioni aperte consente ai detenuti meno pericolosi di muoversi liberamente all'interno di un braccio del carcere, in orari prestabiliti. Alessandro Stomeo non è un avvocato qualunque. Nel 2011 il legale salentino vinse una causa storica che, in un certo senso, anticipò di tre anni il decreto carceri ora al vaglio di palazzo Madama. Stomeo riuscì infatti a fare ottenere al suo assistito, un ex detenuto tunisino che era stato recluso nel carcere di Lecce, un risarcimento di 220 euro per le “lesioni alla dignità umana” patite in un mese di reclusione. A differenza del caso Sulejmanovic la sentenza di Lecce proveniva da un magistrato di sorveglianza italiano e non dalla corte europea. Altre novità. Il decreto carceri ha stabilito anche un aumento del personale di Polizia penitenziaria di 204 unità. La differenza tra i 703 ispettori e vice ispettori in meno e i 907 tra agenti e assistenti in più. “I sindacati di Polizia saranno sicuramente soddisfatti, tuttavia le lacune sono altrove: mancano psicologi, educatori,assistenti sociali, magistrati di sorveglianza - ammonisce Patrizio Gonnella - e proprio le recenti leggi approvate attribuiscono ulteriori compiti e una maggiore mole di lavoro sia ad assistenti sociali che ai magistrati di sorveglianza”. Il decreto appena approvato, infatti, attribuisce a questi ultimi il potere di risarcire i detenuti, mentre un'altra legge, passata nell'aprile scorso, consente agli imputati di chiedere la sospensione del processo in cambio di un periodo di lavori di pubblica utilità. Con l'affidamento, appunto, ai servizi sociali. Dopo l'approvazione del decreto, da Lega Nord e Cinque Stelle sono piovute critiche. I grillini hanno parlato di “indulto mascherato” mentre secondo il leghista Nicola Molteni “un Paese che dà la paghetta ai criminali non è un paese né normale, né civile”. “Chi parla di indulto oggi è in malafede - risponde Patrizio Gonnella di Antigone - il decreto approvato in questi giorni è un tentativo di rimediare (con i soldi di tutti gli italiani) al disastro prodotto da leggi che hanno stipato le nostre carceri all'inverosimile. Curioso che molte critiche partano proprio da chi quelle leggi le promosse e le approvò”.

Risarcimenti: 8 euro per torturarti, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Dopo la “pena sospesa” da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più “minori” nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito “svuota carceri”, che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi “sbloccare fondi” utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece – lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: “ i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto” – così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: «Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate». E ancora: «a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese».

La giustizia è ingiusta, scrive Giuseppe Rossodivita su “Il Tempo”. Dopo la condanna dei giudici di Strasburgo con la «sentenza Torreggiani» - ai quali occorrerà fornire risposte entro il prossimo 28 maggio - arriva anche quella dei parlamentari europei giunti in Italia per vedere con i loro occhi le condizioni delle nostre carceri. Peggio di noi solo Serbia e Grecia, scrivono nel rapporto i membri della Commissione Libertà Civili preoccupatissimi, come i giudici di Strasburgo, per l’abuso della detenzione preventiva, che è patologia del processo penale nostrano. Nei fatti è una vera e propria pena anticipata in assenza di condanna, la custodia cautelare in Italia, che pesa circa il 40% delle presenze in carcere. La metà di questo 40% sarà poi assolto, dicono le statistiche del Ministero della Giustizia e le decine di milioni di euro per risarcire le migliaia di ingiuste detenzioni sono prelevate dalle nostre tasse, giammai dalle tasche dei giudici che sbagliano con così tanta preoccupante frequenza. In realtà il carcere disumano e degradante italiano non è altro che il dietro le quinte di uno spettacolo quotidiano osceno: quello dello sfascio del sistema giustizia. Oggi sarà decisa la sorte di Berlusconi, affidamento ai servizi sociali o detenzione domiciliare, condannato eccellente che per vent’anni ha parlato di riforma della giustizia senza però mai muovere un dito.

Giudici che sbagliano e celle-loculi. In un anno quasi nulla è cambiato, scrive Maurizio Gallo su “Il Tempo”. Innocenti dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei giudici. I primi spesso orfani di risarcimento dopo l’ingiustizia subita. I secondi impuniti nella maggior parte dei casi, malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. E comunque tutti, vittime del sistema giudiziario e «sicuri» colpevoli, costretti a subire la stessa barbara sorte in carceri sovraffollate, in celle che assomigliano a loculi. Era il quadro che abbiamo dipinto oltre un anno fa sulle colonne de «Il Tempo». Sono trascorsi tredici mesi. Poco o nulla è cambiato. Il ddl sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione di Anm (l’associazione delle toghe) e Csm (il loro organo di autogoverno). E le patrie galere? Sono sempre strapiene, anche se un po’ meno. In realtà il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà. Inoltre stabilisce che venga eliminato il «filtro» in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l’ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Nel 2013 scrivemmo che, negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo. Ma, considerando che le domande rigettate si aggiravano su due terzi del totale, si arrivava per difetto a circa 50 mila, 50 mila innocenti in galera, appunto. Il tutto per una spesa pubblica di circa 600 milioni di euro. Facendo un paragone fra l’anno scorso e quello in corso, sembrerebbe che i giudici sbaglino meno. Se, infatti, nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni erano stati 1368 e per gli errori giudiziari 25, nei primi dieci mesi del 2014 siamo a 431 ingiuste detenzioni e a 9 errori (fonte il sito «Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. Ma la statistica inganna, come insegna Trilussa. E anche in questo caso la parola magica è «ammissibilità»: dal ministero dell’Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l’ammissibilità della domanda di risarcimento. Non ci sono meno errori, ci sono meno soldi per le vittime degli errori e più richieste gettate nel cestino. Il 28 maggio 2014 è scaduto l’«ultimatum» della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. Noi siamo corsi ai ripari con provvedimenti come il decreto «svuota carceri», il perfezionamento di accordi e procedure per l’espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. E siamo stati promossi. Per ora. Ma non del tutto a ragione. Al 31 luglio 2013 dietro le sbarre c’erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Ma i radicali, da sempre impegnati sul fronte carceri, spiegano che dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43 mila posti. Insomma, se dodici mesi orsono, prima della verifica Ue, eravamo fuorilegge per 17.414 detenuti in più, adesso lo siamo «solo» per 4.848. Una bella consolazione. Ma non basta. Grazie alla possibilità che i carcerati hanno di uscire dalla cella oltre che per la classica ora d’aria e a causa dello scarso numero dei sorveglianti, sono aumentate le aggressioni agli agenti della penitenziaria: per il sindacato Sappe, del 70 per cento da quando c’è questa «vigilanza dinamica». E sono aumentati i suicidi degli agenti, che sono già 10 contro gli 8 di tutto il 2013. Quelli dei detenuti sono scesi ma soprattutto per il calo della popolazione carceraria. E anche lo sfruttamento dei 2000 «braccialetti elettronici», prima non impiegati, non ha risolto il problema, poiché per il Sappe ne occorrerebbero almeno il triplo. Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti il 14 ottobre ha rivolto al Governo un’interrogazione con cui segnalava che «alcuni magistrati di sorveglianza» stanno «rigettando» le richieste di risarcimento dei detenuti ristretti in condizioni che violavano l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, quello utilizzata dalla Corte Ue per bacchettarci. Anche in questo caso, il motivo è «una ritenuta inammissibilità dei reclami» per le detenzioni pregresse» o quelle che «si protraggono in diversi istituti». Insomma, il detenuto deve sperare che la richiesta arrivi al magistrato prima del suo trasferimento in un’altra prigione e, nel secondo caso, dovrebbe adire al giudice civile». Cosa, quest’ultima, praticamente impossibile nelle sue condizioni. Giachetti, poi, fa notare che la Corte non faceva solo riferimento allo spazio a disposizione dei carcerati, ma anche alla «possibilità di usare i servizi igienici in modo riservato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce naturale e all’aria, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base». Un altro punto, infine, è se la superficie «vitale» (3 metri quadri) debba o meno comprendere gli arredi. E il Governo che ha risposto? Non ha risposto.

Niente responsabilità del magistrato, il calvario dei risarcimenti, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Tempo di bilanci, delle mille promesse, delle mille assicurazioni, e dopo la quantità di battimani per la presa di posizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, giunto a inviare un solenne messaggio alle Camere, il suo primo e unico messaggio, dopo le clamorose sentenze della Corte Costituzionale e delle giurisdizioni nazionali e internazionali; e dopo la clamorosa denuncia di papa Francesco che ha raccolto l’appello di Marco Pannella sulle carceri e levato la sua voce contro l’ergastolo, in concreto cos’è cambiato? Purtroppo poco o nulla. Innocenti continuano a languire dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei magistrati; per ulteriore beffa raramente vengono risarciti per il danno subito. I magistrati, a loro volta, quasi sempre se la cavano, nella maggior parte dei casi restano impuniti, e questo malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. Andiamo per punti: il disegno di legge sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione dell’Associazione Nazionale dei Magistrati e del Consiglio Superiore della Magistratura. Il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà dello stipendio. Inoltre stabilisce che venga eliminato il "filtro" in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l'ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo; ma vanno considerate anche le domande rigettate: circa i due terzi del totale; arriviamo così, per approssimazione a circa 50 mila persone innocenti che per qualche tempo hanno soggiornato in carcere. Non consideriamo i danni fisici e psicologici, irrisarcibili e impagabili. Consideriamo solo i costi “vivi” del tenere un detenuto in carcere. Quei 50 mila sono costati alle tasche del contribuente almeno 600 milioni di euro. Tanto sono costati quei 50 mila detenuti innocenti. Compariamo altri dati. Nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni sono state 1.368, e per gli errori giudiziari 25; nei primi dieci mesi del 2014 le ingiuste detenzioni sono state 431 e nove gli errori (la fonte è il sito "Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. C’è una spiegazione: dal ministero dell'Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l'ammissibilità della domanda di risarcimento. Quindi non è che si sbaglia di meno, è che ci sono meno fondi per le vittime degli errori, e di conseguenza più richieste rigettate. Passiamo al sovraffollamento delle carceri. Nel maggio scorso è scaduto l'ultimatum della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. L’Italia ci ha messo una toppa con provvedimenti come il decreto "svuota carceri", il perfezionamento di accordi e procedure per l'espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. A Strasburgo hanno chiuso un occhio. Per ora. Ma dietro le sbarre c'erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Obietta la segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini, che da sempre segue le vicende della giustizia ed è unanimemente considerata un’autorità in materia, ci spiega che “dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6.000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43mila posti”. Se un anno fa, prima della verifica UE, l’Italia era fuorilegge per 17.414 detenuti in più, lo è "solo" per 4.848; e proseguono i suicidi tra i detenuti e, anche,  degli agenti di custodia: quest’anno già dieci (nel 2013 furono otto). Torniamo alla questione dei risarcimenti per ingiusta detenzione. La procedura è lenta, farraginosa; la dimostrazione di quanto la burocrazia possa essere insensata. Il diritto al risarcimento, secondo elementare logica, nasce da un danno subito ingiustamente, in questo caso la privazione della libertà. Una volta accertato che il cittadino è innocente, il risarcimento dovrebbe essere automatico. Diventa invece un calvario di burocrazia e di ostacoli che appaiono frapposti ad arte: la richiesta deve essere presentata nella sezione di appello preposta, due fascicoli, ciascuno con indice, tre copie dell'istanza, una serie impressionante di allegazioni. La persona che ha patito la carcerazione ingiusta deve rintracciare il fascicolo dibattimentale e quello del pubblico ministero ed estrapolare dal loro interno copie, alcune in forma autentica, dì atti dibattimentali e predibattimentali. Spesso si tratta di processi corposi con molti imputati e mentre l'assoluzione dell'istante diviene definitiva, altri imputati condannati propongono impugnazione. Il fascicolo si sposta. Altra cancelleria. Alcuni atti vanno in archivio,spesso si tratta di numerosi faldoni. Quando il richiedente cerca i documenti necessari, il primo sbarramento è dato proprio dalla ricerca del materiale. Il viaggio inizia nella cancelleria di origine e si snoda per archivi e uffici sotterranei alla ricerca degli atti da allegare. Poi, una volta trovati bisogna chiedere che i fascicoli vengano inviati all'ufficio addetto al rilascio copie. Il personale spesso è carente, quindi occorrono giorni per soddisfare la richiesta. Quando finalmente tutti i documenti sono all'ufficio copie, spillati e catalogati, ciascuno nel suo faldone impaginato il richiedente può compilare la richiesta copie. Quando poi finalmente il materiale necessario è raccolto, naturalmente corredato dall’istanza di risarcimento, i fascicoli ordinari e completi di indice, allora non resta che incrociare le dita e toccare ferro e tutto il toccabile. Bisogna attendere che l‘udienza sia fissata, e sperare che il risarcimento sia riconosciuto.

Per gli errori dei magistrati spesi 600 milioni di euro in 20 anni. Prime Palermo e Catanzaro, scrive Dino Martirano su “Il Corriere della Sera”. Oltre ventiduemila risarcimenti. Perugia la più virtuosa. La cifra media pagata è di 6-700 euro al giorno. L'anno peggiore è stato il 2011. Nel 1983 la lettera di Tortora che soffriva l'errore giudiziario sollevò il caso. Il 17 giugno del 1983, quando venne arrestato su richiesta dei pm di Napoli con accuse pesantissime poi liquefatte come neve al sole, Enzo Tortora non immaginava nemmeno cosa fosse l'inferno del carcere preventivo: «La stregonesca e medioevale iniquità del rito giustizia in ferie come una rivendita di gelati, scriveva ad un amico il presentatore tv nel torrido agosto di quell'estate, mentre la spazzatura umana è lasciata fermentare nei bidoni di ferro delle carceri... Sventurati non interrogati e, come me, innocenti... Fate qualcosa, vi prego...».Quella lettera, scritta su un foglio a righe color paglierino, oggi campeggia nell'ufficio del vice ministro della Giustizia, Enrico Costa (Ncd), che la conserva incorniciata perché Tortora la spedì a suo padre, Raffaele Costa, sottosegretario e ministro negli anni 80. Da quel pezzo di carta, per il giovane vice ministro, è nata la curiosità di capire con le cifre cosa sia successo in questi 30 anni: il caso Tortora, conclusosi con un'assoluzione piena, generò, un anno prima della morte del presentatore, il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), il nuovo codice di procedura penale (1988) che introdusse la riparazione per ingiusta detenzione e la legge Carotti (1999) che ha portato da 100 milioni a 516 mila euro il tetto del risarcimento. Negli ultimi 20 anni, i fascicoli R.I.D. (Riparazione per ingiusta detenzione) liquidati dal ministero dell'Economia sono 22.689 per un totale di 567 milioni 744 mila 479 euro e 12 centesimi. I risarcimenti (le richieste fino ad oggi sono state 32.998) sono andati a chi è stato sottoposto a custodia cautelare e poi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile. Ma i soldi sono andati anche a chi ha subito una ingiustizia formale a causa dell'applicazione illegittima della custodia in carcere a prescindere dalla successiva sentenza di assoluzione. Nella geografia delle procure e degli uffici Gip che sono costati di più in termini di risarcimenti spicca la piccola Catanzaro: nei primi sei mesi del 2014 ha prodotto 65 fascicoli R.I.D. liquidati per 2 milioni 303 mila 163 euro. La cifra media dei risarcimenti è di 6-700 euro al giorno. Per cui a Palermo (i reati di mafia prevedono una custodia cautelare più lunga e, dunque, risarcimenti più pesanti), i 35 casi di ingiusta detenzione hanno inciso solo quest'anno per 2 milioni 790 mila 476 euro. Mentre a Napoli, sempre nel 2014, i risarciti sono stati 48 per un totale di oltre un milione e 200 mila euro. Virtuose,anche perché piccole, le corti d'Appello di Perugia (2 casi, circa 12 mila euro) e di Trento (1 caso, circa 27 mila euro). Si tratta, spiega Costa, «di cifre importanti ma fredde: sono numeri che non raccontano le storie umane e i drammi di chi ha dovuto conoscere il carcere a causa dell'errore, o quanto meno della superficialità, di un pm o di un gip». Oggi i magistrati del caso Tortora, gli ex pm Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, l'ex giudice istruttore Giorgio Fontana, non sono degli sconosciuti «ma tutti gli altri magistrati che fine hanno fatto?», è la domanda provocatoria di Costa: «Proporrò che venga avviata una commissione ministeriale per monitorare gli errori e le leggerezze che sono all'origine dei risarcimenti». È certo che questa proposta, nei giorni in cui alla Camera sono calendarizzate le regole più stingenti sulla custodia cautelare e al Senato si affronta la responsabilità civile dei magistrati, rischia di aprire più di qualche crepa tra Ncd e Pd.

CARCERI. MORIRE DI STATO.

Si chiamava Libertà. Un giorno scese per strada e prese a interrogare la gente che incontrava. Le risposte che ebbe furono di questo genere: «Fatevi i fatti vostri. – Non te ne incaricare. – Impicciati per te. – Lascia perdere. – Chi te lo fa fare? – Te l’ha ordinato il medico? – Ti pagano per questo? – Sei stanca di campare? – Ti puzza di vivere? – Attacca l’asino dove vuole il padrone. – Non fare la stupida. – Non ti mettere nei guai. – Gli stracci vanno per aria. – Passata la festa gabbato il santo. – L’oro non si macchia. – Sta’ coi frati e zappa l’orto». Libertà disse: «Questa gente è molto saggia, non ha bisogno di me». Infatti cominciò a uscire meno e un giorno annunciò che se ne andava. Ai giornalisti che l’assediavano per conoscere i motivi della sua decisione rispose in modo alquanto enigmatico. Disse sorridendo: «La libertà va tenuta in continua riparazione».” (Ennio Flaiano, La solitudine del satiro).

Quanto fa chic criticare il verdetto sul caso Cucchi. È il partito unico dell'indignazione. Quello che non ammette i dubbi. Quello che non accetta le perizie quando non siano risolutive o, peggio, contraddittorie, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. È il partito unico dell'indignazione. Quello che non ammette i dubbi. Quello che non accetta le perizie quando non siano risolutive o, peggio, contraddittorie. Quello che un colpevole, il Colpevole, meglio in divisa ma va bene anche il camice, lo vuole per forza. Con le buone o con le cattive. E se la giustizia non lo trova, non li trova, perché non ce l'ha fatta, perché è arduo distinguere o perché forse più banalmente non ci sono aguzzini, ecco che si scatena. E fa a pezzi lo Stato e l'apparato giudiziario e tutto il resto. Perché le sentenze si rispettano, ma qualche volta no. Quella che riguarda Stefano Cucchi, con l'assoluzione dei medici condannati in primo grado, non può passare. Anzi si grida allo scandalo e alla vergogna e i titoli dei giornali e dei tg sono un terzo grado e anche un quarto. Durissimo. Implacabile. Senza camera di consiglio perché in fondo non ce n'è bisogno. «Chi è Stato?», gioca con perfida maestria Massimo Gramellini sulla Stampa . «Non è successo nulla», è il sanguinante commento di Concita De Gregorio su Repubblica. Sempre su Repubblica Carlo Bonini parla di «ferite inspiegabili e testimoni ignorati». È tutto un coro che va oltre le pagine e arriva sui social network e s'infiamma con le requisitorie di Fedez e Saviano. Non manca nessuno. Ci sono tutti, forse con un riflesso tardo sessantottino, e se la prendono con i carabinieri e poi con gli agenti della polizia penitenziaria e ancora, usciti di scena gli uni e gli altri, con i medici e gli infermieri. E alla fine, visto che i conti non tornano, puntano il dito contro tutto e tutti. Contro i silenzi. Contro le omissioni e il clima di omertà. E così il paradosso chiama un altro paradosso, il furore vuole altro furore, fino a perdere la misura. E il rispetto minimo per le istituzioni e le facce che le riempiono. L'assoluzione diventa l'occasione per dire che lo Stato talvolta nasconde le prove e chiude i cassetti. Come ai tempi mai rimpianti delle bombe. Peccato. Certo ci sono quelle foto del giovane: dolorose, impressionanti, terribili. Ma i processi non si fanno in piazza. «Una condanna senza prove - afferma il presidente della corte d'appello di Roma Luciano Panzani - aggiungerebbe obbrobrio a obbrobrio». Ma nessuno lo ascolta. Il sindaco Marino vuole ricordare Cucchi intitolandogli una strada. E Rita Bernardini dei radicali insiste per introdurre il reato di tortura. È la fiera del politically correct. La verità invece è in fuga.

Strano che Zurlo abbia preso questa posizione. Non è la condanna delle "guardie" che soddisfa la voglia di giustizia. E' la condanna della giustizia, ergo dei magistrati, che non ha saputo trovare il responsabile. Oppure per Il Giornale si è garantisti solo se si tratta di Berlusconi, Sallusti e le Forze del'Ordine?

Invece è coerente con se stesso l'analisi di Sansonetti: da vero garantista.

Stefano Cucchi, la giustizia non è sempre condanna, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. La Corte ha deciso di assolvere tutti, e quindi l’uccisione di Stefano Cucchi non sarà punita. Si sa che Cucchi è stato ucciso mentre era in prigione, si sa che Cucchi era in prigione per ragioni stupidissime, si sa che Cucchi è una vittima dello Stato, si sa che l’Ospedale Pertini ha enormi colpe, e quindi si sa che molto spesso legge non è sinonimo di diritto, e talvolta legge è sinonimo di violenza, o addirittura di delitto. Però non si sa chi porta la responsabilità personale per l’uccisione di Stefano Cucchi. Lo Stato non è una persona. La Costituzione dice che la responsabilità è personale, non è di gruppo, e che va provata in modo inequivocabile. In casi come questi è difficilissimo distinguere tra diritto e sopraffazione e anche tra diritto e sentimento e tra diritto e giustizia. E non è facile definire il luogo esatto nel quale si trova il punto di vista garantista. Il delitto Cucchi, che è un delitto di Stato, è rimasto impunito. E questa è una ferita al diritto. Perché rende evidente l’incapacità, da parte dello Stato, di punire i suoi stessi delitti. E anche l’incapacità di garantire che lo ”stato di diritto” viva dentro il nostro sistema carcerario. Non solo è una ferita al diritto, ma è un atto di accusa nei confronti del nostro sistema carcerario, del sistema di polizia e della giustizia. I parenti di Cucchi versano le loro lacrime, perché speravano in una sentenza che chiarisse le cose, e dicesse loro perché è stato ucciso Stefano, e da chi. E naturalmente chiunque abbia un cuore e un vago senso della giustizia è dalla parte loro, del loro dolore, della rabbia per il modo nel quale lo Stato italiano gli ha portato via Stefano. E tuttavia è molto pericoloso identificare la Giustizia con la Condanna. Credere che una Corte, per fare il proprio dovere, debba comunque condannare. Non è così. Mai. Non è così nei confronti del piccolo imputato, nei confronti di Berlusconi, e nemmeno dei confronti degli agenti della Diaz o dei medici e delle guardie carcerarie imputati per il caso Cucchi. La necessità di fare giustizia e di scoprire la realtà è una necessità politica e non può essere mescolata con la necessità di fare giustizia secondo le norme della Costituzione. Se non esistono prove sufficienti sulla responsabilità personale degli imputati, gli imputati vanno assolti. Pensare che l’assoluzione violi i diritti della parte offesa, o violi la richiesta popolare di giustizia è la fonte più pericolosa del giustizialismo che mette in mora lo Stato di diritto. Io non me la sento di unirmi al coro indignato per l’assoluzione. Sono convinto che nel dubbio si debba sempre assolvere e che una giustizia giusta non è una giustizia che appura la verità, o addirittura la verità storica, ma è una giustizia che rispetta le norme e che risponde al principio della presunzione di innocenza. Il caso Cucchi forse è il più clamoroso sotto questo aspetto. Perché il contrasto tra la sentenza e l’aspettativa di massa verso la sentenza è grandissimo. Noi volevano una sentenza che punisse i soprusi in carcere, perché odiamo i soprusi in carcere e crediamo che occorrano dei fatti concreti per por fine a questi soprusi. Giustissimo. Ma una sentenza, o una indagine, o qualunque altro procedimento giudiziario, mai possono avere come scopo quello di imporre una modifica politica, o culturale o istituzionale. O addirittura di costituire “un esempio”. La giustizia esemplare non è giustizia. E neppure – per assurdo – la giustizia può avere lo scopo di accertare la verità. L’idea che la Giustizia sia l’anima della società è la madre di tutte le sopraffazioni della magistratura. Diceva Pierpaolo Pasolini, accusando il potere politico – e in particolare la Dc – ”Io so, ma non ho le prove”. Lui diceva di sapere chi aveva fatto le stragi, quella di piazza Fontana, quella dell’Italicus, quella di Brescia. Aveva ragione. E’ facile dire che quelle stragi ( e quelle successive, avvenute dopo la sua morte) erano state realizzate quantomeno con la complicità di pezzi dello Stato e del mondo politico al potere. Ma questo non bastava, non basta per individuare i colpevoli. Per formulare accuse, per emettere sentenze. A Bologna nel 1980 sono state uccise quasi cento persone, con una bomba. C’è stato un processo e sono stati condannati tre ragazzi di allora: Fioravanti, Mambro, Ciavardini. Quasi tutti coloro che si sono occupati di quei fatti sono praticamente sicuri che quei tre non c’entrano niente con la bomba di Bologna. Però erano fascisti, e la strage, più o meno – forse – era fascista. Voi credete che sia stata fatta giustizia per quella strage, solo perché è stata emessa una sentenza? P.S. Molti chiedono: chi risarcirà la famiglia di Stefano? La famiglia di Stefano, che in questi anni si è dimostrata una famiglia meravigliosa, dolce, amabile, può essere risarcita in mille modi, non con una sentenza. Le sentenze servono ad affermare il diritto, non per risarcire i parenti.

Ecco perché il processo Cucchi è stato un fallimento, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. La carcerazione preventiva è, nel nostro sistema processuale, l’ultima ratio, quando ogni altra misura risulti inadeguata a rispondere alle esigenze cautelari, nell’ottica della prevenzione del crimine e della sicurezza. Cominciamo da qui, con le parole rivolte da papa Francesco all’Associazione internazionale di diritto penale: la carcerazione preventiva, ”quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto”, costituisce “un’altra forma di pena illecita e occulta, al di là di ogni patina di legalità”. E ancora: “Il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuta verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte”. Stefano Cucchi è morto a 31 anni in custodia cautelare. Il 15 ottobre 2009 viene fermato dalla polizia dopo essere stato visto cedere a un uomo delle confezioni trasparenti in cambio di una banconota. Portato in caserma e perquisito, viene trovato in possesso di 12 confezioni di varia grandezza di hashish, 21 grammi in tutto, tre confezioni di cocaina, ognuna di una dose, una pasticca di un medicinale. Stefano soffriva di epilessia. Era alto 1.76 e pesava 43 chili. Viene arrestato e processato per direttissima. Già durante il processo ha difficoltà a camminare e a parlare e mostra evidenti ematomi attorno agli occhi. Il calvario è iniziato. Dalle celle del Tribunale, al carcere di Regina Coeli, al Fatebenefratelli – dove vengono messe a referto lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all’addome, una frattura della mascella, un’emorragia alla vescica e al torace; due fratture alla colonna vertebrale – ancora al carcere e, infine, alla struttura detentiva dell’ospedale Sandro Pertini dove Stefano muore, il 22 ottobre 2009. Ha perso sei chili, è disidratato e denutrito. Il suo corpo porta i segni orribili di un martirio. E’ solo. I familiari non lo hanno potuto vedere. Non hanno saputo nulla delle sue condizioni di salute. Medici e infermieri non hanno sentito il dovere di chiamarli, di avvisarli. Stefano è morto solo. I familiari hanno appreso da un ufficiale giudiziario della sua fine. Serviva il consenso per l’autopsia. Non doveva essere arrestato Stefano. Deteneva una modesta quantità di droga, era malato e fragile o “vulnerabile” come dice papa Francesco. Ecco il primo punto dolente della tragedia di Cucchi: una persona nelle sue condizioni, per quel reato, non doveva mai entrare in carcere al di là dell’orrore che ne è seguito. E ancora, una legislazione diversa in materia di detenzione di stupefacenti, e di hashish in particolare, una normativa nella direzione proposta con forza dai Radicali – che ne hanno fatto il centro mediatico anche del congresso a Chianciano – che ammette la cannabis per uso terapeutico (i cui effetti benefici sull’epilessia sono ormai certificati), avrebbero creato uno sbarramento normativo. Oggi Stefano sarebbe vivo. Era epilettico e gracile. Non doveva essere arrestato. A cinque anni dalla sua morte resta lo strazio per quello che non si è fatto, che non è stato e che doveva essere. La Corte di Assise di Appello di Roma ha assolto tutti gli imputati: sei medici, tre infermieri, tre agenti della polizia penitenziaria: mancanza di prove. Niente prova, niente condanna. Giusto, santo principio di diritto. Ma il punto è: i giudici si ricordano della necessità di una prova granitica solo quando imputati sono forze dell’ordine o appartenenti a strutture protette? E le indagini? E le escussioni testimoniali? Che reazioni hanno avuto pm e giudici davanti alla reticenza? Alla menzogna? Cucchi era in carcere. Ogni suo movimento era registrato. Il personale che lo accompagnava, spostava, dovrebbe essere noto. I medici basta che fossero presenti, ciascuno al momento del suo turno. Non si sono accorti che moriva o che si lasciava morire? Non era compito loro impedirlo? Dodici imputati sono pochi. Dove sono tutti gli altri? Tutti coloro che non potevano non vedere in che condizioni era Stefano, non sentire l’invocazione di aiuto urlata se non da lui dal suo corpo che si spegneva? Dove sono tutte le persone che nel passaggio da una all’altra struttura statale protetta avevano il dovere di custodire, preservare, proteggere Stefano? Chi ha voluto che morisse? Chi ha lasciato che morisse? Chi ha costruito – sapientemente e non – false versioni che non stavano in piedi? Tutti assolti. Stefano è morto nelle mani dello Stato, dei medici, del personale ospedaliero. Un’azione (o un’omissione) frammentata e collettiva ha portato alla sua morte. Quanti hanno taciuto? Omesso? Nascosto le responsabilità proprie e di altri? Quanti sono i responsabili della morte di Stefano? Non è l’assoluzione che sconcerta più di tutto. E’ la sotterranea, strisciante percezione che non si sia cercata la verità. Stefano Cucchi e’ morto. Nessuno ha visto. Nessuno ha sentito. Nessuno parla. Qualcuno lo ha preso in consegna. Qualcuno lo ha massacrato di botte. Qualcuno ne ha registrato l’ingresso in carcere, in ospedale. Qualcuno doveva curarlo ma ha lasciato che morisse. Il corpo straziato di Stefano è stato visto da tutti. Tutti assolti. Lo Stato si assolve. Mentre Giovanardi nega perfino il pestaggio, Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap, commenta il processo per la morte di Stefano Cucchi: si dice soddisfatto: ”in questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità”. “Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze. Senza che siano altri, medici, infermieri o poliziotti in questo caso, ad essere puniti per colpe non proprie”. Allora Stefano é morto di overdose? Per strada? Mentre ballava ad una dissoluta festa tra amici? Si é schiantato con la macchina perché guidava ubriaco? No! È morto nelle mani dello Stato! “Quando un cittadino è nella custodia dello Stato – ricorda il Senatore Luigi Manconi – il suo corpo diventa il bene più prezioso, qualunque sia il suo curriculum criminale. La legittimazione morale dell’azione dello Stato sta nella garanzia della sua incolumità. Stefano Cucchi, mentre era agli arresti, è stato oggetto di un pestaggio, e poi non è stato assistito adeguatamente, come ha stabilito la sentenza di primo grado, quindi lo Stato ha fallito nel suo compito principale”. Ancora: “Non è accettabile – dice Pignatone, procuratore capo di Roma – dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato”. Promette di riaprire le indagini, Pignatone, se verranno segnalati elementi di novità. Un atteggiamento sano, di interesse alla verità che lascia uno spiraglio di speranza. Sono troppe le morti di Stato senza colpevole. Poche sono note: Dino Budroni, Michele Ferrulli, Giuseppe Uva. Uccisi ma senza assassini. Per l’omicidio di Federico Aldrovandi gli imputati sono stati condannati, omicidio colposo. Nella sentenza la descrizione di una ferocia che si fa fatica davvero a chiamare “colpa”, nella sua portata codicistica “negligenza, imprudenza o imperizia”: manganelli spezzati accanto al corpo di Federico, un corpo straziato, ammanettato a faccia in giù, a lungo, mentre moriva. Indossano ancora la divisa. Sono ancora tutori della legge. Lungi dall’approdo a una deriva giustizialista e manettara, occorre affermare con forza il principio – un principio di garanzia e di giustizia – dell’ eguaglianza sostanziale che muore ogni volta che sotto processo ci sono ”i buoni” per dogma, e farsi portatori rabbiosi dell’esigenza sempre più pressante che si sfondi un sistema corporativo e omertoso che si ripiega su sé stesso proteggendosi. Finché non capiremo, non capiranno, che la punizione delle ”mele marce” non è un segno di debolezza ma di forza, saremo sempre deboli, corrotti e colpevoli. Tutti. Ma assolti, tutti. In nome del popolo italiano.

Davanti allo specchio del caso Cucchi. La vicenda del giovane romano fa paura. Perché mette le istituzioni a confronto con i propri limiti. E anche noi stessi. Come quando ci disinteressiamo del destino di una persona solo perché è un “tossico spacciatore”, scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. La morte fa paura, sempre. Ma ci sono circostanze in cui fa più paura. Questo accade quando non è possibile comprenderne le cause, quando abbiamo la sensazione di essere vicini alla verità dei fatti, ma alla fine quella verità ci fugge. Fa più paura quando abbiamo la sensazione che al posto del morto potevamo esserci noi, nostro fratello, nostra sorella, nostro padre o nostra madre. Nostro figlio, il nostro migliore amico. Sul caso Cucchi il circo mediatico urla e si divide tra chi ritiene che le sentenze vadano accettate, punto. Qualunque sentenza. Tra chi ritiene che si possano demolire quando non si è d’accordo. E chi crede che si debbano accettare - perché vivere all’interno del diritto è compito di chi fa parte di una comunità - ma si possano commentare. Perché commentare una sentenza significa anche mettere se stessi di fronte ai propri limiti. Significa anche fare i conti con i propri spettri. La morte di Stefano Cucchi, e gli esiti del processo in primo e secondo grado, per la comunità sono stati questo: uno specchio davanti al quale è stata costretta per anni a soffermarsi senza poter distogliere lo sguardo. Senza potersi distrarre o trovare consolazione. Stefano era un geometra di trentun anni, tossicodipendente e spacciatore. Viene fermato in strada a Roma il 15 ottobre del 2009 dopo essere stato visto cedere delle bustine a un uomo in cambio di una banconota. In caserma gli trovano addosso 21 grammi di hashish e tre dosi di cocaina. Al momento del fermo Stefano pesava 43 chili per 176 cm di altezza, non aveva segni di percosse sul corpo ma era in un evidente stato di denutrizione. Il giorno dopo, al processo, avrà difficoltà a parlare e a camminare e gli occhi gonfi per degli ematomi. Le sue condizioni peggiorano e al Fatebenefratelli lo visitano: lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso, all’addome e al torace. La mascella fratturata, emorragia alla vescica e due fratture alla colonna vertebrale. Stefano rifiuta il ricovero e viene portato al Regina Coeli. Morirà il 22 ottobre 2009 al Sandro Pertini, al momento della morte pesava 37 chili. Tredici le persone coinvolte nelle indagini, tra agenti della penitenziaria, medici e infermieri dell’ospedale Sandro Pertini. I capi d’accusa sono cambiati fino a decadere completamente il 31 ottobre 2014, quando la corte d’Appello di Roma ha assolto tutti gli imputati per insufficienza di prove. I processi si fanno nelle aule dei tribunali, non sui giornali, nei salotti o al bar. Eppure le foto di Stefano Cucchi le abbiamo viste tutti e tutti sappiamo che Stefano è entrato nelle maglie della giustizia denutrito ma nulla avrebbe fatto supporre una morte tanto improvvisa. E invece dopo una settimana, con il corpo pieno di contusioni e con sei chili in meno, Stefano muore. Una settimana lunghissima durante la quale non ha potuto incontrare la sua famiglia, anche questo rimarrà un mistero: perché negargli quell’unica possibile consolazione?

In assenza di prove nessun colpevole e quindi nessuna verità, a parte la verità processuale, e questo lascia atterriti. In assenza di prove restano le parole del capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone, che con le sue dichiarazioni ha salvato l’autorevolezza delle Istituzioni: «Non è accettabile dal punto di vista sociale e civile prima ancora che giuridico, che una persona muoia, non per cause naturali, mentre è affidata alla responsabilità degli organi dello Stato». Sono parole importanti perché stabiliscono quanto non è superfluo ricordare, ovvero che tutte le parti dello Stato coinvolte in questa vicenda hanno porzioni di responsabilità. E ce le abbiamo anche noi che alla notizia dell’ennesimo spacciatore arrestato tiriamo un sospiro di sollievo senza riflettere sull’iniquità della legge Fini-Giovanardi, finalmente riconosciuta incostituzionale, che ha riempito le carceri di tossicodipendenti e piccoli spacciatori ma non ha mai sfiorato i vertici delle organizzazioni criminali. Salvo poi leggere che dopo una settimana quel ragazzo, che ora tutti chiamiamo geometra e non più tossico e spacciatore, mentre era affidato allo Stato, è morto.

Il caso Cucchi fa paura perché mette la Democrazia allo specchio, di fronte alla sua incompiutezza. E Cucchi non è il solo a morire di Stato.

Detenuto suicida a Terni: la procura apre un’inchiesta, scrive Damiano Aliprandi su  “Il Garantista”. Novità dopo la pubblicazione della lettera shock da parte de il Garantista. Carlo Florio, il garante dei detenuti della regione Umbria, grazie all’interessamento del suo collaboratore Gabriele Cinti, ha presentato un esposto presso la Procura della Repubblica di Terni. La lettera in questione è una denuncia coraggiosa da parte del detenuto Maurizio Alfieri contro le guardie carcerarie del penitenziario. L’accusa è quella di aver istigato un detenuto rumeno al suicidio durante l’estate del 2013. Maurizio Alfieri racconta che a quel tempo era recluso nel carcere di Terni e ha sentito urlare due ragazzi «che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico». A quel punto ha chiesto spiegazioni, voleva capire bene cosa fosse accaduto, e gli riferiscono che «un loro amico di 31 anni era stato picchiato dalle guardie perché lo avevano trovato che stava passando un orologio, da 5 euro, dalla finestra con una cordicina». Così lo avrebbero chiamato sotto e picchiato dicendogli che «lo toglievano anche dal lavoro di barbiere». A quel punto testimoniano che il ragazzo avrebbe minacciato le guardie che si sarebbe impiccato se lo avessero chiuso;  ma dopo le botte lo mandarono in sezione e lui – sempre secondo la testimonianza riportata nella lettera – cercò di impiccarsi, per fortuna in maniera vana perché i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo che fungeva da cappio. Ma le guardie lo avrebbero chiamato e preso a schiaffi dicendogli che «se non si impiccava , lo uccidevano loro». Il detenuto sarebbe salito in sezione e dentro la cella avrebbe preparato un’altra corda per potersi impiccare. I suoi amici se ne sarebbero accorti ed avrebbero subito avvisato la guardia penitenziaria, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura e inizia a chiudere le celle. Ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo. A quel punto – sempre secondo la testimonianza riportata nella lettera – i due testimoni avrebbero gridato all’ispettore che il ragazzo si stava impiccando e per tutta risposta «ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella». Presi dalla paura anche loro sono rientrati, ma dopo aver visto che il loro amico romeno «si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo». Le guardie avrebbero chiuso tutte le celle, tornando dopo un’ora con il dottore «che ne constatava la morte, facendo le fotografie al morto». Maurizio Alfieri, nella lettera che ci ha inviato, racconta che i detenuti lo avevano pregato di non denunciare l’accaduto perché avevano paura di qualche ritorsione. Solo ora ha potuto denunciare questa terribile storia perché, secondo i suoi calcoli, i detenuti sono liberi. Noi de il Garantista abbiamo verificato che effettivamente, il 25 luglio del 2013, al carcere di Terni si è suicidato S. D. Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre. Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. Dopo la denuncia, corredata dal nostro articolo, presentata dal Garante dei detenuti dell’Umbria , confidiamo nella Procura di Terni affinché faccia luce su questa terribile vicenda. All’interno delle carcere, un istituzione totalizzante, vicende come queste sono storie di ordinaria follia e si uccide senza nemmeno fare un graffio perché il sistema penitenziario- giudiziario induce al suicidio: l’omicidio di Stato “perfetto”.

E le guardie gli dissero: «Impiccati o ti ammazziamo». Nell’estate del 2013, un recluso nel carcere di Terni si sarebbe suicidato su istigazione da parte delle guardie penitenziarie. A denunciarlo è il detenuto Maurizio Alfieri tramite una coraggiosa lettera che sta facendo il giro tra i siti web di controinformazione. Abbiamo verificato che effettivamente, il 25 luglio del 2013, al carcere di Terni si è suicidato S. D. all’interno della propria cella singola. Secondo quanto riferito dalla polizia penitenziaria, l’uomo, un rumeno di 32 anni detenuto in una cella singola, si sarebbe impiccato con la cintura dell’accappatoio alle sbarre della stessa cella. Il ritrovamento del corpo, poco dopo le 19, è stato rinvenuto da parte di un agente. La lettera che noi de Il Garantista riportiamo integralmente, racconta la storia che ci sarebbe stata dietro questo suicidio, rivelata dal detenuto Maurizio Alfieri su “Il Garantista”. «Carissimi/e compagni/e, Prima di tutto vi devo dire una cosa che mi sono tenuto dentro e mi faceva male… ma la colpa non è solo mia e poi potete capire e commentare la situazione in cui mi sono trovato e che ora rendiamo pubblica. L’anno scorso mentre a Terni ero sottoposto al 14 bis arrivarono due ragazzi, li sentivo urlare che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico… Così mi faccio raccontare tutto, e loro mi dicono che un loro amico di 31 anni era stato picchiato perché lo avevano trovato che stava passando un orologio (da 5 euro) dalla finestra con una cordicina, così lo chiamarono sotto e lo picchiarono dicendogli che lo toglievano anche dal lavoro (era il barbiere), lui minacciò che se lo avessero chiuso si sarebbe impiccato, così dopo le botte lo mandarono in sezione, lui cercò di impiccarsi ma i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo, così quei bastardi lo chiamarono ancora sotto e lo presero a schiaffi dicendogli che se non si impiccava lo uccidevano loro. Così quel povero ragazzo è salito, ha preparato un’altra corda, i suoi amici se ne sono accorti ed hanno avvisato la guardia, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura, l’agente iniziò a chiudere le celle, ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo, i due testimoni gridano all’ispettore che il ragazzo si sta impiccando e per tutta risposta ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella, finché dalla paura anche loro sono rientrati dopo aver visto che il loro amico romeno si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo, e quei bastardi hanno chiuso a tutti tornando dopo un’ora con il dottore che ne constatava la morte e facendo le fotografie al morto…Quei ragazzi mi hanno scritto la testimonianza quando sono scesi in isolamento, poi li chiamò il comandante Fabio Gallo e gli disse che se non dicevano niente li avrebbe trasferiti dove volevano… quei ragazzi vennero da me piangendo, implorandomi di non denunciare la cosa e di ridargli ciò che avevano scritto, io in un primo tempo non volevo, mi arrivò una perquisizione in cella alla ricerca della testimonianza ma non la trovarono, loro il giorno dopo furono trasferiti, poi mi scrissero che se pubblicavo la cosa li avrebbero uccisi, io confermai che potevano fidarsi. I fatti risalgono a luglio 2013, ai due ragazzi mancava un anno per cui ora saranno fuori. La testimonianza è al sicuro fuori di qui, assieme ad un’altra su un pestaggio di un detenuto che ho difeso e dice delle cose molto belle su di me. Ecco perché da Terni mi hanno trasferito subito! Ora possiamo far aprire un inchiesta e a voi spetta una mobilitazione fuori per supportarmi perché adesso cercheranno di farla pagare a me, ma io non ho paura di loro. Perdonatemi se sono stato zitto tutto questo tempo ma l’ho fatto per quei ragazzi che erano terrorizzati… Ora ci vuole un’inchiesta per far interrogare tutti i ragazzi che erano in sezione, serve un presidio sotto al Dap a Roma così a me non possono farmi niente. Non possiamo lasciare impunita questa istigazione al suicidio… Devono pagarla. Ora mi sento a posto con la coscienza, sono stato male a pensare alla mamma di quel povero ragazzo che lavorava e mandava 80 euro alla sua famiglia per mangiare, quei due ragazzi erano terrorizzati, non ho voluto fare niente finché non uscissero, adesso per dare giustizia iniziamo noi a mobilitarci… Sono sicuro che voi capirete perché sono stato zitto fino ad ora. Un abbraccio con ogni bene e tanto amore. Maurizio Alfieri, detenuto nel carcere di Spoleto.»

Cosa non si fa per un po’ di celebrità. La «rabbia» per la sentenza scatena Saviano, Fedez, Celentano e Jovanotti. Tanta retorica gratuita ma con un occhio ai «follower» sui social network, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo”. E così, anche sul caso Cucchi sta lavorando a pieno regime l’italico Areopago. Nell’Antica Grecia era il collegio delle magistrature formato da componenti d’«elite», provenienti dall’aristocrazia, che aveva il compito di custodire il rispetto delle leggi. Il nostro, invece, è Areopago un po’ naif ma ugualmente vellutato, ove siede il vippame radicalchic di profeti dell’ovvio, conquistatori di audience abili nel trasformare le buone cause in menù formato fast food, largo consumo e dubbia qualità. Non potevano di certo, costoro, tenersi lontani dalla vicenda di Stefano Cucchi e da quella sentenza gettata in pasto al popolo di twitter e diventata, per la nuova legge della natura, carne da hastag (quello creato ieri, #sonostatoio ha spopolato su Twitter). L’Areopago ha un’ efficienza collaudata, considerando che già dalle ore successive alla decisione della Corte d’Assise d’Appello di Roma, gli altri giudici, quelli del palcoscenico, avevano emesso la propria. «Rabbia per una sentenza che non fa giustizia», aveva scritto Roberto Saviano, che proseguiva «Rabbia per la famiglia di Stefano Cucchi che ricorrerà in Cassazione ma che probabilmente non saprà mai come si è svolta l’ultima settimana di Stefano in vita». Scontato: a che serve il ricorso presso la Suprema Corte quando l’autore di Gomorra ha già capito tutto? Un altro appartenente al gruppo di «quelli che è tutto chiaro» è l’attore Valerio Mastandrea, che twitta: «lo stato ammazza sempre due volte». E poi c’è il filone, molto agguerrito, dei cantanti. Il rapper Fedez, innalzato qualche settimana fa a eroe civile del nostro tempo per aver partecipato al raduno del Movimento 5 Stelle al Circo Massimo di Roma, scrive sempre sul social dei 140 caratteri: «Cucchi morto disidratato? Noi moriamo disidratati perchè certe stronzate non ce le beviamo. L'ingiustizia è uguale per tutti». Certo, anche da lui la conferma che per l’Areopago il terzo grado di giudizio non esiste. E poi ancora, Paola Turci si affida ad un gioco di parole: «è stato ucciso, e nessuno è stato». Raf invece, fa più il democristiano: «Casi come Cucchi o Aldrovandi provocano solo a chi è provvisto di coscienza un profondo senso di rabbia e sconcerto». I pezzi da novanta del microfono, però, sono scesi in campo ieri. La sentenza facebokiana di Jovanotti ha statuito che «la vita è una tombola ma le Istituzioni dello Stato non possono esserlo, non devono esserlo mai». E fin qui è pacifico. Ma il cantante che auspicava «una grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa» si lancia in una descrizione di un clima da Sudamerica. «Se per qualsiasi ragione mi ferma la polizia e io ho paura vuol dire che sono in un altro paese, uno di quelli dove spariscono le persone, uno di quelli dove se al bar fai una domanda sul governo cambiano discorso». Suggerimento: magari Jovanotti si rivolga a qualcuno che è stato fermato da una pattuglia con i valori dell’ alcool a posto e senza cocaina o hashish in tasca, e chieda se, di queste Forze dell’Ordine, c’è poi così tanto da avere paura. Tuttavia, non è a Jovanotti che spetta l’Oscar dell’artistica sentenza sommaria. Ma a colui che è ricordato, fra le tante belle canzoni, anche per i suoi silenzi televisivi che volevano dire tutto (pur se non si capiva niente), i suoi penetranti sguardi in camera, filtro per agguantare gli occhi dei telespettatori in attesa di abbeverarsi al Verbo. Sì, Adriano Celentano. Per dire la sua sui giudici (quelli veri, non quelli dell’Areopago della bella vita) in un post pubblicato sul suo blog aggancia addirittura Dante Alighieri, e li chiama «ignavi». Per la cronaca, l’ignavia era per il poeta fiorentino il peccato peggiore e ai dannati di competenza riservò una pena atroce, forse la peggiore, correre dietro una bandiera bianca con tormento di mosconi e vespe. E poi, il protagonista di Bingo Bongo si rivolge a Stefano Cucchi: «l’aria che respiri ha finalmente un sapore. Quel sapore che aria pura che non ha niente a che vedere con quella maleodorante che respiravi qui in terra». E non si risparmia una domanda, per così dire, filosofica, sempre rivolta al povero giovane: «Hai capito adesso in che mondo vivevi?». Sul punto, ha ragione lui. Questo mondo non è il massimo. Perché quando in una storia tragica alla ricerca della verità si preferisce la creazione di un’icona nazionalpopolare, dove tutto è detto e tutto è scritto per fare audience, vuol dire che esistono mondi migliori. E stia tranquillo Jovanotti. Questo non è, come fa intendere lui, uno di «quei paesi dove c’è un solo telegiornale». Ma di tg ce ne sono tanti, così come giornali, siti web, e iscritti ai social network. Ed enorme è la prateria di titoli, flash d’agenzia e follower da conquistare. Con un spirito da pionieri dalla faccia pulita, che però non hanno nessuna remora a trasformare in uno slogan qualunque la morte tragica di un povero ragazzo e la disperazione della sua famiglia.

Filippo Facci su Stefano Cucchi: "Quella verità che non si vuole accettare", scrive su “Libero Quotidiano”. C’è da rimanere un po’ straniti. In teoria sul caso Cucchi non dovrebbe ripartire nessuna nuova indagine, a meno che emergano delle novità che farebbero riaprire qualsiasi processo come prevede l’istituto della revisione. E a meno che il procuratore di Roma segue dalla prima Giuseppe Pignatone, con una procedura sicuramente non aliena alla pressione mediatica, non decida di andare a scovarsi personalmente le novità: rileggendo le carte del processo così da inventarsene un altro, un Cucchi-bis. Ma questo potrebbe avvenire solo a carico di altri soggetti, per esempio i carabinieri che nel 2009 arrestarono Cucchi e lo portarono in tribunale per l’udienza di convalida. Loro, in effetti, non furono neppure mai indagati, diversamente da alcuni agenti di polizia penitenziaria prosciolti due volte. Ora la procura potrebbe dirottarsi sui carabinieri - a grande richiesta - ma difficilmente sarà una revisione «a tutto campo», come titolava il Corriere online di ieri: non c’è più campo, infatti. Rimanere perplessi comunque è il minimo. Nella mattinata di ieri era sembrato che i giornali avessero titolato il falso nel tentativo d’intercettare un’indignazione comprensibilmente diffusa: «L’inchiesta può ripartire» (Corriere della Sera) o ancora «Riapriremo le indagini» (Il Fatto Quotidiano) anche se l’inchiesta e il processo in realtà sono chiusi: manca la Cassazione, ma dovrebbe essere solo un controllo di legittimità, ovvio. La sensazione, soprattutto a margine della spaventosa pressione mediatica che sta riguardando il caso Cucchi, è che questo Paese ancora una volta stia tentando di sfuggire a un caposaldo dello stato di diritto: cioè che la verità e la verità giudiziaria possono non coincidere. Non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza che ha mandato assolti i medici che dovevano curare Stefano Cucchi, ma conosciamo le carte del processo d’Appello perché sono identiche a quelle del primo grado: gli imputati, del resto, sono stati assolti sulla base degli stessi elementi in base ai quali dapprima erano stati condannati. Sicché, in primo luogo, ci sarebbe da chiedersi per quale ragione un giudice avrebbe dovuto forzare delle assoluzioni così impopolari, se non ne fosse stato convinto in punto di diritto. La risposta, a guardar le carte, rischia di essere molto impopolare e dolorosa: perché di prove a carico di singoli - nella sentenza di primo grado - purtroppo non se ne vedono. Ma in questo Paese è ancora molto difficile distinguere tra ciò che sembra evidente e ciò che risulta provabile. Esiste la verità: ma non esiste necessariamente una conseguente verità giudiziaria che sia dimostrabile nel corso di un processo. La verità sostanziale del caso Cucchi la conosciamo tutti: c’è un colpevole che si chiama Stato, perché uno Stato che prende in consegna un cittadino e poi se lo ritrova morto per incuria, beh, è uno stato colpevole e da Terzo mondo. Colpevole, di conseguenza, è oggettivamente l’intera filiera che ha riguardato la vicenda di Stefano Cucchi: si parte dal carabiniere che nel verbale d’arresto non trascrive i dati di Cucchi ma, per sbaglio, trascrive quelli di un albanese senza fissa dimora, e impedisce così che il detenuto possa fruire degli arresti domiciliari; ci sono i carabinieri che secondo la perizia possono aver picchiato Stefano Cucchi nei sotterranei del tribunale, o che, sempre secondo le perizie, possono anche non averlo fatto, perché il ragazzo era già malmesso di suo ed era già stato più volte al pronto soccorso per via della vita che conduceva da spacciatore acclarato; c’è, poi, il giudice che in ogni caso non si accorse di nulla nonostante le ecchimosi e le tumefazioni che il ragazzo già presentava; c’è il medico di Regina Coeli secondo il quale il detenuto era improbabilmente «caduto dalle scale», come del resto gli aveva raccontato Stefano stesso; e c’è naturalmente tutto il personale medico che cedette con sciatteria alle riluttanze di Cucchi, il quale rifiutava le cure (faceva lo sciopero della fame e respingeva le flebo, anche se era ipoglicemico) talché i medici neppure si accorsero che quella specie di scheletro vivente, che all’arresto pesava 43 chili nonostante fosse alto 1 e 76, in punto di morte era ormai ridotto a 37 chili. Fanno parte della filiera anche i regolamenti stupidi e le burocrazie ottuse: quelle che hanno impedito all’avvocato della famiglia di arrivare per tempo - Cucchi ne ebbe uno d’ufficio - e quelle che impedirono alla famiglia di vedere Stefano sino al lunedì della sua morte. Tutto questo, e altro, compone l’imperdonabile colpa di uno Stato che forse non ha ucciso Cucchi, ma l’ha accompagnato indifferente a morire. Cambia poco, per una famiglia e, nel nostro piccolo, per la nostra rabbia. Cambia poco anche se lo Stato ha già riconosciuto la sua colpa: la struttura ospedaliera che ha lasciato morire Stefano ha già risarcito la famiglia con un milione e 340mila euro, e altre cause probabilmente seguiranno. Giustamente. Ma la responsabilità penale è un’altra cosa. Quello che è mancato, nel processo, è un singolo atto compiuto o non compiuto che abbia verosimilmente causato la morte di Stefano Cucchi. Sono mancate le responsabilità personali che permettessero a un giudice di dire «tu sei un omicida» a una guardia, a un giudice, a un medico o a un infermiere: al di là di ogni ragionevole dubbio, come si dice. Ma la rabbia e il dolore, dei dubbi, non sanno che farsene.

Ci sono giudici poi, che a condannar i poveri cristi non ci pensano una volta....

Un Giudice di Fabrizio de André

Cosa vuol dire avere un metro e mezzo di statura, ve lo rivelan gli occhi e le battute della gente, o la curiosità di una ragazza irriverente che vi avvicina solo per un suo dubbio impertinente:

vuole scoprir se è vero quanto si dice intorno ai nani, che siano i più forniti della virtù meno apparente fra tutte le virtù la più indecente.

Passano gli anni, i mesi, e se li conti anche i minuti, è triste trovarsi adulti senza essere cresciuti;

la maldicenza insiste, batte la lingua sul tamburo fino a dire che un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo.

Fu nelle notti insonni vegliate al lume del rancore che preparai gli esami, diventai procuratore, per imboccar la strada che dalle panche di una cattedrale porta alla sacrestia quindi alla cattedra d'un tribunale, giudice finalmente, arbitro in terra del bene e del male.

E allora la mia statura non dispensò più buonumore a chi alla sbarra in piedi mi diceva "Vostro Onore" e di affidarli al boia fu un piacere del tutto mio, prima di genuflettermi nell'ora dell'addio non conoscendo affatto la statura di Dio.

Stefano Cucchi, che non sia morto invano.

Lettera aperta di Antonio Giangrande alla famiglia di Stefano Cucchi.

Carta e penna del famoso scrittore all’indomani della sentenza che conferma il pestaggio assassino e la mancata cura su Stefano Cucchi, ma che non trova e punisce i responsabili.

«Fratelli miei, fratelli perché quando si è compagni di sventura si diventa fratelli.

Assorti nel vostro dolore e nella vostra rabbia non vi accorgete che Stefano è vivo. E’ un’icona. E’ il testimonial delle vittime dell’ingiustizia.

Stefano è vivo ogniqualvolta si fa il suo nome, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano è un privilegiato perché tutti parlano di lui, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano non è morto invano perché rappresenta tutti gli Stefano Cucchi d’Italia, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutti gli arrestati in modo arbitrario, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutti i carcerati, vittime di violenze, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Stefano rappresenta tutte le vittime a cui è stata negata la giustizia e tutti coloro che ne patiscono l’ingiusta condanna. Singoli in balìa del fato. Uniti sarebbero un esercito vittorioso, ma sono solo un popolo di pusillanimi. Ognuno per sé, insegna la storia.

Di loro nessuno parla, parlatene voi, che avete il megafono, ma voi siete assorti nel dolore e nella rabbia.

Cari fratelli, non vi affliggete nel dolore e nella rabbia, ma combattete per quel che Stefano rappresenta. E’ stato indicato dalla sorte come esempio immortale.

A cercar giustizia in questa Italia, non caverete un ragno dal buco, perché se il buon giorno non si vede dal mattino, tutto cade in prescrizione.

Assorti nel dolore e nella rabbia non vi accorgete che tutti i falsi indignati di destra e di sinistra cercano di tirarvi dalla loro parte: chi contro i magistrati, chi contro le guardie. Nessuno che alzi la voce e dica: BASTA!!!!

Quando dite che la giustizia ha ucciso Stefano, non fate come Berlusconi che dice: io sono vittima dei magistrati politicizzati.

Questa giustizia uccide sempre; uccide tutti. Uccide comunque.

Almeno una volta che si dica: Stefano è uno dei tanti figli italiani, vittime uccise da un sistema che non fa pagare fio ai poteri forti; figli italiani dimenticati da una stampa zerbino del sistema che aizza le folle a convenienza. Che qualcuno dica in Parlamento, ADESSO, che è arrivata l’ora di proteggere la gente dai magistrati inetti e dalle guardie violente, senza distinzione di appartenenza politica. Giusto per non rendere vana la morte di Stefano.

Se in Parlamento non vogliono punire i magistrati incapaci e le guardie violente, che almeno si indichi un’istituzione che difenda i cittadini, che non sia uno di loro e che abbia i poteri giurisdizionali. Un Difensore Civico Giudiziario. Giusto per far aprire quei fascicoli da mani competenti e vedere in modo obbiettivo chi e come ha sbagliato. Gli errori della giustizia hanno nomi e cognomi, basta volerli cercare e punire. A pagar pena anche loro e che non tocchi sempre e comunque ai soli Stefano Cucchi d’Italia.

Da parte mia nei miei scritti ho parlato di Stefano. L’ho reso immortale perché l’ho assimilato ai tanti Stefano Cucchi che questa Italia ha prodotto. Parlare di uno indigna e non serve. Parlar di tutti esacerba e fa cambiare le cose. Anche se quei tutti non lo meritano».

PERITI DEI PM, BEN PAGATI E CONDIZIONABILI.

Periti dei pm, ben pagati e condizionabili, scrive Astolfo Di Amato su “Il Garantista”. La famiglia Cucchi ha presentato un esposto contro il consulente della Procura di Roma, il professor Paolo Arbarello, già consulente di Sabrina Misseri nel processo sulla morte di Sarah Scazzi. Il Tribunale di Roma ha condannato, accanto a Luigi de Magistris, il suo consulente informatico nel procedimento Why not, Gioacchino Genchi. Due vicende, del tutto diverse, che vedono al centro di una indagine il consulente del pubblico ministero. E’ una buona notizia! Ovviamente questa valutazione non si riferisce a queste due specifiche persone, che vedranno concludersi in un modo o nell’altro i loro procedimenti, rispetto ai quali chi scrive non ha gli elementi per formulare un giudizio. La buona notizia sta nel fatto che, finalmente, ci si rende conto del ruolo centrale, nell’orientamento dell’esito di un processo penale, che hanno di regola i consulenti del pubblico ministero. Per capire cosa realmente accade, è utile ricordare che quando nel processo vi sono delle questioni tecniche le parti, tutte, hanno il diritto di farsi assistere da un consulente tecnico. Il consulente del pubblico ministero interviene già durante le indagini e, con le sue indicazioni, ne condiziona l’esito. Partecipa poi al dibattimento dando conto al Giudice dei suoi convincimenti tecnici. Il consulente della difesa comincia, di regola, ad operare quando le indagini si sono concluse e gli atti sono depositati. Osserva il lavoro dei consulenti del pubblico ministero e formula le sue osservazioni. Anch’egli è ascoltato dal giudice, prima di decidere. Lo stesso accade per la parte civile. E Il giudice? E’ considerato dall’ordinamento come il perito dei periti. Attraverso una evidente finzione è considerato in condizione di dare un giudizio tecnico su ogni materia. Non è perciò obbligato a munirsi di un proprio consulente, che, in una posizione di terzietà derivante dall’autorità che lo nomina, esprima un giudizio non di parte sugli aspetti tecnici della vicenda. E difatti, a differenza di quanto avviene nel giudizio civile, il giudice penale di regola non lo nomina. Ascolta i consulenti delle parti e sulla base della sua onniscienza sceglie la tesi che ritiene più corretta. Quale? Di regola quella del consulente del pubblico ministero. Il giudizio di quest’ultimo, perciò, finisce con il condizionare non solo le indagini, ma anche l’esito del giudizio. In molti processi, e così ad esempio sembra sia stato nel processo relativo alla morte del povero Cucchi, è il giudizio del consulente del pubblico ministero a decretare l’esito del procedimento. Sarà per la colleganza tra giudice e rappresentante dell’accusa, che rende automaticamente affidabile il collaboratore di quest’ultimo, sarà per gli interessi pubblici di cui la pubblica accusa si pone come portatrice, fatto sta che i consulenti della difesa e delle parti civili sono spesso delle mere comparse. Se il ruolo del consulente del pubblico ministero è così decisivo quando entrano in gioco saperi che non appartengono ai giuristi, quel mondo, e cioè il mondo dei consulenti del pubblico ministero, andrebbe guardati con più attenzione. Si scoprirebbe, allora, che le consulenze della Procura sono incarichi redditizi ed ambiti; che non hanno molte prospettive di reiterazione degli incarichi quei consulenti che non piegano le loro valutazioni alle intuizioni dell’accusa; che vi sono, viceversa, consulenti i quali hanno un rapporto di collaborazione esclusivo, cosicché la loro vita professionale finisce con il dipendere totalmente dalla reiterazione di tale rapporto. Ed è così che capita di vedere sentenze basate su consulenze irrispettose dei più elementari principi della branca del sapere di cui dovrebbero essere espressione, la cui credibilità proviene esclusivamente dalla circostanza che sono l’elaborato del consulente del pubblico ministero.

COSI’ SI INCASTRA UN IMPUTATO.

Così un Pm ha chiesto a un pentito di accusarmi, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Nei giorni scorsi, nell’edizione calabrese del Garantista abbiamo pubblicato la notizia del pentimento di un avvocato accusato di avere avuto a che fare con la famiglia Cacciola e di avere avuto un ruolo prima nella ritrattazione di Concetta Cacciola (testimone di giustizia che accusava la sua famiglia) e poi nella tragica induzione al suicidio (o addirittura nell’assassinio) di Concetta dopo che aveva ritrattato la ritrattazione. La prima ritrattazione di Concetta era avvenuta attraverso una cassetta audio che era stata mandata ad alcuni giornali, tra i quali “Calabria Ora” che allora dirigevo. L’avvocato Pisani, che assisteva la famiglia Cacciola (accusata da Concetta, figlia e sorella di tre imputati) si è pentito a settembre e nei giorni scorsi sono stati resi pubblici i verbali del suo interrogatorio. Qui mi limito a trascrivere una paginetta dell’interrogatorio, e poi la commenterò.

Vittorio Pisani: ... fruscii… eh… aveva detto che comunque l’avrebbe…avrebbe mandato il giorno dopo tutto il materiale per la pubblicazione su Calabria Ora..

Pubblico ministero: Perché proprio a Calabria Ora? No, le chiedo se c’è un motivo perché proprio a Calabria Ora…

Vittorio Pisani : Calabria Ora, sostanzialmente è stato sempre un giornale un po’, non a favore della Procura ma contro…contro la Procura, no?, su alcune circostanze, che io da lettore, voglio dire, quindi lui aveva identificato questa…questa testata giornalistica per inviare il tutto, di fatto l’ha inviato…

Pubblico Ministero: Era questo il motivo per cui l’aveva inviato a Calabria Ora o aveva un rapporto pregresso con Sansonetti?

Pisani: Io non lo so questo, dottore, non lo so.

Pubblico ministero: Non ne avete parlato?

Pisani: Eh?

Pubblico ministero: Non ne avete parlato?

Pisani: No, no, no.

Ora vi prego di ragionare sul tono delle domande. Pisani si è pentito, riceverà dei benefici dal suo pentimento, sa che sarà il Pm a decidere se riceverà questi benefici, e quando li riceverà, e in che misura. Il pubblico ministero lo incalza sul punto specifico: Sansonetti conosceva i Cacciola? Se ne infischia del fatto che la cassetta era stata mandata anche alla Gazzetta, che è di gran lunga il giornale più importante della Calabria. Gli interessa solo Calabria Ora e il suo direttore. Chiede il motivo per il quale ha scelto Calabria Ora. Non si accontenta della spiegazione logica che riceve («perché era notoriamente un giornale contro le Procure») sollecita una spiegazione diversa: e chiede non se esistessero rapporti tra me e i Cacciola, ma chiede specificamente se esistesse un “rapporto pregresso”. Lascia chiaramente capire all’interrogato che a lui piacerebbe sentirsi rispondere di sì. Che vuole che gli si dica questo: che esistevano rapporti tra me e i Cacciola. Pisani però è un avvocato e probabilmente ha timore a mentire. E dunque, seppure un po’ intimidito, dice di no che a lui non risulta. E visto che il Pm insiste (“non ne avete parlato?..eh? Non ne avete parlato?”) nega per tre volte: no, no, no. A voi sembra questo il modo di interrogare un pentito? Voi credete che indurre i pentiti ad accusare delle persone, contro le quali si vuole agire, sia un metodo corretto? Voi avete mai letto le cose che diceva Giovanni Falcone su come si interroga un pentito? Avete mai sentito dire che lui sosteneva che chi interroga mai e poi mai deve far capire quale risposta vuole? «Mai», diceva Falcone (e chissà che non salti su qualcuno, adesso, a dirmi che Falcone era un amico della mafia…). Voi non temete che l’uso così discrezionale, e spregiudicato, e inquisitorio, e medievale della legge sui pentiti sia una mina vagante che rischia di offuscare ogni verità e di perseguitare molti innocenti? Nel caso specifico c’è qualcosa di più. Il Pm sa che comunque l’interrogatorio sarà reso pubblico. Se ne infischia della figura che farà lui per la faziosità delle sue domande. Sa che – a parte il nostro giornale – nessun altro avrà il fegato per contestargli quella faziosità. E però sa anche che la pubblicazione del verbale varrà come intimidazione, verso di me e verso i giornalisti del mio giornale. Come dire: «Sappiate che vi abbiamo nel mirino, sappiate che abbiamo strumenti pesantissimi per colpirvi, piantatela di criticare la Procura o ve la facciamo pagare». Il bello è che noi non abbiamo nessuna possibilità di essere difesi da questo assalto. Non c’è nessuna autorità alla quale possiamo ricorrere. A Chi? Al Procuratore di Reggio? Al Csm? Sì, possiamo farlo, ma con speranze molto esili. Non esiste una autorità terza che abbia il potere di porre fine ai soprusi ricevuti da parte della magistratura. Si può giusto scrivere un articolo come questo, sbraitando un po’ e sapendo bene che l’effetto sarà solo quello di incattivire i magistrati. Del resto l’unica altra scelta era quella di tacere e far sapere a chi di dovere che l’intimidazione ha colto nel segno. A me non piaceva questa scelta. P.S. In un’altra parte del verbale Pisani dice di aver saputo che io e un collega della Gazzetta del Sud avevamo fatto varie telefonate all’avvocato Cacciola, che assisteva la famiglia Cacciola e che poi è finito insieme a tutti gli altri imputato per aver costretto Concetta alla ritrattazione. Dico subito che non credo proprio di aver fatto nessuna telefonata, non lo ricordo e tendo ad escludere la circostanza (che comunque gli investigatori possono controllare agevolmente dal momento che sicuramente il mio telefono, quello del giornale e quello di Cacciola – immagino – erano sotto controllo). E comunque se pure avessi telefonato all’avvocato Cacciola, che all’epoca era incensurato, per avere un documento giornalistico molto importante, avrei soltanto fatto il mio dovere. Cioè, mi spiego: io sono convinto che il mio dovere di giornalista sia quello di dare le notizie e vigilare sul comportamento dello Stato nei confronti dei cittadini. Dello Stato: anche delle Procure. Se invece uno pensa che il mio dovere sia rispettare, venerare e obbedire alle Procure – come spesso avviene sulla stampa italiana – allora è chiaro che l’eventuale telefonata all’avvocato Cacciola sarebbe stato un vero delitto di lesa maestà.

CHI L’HA VISTO? LA GOGNA IN TV.

Chi l’ha visto? o della gogna in tv, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Se c’è un programma della tv pubblica italiana che considera i tre gradi di giudizio un inutile orpello è Chi l’ha visto? Una delle più longeve trasmissioni di Rai3 ha deciso che sull’altare dell’audience è possibile sacrificare quasi tutto ciò che resta in questo Paese dello stato di diritto. I dubbi vanno cestinati, gli indizi sono prove, la legittima difesa una garanzia da mettere, per sempre, nel cassetto. È così che il programma condotto da Federica Sciarelli è diventato l’esempio tipico di che cosa sia la forca mediatica: un processo prima del vero processo, ma senza avvocati e solo con una pm molto determinata a dimostrare che il male alberga dentro di voi. Quando Chi l’ha visto? nasce, le premesse sono diverse. È il 1989 e il programma si occupa di trovare le persone scomparse. Lo conduce una bravissima Donatella Raffai, che per anni ne è il volto simbolo. Le critiche anche in questo caso non mancano. Giustamente si fa notare come il limite tra pubblica utilità e ingerenza nella vita delle persone sia molto sottile. Nessuno deve avere il diritto di riportare a casa il “Fu Mattia Pascal”. Ma almeno gli esordi sono segnati da una idea diversa di televisione. Sono gli anni della direzione a Rai3 di Angelo Guglielmi,l’ultimo grande vero inventore italiano di format e immaginario per il piccolo schermo. Nessuno neanche Antonio Ricci gli è andato dietro. Sotto il suo impulso, non dimentichiamo che Guglielmi è tra i protagonisti dell’avanguardia del Gruppo 63, nascono i migliori programmi del terzo canale pubblico, che da Cenerentola diventa rete di sperimentazione e di riferimento per un pubblico colto. Nascono Avanzi, Samarcanda, Blob, Telefono giallo, Un giorno in pretura. La tensione principale è per la cosiddetta tv verità o per una tv al servizio del cittadino. Da una parte c’è la convinzione che i programmi debbano davvero avere una pubblica utilità, dall’altra c’è già la tendenza che è diventata prevalente nella tv di oggi: la messa in piazza della vita delle persone, il non rispetto della privacy e quello che papa Francesco ha definito, in maniera perfetta, il «populismo penale». La ricerca cioè di un capro espiatorio, di un colpevole contro cui scagliare la propria rabbia. Finché le due tendenze si contengono a vicenda, Chi l’ha visto? ha un profilo rigoroso, invadente ma attento. Oggi è il modello principe del “giornalismo stalking”, che confonde il dare informazioni con il perseguitare la gente. Dopo anni di indecisioni sul carattere del programma, la strada è segnata: accanto alle sparizioni si affrontano anche i casi di cronaca. Fughe, uccisioni, delitti in famiglia. Tutto ciò che rientra nelle pagine di cronaca nera ha diritto di cittadinanza. È questa la vera svolta del programma ed è qui che entra in scena nel 2004 Federica Sciarelli, ex giornalista del Tg3. Con Sciarelli il programma fa crescere l’audience, ma oggi siamo davanti a uno dei programmi più violenti della televisione italiana. Spesso, a sinistra, si ironizza su Barbara D’Urso, considerata la regina del trash. Solo qualche settimana fa, la partecipazione del premier Renzi al programma domenicale ha scatenato le solite polemiche. Ma D’Urso quando parla di casi di cronaca ancora aperti, offre il diritto di replica ai presunti colpevoli. Sì, mette in scena un processo, ma con l’accusa e la difesa. A Chi l’ha visto? questo diritto è negato. Le inchieste svolte dalla redazione seguono una sola logica: dimostrare che il principale accusato è l’assassino, che è il mostro e va punito. La svolta ha un volto, un corpo, una morte terribile. Sciarelli, il 6 ottobre del 2010, è collegata con la madre di Sarah Scazzi, la ragazzina di Avetrana, scomparsa nel nulla. Si cerca ovunque da settimane e ormai si teme il peggio. Quando viene a sapere che il corpo di Sarah è stato ritrovato, la conduttrice non chiude il collegamento. Dice in diretta alla madre che la figlia è morta, che Sarah non c’è più. Non ci sarà più. Il volto di quella donna resta nella storia della televisione italiana come uno dei punti più bassi. Non è la morte in diretta, ma qualcosa di peggio: l’annuncio della morte in diretta. Il programma prende una piega sempre più scandalistica. I dubbi vengono messi da parte, si procede spediti verso la gogna. Il servizio pubblico è servito: offrire il colpevole, anzi un colpevole, qualsiasi esso sia. Con un’aggravante: spacciarsi per trasmissione di sinistra, attenta ai diritti e ai doveri di chi fa informazione e di chi ascolta. Mercoledì scorso – giorno fisso per Chi l’ha visto? – Sciarelli ha mandato in onda l’ennesimo servizio su Roberta Ragusa, la donna scomparsa da circa due anni il cui corpo non è stato ancora ritrovato. Il principale sospetto è il marito, Antonio Logli, che è anche iscritto all’albo degli indagati. Cercare la donna è legittimo, ma non con ogni mezzo. Invece Sciarelli, come quasi tutta l’informazione italiana, che fa? Legge le mail tra Logli e la giovane amante, la baby sitter dei figli della coppia, che sarebbe il movente dell’omicidio. Le mail d’amore non costituiscono nessuna prova. Sono banali messaggi tra due che si desiderano, da cui non si evince niente. Si entra però nella vita di queste persone, si scava, utilizzando – quel che è peggio – la “scusa” della scomparsa di una donna che è probabilmente morta. Come diceva McLuhan, a un certo punto il mezzo diventa messaggio. La forma del programma diventa anche la sostanza e nel servizio dedicato a Ragusa si fa l’esaltazione dell’amore eterno, della fedeltà contro l’amore extra coniugale, non capendo che è propria quella logica che ha semmai portato Ragusa alla morte. Sarà il processo a stabilire come si sono svolti i fatti. A noi però resta un’amara verità: un programma che inneggia alla famiglia anche quando finiscono l’amore e il rispetto. E un modo di fare informazione più vicino alla gogna che alla voglia di raccontare i fatti.

QUARTO GRADO, LA GOGNA IN TV.

Quarto Grado è un programma televisivo, prodotto da Videonews e curato da Siria Magri, in onda dal 7 marzo 2010 in prima serata su Rete 4; attualmente (dal 15 ottobre 2010) il programma è collocato nei palinsesti del venerdì, scrive Wikipedia. Quarto Grado è stato tuttavia al centro di controversie durante la conduzione di Salvo Sottile (dal marzo 2010 al giugno 2013). Nonostante l'intento dichiarato del programma, cioè far conoscere al grande pubblico televisivo (in particolare a quello femminile e anziano) argomenti di interesse criminologico, non sempre è stato possibile fornire spunti in grado di agevolare letture alternative delle vicende trattate e fu criticata la spettacolarizzazione tipica dei talk prodotti da Videonews; nel caso dell'omicidio di Sarah Scazzi, trattato molto spesso da Quarto Grado tra il settembre 2010 e il marzo 2012, la redazione (guidata da Siria Magri) si è attestata su una linea prevalentemente conforme agli indirizzi investigativi della pubblica accusa, cioè della Procura della Repubblica di Taranto. Notare, però, che le critiche rivolte al conduttore Salvo Sottile (e quindi alla redazione guidata da Siria Magri) devono essere rivolte, per correttezza, anche verso Claudio Brachino, a quel tempo direttore responsabile di Videonews (che produce Quarto Grado). Dal settembre 2013 in poi il giudizio della critica televisiva verso Quarto Grado è migliorato sensibilmente perché il nuovo conduttore Gianluigi Nuzzi (un giornalista famoso per alcune sue importanti inchieste, tra cui quelle legate allo scandalo Vatileaks, e proveniente da La7) ha reso il talk più "neutro" e ha puntato molto sulle campagne preventive anti-stalking e sulle campagne di informazione contro la violenza su minori e donne; una parte del merito va divisa, per correttezza, con i dirigenti di Videonews che hanno reso possibile questo miglioramento, cioè Siria Magri (che guida la redazione di Quarto Grado in qualità di vicedirettore di Videonews), Mario Giordano (come direttore responsabile di Videonews dal 10 giugno 2013 al 24 gennaio 2014) e Claudio Brachino (come direttore responsabile di Videonews dal 24 gennaio 2014 in poi). A proposito di questo "nuovo corso" di Quarto Grado, il conduttore Gianluigi Nuzzi il 24 gennaio 2014 (cioè nel giorno dell'avvicendamento tra Mario Giordano e Claudio Brachino al timone di Videonews) ha dichiarato che «la linea [editoriale] da tenere è una: mettere in fila gli elementi senza trasformarsi in investigatori o giudici. Non è nostro dovere fornire verità [assolute oppure schierarsi con una delle parti in causa sostenendo una determinata tesi scartando le altre], ma fare [molteplici] ipotesi che diano voce sia agli innocentisti che ai colpevolisti». Ma di buon intenzioni è lastricato l’inferno. Ed infatti, a proposito del caso Scazzi, gli avvocati delle parti civili, fiancheggiatori dell’accusa, hanno ampio spazio col parterre di altri ospiti giustizialisti, lasciando da solo il povero Alessandro Meluzzi a difesa della innocenza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano.

E poi non ci meravigliamo delle pieghe che prende l’opinione pubblica.

Yara Gambirasio. Letizia Bossetti aggredita e picchiata da imbecilli armati e aizzati dai soliti media..., scrive Massimo Prati sul suo Blog. Ora sappiamo che da tempo Letizia Bossetti, gemella dell'uomo isolato in carcere perché accusato di aver ucciso la piccola Gambirasio, era sottoposta a ogni genere di intimidazione. Nessun media ne ha mai parlato, nessuno si è mai mobilitato in suo favore, ma ci sono denunce con relativi referti ospedalieri a confermare le vessazioni verbali subite da ignoti capaci di offendere ma privi del coraggio di qualificarsi per nome. E se fino al 17 settembre nessuno aveva superato i limiti estremi della violenza, anche se offendere e far trovare pagine di giornale in cui si dà dell'assassino al fratello significa comunque infierire ingiustamente su un essere umano e passare i limiti imposti dalla società civile e dalla legge, ora che qualcuno l'ha attesa nel garage dei genitori e approfittando del luogo isolato l'ha malmenata, tanto da farla svenire e ricorrere alle cure dei medici, i limiti si sono oltrepassati di tanto. Perché? Ciò che appare strano è che a fronte di referti che parlano di calci sulla pancia, che certamente non s'è data da sola, certi servizi giornalistici, mi riferisco in primis a quello di Enrico Fedocci mandato in onda dalle reti Mediaset, abbiano dato la notizia abusando di un improprio condizionale inserendo tanti, troppi, "sembrerebbe che", quasi a voler influenzare il suo affezionato pubblico ponendo dubbi sul fatto che l'aggressione sia realmente avvenuta. Pensare  che davvero poco il condizionale è stato utilizzato quando si è trattato di dare in pasto al pubblico le tante indiscrezioni buone solo a far apparire colpevole Massimo Bossetti e la sua famiglia che, per come han scritto in tanti, sa del delitto commesso dal loro congiunto e ugualmente lo difende.
E far intendere che in famiglia tutti siano d'accordo è facile, basta scrivere, o dire nei servizi televisivi, che ci sono intercettazioni in cui la madre dice al figlio: Massimo i carabinieri hanno capito tutto. Cliccando su queste parole troverete tantissimi articoli provenienti da testate nazionali. Tutti sono riferibili all'indiscrezione portata al pubblico televisivo da Enrico Fedocci, lo stesso che ha infarcito di condizionali il servizio sull'aggressione subita da Letizia Bossetti. Ma si sa, è difficile fare informazione in maniera diversa da quella imparata. Però la notizia dell'agguato è vera, come lo sono le botte prese da Letizia Bossetti e le denunce da lei presentate. Quindi non si può parlare di un ipotesi di reato ma di un fatto certo, un fatto criminale accaduto anche a causa del tartassamento continuo operato chirurgicamente da chi lavora per i media (solo per i media?), ad iniziare dai suddetti giornalai che il sangue altrui ha fatto diventare famosi (giornalisti pare francamente un termine eccessivo) per passare agli opinionisti bisognosi di riflettori, ai direttori di certe trasmissioni e di certi settimanali scandalistici che necessitano di "morti ammazzati" e indiziati a cui fare "un'autopsia della vita privata" per vendere e mantenere la scrivania. La pubblicità, si sa, è l'anima del commercio. Perciò non è difficile pensare come i media, a forza di accusare senza alcuna logica, abbiano fatto da molla scatenante per gli imbecilli che si sono sentiti autorizzati a picchiare una donna senza alcun vero motivo. E ribadisco: hanno picchiato una donna. Non che serva il massimo del coraggio per compiere un gesto del genere! Quelle botte e quei calci dimostrano, se mai servisse una conferma, che il potere di chi impropriamente lavora per i miseri media attuali non ha limiti. Dimostrano, purtroppo, che a certe persone non importa nulla dell'essere umano che vive al di fuori dei loro piccoli confini, bancari amicali e familiari. La vita altrui, anche quella di chi ora li venera credendone il "Verbo" (che un domani potrebbero diventare un nuovo bersaglio buono per riempire maggiormente il loro conto bancario), è solo un fattore relativo da sviscerare fino al midollo ma non da tenere in considerazione in quanto tale. Per chi tiene la mente chiusa nel portafoglio, accanto ai bigliettoni che gli editori elargiscono a chi sfrutta il dolore altrui per fare un buon incasso, noi siamo solo numeri da ammassare uno sull'altro per alzare lo share e aumentare gli introiti personali. E nessuno se ne lamenta. Nessuna giustizia pone un limite ai guru dell'informazione. Forse perché avere l'appoggio dell'opinione pubblica aiuta e serve:

A) Ad aumentare la credibilità degli ormai soliti e noti professionisti pubblicizzati perché illuminati dai fari mediatici. Anche di quelli che vogliono si acquisti a scatola chiusa lo scoop del momento, così che la persona comune apra il borsellino per farli vivere agiatamente.

B) Per dar voce all'emotività del popolo, così che la logica venga sommersa da notizie gossip e si rinforzi l'aria nazional-colpevolista a fronte di una ricostruzione inaffidabile portata da chi accusa. E che anche i giudici siano parte dell'opinione pubblica e subiscano i media, si capisce facilmente quando condannano l'imputato stravolgendo a loro piacimento la ricostruzione e il movente portato dal pubblico ministero (vedi Parolisi in ben due occasioni). Purtroppo la pubblicità che offrono la televisione e la stampa fa sentire tutti sicuri e invincibili, fa sentire padroni di una verità mediatica che in realtà non esiste. Quella verità che accusa e informazione cantano in coro arroccati sulla loro isola, quella delle sirene mediatiche che convincono a comprare un prodotto anziché un altro. Quella verità che si ascolta volentieri perché colpisce la parte poco utilizzata del cervello, la parte che ricerca il "piacere" che lo stress della vita quotidiana non manda in circolo. E' quella verità data per assodata e certa che inserita nel cervello di persone ignoranti ha armato le loro mani e i loro piedi convincendoli a colpire Letizia Bossetti, chi troppo spesso ha affermato che suo fratello è innocente. Che alcuni media siano i primi responsabili dell'aggressione è sicuro, e spiace ascoltare verbi al condizionale anziché parole di scusa. Ma in fondo si sa che non tutti hanno la giusta personalità, quella che serve per mostrarsi superiori e capaci di fare un "mea culpa". Forse fra qualche giorno ci sarà chi si vergognerà e farà autocritica, chi ammetterà che l'informazione ancora una volta ha esagerato e creando un mostro, che al momento mostro è solo nelle fantasie mediatiche, ha aizzato il popolo. Ma sarà, come sempre, il contentino del momento che non avrà seguito perché surclassato dal nuovo mostro che presto verrà. Nessuno di loro farà una vera propaganda antimediatica, nessuno vi chiederà di tapparvi le orecchie e mai vi rileggerà l'Odissea dicendovi di essere accorti come lo fu Ulisse... “Giungerai per prima cosa dalle Sirene che incantano tutti gli uomini che passano loro vicino. Chi senza saperlo si accosta e ode la voce delle Sirene non torna più a casa, i figli e la sposa non gli si stringono intorno festosi. Le Sirene lo stregano con il loro canto soave, sedute sul prato; intorno cumuli d’ossa di uomini imputriditi”.

QUELLA VERITA' NON DEVE ESSERE DETTA.

Il giallo di Avetrana si colora di grigio, scrive Marco Bosatra. Sono passati anni dal primo assedio mediatico alla villetta di via Deledda ma su chi ha ucciso Sarah Scazzi ancora non ci sono certezze. Tutti pendono dalla bocca di Michele Misseri. Tra i giornalisti c’è chi lo descrive come un genio del depistaggio e chi come un criminale fuori dagli schemi. Intanto il giallo continua sempre in diretta e anche la scarcerazione del primo indiziato ha trovato una telecamera pronta a riprendere a caldo l’accaduto. Il destino ha giocato a favore di Ilaria Cavo, la giornalista di Matrix che, ospite a casa Misseri, si è vista entrare Michele dalla porta quando ancora nessuno era al corrente dell’avvenuta scarcerazione. Microfono alla mano, la Cavo ha raccolto il primo sfogo brutalmente dettagliato dello zio Michele. Un documento importante per il pubblico, premiato da un 28% di share nella puntata di Matrix, ma orticante per alcuni critici e per i cittadini di Avetrana. Ad Avetrana la televisione non racconta le indagini dei magistrati ma svolge le sue indagini, fa le sue ipotesi, conduce interrogatori e trae conclusioni, senza potersi basare su prove certe e inconfutabili. E questo non piace a tutti. Non è piaciuto ad esempio all’avvocato Galoppa che, nella puntata di Quarto Grado, ha duramente criticato le domande di Ilaria Cavo, che sarebbero state mirate e tendenziose, quasi a voler costruire una difesa di Sabrina Misseri. L’intervista non piace perché Michele Misseri, ancora una volta, si contraddice e confonde le idee a tutti, perché la confessione dello zio non è quello che i magistrati speravano di sentire proprio ora che le indagini avevano bisogno di ancorarsi alle prime certezze. Ma Avetrana è anche una gara, nemmeno troppo silenziosa, per accaparrarsi la dichiarazione, la ripresa, l’intervista in grado di cambiare il senso delle indagini. E tra giornalisti a caccia di scoop non mancano frecciatine al vetriolo. A Quarto Grado, nel corso di una puntata particolarmente agitata, Walter Biscotti, legale di Concetta Serrano, si è lamentato con il padrone di casa per la scarsa sensibilità dimostrata verso la sua assistita. Non contenti, probabilmente, dell’esclusiva e del monopolio di cui si avvantaggiano. Salvo Sottile ha allora colto la palla al balzo per giocare allo scarica-barile: “Altre trasmissioni hanno fatto peggio di noi e lei era presente”. Il riferimento è a Federica Sciarelli e al suo Chi l’ha Visto?! Riferimento confermato dallo stesso avvocato Biscotti. Sciarelli che ha espresso il suo disappunto (aggiuntosi a quello del Sindaco di Avetrana intervenuto in trasmissione) per l’intervista trasmessa da Matrix. Già, proprio lei che ha comunicato in diretta tv a Concetta Serrano il ritrovamento del cadavere della figlia Sarah. Come se si trattasse di un grande Truman Show, nessuno che sia passato da quella villetta è sfuggito all’occhio delle telecamere, neppure il cane, ripreso in un servizio di Quarto Grado firmato da Francesca Fogar (si, la stessa Fogar naufraga dell’Isola) come auspicabile supertestimone. C’è un solo problema, che il cane non parla ma se parlasse, dice la Fogar, ah quante ne direbbe. I colpi di scena non mancano, eppure tutti brancolano nel buio. Anzi nel grigio, perchè la verità è lì a pochi passi ma sembra inafferrabile nella nebbia dei sospetti e degli inganni. Quanto avrà aiutato l’ingombrante presenza della televisione nelle indagini dei magistrati e quanto invece avrà rallentato la soluzione del giallo?

ALESSANDRO MELUZZI: SABRINA COLPEVOLE….., ANZI, NO…..!

Alessandro Meluzzi rilasciava un’intervista ad Affari Italiani. "Sabrina ha ucciso Sarah, il padre capro espiatorio", diceva Lunedì, 18 ottobre 2010 a Benedetta Sangirardi. Affaritaliani.it ha intervistato Alessandro Meluzzi, psichiatra e psicologo che sta seguendo passo dopo passo il caso di Sarah Scazzi, per capire che cosa sta succedendo e indagare nella personalità di Sabrina, che ha trascorso gli ultimi 50 giorni di libertà in televisione.

Secondo alcuni criminologi la confessione dell'omicidio di Sarah da parte di Sabrina è già avvenuto in diretta tv con il suo comportamento. E' d'accordo?

«Sono fortemente colpevolista nei confronti di Sabrina. Tenderei proprio a ribaltare le responsabilità tra lei e il padre. Tutti parlano di questo personaggio come un padre padrone all'interno di uno scenario pesantemente matriarcale, abusi o non abusi. Credo che nel concorso di colpe bisogna mettere ancora in ordine la successione dei fatti e le gerarchie delle responsabilità».

Mi sta dicendo che il padre ha coperto la figlia ma in realtà non c'entra con la morte di Sarah?

«Sì, credo che il padre l'abbia coperta e che nella dinamica dell'omicidio sarà fortemente valorizzato il ruolo attivo di Sabrina. E lo penso in base a una serie di deduzioni logiche che tra l'altro coincidono anche con quanto afferma il medico legale. E anche sulle dinamiche successive, nel momento in cui il padre quasi come un lapsus ha fatto ritrovare il telefonino sul suo campo. Questo avviene quando qualcuno, nell'inconscio, preso da un senso di colpa, non resiste».

Quindi il padre si è fatto incolpare al posto di Sabrina?
«Sì, voleva coprire Sabrina e tutto il sistema familiare. Il padre è stato un capro espiatorio, fino a quando ha retto. Dopo, incalzato dai fatti e giunto alla settima versione, non ha potuto più nascondere la vera dinamica dei fatti».

E sulla sovraesposizione mediatica di questa ragazza?

«Sabrina si è presentata con una enorme capacità istrionica. Tutti i fatti si sono svolti sotto le telecamere e questo ha finito per incurvare la traiettoria dei comportamenti, delle motivazioni e quindi direi che la forte assunzione di un'immagine pubblica e di una sorta di narcisismo per cui Sabrina è stata in diretta mattina, pomeriggio sera e anche notte per 40 giorni. Una quarantena di visibilità in cui dal look agli atteggiamenti, ai toni ai pianti ha  modulato tutta la gamma delle possibili variazioni sul tema. Fa parte del personaggio».

Quindi una tattica difensiva.

«Non solo si è sovraesposta per difendersi e per depistare. Aveva anche una motivazione primaria di apparire. Quella frase 'Quanto fa di share la tua trasmissione' è uno degli elementi che deve guidarci con prudenza in questa vicenda ma che certamente rappresenta nella storia della criminologia della televisione la nascita di un nuovo genere che chiamerei 'Criminal Reality'. Una via di mezzo tra il reality e l'evento di nera e di cronaca in cui gli stessi protagonisti del crimine si comportano come i protagonisti di un reality».

Crede che la tv e i giornali ne stiano parlando troppo?

«Ci sono degli share folli. Ma i mezzi di informazione non possono stupirsi dopo aver generato questo fenomeno che la gente vada sul luogo del delitto. E' una specie di effetto Vermicino moltiplicato per un milione. Questa è la nuova realtà dell'informazione e della televisione. E oserei dire che questa è la realtà dei protagonisti che non possono non diventare protagonisti mediatici. E se questi eventi si fossero svolti alla stessa maniera ai tempi della scomparsa di Elisa Claps, credo che quella storia avrebbe avuto risvolti diversi. Sono in assoluto disaccordo con tutti i benpensanti che si scagliano contro la tv. Nulla può svolgersi al di fuori della informazione, nessuna guerra, nessun attentato. Nulla può sfuggire agli occhi di un sistema che se non la tv è youtube, se non è youtube è facebook. Viviamo in una Semiosfera, avrebbe detto McLuan, del tutto pervasiva».

Un po' tutti si chiedono come queste persone riescano a fingere così bene. Prima il padre, poi Sabrina.

«Devo dire Sabrina molto meglio del padre. Parliamo di una grande teatralità. Hanno mostrato capacità di espressività mediatica formidabile. E il fatto che si stia parlando così tanto di questo caso, è proprio perchè ci sono protagonisti adatti per farla montare. La forza mediatica è dipesa proprio da loro».

Poi Alessandro Meluzzi si ricompone e ritratta con un’intervista rilasciata il 5 dicembre 2012 al “Sussidiario”.

Ennesima auto accusa di Michele Misseri: dal punto di vista psicologico che idea si è fatta di lui?

«Esiste una sindrome che viene studiata in psichiatria forense che si chiama sindrome di Ganser: è la sindrome del mentitore isteroide sistematico. E’ una sindrome che risale alla psicologia militare, tipica di quelli che si fingevano matti per non andare in missioni di guerra particolarmente pericolose o cercavano di fuggire al reclutamento».

Ci spieghi meglio.

«Significa ricostruire continuamente storie sempre fantasiose, sempre false, sempre menzognere, fino a superare una certa soglia nella quale l’individuo diventa talmente immerso nella sua parte istrionica da perdere anche i contorni stessi della realtà, ma non delle finalità delle sue azioni, che sono quelle di non fare il militare, cioè di non pagare pegno. Quindi, come diceva il comma 22 dell’aviazione militare, chi è matto non può partecipare alle missioni di volo, ma chi spiega di non poter partecipare alle missioni di volo perché matto, vuol dire che non è matto».

E questo il punto di contatto con Michele?

«Per Misseri a questo punto tutto è diventato talmente confuso tranne le finalità, che sono il depistaggio della verità. Misseri è un grande, organizzato e strutturale, depistatore».

Depistaggio da chi o da che cosa?

«La domanda da farsi è: si depista cosa e perché. Si depista perché su vuole allontanare dalla verità dei fatti ed  è quello che io ho sempre pensato fin dall’inizio di questo processo. Una delle ragioni per cui questo processo è inestricabile è perché è stato descritto e assunto fin dall’inizio come un delitto intra villino, intra villare,  come se avessimo scartato radicalmente ciò che non poteva essere scartato».

Che cosa è stato scartato?

«Che lo zoom di questo scenario sia più allargato, che coinvolga altre persone, che l’omicidio sia avvenuto altrove fuori della casa e più tardi, in contesti diversi e per motivazioni diverse».

Su che cosa si fonda questa ipotesi?

«Ci sono una dovizia di particolari ch dovrebbero far riflettere: lo svuotamento dello stomaco, nessun atraccia all’interno della casa. Essendo in tre e scartato Misseri, è chiaro che no rimangono che Sabrina e la madre».

Dunque bisognerebbe indagare meglio?

«Se fossi io a condurre le indagini mi concentrerei su questo: da quale scenario Misseri ha voluto allontanare le indagini? Ricordiamoci che Misseri è quello che ha fatto ritrovare il corpo di Sarah, salvo poi ritrattare un sacco di volte. Questo lo si può spiegare solo con la volontà della figlia? No, perché la figlia l’ha chiamata in causa lui, e più volte, salvo poi negare. Si comporta come un grande depistatore sistematico e mentitore ma con una volontà precisa: il depistaggio».

Per cui anche Sabrina secondo lei è innocente?

«E’ innocente sicuramente. Non c’è una sola evidenza che le due donne siano coinvolte. Io credo sia un processo interamente da rifare perché le indagini sono interamente da rifare».

E la tesi della gelosia di Sabrina?

«E’ una sciocchezza, un’ipotesi infondata, senza alcuna ragione. Invece guarderei ad altri personaggi appena sfiorati dalle indagini, ma soprattutto ad uno scenario completamente diverso. Studiare, cioè, l’ipotesi che Sarah non sia stata uccisa dentro la casa. Chi sia stato, io non lo so, ma potrebbe esser chiunque, magari uno che Misseri vuole coprire, forse per paura».

Stante le due versioni di Alessandro Meluzzi, lo stesso è da ritenersi inattendibile per tutta la vita, così come è per Michele  Misseri?

Alessandro Meluzzi, Psichiatra, nato a Napoli nel 1955, e cresciuto a Torino, Alessandro Meluzzi si è laureato magna cum laude in Medicina e Chirurgia presso l'Università Statale di Torino nel 1980, specializzandosi poi in Psichiatria. Docente di Genetica del Comportamento Umano e di Salute Mentale presso l'Università di Torino, ha ottenuto, nel 2002, il baccalaureato in Filosofia e Mistica presso l'Istituto Pontificio dell'Ateneo S.Anselmo di Roma. Direttore scientifico della scuola superiore di umanizzazione della medicina per la Regione Piemonte e consulente del comune di Torino per il settore minori a rischio, oltre a ricoprire numerosi altri ruoli di dirigenza e consulenza nel settore sanitario, il professor Meluzzi è ormai da qualche anno un'autorevole voce anche in ambito televisivo per quanto riguarda i moderni fenomeni sociali.

LA MORTE DI SARAH. C’E’ UN’ALTRA VERITA’.

C'è un'altra verità nelle foto di Sarah, scrive Nazareno Dinoi su "Il Corriere del Mezzogiorno. Un'immagine mostra i lividi ai polsi della ragazza. Il medico legale Strada: "Io non l'ho mai vista".  La foto per intero non è proponibile per la crudezza delle immagini. È necessario invece mostrare il particolare dell’avambraccio sinistro (quello destro non è visibile) che presenta, proprio al di sopra dei polsi, delle evidenti ecchimosi con la caratteristica forma a «bracciale» o «manetta». I segni sembrerebbero quelli tipici di legacci o da ammanettamento o da forti strette con le mani. «Sembrerebbe», perché l’autopsia fatta dal professore Luigi Strada, incaricato dalla procura di Taranto, non ha evidenziato «nulla di vistoso» sul corpo sottoposto ad esame. Il fotogramma ingrandito che farebbe invece credere il contrario, è stato scattato la mattina del 7 ottobre del 2010, quando, dopo dieci ore di lavoro con l’escavatore e i badili, le forze dell’ordine e i sommozzatori del nucleo carabinieri di Taranto riuscirono a tirare fuori il corpo martoriato di Sarah Scazzi, rimasto per 42 giorni sommerso nel pozzo-cisterna dove l’avrebbe gettata lo zio Michele Misseri. Dopo circa otto ore da quello scatto, la salma diventerà oggetto di esame sul tavolo operatorio dell’obitorio dell’ospedale Santissima Annunziata a disposizione del medico legale Strada. La foto, una tra tante di quelle scattate lo stesso giorno e depositate agli atti dell’inchiesta, prende una strada diversa e finisce tra i reperti doppioni oppure di scarso interesse per le indagini. A distanza di un anno, la testimonianza fotografica ricompare in qualche modo nel palazzo di giustizia e cattura l’attenzione della procura. Che cautamente ieri smentiva la circostanza facendo rilasciare dichiarazioni stringate del tipo: «Non stiamo compiendo accertamenti su altre foto del cadavere di Sarah». Anche Strada è di poche parole: «Dall’esame autoptico - dice - non è emerso nulla che potesse preoccuparmi». In merito alle indiscrezioni di una sua presenza in procura a Taranto, dovuta proprio al ritrovato reperto, il medico legale taglia corto: «Se qualcuno ha altre foto non lo so e se la procura riterrà di farmele esaminare, ovviamente lo farò». Intanto c’è chi comincia a chiedere di più, addirittura di esumare il corpo per farlo nuovamente esaminare con una nuova autopsia. È il caso dell’avvocato Raffaele Missere che nella sua relazione depositata ieri alla segreteria del gup, Pompeo Carriere, motiva così la necessità di una nuova perizia autoptica: «Non parliamo di fratture macroscopiche - ha precisato il legale - ma anche di segni da ricollegare a traumi ante mortem o post mortem». La posta in gioco è molto alta (la dimostrazione che Sarah sia stata uccisa da almeno due persone). E già questo è motivo di prudenza e discrezione degli inquirenti consapevoli del delicato momento della vicenda giudiziaria giunta alle battute finali e molto vicina alla fine della decorrenza dei termini dell’imputata principale, Sabrina Misseri, che tornerebbe libera se alla data del 27 novembre il giudice non deciderà per il rinvio a giudizio. A dare importanza al nuovo scenario aperto da questi segni sui polsi, è lo psichiatra Alessandro Meluzzi, consulente di parte della famiglia Scazzi. «Non ho visto le foto ma ne ho sentito parlare e mi sono state descritte da chi le ha potute visionare e questo - dice - conferma la mia tesi secondo cui si è ancora lontani dall’individuare le modalità e il luogo in cui la ragazza è stata uccisa». Per lo psichiatra, notoriamente convinto della non colpevolezza di Sabrina Messeri e della madre Cosima Serrano, la figura oscura di questa vicenda è proprio Michele Misseri. «Nei suoi racconti - dice - ci sono troppe cose che non tornano, il suo è il ruolo di Igor il becchino che continua a depistare e a nascondere la verità e complicità diverse». Meluzzi attribuisce importanza ai segni riportati nella foto tanto quanto ne assegna all’assenza di cibo nello stomaco di Sarah. «Sono i due gravi deficit che nessuno vuole affrontare e risolvere: lo stomaco senza tracce di cibo e quindi la prova che la ragazza è morta almeno quattro ore dopo la tesi della procura e i segni sui polsi (che secondo me sono dei legacci e non impronta di mani) che se confermati disegnano uno scenario del tutto nuovo ancora pieno di colpi di scena». Una strada alternativa al delitto di famiglia che portava ad investigare luoghi lontani da via Deledda, l’avevano tracciata anche gli ex avvocati difensori di Sabrina Misseri, Vito Russo e Emilia Velletri, prima della loro uscita di scena per le note vicende giudiziarie che, ironia della sorte, li vedono tra gli imputati della stessa inchiesta.

TUTTI CONDANNATI….COME PREVISTO.

Sabrina Misseri e Cosima Serrano condannate all'ergastolo. Era già tutto previsto...scrive anche Massimo Prati sul suo Blog Volando Contro Vento. Era già tutto previsto ed ora possiamo passare oltre e parlare con cognizione di causa di una malattia da curare. Infatti la condanna comminata in primo grado dal giudice Trunfio, ci fa capire che l'accanimento tenuto da quelli di Taranto nei confronti di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano è a tutti gli effetti una malattia incurabile. Non dando alcun credito al dubbio, che in giudizio deve prevalere quando non si ha nulla su cui contare effettivamente, i togati hanno dimostrato di aver contratto la stessa malattia di chi ha sostenuto l'accusa. Una malattia nata nella mente dei primi investigatori, una malattia coltivata e cresciuta grazie ai profiler dei carabinieri che indicavano quali colpevoli le persone che più assiduamente frequentavano la vittima (ma è una indicazione che danno ad ogni omicidio). Una malattia che ha contagiato ogni singola parte della giustizia tarantina... dai carabinieri ai procuratori, dal Gip al Gup, dai giudici togati a quelli popolari. Nessuno si è salvato, neppure i giornalisti del luogo che troppo hanno frequentato i malati... e tutti si son fatti forza convincendosi l'un l'altro di non avere alcuna malattia giuridica. Ma presto ci saranno dottori che visitandoli capiranno e li cureranno. Perché quanto è avvenuto negli ultimi ottocento giorni, ma questi vanno accomunati a quanto accaduto negli ultimi due decenni a tanti altri imputati tarantini, parla chiaro. Da subito nulla si è fatto per come si doveva giuridicamente fare, lo dimostrano i modi con cui sin dai primi giorni si è agito contro due persone incensurate. A Sabrina Misseri hanno rovinato la vita. Senza concederle il beneficio del dubbio, senza fare la più piccola indagine, senza fare alcuna verifica, senza avere null'altro che le parole di un contadino imbambolato da giorni e giorni di farmaci e, come dice lui stesso, dalle parole del suo avvocato, un padre giudicato da uno psicologo anafettivo, l'hanno sequestrata di fronte ai fotografi e alle telecamere come fosse stata una terrorista. Un cappuccio in testa e via di spinta dentro l'auto che l'avrebbe condotta prima alla caserma di Manduria e poi in carcere. Una scena che l'ha resa agli occhi dei più una persona, anzi un'assassina, infame. Dal 16 ottobre del 2010 Sabrina Misseri, che al momento del suo arresto era una ragazza di 22 anni, ha vissuto, e da italiano che ama la Giustizia mi vergogno a chiamare vita questo periodo per lei troppo lungo, con l'approvazione di un'opinione pubblica resa cieca dai media, nel carcere di Taranto, in una cella di due metri per tre. Due anni e mezzo da incubo, due anni e mezzo inframezzati da piccole speranze sempre disattese, dall'alternarsi continuo di quelle depressioni fisiche e morali che solo chi è stato confinato ingiustamente in galera conosce. Quelle depressioni che prova un cane che prima di perdere la libertà ammirava chi non avrebbe mai creduto potesse metterlo in gabbia e diventare il suo "padrone crudele". Un cane ritrovatosi chiuso fra quattro pareti e vessato da chi godeva nel picchiarlo pubblicamente col bastone chiodato delle parole infamanti, da chi godeva nel ritrovarsi sui denti le sue gocce di lacrime sangue e dolore. Ma qui è sorto un problema irrisolvibile: il cane Sabrina Misseri non si è fatto addomesticare come previsto, non ha fatto ciò che in procura si voleva facesse, non ha fatto come tanti altri indagati di Taranto che negli ultimi decenni, pur di far cessare l'agonia, hanno confessato omicidi mai commessi. Per questo dal suo padrone e dagli amici del suo padrone è stata dipinta e messa alla gogna come una bestia ricoperta di rogna. E la gente è accorsa a vedere quell'essere infame, quel putrido mostro con gli occhi da belva. E la gente si è divertita a sputargli sopra il disprezzo basato sul nulla, quel disprezzo creato ad arte da chi non sapeva come far emergere una verità inesistente, la propria assoluta verità, e raccontava a tutti favole horror imbottite di vecchi "luoghi comuni". Eppure ci voleva poco a capire che erano solo favole illogiche, favole narrate al mondo da cantastorie ignoranti che approfittando della sofferenza altrui cercavano solo di guadagnare il loro benessere sociale, favole disegnate ed elaborate in maniera pessima ma spacciate per stupende, favole ridicole proiettate continuamente sugli schermi accondiscendenti per convincere l'opinione pubblica della loro veridicità. Poca materia grigia ci voleva a capirlo e chissà perché mai in troppi non l'hanno trovata nella loro mente quel minimo di materia grigia. Vedremo quali motivazioni si scriveranno e se altri giochi di prestigio cercheranno di portarci ad applaudire il giudice gemello di turno. E se Sabrina è stata trattata come un cane con la rogna, se è stata inserita quale attrice protagonista in favole ricostruttive prive di qualsivoglia logica, favole piaciute tanto a una corte di giustizia (così è chiamata anche quella di Taranto), c'è da dire che a sua madre non è toccata sorte migliore. Cosima Serrano fu invitata a presentarsi in caserma e subito arrestata; come già deciso fu costretta a restare in attesa dell'arrivo dei compaesani e delle telecamere per essere trattata quale animale aberrante, per essere trattata come fosse lei la vera "bestia antropofaga", l'assassina di una decina di bambini e adolescenti della Milano campestre di qualche secolo fa. Una bestia alla fine imbalsamata e mostrata ai visitatori anche per far perdere loro la paura provata per mesi, visitatori attratti dal muso assassino di chi potevano finalmente offendere e additare a infame. E come si fece a Milano nel 1792 si è fatto ad Avetrana nel 2011, quando al momento dell'arresto della "bestia Cosima", sulla pubblica piazza si son presentate un centinaio di persone irose. Persone aizzate dai giornalisti amici dell'ingiustizia, persone che non si resero conto di essere burattini manovrati da "bravi" burattinai, persone che pur entrando ogni mattina in bagno, e pur possedendo almeno uno specchio, neppure a posteriori capirono di essere diventate loro gli animali infami dal brutto muso, di essere loro la bestia antropofoga imbalsamata da osservare con disprezzo. C'è modo e modo di arrestare un indagato... e non si può non capire che a Taranto si decise di dare spettacolo solo per seguire una sceneggiatura prestabilita, non si può non capire che Cosima era la vittima designata da offrire in pasto a una parte dell'opinione pubblica, alle bestie antropofaghe, a quegli orchi famelici con gli occhi iniettati di sangue che abitualmente sbavano e attaccano i loro contrari per ucciderne mentalmente le idee e colmare quei vuoti mentali che in loro non trovano pace, per dar soddisfazione a quell'istinto primordiale che li vorrebbe assassini impuniti, a quella rabbia accumulata a causa di famiglie di bassa lega incapaci di insegnare ai propri figli l'amore e la democrazia, quella rabbia ereditata da genitori invisibili che invece di accarezzare mordevano, da genitori che non sapendo fare i genitori hanno lasciato ai media volgari il compito di allevare ed educare la loro prole. Una rabbia alimentata da burattinai mai fermati da uno Stato che da tempo non esiste, esseri senza una vera guida che con decisioni proprie si autorizzano ad aizzare gli orchi grazie a un sistema giustizia sempre più sull'orlo del baratro. Come non capire che a Taranto esiste una sorta di "casta" alternativa che non basandosi sulla legge e sui fatti provati, non basandosi sulla logica e sul buonsenso, ha agito e agisce come solo i sequestratori di uno Stato dittatoriale possono agire? Carcerando due incensurati senza aver nulla di serio in mano, senza verificare con perizie le parole di chi accusava, hanno cercato la soluzione che non esisteva intimidendo ed incattivendosi oltre ogni giusto e lecito limite giuridico-investigativo. Coadiuvati da giudici di scarso spessore, giudici chiacchieroni asserviti, prestigiatori di penna, da giornalisti copia e incolla buoni solo a scrivere sotto dettatura, giornalisti chiamati così perché scritto su un pezzo di carta, ma in realtà esseri privi di una mente propria a cui nessun editore affida mai il compito di scrivere articoli ragionati, perché al massimo capaci di venderli i giornali, hanno messo in atto una rappresentazione vergognosa, una rappresentazione indegna di uno Stato che si dichiara democratico. Ed allora i casi sono due: o queste non sono persone in grado di fare bene il loro lavoro, e far cambiare mestiere a tutte non sarebbe un male, o sono persone che usando il potere di cui dispongono hanno mischiato bugie, omissioni, astuzia e inganno, e pur di imporre le idee colpevoliste di parte, non fatti accertati e provati validi per giustificare il carcere preventivo, hanno spinto e insistito in modo da inserirle a viva forza nell'emotività di quell'opinione pubblica che si fida di chi parla dagli schermi privilegiati, quell'opinione pubblica che non avendo tempo e modo di leggersi migliaia di pagine, in questo caso gli atti che dimostrano come la sola intimidazione fosse la logica usata in quel di Taranto, si affida al tal giornalista, al tal opinionista, perché nel tempo gli getta quel mangime che nutre la sua soddisfazione. Una soddisfazione effimera il credere di aver ragione grazie a chi alimenta quelle convinzioni nate a causa di insinuazioni velate, grazie al modo usato nel dare la notizia; un modo di fare ben conosciuto nel martellante settore pubblicitario, ma subdolo se usato al di fuori degli spazi convenzionali. Perché far credere di essere al di fuori di uno spazio pubblicitario annulla quelle difese psichiche che portano a dubitare del prodotto reclamizzato e fa pensare di aver elaborato in autonomia quanto in realtà da altri ci viene iniettato nella mente. Scrivere all'unisono le stesse identiche frasi e ripeterle continuamente sul video (una sorta di "mantra"), non può non influenzare... e chiunque sa che non è questo il modo di fare giornalismo. Eppure tanti esponenti dei media in questi anni hanno pubblicizzato, a volte apertamente altre fra le righe, costantemente la colpevolezza di Sabrina Misseri e di sua madre, portando così l'uomo comune ad acquistare il prodotto colpevolista senza pagare un euro (il costo da sborsare è un altro freno psichico che porta a dubitare della pubblicità). Un comportamento aberrante perché si sa che quando l'opinione pubblica abbraccia un'idea crea una forza d'urto capace di influenzare l'ordine delle cose, comprese le decisioni di chi opera in un tribunale (i giudici, sia togati che popolari, prima di entrare in un'aula di giustizia sono essi stessi una parte dell'opinione pubblica). Un comportamento aberrante perché è vergognoso accanirsi su una persona senza aver prova di nulla, solo le parole di chi per lavoro si innamora della propria tesi e in base a questa accusa. Ed è da censurare il comportamento acritico di quei giornalisti inutili, figli di uno stallo sociale da decenni privo di idealisti e pieno di approfittatori, capaci di creare mostri, capaci di trasformare le menti altrui in bestie antropofaghe. E' un comportamento da censurare che la sentenza di oggi pare però giustificare. Ma quanto sentenziato da un giudice del tribunale di Taranto, ricordiamoci che è una struttura con una percentuale di errore paurosa e un costo a carico della collettività indecente, è solo un giudizio scontato da tempo, un giudizio che tutti, proprio a causa dei media acritici che vivono giorno e notte inginocchiati sulle scale della procura, si aspettavano. Insomma, perdere oltre un anno in 52 udienze, con altri costi spaventosi, è parsa quasi una formalità da sbrigare per dimostrare che tutto s'è fatto a regola d'arte... ma era un passaggio che si poteva saltare tanto era scontata la condanna. Riuscite forse a immaginare cosa sarebbe accaduto se la Trunfio avesse assolto? Ogni personaggio coinvolto sarebbe rimasto incastrato in evidenti responsabilità. Niente più processi per i testimoni scomodi all'Accusa, niente condanna per il fiorista di Avetrana e una figura pubblica davvero barbina sia del Gip che di tutti i procuratori. Con la sua sentenza, invece, il giudice ha "liberato tutti": la "cosa giusta" servita a fare in modo che nessuno possa criticare quanto fatto in questi due anni e mezzo. Ora però è finita. A Taranto non saranno più giudicate né Sabrina Misseri né Cosima Serrano... e la storia recente ci dice che in appello tutto sarà di certo diverso, ci dice che la verità prenderà il sopravvento e surclasserà il pregiudizio. Per il momento, quindi, cali il silenzio e si chiuda il sipario in attesa che un nuovo teatro, un nuovo e diverso tribunale con nuovi giudici, riprenda la rappresentazione e decida che dopo anni di carcere ingiusto è arrivata finalmente l'ora di usare la logica della Vera Legge, quella che aiuta a sentenziare non usando solo le intimidazioni e il convincimento di parte. Oggi la giustizia italiana, ultima in Europa e in caduta libera nel pianeta, ancora una volta ha perso. Oggi nessuno ha vinto e di certo nessuno vincerà in futuro: quando dopo altri anni passati in carcere, al dolore già accumulato si sarà sommato altro dolore e lacrime. E nessuno si azzardi a dire che Sarah ha avuto Giustizia. La Giustizia è un'altra cosa. La Giustizia ha il sapore dolce e non lascia il gusto amaro di odio fermentato da un mosto senza zucchero. A Taranto oggi ha vinto l'odio, quello generato da chi ha raccontato un'altra storia, quello recepito da chi ha ascoltato un'altra storia... una storia senza senso, una storia infarcita da testimonianze indecenti e mille dubbi. E come dall'odio non può nascere mai la giustizia, così dai dubbi non si potrà mai estrarre la giusta verità...

CHE QUALCUNO LA RACCONTI GIUSTA! LA STORIA NON SIAMO NOI……

Ai posteri l'ardua sentenza. Così si suol dire. Ma noi siamo capaci di giudicare, specialmente noi stessi?

Le sentenze di assoluzione sono una vergogna! Scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Le sentenze sono di due tipi. Quelle di condanna e quelle di assoluzione. Se sono di condanna vanno bene, e sanciscono il fatto che il condannato è colpevole. Su tutti i giornali si dichiara in modo solenne e devoto: le sentenze (di condanna) si eseguono, non si commentano. E soprattutto non di discutono, non si criticano, non si protesta contro di loro, non le si dichiara ingiuste. Una condanna vale la verità. Il secondo tipo di sentenze sono le sentenze di assoluzione. Queste sentenze sono una vergogna. Per definizione sono una vergogna. E infatti, in genere, in aula c’è un bel gruppetto di persone che grida: “vergogna, vergogna”. E se non c’è, il giorno dopo molti giornali titoleranno così: “Vergogna”. Oppure, in modo più efficace, titoleranno: “delitto tal dei tali, non lo ha commesso nessuno”. O: “Nessun colpevole”. Negando la possibilità che qualcuno abbia commesso il delitto ma non sia stato scoperto, cosa che ogni tanto succede. Le sentenze di condanna, per definizione, non si discutono. Le sentenze di assoluzione, per definizione, sono una vergogna. Come mai? Semplice. Il processo penale, da qualche anno, non si celebra più nelle aule dei tribunali ma molto prima. Quando un Pm emette un avviso di garanzia, il processo è già svolto, di fatto, e l’avvisato, o l’indagato, è – di prassi – considerato colpevole del delitto del quale è accusato. Non c’è bisogno di nessunissima sentenza. Da quel momento si inizia a eseguire la prima parte della condanna che talvolta è il carcere preventivo, il quale può durare anche molti anni, altre volte è la gogna realizzata attraverso giornali e Tv, altre volte è tutte e due le cose. In più c’è spesso la perdita del lavoro, gigantesche spese per pagare gli avvocati, problemi di salute, di tenuta nervosa, eccetera. Poi, molti anni dopo, la magistratura giudicante emette la sentenza, ma è chiaro che la sentenza deve essere di condanna, visto che l’imputato è colpevole, altrimenti non sarebbe stato indagato. E se invece la sentenza è di assoluzione, e dunque nega l’evidenza che l’imputato, in quanto imputato, è colpevole, allora è chiaro che è una sentenza vergognosa. Perché è una vergogna mandare assolti i colpevoli, per di più dopo che comunque hanno già scontato (col carcere e con il letame) gran parte della condanna. E i giudici che mandano assolto un imputato sono corrivi, anzi fetenti. A quel punto conta poco anche il capo di imputazione. Ieri, per esempio, “Il Fatto” ha spiegato che l’assoluzione degli scienziati che erano stati messi sotto accusa (come poteva succedere solo in Corea del Nord) per non aver previsto un terremoto, equivale alla sentenza di assoluzione degli agenti che erano accusati di avere ucciso a botte Stefano Cucchi. Naturalmente, in parte, questo è vero: se non esistono prove della colpevolezza di quegli agenti – lo abbiamo già scritto – è sacrosanto che siano stati assolti. Perché – a occhio – l’assoluzione non dovrebbe dipendere dalla gravità della colpa ma dalle prove raccolte contro l’imputato. Così dicono, almeno, i vecchi libri, polverosissimi, di diritto. E però per giungere ad accostare il reato di omicidio al reato di mancata previsione di un terremoto, bisogna metterci un bel po’ di faziosità e pregiudizio. Credo. Ma forse mi sbaglio, non è faziosità: quelli del ”Fatto” credono davvero che gli scienziati dovrebbero prevedere i terremoti, e conoscere gli oroscopi, e indovinare il futuro (almeno il futuro prossimo) e altre cose così. Anche a Salem (Massachussets) nel seicento, molti credevano che le donne poco “timorate di Dio” fossero streghe, avessero poteri soprannaturali e fossero al servizio del diavolo. E dunque, saggiamente, le bruciavano vive, perché ritenevano che quello fosse l’unico modo per cancellarle per sempre. Ciascuno è bene che sia fedele ai propri principi. Anche Travaglio. Anche Kim il Sung, o come diavolo si chiama suo nipote.

Troppa voglia di giustizia sommaria, scrive Cesare Martinetti su “La Stampa”. Viviamo sull’orlo dell’indignazione permanente. «Vergognosa» la sentenza dell’Aquila. «Sconvolgenti» le assoluzioni dei boss della camorra nel processo Saviano. Non parliamo di quelle del caso Cucchi. Va da sé che i parenti delle vittime del terremoto hanno il sacrosanto diritto di chiedere giustizia. È ovvio che ci sembra incomprensibile una sentenza che condanna l’avvocato che per conto dei boss ha proferito miserabili minacce contro uno scrittore e assolve i mandanti. Siamo con il cuore, e non soltanto, accanto alla signora Ilaria che per amore del fratello morto in carcere e con un vivo sentimento di coraggio civile sta battendosi per una causa che dev’essere di tutti. Ciò detto, però, c’è qualcosa che non va in tutte queste indignazioni che si rivolgono contro giudici legittimi che – salvo prova contraria – hanno pronunciato sentenze legittime in legge e coscienza. Questo qualcosa è che nel nostro Paese è caduto il riconoscimento del potere costituito, sia esso politico, scientifico o, come in questo caso, giudiziario. C’è una domanda di giustizia sommaria. O arriva la sentenza sull’onda di un’accusa costruita sull’indignazione popolare e mediatica, rapida e senza appello, o si castigano in modo esemplare gli imputati del caso anche se ricoprivano nella vicenda un ruolo marginale o subalterno, o è «Vergogna, vergogna, vergogna». E tutto questo quasi sempre senza aver analizzato o conosciuto a fondo le prove di accusa e quelle di difesa, collocato nella giusta valutazione le une e le altre mettendosi nel difficile ruolo del giudice che deve decidere. Condannare i sismologi per il terremoto dell’Aquila è certamente molto popolare ed emotivamente compensatorio nei confronti dei parenti delle vittime. Gli scienziati costituiscono un capro espiatorio ideale e paradigmatico per quanto caricaturale: che fa un sismologo se non sa nemmeno prevedere un terremoto? Gli anni di galera fanno un bel titolo sul giornale. Ma poi? Ha detto il professor Enzo Boschi, prima condannato poi assolto: «Spiegai che il terremoto era improbabile, ma non si poteva escludere... il linguaggio della scienza è diverso da quello dei media...». Superata l’emergenza emotiva che chiedeva la condanna immediata ed esemplare di qualcuno in primo grado, si va in appello, l’emozione è rarefatta e le cose appaiono un po’ diverse. Si scopre, come quasi sempre in Italia, che le indagini sono state incomplete (caso Cucchi) che bisognava risalire alla fonte che non è un’onnipresente Spectre italica che obnubila, confonde, occulta una verità alla Pasolini nota a tutti: io so chi è il colpevole, ma non ho le prove... È invece quella frantumazione di responsabilità che si trasforma in de-responsabilità dove la burocrazia si incrocia con la politica in un impasto oscuro e impunito. Ed è in questo strato opaco che sta il vero scandalo, è lì che si costruisce la vera ingiustizia. Trattasi di una procedura antica, quasi costitutiva del sistema Italia, un Paese dove alla parola «stragi» si unisce con tragico automatismo l’aggettivo «impunite» anche quando impunite non sono. C’è dunque un sentimento diffuso di ingiustizia che giustifica il sospetto e l’indignazione. C’è un sistema giudiziario dove alle inerzie corporative si sommano anni di leggi, leggine e circolari costruite apposta per bloccare e rallentare il corso delle indagini e dei processi. C’è un’insopportabile lentezza delle procedure. In Sud Corea ieri è stato condannato (a 36 anni di carcere) il comandante del traghetto affondato in primavera e 300 studenti sono morti. Era accusato di aver abbandonato la nave. Lo chiamavano lo Schettino di Corea. Da noi il vero Schettino, dopo quasi tre anni dal disastro è ancora sotto processo, nel frattempo ha fatto una lezione all’università ed è diventato personaggio da paparazzare per i rotocalchi, drammatica e patetica maschera della giustizia sospesa: ci dicano se è innocente o colpevole. Tutto questo è insopportabile, ma ciò non toglie che quei «vergogna» lanciati contro i giudici senza nemmeno aver letto i perché di una sentenza siano sbagliati, come erano sbagliati gli applausi per le condanne e gli arresti facili contro i nemici politici o il capro espiatorio del momento. I giustizialisti, che prima invocano le manette per gli altri e poi rifiutano le sentenze su se stessi come il sindaco di Napoli De Magistris sostenuto dal Tar di turno, producono quella nebbia in cui ogni «vergogna» si giustifica. Diradare questa nebbia, rendere trasparenti e riconoscibili le responsabilità politiche e amministrative, semplificare le procedure, sarebbe la prima riforma necessaria al Paese perché i cittadini, innocenti, colpevoli e vittime, si riconoscano senza vergogna nel Paese. E nella sua giustizia.

La storia non siamo più noi: lettere e risposte su “L’Espresso".

La storia siamo noi, nessuno si senta offeso, siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo.

La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.

La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare.

E poi ti dicono “Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera”.

Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera.

Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione.

La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere.

E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia) quando si tratta di scegliere e di andare, te la ritrovi tutta con gli occhi aperti, che sanno benissimo cosa fare.

Quelli che hanno letto milioni di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare, ed è per questo che la storia dà i brividi, perchè nessuno la può fermare.

La storia siamo noi, siamo noi padri e figli, siamo noi, bella ciao, che partiamo.

La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano.

La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.

Mi scuso per la citazione integrale del bel testo di Francesco De Gregori, “La storia”, che comunque è sempre una bella lettura, ma credo, anzi temo, che ormai la storia non siamo più noi. Quel vento che gonfiava le vele della storia, che proveniva da lontano, che spalancava i portoni chiusi e che, a torto o a ragione, con i suoi eccessi, le sue atrocità, ma con le sue conquiste diede origine alla rivoluzione francese nel 1789, dopo cui il concetto di eguaglianza tra cittadini ha trovato ospitalità, (pur con tutte le ambiguità ed ipocrisie del caso, specie in Italia, terra di gattopardi), quel vento ormai non soffia più. La storia ha cambiato percorso, è sempre più in mano ad un oligopolio di poteri che pur pochi rispetto al totale della popolazione mondiale decidono per tutti. E qui non si tratta di tirare in ballo ipotetici complotti di “illuminati”, massoni e/o quant’altro, pur senza volerli obbligatoriamente escludere, ma semplicemente di prendere atto che le decisioni di una nazione, economiche e quindi sociali sono oramai transnazionali in uno scacchiere in cui l’Unione europea, ad esempio, conta due su dieci (figuriamoci l’Italia da sola quanto conterebbe..). Molti dicono che questo sia il prezzo da pagare per la pace, ma ai molti io replico che la cosiddetta pace riguarda nel caso la sola Europa, non investendo in maniera reale e continuativa nessuno degli altri continenti tranne l’Australia e il Nord America sino al confine con il Messico. E allora gentili forumnauti, se quanto sopra esposto è non dico vero ma almeno verosimile e ragionevole, in questa cultura dell’effimero (nulla a che vedere con quella dello scomparso Renati Nicolini, che nel suo ambito era cosa seria) e dell’apparenza che proprio qui in Italia ha preso così piede (ne dubitavate? Io no…), prendiamone atto. I nostalgici della visione marxiana potranno sostenere che il capitalismo sta vincendo prendendosi la rivincita sul periodo in cui per un po’ vacillò, i liberali saranno o afasici o liberisti, destrelli e sinistrelli si ritroveranno spiazzati perchè entrambi convinti di poter guidare il corso (e gli obiettivi) della storia, si riscoprono invece al più pedine inutili di un gioco che non solo li sovrasta ma li ignora. Il mondo nuovo pare non prevederli, le stesse istanze di cui sono stati portatori si sono riamalgamate tra loro (ironia del melting pop…) e cercano nuovi modi di rappresentanza. Su tutto pare vigere, immanente, un precariato stabile che di fatto impedisce ogni tipo di equilibrio e di futuro sociale che ha già da un pezzo trovato i suoi alfieri e a cui - ecco il punto - le nuove generazioni sono state educate sino a considerarlo l’unico futuro possibile. E i pochi gongolano mentre i molti ogni giorno di più soffrono. Ma non accade nulla, come avvenne invece nel 1789 e per ragioni in parte simili nel 1917 nella Russia zarista dei servi della gleba. Concludendo oggi De Gregori la sua “Storia” non potrebbe più scriverla, perchè la storia non siamo più noi.

VENERDI’ 14 NOVEMBRE 2014. TARANTO. INIZIA IL PROCESSO DI APPELLO PER IL DELITTO DI SARAH SCAZZI. SI ACCENDA LA TELEVISIONE.  

C’è la prova regina della confessione da parte di chi è lo stesso che ha fatto trovare il corpo esanime di Sarah. Quale prova maggiore ci può essere per tastare la sua attendibilità?

I legali di Sabrina chiedono che venga trascritta l’intercettazione della conversazione telefonica tra Michele e la figlia Sabrina la notte dell’arresto dell’uomo, in cui fece trovare Sarah. E che venga ascoltata in aula. Una conversazione dove Sabrina chiede conto al padre di quello che ha fatto.

Michele: «Pronto…»

Sabrina: «Pronto….Papà.. »

Michele: «Ehi.... »

Sabrina: «Piccè non ma la tittu subbutu, papà?....» (Perché non me lo hai detto subito, papà?)

Michele: «Sììì, non mi spittati chiui…» (Sììì, non aspettatemi più)

Sabrina: «Sììì, uabbè, ma cu te oiu parlu però, puei…» (Sììì, va be’, ma con te voglio parlare, poi…)

Michele: «Ma sapi quannu…» (Chissà quando…)

Sabrina: «No.., ma sapi quannu. Viti ca quannu uei tu puè parlari cu nnui…» (No…, chissà quando.  Vedi che puoi parlare quando vuoi con noi…)

Michele: «Sì, però ci lu telefonino lu lassunu a me…» (Sì, però se mi lasciano il telefonino..)

Sabrina: «Uabbe, ma tu no ti preoccupà, ca ci tici ca a parlà cu nui, alla fini loru ti fanno parlà…» (Vabbè, tu non ti preoccupare. Se dici che devi parlar econ noi, alla fine loro ti faranno parlare..)

Michele: «No, stasera è l’urtima telefonata. Lu telefoninu mi lo tolgono…..» (No, stasera è l’ultima telefonata. Il telefonino me lo tolgono..)

Sabrina: «Ho capito, papà. Però li avvocati poi alla fini ti tanno la cosa cu ti fannu parlari. Però, papà, piccè la fattu. Io non mi lo sacciu spiegari. Tu no ha fattu mai nienti ti mali, picce di momenti. Ccè te binutu?» Ho capito, papà. Però gli avvocati alla fine ti daranno la possibilità per farti parlare. Però, papà, perché lo hai fatto. Io non me lo so spiegare. Tu non hai mai fatto niente di male. Perché quel momento. Cosa ti è successo?)

Michele: «No lo so! » (Non lo so!)

Sabrina: «Puè parlamu…ciau... » (Poi parliamo..ciao...)

Michele: «Ciau… » (Ciao…..)

Sabato 20 aprile 2013 la Corte di Assise di Taranto ha condannato al carcere a vita Cosima Serrano, madre, e Sabrina Misseri, figlia.

Venerdì 14 novembre 2014, per loro le porte di un’aula di giustizia si riaprono a Taranto per il processo d’appello, dinanzi alla Corte di assise di appello presieduta da Rosa Patrizia Sinisi. L’accusa sostenuta dal sostituto procuratore generale Antonella Montanaro.

Antonio Giangrande ha raccontato la prima parte del processo in un libro “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire” e lavora sul sequel nel secondo libro con il titolo aggiuntivo “La Condanna e l’Appello”.

Sabrina Misseri e Cosima Serrano hanno condiviso negli ultimi anni paure, timori, sofferenze ma anche le telecamere e un processo durato 14 mesi. Lei ha oggi 28 anni, è in carcere da più di quattro e con la prospettiva di finire lì i suoi giorni perchè ha sulle spalle il terribile fardello di una condanna all'ergastolo. La madre di anni ne ha 59, è entrata nella stessa cella della figlia pochi mesi dopo e il suo futuro potrebbe restare rinchiuso in quel pugno di metri quadrati. Tutti hanno fatto ricorso, ma per un imputato la Corte di assise di appello dovrà dichiarare l'estinzione del reato perchè Cosimo Cosma, nipote di Michele Misseri, al quale erano stati inflitti sei anni per concorso in soppressione di cadavere, è morto il 7 aprile 2014 per una grave malattia, forse provocata proprio dal dispiacere di esser accusato e condannato da innocente. Gli altri imputati che cercheranno di far valere le loro ragioni dinanzi ai giudici di appello sono Carmine Misseri, fratello di Michele, anche lui condannato a sei anni per concorso in soppressione di cadavere; l’ex legale di Sabrina, Vito Russo jr, al quale vennero inflitti due anni per favoreggiamento personale; e infine altri tre condannati per favoreggiamento, Giuseppe Nigro (un anno e quattro mesi), Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano (un anno di reclusione ciascuno).

Sulla base della sentenza di primo grado, emessa dalla Corte di assise di Taranto il 20 aprile 2013, sono stati aperti inoltre dalla Procura di Taranto procedimenti per falsa testimonianza nei confronti di Ivano Russo, il giovane del quale si sarebbe invaghita Sarah scatenando, secondo l’accusa, la gelosia di Sabrina, e ancora Alessio Pisello, Anna Scredo, Giuseppe Olivieri, Anna Lucia Pichierri e Giuseppe Serrano. E' aperto un altro procedimento nei confronti di Michele Misseri per il reato di autocalunnia, mentre è indagato per false informazioni al pm il fioraio Giovanni Buccolieri, che riferì di aver visto Sabrina e Cosima sequestrare in strada Sarah ma poi ritrattò.

Il collegio difensivo sostiene che l’alibi di Sabrina sarebbe rappresentato dagli sms che la giovane scambiò con un’altra amica che quel terribile 26 agosto 2010 doveva andare al mare insieme alle due cugine, quei messaggi collocherebbero Sabrina in casa Misseri dopo le 14,28. Fin ora, però, gli sms, da sempre emersi in fase dibattimentale, non sono stati mai considerati come un alibi di ferro.

C’è una novità che rappresenta (o rappresenterebbe) un vero colpo di scena: la difesa delle due donne chiederà che venga riaperta la fase istruttoria e che vengano cercate nuove prove a supporto dell’innocenza delle due, rispettivamente cugina e zia di Sarah Scazzi. L’accusa, invece, spera che si tratti di un processo breve: le due donne sono colpevoli, le prove sono già state discusse a lungo nel procedimento di primo grado e i giudici non dovranno far altro che confermare la sentenza di primo grado.

La decisione è come al solito nelle mani dei giudici. Una certezza: se si dovesse riaprire la fase dibattimentale i tempi si allungheranno di molto e il rischio che le due imputate vengano rilasciate è più che concreto. Il 20 gennaio 2015, due mesi a partire da ora, scadranno i termini di custodia cautelare e se entro quella data non verrà emessa la sentenza d’appello Sabrina Misseri e Cosima Serranno dovranno lasciare il carcere ed essere giudicate a piede libero.

Quindi da quanto detto si desume che :

- legalmente il processo non è chiuso, pendono i termini per chiuderlo ovvero per concludere l’iter dinnanzi alla corte d’Assise e d’Appello e arrivare alla sentenza;

- nelle more di questi termini Cosima e Sabrina restano in custodia cautelare in carcere (ovvero in attesa della sentenza rimangono in stato di detenzione). Ma la custodia cautelare ha un termine massimo di durata e per le due donne di Avetrana, detto termine, arriverà a scadenza il 20 gennaio 2015.  Se il processo d’appello non si chiuderà entro detta data c’è, per i colpevolisti, il rischio concreto che le donne possano lasciare il carcere ed essere giudicate “a piede libero”.

Siamo in Corte di Appello di Taranto, sezione distaccata della Corte di Appello di Lecce. E un’altra location. Adatta per le telecamere. Siamo al quartiere Paolo Sesto. Non è più il Tribunale tra le anguste vie adiacenti a via Marche.

Altri giudici, di sicuro. Ma non si è certi che questi si discosteranno dalla linea giudiziaria intrapresa in primo grado.

Le tv nazionali ed i talk show sono pronti, orfani da troppo tempo di un evento mediatico senza precedenti. Meno coinvolti sono le tv ed i giornali locali, dietro l’apparente distacco per non far trasparire la palese soggezione, sempre a favore della tesi accusatoria e dei giudici tarantini. Troppo ossequiosi per apparire liberi.

Nel processo Scazzi si scontrano due correnti di pensiero:

Quello di sinistra, che sul principio della separazione dei poteri, sono assorti nel detto “il giudice ha sempre ragione; le sentenze si applicano e non si commentano”. Non sanno quelli di sinistra che i giudici non detengono un potere, che per la Costituzione spetta al popolo, ma sono solo esercenti una funzione, come qualsivoglia dipendente pubblico. Non sanno costoro che tuttora le sentenze si criticano, fino a che in Parlamento non elimineranno la garanzia dell’appello sotto imposizione della casta dei magistrati.

Dall’altra parte troviamo il pensiero della destra che con il suo principio “Legge ed Ordine” non ammette che vi sia un delitto impunito, anche se a discapito di innocenti in carcere.

Oggi i condannati in primo grado nel processo Scazzi sono sottoposti all’attacco di entrambi i fuochi. I pochi garantisti non hanno scampo. Si è detto garantisti, non innocentisti. E’ assurdo pretendere delle garanzie di neutralità attenente alle prove in una funzione giurisdizionale, che fino ad ora a Taranto è mancata, soggiogata dall’influenza mediatica la quale ha già esternato la sua condanna?

La morte della giovane Sarah Scazzi suscitò scalpore e sdegno nell’opinione pubblica, divenendo un caso mediatico che tenne tutti con il fiato sospeso per ben 42 giorni, allorquando il corpo della ragazzina, sparita misteriosamente il 26 agosto 2010, fu ritrovato in un pozzo di contrada Mosca, su ammissione dello zio Michele Misseri, reo confesso di un delitto di cui poi non fu giudicato colpevole. Il contadino, infatti, è considerato inattendibile per via delle sue iniziali contraddizioni e perché mina la tesi accusatoria sin dalle fondamenta.

L’impatto mediatico su questo processo è veramente influente? Si chiede a Franco Coppi. «L’impatto che i mass-media possono avere su un processo dipende esclusivamente dai protagonisti. Se il giudice, il pubblico ministero, l’avvocato hanno i nervi saldi e sanno fare il loro mestiere, sono perfettamente in grado di gestire anche l’eventuale rapporto con giornali e televisioni. Quello che conta in un processo è ciò che succede in aula». Il Professor Coppi, emerito di Diritto Penale presso l’Università di Roma La Sapienza, è uno tra gli avvocati penalisti più noti in Italia anche in virtù della notevole risonanza mediatica che hanno avuto molti tra i processi in cui ha prestato la propria attività di difensore. E, infatti, di palpabile evidenza come i media dedichino sempre più ampio spazio ai delitti che per la loro natura o per la notorietà dei soggetti coinvolti destano maggiore interesse nella pubblica opinione. Ancor prima della celebrazione dei dibattimenti nelle aule di giustizia tali casi divengono oggetto di un procedimento parallelo sui mezzi d’informazione, cui spesso prendono parte i medesimi soggetti a vario titolo coinvolti nel processo reale (indagati, parti offese, investigatori, avvocati e consulenti tecnici). Ciò può determinare oltre ad una eccessiva spettacolarizzazione delle vicende giudiziarie e di fanatismo a favore dei pubblici ministeri, effetti distorsivi e di condizionamento sul vero e proprio processo ponendo anche problemi di natura deontologica per i difensori delle parti private coinvolte.

Ma il vero protagonista nel processo mediatico è solo lui, in mezzo a mille comparse.

Franco Coppi è nato a Tripoli, in Libia, allora colonia Italiana, nel 1938. Dal 1975e fino all'anno accademico 2010/2011 è stato professore ordinario di diritto penale presso l'Università di Roma La Sapienza. Nel corso della sua carriera di avvocato ha difeso Giulio Andreotti, don Pierino Gelmini (rinunciando però per le sue troppe esternazioni), Antonio Fazio nel processo per lo scandalo di Antonveneta, due imputati nel caso di Rignano Flaminio, Sabrina Misseri, Raniero Busco, e Gianni De Gennaro nel processo per i fatti della scuola Diaz, Bruno Conti e Francesco Totti nel caso Failla), Vittorio Emanuele di Savoia, Piero Angela, la ThyssenKrupp nel processo per il rogo delle acciaierie di Terni e Silvio Berlusconi nel processo Mediaset, la nota conduttrice televisiva Paola Perego, Francesco Bellavista Caltagirone e Augusto Minzolini, l’ex direttore del Tg1, Vito Miceli (Golpe Borghese),  Niccolò Pollari (sequestro Abu Omar), eccetera, eccetera. Una carriera dove gli "eccetera" non contano poco.  Dal suo studio (in viale Bruno Buozzi, Roma) sono usciti avvocati come Giulia Bongiorno. Della passione di destra che contraddistingue la Bongiorno è cosa risaputa. Meno pubblica è la tendenza politica di Coppi “con un’anima di sinistra” a dirla alla Salvatore Merlo su Il Foglio.

Forse è quest’anima che ha suscitato in lui, a dispetto degli altri principi o scudieri del Foro, di prendere la difesa di Sabrina Misseri pro Bono, ossia con il gratuito patrocinio.

Il buon Coppi per Sabrina si gioca l’onore e lo fa in modo disinteressato. Non c’è emulo o visibilità che lo soddisfi.  «Questo ergastolo è il più grande cruccio della mia carriera», ha spiegato in un’intervista alla giornalista Ilaria Cavo. «Ci sto consumando la mia vita, perché sapere che una ragazza di 23 anni – per me innocente – sta marcendo in carcere con una condanna all’ergastolo, mi toglie il sonno».

Franco Coppi è anche a Taranto il difensore dei Riva. La Cassazione ha annullato senza rinvio il sequestro preventivo per 8,1 miliardi di euro nei confronti della Riva Fire, la Holding che controlla l’Ilva spa. Già la Cassazione, ma qui stiamo a Taranto ed i magistrati sono una corporazione, come una famiglia, della quale Coppi non fa parte. I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione. Dal catalogo dei viventi sappiamo che l’avvocato Coppi è un uomo austero, lontano dalle tentazioni mondane. Non ama le cene (e si vergogna di dover sempre dire no) e le feste. Si interessa di arte e pittura, si circonda di cani e ama restare in disparte, a lavorare. A parte quello delle cravatte (ne ha una quantità mostruosa) non si conoscono debolezze particolari. Romanista. È un uomo superstizioso: scrive solo a mano con una penna ferrari rossa, il suo amuleto. Alle cause particolarmente difficili e importanti si fa accompagnare in tribunale dalla figlia. «La difesa che dà più soddisfazioni è sempre l’ultima in ordine di tempo», dice Coppi.  Purtroppo per lui, mi sa che a Taranto non ci saranno soddisfazioni: la sentenza di condanna è già stata scritta sin dal principio……dai media!

Dovrà aspettare che il fascicolo arrivi nella sua Roma e forse, chissà….!!!

Eppure c’è la prova regina della confessione da parte di chi è lo stesso che ha fatto trovare il corpo esanime di Sarah. Quale prova maggiore ci può essere per tastare la sua attendibilità.

Omicidio di Avetrana, attesa per l’Appello. La difesa pronta a decostruire la tesi dell’accusa, che in primo grado ha portato alla condanna all’ergastolo per Sabrina e Cosima Misseri: “Ci sono ragionevoli dubbi per ritenere che le cose siano andate diversamente”, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. Il processo di Avetrana riprende. Appello. La speranza per Sabrina e Cosima di evitare l’ergastolo a cui sono state condannate lo scorso aprile. La corte di Assise presieduta da Cesarina Tronfio non ha avuto dubbi, eppure la sentenza conta 1600 pagine. «Non sono troppe per una certezza?», si sono chieste le difese delle due donne. Secondo la difesa la ricostruzione proposta dalla sentenza di condanna impugnata è in contrasto con quanto emerge dagli atti processuali e presenta «profili di oggettiva e evidente illogicità». Infatti «nello spazio di 25-30 minuti dovrebbe essersi svolta una serie di condotte che vanno contro quella “umana razionalità” che tante volte è stata invocata nella motivazione». Cinque persone vengono coinvolte in un delitto (Sabrina, Cosima, Michele e suo fratello Carmine, oltre al nipote Cosma deceduto questa primavera) senza che nessuno abbia la minima esitazione. Cosima aiuta la figlia a strangolare la nipote senza domande, solo per assecondare una ipotetica gelosia di Sabrina nei confronti della cugina che stava diventando bella e gli avrebbe conteso i favori del bello di Avetrana, Ivano. Michele alla richiesta di nascondere il cadavere avrebbe subito acconsentito senza farsi uno scrupolo. Stessa cosa per suo fratello e suo nipote. Ogni azione di questi personaggi viene descritta velocizzata, come in un film muto, come descrive Franco Coppi, difensore di Sabrina nel suo Appello. I legali di Sabrina chiedono la riapertura dell’istruttoria dibattimentale. Vogliono che venga ascoltato di nuovo Michele Misseri «affinché confermi ed illustri» il contenuto dell’intervista rilasciata alla giornalista Ilaria Cavo durante la trasmissione Quarto Grado del 28 marzo 2014 dove ribadisce di essere stato lui l’assassino e parla delle modalità di esecuzione del delitto. In questa occasione Michele, mimando la fase omicidiaria, mostra di aver afferrato Sarah ponendole le mani sui seni. E questo confermerebbe il suo movente sessuale. Coppi e Marseglia chiedono anche che venga acquisita la relazione del professor Capelli secondo cui Sarah sarebbe stata uccisa con una corda esattamente come confessa Michele; chiedono che venga trascritta l’intercettazione della conversazione telefonica tra Michele e la figlia Sabrina la notte dell’arresto dell’uomo. E che venga ascoltata in aula. Una conversazione dove Sabrina chiede conto al padre di quello che ha fatto. La difesa vorrebbe che fosse ascoltato il titolare del pub dove sarebbe avvenuta la famosa lite, secondo l’accusa e la sentenza, tra Sarah e Sabrina. Coppi e Marseglia vogliono poi che siano acquisite le sentenze della Cassazione sulle esigenze cautelari per Sabrina Misseri nella «loro interezza». E dunque anche nelle parti in cui mettono in dubbio l’esistenza di gravi e fondati indizi di colpevolezza. «Si dovrebbe infatti ritenere che Sarah, uscita di casa con un sotterfugio, si sarebbe recata nell’abitazione della cugina, con la quale avrebbe immediatamente incominciato a litigare ed in maniera così violenta da dover fuggire disperata dalla casa di via Deledda», scrivono Franco Coppi e Nicola Marseglia, difensori di Sabrina. «Dovremmo credere che Cosima Misseri, anziché calmare e tentare di conciliare le due ragazze, che fino a quel momento si erano comportate fra loro come sorelle, animata da cieco furore nei confronti della nipote, avrebbe inseguito quest’ultima in macchina per le vie di Avetrana, obbligandola a salire sulla sua automobile e riconducendola nella casa di via Deledda non senza averle fatto fare prima un giro rassicurante per le strade del paese». E ancora: «Qui, la lite sarebbe ripresa e, accecata dall’odio e dalla rabbia, Sabrina avrebbe messo le mani al collo di quella che fino a quel momento era stata per lei una sorella e con la quale mai erano accaduti litigi violenti e furibondi; e Cosima Misseri, anziché opporsi alla iniziativa folle della figlia e proteggere una nipote che vedeva ogni giorno nella propria casa, avrebbe prestato aiuto materiale a Sabrina nella consumazione dell’omicidio! E tutto questo per solidarietà verso la figlia, offesa dal fatto che Sarah sarebbe stata la causa della frattura del rapporto con un Ivano, che per conto suo aveva sempre fatto sapere a Sabrina che non intendeva contrarre con lei uno stabile legame e che la stessa Sabrina aveva liquidato la sera del 21 agosto festeggiando la serata proprio in compagnia di Sarah in un improvvisato karaoke». «Tutto questo», continua la difesa, «accade mentre l’inconsapevole Michele riposa tranquillamente. Svegliato dalle donne e messo al corrente del fatto, Michele non si scompone e in un attimo decide di assumersi la responsabilità del delitto e della sparizione del cadavere: non chiede cosa è successo, non manifesta l’idea di portare il corpo di Sarah in ospedale nella speranza estrema di un salvataggio, ma immediatamente – come se fosse la cosa più naturale di questo mondo - pensa alla contrada Mosca come al luogo più idoneo per occultare il cadavere». «Intanto, Sabrina, dimostrando una eccezionale freddezza e una incredibile padronanza di sé, si impossessa del cellulare di Sarah e se ne serve, utilizzando il proprio telefono, per costruire il proprio alibi». Nello stesso tempo Michele, ritenendo indispensabile l’aiuto di qualcuno per calare il cadavere nel pozzo dopo un incomprensibile passaggio sotto il fico ed un primo denudamento del corpo della povera Sarah, sollecita – come se niente fosse - la collaborazione del fratello e del nipote, i quali – come se niente fosse, o meglio: come se fosse la cosa più naturale di questo mondo occultare cadaveri e in particolare il cadavere di Sarah – immediatamente prestano il loro consenso: nessuno chiede spiegazioni, nessuno si rifiuta e nel giro di pochi minuti persone estranee ad un orrendo delitto trovano un immediato accordo per farne sparire le tracce, allo stesso modo di come avevano trovato immediato accordo Sabrina e Cosima nel decidere di uccidere Sarah e nel consumare il delitto». E sostiene la difesa «la tragica morte di una fanciulla di quindici anni impedisce qualsiasi ironia intorno ad una così grottesca rappresentazione». Gli avvocati difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia ricordano come la Corte Suprema di Cassazione, «specialmente dopo l’introduzione della regola della “condanna al di là di ogni ragionevole dubbio”, ha sempre avvertito che il giudice non può condannare quando i fatti consentano altre ragionevoli letture e non siano stati acquisiti argomenti razionali che consentano di ritenere le ipotesi alternative quali “eventualità remote…. la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana» (così Cass., I sez., 3 marzo 2010, Giampà, in Ced 247449). E nel giallo di Avetrana «la lettura alternativa, che la difesa ha sempre proposto (presentandola, anzi, come l’unica possibile), presenta un soggetto che confessa di essere l’autore del delitto dopo aver fatto tutto il possibile per far ricadere su se stesso il sospetto di essere l’assassino (si veda, per esempio, il “ritrovamento“ del telefono di Sarah); occulta il cadavere in un pozzo e lo fa ritrovare; brucia i vestiti e gli oggetti personali della vittima portando poi gli inquirenti sul luogo dove ha acceso il fuoco; conserva il telefono della vittima e lo fa ritrovare secondo le note modalità; scrive decine di lettere alla figlia e riempie pagine di memoriali per spiegare come ha ucciso Sarah e per implorare il perdono della figlia ingiustamente accusata; si riconosce nel dibattimento avanti la Corte di Assise quale autore unico del delitto; continua a rilasciare interviste nelle quali continua a rappresentarsi quale unico autore dell’omicidio e a rappresentarne le modalità esecutive». «Quali argomenti ha addotto la sentenza impugnata per dimostrare che questa rappresentazione dei fatti si colloca oltre ogni più remota eventualità e fuori di qualsiasi possibilità di spiegazione secondo umana razionalità?», si chiedono Coppi e Marseglia. «Cosa altro è necessario - oltre la confessione, la soppressione del cadavere, l’incenerimento degli oggetti della vittima, la rivelazione dei luoghi in cui tutto questo è accaduto – per riconoscere al di là di ogni ragionevole dubbio che Michele Misseri è l’autore del delitto e cosa è altro necessario per dimostrare che Sabrina Misseri è innocente!?». Altrimenti «si deve invece amaramente e sconsolatamente, di fronte a quanto è accaduto in questo procedimento, riconoscere che la Giustizia corre il rischio di trasformarsi in una ipotesi e in un incubo?» Un punto interrogativo amaro che racchiude in sé anche la speranza. «Spero che questa volta sarò giudicata senza pregiudizi. Tu che dici, ce la faremo?». Dimagrita, in lacrime, Sabrina Misseri si è rivolta così al suo avvocato, Nicola Marseglia, che è andato a trovarla in carcere. «Uno stato d’animo a pezzi», la descrive il legale tarantino che con il penalista romano Franco Coppi affronterà da oggi la Corte d’appello d’assise nel giudizio di secondo grado per il delitto di Sarah Scazzi. «Un verdetto assolutamente ingiusto» dice Marseglia.

Intanto  la troupe Rai tenta di intervistare zio Michele. E si becca una secchiata d’acqua. Michele Misseri non vuole essere disturbato. Ma gli inviati di Uno Mattina insistono. Lui, per cacciarli, gli tira un gavettone d’acqua con il secchio. E’ successo ad Avetrana (Taranto), dove una troupe della Rai è stata allontanata così dalla casa di via Deledda in cui sarebbe stata uccisa Sarah Scazzi. E non ha tutti i torti tenuto conto che i giornalisti sono fomentati da pregiudizi. Basta sentire: "Per fortuna il maltempo si è spostato al Sud...": la clamorosa gaffe del Tg5 del 12 novembre 2014. Bufera in rete sul Tg5. Il telegiornale Mediaset è finito nell'occhio del ciclone perché la giornalista Elena Guarnieri ha pronunciato queste parole durante la diretta parlando del maltempo: «Il peggio sembra essere passato, la perturbazione si è spostata al Sud». Come per dire: chi se ne fotte di loro…..

Dinanzi alla Corte di Assise di Appello di Taranto (presidente Rosa Patrizia Sinisi, a latere Susanna De Felice, oltre a 12 giudici popolari), è iniziato il processo di secondo grado per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana (Taranto) strangolata e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010. Otto gli imputati. In primo grado, il 20 aprile 2013, la Corte di assise di Taranto ha condannato all’ergastolo per omicidio volontario, sequestro di persona e concorso in soppressione di cadavere Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, cugina e zia di Sarah; per soppressione di cadavere ad otto anni Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, e a sei anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello e nipote di Michele (Cosma è nel frattempo morto il 7 aprile scorso); a due anni di reclusione Vito Russo jr, ex legale di Sabrina; infine a pene comprese tra un anno e quattro mesi e un anno di reclusione tre favoreggiatori, Giuseppe Nigro, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano. In aula sono presenti Sabrina e Michele Misseri, nonché Concetta Serrano, madre di Sarah e sorella di Cosima.

In aula c'erano sia Sabrina sia Cosima, che hanno assistito in silenzio all’udienza chiuse nella gabbia di vetro, come animali allo zoo: insieme, sedute l’una accanto all’altra, così come condividono dal maggio 2011 la stessa cella nel carcere di Taranto.

Si diceva: La Corte è composta da Rosa Patrizia Sinisi ed a latere c'è Susanna De Felice. L'accusa è sostenuta da Pina Antonella Montanaro.

Vediamo chi sono i magistrati tarantini che dovrebbero assicurare la giustizia in Corte d'Appello a Taranto.

Su Rosa Patrizia Sinisi il web è sguarnito di notizie.

Su Susanna De Felice si sa che era giudice ha Bari e poi ha chiesto il trasferimento a Taranto. Il giudice Susanna De Felice che assolse Vendola inguaiato anche da un sms, scrive Giacomo Amadori su “Panorama”. La vicenda della contestata assoluzione di Nichi Vendola da parte del giudice barese Susanna De Felice continua a suscitare polemiche e riservare sorprese. Nei giorni scorsi Panorama ha pubblicato le foto del pranzo di compleanno di una cugina di Vendola a cui parteciparono il governatore pugliese e il magistrato in un clima disteso e conviviale. L’immagine è costata a De Felice aspre critiche per la mancata astensione anche da parte di magistrati in forum e discussioni via email. Della decisione di De Felice di non rinunciare al giudizio si occuperà la procura generale della Cassazione. Dove sono state inviate dal Csm le dichiarazioni dei due pm, Francesco Bretone e Desirée Digeronimo, che avevano chiesto per Vendola una condanna a 20 mesi di carcere per abuso d’ufficio. I magistrati hanno riferito di avere ricevuto dopo la sentenza da Ambrogio Marrone, collega gip di De Felice, questo sms: «Vendola assolto dagli amici». Un grave sospetto indotto dal vicino di stanza del giudice. Bretone ha anche raccontato di avere cercato prima della sentenza conferma alle voci sull’amicizia tra De Felice e Patrizia Vendola, sorella di Nichi. La pm Teresa Iodice, legata a entrambe e pure lei immortalata nella foto del pranzo, avrebbe così commentato: «Non sono così amiche, certo Susanna farebbe bene ad astenersi». Nel frattempo il procuratore di Lecce, Cataldo Motta, ha chiesto l’archiviazione del fascicolo aperto contro De Felice per abuso d’ufficio. L’ha fatto, però, senza aver visto la foto con Vendola e il giudice seduti allo stesso tavolo. «Questo sicuramente» ha confermato il procuratore a Panorama. Riaprirà il fascicolo? «Non posso anticipare nulla». In questo scontro fra i pm e il gup del processo Vendola, la sezione barese dell’Associazione nazionale magistrati ha scelto da tempo di schierarsi con De Felice, vittima, si legge in un comunicato dell’1 marzo, di «un’immotivata gogna mediatica». Il documento è firmato dal presidente dell’Anm barese, Ettore Cardinali, e dal segretario, Concetta Potito. Quest’ultima, giudice minorile ed esponente di Magistratura democratica (corrente progressista delle toghe), non cela le sue idee politiche. Su Facebook, turbata dai risultati elettorali del 24-25 febbraio, ha annunciato: «Risparmierò per tutta la vita, farò sacrifici durissimi pur di consentire ai miei figli di andare a vivere all’estero, per sempre, sperando che gli stranieri si saranno dimenticati di quello che sono gli italiani». Poi ha aggiunto: «Mi vergogno che ci sia tanta gente che non ha pensato al bene comune». O forse all’«Italia bene comune», la coalizione guidata da Pier Luigi Bersani, «l’unica persona» secondo Potito «a cui si poteva consegnare il Paese». Sarà anche per magistrati come la signora che un giudice romano, a proposito del caso De Felice, ha scritto ad alcuni colleghi: «Sembra una guerra per bande. La magistratura è troppo politicizzata, questo è il male da curare».

Pina Antonella Montanaro. “Nella procura Generale di Taranto c’è lo strabiliante caso (credo unico in Italia) della dott.sa Pina Antonella Montanaro (anche lei neanche a dirlo Magistratura democratica), la quale a poco di più di quaranta anni, manco avesse i meriti di Falcone e Borsellino, è già Sostituto Procurare Generale presso la Corte di Appello di Taranto (come avrà mai l'autorità di fare le avocazioni nei confronti di Magistrati notevolmente più anziani di lei, nessuno sa!), dice l’avv. Michele Imperio.

E questo è lo straccio della denuncia presentata ed archiviata presso la Procura di Potenza, inoltrata dal dr Antonio Giangrande e qui pubblicata con verità, attinenza ed interesse pubblico nel diritto di cronaca. “L’Avv. Nadia Cavallo presenta il 10/06/2005 una denuncia/querela nei confronti di Antonio Giangrande, sottoscritto denunciante, per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in unione e concorso con Monica Giangrande, con denuncia-querela presentata all’A.G., incolpato Cavallo Nadia Maria del reato di truffa e subornazione, pur sapendola innocente. La denuncia di Cavallo Nadia Maria è palesemente calunniosa e diffamatoria nei confronti di Antonio Giangrande in quanto la denuncia di cui si fa riferimento e totalmente estranea ad Antonio Giangrande e non è in nessun modo riconducibile ad egli. Insomma: la denuncia a firma di Antonio Giangrande non esiste. Pur mancando la prova della calunnia, quindi del reato commesso, comunque inizia il calvario per il dr. Antonio Giangrande. La dott.ssa Pina Montanaro apre il fascicolo n. 5089/05 R.G. notizie di reato. Non espleta indagini a favore dell’indagato, ai sensi dell’art. 358 c.p.p., e nel procedimento Gip n. 2612/06, pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, chiede comunque in data 20 aprile 2006 il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande. Il Dr Ciro Fiore nel procedimento Gip n. 2612/06, pur non supportato da alcuna prova di accusa in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque in data 02 ottobre 2006 il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande. Il processo a carico di Antonio Giangrande in concorso ed unione con Monica Giangrande contraddistinto con il n. 10306/10 RGDT si apre con l’udienza del 06/02/07 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto, ma la posizione di Antonio Giangrande è stralciata per vizi di notifica. Il Dr Pompeo Carriere il 28/04/2010 riapre il procedimento Gip n. 2612/06, dopo lo stralcio della posizione di Antonio Giangrande rispetto alla posizione di Monica Giangrande per vizi di forma della richiesta di rinvio a giudizio. Su apposita richiesta della difesa di Antonio Giangrande di emettere sentenza di non luogo a procedere per il reato di calunnia ove ritenga o accerti che ci siano degli elementi incompleti o contraddittori riguardo al fatto che l'imputato non lo ha commesso, il dr. Pompeo Carriere, il 19  luglio 2010, disattende tale richiesta e dispone nei confronti del Pubblico Ministero l’ulteriore integrazione delle indagini e l’acquisizione delle prove mancanti per sostenere l’accusa in giudizio contro Antonio Giangrande. All’udienza dell’8 novembre 2010, il Pubblico Ministero non ha svolto le indagini richieste, anche a favore dell’indagato, e non ha integrato le prove necessarie. Ciononostante in tale data il dr. Pompeo Carriere, pur non supportato da alcuna prova di accusa, in quanto la denuncia contestata in capo ad Antonio Giangrande non esiste, dispone comunque il rinvio a giudizio di Antonio Giangrande per il reato di calunnia. Il nuovo processo a carico di Antonio Giangrande contraddistinto con il n. 10346/10 RGDT si apre con l’udienza del 01/02/11 presso il Tribunale di Manduria – Giudice Monocratico, sezione staccata del Tribunale di Taranto. In quella sede ai diversi giudici succedutisi, in sede di contestazioni nella fase preliminare, si è segnalata la mancanza assoluta di prove che sostenessero l’accusa di calunnia. Solo in data 23 gennaio 2014, nonostante l’assenza alla discussione con l’arringa finale dell’imputato (in segno di palese protesta contro l’ingiustizia subita) e del suo difensore di fiducia e senza curarsi delle richieste del Pubblico Ministero togato, che stranamente per questo procedimento è intervenuto di persona, non facendosi sostituire dal Pubblico Ministero onorario, ed a dispetto delle richieste dell’imperterrita presenza della costituita parte civile, l’avv. Nadia Cavallo, che ne chiedeva condanna penale e risarcimento del danno, il giudice Maria Christina De Tommasi, pur potendo dichiarare la prescrizione non ha potuto non acclarare l’assoluzione di Antonio Giangrande per il reato di calunnia per non aver commesso il reato, in quanto non vi era prova della sua colpevolezza . Per la seconda accusa dello stesso procedimento penale riguardante la diffamazione, ossia per il capo B, la De Tommasi ha pronunciato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione, nonostante avesse anche qui dovuto constatare che il fatto non era stato commesso, per la mancanza di prove a carico di Antonio Giangrande, in quanto l’articolo incriminato era riconducibile a terze persone, sia come autori, che come direttori del sito web. Declaratoria di NON AVER COMMESSO IL REATO. Dopo 8 anni, un pubblico Ministero, due Giudici per l’Udienza Preliminare, tre Giudici monocratici, di cui una, dr.ssa Rita Romano, estromessa con istanza di ricusazione, sostituita dalla dr.ssa Vilma Gilli ed a sua volta sostituita da Maria Christina De Tommasi. Rita Romano ricusata per essere stata denunciata da Antonio Giangrande proprio per la sentenza di condanna adottata nei confronti di Monica Giangrande. Sentenza del 18/12/2007 con processo iniziato il 06/02/07. Esito velocissimo tenuto conto dei tempi medi del Foro. Nel processo nato a carico di Antonio Giangrande e Monica Giangrande su denuncia di Nadia Cavallo e poi stracciato a carico di Monica Giangrande, la stessa Monica Giangrande era accusata con Antonio Giangrande di calunnia per aver accusato la Cavallo Nadia di un sinistro truffa. Monica Giangrande affermava nella sua denuncia che la stessa Avv. Nadia Cavallo accusava lei, Monica Giangrande, di essere responsabile esclusiva del sinistro. In effetti Rita Romano stracciava la posizione di Antonio Giangrande per difetto di notifica del rinvio a giudizio e dopo l’espletamento del processo a carico di Monica Giangrande condannava l’imputata. Ciononostante lo stesso giudice riconosceva nelle sue motivazioni che la stessa Giangrande Monica accusava la Nadia Cavallo sapendola colpevole, perché proprio lo stesso giudice riconosceva tal Nigro Giuseppa come responsabile di quel sinistro che si voleva far ricondurre in capo alla Giangrande Monica, la quale, giustamente negava ogni addebito. L’appello contro la sentenza a carico di Monica Giangrande è stata inspiegabilmente mai impugnata dai suoi difensori, pur sussistendone validi motivi di illogicità della motivazione. L’inimicizia dei magistrati di Taranto nei confronti di Antonio Giangrande è da ricondurre al fatto che lo stesso ha denunciato alcuni magistrati del foro tarantino, anche perché uno di loro, il sostituto procuratore Salvatore Cosentino, ha archiviato una denuncia contro il suo ufficio, anziché inviarlo alla Procura di Potenza, Foro competente. Inoltre l’avv. Nadia Cavallo è molto apprezzata dai magistrati Tarantini e da Salvatore Cosentino, ora alla procura di Locri. In virtù della sentenza di condanna emessa contro Monica Giangrande l’avv. Nadia Maria Cavallo ha percepito alcune decine di migliaia di euro a titolo di risarcimento del danno morale e oneri di difesa. Evidentemente era suo interesse fare la stessa cosa con il dr. Antonio Giangrande, con l’aiuto dei magistrati denunciati, il quale però non era di fatto e notoriamente autore del reato di calunnia, così come era falsamente accusato. Innocenza riconosciuta ed acclarata dal giudice di merito, però, dopo anni.”

C'è da dire che in questo procedimento, nelle richieste finali, è la stessa PM, dr.ssa Giovanna Cannarile a sbugiardare la collega titolare delle indagini, Pina Antonella Montanari, passata in corte d'appello, chiedendo l'assoluzione di Antonio Giangrande perchè il fatto non sussiste.

Pina Antonella Montanari non nuova a fatti di cronaca, per confessioni non credute.

Paradossi giudiziari: "Io ho confessato, ma nessuno mi crede". Un tunisino, già in carcere per numerosi omicidi, si autoaccusa di nuovi delitti, per i quali altri imputati sono stati condannati. A condurre le indagini sono gli stessi pm che avevano istruito i processi precedenti. E che ora considerano Ezzedine Sebai un mitomane, scrive Antonio Rossitto su “Panorama”. Il perfetto canovaccio di un film sull’assurdità della giustizia italiana è stato scritto la scorsa settimana in una piccola aula del tribunale di Taranto. Sinossi: due magistrati indagano sulle proprie inchieste. Negli anni passati hanno ottenuto la condanna di sei persone, che si proclamano innocenti, per l’omicidio di tre anziane. Delitti di cui si è poi accusato il tunisino Ezzedine Sebai, il "killer delle vecchiette". Sulla base di questa nuova ipotesi, la procura decide quindi nel 2006 di riaprire i casi. E a chi vengono affidati? A Pina Montanaro e Vincenzo Petrocelli, gli stessi pubblici ministeri che avevano chiesto il carcere per i sei. I magistrati in sostanza si dovranno adoperare per scoprire se hanno mandato degli incolpevoli in galera. Se sono gli autori di quello che potrebbe essere il più grande errore giudiziario mai avvenuto in Italia. Stando al Codice di procedura penale, potrebbero astenersi "per gravi ragioni di convenienza". Eppure, la procura procede. Le inchieste inciampano in prove e riscontri: il tunisino è rinviato a giudizio. Ma la scorsa settimana i due magistrati ne chiedono l’assoluzione: è un "mitomane", sostengono. Un loro collega, che ha indagato sull’omicidio di un’altra anziana, la pensa diversamente: quello che dice Sebai è vero, merita trent’anni. Spaccatura che esemplifica i guazzabugli di una procura già coinvolta in ingiuste detenzioni clamorose. Come quella di Domenico Morrone, per cui ottenne la pena proprio Petrocelli, che a dicembre ha avuto il risarcimento record di 4,5 milioni di euro. O come la vicenda dei quattro uomini ritenuti colpevoli e poi assolti per la "strage della barberia", che ora chiedono 12 milioni di euro di risarcimento. Il tunisino che rischia di generare l’ennesimo cortocircuito giudiziario ha 44 anni. Ha affermato di avere ucciso 14 anziane in Puglia, tra il 1995 e il 1997. Vedove che gli ricordavano le megere che da bambino abusavano di lui: per questo le avrebbe ammazzate, stordito da alcol e risentimento. Oggi è rinchiuso nel carcere di Augusta, vicino a Siracusa, dove sconta l’ergastolo per cinque omicidi. In molti casi invece le indagini non sono partite. Per quattro assassinii è sotto processo a Taranto: per tre di questi sono già stati puniti presunti innocenti. A dispetto delle parole del serial killer e dei riscontri alle sue dichiarazioni. Come nel caso dell’uccisione di Grazia Montemurro, sgozzata nella sua casa di Massafra il 5 aprile 1997. La sera stessa viene arrestato il nipote, Cosimo Montemurro. Si prende 18 anni ed esce dal carcere a novembre 2007. Due anni prima Sebai si era intestato i 14 delitti, compreso quello di Massafra. Racconta dettagli, dà orari precisi, ricostruisce dinamiche. Del caso si occupa il pm di Taranto Pina Montanaro, che aveva già chiesto la condanna del nipote della signora. Per il magistrato le parole del tunisino non bastano. Potrebbe avere letto quei particolari sui giornali. O averli appresi in carcere. Allora imbastisce la prova del nove. Fa accompagnare Sebai alla stazione di Massafra. I carabinieri gli dicono di raggiungere la casa dell’omicidio. Il serial killer ha raccontato di essersi spostato in treno e poi a piedi. Quella strada dovrebbe conoscerla: infatti porta i militari all’abitazione. Mentre riemerge la testimonianza di un prete che ha parlato con il tunisino nei giorni dell’assassinio. Riassumendo: il serial killer conosce i particolari dell’uccisione, il luogo del delitto, il modo per arrivarci, è stato visto da un testimone. Ma non gli credono. Colpevole è ritenuto Cosimo Montemurro, che si dice innocente. Il magistrato, riconsiderando la sua vecchia indagine, conclude che il tunisino non c’entra: mente, per motivi oscuri. "L’incompatibilità del magistrato è evidente" accusa Luciano Faraon, che difende Sebai da tre anni. "È troppo coinvolta nel caso, visti i precedenti. Avrebbe dovuto astenersi, però inspiegabilmente non l’ha fatto. A Taranto stanno ammazzando il giusto processo". La procura sostiene l’ipotesi contraria: per sveltire gli accertamenti era necessario affidare i casi a chi se n’era già occupato. Montanaro ha riaperto l’inchiesta su un altro delitto. L’omicidio di Pasqua Ludovico, 86 anni, sgozzata con 12 coltellate nel maggio 1997 a Castellaneta. Vengono condannati a 16 anni due braccianti: i fratellastri Vincenzo Faiuolo e Francesco Orlandi. Si incolpano a vicenda, ma ritrattano subito dopo. È l’unico elemento contro di loro. Contro Sebai, invece, c’è molto di più. Anche in questo caso il tunisino viene portato alla stazione e raggiunge l’appartamento della vittima: "Riconosce senza ombra di dubbio due porte finestre di colore verde" annotano i carabinieri di Taranto. Il tunisino racconta di avere rubato una pistola e dei proiettili. Dopo li ha nascosti a casa. In effetti dall’abitazione dell’anziana manca una vecchia rivoltella del marito, morto nel 1950. E nell’appartamento di Sebai c’è una pistola arrugginita: "Potrebbe risalire agli anni 1940-1950 circa" scrivono i carabinieri. Eppure, il magistrato chiede l’assoluzione. "È un mitomane" dice nella requisitoria. Vuole scagionare i detenuti conosciuti in carcere. Ma perché? E com’è arrivata quella pistola a casa sua? Come faceva a conoscere la strada? Gli avevano schizzato una piantina nell’ora d’aria ipotizzando già che venisse portato alla stazione? Claudio Defilippi, che difende i fratellastri incolpati dell’omicidio, chiede che intervengano il Csm e il ministero della Giustizia: "Le prove contro il tunisino sono lampanti. I magistrati non dovevano accettare l’incarico per chiara incompatibilità. Avevano già chiesto la condanna di persone che si assumono innocenti. Ora il tunisino è stato scagionato. Così resta il dubbio che i pm abbiano ratificato le loro precedenti decisioni". Anche per il delitto di Celeste Commessatti, 73 anni, assassinata a Palagiano il 13 agosto 1995, il pm Vincenzo Petrocelli, che adesso ha chiesto l’assoluzione per Sebai, aveva ottenuto il carcere per tre persone, tra cui Vincenzo Donvito, suicida in cella il 19 luglio 2005. Petrocelli è lo stesso magistrato che fece condannare a 21 anni il pescatore tarantino Domenico Morrone: incarcerato per l’uccisione di due ragazzi, poi assolto e risarcito un mese fa: i 4,5 milioni di euro sono la più alta somma mai pagata dal ministero della Giustizia per un’ingiusta detenzione. Pure per l’assassinio di Palagiano Sebai fornisce dettagli con una dovizia che non ha il sapore dei racconti di seconda mano. Al pm dichiara di avere venduto la refurtiva a un ricettatore di Taranto, "Silviuccio". La polizia, dal nomignolo, risale a Silvio Epiro. Lo torchia, fino a quando l’uomo non tira fuori dalla tasca sinistra della giacca due collane e tre anelli di oro giallo: i gioielli rubati nella casa di Celeste Commessatti. "Me li ha dati Fathi Said". E chi è? Uno degli alias di Ezzedine Sebai, il serial killer a cui due magistrati hanno deciso di non credere.

Magistrati milanesi e Magistrati di Puglia, nuovi demoni della storia d'Italia, scrive Michele Imperio su Ok Notizie Virgilio il 16 maggio 2011. Differentemente dal collega Giovanni Tinebra, all’epoca Procuratore capo della Repubblica di Caltanisetta, il Procuratore Capo della Repubblica di Taranto Giovanni Massagli non era soltanto affiliato a M.D. e alle logge massoniche, ma – secondo noi - svolgeva anche un ruolo attivo all’interno della Sinistra Democristiana a livello nazionale. La sua volontà di candidarsi senatore nell’Ulivo aveva trovato tutte le porte aperte. Ma non solo. A quell’epoca (parliamo degli anni 89-90- 91) l’on.le Massimo D’Alema allora capo indiscusso del PDS e che molti davano come possibile premier del paese per almeno un decennio, per dare maggiore spessore alla sua visibilità politica non voleva più candidarsi nel piccolo e anonimo centro di Gallipoli (solo 21.00 abitanti), ma intendeva candidarsi in una grande città meridionale industrializzata e ben sindacalizzata e aveva scelto in questo senso la città di Taranto (acciaierie, raffinerie, cementifici e 214.00 abitanti). Pare che in vista di questa prospettiva una parte della grande criminalità organizzata sopratutto di regioni limitrofe (Campania e Calabria) ritenne opportuno mobilitarsi, ovviamente all’insaputa di D’Alema e elementi della classe politica locale misero a punto questo ignobile, complesso e strategico progetto politico. Esso consisteva in questo: la grande criminalità delle regioni limitrofe avrebbe dovuto attenzionare maggiormente la città di Taranto e fare di questa città, la quale disponeva di un grande porto mercantile, un epicentro di grandi traffici illeciti internazionali ai quali doveva essere partecipata la nuova classe dirigente che poteva avere influenza su D’Alema. Questa nuova classe dirigente così formata – secondo questo progetto - doveva poi avere la copertura di una parte della Magistratura. Ma per dare maggiore sicurezza a questi traffici illeciti internazionali Taranto doveva diventare una città tranquilla, non attenzionata dalle forze di polizia e quindi c’era bisogno di sopprimere o quanto meno di ridimensionare fortemente la piccola criminalità locale, dedita a reati minori ma di più grande impatto sociale. Per farla breve a cavallo degli anni 80-90 la città di Taranto venne insanguinata da una lunga e cruenta guerra di mala fra grande criminalità organizzata da un lato e piccola criminalità locale dall’altro. Ci furono addirittura esponenti malavitosi di altre regioni (Campania e Calbaria) i quali lasciarono la loro famiglia nelle regioni di appartenenza, si trasferirono stabilmente a Taranto e morirono a Taranto nel corso della guerra malavitosa. L’appoggio di alcuni esponenti della Polizia alle fazioni malavitose legate alla Camorra e alla Ndrangheta in lotta contro quelle più marcatamente locali e quindi più deboli era evidente. Inoltre una parte della stampa locale dava grande risalto ai colpi che subiva la piccola mala locale e all’opera repressiva vincente del grande Procuratore della Repubblica Giovanni Massagli, aspirante senatore dell’Ulivo. Mi rendo conto che tutto questo che dico può sembrare inverosimile e fantasioso tuttavia di esso posso offrire alcuni riscontri. A un certo punto delle indagini successive a questa guerra di mala condotta con queste coperture e queste macchinazioni si verificò un durissimo scontro fra il dott. Francesco Mandoi della premiata ditta P.D.S.- M.D. Magistrato della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce delegato alle indagini antimafia su Taranto e il giudice da lui delegato su Taranto Pietro Genoviva all’epoca sostituto procuratore anziano della Procura della Repubblica di Taranto, Magistrato integerrimo e universalmente stimato. Il dott. Pietro Genoviva si era accorto che il dott. Francesco Mandoi aveva stranamente omesso alcune indagini su alcuni gruppi malavitosi in guerra fra loro e, esorbitando dai suoi compiti, aveva fatto lui stesso quelle indagini che il suo più alto in grado Francesco Mandoi aveva omesso. Senonchè una bella mattina il dott. Pietro Genoviva si vide investito da una furiosa telefonata del collega Francesco Mandoi il quale con fare minaccioso e tono di sfida gli diceva : “Chi cazzo ti ha detto di fare quegli accertamenti !!!!!!! Il Procuratore Nazionale Antimafia sono io !!!!!!!!!!!!! Tu non sei nessuno !!!!!!!!!!!!!!!!! Le cronache parlarono solo a livello locale di questo scontro ma anche in questo caso il Procuratore nazionale Antimafia milanese Bruno Siclari fu costretto a un precipitoso viaggio a Lecce come quelli che fece successivamente a Milano per sedare la lite insorta fra il Procuratore di Milano Borreli e il Procuratore di Firenze Vigna, il quale riteneva che nel caso dell’Autoparco Milanese tre Magistrati milanesi Alberto Nobili, Francesco Di Maggio e Antonio Di Pietro si erano collusi con i tiolari dell'Autoparco. Anche a Lecce in Puglia come a Milano il magistrato milanese dott. Bruno Siclari dovette dirimere un conflitto insorto fra la Procura della Repubblica di Taranto e quella di Lecce, che vedeva da un lato la Procura della Repubblica di Lecce allora diretta da Alessandro Stasi, Magistrato integerrimo e universalmente stimato, adiratissimo contro il suo Sostituto Francesco Mandoi, dall’altro,Giovanni Massagli Procuratore della Repubblica di Taranto il quale fingeva di voler sostenere il suo sostituto Pietro Genoviva. Faccio presente che riferisco questi fatti non per miserabili intenti di discredito di questa o di quella figura politica o di qeusto o di quel Magistrato, ma per ragioni di informazione e di analisi affinchè il lettore si renda conto di alcune delle vere ragioni (oltre il cattivo esito del maxi-processo) che portarono alla eliminazione cruenta di magistrati del calibro, del valore e del profilo morale di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, naturali Procuratori nazionali Antimafia, che, se in vita avrebero reso ridicola la nomina del magistrato milanese Bruno Siclari in quel particolare contesto storico (1992). Perchè non sappiamo, se fosse stato Procuratore nazionale Antimafia un Giovanni Falcone o un Paolo Borsellino, che fine avrebbero fatto Magistrati, se così si possono chiamare, come Francesco Mandoi, Alberto Nobili o Francesco Di Maggio. Invece grazie al magistrato milanese Bruno Siclari, pacere di tutte le liti fra Procure moralmente sane e Procure parzialmente insane, Francesco Mandoi fu solo apparentemente allontanato dalla Procura Distrettuale antimafia di Lecce. Il PDS dalemiano, scese in campo in suo soccorso e per mascherare il suo allontanamento forzato lo candidò nel 1994 in un collegio perdente alla camera dei Deputati (allora i collegi erano uninominali). Poi dopo le lezioni lo fece nominare dal CSM, che evidentemente dominava, Procuratore Distrettuale antimafia presso la Corte di Appello di Potenza e poi ancora, dopo qualche anno, addirittura vice Procuratore Nazionale anti-mafia carica che rivestì per molti anni, prima alle spalle di Bruno Siclari poi alle spalle di Pierluigi Vigna, infine di Pietro Grasso. Ma vi è un ulteriore riscontro a quanto dico. Tutte queste aspirazioni politiche di sinistra (Giovanni Massagli per la Sinistra D.C., Massimo D’Alema per il P.D.S.) determinavano - come è ovvio - la necessità che la Sinistra fosse travolgente su Taranto e vincesse tutte le elezioni possibili (comunali, provinciali ecc. ecc.) onde creare un buon bacino elettorale ai santoni Giovanni Massagli e Massimo D'Alema. Senonchè proprio in quello stesso periodo si erano affacciati sulla scena politica locale due uomini politici, i quali in passato avevano militato per tanti anni nel locale Movimento Sociale Italiano tali Giancarlo Cito e Mimmo De Cosmo, i quali erano usciti dal M.S.I., avevano fondato una lista civica e gestivano una piccola emittente locale, Antenna 6. Come movimento politico essi agli inizi degli anni 90 ,erano riusciti a prendere sette seggi nel consiglio comunale di Taranto. Poi in concomitanza degli scandali che travolsero la D.C. e il P.S.I. e prima che nascesse Forza Italia, la loro ascesa politica ebbe un exploit, tanto che nel 1993 Cito divenne inaspettatamente sindaco di Taranto battendo al ballottaggio un altro magistrato della procura della repubblica Gaetano Minervini il quale doveva – ecco il riemergere del progetto – diventare sindaco e quindi tirare la volata nelle successive elezioni politiche del 1994 a Giovanni Massagli e a Massimo D’Alema. Questi due soggetti politici Cito e De Cosmo esercitarono quindi, inconsapevolmente, una forte azione di disturbo nei confronti del progetto e pertanto cominciarono nei loro confronti forti azioni di ostracismo giudiziario e perfino di intelligence. Il nostro sospetto è che il dott. Giovanni Massagli chiamò in campo pericolosamente i Servizi Segreti deviati del suo amico Nicola Mancino, e ancora una volta intendiamo precisare che le cose che diciamo non sono finalizzate a discreditare qualcuno ma a dare un contributo alla verità e a offrie al lettore un interessante spaccato della mentalità delinquenziale, criminale, omicidiaria e dell'altissimo livello di paranoia che allora pervadeva la Sinistra democristiana dei vari Mancino, Scalfaro, Rognoni e, un po’ meno, anche quella della Sinistra dalemiana, corroborata dall'azione (ahimè) anche di alcuni Magistrati. Tempo prima nell’ambito della guerra di mala di cui abbiamo parlato si verificò casualmente un omicidio proprio dinanzi l’emittente televisiva del Cito. Qualche tempo dopo il fratello di un funzionario dei Servizi segreti avvertì Cito e De Cosmo che il fratello, Ufficiale dei Servizi segreti gli aveva confidato che il Sisde era entrato in possesso di una cassetta audiovisiva realizzata proprio dalle telecamere della Emittente televisiva del Cito e asportata e loro consegnata da un dipendete traditore, la quale cassetta audiovisiva ritraeva il Cito nell’atto di partecipare a questo omicidio. In effetti in città girava questa voce. Ebbene si trattava di una bufala. E sempre il dott. Pietro Genoviva scoprì che proprio i Servizi segreti dell’area della Sinistra Democristiana avevano alimentato queste dicerie. Secondo l’avv. Mauro Mellini il quale si interessò del caso, si trattava di una voce che era finalizzata non solo a favorire l’arresto del Cito attraverso false suggestioni sulla sua persona, ma anche a giustificarne eventualmente l’ omicidio (come testimone o come coautore di uno degli omicidi delle due bande in lotta). Questo omicidio non fu più eseguito perché era emerso questo coinvolgimento dei servizi segreti e poi anche perché nel 1993 Cito fu eletto sindaco di Taranto e quindi si espose alla flagellazione per via giudiziaria che rese inutile la sua eliminazione per via militare. Particolare significativo è anche il fatto che il Procuratore della Repubblica Giovanni Massagli desautorò da tutte le indagini più importanti nonché dalla delega alle indagini antimafia il Magistrato Pietro Genoviva, e lo sostituì con un Magistrato affiliato a Magistratura Democratica Nicolangelo Ghizzardi, il quale avviò insieme ad altri magistrati nei confronti di Cito e di De Cosmo all’incirca una quarantina di processi. Non ci fu verso di infrenare questa spirale accusatoria. Una volta Cito fu invitato a versare nelle mani di Giovanni Massagli ed effettivamente versò centocinquantamilioni di vecchie lire (quando prima della bolla speculativa con quella somma si poteva acquistare un appartamento). L’occasione fu una querela che il Procuratore capo della repubblica Giovanni Massagli aveva sporto nei confronti del suo inquisito Cito e la somma veniva richiesta per dar luogo alla remissione (ossia alritiro) della querela. L’entità della cifra, assolutamente abnorme e sproporzionata e fuori da qualsiasi giurisprudenza, faceva intendere che dopo questo pagamento le acque si sarebbero acquietate. Questa condotta ha un nome e un cognome specifico nel codice penale. Si chiama estorsione aggravata. Anzi estorsione aggravata e truffa perché le acque non si acquietarono affatto. Tutti i cittadini normali si scandalizzarono ma le Istituzioni fecero finta di niente, compreso l’ineffabile CSM. Passo velocemente a esaminare la situazione di oggi: Pietro Genoviva è stato relegato alle sezioni Civili, dove è semplice giudice del Tribunale Civile, Francesco Mandoi (Magistratura Democratica) dopo aver fatto il Procuratore disttrettaule antimafia di Potenza e il vice procuratore nazionale anti-mafia, ha fatto ancor più carriera. E’ diventato addirittura Procuratore Europeo. Nicolangelo Ghizzardi (Magistratura democratica), a soli 55 anni è diventato Procuratore Aggiunto della Procura della repubblica di Brindisi. Nella procura Generale di Taranto c’è lo strabiliante caso (credo unico in Italia) della dott.sa Pina Antonella Montanaro (anche lei neanche a dirlo Magistratura democratica), la quale a poco di più di quaranta anni, manco avesse i meriti di Falcone e Borsellino, è già Sostituto Procurare Generale presso la Corte di Appello di Taranto (come avrà mai l'autorità di fare le avocazioni nei confronti di Magistrati notevolmente più anziani di lei, nessuno sa!). Anche Giovanni Massagli fu a suo tempo promosso. Da Procuratore della Repubblica di Taranto il CSM per i suoi grandi meriti investigativi (sic!) lo nominò Presidente della Corte di Appello di Venezia. Adesso – fortunatamente per chi doveva essere giudicato da lui - è in congedo. Ma secondo alcuni il trasferimento a Venezia fu un “promeveatur ut amoveatur" (promosso per essere rimosso) perchè a parte i centocinquantamilioni della remissione c’erano anche dei problemi con delle cancelliere. Però ……….. voci ……….voci che tuttavia sembrano essere suffragate dagli altri tre libri, dopo quello sulla Massoneria, che il Magistrato ha scritto, varcata l’età dei settanta anni. Il titolo di qeusti libri è tutto un programma. Uno si chiama "Cercando la donna", l'altro si intitola "Profili di donne (al plurale) e scampoli di vita (i suoi). Un altro ancora "Vanna". E in ultimo, come beffa finale, "Buste e Potere". Mimmo De Cosmo è morto a 60 anni di crepacuore a seguito di tutti i processi subiti, Giancarlo Cito ha subìto nel corso della sua esperienza politica, durata solo 7-8 anni, circa 40 processi. Dai più è stato assolto, in quattro (su quaranta) è stato condannato. Per uno, solito concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso, ha già espiato quattro anni e sei mesi di reclusione, per un altro, una presunta concussione di poche migliaia di euro, è stato recentemente condannato in via definitiva a cinque anni e se mesi di reclusione. Per gli altri due uno con condanna a due anni di reclusione per abuso di ufficio per questioni legate all’utilizzo del campo sportivo e un altro con condanna a quattro anni di reclusione per corruzione relativa alla realizzazione di un mega-porto turistico da duemila barche. Questo progetto da realizzarsi a Taranto quando Cito era sindaco, era stranamente finanziato da alcuni apparati del Ministero degli Interni. Poi gli stesi apparati del Ministero degli Interni, ottenuta la condanna di Cito, hanno distrutto i file del progetto. Se vi sembra una cosa logica! In totale quindi 15 anni e 6 mesi di reclusione. Per gli ultimi due processi Cito è in attesa della sentenza della Cassazione. Si dice che per ora otterrà i benefici dell’affidamento in prova al servizio sociale e dell’indulto, ma poi questi benefici verranno revocati se diventeranno definitive le altre due sentenze. In conclusione prima o poi arriverà un giorno che Cito verrà arrestato e rimarrà recluso in carcere per tutto il resto della vita sua. Solo Massimo D’Alema, non ha fatto carriera. E' diventato un bruciato giovane. Non lo può vedere più nessuno. Molti lo odiano. All'ambasciatore americano lui stesso ha detto sconsolato: "la Magistratura italiana benchè di orientamento prevalentemente di Sinistra, è un problema per lo Stato Italiano". Certo, è un problema. E che problema!!!!!!!. Ma chi lo ha creato questo problema, on.le Massimo D’Alema. Se lo ricorda?

Torniamo al processo e le attività delle parti.

La Corte. Rosa Patrizia Sinisi ha letto i motivi di appello e ha passato la parola alle parti. L'udienza s'è aperta con la relazione del presidente Rosa Patrizia Sinisi che ha riassunto il contenuto della sentenza di primo grado ed i motivi di Appello per i quali la difesa ha impugnato le condanne.  

L’accusa. L'accusa viene sostenuta dal sostituto procuratore generale Pina Antonella Montanaro. Il sostituto procuratore generale Antonella Montanaro ha chiesto la sospensione dei termini cautelari nei confronti di Sabrina Misseri (che altrimenti lascerebbe il carcere il 20 gennaio 2015 ) vista la «particolare complessità» del processo. La Procura generale chiede subito la sospensione dei termini di custodia cautelare per Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, condannate in primo grado all’ergastolo ("lo indica la Cassazione quando si affrontano processi particolarmente complessi"), e rivolgendosi al collegio difensivo sottolinea: "Mettiamoci d’accordo: o Michele Misseri è in grado di intendere e di volere, e quindi può essere esaminato, oppure si hanno dei dubbi, forse è pazzo e allora va fatta una perizia psichiatrica". Secondo il sostituto procuratore generale della Corte di Appello, Antonella Montanaro, che rappresenta l'accusa, «è contraddittoria». La Procura generale si è opposta alle richieste avanzate dal collegio difensivo degli imputati, chiedendo peraltro l'acquisizione del contenuto di due telefonate intercorse, la prima il 7 ottobre 2010 tra Sabrina e la madre Cosima, e la seconda il 7 novembre 2010 tra Sabrina e Carmine Misseri, fratello di Michele. Ad esempio, la richiesta della difesa di Michele Misseri di una perizia psichiatrica per il suo assistito con quella della difesa di Sabrina, la figlia, condannata in primo grado all'ergastolo, di ascoltarlo in aula come testimone, tanto più che, come ha ricordato il sostituto, il contadino di Avetrana in primo grado si è avvalso, come imputato, della facoltà di non rispondere. Inoltre il sostituto procuratore generale si è opposto alla richiesta della difesa di Cosima Serrano, la madre di Sabrina, anche lei condannata all'ergastolo, di effettuare un esperimento giudiziale di un sopralluogo sul luogo dl delitto. Si è espressa in maniera contraria anche alla richiesta di acquisizione al processo dell'intervista della trasmissione Quarto Grado a Michele Misseri del 28 marzo del 2014 «che - ha sottolineato il sostituto - è posteriore al deposito della motivazione della sentenza. È una intervista consequenziale alla necessità di confutare le motivazioni del processo di primo grado. Tutta la trasmissione è tesa a confutarle. Quale valenza può avere quella documentazione?», ha chiesto. Quanto all'intercettazione telefonica tra Michele e Sabrina delle 3,47 del 7 ottobre del 2010, il giorno del ritrovamento del cadavere di Sarah nel pozzo, la richiesta delle difese, per il sostituto pg «è tardiva» e comunque ha chiesto la trascrizione integrale di un'altra intercettazione telefonica di quella notte, relativa alla conversazione tra Sabrina e la madre, per pochi secondi, e con l'avvocato Biscotti per la maggior parte del tempo. Infine si è opposta all'audizione del titolare del pub di Avetrana dove, alla presenza di altre testimoni, avvenne la lite tra Sabrina e Sara il giorno precedente all'omicidio. «Mi sfugge l'utilità». Il sostituto pg non si è opposta, ma anche altre parti, per esempio i legali dei familiari di Sarah, all'acquisizione delle sentenze della Cassazione su questa lunga intricata vicenda, ma il magistrato Montanaro ha sottolineato che« esse si riferiscono a una fase cautelare, fluida e flessibile. Stiamo parlando di indagini preliminari mentre in primo grado e in appello siamo in fase dibattimentale».

La difesa di Sabrina. "Il quadro emerso dal primo grado - commenta l'avvocato Nicola Marseglia, difensore di Sabrina insieme al professor Franco Coppi - è troppo indiziario e gli elementi di prova non consentono di arrivare ad una condanna".  Ad uccidere Sarah Scazzi è stato lo zio Michele Misseri e il movente del delitto è di natura sessuale, circostanze che Misseri ha ribadito in più occasioni mimando anche le fasi dell’omicidio in interviste televisive e scrivendo lettere: lo ha detto l’avv. Franco Coppi, uno dei difensori di Sabrina Misseri, spiegando i motivi delle richieste difensive (tra cui un nuovo esame di Michele Misseri) alla Corte di assise di appello di Taranto, dinanzi alla quale è iniziato il processo di secondo grado per il delitto di Avetrana. Coppi ha inoltre chiesto alla Corte di acquisire la trascrizione del contenuto di una telefonata tra Sabrina e il padre del 6 ottobre 2010, quando Michele Misseri confessò il delitto; di sentire in aula il titolare di un pub di Avetrana dove, secondo l’accusa, la sera prima del delitto ci sarebbe stato un litigio tra Sabrina e Sarah; infine di acquisire i tre pronunciamenti della Cassazione su ricorsi dei difensori. In proposito, Coppi ha sostenuto che la Corte di assise di Taranto, in primo grado, ha acquisito solo la sentenza che ha dichiarato inammissibile uno dei ricorsi, mentre in altre due occasioni la Suprema Corte avrebbe indicato la insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico di Sabrina Misseri.  In sintesi, gli avvocati di Sabrina Misseri, Coppi e Marseglia, hanno chiesto di ascoltare in aula Michele Misseri e la registrazione audio di tre telefonate intercettate alla loro assistita la notte in cui fu arrestato il padre dopo la sua drammatica confessione con il ritrovamento del corpo della nipote nel pozzo in contrada Mosca. I difensori della ragazza hanno inoltre chiesto di sentire il titolare del pub di Avetrana dove la sera precedente l’omicidio sarebbe avvenuta la scenata di gelosia di Sabrina nei confronti della cugina per le eccessive attenzioni nei confronti di Ivano Russo del quale la più grande era, secondo i giudici di primo grado, morbosamente innamorata. Fra le richieste della difesa anche quella di riascoltare Michele Misseri in aula, in particolare sulle sue recenti dichiarazioni tv relative alla dinamica del delitto, di cui il contadino continua a proclamarsi unico responsabile. "Michele Misseri ha tentato un approccio sessuale nei confronti della nipote alcuni giorni prima del delitto - spiega in aula il professor Coppi - e qualche giorno dopo ha reiterato il tentativo ed alla reazione della ragazzina l'ha uccisa". Tra i motivi di appello dei legali degli otto imputati c’è anche la richiesta della parziale rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale con un nuovo esame di Michele Misseri. L’agricoltore di Avetrana, dopo essersi inizialmente accusato del delitto facendo ritrovare i resti di Sarah, chiamò in correità la figlia Sabrina, accusandola del delitto, per poi nuovamente addossarsi tutta la responsabilità del delitto e della soppressione del cadavere a partire dalla fine del 2010. Nei confronti di Michele Misseri, per questi motivi, è stato aperto dalla Procura di Taranto un procedimento per il reato di autocalunnia. Nei motivi di appello la difesa di Sabrina chiede inoltre la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’imputata nel settembre 2010, quando era ancora persona informata sui fatti; e ancora si impugnano una serie di ordinanze emesse dalla Corte di Assise di Taranto e si chiede l’acquisizione di una conversazione intercorsa tra Michele Misseri e la figlia e le dichiarazioni rese dall’agricoltore in una intervista televisiva. Ad uccidere Sarah Scazzi è stato lo zio Michele Misseri e il movente del delitto è di natura sessuale, circostanze che Misseri ha ribadito in più occasioni mimando anche le fasi dell'omicidio in interviste televisive e scrivendo lettere. E' la posizione dei legali di Sabrina Misseri, che per voce dell'avvocato Franco Coppi, spiegando i motivi delle richieste difensive (tra cui un nuovo esame di Michele Misseri) alla Corte di assise di appello di Taranto, dinanzi alla quale è iniziato oggi il processo di secondo grado per il delitto di Avetrana. La difesa gioca buona parte delle sue carte su un nuovo esame in aula di Michele Misseri ("E' lui l’assassino di Sarah, e il movente è di natura sessuale, lo ha ripetuto in più occasioni"), su una eventuale perizia psicologica sull'agricoltore e sull'ennesimo sopralluogo alla villa di Avetrana teatro del delitto; in pratica, un parziale rinnovo del dibattimento. «L'avete vista anche voi. Provate ad immaginare quale possa essere lo stato d’animo di una ragazza che da 4 anni è in carcere da innocente con una condanna di primo grado all’ergastolo» ha dichiarato a fine udienza l’avv. Franco Coppi, uno dei difensori di Sabrina, rispondendo ai cronisti che gli chiedevano notizie sulle condizioni della 26enne detenuta.

La difesa di Cosima. "Ci auguriamo più serenità - dice all'ingresso della Corte d'Appello l'avvocato Franco Deiaco, difensore di Cosima Serrano - e una analisi più dettagliata degli elementi del primo grado. Non dimenticate che Taranto è stata già condannata per ingiusta detenzione". Dal canto suo, il difensore di Cosima ha chiesto un sopralluogo nella villetta della famiglia per rendersi conto dei luoghi in cui sarebbe maturato l'omicidio. L'avvocato Luigi Rella, uno dei difensori di Cosima, motivando la richiesta ha sostenuto che la Procura della Repubblica avrebbe spostato il luogo del delitto dal garage della villa  dei Misseri all'interno dell'abitazione. Dal canto suo, il difensore di Cosima ha chiesto un sopralluogo nella villetta della famiglia per rendersi conto dei luoghi in cui sarebbe maturato l'omicidio.

La difesa di Carmine Misseri. Lorenzo Bullo, l’avvocato che difende Carmine Misseri, fratello di Michele, condannato in primo grado a sei anni con l’accusa di concorso nell’occultamento del corpo della ragazza uccisa, ha chiesto invece una più attenta lettura dei tempi di percorrenza del tragitto che separa la contrada Mosca dal domicilio del suo assistito.

La difesa di Michele. L’avvocato che difende Michele Misseri, Luca La Tanza, ha riproposto la necessità di sottoporre il suo assistito ad una perizia psichiatrica, oltre alla richiesta di acquisizione di una perizia psicologica già agli atti e di risentirlo in aula.

Le parti civili. Sul fronte delle parti civili – in aula c'era Concetta Serrano, la mamma di Sarah, raccolta nel suo sguardo impenetrabile che nasconde un dolore immutato – la richiesta difensiva di risentire in un’aula di giustizia Michele Misseri è stata avvertita come un ulteriore schiaffo alla verità. "Continua la recita del trasformista", e ancora "disgustati di vedere o sentire eventualmente Michele Misseri fare le sue sceneggiate" hanno replicato gli avvocati Nicodemo Gentile e Walter Biscotti, legali della famiglia di Sarah. Biscotti ha ricordato che nell’inchiesta ci sono due momenti di «straordinaria intensità» che coinvolgono Michele Misseri. Il primo «sono i momenti di silenzio che precedono l’indicazione del luogo in cui ha gettato il corpo di Sarah, quando si libera da un peso» (6 ottobre 2010); il secondo, durante l’incidente probatorio del 19 novembre 2010, quando Misseri dice «ognuno deve assumersi le responsabilità». Alle richieste principali avanzate alla Corte, accusa e difesa ne hanno aggiunte di altre che vanno dall’acquisizione di documenti alla trascrizione del contenuto di conversazioni telefoniche. Tra una settimana esatta, con l’ordinanza della Corte, si capirà se il processo d’appello per l’uccisione di Sarah si riaprirà, almeno in parte, e a quale velocità camminerà verso la sentenza.

La prossima udienza è fissata per il 21 novembre 2014 e in quella sede la Corte dovrà sciogliere la riserva sulle numerose richieste, gran parte delle quali contenute nei motivi di appello dei difensori degli otto imputati (c'è da dichiarare l'estinzione del reato per il nono, Cosimo Cosma, nipote di Michele Misseri, condannato a sei anni per soppressione di cadavere e deceduto il 7 aprile scorso), ma anche su quelle avanzate dal sostituto procuratore generale Antonella Montanaro. «La complessità del processo e la particolarità del caso meritano una proroga del termine di custodia cautelare delle imputate». Senza questa dilazione dei tempi, Sabrina Misseri detenuta dal 1 ottobre del 2010, lascerebbe il carcere il 20 gennaio 2015 se nel frattempo non sia stata emessa la sentenza di secondo grado (ipotesi, questa, molto remota). Il problema non si pone per sua madre Cosima Serrano, anche lei condannata all’ergastolo in primo grado per lo stesso reato, ma arrestata a maggio del 2011. Una forzatura del codice di procedura penale, già contemplato in un precedente giudizio della Cassazione, alla quale si è rifatta la pg nel formulare la richiesta, contro cui però si sono opposti i difensori delle due donne, Franco Coppi e Nicola Marseglia per Sabrina, Luigi Rella e Franco De Jaco per la madre Cosima. Per decidere su queste ed altre istanze avanzate dalle parti, la presidente della Corte, Rosa Patrizia Sinisi (a latere Susanna De Felice), dopo circa un’ora di camera di consiglio, si è riservata la decisione alla prossima udienza fissata per il 21 novembre. Per quella data la Corte d’assise d’appello dovrà dare risposte motivate alla richiesta proroga dei termini di detenzione e ad altre numerose istanze. Il sostituto procuratore generale Montanaro si è opposta a tutte le richieste della difesa con particolare rifiuto all’ipotesi di un riascolto di zio Michele in aula. «Non vedo la necessità – ha detto – di far parlare un imputato sulla cui attendibilità la stessa difesa pone dei dubbi tanto da chiedere la perizia psichiatrica e che in Corte d’assise si è avvalso della facoltà di non rispondere». D’accordo come è ovvio su questo anche i difensori della famiglia Scazzi, Valer Biscotti, Nicodemo Gentile che hanno definito lo zio di Sarah «il trasformista di Avetrana».

VENERDI’ 21 NOVEMBRE 2014. SECONDA UDIENZA D’APPELLO: SABRINA E COSIMA RESTANO IN CARCERE.

Scopriamo cosa ha detto lo zio di Sarah, Michele Misseri, prima dell’inizio del processo la scorsa settimana.

«Vado in aula proprio per rivedere Cosima e Sabrina, visto che scrivo e loro non mi rispondono. Ci saranno emozioni sicuramente nel vederle distrutte da innocenti. Hanno già fatto quattro anni per colpa mia e io invece sto fuori». Così ha spiegato Michele Misseri ai microfoni di “Quarto Grado”, a poche ore dal processo d’appello che vede imputate Cosima Serrano e Sabrina Misseri per l’omicidio di Sarah Scazzi. «Non so come andrà a finire questo processo. Ho un po’ di fiducia non troppa. Qualcosa penso che cambierà. Vado in aula con angoscia, con la paura che ci siano altri condannati… Non io, tanto per me non conta niente. Spero sempre che Dio ci aiuti, più loro che me. Può essere che mi aiuti… Cristo è morto per noi sulla croce… per i peccatori… Voglio sapere cosa ha la mia mente…..Può essere che io abbia fatto un gesto che Sarah abbia colto come un gesto sessuale, ma l’ho fatto senza volerlo…..La notte del mio arresto, mentre ero in caserma, Sabrina al telefono mi disse: “Non potevi dirmi che sei stato tu?”. Io le risposi: “Tanto non ci vediamo più”. A me farebbe piacere riascoltare questa registrazione in aula. Dimostra che Sabrina non sapeva niente e nemmeno Cosima né Valentina. Io non mi sono confidato con nessuno. Da quel giorno non ho più sentito la voce di Sabrina…. Ho scritto nelle lettere a Sabrina, che ho sognato Sarah: mi diceva per tre volte “Zio assassino”. Forse voleva dire che ci sono due innocenti in carcere». A “Quarto Grado” è intervenuto anche il difensore di Sabrina Misseri, l`avvocato Franco Coppi. Per quanto riguarda l’intervista del 28 marzo scorso, rilasciata da Michele Misseri a “Quarto Grado”, che il professore ha chiesto di acquisire agli atti del processo, ha dichiarato: «Ho chiesto di acquisire l’intervista, perché Misseri cita il modo in cui l’uomo sposta Sarah nel garage: mettendole le mani sui seni. Le ricostruzioni che Michele Misseri fa ogni volta di quanto accaduto nel garage, sono tutte rappresentazioni molto in linea con la tesi che abbiamo sempre sostenuto: un interesse sessuale dell’uomo nei confronti della nipote. …Michele Misseri non ha mai ammesso il movente sessuale, ma questo rientra nella sua psicologia abbastanza rozza e semplice. Si rende conto che se ammettesse un tale movente, sarebbe ben difficile chiedere e ottenere perdono. Ma perché la nipote dovrebbe aver preso a calci lo zio, se lui avesse tentato soltanto di allontanarla?» Alla domanda se crede nell’innocenza della sua assistita, il penalista ha risposto: «L’idea che avrei dovuto abbandonare la difesa di Sabrina Misseri, ha pesato molto nelle scelte che avrei potuto fare in questi ultimi anni. Non voglio passare per un eroe, ma lo faccio soltanto per la mia personale convinzione dell’innocenza di questa ragazza. Mi sento così vicino a lei in questa battaglia, che non me la sento di abbandonarla».

Questa è una storia dove una condanna a due ergastoli si basa su un sogno, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. E dove in appello il sognatore non c’è. Colpevoli (in primo grado) o innocenti, Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano hanno iniziato la loro seconda tappa processuale in corte di Appello con la speranza di avere alla fine una riforma della sentenza che sancisce il «fine pena: mai». Le 1638 pagine che motivano la condanna hanno come filo conduttore della colpevolezza il racconto del fioraio Giovanni Buccolieri secondo cui in quel maledetto pomeriggio di agosto le due donne avrebbero rincorso in auto la piccola Sarah per le strade di Avetrana e dopo averla costretta a salire in macchina la avrebbero portata a casa e uccisa. Senza questa sequenza non reggono gli orari che secondo la corte d’Assise rendono compatibili le imputate con il delitto. Ma il «sognatore», che in tutte le sedi mediatiche ha continuato a ripetere che di sogno si è trattato, non sarà ascoltato perchè la giustizia glielo consente in quanto imputato di reato connesso. Ossia di false dichiarazioni al pm (quando ha voluto precisare che il suo racconto era un sogno). Eccole Sabrina e Cosima, in aula, chiuse nella gabbia di vetro e acciaio dell’aula della corte di Appello di Taranto. Sono vestite di scuro, grigio e nero. Sabrina, dimagrita, con lo sguardo spaventato. Sono passati 4 anni dal giorno del suo arresto e della allegra e spavalda ragazza che si faceva intervistare in tv non è rimasta che un’ombra. Cosima ascolta attenta. La hanno definita una sfinge, ma appare solo una donna vinta dalla vita. Dal carcere fa sapere che vuole parlare, che vuole far sentire la sua versione, che non le sta bene che dicano che lei è rimasta zitta in primo grado perchè aveva qualcosa da nascondere. La decisione è stata dei suoi legali per tutelarla.  Il sostituto procuratore generale Antonella Montanaro ha chiesto la sospensione dei termini di custodia cautelare per Sabrina e Cosima. Che rimangano in carcere in attesa della nuova sentenza. Il difensore di Sabrina Franco Coppi è durissimo su questa eventualità: “Non posso non considerare incivile un paese che tollera periodi di custodia cautelare lunghi come quella che sta patendo Sabrina Misseri che dopo 4 anni in cella è riuscita a vedere celebrato solo il processo di primo grado”. Il professor Franco Coppi (insieme a Nicola Marseglia) chiede nel suo appello «cosa altro sia necessario - oltre la confessione, la soppressione del cadavere, l’incenerimento degli oggetti della vittima, la rivelazione dei luoghi in cui tutto questo è accaduto - per riconoscere al di là di ogni ragionevole dubbio che Michele Misseri è l’autore del delitto e cosa è altro necessario per dimostrare che Sabrina Misseri è innocente!?». Altrimenti, continua «si deve invece amaramente e sconsolatamente, di fronte a quanto è accaduto in questo procedimento, riconoscere che la Giustizia corre il rischio di trasformarsi in una ipotesi e in un incubo?». «Noi riteniamo che già con i motivi di appello principali sia dimostrata l’innocenza di Sabrina. Ma in via subordinata chiediamo la riapertura del dibattimento». Chiedendo l’acquisizione di nuove prove su cui la Corte presieduta da Patrizia Simisi si è riservata di decidere venerdì prossimo. Tra questa documentazione ci sono le interviste rilasciate da Michele Misseri dopo la sentenza e che confortano la nostra tesi di un movente sessuale nella esecuzione dell’omicidio da parte sua. Chiesta anche l’acquisizione delle trascrizione di conversazioni telefoniche come quella intercorsa tra Michele Misseri e la figlia la notte dell’arresto e della confessione». La difesa vuole anche che Michele Misseri venga ascoltato di nuovo in aula, ipotesi che non piace alla parte civile, rappresentata dagli avvocati Biscotti e Gentile ancora «disgustati di vedere o sentire eventualmente Michele Misseri fare le sue sceneggiate». La difesa di Sabrina ha chiesto anche la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall’imputata nel settembre 2010, quando era ancora persona informata sui fatti; oltre all’acquisizione delle due sentenze della Cassazione che rilevano come a carico di Sabrina non ci siano sufficienti indizi di colpevolezza (sentenze che la corte di primo grado aveva acquisito solo nel dispositivo tralasciando il merito).

PROCESSO SARAH SCAZZI. SABRINA E COSIMA RESTANO IN CARCERE.

PER LORO NON VALGONO I TERMINI ORDINARI DI CUSTODIA CAUTELARE.

PROCESSO AL FEMMINILE. DONNE CHE ODIANO LE DONNE.

Le donne del processo.

Sarah Scazzi: vittima assassinata.

Sabrina Misseri e Cosima Serrano: considerate dai media, prima, e dai magistrati, poi, colpevoli del delitto.

Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini: presidente Corte D’Assise di primo grado e giudice a latere.

Rosa Patrizia Sinisi Susanna De Felice: presidente Corte D’Assise d’Appello e giudice a latere.

Pina Antonella Montanaro: sostituto procuratore generale Corte D’Assise d’Appello.

Venerdì 21 novembre 2014. Seconda udienza.

Il sostituto procuratore generale Antonella Montanaro, che nella scorsa udienza ha anticipato la linea della procura generale, guidata dal dottor Ciro Saltalamacchia, ha chiesto ed ottenuto la sospensione dei termini di custodia cautelare per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, detenute nel carcere di Taranto e condannate all'ergastolo in primo grado, vista la "particolare complessità" del processo e nell'eventualità di un rinnovo parziale dell'istruttoria dibattimentale.

E’ ripreso nella sede della corte d’appello, nel quartiere Paolo VI di Taranto il processo d’appello per l’omicidio di Sarah Scazzi. La corte, presieduta da Rosa Patrizia Sinisi, dopo una settimana di camera di consiglio ha accolto la richiesta della pubblica accusa, che chiedeva la sospensione dei termini per la custodia cautelare in carcere per Cosima e Sabrina e l’obbligo di dimora per Michele. Per tutti e tre, i termini sarebbero dovuti scadere il 15 gennaio 2015 prossimo e, invece, le due donne resteranno in carcere, e Michele Misseri ad Avetrana, fino alla fine del processo. Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, quindi, resteranno in carcere per l’intera durata del processo di appello per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di assise di appello di Taranto, dinanzi alla quale si sta celebrando il processo di secondo grado, ha disposto la sospensione dei termini di custodia cautelare in carcere per le due imputate, condannate all’ergastolo, e confermato l’obbligo di dimora per Michele Misseri. La Corte, nella sua ordinanza, ha motivato la decisione con la complessità del processo, la gravità delle imputazioni e l’ampiezza dei motivi di appello (acquisizione di documenti, perizie, esame imputati, molteplicità dei fatti da esaminare tra di loro collegati, richiesta di sopralluoghi).

Approfondiamo la questione sottesa dei  Termini di durata delle misure cautelari.

Leggiamo da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Anche la materia dei termini di durata delle misure cautelari ha rilievo costituzionale. Dobbiamo rifarci ancora una volta all’art.13 c.5. Esso afferma infatti che la legge stabilisce i limiti temporali massimi della carcerazione preventiva (oggi custodia cautelare). Il problema dei tempi della custodia cautelare ci rimanda peraltro a quello dei tempi del processo. Poiché le misure cautelari presuppongono proprio esigenze processuali, infatti, si pone la necessità di assicurare un corretto accompagnamento delle misure alle varie fasi processuali. Sappiamo del resto che i processi del sistema italiano hanno durata smisurata, come confermato anche dalle numerosissime condanne inflitte al nostro paese dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Ora, in ordinamenti diversi da quello italiano, vige un sistema flessibile a garanzia delle esigenze processuali, per cui, fintantoché il processo non si è concluso, le misure restano applicate senza sostanziali limiti di tempo. Il nostro sistema è invece rigido, pertanto sono previsti termini fissi di durata per le misure cautelari. Nel complesso, il problema che si pone è: a chi addossare il rischio della lunga durata del processo? All’ordinamento (e quindi alla collettività) o all’imputato? La questione dei termini va proprio a ripartire questo rischio. Tendenzialmente, si ritiene che, fino ad un certo punto, è il soggetto ristretto a dover essere gravato dalla lunghezza irragionevole del processo, e che, da un certo punto in poi, ciò diventi ingiusto. Nella prassi, tuttavia, il rischio viene quasi completamente addossato all’imputato. Non a caso, ogni volta che si verificano scarcerazioni clamorose, per decorrenza dei termini, di pluripregiudicati in attesa di giudizio, il legislatore interviene a modificare questi termini, cercando di placare l’opinione pubblica. Ma come è organizzato il sistema? Dobbiamo distinguere al riguardo tra termini di fase e termini complessivi. I primi prevedono un termine per ciascuna fase del processo. I secondi fungono invece da termini ulteriori, venendo calibrati sull’intera durata del processo, e non in relazione alle singole fasi. Come vedremo, inoltre, anche i termini complessivi possono essere superati, e questo qualora siano introdotti i cosiddetti termini finali, di cui parleremo poi. Venendo nello specifico, il legislatore predispone termini differenti a seconda del tipo di misura (coercitive custodiali, coercitive non custodiali, interdittive). Termini diversi sono previsti però anche in relazione alle tipologie e alla gravità del reato (p.e. art.303 c.1 sui termini di base e c.4 sui termini complessivi con riferimento alla custodia cautelare, e art.308 per le altre misure). I due termini, quindi, vanno incrociati per ricavare il termine unico da applicare concretamente. La valutazione è cioè doppia, perché attiene tanto al tipo di reato quanto al tipo di misura previsto. Facciamo in proposito la scelta di considerare, a titolo esemplificativo, soltanto l’incrocio tra la misura più grave (custodia cautelare) e un reato gravissimo (p.e. omicidio). Ora, abbiamo parlato di termini di fase, per cui il legislatore determina un termine di applicazione della misura per ciascuna fase del procedimento. Le fasi da considerare sono quelle viste durante il corso di procedura penale: indagini preliminari, udienza preliminare, dibattimento, appello e cassazione. Il legislatore accorpa però in una fase preliminare unica indagini preliminari e udienza preliminare. Le fasi di rilievo sono dunque quattro:

1. preliminare al giudizio (dalla notizia di reato alla richiesta di rinvio a giudizio);

2. condanna di primo grado (successiva al dibattimento);

3. condanna di secondo grado (dopo ricorso in appello);

4. irrevocabilità (dopo sentenza di cassazione).

Per ciascuna di queste quattro fasi, sono previsti termini specifici, a seconda della gravità del reato in questione. Il legislatore distingue al riguardo tre gradi di gravità, e i termini andranno valutati in relazione a questi tre gradi. Tali termini, come detto, andranno poi combinati con quelli previsti per le singole misure cautelari. Per capire come funziona il sistema, vediamo un esempio. Poniamo p.e. che nella prima fase l’imputato possa essere sottoposto a misura cautelare per 1 anno; nella seconda fase per 1 anno e mezzo, e così pure nelle due fasi successive. Sono questi i termini di fase, ma abbiamo detto che questi termini possono essere superati dai cosiddetti termini complessivi, i quali valgono per tutto il procedimento nel suo complesso. Ebbene, nel nostro esempio (custodia cautelare per omicidio), il termine complessivo è di 6 anni. Vediamo allora che questo termine è superiore alla semplice sommatoria dei termini di fase, pari a 5 anni e mezzo. Applicando il termine complessivo, dunque, è possibile sforare i singoli termini di fase, purché il termine complessivo stesso, alla fine, sia rispettato.

I termini di fase possono essere superati in varie ipotesi, distinguibili in tre categorie:

- nuova decorrenza del termine (termini che iniziano a ridecorrere da zero): si verifica in due casi: a) o quando il processo regredisce (p.e. perché è stata accertata una nullità, che fa cancellare la parte retta da atti invalidi, oppure perché il giudice si dichiara incompetente; b) o quando la persona sottoposta a custodia cautelare evade. Con questo meccanismo, dunque, i termini di fase possono essere superati, fermo restando, però, il termine complessivo (in tema di custodia cautelare v.art.303 cc.2 e 3).

- proroga del termine: proroga del termine (art.305 c.p.p.), proroga concessa su richiesta del p.m. al giudice. Il giudice la può concedere o meno, e questo dopo un piccolo contraddittorio durante il quale avrà sentito il difensore dell’imputato. Con ordinanza (così come per tutti gli altri provvedimenti in materia cautelare), il giudice stabilirà l’entità di questa proroga, che per legge non può comunque essere superiore ad un certo limite imposto dalla legge. Anche in questo caso, inoltre, il termine complessivo resta valido, e non potrà successivamente essere oltrepassato. Il caso visto è fra l’altro solo quello di proroga per esigenze investigative, ma è possibile che la proroga sia richiesta anche qualora debba essere effettuata una perizia sullo stato di mente dell’imputato. In tal caso, la proroga avrà la durata richiesta dalla perizia stessa.

- congelamento automatico del termine: consente di superare i termini di fase (pur con sbarramento del termine complessivo) è infine il congelamento automatico del termine, che vale soltanto per le misure custodiali e solo per la fase del dibattimento. In presenza di queste circostanze, dunque, non si contano i giorni che servono per il dibattimento, né quelli necessari per la decisione (sostanzialmente i tempi vivi del processo). Tale eccezione, che trova espressione all’art.297 c.4 c.p.p., è particolarmente discussa.

Ora, tutti gli istituti qui visti hanno come termine finale quello complessivo. L’istituto della sospensione, invece, permette di oltrepassare anche il termine complessivo, pertanto si è reso necessario introdurre un nuovo termine, detto finale. Tale termine vale solo per le misure custodiali e per la fase di giudizio (udienza preliminare e dibattimento). I termini vengono qui bloccati (come nel congelamento) su ordinanza del giudice. Tale sospensione opera nei periodi dei tempi morti del processo, o meglio di certi tempi morti, come quelli derivanti dall’imputato e dal suo difensore (p.e. in caso di lungaggini o di rinvio per inadempimento dell’imputato e del suo difensore). Altri tempi di blocco del termine sono quelli seguenti alla sentenza, durante i quali i giudici scrivono le motivazioni della sentenza (rischio comunque addossato all’imputato). A causa di queste sospensioni, i termini di fase possono essere raddoppiati, e può essere superato anche il termine complessivo, anche se questo non può avvenire in misura superiore alla metà. Se il termine complessivo è p.e. di 6 anni, il termine finale non potrà essere superiore a 9 anni. L’istituto della sospensione è disciplinato dall’art.304. Vi è fra l’altro un’ulteriore eccezione, per cui se il soggetto, mediante custodia cautelare, ha già scontato i 2/3 della pena edittale massima prevista per il reato, dovrà essere scarcerato. Poniamo p.e. il caso di un soggetto imputato per favoreggiamento, il cui termine complessivo è di 2 anni. Il termine finale è allora di 3 anni. Ebbene, se il soggetto ha già scontato, durante la custodia cautelare, i 2/3 della pena massima (che è di 4 anni), ossia 2 anni e 8 mesi, esso dovrà essere scarcerato anche se non sono stati raggiunti i tre anni del termine finale. Dobbiamo infine considerare a parte l’istituto della rinnovazione. Esso riguarda il caso di termine posto dal giudice e non dalla legge. È questa l’ipotesi, già vista, in cui sussiste il presupposto a) ex art.274, ossia il caso di esigenza di tutela della prova. In questa circostanza, infatti, il giudice, nell’atto di applicare la misura, ne deve già fissare il termine di permanenza. Ebbene, allo scadere di questo termine, è possibile la rinnovazione disposta dal giudice. Ora, se i termini scadono, l’imputato andrà rimesso in libertà; in particolare, se esso era sottoposto a custodia cautelare, sarà scarcerato (sempre con ordinanza). Ma cosa succede se il soggetto in questione è pericoloso? In generale verrà applicata un’altra misura, pur se meno restrittiva. Per i reati più gravi, poi, il legislatore consente di cumulare misure diverse (in particolare, divieto di espatrio + obbligo di presentarsi alla polizia + obbligo o divieto di dimora in un certo luogo). È anche possibile, in certi casi, ripristinare la custodia cautelare, e questo p.e. per trasgressione alle prescrizioni delle altre misure cautelari predisposte. Il ripristino si verifica inoltre in caso di sopravvenienza di una sentenza di condanna. In caso di ingiusta detenzione, peraltro, è possibile chiedere un risarcimento pecuniario allo stato.

Riproponiamo meglio la tematica con l’apporto dell’Avv. Luisa Camboni con nota pubblicata sul Blog dello Studio Castaldi. L’argomento che la scrivente va ad esaminare è quello relativo alla custodia cautelare focalizzando, poi, l’attenzione sulla problematica della durata massima dei termini di custodia cautelare, problematica che mette in forse la tanto auspicata certezza del diritto. Si tratta di una materia assai delicata in quanto entrano in gioco i principi fondamentali di civiltà giuridica tante volte proclamati et dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale et da quella della Corte Europea dei diritti dell’uomo, a tutela del diritto fondamentale alla libertà personale. Secondo il nostro ordinamento penale l’indagato in attesa di giudizio si presume non colpevole sino alla condanna definitiva. La nostra Carta Costituzionale all’art. 27 cost., difatti, sancisce il principio della personalità della responsabilità penale: “ La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Si possono, infatti, adottare nei confronti dell’imputato misure restrittive personali non solo se sussistano gravi indizi di colpevolezza ( gravi indizi di colpevolezza intesi come tutti quegli elementi che pur contenendo in nuce elementi strutturali della corrispondente prova non sono sufficienti a provare oltre ogni dubbio la responsabilità dell’indagato, ma consentono con l’acquisizione di ulteriori elementi di dimostrare tale responsabilità (vedasi Cass. Sez. I 08.07.2011- 12.09.2011 n. 33803, GD 11,46,91)), ma anche se sussistano specifiche esigenze cautelari:

pericolo di reiterazione del reato;

pericolo di fuga;

pericolo di inquinamento delle prove.

Le condizioni che giustificano o meglio legittimano l’adozione di una misura restrittiva deve di norma essere accertata in concreto e, ancora, tale misura deve essere proporzionata e ristretta al minimo indispensabile per contrastare in concreto le riscontrate esigenze cautelari.

Che cosa è la custodia cautelare?

E’ una misura cautelare personale coercitiva in quanto con essa si tende a privare l’indagato o l’imputato della libertà di locomozione allo scopo di difendere esigenze socialmente e processualmente rilevanti. La custodia cautelare è detta, anche, carcerazione preventiva, indica la detenzione in un istituto di custodia dell'imputato, disposta dal Giudice con mandato di cattura, su istanza del Pubblico Ministero, quando sussistano particolari esigenze. In primo luogo, a carico dell'imputato devono sussistere gravi indizi di colpevolezza. Inoltre, devono esistere esigenze relative alle indagini (per l'acquisizione e il non inquinamento delle prove), timori fondati di fuga, pericolo di uso di armi o altri mezzi di violenza personale e devono risultare inadeguate tutte le altre misure (come il divieto di espatrio, l'obbligo di presentarsi negli uffici di polizia giudiziaria, il divieto di dimorare in un determinato luogo o, invece, l'obbligo di dimorarvi). Difatti, il Legislatore non afferma che la custodia cautelare va applicata come extrema ratio, ma solo che essa, tra le diverse misure che parimenti soddisfino le concrete esigenze cautelari, deve cedere il passo alle altre. Nel caso in cui, però, risulta essere la sola a soddisfare quella esigenza allora, in tal caso, non si pone alcun problema. Va precisato che la misura cautelare da applicare va scelta tenendo conto o meglio nel rispetto di due principi:

il principio di adeguatezza: cioè la misura deve essere adeguata alla esigenza cautelare da soddisfare in concreto;

il principio di proporzionalità: cioè la misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia già stata inflitta, irrogata o che si ritiene irrogabile.

Sotto il profilo processuale sede di operatività delle misure cautelari è la fase delle indagini preliminari. Il Pubblico Ministero, pur essendo il dominus di tale fase, non può mai applicare una misura cautelare, ma la deve sempre chiedere al Giudice. Insomma, il potere decisionale in materia di misure cautelari spetta unicamente al Giudice: solo il Giudice può disporre la misura, revocarla in peius o in melius, sostituirla con altra. Il Giudice se accoglie la richiesta formulata dal Pubblico Ministero emette ordinanza con cui dispone l’applicazione della misura. Ordinanza che deve avere, a pena di nullità, un contenuto ben preciso ai sensi dell’art. 292 c.p.p.. Dopodiché, l’ordinanza viene consegnata ad un Ufficiale di P.G. perché provveda all’esecuzione. Tale esecuzione si estrinseca nella notifica dell’ordinanza al destinatario. Con la notifica l’ufficiale di P.G. avverte il destinatario che ha diritto di nominare un legale di fiducia. Il Legislatore ha, difatti, dato notevole importanza alla posizione o meglio al ruolo che il legale svolge in questa circostanza, ovvero egli è chiamato a tutelare i diritti della persona che si trova in status di restrizione. Noi Avvocati assumiamo, quindi, il ruolo di dominus della condizione della persona che siamo chiamati a tutelare, a difendere. Al riguardo la Suprema Corte ha precisato che:“ l’inosservanza dell’obbligo, imposto dal comma 1 dell’art.293 c.p.p. all’ufficiale o all’agente incaricato dell’esecuzione dell’ordinanza impositiva della custodia cautelare, di avvertire l’indagato della facoltà di nominare un difensore di fiducia, importa una mera irregolarità dell’atto, insuscettiva di produrre conseguenze processuali giuridicamente rilevanti “ ( Cass. Sez. I 29.10.1993 – 03.12.1993 n.4559). In questo modo, la persona arrestata ha il diritto di essere sentita con l’assistenza del difensore ciò al fine di garantire il diritto di difesa che costituisce uno dei principi base del nostro ordinamento (art. 24 cost.: “ Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari”).

La materia di durata delle misure cautelari ha rilievo costituzionale, infatti, l’art. 13 comma 5 cost. sancisce “la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva “. Il problema dei tempi di durata della custodia cautelare è strettamente connesso a quello dei tempi del processo. Difatti, l’adozione di una misura cautelare richiede la sussistenza di esigenze processuali; vieppiù! è richiesto, anche, assicurare un corretto accompagnamento delle misure alle diverse fasi del processo. Noi Avvocati, per esperienza, ben sappiamo che i processi italiani hanno una durata biblica, ciò è confermato anche dalle innumerevoli condanne inflitte al nostro Paese dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Giova, a questo punto, ricordare che nel nostro ordinamento, a differenza di altri ordinamenti dove vige un sistema di tipo flessibile a garanzia delle esigenze processuali dove è possibile, sino a quando il processo non giunge al termine, applicare le misure senza sostanziali limiti di tempo, vige un sistema di tipo rigido, ciò sta a significare che sono previsti termini fissi di durata per le misure cautelari. A questo punto ci si pone un interrogativo: su chi deve essere fatto ricadere il rischio della lungaggine del processo? sull’ordinamento o sull’imputato? Senza ombra di dubbio chi risente di ciò è il soggetto ristretto, l’imputato a dover subire la lungaggine irragionevole del processo. Lungaggine che va a ripercuotersi sulla misura applicata e, conseguentemente, su uno dei diritti fondamentali della persona, vale a dire la libertà personale. Questo è il parere anche di chi scrive. Passiamo ora ad esaminare come il Legislatore ha organizzato il sistema dei termini, della durata della custodia cautelare la cui disciplina è dettata dagli artt. 303 – 304 – 305 c.p.p.. Preliminarmente occorre distinguere i termini in:

termini di fase;

termini complessivi;

termine finale complessivo.

I termini di fase, come si desume dalla espressione stessa, prevedono un termine per ciascuna fase del processo, mentre i termini complessivi sono termini aggiuntivi che vengono inseriti o meglio calibrati sull’intera durata del processo. Invece, il termine finale complessivo, cioè il cosiddetto massimo del massimo, non può mai essere superato neppure in caso di sospensioni o proroga dei summenzionati termini. Più precisamente, il Legislatore ha previsto termini differenti a seconda del tipo di misura (coercitive custodiali, coercitive non custodiali, interdittive). Termini diversi sono previsti, però, anche in riferimento alle tipologie e alla gravità del reato (si legga quanto previsto all’art. 303 c.p.p. comma 1 sui termini di base e comma 4 sui termini complessivi con riferimento alla custodia cautelare e all’art. 308 c.p.p. per le misure coercitive diverse dalla custodia cautelare). Quanto ai termini di fase il Legislatore ha stabilito che la misura cautelare adottata perde efficacia se entro quel termine non viene emesso il provvedimento conclusivo di quella fase; se, invece, il provvedimento viene emesso la custodia cautelare permane e, a questo punto, occorre prendere in considerazione i termini della nuova fase processuale. Chi scrive ritiene importantissimo evidenziare che ciascuna fase processuale è autonoma questo significa che i termini variano da fase a fase e, anche, in relazione della gravità del reato.

Le fasi processuali individuate dall’art. 303 c.p.p. sono quattro:

fase delle indagini preliminari;

fase del giudizio;

fase di appello;

e, infine, la cosiddetta fase ultima.

Partiamo dalla fase delle indagini preliminari e sulla base delle regole dettate dal Legislatore vediamo di comprendere quale ragionamento va fatto per capire quando la misura cautelare nella specie la custodia cautelare viene meno, perde efficacia. La misura de qua perde efficacia nel caso in cui non viene emesso il provvedimento conclusivo di tale fase e cioè il provvedimento che dispone il giudizio. In questo caso allo scadere del termine, che varia a seconda della gravità del reato:

mesi tre per i reati per i quali la pena massima è fino a sei anni di reclusione;

mesi sei per i reati con pena superiore ad anni sei e inferiore a venti anni;

un anno per i reati per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o la reclusione non inferiore a venti anni.

L’indagato deve essere immediatamente scarcerato. Individuato il termine finale è lecito chiedersi: qual è il dies a quo per il computo di tali termini? Nulla quaestio: occorre, semplicemente, verificare il giorno in cui ha avuto esecuzione il provvedimento coercitivo.

Questo ragionamento vale pure per le altre fasi anche se i termini massimi cambiano. Per la seconda fase i termini sono :

sei mesi se la pena prevista per quel reato è sino a sei anni;

un anno se la pena edittale è fino a venti anni;

un anno e sei mesi per i reati di maggiore gravità.

Per la terza fase i termini sono:

nove mesi se la pena che è stata inflitta con la sentenza è inferiore ad anni tre di reclusione;

un anno se vi è stata condanna alla pena della reclusione che non superi gli anni dieci;

un anno e sei mesi se la condanna supera i dieci anni.

Questi ultimi termini valgono anche per la quarta fase.

A questi termini di fase, come già anticipato, il Legislatore ha previsto anche un termine complessivo riferito cioè all’intero processo. Tenuto conto che è possibile la proroga del termine, ossia che quel termine può essere superato, in ogni caso è previsto un tetto massimo. Infatti, la durata complessiva della custodia cautelare, computate anche le proroghe ex art. 305 c.p.p., non può superare i seguenti termini:

due anni quando si tratta di un delitto per il quale la legge stabilisce la pena della reclusione non superiore nel massimo a sei anni;

quattro anni quando si tratta di delitto per il quale la pena non supera i venti anni;

sei anni nei casi di maggiore gravità.

In conclusione, la durata della custodia cautelare non può superare il doppio dei termini previsti per ciascuna fase e quanto al termine finale complessivo questo non può essere superato oltre la metà ex art. 304 comma 6 c.p.p..

I termini di fase possono essere sforati? In quali casi? La risposta è positiva e le ipotesi in cui ciò si verifica sono:

- nuova decorrenza del termine ( cioè i termini cominciano a decorrere ab initio): si verifica in due casi: a) quando il processo regredisce (per esempio il giudice si dichiara incompetente; b)quando la persona sottoposta a custodia cautelare evade. Con questo meccanismo, dunque, i termini di fase possono essere superati, fermo restando, però, il termine complessivo (in tema di custodia cautelare si legga quanto previsto ex art. 303 commi 2 e 3 c.p.p.).

- proroga del termine: (art. 305 c.p.p.), proroga concessa su richiesta del Pubblico Ministero al Giudice. Il Giudice la può concedere o meno, e questo dopo un piccolo contraddittorio durante il quale avrà sentito il difensore dell’imputato. Con ordinanza (si noti bene che l’ordinanza è la forma del provvedimento con cui il Giudice si pronuncia in materia cautelare!), il Giudice stabilirà l’entità di questa proroga, che per legge non può, comunque, essere superiore ad un certo limite imposto dalla legge. Anche in questo caso, inoltre, il termine complessivo resta valido, e non potrà successivamente essere oltrepassato. La proroga è richiesta non solo per esigenze investigative, ma è possibile che sia richiesta, anche, qualora debba essere effettuata una perizia sullo stato di mente dell’imputato. In tal caso, la proroga avrà la durata richiesta dalla perizia stessa.

- congelamento automatico del termine: consente di superare i termini di fase. Il congelamento automatico del termine vale soltanto per le misure custodiali e solo per la fase del dibattimento. In presenza di queste circostanze, dunque, non si contano i giorni che servono per il dibattimento, né quelli necessari per la decisione. Tale eccezione trova espressione all’art. 297 comma 4 c.p.p., ed è oggetto di diatriba.

Dobbiamo, infine, prendere in considerazione l’istituto della sospensione disciplinato dall’art.304 c.p.p.. La sospensione opera nei periodi dei tempi morti del processo, o meglio di certi tempi morti, come quelli dovuti per impedimento dell’imputato e del suo difensore. Altri periodi di sospensione del termine sono quelli seguenti alla sentenza, durante i quali i giudici scrivono le motivazioni della sentenza (rischio, tuttavia, addossato all’imputato). A causa di queste sospensioni, i termini di fase possono essere raddoppiati e può essere superato anche il termine complessivo, in ogni caso questo ultimo termine non può essere superato in misura superiore alla metà.

Facciamo un esempio se il termine complessivo è di 6 anni, il termine finale non potrà essere superiore a 9 anni.

Ora, se i termini scadono, l’imputato andrà rimesso in libertà; in particolare, se esso era sottoposto a custodia cautelare, sarà scarcerato (sempre con ordinanza). Ma cosa accade se il soggetto in questione è socialmente pericoloso? In generale verrà applicata un’altra misura, pur se meno restrittiva. Per i reati più gravi, poi, il legislatore consente di cumulare misure diverse. È anche possibile, in certi casi, ripristinare la custodia cautelare e questo si verifica in caso di violazione alle prescrizioni delle altre misure cautelari predisposte. Il ripristino si verifica, inoltre, in caso di sopravvenienza di una sentenza di condanna. In caso di ingiusta detenzione, peraltro, è possibile chiedere un risarcimento pecuniario allo Stato.

Da quale momento cominciano a decorrere i termini della custodia cautelare?

I termini o, come si legge nell’art. 297 comma 1 c.p.p., gli effetti della custodia cautelare decorrono “ dal momento della cattura, dell’arresto o del fermo”, cioè dal momento in cui l’ordinanza ha materiale esecuzione. Può capitare che l’indagato – imputato si trovi già in un istituto di pena per altri motivi: in questo caso gli effetti decorrono dal momento in cui gli viene notificato il provvedimento. L’art. 297 comma 3 c.p.p. ipotizza il caso in cui nei confronti di un imputato vengono emesse nel medesimo processo più ordinanze per lo stesso fatto o per reati connessi ( il cosiddetto problema delle contestazioni a catena). In questo caso i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 408 c.p.p. del 03.11.2005, ha precisato che l’espressione contestazione a catena “individua, in via generale, il fenomeno dell’adozione, in tempi successivi, di più ordinanze applicative di misure cautelari in rapporto al medesimo fatto ovvero ad una pluralità di fatti già noti ab initio all’autorità giudiziaria”. La materia esaminata è, dunque, assai delicata ed in particolare la disciplina del computo dei termini dettata dal Legislatore appare articolata e contorta sconvolgendo, senza dubbio alcuno, certezze e calcoli non solo di imputati ma, anche, di noi difensori. Per queste ragioni, la scrivente ritiene che la disciplina debba essere oggetto di revisione in quanto è in gioco un grande valore e diritto della persona: la libertà che la nostra Carta Costituzionale proclama diritto inviolabile!

Nel processo di Sarah Scazzi i giudici non hanno tenuto conto dei termini di fase, forti di precedenti giurisprudenziali. Anche se la stessa Suprema Corte ha imposto dei paletti sulla volubilità delle toghe dibattimentali e d’appello.

Custodia cautelare: il doppio del termine di fase non è superabile. Cassazione penale, SS.UU., sentenza 07.07.2014 n° 29556 è la nota dell’avv. Simone Marani su Altalex. Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con sentenza 7 luglio 2014, n. 29556 si sono interrogate se, nel caso in cui il giudice abbia sospeso i termini di fase avvalendosi del disposto dell'art. 304, comma 2, c.p.p., che consente tale sospensione nel caso di dibattimenti o di giudizi abbreviati particolarmente complessi relativi ai reati previsti dall'art. 407, comma 2, lett. a), il limite del doppio del termine di fase (previsto dal comma 6 dell'art. 304) possa essere ulteriormente superato in forza del n. 3-bis dell'art. 303, comma 1, lett. b), che prevede (sempre nel caso dei processi per i delitti di cui all'art. 407, comma 2, lett. a) un ulteriore aumento fino a sei mesi del termine di fase da imputarsi o alla fase precedente (qualora il termine di quella fase non sia stato completamente utilizzato) ovvero ai termini di cui alla lett. d) del medesimo art. 303 (relativo al giudizio di legittimità). Un primo orientamento era monoliticamente orientato nel dare al quesito risposta negativa, fondando tale soluzione sull'espressione letterale usata dal comma 6 dell'art. 304, che, nel prevedere il raddoppio dei termini di fase nel caso di dichiarata sospensione dei termini per la complessità del giudizio, precisa che non si debba tener conto “dell'ulteriore termine previsto dall'articolo 303, comma 1, lettera b), numero 3-bis”. Gli ermellini ricordano come, a parte un'isolata pronuncia (Cass. pen., Sez. II, sent. n. 9148 del 30 maggio 2002) la giurisprudenza successiva è stata per molti anni unanime nel ritenere non cumulabili le cause di aumento (art. 304) e sospensione (art. 303), sulla base di alcune ragioni che possono essere così sintetizzate: a) la formulazione letterale della norma (art. 304, comma 6), ed in particolare l'espressione utilizzata (“senza tenere conto dell'ulteriore termine”), non consentirebbe un'interpretazione diversa da quella che conduce all'esclusione della possibilità di pervenire al cumulo dei periodi di sospensione; b) anche le decisioni che ritengono non decisiva la formulazione dell'espressione ricordata affermano che l'uso dell'avverbio "comunque" utilizzato nella prima parte della norma (“La durata della custodia cautelare non può comunque superare il doppio [...]”) rafforzerebbe l'interpretazione che esclude la possibilità di cui trattasi costituendo un insuperabile confine del limite indicato (Cass. pen., Sez. VI, n. 26127 del 27 giugno 2011; Cass. pen., Sez. VI, n. 38671 del 7 ottobre 2011); c) il procedimento di formazione della norma dimostra che il legislatore ha volutamente escluso la possibilità di cumulare i termini in esame prevedendo, nella legge di conversione, questo divieto che il decreto-legge non contemplava (Cass. pen., Sez. I, n. 6239 del 18 dicembre 2009). Il difforme orientamento, riportato integralmente dal ricorrente e richiamato e condiviso dall'ordinanza di rimessione, è rappresentato (oltre che dal risalente citato precedente del 2002) dalla già richiamata sentenza della Sez. 5, n. 30759 del 11/07/2012, Ali Sulaiman, Rv. 252938. Questa decisione si pone consapevolmente in contrasto con il precedente orientamento uniforme della giurisprudenza di legittimità e contesta, preliminarmente, la tesi secondo cui la formulazione letterale della norma osterebbe all'interpretazione costantemente seguita. Secondo questa decisione esisterebbe inconciliabilità tra l'avverbio "comunque" e la frase successiva "senza tenere conto" perché la prima espressione “sembra introdurre una previsione perentoria di insuperabilità” mentre la locuzione successiva “sembrerebbe, invece, alludere ad una deroga”. Tale ultima impostazione contesta, preliminarmente, la tesi secondo cui la formulazione letterale della norma osterebbe all'interpretazione costantemente seguita. Secondo questa decisione esisterebbe inconciliabilità tra l'avverbio "comunque" e la frase successiva "senza tenere conto" perché la prima espressione “sembra introdurre una previsione perentoria di insuperabilità” mentre la locuzione successiva “sembrerebbe, invece, alludere ad una deroga”. Ciò considerato, le Sezioni Unite affermano che nel caso di sospensione dei termini di fase della custodia cautelare, disposta in base all'art. 304, comma 2 c.p.p. nell'ipotesi di dibattimento o di giudizio abbreviato particolarmente complesso relativo ai reati previsti dall'art. 407, comma 2, lett. a), il limite del doppio del termine di fase (previsto dal comma 6 dell'art. 304) non può essere ulteriormente superato in forza del n. 3-bis dell'art. 303, comma 1, lett. b) che prevede (sempre nel caso di processi per i delitti di cui all'art. 407, comma 2, lett. a) un ulteriore aumento fino a sei mesi del termine di fase da imputarsi o alla fase precedente (qualora il termine di quella fase non sia stato completamente utilizzato) ovvero ai termini di cui alla lett. d) del medesimo art. 303 (relativo al giudizio di legittimità).

Così come nella prima udienza della settimana precedente, in aula sono presenti Sabrina e Cosima, che sono chiuse nella gabbia di vetro riservata ai detenuti. E’ presente Michele Misseri e Concetta Serrano. Rigettata la richiesta fatta dagli avvocati di Sabrina, Franco Coppi e Nicola Marseglia e dal legale di Misseri, Luca Latanza, di esaminare nuovamente in aula l’agricoltore di Avetrana. Rigettate tutte le altre richieste di acquisizione di ulteriori dichiarazioni fatte da Misseri durante le interviste rilasciate ai giornalisti. No della corte anche alla perizia psichiatrica e sulla capacità testimoniale di Michele Misseri. Accolta, invece, la richiesta di acquisizione agli atti del testo di una telefonata intercorsa tra Sabrina e il padre il 6 ottobre del 2010 in cui pare che Misseri avesse confessato alla figlia il delitto, trascrizione che non faceva parte del fascicolo del processo di primo grado. La Corte ha disposto la perizia trascrittiva di alcune telefonate, parte delle quali intercorse tra Sabrina Misseri e il padre Michele nelle prime ore del 7 ottobre 2010, quando l'agricoltore fece ritrovare i resti di Sarah Scazzi in un pozzo nelle campagne di Avetrana. Disposta anche l'acquisizione di alcuni documenti e sentenze. La difesa di Sabrina Misseri ha chiesto alla Corte di assise di appello di Taranto la "non utilizzabilità" delle dichiarazioni rese da Sabrina Misseri ai carabinieri e al magistrato inquirente il 30 settembre 2010, quale persona informata sui fatti. In quella sede, ha sostenuto l’avv. Nicola Marseglia proponendo una serie di eccezioni alla Corte, Sabrina era formalmente indagata pur non essendo iscritta nel registro degli indagati e venne sentita senza l’ausilio di un difensore. Quando è stata sentita come persona informata sui fatti, ha replicato il pg Antonella Montanaro, Sabrina non poteva essere indagata per omicidio perché il corpo di Sarah non era stato ancora trovato. Per di più, quelle dichiarazioni vennero confermate dalla stessa Sabrina il successivo 15 ottobre, quando nei suo confronti scattò il fermo di polizia con trasferimento in carcere. Contestate anche dal collegio difensivo le modalità tecniche e di procedura di alcuni accertamenti eseguiti nel corso dell’inchiesta dai carabinieri del Ros. "Questo è un processo indiziario – ha sostenuto Marseglia –  Anche in un processo indiziario si può arrivare all’accertamento della verità, ma con il rispetto delle regole, che in questa  occasione non c'è stato". Marseglia ha anche eccepito la valenza tecnica degli accertamenti irripetibili (conversazioni telefoniche e intercettazioni ambientali) eseguiti nel corso dell’inchiesta su disposizione della Procura di Taranto. Quando Sabrina Misseri venne ascoltata dagli inquirenti il 30 settembre 2010 come persona informata sui fatti per il delitto Scazzi, il pm, nel momento in cui riteneva che la teste stesse dicendo il falso, avrebbe dovuto sospendere l'esame e invitare a nominare un difensore. Lo ha sostenuto l'avv. Franco Coppi, uno dei legali di Sabrina, sollevando eccezione alla Corte di assise di appello di Taranto, dinanzi alla quale si svolge il processo di secondo grado per l'omicidio di Avetrana (Taranto) e chiedendo la inutilizzabilità di quel verbale. Coppi ha aggiunto che nel verbale di quell'esame ci sono «affermazioni inquietanti» del pubblico ministero, che più volte avrebbe fatto presente a Sabrina che, a suo parere, stava affermando cose false. Eccezioni sono state sollevate anche dall'avv. Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri (fratello di Michele), condannato in primo grado a sei anni di reclusione per concorso in soppressione di cadavere.

Il processo d'appello per l'omicidio di Sarah Scazzi è stato aggiornato al 12 dicembre 2014. In quella sede la corte d'assise d'appello di Taranto scioglierà la riserva su alcune richieste avanzate dal collegio difensivo, tra le quali quella di un sopralluogo nella villa di Misseri ad Avetrana (Taranto), chiesto dai legali di Cosima Serrano, e sulla nullità o inutilizzabilità di alcuni documenti processuali. Sempre il 12 dicembre la corte affiderà ad un perito, già individuato, l'incarico di trascrivere il contenuto di alcune conversazioni telefoniche, così come disposto oggi con ordinanza dalla stessa Corte. Quanto ad una eventuale volontà di Cosima Serrano di parlare in aula, Concetta ha commentato: «Che parlasse». E sulla sua reazione nel rivedere Sabrina e Cosima, ha aggiunto: «Sono reazioni che non si possono spiegare». "Sentiamo cosa ha da dire Michele", ha detto, invece, Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi uccisa il 26 agosto 2010 ad Avetrana (Taranto), rispondendo ai cronisti che le chiedevano un’opinione sulla richiesta del collegio difensivo, al processo d’appello per l’omicidio della quindicenne, di risentire in aula Michele Misseri.

Processo di Avetrana: E’ guerra di intercettazioni.  Accusa e difesa chiedono di ascoltarle in aula, scrive “Rete News 24”. Ora molto si gioca sulle telefonate. La difesa è pronta a dare battaglia. Una svolta nel processo? Dopo quattro anni dalla morte di Sarah Scazzi, la quindicenne di Avetrana uccisa il 26 agosto del 2010, sono ancora le intercettazioni telefoniche a contenere una probabile verità del grande giallo che ha sconvolto il Paese. Due conversazioni in particolare, dove Sabrina Misseri, cugina della ragazzina uccisa e già condannata all’ergastolo, parla una volta con la mamma di Sarah, Concetta, e poi con l’avvocato di famiglia Valter Biscotti e infine col padre Michele. Queste due registrazioni sono diventate elemento essenziale nel dibattimento iniziato davanti alla Corte d’assise d’appello di Taranto. A chiedere l’ascolto in aula dell’audio originale di quelle due telefonate, sono stati sia i difensori di Sabrina, sia dall’accusa rappresentata dal sostituto procuratore generale, Antonella Montanaro ovviamente per due motivazioni ben diverse. Quella chiesta dagli avvocati di Sabrina, Franco Coppi e Nicola Marseglia, è l’ultima telefonata che l’allora ventiduenne fece al padre Michele Misseri quando stava per essere trasferito in carcere dopo la sua drammatica confessione. La telefonata avvenne di notte, alle  3,47 del 7 ottobre 2010 e si capisce che Sabrina non ha dubbi sulla colpevolezza del padre fin dalle prime parole: «perché non me lo hai detto subito, papà?» e poi ancora alcuni secondi dopo, chiede a Michele «però, papà, perché lo hai fatto? tu non hai mai fatto nulla di male, In quel momento cosa ti è venuto?». E il padre risponde “Non so cosa mi sia venuto”. Ciò che invece la pubblica accusa contesta è la seconda telefonata dove Sabrina non sembra affatto convinta della colpevolezza del padre:  Parlando con l’avvocato della famiglia Scazzi, Valter Biscotti, la ragazza ha infatti dei dubbi circa la reale confessione del suo papà: «Ma centra mio padre? … c’eravamo noi testimoni che lo abbiamo visto fare sue giù (dal garage in strada, ndr) … io penso, caso mai lo stanno incastrando». Una tesi inoltre che in questi giorni sta prendendo strada da dichiarazioni di amici della famiglia Misseri. 

Pista satanica dietro l'omicidio di Sarah Scazzi? Scrive “Rete News 24”. «Avevo ragione io e, finalmente, la verità sta venendo a galla. Mia figlia Sarah aveva scoperto che qui ad Avetrana si celebrano terribili riti satanici, nei quali è coinvolta anche Sabrina. Adesso mia nipote deve dire tutto quello che sa. Deve spiegare dov’e e cosa avveniva in quel misterioso casolare di cui parla nella telefonata che è stata intercettata dai carabinieri». Chi parla con Giallo è Concetta Serrano Scazzi, 52 anni, mamma di Sarah Scazzi. La donna, sconvolta, mentre si sfoga tiene tra le mani un documento che potrebbe segnare una svolta nelle indagini di uno dei casi di cronaca più sconvolgenti degli ultimi anni: l’omicidio di sua figlia Sarah, appunto. Su questo foglio, finora mai pubblicato, è trascritta una misteriosa conversazione telefonica, intercettata dai carabinieri, tra la nipote Sabrina Misseri, condannata in primo Sarah, e un suo amico, Alessio Pisello. Questa conversazione risale ai primissimi giorni dopo la scomparsa di Sarah, avvenuta il 26 agosto 2010. Era il 4 settembre e Avetrana era ancora una tranquilla cittadina della costa pugliese, pochi, ancora, sapevano della scomparsa di Sarah, il cui corpo fu ritrovato più di un mese dopo, il 7 ottobre. Nei primi giorni dopo la scomparsa della ragazzina, i carabinieri seguivano principalmente la pista dell’allontanamento volontario. Tutti i telefoni delle persone che ruotavano intorno a Sarah erano dunque sotto controllo: il sospetto infatti era che qualcuno scoprisse la sua fuga. Alle 9,45 di quel 4 settembre, a soli sette giorni dalla sparizione di Sarah, Sabrina Misseri, mentre si trovava a casa con la sorella, chiamò al telefono il suo amico Alessio Pisello e disse:«Hei, Alè, ma tu lo hai detto ai carabinieri di quella masseria?». Pisello rispose: «No, ancora no, perché non c erano. Non ti preoccupare… tanto ce chi sta andando prima di loro… Non ti preoccupare. Stanno andando, stanno andando… un paio di amici, in massa». Concetta guarda fisso il documento e stringe i denti per la rabbia. Dice la donna, con la solita calma che, però, tradisce l’emozione: «Adesso dobbiamo scoprire dove questo posto e, soprattutto, capire perché mia nipote non voleva che carabinieri andassero prima dei suoi amici. Cos’aveva da nascondere li?». E dilaniata, la povera Cosima. Da una parte ha paura di scoprire gli aspetti più nascosti della vita della sua bambina. Dall’altra, però, sa che questa nuova intercettazione non fa che confermare i suoi sospetti iniziali: «Ora ne sono sicura, lì avveniva qualcosa di losco che mia figlia sapeva e che non doveva raccontare a nessuno. Io l’ho sempre detto». Concetta, infatti, fin dall’inizio ha parlato di “riti malefici e messe nere” di ceri accesi che allungano le ombre dei muri devastati e sporchi di vecchi casolari. Oppure, di luoghi dove si consumavano sporchi giochi di lussuria e del vizio. Continua Concetta Scazzi: «L’ho sempre pensato leggendo i diari di mia figlia e vedendo i poster che appendeva nella sua stanza. Non mi sono mai piaciuti». In effetti, Sarah era attratta da tutto ciò che si accostava all’esoterismo, il mistero, l’eccesso. La sua stanza era tappezzata di foto di Marilyn Manson, il chiacchierato cantante statunitense bocciato dalla chiesa come l’Anticristo. Lei stessa amava presentarsi con il volto cereo e gli occhi truccati pesantemente e vestiva quasi sempre di nero. Ed è un caso che, poco prima di morire, Sarah avesse preso in prestito dalla biblioteca di Avetrana un libro su alcune sparizioni misteriose, dall’inquietante titolo Segreti di morte? Certo è che quale sia il luogo a cui si riferiscono Sabrina Misseri e il suo amico Alessio Pisello nell’intercettazione, rimane un mistero. Nessuno degli investigatori, infatti, ne ha mai chiesto conto ai protagonisti. Se lo chiede oggi mamma Concetta:«Perché non glielo hanno chiesto? E perché non glielo chiedono adesso a questi due? Mia nipote deve spiegare dove si trova quel luogo e cosa centra con la morte della mia Sarah. Io devo sapere cos’è successo». Ed ecco che, a tre anni di distanza da quei fatti, un altro mistero confonde le poche certezze dell’orrendo delitto di Avetrana. Gli ingredienti del giallo, ancora una volta, ci sono tutti: un casolare abbandonato tra gli infiniti uliveti che circondano il piccolo paese sul confine delle tre province di Taranto, Lecce e Brindisi. Il desiderio di una presunta assassina che vuole tenere il più possibile lontano da quel posto le persone impegnate nelle ricerche della cugina scomparsa. E la tenacia di una madre che, per dare un senso al proprio, immenso, dolore, non si arrende. Concetta Serrano, infatti, non si è mai accontentata dell’unico movente che, secondo i giudici, avrebbe spinto Sabrina a uccidere la cugina: la sua gelosia nei confronti della cugina Sarah. Concetta non vuole escludere nessuna pista alternativa. Nemmeno quella, terribile, secondo cui Sarah sarebbe stata uccisa perché era venuta a conoscenza dei riti satanici che si svolgevano ad Avetrana. E proprio questo il secondo movente a cui si riferiva il pubblico ministero Mariano Buccoliero nel processo contro Sabrina e Cosima Misseri? In quell’occasione, infatti, l’uomo sostenne che era difficile pensare che Sabrina avesse ucciso sua cugina solo per la sua gelosia nei confronti di Ivano Russo, 26 anni, il ragazzo conteso tra le due. Il pubblico ministero fece riferimento a «qualcosa di grave legato allo stato di tensione tra le due cugine, la pubblicità dei rapporti intimi tra Sabrina e Ivano, e discussioni tra Sabrina e la madre per quello che avrebbe detto la gente». Cosa non doveva dire la ragazzina alla gente? Il pubblico ministero non lo disse chiaramente, ma lo lasciò intendere: «Se Cosima Misseri è uscita e ha preso lauto per riprendere Sarah, vuol dire che era necessario impedire che la ragazza tornasse a casa e raccontasse le ragioni del litigio e tutto ciò che era accaduto in casa Misseri». Cos’e che Sarah non avrebbe dovuto raccontare? Forse ciò che accadeva nelle campagne di Avetrana nelle sere dedicate a Satana? Questo è quello di cui è convinta Concetta. D’altra parte, anche Avetrana è piena di misteri e di casolari sparsi nelle campagne dove sono evidenti le tracce di sinistre attività. Uno, in particolare, è frequentato dalle coppiette e da alcuni ragazzi, tra i quali gli amici di Sarah e Sabrina. Questo casolare è pieno di scritte e graffiti dall’inequivocabile significato esoterico: In paese lo chiamano “la casa dell’Africa”. Si dice che proprio qui, molti anni fa, la giovane figlia di una nobile famiglia che ci abitava morì cadendo in un pozzo. E questa la masseria che tanto preoccupava Sabrina Misseri al telefono?

Una vera svolta nel processo di Avetrana potrebbe avvenire a breve: “Cosima è pronta a parlare”, scrive “Rete News 24”. L’avvocato di Cosima Serrano ha confermato, infatti,  durante la trasmissione La vita in diretta, che la sua assistita ha deciso di rivelare ciò che sa sull’omicidio di Sarah Scazzi, la nipote 16enne uccisa nel 2010 ad Avetrana. Finisce così il mutismo della zia che neanche dopo la sentenza di condanna ha mostrato emozione, In carcere con la figlia Sabrina, Cosima, infatti,  ha sempre mantenuto il silenzio in questi anni, dichiarando solo un “non ricordo” o “non so nulla”. Ora però pare sia venuto finalmente il momento di rivelare cosa sia davvero successo quel giorno e chi sia il colpevole della morte della piccola. Oggi si è tenuta la seconda udienza del processo dinanzi alla Corte di assise di appello di Taranto. In primo grado Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano sono state condannate all’ergastolo per l’omicidio, mentre Michele Misseri è stato condannato ad otto anni per soppressione di cadavere. Quanto ad una eventuale volontà di Cosima Serrano di parlare in aula, Concetta ha commentato: «Che parlasse». E sulla sua reazione nel rivedere Sabrina e Cosima, ha aggiunto: «Sono reazioni che non si possono spiegare».

“La famiglia Misseri è innocente, ecco chi ha ucciso davvero Sarah”. Parla l’amica Giovanna: “Ad Avetrana troppi misteri mai raccontati”, scrive  Adriana Costanzo su “Rete News 24”. “Quel giorno Sarah non entrò mai a casa Misseri. Nessuno l’ha mai vista in via Deledda, nessuno l’ha mai notata entrare nell’abitazione, tantomeno nel garage. Le due donne sono innocenti e anche Michele ha colpe solo marginali”. Una voce fuori dal coro quella di Giovanna Andrisano, cara amica della famiglia di Sabrina condannata all’ergastolo in primo grado insieme alla madre Cosima per l’omicidio della cugina Sarah Scazzi. Una voce, quella di Giovanna, che lascia aperte tante domande. Tanti “Se” e che, continuando a leggere, avrà invece prove e fatti. “E se una ragazzina di soli 22 anni passasse il resto della sua vita in galera? se non potesse più avere amori, primi baci, emozioni, futuro? E se questa ragazzina fosse innocente?” Sarebbe una tragedia. “Sabrina Misseri non è colpevole del reato di omicidio”. Se questo fosse vero la tragedia si starebbe consumando in queste ore. Se fosse vero la piccola Sarah Scazzi non avrebbe avuto giustizia e un’altra persona, anzi due, sarebbero state uccise, ma stavolta dalla Giustizia. Sabrina e sua madre Cosima. Ma perché questo dubbio? Tutti dicono che sono due assassine, sia televisioni che opinione pubblica e lo stesso tribunale di Taranto che le ha condannate all’ergastolo. Quindi… perché? Forse perché non tutte le piste sono state vagliate. Forse perché c’è un’altra verità tenuta nascosta. Una verità che chi conosce bene la famiglia Misseri sa, una verità che forse potrebbe essere svelata nelle prossime ore da Cosima Serrano, sorella di Concetta, la mamma di Sarah. A raccontare a Retenews24 almeno una parte di quest’altra verità è, quindi, Giovanna Andrisano, considerata una di famiglia per i Misseri, che da anni cerca di far ascoltare una voce dissonante ma probabilmente non meno veritiera di altre. “Cosima e Sabrina volevano troppo bene alla bambina. Non le avrebbero mai fatto del male. Il movente dichiarato è assurdo. Se Sabrina fosse stata gelosa, avrebbe semplicemente impedito a Sarah di seguirla in comitiva cosa che invece non ha mai fatto”. E allora chi? Chi ha sequestrato e ucciso il bell’angelo biondo che ha commosso tutta Italia, tanto da voler assolutamente un imputato su cui puntare il dito della colpevolezza. Chi? “Bisogna cercare fuori dalla famiglia. Giacomo Scazzi, il papà della bimba, faceva il muratore eppure girava per Avetrana con “macchinoni”. E poi la questione della droga? Perché non è stata presa in considerazione?” Il 6 settembre del 2010, dieci giorni dopo l’uccisione di Sarah Scazzi, infatti, tra i tanti luoghi battuti per cercare la quindicenne scomparsa, i carabinieri del nucleo investigativo di Taranto visitarono anche la villetta al mare della famiglia Scazzi. E lì fecero una scoperta che per i giorni successivi diede una piega differente alle indagini: in un ripostiglio della casa, i militari trovarono un coltellino, delle tracce di polvere bianca (all’analisi poi risultata essere cocaina) e un bilancino di precisione di quelli utilizzati per suddividere le dosi. “Non ci andiamo mai, è disabitata da tempo” si giustificarono poi gli Scazzi salvo che nel mese di Agosto c’erano stati per qualche giorno. Ma cosa significherebbe ciò? “Giacomo aveva paura. Probabilmente aveva avuto delle minacce da persone losche con cui aveva a che fare. Lo dimostra il fatto che quando Sarah andò dalla zia Dora per passare qualche giorno con lei, nelle uscite con il cuginetto e la donna, il padre le seguiva da lontano. Perché? Se non avesse avuto timori per la figlia perché seguire la ragazza? Lui sapeva che poteva succedere qualcosa a Sarah, una vendetta da parte di qualcuno a cui aveva fatto un torto”. Quindi degli assassini che non hanno vincoli di sangue con la famiglia… Ma Michele? Come poteva sapere il papà di Sabrina dove stesse il corpicino di Sarah? “E’ stato ricattato. Hanno preferito far fare il “lavoro sporco” a una persona semplice, che però aveva un podere con un pozzo che sarebbe potuto essere un nascondiglio perfetto, con il benestare del proprietario. E poi avevano bisogno di un capro espiatorio nel qual caso si fosse scoperto qualcosa. Ho chiesto a Michele tante volte: Dì la verità, ti hanno minacciato? Hai paura? Lui mi ha guardato senza rispondere, attimi di pausa nei quali avrei voluto che finalmente si aprisse. Ma poi un diniego con la testa e ancora la frase che ormai ripete da anni: “Sono stato io”. Ma come mai quest’uomo, pur spaventato, avrebbe infine incolpato sua figlia? “Non tutti sanno che Michele era imbottito di psicofarmaci in quel periodo. Quando Valentina, la primogenita, andò a trovarlo in carcere, la prima cosa che le chiese è “Ma tu chi sei?”. Ciò dovrebbe far capire quanto fosse confuso, quanto fosse stato facile per qualcuno, mettergli parole in bocca. Sabrina era un bersaglio facile, tutti la volevano colpevole. E l’avvocato di Michele sarebbe stato un eroe. Avrebbe salvato dal carcere un reo confesso. Soldi. Tanto soldi e fama. Questo è quello che hanno voluti tutti da questa storia. Compreso la famiglia di Sarah”. Perché dice questo? “Come si spiegano le continue apparizioni in tv, la voglia del fratello Claudio di partecipare al Grande Fratello o di prendere soldi per realizzare un canile dedicato a Sarah quando poi la piccola odiava i luoghi chiusi per gli animali che voleva invece liberi. Non si sono accontentati dell’eredità della bambina, hanno voluto di più”. Quale eredità? “Sarah era una ereditiera. Il nonno le aveva lasciato 100mila euro da poter utilizzare al compimento dei 18 anni. Ora questi soldi andranno ai suoi familiari, oltre a tutti gli altri che hanno avuto dopo il caso. Ma vi rendete conto che dopo la condanna all’ergastolo, Concetta, Giacomo e il figlio Claudio sono andati a festeggiare con brindisi e spumante in pizzeria insieme ad avvocati e qualche giornalista? Ma cosa c’era da festeggiare? Una figlia assassinata? Una sorella e una nipote condannate per sempre?” Una sentenza di ergastolo sopraggiunta in effetti quasi esclusivamente grazie o a causa delle dichiarazioni di una super-testimone, Anna Pisano. Lei la conosce? È una persona affidabile? “Anna è solo una pettegola e in città lo sanno tutti. I fatti sono altri e ne abbiamo le prove. Il fioraio che raccontò di aver visto Cosima prendere Sarah mentre piangeva specificò alla signora Pisano che si trattava solo di un sogno. Cosa che continuò a ripetere anche successivamente. Invece Anna lo fece passare come un fatto accaduto davvero. La Pisano inoltre raccontò di aver visto la piccola qualche giorno prima a casa dei Misseri, col volto triste. Sapete perché? Proprio perché aveva visto lei, che qualche tempo prima le aveva raccontato di come suo padre Giacomo avesse un’amante e un’altra figlia. Questa cosa non è stata detta? E poi l’ultima fandonia della super-testimone. Durante i funerali di Sarah, Sabrina, secondo il suo racconto, avrebbe mangiato nutella leccandosi anche le dita. Vorrei sapere come ha fatto la signora a saperlo visto che non c’era in casa Misseri quel giorno e soprattutto dato che Sabrina non ha mai mangiato cioccolata”. Eppure tutti credono alla loro colpevolezza…“Tutti quelli che non sono bene informati dei fatti. Non vi sembra strano che lo psichiatra Alessandro Meluzzi, criminologo a cui è stato affidato il caso abbia sempre sostenuto l’innocenza di Cosima e Sabrina? Non vi sembra strano che loro due siano in galera e non possano tornare a casa? Non c’è pericolo di reiterare il reato dato che secondo gli inquirenti è stato commesso per gelosia. E le prove ormai non sono occultabili visto che non si stanno cercando neanche più. Hanno tutti deciso per la strada più facile. Hanno tutti deciso di trasformare in tragedia la vita di una ragazzina allora 22enne, che adesso ha già 26 anni”. Una speranza però c’è. Cosima ha detto che parlerà a breve. Cosa dirà? “Non so cosa dirà Cosima ma io sospetto che lei sappia, che il marito le abbia confessato le minacce subite ma che per paura neanche lei abbia mai voluto dirle. Spero che adesso lo faccia. Per lei stessa e per la figlia. Perché Sabrina non sa nulla e ormai non ce la fa più”. Avetrana, adesso la verità, scrive Enzo Ciaccio su “Rete News 24”. Le dichiarazioni che l’”amica di famiglia” Giovanna Angrisano ha reso ad Adriana Costanza di Retenews24.it sono assai significative perché si spingono ben oltre il racconto che – specie in tv – ha finora caratterizzato le cronache relative all’omicidio della giovanissima Sarah Scazzi ad Avetrana. Trattasi di dichiarazioni, infatti, categoriche, puntuali, riscontrabili, ben dimensionate nello spazio (i luoghi) e nel tempo (le date) e logicamente collegabili in modo tale da far trasparire un contesto ambientale (ed esistenziale) dai contorni coerenti, netti, realistici: per forma e per sostanza, è catalogabile come una delle testimonianze ritenute in genere di primo livello (cioè, “ottimali”) da qualsiasi magistrato inquirente che sappia distinguere il verosimile da quel che trasuda chiacchiericcio. Sarah non entrò quel giorno in casa Misseri. Il papà di Sarah girava per il paese a bordo di macchinoni troppo costosi per il tenore di vita di un muratore. E poi: la cocaina e i bilancini ritrovati nella villa al mare della famiglia di Sarah pochi giorni dopo l’omicidio. La paura (non nascosta) in cui viveva il papà di Sarah. La sua esigenza di spiare la figlia quando usciva da sola o con le amiche quasi temesse una vendetta da parte di nemici inquieti per qualche sgarbo subìto. Qualche sgarbo, c’è da chiedersi, ma di che tipo? Forse riconducibile alla droga? O se no, a che cosa d’altro? Dati inquietanti, su cui è d’obbligo vagliare. Dati consequenziali. Che fanno contesto. Come contesto fanno i 100mila euro che spettavano a Sarah in eredità per decisione della nonna (e che ora finiranno ad altri). 100mila euro: una somma ingente, per la famiglia di un muratore di Avetrana, che – racconta la testimone – la sera della sentenza “è andata a festeggiare in pizzeria i due ergastoli a Cosima e a Sabrina con gli avvocati e qualche giornalista”. E poi c’è lui, il Misseri padre, la figura più inquietante, che si è accusato dell’omicidio ma che “guarda nel vuoto” – racconta la teste – se qualcuno gli chiede “se sia stato minacciato”, magari proprio “dai nemici arrabbiati del papà di Sarah”. Michele Misseri avrebbe “un ruolo marginale nell’omicidio”: ha soltanto “nascosto il cadavere”, sotto minaccia. E ciò spiegherebbe le sconcertanti incertezze e contraddizioni. Vero? Falso? C’è da chiedersi: quanto (non) è credibile Giovanna Angrisano? Ma soprattutto: quali motivi riscontrabili avrebbe mai di mentire? I giudici sono ancora in tempo per tentare di acciuffare la verità sul giallo di Avetrana. Questo di Retenews24 vuol essere – al di là della valenza giornalistica – un contributo in tal senso. Puglia dei Misteri, intricata e intrigante: da Ciccio e Tore, i fratellini di Gravina, provincia di Bari, inghiottiti nel 2011 chissà come (o per mano di chi?) nel baratro di un rudere col nome da favola (la Casa dalle Cento Porte), fino alla orrenda fine di Sarah Scazzi, adolescente senza colpe ad Avetrana, provincia di Taranto. Per i fratellini un tribunale ha concluso che sarebbero precipitati da soli, durante un gioco. E che dunque non c’è colpevole. Per Sarah, forse, è possibile giungere a una verità meno amara. E, si spera, un po’ più credibile.

“Salve, ho seguito i suoi blog sul processo di Avetrana, e mi ha molto incuriosito la sua tesi per cui le due donne siano vittime di errori giudiziari. Ma lei è un avvocato? in tal caso potrebbe spiegarmi meglio questa sua tesi, magari sentendoci. Io sono una giornalista e magari potrei fare un articolo su questa tesi”, mi chiede Adriana Costanzo di “Rete News 24”, un giornale online di Napoli.

«Dr.ssa Costanza, accettando la sua richiesta di amicizia, la reputo un’amica, ma non le nascondo il mio ribrezzo nei confronti di chi, dietro l’aurea del giornalista o dell’avvocato, nasconde la sua approssimazione o ignoranza. Non è il suo caso, in quanto non la conosco. Il blog è uno strumento di divulgazione di opinioni personali; un sito web istituzionale o informativo è uno strumento di divulgazione di notizie ed informazioni tematiche o territoriali. I social network sono luoghi telematici dove ci si incontra come si fosse in una piazza virtuale. Io ho dei blog, dei siti web istituzionali, dei canali youtube con centinaia di video e sono presente su vari social network. In tutto quanto indicato l’unica tesi che adotto è che dietro a tutto quello che i media ci propinano c’è un’altra realtà ed io sto lì a dimostrarlo. Sono un giornalista o un avvocato? No! E me ne vanto. Se non fosse che nell’esserlo ne risponderei in termini di libertà e non di competenza. Abilitazione uguale a omologazione. Subisci e taci e non rompere il cazzo. Se sei diverso e ti ribelli: sei fuori. Ed io sono fuori dall’essere giornalista od avvocato. Detto questo, dovrebbero definirmi un po’ più che un semplice blogger. Ma lo fanno per sminuirne l’immagine. E ripeto, non è il suo caso. Ora veniamo alle risposte alle sue domande. Dopo aver scritto ed autopubblicato il libro “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Quello che non si osa dire”, il sequel è già in rete (work in progress), “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana. La Condanna e l’appello. Il resoconto di un Avetranese. Quello che non si osa dire”. Sono tomi che raccontano l’Italia in generale e Taranto in particolare dove la vicenda è inserita. Ogni protagonista ha una storia e va raccontata. Magistrati, avvocati, cittadini: io li conosco e li racconto e questo dà fastidio. Essere colpevolisti o innocentisti è facile e si ha ampia sponda da una parte o dall’altra della barricata, basta essere ignoranti nella materia di cui si discute ed aver molta cattiveria. Ed eccoli là, i talebani ideologici che appaiono con i loro commenti astrusi e volgari, come se non avessero un cazzo da fare tutto il giorno se non stare dietro alle disgrazie altrui. E’ dura la vita, invece, se in questa Italia si vuol esser garantisti e pronti a pagarne le ritorsioni. Ci si trova da soli a dover spiegare le regole della ragione che improntano le regole giuridiche, le quali basano le regole sociali. Non posso non notare, in calce agli articoli di stampa, i commenti degli ospiti. Spesso e volentieri sono considerazioni di chi, a spada tratta, difende l’operato dei magistrati, che per il volgo, sono infallibili a prescindere, nonostante lo stesso volgo sia digiuno di nozioni giuridiche per poterne cadenzarne le capacità. «Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa.» Non ragioniam di lor, ma guarda e passa è un celebre verso della Divina Commedia di Dante, diventato un modo di dire comune, sebbene con numerose varianti, uguali nel senso, ma storpiate nel testo (non ti curar di loro, non parliam di loro...). Nel Canto III dell'Inferno, al verso 51, Virgilio, guida di Dante, sta descrivendo i cosiddetti "ignavi" (un'attribuzione – in realtà – mai usata da Dante ma nata in seno alla critica), cioè i vili, "coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo". Dante, infatti, ha una pessima opinione di quelli che, per viltà, nella loro vita non si schierarono mai (gli ignavi), a differenza di lui il cui destino – si pensi solo alla condizione di esule – fu proprio segnato dall'aver abbracciato idee politiche. Egli li pone nell'Antinferno, una collocazione che permette che i dannati possano perfino sentirsi superiori a loro: i malvagi, almeno, hanno scelto una strada, hanno preso una posizione, seppur quella della perdizione. Per questo fa pronunciare a Virgilio la sdegnosa frase: di loro, che nessuna traccia hanno lasciato nel mondo, non vale neppure la pena parlare. Nel linguaggio comune questo modo di dire viene usato con un tono di biasimo, rivolgendolo a quelle persone per le quali non vale nemmeno la pena di sprecare parole di condanna: si deve solo andare oltre, soprassedendo in silenzio. Per questo io non commento il pensiero altrui, ma direttamente lo elevo a degno di essere inserito nei miei libri su Sarah Scazzi, citandone l’autore. In modo che i posteri possano leggerne il senso ed assorbirne la sapienza. Alla faccia di quegli italiani che sempre hanno da ridire sulla pagliuzza negli occhi altrui. Gli italiani son così. Secondo Giacomo Leopardi: “i caratteri più vivaci e caldi di natura, com’è quello degli Italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze [...]. Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci [...] unisce la vivacità naturale [...] all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curar gran fatto della stima e de’ riguardi altrui”. Da Il Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani (forse 1824, inedito fino al 1906). Oggi, ancor di più, ove ve ne fosse bisogno, la TV è responsabile del degrado culturale della società italiana. L’influenza negativa è dei mass-media ed in particolare della televisione, presente in tutte le case, e per molti cittadini l’unico mezzo di informazione e, spesso, di intrattenimento. Il sistema politico ed istituzionale registra passivamente la nefasta influenza della TV sulla comunità, le famiglie, i giovani. E’ facile e comodo, non capire e non sapere di che si discute, ma come nei discorsi da bar, accapigliarsi per partito preso. E gli italiani, io, li conosco bene. Falsi buonisti: pronti a scalar montagne per i loro cazzi e ad esser indifferenti alle disgrazie altrui, come, addirittura, a lasciar alla deriva i loro compagni di sventura. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu. In conclusione non penso di aver mai detto che le due donne siano innocenti, né tantomeno affermo il contrario. Io rivendico come giurista, fiero di non essere diventato avvocato in virtù di un esame truccato, il fatto che per Cosima Serrano e Sabrina Misseri siano applicate le ordinarie regole del Diritto. E mi creda, nei miei tomi sulla vicenda dimostro che questo non è accaduto ed i magistrati, come sempre, hanno fatto tutto ciò che a loro, addirittura, non era permesso. Un esempio? La sospensione reiterata dei termini di custodia cautelare in carcere non è applicata nemmeno per i più crudeli mafiosi e non ci si può paraventarsi dietro le pronunce degli ermellini nelle semplici sezioni, se a dettar la barra è intervenuta la Cassazione a Sezione Unite. Per dire, nel paese di Cesare Beccaria, per madre e figlia si chiude la cella e si butta la chiave. Da presunte innocenti e con un dichiarante confessorio colpevole in libertà.»

“Antonio è molto interessante ciò che ha detto. A me interesserebbe capire meglio la tesi per cui il processo alle due donne non sia stato fatto in termini corretti, se ci sono vizi e altro in questo senso potrei scrivere un articolo che spiega la situazione da un altro punto di vista poi, come vuole essere definito lo può decidere lei.”

«Ci sono qualità che sono apprezzate solo se conosciute e ci sono definizioni che vengono affibbiate secondo convenienza. Di sicuro, ed è un dato inconfutabile, sono avetranese. E questo sul caso dell’omicidio di Sara Scazzi è prevalente. Il mio resoconto è esclusivo. In video e in testi. Non conosco lei personalmente, ma conosco il lavoro svolto da centinai di giornalisti qui ad Avetrana. Giornalisti e tv arrivati sin dal primo giorno della scomparsa in un paesino anonimo dell’alto Salento. Arrivati per un evento di cui gli stessi avetranesi non ne erano ancora a conoscenza. Penso che il gran numero possa esser rappresentativo di una categoria e, detto questo, non meritano il mio rispetto. Ad Avetrana solo due giornaliste si sono elevate al grado di correttezza ed imparzialità: Maria Corbi de “La Stampa” ed Ilaria Cavo di Mediaset. Il loro pensiero è stato inserito di diritto nei miei libri che parlano del delitto di Sarah Scazzi. Rispondo alle sue domande solo perché apprezzo il suo lavoro ed i suoi articoli saranno inseriti di diritto, citandone la fonte, nei medesimi libri. Come per esempio la tesi della pista satanica evocata da Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, la quale non nasconde la sua appartenenza ai testimoni di Geova. Inserita tra i miei libri sarà anche l’intervista a Giovanna Andrisano. Tipico esempio di come si può fare informazione non omologata. Nessuno ha prospettato una tesi diversa da quella canonica. Lei è andata a trovare una notizia diversa dalle altre. Nessuno ha mai intervistato quella ragazza. Così son fatti i miei libri su Sarah. Si raccontano i fatti attraverso tutti i documenti del processo e si riporta, citandone gli autori, questioni interessanti affrontate in modo imparziale. Questo è il mio resoconto in estrema sintesi del mondo dell’informazione.

Per quanto riguarda gli avvocati. Mi chiedo come abbiano fatto tutti i principi del foro ad arrivare ad Avetrana ed a proporsi in modo gratuito. L’avvocato Russo è stato convocato a rendere conto del suo operato, gli altri, no! Poi un’altra cosa. Il processo, per opportunità, non doveva tenersi a Taranto, ma solo l’avv. Coppi ha avuto il coraggio di chiedere la rimessione del processo in altra sede per legittimo sospetto che i giudici non fossero sereni nel giudicare. La Cassazione ha respinto. Non tutti sanno, però, che la norma in oggetto è sempre disapplicata dagli ermellini. Sia mai che si leda l’infallibilità delle toghe. Comunque tutti gli avvocati di Sabrina, e ne ha cambiati tanti, son tutti concordi nel credere alla sua innocenza, compresa Francesca Conte.

Per quanto riguarda i consulenti tecnici, c’è da dire che chi è partito a sostenere una parte è finito ad avvantaggiarne un’altra. La criminologa Roberta Bruzzone, con il primo avvocato di Michele Misseri, Daniele Galoppa,  è accusata dallo zio Michele di Avetrana  per averlo indotto a dire il falso ed ad accusare la figlia. Alessandro Meluzzi consulente della famiglia Scazzi, sicuro della colpevolezza di Sabrina, cambia repentinamente idea e da tempo è convinto della sua innocenza.

Per quanto riguarda i magistrati c’è da sottolineare che in appello il sostituto procuratore generale, Pina Antonella Montanaro, è lo stesso Pubblico Ministero del caso Sebai. Un caso degno di essere annotato negli annali della malagiustizia. Serial Killer non creduto, ma condannato per l’unico omicidio per il quale non vi erano stati trovati colpevoli. Per gli altri delitti ci sono condannati che in carcere si professano innocenti. Il Giudice a latere, Susanna De Felice è il giudice che ha assolto Niki Vendola. La Procura di Taranto, nella persona del dr Pietro Argentino, è sminuita nella sua credibilità, in quanto indagato per falsa testimonianza in quel di Potenza.

Per quanto riguarda il processo la Corte di Appello ha accolto la richiesta dell’accusa di sospendere i termini di custodia cautelare. Strano. La dottoressa Montanaro, non appena ha avuto la parola dal giudice, si è premurata di chiedere la sospensione dei termini di custodia cautelare. A suo dire la richiesta è d'obbligo perché il processo sarà particolarmente complesso e perché ci sono sentenze della seconda sezione di cassazione che permettono tale sospensione. Non è possibile che la dottoressa Montanari non conosca l'orientamento, e le sentenze, delle sezioni unite di cassazione. Sezioni Unite che superano per importanza le singole sezioni (l'ultima e del 7 luglio 2014). In un secondo grado di giudizio di natura cartolare e con ampie richieste delle difese respinte, come si fa a dire che il processo sarà particolarmente complesso, anziché chiedere al giudice di verificare, eventualmente più avanti, se davvero il processo sarà talmente complesso da superare i termini di custodia cautelare? Motivo per cui la sua richiesta sarebbe dovuta essere respinta anche se le difese hanno obiettato solo con un gesto simbolico, con una reprimenda per l'intempestiva richiesta della PG.

Per quanto riguarda il fulcro del processo c’è una cosa da dire. In un processo indiziario, appunto gli indizi, per formare una prova devono essere gravi, precisi e concordanti. E questo nel processo non risulta. Orari tirati da tutte le parti; testimonianze dubbie e/o oniriche, perizie contestate ed incomplete. Ma non stiamo qui ad arzigogolare su veri o presunti indizi fonte di condanna, o veritieri o meno convincimenti personali di magistrati, avvocati e consulenti tecnici e sorvoliamo su efficaci o meno interpretazioni delle intercettazioni ambientali e telefoniche. Soffermiamoci su un fatto. In ogni Ordinamento Giuridico mondiale la confessione di un evento di cui se ne dichiari la paternità è considerata la prova regina. Per scardinare la volontà del responsabile a confessare gli investigatori arrivano ad adottare anche la tortura psicologica, se non addirittura fisica. E spesso riescono a far confessare delitti mai commessi. Bene. Ad Avetrana abbiamo un reo confesso che, a sostegno inequivocabile della sua confessione, ha fatto trovare il corpo della vittima del reato da lui confessato. Tale confessione è reputata dall’accusa e dalle parti civili e dichiarata dalla Corte d’assise di primo grado: inattendibile. Diverso è invece l’atteggiamento nei confronti della versione accusatoria nei confronti di Sabrina: attendibilissima. Le dichiarazioni di Michele sono credibili solo a convenienza.

Una cosa in particolare mi preme affermare. Michele può essere considerato responsabile reo confesso del delitto o bugiardo patentato. Sabrina può essere considerata efferata assassina o innocente sacrificale. Tutto ciò è opinabile basando il giudizio su vani indizi: non precisi, non certi, non concordanti. Ma su Cosima cosa c’è? Il sogno di un fioraio. E ciò basta a far marcire in carcere un essere umano. Sarà che sono conscio del fatto, attraverso la mia privilegiata conoscenza della giustizia italiana, che troppi innocenti stanno in carcere.

Sarà che non ho fiducia nei magistrati italiani, conoscendoli, non solo per come operano, ma anche per come diventano tali. Ma credo che, siano essi innocenti o colpevoli, i protagonisti della vicenda meriterebbero un processo equo da parte di magistrati non influenzati per colleganza di Foro da eventuali errori commessi nelle fasi precedenti dai colleghi d’accusa e di giudizio. Anche nella prospettazione del reato. Si è escluso per principio l’omicidio colposo o l’omicidio preterintenzionale. Perche? Perché di esseri umani discutiamo in questa intervista e si discute nei fascicoli di causa. Non di inchiostro nero su carta bianca. E perché solo di verità si nutre la giustizia e la rimembranza della povera piccola Sarah. Detto questo non sono innocentista. Non sono neanche colpevolista. Ma da degno giurista: sono un semplice garantista e spero, nel profondo del cuore, che lo siano Magistrati e Media. Ed ognuno, con la propria verità, siano molto vicini alla verità storica. Purtroppo io dispero. Sin dalle prime fasi ripeto a dire che tutti saranno condannati a Taranto, in primo ed in secondo grado. Sarà la Cassazione a Roma, in lontani lidi, a rinfrancare la giustizia.»

Sarah Scazzi. Le strane contraddizioni nei termini e la paura che dopo oltre quattro anni Sabrina Misseri esca dal carcere... scrive Massimo Prati sul suo blog “Volando Contro Vento”. Prima di parlare della prima udienza del processo alla Corte d'Appello di Lecce, nella sezione distaccata di Taranto, faccio una premessa. Ricorderete tutti il precedente processo celebrato tra il 2012 e il 2013 nella Corte di Assise di Taranto. Quel processo in cui si è voluto solo tracciare il profilo assassino di Sabrina Misseri e sua madre Cosima senza vagliare altre possibilità. Ricorderete tutti che in quell'occasione la pubblica accusa riuscì nel gioco di prestigio mai tentato da nessuno, quello più illogico e difficile, il gioco di prestigio a cui non avrebbe creduto neppure Spongebob, la mitica spugna dei cartoni animati che beve ogni parola gli viene propinata, il gioco di prestigio che invece ebbe un grande impatto emotivo, il gioco di prestigio complesso che si prefiggeva di trasformare strani personaggi in testimoni capaci a loro volta di trasformare un sogno in realtà. Una roba che non sarebbe riuscita neppure a David Copperfield, una roba che di solito si vede solo nei fumetti per l'infanzia e che invece venne ingurgitata tutta d'un fiato sia dai giudici, togati e non, sia dalla maggioranza dell'opinione pubblica. Riassumo i vari passaggi a beneficio di chi non l'avesse capito e ancora oggi fosse convinto di aver assistito a una rappresentazione reale di ciò che si chiama processo penale. In pratica nel tribunale tarantino si portarono in un'aula di giustizia alcune persone, forse prese a caso fra i tanti colpevolisti avetranesi che si raccoglievano in piazza, presentandole al pubblico plaudente in maniera che non sembrassero ciò che in realtà sembravano. Per creare l'immagine giusta li vestirono coi panni degli attendibili testimoni colpevolisti e li gettarono nella mischia grezzi, certi che il loro infantile modo di fare, di parlare e ricordare in maniera alquanto strana, avrebbe fatto breccia nei cuori e addirittura invogliato più di qualche giurato a un'adozione. Un po' come si fa nei canili quando si festeggia la giornata dell'adozione e i cani ti guardano docili, tutti puliti e profumati di fresco. Qui mi fermo un attimo e per associazione di idee chiedo a tutti voi se sapete che fine ha fatto il canile che doveva essere dedicato a Sarah. Ad Avetrana non ve n'è traccia. Se sapete che fine ha fatto l'associazione non a scopo di lucro fondata da sua madre Concetta a novembre 2010 e seguita da Claudio Scazzi e il suo avvocato Antonio Cozza - quella del calendario e del libro, per intenderci, quella che raccoglieva le donazioni popolari tramite il sito www.sarapersempre.it - anche questo scomparso da internet dopo aver raccolto donazioni. E visto che ci siamo, mi piacerebbe sapere che fine hanno fatto i denari donati all'associazione, perché non vorrei fosse vero quanto qualcuno mi ha sussurrato all'orecchio sinistro...Ma lasciamo stare il canile e torniamo al gioco di prestigio per parlare della parte centrale dello spettacolo e del testimone per eccellenza, una donna, una dilettante signora in giallo - ora emigrata in Germania - che pur non avendo visto e non sapendo nulla sentiva voci e le riportava. E' grazie a questa trasformista dello spettacolo che gli effetti speciali programmati sono esplosi nella mente di chi doveva sentenziare. Ed anche se la sua testimonianza a processo è risultata chiaramente marcia e sconclusionata nelle date e nel racconto, date non verificate dal giudice e racconto che solo lei narrava diverso dall'originale, la sovraesposizione mediatica cui si era sottoposta e si stava sottoponendo, una sorta di cura che la costringeva a mantenere giovane la pelle (almeno sullo schermo), ha permesso ai Pm, non visti, di stendere il telo nero sul sogno, telo obbligatorio nei giochi di prestigio che si rispettino perché nasconde allo spettatore ciò che non deve né sapere né vedere, e di completare l'opera di trasformazione che sotto l'egida del pregiudizio, già sparsa a piene mani dai media, ai più è parsa un aura lucente capace di dissetare la mente vogliosa di sommaria giustizia. Tutto il gioco di prestigio era un miraggio, naturalmente, niente di tangibile e reale. Ma lo scalpore che suscitò convinse i giurati di essere immersi in una realtà a tre o più dimensioni... un po' come quando si va al centro commerciale e si entra in un container che proietta film di dieci minuti in cui i dinosauri ti alitano in faccia e quasi ti toccano. In pratica, quindi, la sentenza di primo grado nacque da un gioco di prestigio incredibile da credere ma valorizzato dai giudici perché davvero stupefacente. Ora, per tornare ai giorni nostri, è capitato che venerdì 14 Novembre fossi a Taranto ad assistere alla prima udienza del processo d'appello che vede coinvolti non solo la famiglia Misseri, ma anche chi, stoicamente e senza averne nulla in cambio (se non una condanna per favoreggiamento), durante il primo processo ha resistito restando sulle proprie posizioni. Naturalmente parlo dei parenti di Giovanni Buccolieri che in corte d'assise non hanno ceduto alle spallate dell'accusa e insistito nel dire che in famiglia si era sempre parlato di un sogno e non di un fatto realmente accaduto. La dilettante signora in giallo invece, quella che ha partecipato al gioco di prestigio, parlando solo per sentito dire (quindi di chiacchiere... che in un processo mai dovrebbero entrare) aveva sostenuto esattamente il contrario. A questo proposito bisognerebbe che almeno l'attuale pubblica accusa, ma dovrebbero farlo anche tutti gli italiani, si chiedesse il motivo per cui quelle persone continuino, come il fiorista non imputato in questo processo, a perseverare con una versione che per loro comporta solo notevoli spese legali. Per quale motivo i parenti del fiorista, come il fiorista stesso, se sanno di mentire continuano ad insistere su una versione che li ha visti condannati? L'unica risposta plausibile e che non stanno affatto mentendo, che davvero alla famiglia (ma anche agli amici) Giovanni Buccolieri ha sempre parlato di un sogno. Apro una parentesi per informarvi del fatto che solo il sei giugno scorso si sono chiuse le indagini sul sogno del fiorista. Ai Pm ci sono voluti tre anni per capire se Buccolieri mentiva o meno, un'eternità per un fatto del genere che non necessitava di perizie tecniche. Un'eternità investigativa se paragonata ai nove mesi bastati per chiudere le indagini sulla morte di Sarah. Ma in fondo, a chi non soffre di pregiudizio è chiaro il motivo per cui la procura non abbia portato ancora a processo il fiorista. Se un giudice avesse già giudicato Giovanni Buccolieri, magari dichiarandolo innocente perché davvero spinto a firmare un verbale che non conteneva la verità, come poteva esistere un processo d'appello basato solo su quel sogno trasformato in realtà? E questa è la contraddizione delle contraddizioni. Un processo minore che dovrebbe essere celebrato prima per capire se il maggiore ha motivo di esistere, visto che il minore funge da stampella che sorregge l'accusa nel maggiore, forse non sarà neppure celebrato perché si porterà avanti sino alla prescrizione, ormai sicura data la durata delle indagini, per fare in modo che non incida in alcun modo nel processo maggiore. Potrebbe capitare, quindi, che le Misseri vengano condannate definitivamente senza che la giustizia ci dica se Giovanni Buccolieri ha sognato oppure visto realmente. E data questa grave incongruità, fa strano che nella prima udienza d'appello le contraddizioni le abbia trovate chi sostiene l'accusa, il sostituto procuratore Antonella Montanaro. Per il procuratore generale, infatti, è contraddittorio il fatto che l'avvocato di Michele Misseri abbia chiesto alla Corte una perizia psichiatra per il suo assistito, o al limite di usare quella redatta dalla dottoressa Casale, e contemporaneamente anche di farlo testimoniare. Questo il sunto della sua opposizione: "Se Misseri è pazzo non può testimoniare, se lo si vuol far testimoniare significa che non è pazzo". Mi scuserà la dottoressa Montanaro se la critico e dico che più che l'avvocato Latanza è lei che si è contraddetta nei termini. Credo che sappia molto bene, infatti, che esistono perizie psichiatriche che servono a stabilire se una persona ha commesso un crimine mentre era in uno stato di incapacità psichica. "Incapace di intendere e volere al momento del delitto", questa formula si legge continuamente sugli atti processuali ed è chiaro che l'incapacità momentanea può derivare da eventi passati e non inficia una testimonianza postuma, quando la deficienza del momento oramai non c'è più (anche se potrebbe tornare). Ma non è l'unica contraddizione in cui è caduta la pubblica accusa, e mi scuso ancora per le critiche, dato che ha insistito su una sorta di perizia, in realtà poche righe, eseguita dalla dottoressa Bruzzone, in quel momento consulente del Misseri ed ora sua antagonista in un prossimo processo, che in qualità di psicologa aveva attestato la sanità mentale del suo cliente. Ora c'è da dire che nessuna Corte di giustizia italiana ha mai chiesto alla dottoressa Bruzzone di fare perizie psichiatrico forensi. Inoltre, immagino che la dottoressa Montanaro, molto preparata (davvero), sappia bene che per fare una perizia seria di solito la Corte sceglie un collegio peritale e non un solo psichiatra. Quindi, perché tirare fuori quanto scritto in quattro righe dalla Bruzzone? Le perizie forensi sono molto più corpose e necessitano di tempo e molti incontri. Non è che l'accusa teme l'esito della perizia psichiatrica di un eventuale collegio imparziale? Che la procura si sia impantanata a causa dei suoi giochi di prestigio, che le hanno portato via tempo, per me è lampante e lo si evince dalla paura di vedere Sabrina Misseri fuori dal carcere. Paura mostrata subito dalla dottoressa Montanaro che non appena ha avuto la parola dal giudice si è premurata di chiedere la sospensione dei termini di custodia cautelare. A suo dire la richiesta è d'obbligo perché il processo sarà particolarmente complesso e perché ci sono sentenze della seconda sezione di cassazione che permettono tale sospensione. Ma anche in questo caso non è possibile che la dottoressa Montanari non conosca l'orientamento, e le sentenze, delle sezioni unite di cassazione. Sezioni Unite che superano per importanza le singole sezioni (l'ultima e del 7 luglio scorso). Motivo per cui la sua richiesta dovrà essere respinta anche se le difese hanno obiettato solo con un gesto simbolico, con una reprimenda per l'intempestiva richiesta della PG e chiedendo al giudice di verificare, eventualmente più avanti, se davvero il processo sarà talmente complesso da superare i termini di custodia. Più toste sono state le spiegazioni portate dal dottor Coppi che prima di introdurre le sue richieste ha elencato i vari "abusi" perpetrati nel tempo dalla procura di Taranto contro la sua assistita. Una frecciata è toccata anche al Gip Martino Rosati che, in merito alla richiesta della difesa di interrogare in carcere Michele Misseri, nel gennaio 2011 impose al collegio difensivo di non fare domande sul delitto. Un po' come andare a Maranello a parlare con Marchionne della McLaren o della Mercedes. Insomma, il processo d'appello è appena iniziato e già si preannuncia carico di pathos e tensione. Sabrina e sua madre, ormai allo stremo, sono chiuse dietro un vetro come i serpenti di un rettilario e tutti i presenti possono ammirarle oppure, come ho visto fare da persone sedute a pochi passi da me, guardarle e sogghignare. Lo spettacolo processuale però è niente se paragonato a quanto accade al di fuori dell'aula. Mentre i giornalisti sono stipati in galleria come polli da stia, i cameraman sempre all'erta riposano e scherzano fra loro nei corridoi. Ma come qualcuno esce dall'aula il movimento si fa frenetico. La sala stampa si svuota e i cameraman corrono. Venerdì c'erano tutti i giornalisti più noti, sia quelli della stampa locale che quelli dei media nazionali. Naturalmente le interviste si son susseguite a ritmo incalzante e non sono mancate le solite parole di sfregio contro Michele Misseri. A partire dai legali della famiglia Scazzi che hanno continuato a dargli del buffone con parole come: "Continua la recita del trasformista" e " Disgustati di vedere e sentire Misseri fare le sue sceneggiate". A questo proposito, e in tutta sincerità, se si può accettare che una madre a cui hanno ucciso una figlia insista nel chiedere all'imputata che crede colpevole di dire la verità, quella che lei pensa vera, non so quanto possa essere deontologicamente corretto per un legale parlare in maniera sprezzante degli imputati che ancora devono essere condannati in via definitiva. Le persone ascoltano le interviste, le leggono, le guardano in televisione e per il sempliciotto comune che neppure ha letto una pagina degli atti, come d'altronde tanti giornalisti, sentire un avvocato che parla in siffatta maniera diventa un incentivo a parlare uguale se non addirittura peggio. Infatti anche venerdì non è mancato l'imbecille che ha inveito contro Michele Misseri e il suo avvocato, che certamente farà partire una denuncia perché a nessuno piace ascoltare minacce, con parole del tipo: "Per te e la tua famiglia ci vorrebbe una tanica di benzina".

Sabrina Misseri. La legge è legge? Continua Massimo Prati sul suo blog “Volando Contro Vento”. Per i "grandi giudici", quelli di spessore, ci sono due cose che valgono e contano più di qualsiasi cultura giuridica. Una è la logica di quanto entra e viene detto nella loro aula, che mai deve trasformarsi in fantasia, l'altra è il buonsenso che li aiuta a scegliere la linea giusta da seguire e ad emettere giuste sentenze. I giudici dotati di logica e buonsenso impastano la malta portata dalla procura solo se fra gli indizi vedono il cemento buono a renderla solida, mentre i giudici senza logica e buonsenso si possono paragonare a monotoni muratori destinati per la vita ad usare la calce fornita dai procuratori per costruire muri e gabbie senza cemento in cui rinchiudere chiunque, anche gli innocenti e chi testimonia in loro favore (vedi per tutti Domenico Morrone). Ma queste ultime sono gabbie friabili destinate a sgretolarsi e, magari dopo anni, a far capire quanto siano stati incompetenti certi giudici e certi procuratori. Ora, parlando dell'omicidio di Sarah Scazzi, c'è da dire che siamo nella fase iniziale del processo d'appello e che ancora non si può dire che nell'aula della sezione distaccata del tribunale di Taranto non entrerà il cemento. Questo nonostante i tanti rifiuti imposti dal giudice che in pratica ha snobbato le difese e ammesso solo la telefonata fatta la notte dell'arresto da Sabrina Misseri a suo padre (in cambio l'accusa di telefonate ne ha ottenute due). Il guaio è che rigettare certe richieste significa impedire ai giurati di comprendere meglio i veri avvenimenti accaduti dal 2010 in poi, avvenimenti su cui tutti i giudici popolari hanno già un'idea formata, dato che sono abbonati Rai e guardano la televisione, un'idea che non si modificherà perché nessun perito parlerà a processo dello stato psichico in cui si trovava Michele Misseri nel 2010. Forse il buonsenso avrebbe preteso di chiedere a un collegio peritale di scandagliare la sua mente per capire almeno la sua personalità e quando, e quanto, sia stato davvero bugiardo. Invece non solo in tribunale non ci saranno né perizie né psichiatri, ma neppure sarà permesso al contadino di testimoniare nuovamente. Ciò che fa strano e fa pensare non è il rigetto del giudice, ma come la pubblica accusa, a parole convinta come i suoi predecessori della colpevolezza di Sabrina e Cosima (così come la parte civile che a sua volta si è opposta alla richiesta dell'avvocato La Tanza), non abbia agevolato l'entrata della perizia psichiatrica. In fondo se la ricostruzione accusatoria portata a processo fosse veritiera, gli psichiatri avrebbero certamente scritto che Michele Misseri, pur avendo una personalità complessa, è capace di intendere e volere (ed allora lo era anche quando accusò la figlia) e di testimoniare. Per cui la dottoressa Montanaro avrebbe avuto partita vinta senza neanche presentarsi di fronte alla corte. Chi poteva contrastarla se si fosse riscontrata la completa sanità psichica nell'uomo che in un mese cambiò tante versioni? Nessuno avrebbe potuto dire niente, Michele Misseri sarebbe diventato davvero il trasformista di cui parla sempre la parte civile, stop alle ciance, processo finito e chiavi delle celle gettate fra i rovi. Però il pubblico ministero e la parte civile hanno posto al giudice un divieto assoluto. Chiedersi il motivo di questa loro condotta è d'obbligo e la risposta facile e banale. Non serve neppure aver studiato all'università per comprendere che la posizione intransigente assunta spiega il motivo per cui mai nessuno ha voluto fare una perizia psichiatrica a Michele Misseri. A chi è dotato di logica, infatti, non può sfuggire che l'opposizione della pubblica accusa e della parte civile significa che né l'una né l'altra hanno la sicurezza che Sabrina e Cosima siano davvero colpevoli. Le vogliono in galera a tutti i costi, è vero, eppure non cercano di dare concretezza a ciò che chiamano indizi concordanti. E' facile parlare, far credere all'opinione pubblica che si è nel giusto quando i media, grazie all'emotività sparsa a piene mani, hanno provveduto a pulire il campo dagli ostacoli. A parole si possono dire tante cose, anche esternare la certezza di una colpevolezza e chiedere più ergastoli o 33 milioni di risarcimento. Il problema sorge quando alle parole dette ad alta voce si deve dare un seguito concreto, quando è il momento di agevolare i giurati affinché capiscano che non si è sbagliato nulla, quando si deve dimostrare in maniera solida e inattaccabile la realtà di ciò che si è detto e si continua a dire. Chi non cerca la certezza di una ipotesi accusatoria, anzi si rifiuta di mettere in campo ogni mezzo per accertarla e si affida al pregiudizio che di certo i giudici popolari hanno maturato nel tempo, dimostra di non essere modellato con pasta da Uomini. Chi non cerca la concretezza per raggiungere lo scopo prefissato, chi preferisce trovare scappatoie diverse e spera che basti l'immobilismo a non scalfire le convinzioni pregresse in chi deve giudicare, dimostra di temere la strada principale, di temere la verità. Nel caso in questione, evidentemente si è cercato di non far entrare in aula nulla in più di quanto non sia già stato scritto in 1630 pagine tristi della nostra giustizia, neppure la perizia psichiatrica riguardante la personalità di un imputato. Forse qualcuno teme che i giochi di prestigio imbastiti in questi anni vengano scoperti. Forse non si vuole che il fumo degli effetti speciali si dissolva a causa di poche righe scritte da periti psichiatri. Perché è incredibile che un simile processo si ritrovi monco di chi ha fornito alla procura il fuoco per accendere le polveri. Michele Misseri, da tempo accantonato e bollato a bugiardo da chi non ha esperienze psichiatriche, da chi non avendogli fatto fare alcuna perizia parla per proprie convinzioni, è il punto cardine da cui è partita l'inchiesta. Lui è chi il 6 ottobre 2010 si è dichiarato colpevole d'omicidio e occultamento di cadavere. Se non avesse voluto, mai nessuno avrebbe trovato il corpo di Sarah e mai nessuna indagine avrebbe potuto riportarlo a sua madre. Questo perché la procura lo aveva emarginato a lato delle indagini e solo il 29 settembre, a causa del cellulare dallo stesso fatto volutamente ritrovare, l'ha pensato coinvolto. Lui ha portato i procuratori alla cisterna, lui ha detto che Sarah era entrata nel suo garage, lui ha dato il via all'indagine e senza di lui ora la piccola Scazzi sarebbe una misera foto postata a lato di un trafiletto sul sito di Chi l'ha Visto. Michele Misseri doveva entrare in questo processo d'appello perché ha dimostrato di avere una coscienza. Una coscienza che sapendolo colpevole non gli permetteva di vivere la sua solita vita a contatto con gli altri. Ed è proprio questa coscienza che lo ha aiutato a correggere alcuni "file" della sua psiche e a confessare il primo degli orrori che ha commesso. Sarah non potrà più tornare in vita, è vero, ma ora ha un posto in cui riposare in pace, un posto su cui la famiglia e chi le voleva bene può pregare. Però non è l'unico orrore commesso dal contadino di Avetrana. Nella sua psiche c'è un altro "file" danneggiato che non riesce a correggere perché non gli permettono di scaricare il download giusto. Nessuno sa nulla di lui, del suo stato psichico, dei tempi che gli servono per comprendere e metabolizzare. Eppure grazie ai media e ai vecchi procuratori tutti pensano di sapere e tutti lo deridono additandolo a bugiardo patentato. Non lo derise e non lo additò chi lo aveva incontrato in carcere, la dottoressa Dora Chiloiro che di fronte al Gup Pompeo Carriere parlò dei suoi lunghi tempi di metabolizzazione, del suo bisogno di non essere "orientato" (per non andare in confusione e finire col dare risposte sconclusionate) e, soprattutto, del fatto certo che a lei diede sempre la stessa versione. Lui aveva ucciso Sarah, non altri, e sempre lui aveva accusato la figlia perché consigliato da qualcuno. Questo disse la psicologa Dora Chiloiro che poi venne indagata perché qualcosa nelle date che aveva fornito pareva non funzionare, tanto che si ripresentò di fronte al giudice e le modificò. Ma nonostante le sue precisazioni, su richiesta dei procuratori il Gip Martino Rosati la mandò a processo per falsa testimonianza. Però ora il processo si è chiuso e la dottoressa additata a bugiarda è stata riabilitata e assolta: non ci fu nessuna falsa testimonianza. Quindi Dora Chiloiro non mentì al Gup Carriere, quindi Dora Chiloiro disse la verità. Michele Misseri è un uomo che gran parte della propria vita l'ha vissuta in solitudine a ragionare con se stesso in una lingua che neppure somiglia all'italiano. Basta parlare con lui una sola volta, anche per poche ore, per capire quanto sia facile farlo entrare in confusione. Quanto sia deleterio insistere su un argomento che non sia parte stabile del suo "pane quotidiano", il suo lavoro, e fargli domande senza dargli il tempo di sistemare i pensieri e i concetti. Non ci vuole un'intelligenza superiore per rendersi conto che, sentendosi lui inferiore per studi ed esperienze intellettive, per non sentirsi dar ragione a prescindere conviene lasciarlo parlare a ruota libera senza forzarlo. E' una persona semplice con una mente semplice, come la maggioranza degli italiani che da sempre vivono in un nucleo sociale chiuso formato da sole persone semplici, per cui è facile comprendere come la sua mente contadina si sia trovata in difficoltà al momento in cui si è confrontata con tante menti giudiziarie più intelligenti ed esperte. Non lo sarebbe stata se si fosse confrontata con altri contadini o con persone del suo ambiente sociale. Non serve un genio per capire come abbia finito per fidarsi, anche a causa dello stato di detenzione che lo rendeva ancora più vulnerabile, delle parole di chi ne capiva più di lui. Un contadino che finisce al centro dell'attenzione mediatica non può ideare con mente agricola scappatoie giudiziarie come se avesse studiato legge. Non comprendere questo significa pensare che basti usare la parte superficiale dei crimini per fare vera giustizia. Per anni si sono usati i media per far credere quanto ad oggi pensiamo di sapere ma non sappiamo. E c'è da chiedersi chi metterebbe, dopo aver detto che Michele Misseri nei mesi di ottobre e novembre 2010 era un bugiardo patologico quando accusava se stesso e un candido chierichetto quando accusava la figlia, la sua mano sul fuoco. Per ciò che dicono e fanno la dovrebbero mettere i pubblici ministeri e gli avvocati della parte civile, ma visto quanto temevano una semplice perizia psichiatrica è certo che non la metteranno mai e che continueranno ad usare la volgare oratoria lasciando ai giurati il compito gravoso di decidere senza aver tutte le carte in mano. E giudicare un imputato senza avere in mano certezze e prove è alquanto difficile, visto che ci si deve affidare alla propria coscienza e convinzione (o al pregiudizio mediatico). La giustizia vera è un'altra cosa, una cosa che tutti i giudici dovrebbero applicare in maniera paritaria ma che, purtroppo, non tutti vedono e leggono alla stessa maniera. Infatti, nonostante i quattro e passa anni già passati in carcere, Sabrina Misseri si è sentita dire per l'ennesima volta che i termini della sua custodia cautelare saranno sospesi per tutta la durata del processo. Anche questa era una richiesta del pubblico ministero che il giudice ha pensato di accettare perché, o possiede una palla di cristallo o ha ragionato con pregiudizio, ha considerato il processo ancora da iniziare complicato, come ha considerato molto gravi le imputazioni a carico di Sabrina Misseri. Quali parametri abbia usato per sentenziare e dove li abbia estrapolati non si sa, visto che la cronaca giudiziaria è stracolma di processi complicati e di imputati che, pur avendo commesso omicidi orrendi, stanno aspettando le sentenze agli arresti domiciliari. Andrea Arcangeli ad esempio, un assassino con personalità incline al delitto. Scrisse il giudice che l'uomo aveva ucciso il suo amante occultandone il cadavere con modalità che denotavano una spregiudicatezza certamente non comune e una successiva condotta mendace mirata a sviare i sospetti che gli inquirenti nutrivano su di lui. Nonostante queste parole, nell'ordinanza in cui rilevò anche la sussistenza del pericolo di fuga e di reiterazione del reato non si ammetteva il rischio di inquinamento delle prove, visto che, anche se dopo mesi e solo perché messo alle strette, aveva confessato l'omicidio e condotto gli investigatori nel luogo dove aveva sepolto il cadavere. E la mancanza di questo terzo pericolo fu sufficiente per mandarlo ai domiciliari. Ma Andrea Arcangeli, arrestato i 3 luglio di quest'anno e mandato ai domiciliari il 4 luglio, non è l'unico assassino aberrante che aspetta il processo in casa propria. Anche Giancarlo Di Francesco, arrestato e subito rilasciato ad agosto, accusato di omicidio volontario e distruzione di cadavere in concorso con la sorella, è ai domiciliari. Lui ha ucciso suo padre, un sessantanovenne che vessava sua madre. Ma Giancarlo non è un ragazzino, ha 44 anni e le soluzioni per far cessare le vessazioni erano molteplici. Poteva denunciarlo e farlo arrestare oppure picchiarlo senza ucciderlo sperando che capisse. Invece ha preferito la giustizia sommaria. Non solo l'ha picchiato a morte, ma lo ha anche legato e bruciato dopo averlo portato in aperta campagna. Ma Andrea Arcangeli e Giancarlo Di Francesco sono in ottima e abbondante compagnia. A loro potremmo aggiungere Pasquale Tivella, che uccise senza motivo l'assistente capo della polizia penitenziaria Rossano Bastianelli e mentre era ai domiciliari andò a festeggiare il capodanno, e Salvatore Condemi, che dopo aver ucciso a coltellate la ex moglie davanti alla figlia di undici anni disse: "finalmente l'ho uccisa". Ma anche Franco Gabbi, che a coltellate uccise Roberto Picchi dopo una banale lite stradale, e persino il boss della mafia Gerlando Alberti junior, che uccise Graziella Campagna e a condanna definitiva inflitta si fece otto mesi di domiciliari (alla sua storia hanno dedicato anche un film). Insomma, la lista di chi ha ucciso in maniera efferata ed è libero in attesa di giudizio è lunga e contiene anche camorristi e mafiosi... ed ecco il punto, forse non abbiamo capito qualcosa che a Taranto sanno, forse abbiamo perso dei passaggi e non è vero che Sabrina Misseri è incensurata. Forse non ci hanno detto che, a giorni alterni o per hobby, lavorava come killer per la mafia. Chiedo scusa per l'imprecisione. Mi sono accorto dell'impossibilità che Sabrina Misseri lavorasse per la mafia. Questo perché in Puglia ai killer mafiosi non vengono sospesi i termini di custodia cautelare. Perché quando i termini scadono, i killer vengono liberati in massa anche se sono in procinto di subire una condanna all'ergastolo...

Procura di Taranto? No grazie. Continua Massimo Prati sul suo blog “Volando Contro Vento”. Incredibile a dirsi ma gli inquirenti che stanno indagando in maniera tragicomica sull'omicidio di Sarah Scazzi sono facili all'errore. Per capire come indagano alcuni magistrati tarantini occorre tornare indietro nel tempo, arrivare a meta degli anni '90 e sapere cosa in quel periodo è accaduto. Dal '94 al '97 in Puglia ci furono quindici omicidi quasi identici. Le vittime erano donne di una certa età uccise in casa con un coltello a serramanico. C'era un serial killer che si aggirava fra i paesini pugliesi e tutti gli abitanti, compresi i giornali e i giornalisti, erano convinti di questo. Quando dieci minuti dopo il quindicesimo omicidio fu arrestato Ezzedine Sebai, un tunisino con precedenti per tentato omicidio, violenza carnale, e tre decreti di espulsione mai eseguiti, tutto apparve chiaro, anche perché in casa sua furono trovate le prove della colpevolezza. Gioielli appartenenti alle vittime e la mappa dei delitti, ritagliata da un foglio di giornale, che con molta probabilità gli serviva per non passare nuovamente nello stesso paese in cui aveva già ucciso. La sua tecnica era chiara e lampante. Si fermava qualche giorno sui gradini delle chiese delle piccole città e chiedeva l'elemosina. Questa sistemazione gli dava modo di conoscere le donne che frequentavano la parrocchia. Una volta scelta quella giusta la seguiva fino a casa per controllare il luogo e, se non trovava particolari pericoli, aspettava un giorno ed agiva. Dopo aver ucciso e rubato lasciava il paese e col treno tornava a Cerignola, dove aveva un buco di casa, ed aspettava che le acque si calmassero prima di ripartire ed attuare la stessa tecnica in un altro luogo. Durante le indagini si scoprì che prima di andare a vivere in Puglia aveva aggredito, sotto falso nome, un'anziana di Potenza ferendola con dieci coltellate. Solo l'intervento del fratello parroco riuscì ad evitare il peggio. Ma la giustizia italiana in quel caso fu magnanima ed il tunisino, qualificatosi marocchino senza documenti, venne denunciato dai carabinieri per tentata violenza e rimesso in libertà con un nuovo foglio di via intestato a chi lui nemmeno conosceva.  Fatto sta che dopo il suo rilascio in Basilicata ci furono due anziane uccise a coltellate in casa propria. Qualche mese dopo, come fatto in precedenza dopo aver ricevuto i fogli di espulsione dall'Italia (in Trentino, nelle Marche, ecc...), cambiò zona, si spostò in Puglia e continuò ad uccidere. I carabinieri ed alcune Procure pugliesi avevano il sentore di trovarsi di fronte ad un serial killer, i magistrati di Taranto no. Da qui la decisione di prendere caso per caso e di indagare le cerchie famigliari ed i conoscenti delle vittime. Con questo sistema arrestarono e condannarono otto persone. Alcune gridarono la loro innocenza mentre altre, dopo interrogatori lunghi ed estenuanti, addirittura confessarono. Così Ezzadine Sebai fu ritenuto colpevole di soli quattro omicidi. Passarono gli anni; tutti i condannati urlavano dai carceri la loro innocenza, uno addirittura dopo sette anni di galera ingiusta si suicidò, ma chi li stava a sentire? Non facevano audience e la Giustizia italiana era abituata, forse lo è ancora, ad avere gli aiuti dei media che, gettando coltri di nebbia, proteggevano l'istituzione ed i suoi appartenenti. Così, in sordina, arriviamo al 2006 quando nel carcere di Milano il tunisino chiede di essere ascoltato dai pm. I procuratori vanno e ricevono ampia confessione per tutti gli omicidi di quegli anni passati in Puglia. Riferì particolari che solo l'assassino poteva conoscere e diede il nome di un ricettatore che, fatti i dovuti accertamenti, risultò avere ancora parte dei gioielli rubati alle vittime. C'era davvero il serial killer in Puglia e si chiamava Ezzedine Sebai. Ed ora che si fa, si saranno chiesti gli inquirenti, si libera chi è ingiustamente in galera? Non subito, si saranno risposti, prima di decidere decidere bisogna accertare, verificare. Così riprendono i casi uno alla volta e rifanno i processi al reo confesso mentre chi da sempre si grida innocente resta in carcere aspettando che tutti i gradi di giudizio condannino il vero colpevole. Come dire aspettate ancora qualche anno in galera perché anche se siete innocenti ci state bene. Da qui nasce il problema della Procura di Taranto? No, c'è altro ancora perché al peggio non v'è mai fine. Due delle tre indagini riguardanti le vittime di quella provincia vengono riaffidate ai magistrati che già anni addietro avevano sbagliato ad investigare ed a condannare. Ed infatti al processo succede ciò che sarebbe potuto sembrare imprevedibile ma in effetti non lo era. Il terzo pm, quello estraneo alle vecchie indagini, chiede 30 anni di galera per il tunisino colpevole, i due che le avevano sbagliate dieci anni prima chiedono l'assoluzione perché, non si capisce bene quale sarebbe il motivo, il Sebai si addosserebbe le colpe di altri. Un modo alquanto strano per nascondere i loro errori! Ma un magistrato può sbagliare, ci mancherebbe, sarà mica un'automa robotizzato? Insomma, se sbaglia una volta è anche capibile... certo, un po' meno se sbaglia di frequente. Uno dei pm che ha chiesto l'assoluzione del Sebai è Vincenzo Petrocelli; un nome tristemente noto, non certo una garanzia. Per capire il motivo per cui questo magistrato non è credibile bisogna ancora tornare indietro nel tempo, al 30 Gennaio 1991 quando i carabinieri si presentarono in casa di Domenico Morrone e lo arrestarono per duplice omicidio. Domenico aveva 23 anni ed un alibi di ferro. La mattina del delitto aveva fatto colazione al bar e si era fermato a parlare con un carabiniere che conosceva bene, poi era andato a fare un lavoretto a casa di una famiglia del vicinato ed una volta finito era tornato a casa a pranzare. Testimoni a suo favore erano il carabiniere, i membri della famiglia da cui aveva lavorato e sua madre... tutti condannati per falsa testimonianza. Vincenzo Petrocelli fu chi portò avanti le indagini e chi lo fece condannare a 21 anni di carcere; oltre a far avere pene varie ai testi ritenuti falsi. Morrone andò in galera e vi restò per quindici anni, fino a quando alcuni pentiti testimoniarono che un altro aveva commesso il duplice omicidio di cui lui era stato accusato e condannato. Tutto sbagliato, tutto da rifare! Sua madre dal dolore di quegli anni non s'è mai ripresa ed è finita su una carrozzina, lui ha perso per certo, oltre la fidanzata e il lavoro, la parte migliore della vita.  Per questi motivi l'errore del pm Petrocelli, perseverato tanto da non credere ai testimoni e farli condannare, è costato alle casse dello Stato quattro milioni e cinquecentomila euro di risarcimento. E siamo arrivati al punto. Nella procura di Taranto ci sono magistrati che indagano in maniera unilaterale senza credere o considerare i testimoni. Alcuni pm sanno cosa devono fare altri fanno ciò che vogliono fare. La realtà dei fatti viene stravolta e portata ad essere tornaconto. Sia Antonella Montanaro che Vincenzo Petrocelli avevano sbagliato le indagini e fatto condannare persone innocenti; chi ha permesso che in mano loro tornassero le suddette indagini? Per quale motivo un terzo pm della stessa procura, che non aveva prima indagato su quegli omicidi, crede alla confessione di Sebai e loro no? Mandare e lasciare in galera persone innocenti solo per pararsi il culo non va bene e non è serio. Confucio diceva che le tre parole più difficili da pronunciare sono: "io ho sbagliato". Come faceva già da allora a conoscere quelli della Procura di Taranto?

La Legge del disprezzo è il libro di Massimo Prati e di Federico Focherini. Federico Focherini venne prima indagato, poi accusato di omicidio e, in seguito, condannato dal Tribunale di Roma il 21/1/10 a sei anni di reclusione per la morte della sua compagna Claudia Bianchi, anch’ella bodybuilder professionista IFBB (Miss Universo 2002), avvenuta l’8/3/04 a Roma. Dichiaratosi totalmente estraneo alla faccenda, Focherini continuò a combattere per far valere la sua innocenza rinunciando, dopo oltre sette anni di disavventure giudiziarie, alla pervenuta Prescrizione dei reati di “Omicidio come conseguenza di altro reato” e “Commercio di sostanze dopanti”. Il 23/10/12, dopo aver rinunciato alla Prescrizione e chiesto di essere giudicato in rito abbreviato, è stato assolto per entrambi i reati dal Tribunale di Modena perché “Il fatto non sussiste”. Le conseguenze disastrose del carcere e delle accuse infamanti, unite alle ingenti spese cui dovette far fronte, lo portarono a emigrare in USA e, dal 2008, in Sud Africa per tentare di rifarsi una vita. La storia di Federico Focherini è quella di un cittadino comune che si è dovuto difendere con le sole proprie forze, rispettando le regole del processo, in una triste vicenda che è umana, prima che giudiziaria. Solo la legge del disprezzo può condannare chi usa la scure del potere per distruggere la vita altrui senza motivo. Federico Focherini, il body builder professionista accusato di aver causato la morte di Claudia Bianchi, dopo l'assoluzione si ribella e con "La Legge del Disprezzo" denuncia chi gli ha rovinato la vita indagando a 180° (alcuni estratti dal libro). La Legge del Disprezzo è un libro verità che entra a gamba tesa nel sistema giustizia e senza scrupoli mette alla berlina, con nome e cognome, chi usa il potere in modo sbagliato. Chi segue solo il proprio credo e accantona le prove che discolpano l'indagato pur di ottenere una condanna e non fare la figura dell'incapace. La Legge del Disprezzo tratta un brutto fatto di malagiustizia italica che ha stravolto la vita di tante persone (non quelle degli intoccabili carabinieri, magistrati e giudici). Solo la “Legge del disprezzo” può condannare chi usa la scure del potere per distruggere la vita altrui senza motivo. Solo questo libro può far capire che fra un culturista e un carabiniere (che opera per come vuole il suo magistrato), non sempre il più onesto è il carabiniere... e neppure il magistrato, visto che dopo aver rinunciato alla prescrizione, Federico Focherini è stato assolto dalle accuse, che l'hanno perseguitato per nove anni, perché il fatto non sussiste (prefazione di Walter Siti - premio Strega 2013). Trama: La storia d'amore fra due big del bodybuilder mondiale, Claudia Bianchi (Miss Universo) e Federico Focherini (Mr. Universo), si trasforma in un inferno quando lei muore nel sonno e lui viene accusato di essere uno spacciatore e di aver consegnato alla fidanzata la sostanza proibita che l'ha condotta alla morte. Non ci sono né prove né indizi: anzi, ci sono telefonate mail e lettere che lo scagionano completamente e senza alcuna incertezza puntano il dito su altri. Ma i carabinieri, i procuratori e i giudici di Roma, hanno sete di nuova notorietà e nel 2004, anno della morte di Marco Pantani, il doping ha una buona resa mediatica. Per cui puntano le loro putride armi contro l'unica star dell'indagine, il culturista di certo dopato, il personaggio conosciuto a livello mondiale che si trova spesso e volentieri sulle copertine dei mensili patinati, l'unico che può portare i media ad alzare i toni e a parlare dell'evento e delle indagini in maniera colpevolista. Così si accaniscono sul loro colpevole preferito inventando prove e portandolo in caserme dove l'immagine del Presidente della Repubblica è sostituita dai poster giganteschi dei calciatori "Barbas, Pasculli e Maradona" per perquisirlo "a fondo" e smontargli l'auto. Poi, sempre trascurando le intercettazioni, si inventano "l'operazione Asgard" e nel cuore della notte inviano 70 agenti che si infilano in 17 case di sportivi amatoriali... e di vecchietti che vengono pure portati in caserma per accertamenti, per sequestrare solo 200 euro di medicine proibite o senza ricetta medica (a casa di Federico e nella sua palestra non c'erano farmaci proibiti). Naturalmente sotto la supervisione dei media che inventando cifre più alte nascosero la verità. Alla fine, dopo aver esumato il corpo della ragazza e fatto un'autopsia che non trova nulla di rilevante e va in favore di Federico, a ben 19 mesi dalla morte di Claudia, quando lui torna dall'America per andare al consolato a ritirare le carte che gli avrebbero permesso di rifarsi una vita in Arizona, lo arrestano e per intimidirlo lo lasciano giorni e giorni in galera impedendogli di incontrare l'avvocato e umiliandolo quando, dopo un interminabile viaggio su un cellulare della penitenziaria che da Modena lo porta in piazzale Clodio a Roma (pieno di giornalisti), lo trattano come una pezza da piedi (al ritorno sarà addirittura costretto a urinarsi nelle mutande). Ma non basta, perché una volta liberato dal giudice del riesame che nell'Atto scrive: «Considerato che già nel corpo dell’ordinanza cautelare si dava atto della circostanza che le esigenze cautelari non fossero tanto incisive da imporre la custodia in carcere...» (significa che per la legge non doveva essere arrestato e andare in carcere. Significa che in galera ci fu mandato da un magistrato che forzò la mano per intimidirlo), la procura di Roma "dimentica" di segnalare all'interpool che Federico Focherini è un uomo libero. Così, come torna sul suolo americano viene fermato (perché dovrebbe essere in carcere in Italia e non negli Stati Uniti), messo in cella e rispedito in Europa col primo volo per Londra. Il libro racconta, prove e intercettazioni alla mano, le scandalose indagini e quanto di sporco hanno fatto sia i carabinieri che i procuratori romani. Fra questi ultimi i volti noti di Giovanni Arcangioli (ora decaduto a causa dell'agenda rossa di Borsellino) e di Italo Ormanni (fortunatamente ora in pensione) che nella sua lunga carriera ha mandato in carcere altri innocenti. L'ex giudice di Forum, sceneggiatore di fiction per la tivù di Stato che scriveva facendo i salti mortali mentre era impegnato in indagini di rilievo, iniziò a sbagliare negli anni ‘70 quando mandò in carcere Domenico Zarrelli - strage di via Caravaggio, e dopo alti e bassi si fece ricordare perché intimidì la testimone che non lo agevolava nelle indagini sull'omicidio di Marta Russo – nonostante le richieste, anche di parlamentari, non fu condannato perché: "agi per fini di giustizia" (questa fu la sua linea difensiva) e nemmeno punito dal CSM perché gli atti arrivarono fuori tempo massimo. Cercò anche di spedire in galera Raniero Busco - ex fidanzato Simonetta Cesaroni. Nel 2012 venne denunciato dal marito di Alberica Filo Della Torre perché oltre alle indagini costose e inutili per due volte chiese l'archiviazione ritenendo che non ci fossero prove e che i suoi periti avessero analizzato in maniera seria. Nessuno si stupì se quando gli tolsero l'ufficio alla procura di Roma i suoi colleghi, dopo essersi rivolti al RIS, in un amen arrestarono il filippino Winston che confessò di aver ucciso Alberica. Assieme a loro era Diana De Martino, specializzata in organizzazioni criminali e certa che Federico fosse parte importante di una organizzazione camorristica internazionale. Tutti furono concordi nello sventolare falsamente la bandiera colpevolista, nonostante la acclarata innocenza (la parte finale del libro è dell'avvocato penalista Alessandro Sivelli che garantisce la verità dello scritto), e capaci di forzare la mano al giudice Elena Natoli (che in un processo farsa condannò Federico a 6 anni di carcere). Finita questa fase il libro tocca la sfera psichica di Federico, che dopo aver venduto ogni cosa a causa delle spese sostenute e da sostenere, dopo essere stato abbandonato da tutti grazie ai media televisivi e agli articoli di giornale che lo dipingevano come un essere viscido, si allontana dall'Italia e finisce in Sudafrica, a Pretoria, dove fra mille peripezie e mille acrobazie, a causa della mancanza di soldi si ritroverà in un incrocio a fare volantinaggio, riuscirà a ricomporre, fra alti e bassi psicologici che lo perseguitano ancora oggi, una sorta di ciò che si può chiamare vita. Le ultime pagine sono dedicate alle sue sensazioni, alle sensazioni di una persona che non vuole la carità dello Stato, la prescrizione lo potrebbe salvare da ogni accusa ma lui la rifiuta perché vuole girare a testa alta e vuole che siano i magistrati e i carabinieri che l'hanno perseguitato ad abbassare lo sguardo, e dopo essere stata ritenuta colpevole da un giudice romano parziale, si rivolge a un altro giudice, non romano, che dopo aver costatato i fatti lo giudica innocente perché il fatto non sussiste. Dopo aver spiegato la trama e cosa si propone il libro, inserisco una piccola parte del III° e del V° capitolo. Federico varca la soglia del carcere di Modena e si trova perso e spaesato, con la voglia di capire i motivi dell'arresto e la voglia di morire. Poi i giorni passano, esce dalla cella d'isolamento, si integra con gli altri detenuti e nonostante il parere negativo del suo avvocato, non vede l'ora di essere interrogato dai procuratori romani che però non vanno al carcere, come dovrebbe essere, e vogliono che sia lui a essere trasportato, con un cellulare della Polizia Penitenziaria, alla procura di Roma, in piazzale Clodio. Ma al Fochero non importano i disagi che dovrà sopportare, vede quel viaggio come una scampagnata perché è certo di riuscire a dimostrare la sua completa innocenza. Povero illuso! Capitolo III - L'arresto e il carcere. Alle 18.20 precise, ammanettato e accompagnato da quattro appuntati, varcai da prigioniero la soglia del carcere Sant’Anna di Modena. La mia mente andò in tilt. Tutto mi colse alla sprovvista: non ero in grado né di connettere e capire, né di difendermi in alcun modo. In balia di un’ordinanza emessa per motivi che non conoscevo, dopo aver sbrigato le formalità di rito, fui sistemato in una piccola cella fredda, buia, con le pareti ricoperte di ritagli di giornale e immagini pornografiche che si alternavano a icone religiose. In un qualsiasi altro luogo gli stridenti accostamenti avrebbero suscitato una mia reazione forte e indignata, ma ero in carcere e l'indignazione l’avevo lasciata all’ingresso, dove, con le manette ai polsi e due guardie ai lati che mi bloccavano le braccia, sentii il sangue svanirmi dal cuore, quando l’enorme portone cigolante, sbattendo, si chiuse alle mie spalle. Quando in uno sgabuzzino fui costretto a spogliarmi e a farmi toccare in ogni dove. Non sapevo cosa fare. Ero un essere inerme rimasto senza voce, un essere che nessuno voleva ascoltare. Ero un innocente che piangeva, si disperava e non aveva reazioni. Mi sentivo morire dentro e stavo perdendo la voglia di lottare. Avrei voluto parlare subito al procuratore e al giudice che aveva firmato e avallato la richiesta di arresto; poco ci voleva per far capir loro che sbagliavano, che non meritavo di stare in carcere. Ma intorno a me regnava il silenzio assoluto. Mi sentivo instabile. Tutto era inquietante e il tempo passava lentamente, troppo lentamente, immergendomi in un’allucinazione da cui credevo di non riemergere più. A minuti fissi due occhi mi osservavano. Capii che quanto stava accadendo mi avrebbe potuto portare al suicidio. Ma non avevo il tempo per elaborarlo, né modo di fare gesti insensati, perché la mente mi obbligava a lottare col solo pensiero fissatosi a cemento. Mi chiedevo di continuo per quale assurdo motivo mi avessero rinchiuso. No, mi ucciderò domani, pensai, quando avrò metabolizzato e capito il perché dell’infame accusa di omicidio. Omicidio significa assassinio. Quindi, qualcuno credeva che io fossi un assassino. E non un assassino qualunque, addirittura chi aveva tolto la vita alla donna che amava! La donna che sentivo di avere accanto anche quando non era con me, che stuzzicava i miei pensieri, che mi ingelosiva, che mi mancava perché abitava lontano, che andavo a trovare per farci l’amore. Non avevo tempo di pensare ad altro, perché altro da pensare non c’era. Gli spiriti che gironzolano nell’aria fredda della cella mi pugnalavano con le loro urla inquietanti, mi rimandavano le immagini del funerale di Claudia e approfittavano del mio pianto continuo per infierire. Gli occhi di una guardia entrarono di nuovo in quella che era ormai la mia gabbia. Forse a lei sembravo solo, ma in realtà in quei quattro metri quadrati eravamo in tanti. C’erano i fantasmi delle mie paure e del mio orgoglio che mi circondavano, che mi ferivano al pensiero di essere additato come un assassino. Quando quegli occhi tornarono per l’ennesima volta, cercai di dire qualcosa. Volevo parlare a qualcuno, fosse anche una guardia carceraria che nulla poteva fare per aiutarmi. Ma in quella cella maledetta la voce cadeva nel vuoto e si rompeva, come il mio corpo che si rifiutava di reagire, come il mio stomaco che aveva deciso di bruciare, come la mia vescica che sentivo scoppiare e come la mia mente che non trovava risposte. In quella cella maledetta mi sentivo inerme e privo della forza necessaria a creare una briciola di speranza. Stavo davvero molto male e andavo continuamente in bagno, sebbene non avessi con me neppure una bottiglietta d’acqua e non potessi bere; mi guardavo attorno spaesato come se mi trovassi all’estero, in una grande piazza fra migliaia di persone sconosciute. Ma non c’era nulla attorno a me, solo muri umidi e scaffali costruiti con pacchetti di sigarette incollati tra loro. Mi resi conto che da quando ero entrato, non avevo neppure fatto un passo e che fra le mani tenevo ancora quanto consegnatomi all’ingresso dalle guardie: una coperta ruvida, un pacco marrone con un lenzuolo di carta velina piegato all’interno, due gavette per il cibo, un sapone inodore e un rotolo di carta igienica. Nient’altro, giacché le mie cose erano finite in una scatola e non mi avevano concesso di tenere nulla, neppure la custodia degli occhiali e i lacci delle scarpe. Ho sempre odiato camminare senza lacci, però camminai e appoggiai il tutto sulla brandina. Gli occhi che mi fissavano scomparvero e mi venne voglia di sbattere la testa contro il muro. Riuscii a trattenermi e sulla parete sbattei solo i pugni. Gli occhi tornarono. Mi girai e appoggiai le spalle al muro. Poi mi voltai, sperando di trovare, assieme agli occhi, anche due orecchie cui ribadire la mia innocenza. Fu in quel preciso istante che vidi uno strano oggetto appoggiato su una mensola. Lo presi in mano e capii che era un piccolo crocefisso ortodosso di plastica bianca… era sporco, molto sporco. Decisi di lavarlo e tenerlo con me: forse mi avrebbe aiutato a capire l’animo di chi mi aveva sbattuto in carcere, quali pensieri e sicurezze l’avessero convinto di avere a che fare con un assassino. Ma via, com’era possibile credere che fossi un assassino? Che diavolo c’entravo con la morte di Claudia? Chi erano gli incapaci che mi accusavano? I primi giorni di carcere tolsero la luce ai miei occhi e la vita al mio corpo. Mi sentivo uno straccio e non vedevo futuro. L’unico sollievo era Alba, la mia amica avvocato, che non mi fece mai mancare la sua presenza e addolciva la mia rabbia con un cioccolatino. Aspettavo con ansia che mi chiamassero in procura per interrogarmi, ma i giorni passavano e nulla accadeva. (...) Capitolo V - La gabbia - Dopo giorni di attese infinite, arrivò ciò che bramavo più di ogni altra cosa: l’interrogatorio. Finalmente potevo spiegare le mie ragioni a chi mi aveva voluto in carcere: il sostituto procuratore Diana De Martino, della Direzione Distrettuale Antimafia, e il procuratore aggiunto di Roma, Italo Ormanni. Le loro indagini, coordinate anche dal tenente colonnello Giovanni Arcangioli (ora in rovina, a causa di una borsa da cui sparì un’agenda, ma al tempo uno dei più importanti detective dell’antimafia), si erano indirizzate su di me e non sapevo il motivo per cui mi avevano ingabbiato. Sapevo solo che sul mio conto si stavano sbagliando. Perciò quel martedì 11 ottobre 2005 si prospettava come un giorno importantissimo. Avrei visto in faccia chi mi stava disintegrando l’esistenza e chiarito in maniera corretta tutta la serie di malintesi che i due procuratori non avevano compreso. Inoltre, se il problema erano le venti lettere trovate a casa di Claudia, mi sarebbe stato facile confutarne diciannove, visto che non le avevo scritte io. Ero certo che con poche parole li avrei convinti della mia innocenza. In fondo non serviva una cultura superiore per capirlo, e nella mia mente quel viaggio si presentava come una sorta di scampagnata liberatoria. Che ingenua persona ero! Quella notte mi chiamarono e mi fecero uscire dalla cella. Una guardia mi disse di aspettare in piedi fra gli sbarramenti, uno davanti e uno dietro, formati da linee colorate sul pavimento; linee che non avrei dovuto oltrepassare senza un suo ordine. Dovetti aspettare in quel metro quadrato per oltre due ore. Il furgone della Polizia Penitenziaria, che aveva il compito di tradurmi dal carcere di Modena alla Procura di Roma di Piazzale Clodio, era in ritardo. Quando arrivò cercai fra i volti una guardia amica, si fa per dire, che, mi aveva detto, sarebbe stata fra gli agenti di scorta. Invece si presentarono in quattro, due dei quali vecchi clienti della mia, purtroppo, ex palestra, a cui avevo pure scontato l’abbonamento al momento dell’iscrizione, che subito mi condussero a braccetto su un “furgone di ultima generazione” (ma solo per chi lo guidava, non per i detenuti). Per farla breve, mi sarei dovuto sedere in una bara di lamiera fra due pareti chiuse, di cui una sola forata per permettere all’aria di arrivare al mio naso, in cui a fatica passavano le spalle. In quel loculo di ferro sarei dovuto restare per almeno dodici interminabili ore, il tempo occorrente per raggiungere Roma e tornare a Modena. Anche se non proprio convinto, mi infilai a forza in quella colombaia, intenzionato a resistere pur di andare dai due procuratori a spiegare la verità. Ma le ginocchia toccavano la parete di fronte e mi accorsi di essere come quei “morti apparenti” tumulati vivi. Mi era impossibile resistere dodici ore in quella posizione obbligata, per cui alzai la voce per chiedere di cambiare veicolo. Gli agenti, fra cenni d’intesa che subito non capii, acconsentirono al cambio del furgone e mi fecero salire su un cellulare che non aveva bare di lamiera ma gabbie per uccelli adatte a uno o due pappagallini, non a un essere umano. Quando mi spinsero in una di queste e vidi a terra diversi mozziconi di sigarette, una lattina di birra schiacciata e uno sputo oramai secco, mi tornarono alla mente i cenni d’intesa visti poco prima. Col mio mal di schiena cronico, dovuto a tre ernie discali operate a livello lombo sacrale, in quella specie di veicolo dal tettuccio basso riuscivo a stare solo accucciato o in piedi con il capo chino. Quindi il viaggio, sempre sorvegliato attentamente da due agenti, lo feci per intero accovacciato a terra, nella gabbietta, fra i due seggiolini e la sporcizia. In quelle ore mi fu tolta ogni dignità e ogni onore di uomo. Mi sentivo una bestia rara costretta a vivere fra i rifiuti, un mostro umano osservato e deriso. Fu peggio, molto peggio del giorno in cui fui arrestato e di quelli passati in cella: drammatici come poche altre cose al mondo, ma almeno decorosi. Con l’inizio di quel vergognoso viaggio da detenuto, il mio cervello e la mia anima persero la cosa più importante: la dignità era morta e dentro sentivo una crepa che si allargava irreparabilmente. Avevo perso me stesso e la rabbia che provavo non riusciva a calmarsi. Nessuno in quegli attimi mi poteva avvicinare, ero troppo nervoso e pensavo continuamente a mia madre. (...) Fino a pochi giorni prima ero libero di vivere la mia vita come volevo e ora, improvvisamente, non potevo nemmeno andare in bagno senza essere accompagnato. «Appuntato, devo fare la pipì». Ci fermammo in un’area di servizio una sola volta. Quando mi fecero scendere dal furgone con le manette ai polsi, sentii nascere in me una sensazione di vergogna. Un agente mi stava dietro, due mi presero le braccia, mentre il capo scorta camminava qualche passo davanti a noi. Questi entrò per primo: doveva far uscire tutte le persone che affollavano i bagni dell’Autogrill, gente che mi guardava camminare a capo chino e di certo mi riconobbe a causa dei giornalisti che avevano pubblicizzato il mio arresto. Non so se fu una mia impressione, ma mi parve di sentire mormorare il mio nome e quello di Claudia. Una volta sgomberata la toilette, potei finalmente urinare. Naturalmente nessuno pensò alla mia privacy, visto che i tre in divisa mi osservavano attentamente pronti a rispondere al fuoco qualora dalla patta dei pantaloni avessi estratto una pistola. Chissà, forse pensavano che avrei potuto svignarmela correndo a piedi ai lati dell’autostrada. Giunti a Roma, dopo essersi fermati per una merenda a base di panini con la porchetta, le guardie imboccarono la strada della Procura. E qui iniziai ad avere problemi di altro tipo e a pensare che quanto mi stesse accadendo non poteva essere vero. «È un incubo» mi dicevo «è solo un brutto sogno e adesso mi sveglio sudato e mi accorgo che sono in affanno perché mi insegue un pazzo. Mi sveglio, adesso mi sveglio! Caso mai col cuore in gola, ma mi sveglio e dopo aver sfondato la botola che divide l’oscurità dalla luce, mi ritrovo a casa mia». Ma non raggiunsi la luce, perché ciò che mi stava accadendo non era assolutamente un incubo. La sofferenza mi fece ricordare che da bambino chiedevo sempre a mio padre di avvicinarsi ai furgoni della Polizia per vedere la faccia «del cattivo». Lui ogni volta mi diceva che non era affar mio e dovevo guardare avanti senza girarmi. Mentre ero ingabbiato in quel cellulare, pensavo a questo, pensavo a mio padre morto due anni e mezzo prima, pensavo a cosa avrebbe provato se mi avesse visto in quella situazione vergognosa. Addirittura arrivai a ringraziare la morte che lo aveva portato con sé, quasi a credere che per lui fosse meglio non avermi visto in gabbia. Nella mia poca lucidità mentale, pensai che vedendomi in quello stato avrebbe potuto impazzire dal dolore e morire. (...) I procuratori Diana De Martino e Italo Ormanni, come volevasi dimostrare, mi contestarono una ventina di manoscritti rinvenuti in casa di Claudia. Contenevano preparazioni chimiche, ovvero cicli di prodotti, anche dopanti, da usare in prossimità delle gare. In realtà, il foglio che avevo scritto io era uno solo: poche righe in cui consigliavo a Claudia cosa assumere nelle dodici settimane che precedevano il concorso di Miss Universo 2002, la competizione annuale svoltasi a Newcastle, in Inghilterra, il dodici ottobre di quell'anno, quindi diciassette mesi prima del suo decesso. Se però si considera che lo scrissi tre mesi prima della gara, si deve convenire sul fatto che risaliva a venti mesi dalla morte di Claudia. Pensare che c’entrasse qualcosa, dato che gli altri scritti erano chiaramente successivi al mio, mi pareva utopia e cercai di spiegarlo. Ma Italo Ormanni da me voleva solo dei sì o dei no. E quando tentavo di precisare, alzava la voce, e urlando diceva: «Lei non deve farci capire, lei deve dirci o sì o no!» Ma porca boia! Come fai a capire che non c’entro con le tue indagini, se non mi fai spiegare? Tu e la De Martino mi accusate di aver fatto cose abominevoli in associazione con altri che non ho mai conosciuto, e lo sai, eppure vuoi che ti risponda con un sì o un no! Ma vuoi farmi parlare o hai ben altre mire per la testa? Possibile che non ti accorga di sbattermi davanti alla faccia dei fogli che non ho scritto io? L’interrogatorio, come avrete capito, non fu utile. A loro poco importava di me, visto che quel giorno cercarono di fare un fascio di tutta l’erba, tentando di addossarmi la paternità di tutti gli scritti. Per fortuna era evidente che la calligrafia non fosse mia ma di mani diverse. Alcuni manoscritti si riferivano a giugno, altri al luglio e all’agosto 2003, anno in cui io non seguivo più Claudia e lei si preparava senza il mio aiuto (fra noi ci furono litigi e in quel periodo non ci vedevamo) per il Grand Prix Jan Tana a Charlotte (Nord Carolina), in programma il 15 agosto di quello stesso anno. (...) Oltre a quelli citati, che precedevano la gara americana, ce n’erano altri che si riferivano a un periodo successivo. In poche parole: quei fogli mi scagionavano completamente, dato che nulla di serio mi si poteva imputare. Io avevo iniziato a seguire atleticamente Claudia, con allenamenti e consigli alimentari, nel maggio 2002. Parlavamo di tutto, perciò anche di prodotti chimici, ma lei si allenava da circa vent’anni e quando la conobbi aveva già vinto non solo il campionato italiano, ma anche l’europeo e il mondiale. Con me affrontò solo la preparazione per Miss Universo. Dopodiché, visti i frequenti e lunghi litigi, iniziò a farsi i fatti suoi estromettendomi dalla sua preparazione. Con questo voglio dire che per la supplementazione e dal punto di vista tecnico, Claudia si affidava un po’ a tutti, innamorandosi (agonisticamente) ora di un campione ora di un altro e seguendo, di conseguenza, le loro tecniche e i loro consigli. Alla fine è possibile che lei abbia fatto un collage di tutti i suggerimenti e li abbia combinati usando la sua esperienza e il suo istinto di atleta. Certamente fra professionisti si parla e ci si confronta spesso. Si discute di tecniche di allenamento (una vera e propria scienza), nutrizione (determinante per aumentare il muscolo magro e perdere grasso in eccesso) e supplementazione (importante per giungere al giorno della gara al top della forma). Fra me e Claudia, lo scrivo qui per come l’ho detto durante l’interrogatorio, nacque una forte intesa. Ma più la passione cresceva, meno ci confrontavamo dal punto di vista tecnico-agonistico. Più io cercavo di offrirle il mio aiuto e più lei lo rifiutava. Ovvero: fingeva di accettare i miei dettami per accontentarmi e non litigare, ma in realtà seguiva gli insegnamenti e i consigli di altri. E non solo romani, perché di sicuro seguiva quelli di uno dei più grandi atleti professionisti americani: Dexter Jackson. Il suo altalenare, saltando da un atleta all’altro senza mai seguire gli insegnamenti completi di nessuno, l’ho riscontrato sia per sua stessa ammissione che a posteriori: varie mail e file contenuti nel suo Personal Computer si riferivano a preparazioni di altri professionisti. Inoltre, io vivevo a Modena e Claudia a Roma; quindi ci separavano cinquecento chilometri e a causa del lavoro ci vedevamo di rado, dato che entrambi eravamo proprietari e gestori di palestre, e nelle poche ore passate insieme facevamo di tutto fuorché parlare di body building. Il nostro rapporto, infatti, era diventato più stretto sotto altri aspetti. Anche questo è testimoniato dalle varie mail inviatemi e rinvenute sul suo PC. Fra l’altro, la perizia sul computer di Claudia l’ho chiesta io tramite il mio avvocato, i carabinieri non lo avevano mai sequestrato né controllato, nemmeno per verificare quale rapporto ci fosse fra me e lei e fra lei e altri atleti. Come ho già scritto (in un capitolo precedente - nda), la sera che precedette la sua morte Claudia mi inviò un messaggio che in apparenza potrebbe apparire strano. Ma non lo è, perché parte integrante di una conversazione iniziata con un suo sms inviatomi dopo avermi accompagnato alla stazione. Un messaggio in cui si mostrava preoccupata per me e aveva scritto: “Era tutto bloccato alla stazione. Sei riuscito a partire?”. Le avevo risposto: “Sì, appena in tempo”. Per cui, dopo aver saputo che ero salito sul treno si tranquillizzò, e a quel punto mi scrisse: “Meno male! Come sono stata oggi…! Ho perso i sensi!”. Ovvio che la preoccupazione dovuta alla confusione trovata in stazione si era dissolta, da qui le sue parole “meno male”, che chiudevano il discorso sul treno e sulla partenza, seguite da una frase a effetto per ribadire di aver trascorso una bella giornata, dato che non era svenuta, ma più semplicemente si era addormentata fra le mie braccia dopo aver fatto due volte l’amore. Un modo di dire già usato, una frase dolce indirizzata a chi sentiva di amare. Altro non poteva essere perché durante il giorno Claudia non aveva dato segni di malessere. Tanto più che dopo il suo messaggio, come sarebbe logico fare sapendo di un malore avuto da chi si ama, non le inviai un sms per chiederle come stava in quel momento. Ma oltre a questo, lei in tarda serata mi inviò un altro sms e una mail per chiedermi di tradurre lo scritto di un culturista sloveno. Inoltre, la notte stessa, poche ore prima del decesso, si intrattenne al computer per un paio d’ore con un amico comune inviandogli ben quattordici mail di discorsi futili e fotografie che la ritraevano in pose artistiche e in gara. Sono sicuro che se fosse stata male, dopo avermi accompagnato in stazione si sarebbe fiondata in ospedale senza perdere un minuto. Nemmeno quando mi chiamò al telefono, a mezzanotte, accusava problemi fisici. Ridemmo e scherzammo per quasi trenta minuti. Non certo quanto farebbe chi sente male. Per questo l’accusa di omissione di soccorso fu per me fonte di grande dolore. Non sono un pezzo di merda! Non lo sono mai stato e mai lo sarò! Da sempre considero la vita, qualunque vita, sacra e inviolabile. Perciò, non avendo nulla da rimproverami, dopo avere dimostrato a chi indagava la mia completa estraneità, non riuscivo a capire il motivo di quell’accusa e di tanto accanimento. Ma se allora la sofferenza mi offuscava la mente e non riuscivo a esser lucido, a far mia la logica del ragionamento, ora capisco che quelle accuse erano solo pretestuose e tipiche di chi ha bisogno di un colpevole per giustificare e giustificarsi. E chi meglio di me faceva al caso loro? In fondo era facile massacrare, psicologicamente e fisicamente, chi era stato con Claudia il giorno prima del decesso. Il dolore provocato da quella calunnia è uno dei maggiori tormenti che mi rimangono; quello che mi impedì, e ancora a volte mi impedisce, di dormire più di due o tre ore per notte. Ho dimostrato ampiamente ai procuratori, ai carabinieri e ai giudici che Claudia stava bene quella domenica di marzo, eppure ancor oggi mi devasta il pensiero che qualcuno possa, pur per un solo minuto, pensare che sia stato parte in causa nella sua morte. È come se uno spillo mi pungesse continuamente il cervello. L’essere indagato, pedinato, intercettato, arrestato, interrogato e accusato in tribunale, ha lasciato un marchio indelebile in me che, da persona semplice, quelle cose le avevo viste fare solo nei film. (...) Lasciamo quei magistrati alle loro fantasie, abbandoniamo anche le mie tristi considerazioni e torniamo all’undici ottobre, alla fase successiva all’interrogatorio quando, dopo tre ore passate con chi non voleva spiegazioni e preferiva sentirsi dire dei sì e dei no, come se fossi un pacco mi riconsegnarono alla scorta. In quel frangente, meno male, fui protetto dai fotografi e dai giornalisti (oltre alle telecamere che stazionavano di fronte al tribunale). Per evitare i media fui preso sottobraccio e sbrigativamente sbattuto nel furgone che mi avrebbe riportato in carcere. Ma prima di salire, Alba riuscì ad avvicinarsi e a infilarmi in bocca un cioccolatino. Naturalmente senza farsi vedere dai poliziotti di scorta, proprio com’era solita fare quando veniva a trovarmi in carcere e per darmelo attendeva che la guardia superasse lo spioncino della porta del parlatorio. Il gesto di Alba, quel cioccolatino che mi addolcì il palato, è l’unico ricordo positivo di quella giornata e del viaggio da Modena alla procura di Roma e viceversa, fatto al buio in un blindato senza vedere nemmeno l’asfalto della strada. In quella sorta di bara d’acciaio il tempo non passava mai e solo all’arrivo mi resi conto che per tornare al carcere avevamo impiegato sette ore. Per un totale di tredici ore al chiuso: ostaggio del tremolio delle lamiere, del rumore continuo che intorpidisce l’udito e fa perdere la cognizione del giorno e della notte. Ma perché all’andata impiegarono sei ore e al ritorno sette? Perché agli agenti di scorta il cibo degli Autogrill non garbava. Così fecero una deviazione per andare a cenare a Ostia, nel loro ristorante preferito. E io? Io per quei quattro poliziotti ero un detenuto, anzi una bestia, non un uomo. Come ho detto, mi tolsero ogni dignità già alla partenza. Quindi non potei nemmeno uscire dalla gabbietta per andare in bagno e fui costretto a pisciarmi addosso. Ricorderò per sempre la sofferenza patita in quel furgone lercio e sudicio. Seduto sul pianale di lamiera, fra sputi, lattine vuote e urina, bagnato, ghiacciato e umiliato, pregai Nostro Signore perché mi facesse tornare al più presto nella mia cella, la numero otto della sezione due bis (la secondaria verde). Non gli chiedevo la grazia di mandarmi a casa, lo supplicavo di farmi arrivare al più presto in galera. Quel giorno scoprii che esisteva qualcosa di peggio della prigione. Perché tutto questo? Quante volte me lo sono chiesto. Ci deve essere una ragione, un motivo per cui certi brutti fatti sono accaduti. La morte di Claudia, le accuse, l’arresto, la distruzione di tutto ciò che mi girava attorno e il mio piccolo mondo sgretolato in pochi istanti. Quale sarà mai il disegno divino? Ce n’é forse uno che non comprendo? Oppure non c’è nulla da capire? Nella mia vita ho cercato di seminare bene, eppure mi rendo conto di aver sempre raccolto erbacce velenose. Non so cosa pensare, non so dove girare la testa, se credere ancora oppure no. Forse Dio ci toglie quanto ci sta a cuore per ricordarci come sia estremamente facile perdere ciò che diamo per scontato. La solita omelia che si ascolta ai funerali, quasi un luogo comune ripetuto all’unisono. Può essere, ma se mi guardo attorno vedo tante persone che hanno sempre fatto la malora e conducono una vita tranquilla e serena. Non li invidio, ma se mi soffermo e ci penso, sto ancora più male. Gente che ruba e uccide veramente, vive fra le comodità circondata di rispetto, mentre io ancora oggi non riesco a comprendere i motivi per cui mi abbiano voluto donare tanto dolore. Forse sono stato dimenticato. Oppure la mia mente semplice e terrena non riesce a vedere ciò che mi è stato riservato. Può essere? Da cristiano dovrei perdonare gli uomini che mi hanno fatto del male. Evidentemente non sono un buon credente o non lo sono abbastanza. Sono troppo istintivo e le sensazioni prendono il sopravvento sulla mia razionalità. L’istinto è sempre puro e se dimora in un uomo retto è un’ottima guida, ma al mio istinto di uomo è stata tolta la dignità! Prima ancora che cittadino da considerare innocente fino al terzo grado di giudizio (già questo mi avrebbe aiutato psicologicamente), i miei accusatori e i loro scagnozzi avevano l’obbligo morale e il dovere professionale di considerarmi un essere umano. Invece, hanno cercato di sotterrarmi. Ognuno di loro ha usato una pala per colpirmi alla schiena e coprirmi di terra melmosa, buona per togliere il respiro e la luce dagli occhi. Mi hanno ricoperto di vergogna e con le loro assurde accuse, basate (non fondate) su fogli di carta scritti da altre mani (non dalle mie), mi hanno fatto passare per un infame, carcerandomi senza alcun vero motivo per settantasette giorni. Grazie a loro, e ad alcuni giornalisti compiacenti (e faccio uno sgarbo ai veri giornalisti chiamandoli così), per l’opinione pubblica italiana Federico Focherini era quello che aveva pompato e iniziato Claudia Bianchi al doping, la bestia spregevole che aveva contribuito a farla morire. Oggi dovrei perdonare? Non ci riesco proprio. In nove anni di martirio ho perso tutto. Non li perdono, ma per loro non provo odio. L’odio è uno dei sentimenti più forti, netti e puri che si possa provare, per questo il mio odio lo riservo agli uomini dotati di un certo livello d’onore. Non perdonerò mai chi ha cercato di farmi morire fisicamente e mi ha ucciso psicologicamente, ma neppure li potrò mai odiare. Non si possono odiare gli esseri minuscoli senza coscienza che, autorizzati dal potere conferito loro dallo Stato (e mi piacerebbe sapere per quali reali meriti), non sanno cosa sia il rispetto e senza motivo, ignoranti, sordi o in malafede, si accaniscono per distruggere le altre persone. Esseri così vanno disprezzati, non odiati! Per questo li disprezzo con tutta la forza fisica e mentale che ho. Disprezzo meritano e disprezzo da me avranno finché avrò vita. La legge del disprezzo è l’unica legge che attualmente può far scontare loro una pena altrimenti inesistente, visto che, invece di subire un processo, a ogni errore investigativo e giudiziario godono di una promozione.

Sig. Massimo Prati, dopo aver scritto ed autopubblicato il libro “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Quello che non si osa dire”, il sequel è già in rete (work in progress), “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana. La Condanna e l’appello. Il resoconto di un Avetranese. Quello che non si osa dire”. Essere colpevolisti o innocentisti è facile e si ha ampia sponda da una parte o dall’altra della barricata, basta essere ignoranti nella materia di cui si discute ed aver molta cattiveria. Ed eccoli là, i talebani ideologici che appaiono con i loro commenti astrusi e volgari, come se non avessero un cazzo da fare tutto il giorno se non stare dietro alle disgrazie altrui. E’ dura la vita, invece, se in questa Italia si vuol esser garantisti e pronti a pagarne le ritorsioni. Ci si trova da soli a dover spiegare le regole della ragione che improntano le regole giuridiche, le quali basano le regole sociali. Molte volte ho il piacere di leggere le sue analisi, e nel caso specifico, sul processo attinente l’omicidio di Sarah Scazzi. Non posso non notare, in calce ai suoi interventi, i commenti degli ospiti. Spesso e volentieri sono considerazioni di chi, a spada tratta, difende l’operato dei magistrati, che per il volgo, sono infallibili a prescindere, nonostante lo stesso volgo sia digiuno di nozioni giuridiche per poterne cadenzarne le capacità. «Fama di loro il mondo esser non lassa; misericordia e giustizia li sdegna: non ragioniam di lor, ma guarda e passa.» Non ragioniam di lor, ma guarda e passa è un celebre verso della Divina Commedia di Dante, diventato un modo di dire comune, sebbene con numerose varianti, uguali nel senso, ma storpiate nel testo (non ti curar di loro, non parliam di loro...). Nel Canto III dell'Inferno, al verso 51, Virgilio, guida di Dante, sta descrivendo i cosiddetti "ignavi" (un'attribuzione – in realtà – mai usata da Dante ma nata in seno alla critica), cioè i vili, "coloro che visser sanza 'nfamia e sanza lodo". Dante, infatti, ha una pessima opinione di quelli che, per viltà, nella loro vita non si schierarono mai (gli ignavi), a differenza di lui il cui destino – si pensi solo alla condizione di esule – fu proprio segnato dall'aver abbracciato idee politiche. Egli li pone nell'Antinferno, una collocazione che permette che i dannati possano perfino sentirsi superiori a loro: i malvagi, almeno, hanno scelto una strada, hanno preso una posizione, seppur quella della perdizione. Per questo fa pronunciare a Virgilio la sdegnosa frase: di loro, che nessuna traccia hanno lasciato nel mondo, non vale neppure la pena parlare. Nel linguaggio comune questo modo di dire viene usato con un tono di biasimo, rivolgendolo a quelle persone per le quali non vale nemmeno la pena di sprecare parole di condanna: si deve solo andare oltre, soprassedendo in silenzio. Per questo io non commento il suo pensiero, ma direttamente lo elevo a degno di essere inserito nei miei libri su Sarah Scazzi, citandone l’autore. In modo che i posteri possano leggerne il senso ed assorbirne la sapienza. Alla faccia di quegli italiani che sempre hanno da ridire sulla pagliuzza negli occhi altrui. Gli italiani son così.  Secondo Giacomo Leopardi: “i caratteri più vivaci e caldi di natura, com’è quello degli Italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze [...]. Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci [...] unisce la vivacità naturale [...] all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curar gran fatto della stima e de’ riguardi altrui”. Da  Il Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani (forse 1824, inedito fino al 1906). Oggi, ancor di più, ove ve ne fosse bisogno, la TV è responsabile del degrado culturale della società italiana. L’influenza negativa è dei mass-media ed in particolare della televisione, presente in tutte le case, e per molti  cittadini l’unico mezzo di informazione e, spesso, di intrattenimento. Il sistema politico ed istituzionale registra passivamente la nefasta influenza della TV sulla comunità, le famiglie, i giovani. E’ facile e comodo, non capire e non sapere di che si discute, ma come nei discorsi da bar, accapigliarsi per partito preso. E gli italiani, io, li conosco bene. Falsi buonisti: pronti a scalar montagne per i loro cazzi e ad esser indifferenti alle disgrazie altrui, come, addirittura, a lasciar alla deriva i loro compagni di sventura. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

A Taranto si perde il pelo, ma non il vizio. Assolto dopo 15 anni per un duplice omicidio, scrive “Il Corriere della Sera. Condannato per un delitto mai commesso. Domenico Morrone, 42enne di Taranto, chiederà un risarcimento tra gli 8 e i 12 milioni. Chiederà allo Stato un risarcimento dei danni tra gli 8 e i 12 milioni di euro per aver scontato 15 anni in conseguenza di una condanna definitiva a 21 anni di reclusione per l'omicidio, compiuto a Taranto, di due studenti minorenni che non ha mai commesso. Questa la richiesta che Domenico Morrone, il quarantaduenne tarantino assolto venerdì dalla Corte di appello di Lecce al termine del processo di revisione, presenterà per l'errore giudiziario che ha subito per aver trascorso undici anni e mezzo in carcere e gli altri in semilibertà. Morrone dovrebbe tornare in libertà in questi giorni. Lo annuncia il suo legale, avv.Claudio Defilippi, del Foro di Milano, che ha difeso Morrone assieme alla collega Maria Riccio del foro di Genova. «Chiederemo il risarcimento - spiega Defilippi - per l'errore giudiziario compiuto durante i cinque gradi di giudizio che Morrone ha subito, compresi i due rinvii della Cassazione: in base a quelle che sono le mie conoscenze si tratta del caso di errore giudiziario più eclatante della storia giudiziaria italiana. Il nostro assistito quando fu arrestato era un pescatore incensurato e non aveva mai preso neppure una multa per eccesso di velocità. Aveva, inoltre, una fidanzata, che lo ha lasciato, e ha una mamma anziana che vive in una situazione di povertà ». Morrone, tarantino di 42 anni, era stato condannato per aver ucciso il pomeriggio del 30 gennaio 1991 due ragazzi davanti alla scuola media 'Maria Grazia Deleddà, alla periferia di Taranto. Le due vittime - Antonio Sebastio, di 15 anni, e Giovanni Battista, di 17 - furono sorprese da un sicario che sparò ripetutamente contro di loro con una pistola calibro 22. L'omicidio avvenne tra la gente con modalità efferate. In base agli indizi raccolti da polizia e carabinieri, coordinati dal pm del tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli, Morrone, poche ore dopo i fatti, fu sottoposto a fermo per duplice omicidio, detenzione e porto illegale di arma da fuoco e munizioni e spari in luogo pubblico. Ad incastrarlo - secondo l'accusa - c'erano le testimonianze di alcune persone. Sia al momento del fermo sia durante i processi a suo carico, l'imputato ha sempre detto di essere estraneo ai fatti, ma nessuno gli ha creduto. Secondo la ricostruzione accusatoria, movente del duplice omicidio sarebbe stata una vendetta per un litigio con Giovanni Battista avvenuto per futili motivi una ventina di giorni prima del delitto. Dopo il litigio Morrone era stato ferito e, poco tempo più tardi - secondo una testimonianza poi ritrattata - avrebbe minacciato di morte i due ritenendoli legati alla criminalità e responsabili del suo ferimento. «Tutto falso», ribatte il difensore dell'imputato. «Noi - afferma - abbiamo provato che il duplice omicidio fu compiuto per vendicare lo scippo che una donna aveva subito la mattina del delitto e che, secondo quanto è stato detto nel processo, era stato compiuto dai due ragazzini poi uccisi». All'assoluzione dell'imputato hanno contribuito con le loro dichiarazioni il collaboratore di giustizia Saverio Martinese e l'ex 'pentito Alessandro Ble, che - secondo quanto riferisce l'avv. Defilippi - hanno detto nel corso del processo di revisione di essere certi che Morrone fosse estraneo ai fatti e hanno riferito di aver dedotto, proprio in base alle notizie riferite loro dal presunto autore del delitto, del quale è stato riferito il nome, che a compiere l'omicidio fu il figlio della donna che aveva subito lo scippo, proprio per vendicare l' affronto subito. «Questo processo è stato caratterizzato da lacune immense - denuncia l'avv. Defilippi - e i giudici di merito non hanno mai tenuto conto dell'alibi che Morrone aveva, che era stato confermato sin dal primo annullamento con rinvio della sentenza da parte della Cassazione. L'imputato ha sempre detto che al momento del delitto si trovava nell'appartamento dei coniugi Masone, che vivevano sullo stesso pianerottolo dell'abitazione della sua famiglia. I Masone hanno confermato l'alibi del giovane durante il processo ma sono stati condannati per falsa testimonianza, così come è stata condannata la mamma del giovane che aveva riferito la stessa circostanza: «Queste persone - conclude il legale - sono cadute nella fossa dell' inferno solo per aver detto la verità». Caso Sebai/ “Michele Donvito: la mia battaglia per la verità”, scrive di Annalica Casasanta su “Il Democratico. Quando mi è stato chiesto se volessi intervistare Michele Donvito la mia prima reazione è stata quella di declinare la proposta, non mi sentivo pronta per affrontare un caso del genere e soprattutto non avevo idea di cosa chiedere ad una persona che cinque anni fa, per un clamoroso caso di mala giustizia, ha perso suo fratello, Vincenzo Donvito, accusato dell’omicidio di Celestina Commessatti, uccisa nella propria abitazione di Palagiano, in provincia di Taranto, il 14 agosto 1995. Eppure la persona che mi aspettavo non è quella con la quale ho invece chiacchierato per quasi un’ora, quasi fosse un vecchio amico che non si sente da tempo ma che, appena ritrovato, sia ha l’impressione di non aver mai perso di vista. Quella che mi aspettavo di sentire era la voce di una persona arrabbiata, a pien diritto, col mondo intero, per tutta la scabrosa vicenda che ha colpito la sua famiglia e non solo, per il silenzio del mondo dell’informazione, per il modo osceno in cui le istituzioni si sono occupate del caso, per l’indifferenza generale di una società, la nostra, forse troppo abituata a storie di questo genere per averne ancora voglia di parlare, eppure mi sbagliavo, perché la voce che dall’altro capo del telefono mi spiega fin nei dettagli una storia che nella sua drammaticità presenta dei tratti assurdi e perfino burleschi, non ha nulla a che fare con la rabbia, né tanto meno con la rassegnazione: è una voce che chiede verità, una voce fiera e coraggiosa che implora di essere ascoltata, non ha importanza da chi, perché ad intervistarlo sono io, giornalista dilettante che di interviste così non ne ha mai fatte, mai. Ma ripercorriamo la vicenda. Il nostro giornale si è ampiamente occupato (e di questo siamo fieri) del caso Sebai, il cosiddetto killer delle vecchiette che, tra il 1995 e il 1997 semina il panico tra le anziane di Puglia e Basilicata. Gli omicidi che avvengono sempre con lo stesso modus operandi (le donne coinvolte sono tutte anziane e vengono accoltellate alla gola con un coltello a serramanico mentre le case vengono completamente messe a soqquadro) sono quattordici, quattro dei quali vengono attribuiti a Ben Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino, immigrato clandestino, con diversi precedenti penali, tra cui un arresto per rapina e uno per tentata violenza sessuale (in seguito rilasciato per sospensione condizionale della pena). Pur essendo evidente che si tratti di un omicida seriale altre otto persone finiscono in carcere insieme al Sebai pur dichiarandosi in tutto e per tutto innocenti, tra queste persone c’è anche Vincenzo Donvito, accusato insieme a Giuseppe Tinelli e Davide Nardelli, di aver assassinato Celestina Commessatti. Sebai stesso racconta di aver parlato diverse volte con il detenuto Donvito, perfino tranquillizzandolo perché tutto si sarebbe risolto presto e infatti il 10 febbraio 2006, finalmente, arriva la confessione presso la Procura della Repubblica di Milano: Sebai si proclama colpevole di altri undici delitti (anche della Commessatti) per i quali persone innocenti stanno ancora scontando una pena ingiusta o hanno addirittura già finito di scontarla, peccato però che tale confessione arrivi parecchi mesi dopo il suicidio, presso il carcere di Teramo, di Vincenzo Donvito (21 luglio 2005), il quale avrebbe pagato il suo conto con la giustizia fino al 2017 ma che, fin dagli albori di questa strana storia, continuava a dichiararsi innocente, convinto che presto o tardi, la verità sarebbe venuta a galla insieme al vero colpevole. Sul suicidio del fratello Michele non racconta molto se non che è arrivato inaspettato, “amava molto la vita, non aveva paura di niente”, forse causato da una depressione, eppure anche qui si insinua strisciando un dubbio, per una fantomatica autopsia prima annunciata e poi mai eseguita. Sulle dichiarazioni di Sebai tante sono state le polemiche, c’è chi addirittura lo ha creduto mitomane, inventore di storie macabre solo per salvare detenuti conosciuti in carcere, eppure il tunisino non ha mai nascosto la sua volontà di voler pagare per quello che aveva fatto, totalmente cosciente dei fatti accaduti anni addietro da ricordarne particolari fin nei minimi dettagli, indicando orari, luoghi, oggetti appartenuti alle vittime, persone, percorsi compiuti e quant’altro. In seguito alla sua confessione il caso finalmente viene riaperto ma, ed è questo il vero tasto dolente, dichiarazioni simili il Sebai le aveva già fatte, nel lontano 1999, invano diremmo, perché non fu creduto e venne liquidato senza troppi giri di parole come un mitomane senza neppure essere sottoposto a perizia psichiatrica. Quante vite sarebbero ancora salve se già nel 1999 si fosse agito in maniera diversa? Certo il prezzo più alto lo ha pagato Vincenzo Donvito ma altre persone stanno pagando col carcere per reati dei quali non hanno colpe. Il 6 maggio 2008 i difensori dei vari detenuti congiuntamente al difensore di Sebai, l’avvocato Luciano Faraon (fondatore dell’ANVEG, Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari, nata proprio in seguito ai fatti in questione) si sono persino rivolti al Presidente della Repubblica, invocandone l’aiuto affinché persone ingiustamente condannate potessero ottenere quantomeno una sospensione della pena in attesa che la lentissima giustizia italiana giungesse ad una conclusione. Ma nulla si è mosso finora, almeno nei piani alti. Le persone invece, non smettono di lottare e così i parenti dei detenuti, insieme coi loro avvocati, stanno affrontando da soli i costi di un processo che si prevede durerà ancora molto. Finalmente, qualche giorno fa, una buona notizia dal Tribunale di Foggia: dalla perizia psichiatrica (finalmente!) eseguita su Sebai, risulta l’assoluta attendibilità del reo confesso; qualcosa si sta muovendo ma la strada per ottenere giustizia è ancora irta di ostacoli. Non me la sento di chiedere a Michele Donvito se ha ancora fiducia nella giustizia italiana, immagino e comprendo la sua risposta, e infatti quando inavvertitamente mi sfugge un commento su di essa Michele risponde: “Come faccio a credere… non ci credo più, anche perché la sensazione è che non ne vogliano più parlare di questa storia”. Noi però ne parliamo e la seguiremo sempre da vicino, in attesa del ricorso d’appello previsto a gennaio, affinchè Donvito, che lotta per far chiarezza sulla vicenda di suo fratello, e tutte le persone che sono vittime di errori giudiziari spesso irreparabili, possano tornare a credere nella giustizia, perché la verità non si deve mai smettere di cercarla.

Paradossi giudiziari: “Io ho confessato, ma nessuno mi crede”, scrive Antonio Rossitto su “Panorama”. Il perfetto canovaccio di un film sull’assurdità della giustizia italiana è stato scritto la scorsa settimana in una piccola aula del tribunale di Taranto. Sinossi: due magistrati indagano sulle proprie inchieste. Negli anni passati hanno ottenuto la condanna di sei persone, che si proclamano innocenti, per l’omicidio di tre anziane. Delitti di cui si è poi accusato il tunisino Ezzedine Sebai, il “killer delle vecchiette”. Sulla base di questa nuova ipotesi, la procura decide quindi nel 2006 di riaprire i casi. E a chi vengono affidati? A Pina Montanaro e Vincenzo Petrocelli, gli stessi pubblici ministeri che avevano chiesto il carcere per i sei. I magistrati in sostanza si dovranno adoperare per scoprire se hanno mandato degli incolpevoli in galera. Se sono gli autori di quello che potrebbe essere il più grande errore giudiziario mai avvenuto in Italia. Stando al Codice di procedura penale, potrebbero astenersi “per gravi ragioni di convenienza”. Eppure, la procura procede. Le inchieste inciampano in prove e riscontri: il tunisino è rinviato a giudizio. Ma la scorsa settimana i due magistrati ne chiedono l’assoluzione: è un “mitomane”, sostengono. Un loro collega, che ha indagato sull’omicidio di un’altra anziana, la pensa diversamente: quello che dice Sebai è vero, merita trent’anni. Spaccatura che esemplifica i guazzabugli di una procura già coinvolta in ingiuste detenzioni clamorose. Come quella di Domenico Morrone, per cui ottenne la pena proprio Petrocelli, che a dicembre ha avuto il risarcimento record di 4,5 milioni di euro. O come la vicenda dei quattro uomini ritenuti colpevoli e poi assolti per la “strage della barberia”, che ora chiedono 12 milioni di euro di risarcimento. Il tunisino che rischia di generare l’ennesimo cortocircuito giudiziario ha 44 anni. Ha affermato di avere ucciso 14 anziane in Puglia, tra il 1995 e il 1997. Vedove che gli ricordavano le megere che da bambino abusavano di lui: per questo le avrebbe ammazzate, stordito da alcol e risentimento. Oggi è rinchiuso nel carcere di Augusta, vicino a Siracusa, dove sconta l’ergastolo per cinque omicidi. In molti casi invece le indagini non sono partite. Per quattro assassinii è sotto processo a Taranto: per tre di questi sono già stati puniti presunti innocenti. A dispetto delle parole del serial killer e dei riscontri alle sue dichiarazioni. Come nel caso dell’uccisione di Grazia Montemurro, sgozzata nella sua casa di Massafra il 5 aprile 1997. La sera stessa viene arrestato il nipote, Cosimo Montemurro. Si prende 18 anni ed esce dal carcere a novembre 2007. Due anni prima Sebai si era intestato i 14 delitti, compreso quello di Massafra. Racconta dettagli, dà orari precisi, ricostruisce dinamiche. Del caso si occupa il pm di Taranto Pina Montanaro, che aveva già chiesto la condanna del nipote della signora. Per il magistrato le parole del tunisino non bastano. Potrebbe avere letto quei particolari sui giornali. O averli appresi in carcere. Allora imbastisce la prova del nove. Fa accompagnare Sebai alla stazione di Massafra. I carabinieri gli dicono di raggiungere la casa dell’omicidio. Il serial killer ha raccontato di essersi spostato in treno e poi a piedi. Quella strada dovrebbe conoscerla: infatti porta i militari all’abitazione. Mentre riemerge la testimonianza di un prete che ha parlato con il tunisino nei giorni dell’assassinio. Riassumendo: il serial killer conosce i particolari dell’uccisione, il luogo del delitto, il modo per arrivarci, è stato visto da un testimone. Ma non gli credono. Colpevole è ritenuto Cosimo Montemurro, che si dice innocente. Il magistrato, riconsiderando la sua vecchia indagine, conclude che il tunisino non c’entra: mente, per motivi oscuri. “L’incompatibilità del magistrato è evidente” accusa Luciano Faraon, che difende Sebai da tre anni. “È troppo coinvolta nel caso, visti i precedenti. Avrebbe dovuto astenersi, però inspiegabilmente non l’ha fatto. A Taranto stanno ammazzando il giusto processo”. La procura sostiene l’ipotesi contraria: per sveltire gli accertamenti era necessario affidare i casi a chi se n’era già occupato. Montanaro ha riaperto l’inchiesta su un altro delitto. L’omicidio di Pasqua Ludovico, 86 anni, sgozzata con 12 coltellate nel maggio 1997 a Castellaneta. Vengono condannati a 16 anni due braccianti: i fratellastri Vincenzo Faiuolo e Francesco Orlandi. Si incolpano a vicenda, ma ritrattano subito dopo. È l’unico elemento contro di loro. Contro Sebai, invece, c’è molto di più. Anche in questo caso il tunisino viene portato alla stazione e raggiunge l’appartamento della vittima: “Riconosce senza ombra di dubbio due porte finestre di colore verde” annotano i carabinieri di Taranto. Il tunisino racconta di avere rubato una pistola e dei proiettili. Dopo li ha nascosti a casa. In effetti dall’abitazione dell’anziana manca una vecchia rivoltella del marito, morto nel 1950. E nell’appartamento di Sebai c’è una pistola arrugginita: “Potrebbe risalire agli anni 1940-1950 circa” scrivono i carabinieri. Eppure, il magistrato chiede l’assoluzione. “È un mitomane” dice nella requisitoria. Vuole scagionare i detenuti conosciuti in carcere. Ma perché? E com’è arrivata quella pistola a casa sua? Come faceva a conoscere la strada? Gli avevano schizzato una piantina nell’ora d’aria ipotizzando già che venisse portato alla stazione? Claudio Defilippi, che difende i fratellastri incolpati dell’omicidio, chiede che intervengano il Csm e il ministero della Giustizia: “Le prove contro il tunisino sono lampanti. I magistrati non dovevano accettare l’incarico per chiara incompatibilità. Avevano già chiesto la condanna di persone che si assumono innocenti. Ora il tunisino è stato scagionato. Così resta il dubbio che i pm abbiano ratificato le loro precedenti decisioni”. Anche per il delitto di Celeste Commessatti, 73 anni, assassinata a Palagiano il 13 agosto 1995, il pm Vincenzo Petrocelli, che adesso ha chiesto l’assoluzione per Sebai, aveva ottenuto il carcere per tre persone, tra cui Vincenzo Donvito, suicida in cella il 19 luglio 2005. Petrocelli è lo stesso magistrato che fece condannare a 21 anni il pescatore tarantino Domenico Morrone: incarcerato per l’uccisione di due ragazzi, poi assolto e risarcito un mese fa: i 4,5 milioni di euro sono la più alta somma mai pagata dal ministero della Giustizia per un’ingiusta detenzione. Pure per l’assassinio di Palagiano Sebai fornisce dettagli con una dovizia che non ha il sapore dei racconti di seconda mano. Al pm dichiara di avere venduto la refurtiva a un ricettatore di Taranto, “Silviuccio”. La polizia, dal nomignolo, risale a Silvio Epiro. Lo torchia, fino a quando l’uomo non tira fuori dalla tasca sinistra della giacca due collane e tre anelli di oro giallo: i gioielli rubati nella casa di Celeste Commessatti. “Me li ha dati Fathi Said”. E chi è? Uno degli alias di Ezzedine Sebai, il serial killer a cui due magistrati hanno deciso di non credere.

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA. MICHELE MISSSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA. Scrive il Dr Antonio Giangrande. Di questo come di tante altre manchevolezze dei media petulanti e permalosi si parla nel saggio “Mediopoli. Disinformazione. Censura ed omertà”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it. Il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! E che dire dei moventi, a cercare qualcosa che si adatta si trova sempre. Per Sabrina Misseri è la gelosia. Ivano Russo: «C’è stato un momento che io mi sono sentito come un sospettato. Anche perché soprattutto mi ricordo al primo interrogatorio c’è stata una frase di un carabiniere. Parlandomi ha detto che….siccome mi stavano tenendo per parecchie ore, io gli ho chiesto “ma perché mi tenete qua tante ore” e lui mi rispose che praticamente…siccome a me era venuto a mancare mio padre, avevo…ero arrabbiato con l’esistenza, con Dio, poi…allora sarei stato capace di fare qualche cosa di grave, E lì ho incominciato ad aver paura di un errore giudiziario.» In virtù di una giustizia che va alla rovescia (chi si dichiara colpevole sta fuori, chi si dichiara innocente sta dentro) tutta la settimana, ed in special modo la domenica, tutti i talk show pomeridiani condotti da improvvisati conduttori, parlando di Michele Misseri, si concentravano a trovare breccia nelle sue dichiarazioni per minarne la sua attendibilità, fino a tendergli delle trappole televisive. Da un lato domenica 9 dicembre 2012, mentre venivano mandate in onda le dichiarazioni che Michele Misseri aveva rilasciato a Ilaria Cavo, Barbara d’Urso su Canale 5 intervistava Anna Pisanò, supertestimone dell’accusa al processo contro Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Lo zio di Sarah è intervenuto telefonicamente. Misseri si è scagliato contro Anna Pisanò, coinvolgendo anche la conduttrice Barbara d’Urso per quello che ha definito un programma colpevolista che influenza la gente: “Voi la verità non la conoscete. E quando questa uscirà, vedremo chi avrà ragione. Sono arrabbiato non con voi, ma con me. Tu Anna perché vai in televisione? Tu non c’eri quel giorno, sei una bugiarda, vuoi influenzare la gente così nessuno crede alla mia verità. Sarah non voleva più vederti, lo sai!”. Nel proseguo del 16 dicembre la stessa D’Urso, con la sua maschera napoletana, definendosi anch’essa figlia del popolo che conosce il modo di pensare nei paesini (sic) tendeva delle trappole a Michele per trarlo in inganno con l’intento di farlo capitolare e fargli confessare le colpe di Sabrina. Un chiaro esempio di servilismo e sottomissione ai magistrati ed uno sfregio ad una emittente televisiva, se pur privata, che arriva in tutte le case della gente. Né Michele, né sua moglie, né sua figlia da anni non capitolano e non certo perché sono dei professionisti del crimine. 11 ore di interrogatorio di Michele da aggiungere alle altre 11 precedenti e su richiesta di esame della difesa degli imputati non può conseguire per la stessa difesa una risultanza negativa, eppure per la stampa è stato così, influenzando in questo modo il popolino. Certo è che nessuno ha paventato l’ipotesi che confessando l’omicidio Michele Misseri deve essere accusato di omicidio e di calunnia e di falsa testimonianza in aggiunta agli altri reati contestatogli ovvero essere accusato di falsa testimonianza ed auto calunnia, sempre in aggiunta al resto dei reati già contestati. Ma quanto può essere attendibile un testimone ed il suo racconto? Quando si parla di testimonianza si intende il racconto di un evento, filtrato tramite l'esperienza di un narratore che ha vissuto la scena; è chiaramente implicita, dunque, la connotazione soggettiva della testimonianza. Parte proprio da questa semplice osservazione il nodo del problema che si pone a riguardo: quanto può essere attendibile una testimonianza? La testimonianza riporta sia una parte di verità oggettiva sia una costruzione soggettiva dei fatti, legata a componenti emozionali e situazionali che influenzano il ricordo, ma anche ad errori di memoria. Data la grande rilevanza della testimonianza diretta, è posta grande attenzione al testimone oculare in casi giudiziari, in particolare alle caratteristiche della testimonianza, nell'intenzione di giudicare nel miglior modo possibile l'effettiva veridicità della stessa; ma si può credere in assoluto ad un individuo che dice di ricordare esattamente un evento che “ha visto con i suoi occhi”? La memoria è un meccanismo imperfetto, dal momento che è influenzato da molteplici fattori che possono intervenire nelle tre diverse fasi precedentemente citate ed ostacolare così la modalità corretta di codifica, mantenimento e recupero di un ricordo. Molti studi ed esperimenti hanno dimostrato che nell’osservazione e nel racconto di un evento, è fondamentale l’influenza delle caratteristiche proprie di un individuo, dei suoi schemi mentali e delle sue conoscenze pregresse, nonché delle caratteristiche della situazione. Si può affermare che l'attendibilità di una testimonianza possa essere determinata da due fattori principali: Accuratezza, ovvero la corrispondenza tra realtà oggettiva e soggettiva, e Credibilità, ovvero il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a dichiararlo. Purtroppo gli esperimenti hanno evidenziato che il giudicante non è in grado di giudicare in maniera corretta l'attendibilità del testimone ed hanno messo in luce una sorta di processo inferenziale attraverso cui sembra che le persone, per giudicare l'attendibilità di un testimone, si affiderebbero al grado di sicurezza da lui stesso mostrato nel corso di una testimonianza. Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. «L'ultima volta che ho incontrato in carcere Sebai, circa 10 giorni fa, mi aveva chiesto la Bibbia. Nonostante Sebai sia un musulmano – precisa il legale – mi aveva chiesto la Bibbia perchè io, da cristiano, gli ero vicino. - Secondo Faraon, che è anche presidente dell’Anveg, Associazione nazionale vittime errori giudiziari, Sebai, in carcere dal 1997, - decise di confessare altri omicidi nel 2006 per una crisi di coscienza, dopo aver appreso del suicidio in carcere di un tarantino condannato per uno degli omicidi confessati dal serial-killer». Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. L'avvocato Faraon ha chiesto che venga disposta l’autopsia sul corpo. Secondo quanto riferito dal legale, quando aveva sette anni il tunisino sarebbe stato colpito alla testa dal padre con una chiave inglese. Il colpo gli aveva provocato gravi lesioni cerebrali. Ed era del serial killer delle vecchiette l’impronta digitale dimenticata per 9 anni in casa della vittima. Fu rinvenuta su una scatola di caramelle «Rossana» nell’appartamento di Anna Maria Stella, la maestra settantenne di Trinitapoli sgozzata a scopo di rapina nella sua abitazione il primo maggio del ‘97. Ma per scoprire che appartenesse al serial-killer ci sono voluti 9 anni; la riapertura dell’indagine dopo la confessione dell’imputato arrivata nel 2006; l’intuito del pm foggiano Ludovico Vaccaro; gli accertamenti dei carabinieri del Ris. Proprio l’interrogatorio di un sottufficiale del Reparto investigazioni scientifiche di Roma ha caratterizzato l’udienza in corte d’assise del processo a Ben Ezzedine Sebai, il tunisino di 45 anni in cella dal settembre ‘97, già condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi di vecchiette e che nel 2006 ha confessato d’aver ucciso e/o aggredito 15 anziane negli anni Novanta in Puglia e Basilicata. Sostiene d’aver agito perchè erano le voci a ordinargli di ammazzare. «Recentemente la corte di Cassazione ha disposto l'annullamento con rinvio di una condanna a 18 anni di carcere - precisa Faraon – per un omicidio compiuto a Lucera (Foggia) per esaminare, anche sulla base della perizia del prof. Mastronardi, la sua capacità di volere». Il legale ribadisce che nelle vicende giudiziarie che hanno riguardato Sebai ha «sempre visto delle abnormità». «Due confessi omicidi che a Taranto non sono creduti. La magistratura requirente sposa una tesi spesso sbagliata e la magistratura giudicante gli va a ruota. Non è la prima volta che succede. Non era tanto malsana l’idea di Franco Coppi di chiedere la rimessione del processo Sarah Scazzi in altro foro» spiega Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul delitto di Sarah Scazzi e su Taranto ha scritto dei libri inseriti nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Basta ricordare i precedenti. «Non ha altro da aggiungere per fare chiarezza definitiva su tutto?» ha chiesto a Michele Misseri l’avv. Franco Coppi, uno dei difensori della figlia Sabrina. «Devo chiedere solamente – ha risposto zio Michele - perdono a tutti, anche alla mamma di Sarah che io non ho voluto mai contraddire perchè dopo tutto ha perso una figlia. Io sto nei panni suoi. Io non ho mai commentato contro di lei». «Non volete la verità. Solo io sto facendo la verità per quella poveretta. Io l'ho ammazzata una volta, voi chissà quante volte l'avete ammazzata». Lo ha detto Michele Misseri rivolgendosi ai pm Mariano Buccoliero e Piero Argentino in aula durante il processo sull’omicidio su Sarah Scazzi. «Lei – ha aggiunto il contadino riferendosi a Concetta Serrano – è convinta che sono state mia figlia e mia moglie, ma se erano state loro perchè io mi devo assumere ancora la responsabilità? Non ce la faccio ad andare avanti, devo parlare anche per gli innocenti che stanno in carcere». E poi la violenza sul cadavere, spiega Misseri, “era una bugia con altre bugie”. Perchè, sostiene, lui non ha mai tentato di violentarla e tantomeno ha oltraggiato il cadavere. «L’ho fatta trovare nuda nel pozzo e prima che me lo dicessero loro (gli inquirenti) l’ho detto io». Michele spiega il significato che ha per lui il luogo in cui porta il corpo della nipote. «Sotto il fico mio padre mi picchiava». Ha subito altre violenze lì? Gli chiede Coppi. Michele, in difficoltà, non smentisce: «Questo è stato sempre un segreto, che non conoscono né mia moglie né mia figlia. Non vorrei rispondere a questa domanda». Caso Michele Misseri e caso Sebai, stessa sorte, stesso muro di gomma. Il 13 febbraio del 2009 il giudice per l’udienza preliminare Valeria Ingenito emise sentenza di assoluzione per l’omicidio di Grazia Montemurro, la 75enne di Massafra ammazzata il 4 aprile del 1997, nei confronti del serial killer Ben Ezzedine Sebai, 43enne di Kairouan (Tunisia), reo confesso. Quella sentenza è stata impugnata dall’avv. Giorgio Faraon, difensore di Sebai, e dall’avv. Ignazio Dragone, legale di parte civile. Sebai dopo essere stato condannato in via definitiva a 4 ergastoli per l’assassinio di altrettante anziane, ha deciso di confessare altri 10 omicidi e un tentato omicidio. Autoaccusandosi, intende scagionare detenuti che a suo dire sono stati accusati ingiustamente. Il gup Valeria Ingenito lo ha condannato all’ergastolo per l’omicidio di Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza il 21 agosto del 1997, mandandolo assolto dai delitti di Celestina Commessatti, 73 anni (Palagiano, 13 agosto 1995), Pasqua Rosa Ludovico, 86 anni (Castellaneta, 14 maggio 1997) e, appunto, Grazia Montemurro. A puntare alla condanna di Sebai è in maniera particolare l’avv. Ignazio Dragone, costituitosi parte civile per conto dei parenti della vittima ma legale anche di Cosimo Montemurro, l’ex dj di Massafra condannato a 18 anni di reclusione per l’omicidio della zia Grazia. Secondo l'accusa, Cosimo Montemurro avrebbe assassinato sua zia perchè non sopportava più di essere rimproverato. Il cadavere dell'anziana fu rinvenuto nell'abitazione di via Felice Cavallotti. Il nipote, che aveva trascorso la giornata a Mottola, dove abitava la fidanzata, rientrò a casa intorno alle 22. Fra zia e nipote, secondo le motivazioni della sentenza di condanna, scoppiò l'ennesimo diverbio. Colto da un raptus, Montemurro avrebbe afferrato un coltello da cucina con la lama zigrinata e sferrato un fendente alla gola dell'anziana zia. Poi avrebbe abbandonato l'appartamento per incontrarsi con due amici. Intorno a mezzanotte, sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, il presunto assassino sarebbe tornato sul luogo del delitto per allertare le forze dell'ordine. Il giovane massafrese crollò dopo quattordici ore di interrogatorio, motivando la follia omicida con la reazione ad un pesante rimprovero da parte della donna. Il caso sembrava chiuso. Poi, il presunto assassino ritrattò tutto, attaccando i carabinieri che lo avrebbero indotto, con la forza, a dichiarare il falso. Con la confessione del serial killer, Cosimo Montemurro, tornato in libertà dopo 10 anni di carcere, è tornato a sperare nella revisione del processo. La maestra sgozzata Anna Maria Stella fu sgozzata e rapinata nella sua abitazione di Trinitapoli il primo aprile del ‘97. In quel periodo in tutta la Puglia c’era la psicosi del killer delle vecchiette che aveva già colpito ripetutamente e ucciso: entrava in casa di anziane che vivevano sole, le uccideva con coltelli o punteruoli, rovistando in casa e rubando ori e soldi. All’epoca della morte della maestra trinitapolese, Ben Sebai non era stato ancora catturato: successe qualche mese dopo, il 16 settembre del ‘97, quando il tunisino fu arrestato dai carabinieri in flagranza a Palagianello, in provincia di Taranto, subito dopo aver ammazzato l’ennesima vecchietta. In seguito all’arresto di Ben Sebai, la Procura foggiana lo indagò formalmente - l’informazione di garanzia per omicidio gli venne notificata in carcere nel novembre del ‘98 - per l’omicidio della maestra trinitapolese. Fu disposto l’esame del dna su una cicca di sigaretta trovata in casa della vittima per verificare se fosse di Ben Sebai: visto l’esito negativo di quell’accertamento, le accuse contro il tunisino in relazione all’omicidio Stella furono archiviate. Nessuno pensò in quella fase investigativa di verificare se le due impronte digitali trovate su una scatola di caramelle in casa Stella fossero del serial killer. Le indagini sull’omicidio Stella (ed anche il delitto Garbetta e l’aggressione alla foggiana Assunta Aprile) si riaprirono nel 2006 con la decisione di Ben Sebai, detenuto da 9 anni, di confessare 15 delitti. Il pm Ludovico Vaccaro riaprì le indagini sui casi foggiani; rilesse il fascicolo processuale relativo al delitto Stella (non era lui il titolare dell’inchiesta nel ‘97/98); notò che su una scatola di caramelle rinvenuta in casa Stella furono trovate due impronte digitali; ordinò al Ris d’accertare se appartenessero al seriale killer. Responso positivo per una delle due impronte, il che rappresenta un fondamentale riscontro alla confessione del tunisino: basti pensare che Ben Sebai ha anche confessato l’omicidio di due anziane per le quali non è stato creduto, tant’è che sono stati condannati altri imputati. Quando Ben Sebai fu arrestato nel settembre ‘97 e poi condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi si dichiarava innocente. La svolta e la confessione arrivarono 9 anni dopo nel carcere milanese: disse che le voci gli ordinavano di uccidere le vecchiette che gli ricordavano la madre e la nonna con cui da bambino aveva un rapporto di odio-amore. Il difensore, l’avv. Lucian Faraon, punta ad una perizia psichiatrica, ma Ben Sebai vi è stato già sottoposto recentemente per un altro omicidio scoperto dopo la confessione (quello della lucerina Madonna Celeste uccisa in casa il 24 aprile ‘96, per il quale è stato condannato a 18 anni) e gli esperti hanno escluso l’infermità mentale del serial killer. La Vergogna di essere italiano. Faiuolo, Orlandi, Nardelli, Tinelli, Montemurro, Donvito sono innocenti, ma colpevoli solo per convinzione personale dei giudici? Ben Mohammed Ezzedine Sebai (il Killer delle vecchiette), che tra il 1995 e il 1997 si macchiò dell’omicidio di ben 14 anziane tra Puglia e Basilicata. Nonostante il legittimo sospetto che non vi potesse essere serenità di giudizio, ed non essendo prevista la ricusazione del PM, si è permesso di giudicare il Sebai a Taranto con il rito abbreviato per delitti di cui altri già erano già stati condannati dal quel foro e accusati, in particolare, dagli stessi PM. Nessuno delle parti in causa (pubblici ministeri, avvocati e giudice), che abbia chiesto la rimessione del processo in altro foro per legittimo sospetto di parzialità nel giudizio. I media tacciono la vergogna. Nella puntata di “Agorà” dell’8 febbraio 2011 su Rai Tre, dalle 9.00 alle 11.00, sarebbe dovuta andare in onda un’inchiesta della giornalista Angela Caponnetto sulla censurata vicenda Sebai. Nell’inchiesta si sarebbero potute ascoltare le parole di Michele Donvito, fratello di Vincenzo, suicidatosi nel carcere di Teramo nel 2005, accusato dell’omicidio di Celestina Commessatti, uccisa nella sua abitazione di Palagiano, in provincia di Taranto, il 14 agosto 1995. Eppure già nel 1999 il tunisino Ben Mohamed Ezzedine Sebai si era dichiarato colpevole dell’omicidio della stessa, confessione rafforzata di particolari e dettagli solo nel 2006. In studio era presente anche la giornalista che per cinque ore ha intervistato Donvito sulla triste vicenda, che ha coinvolto e stravolto la sua famiglia, eppure, a detta del suo conduttore, Andrea Vianello, di tempo non ce n’è stato a sufficienza e il servizio è saltato. La Caponnetto è stata liquidata con delle semplici scuse e la vicenda rimane nell’oblio. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha accolto la richiesta di revisione del processo, trasmettendo gli atti alla Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Vincenzo Faiuolo, arrestato per il delitto di Pasqua Ludovico, anziana uccisa in provincia di Taranto negli anni '90. Faiuolo è una delle otto persone arrestate per diversi omicidi di anziane uccise in Puglia in quegli anni. Omicidi dei quali poi si è confessato colpevole Ben Mohamed Ezzedine Sebai, soprannominato 'il serial killer delle vecchiette'. A darne notizia è l'avvocato Claudio Defilippi, legale dello stesso Faiuolo, condannato a 25 anni di carcere, di cui ne ha scontati 15 anni. Defilippi spiega che è stata accolta anche la richiesta di revisione del processo, con rinvio alla sezione per i minorenni della Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Davide Nardelli, all'epoca dei fatti minorenne, che fu condannato a 7 anni per il delitto di un'altra anziana e che ha già finito di scontare la pena. "La Cassazione dice che la revisione dei processi deve andare avanti. Chiediamo ora che siano riaperti i procedimenti per questi diversi omicidi", afferma Defilippi. Il signor Sebai viene schedato con foto ed impronte sin dal 1991, dai carabinieri di Bolzano. Egli, nel corso delle dichiarazioni rese al sostituto procuratore del tribunale di Milano, dottor Nobili, in data 10 febbraio 2006, e successivamente confermate, a dicembre 2008, davanti al sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor, Ludovico Vaccaro, ha confessato i seguenti omicidi, compiuti tra il gennaio 1994 ed il settembre 1997: gennaio 1994, presunta vittima ignota, in assenza di riscontri investigativi, poi identificata a seguito dell'interrogatorio di Sebai avanti al pubblico ministero di Foggia (avvenuto nel dicembre 2008, come citato in premessa) in Aprile Assunta, la quale è l'unica vittima sopravvissuta; 8 luglio 1995, Vernetti Petronilla, anni 83, Melfi (Potenza), assolto; 13 agosto 1995, Commessatti Celeste, anni 83, Palagiano (Taranto), per il quale delitto sono stati condannati Nardelli Davide e Tinelli Giuseppe, minorenni all'epoca del fatto, e Donvito Vincenzo, suicidatosi nel 2006 nella Casa di Reclusione di Teramo; 24 aprile 1996, Madonna Celeste, anni 81, Lucera (Foggia), omicidio irrisolto, nel 2008 Sebai condannato a 18 anni; 30 maggio 1996, Garbetta Giuseppina, anni 72, San Ferdinando di Puglia (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai; 10 agosto 1996, Stano Anna, anni 85, Ginosa (Taranto), ergastolo; 15 gennaio 1997, Totaro Maria, anni 76, Cerignola (Foggia), ergastolo; 5 aprile 1997, Montemurro Grazia, anni 76, Massafra (Taranto), per il quale delitto è stato condannato diciotto anni di reclusione Montemurro Cosimo, nipote della vittima; 1o maggio 1997, Stella Anna Maria, anni 69, Trinitapoli (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai; 9 maggio 1997, Leone Santa, anni 82, Canosa di Puglia (Bari), processato e assolto; 14 maggio 1997, Ludovico Pasqua, anni 86, Castellaneta (Taranto) per il quale delitto sono stati condannati Faiulo Vincenzo e Orlandi Francesco, rei confessi; 28 luglio 1997, Valente Maria, anni 84, Palagiano (Taranto), ergastolo per il quale delitto, oltre all'ergastolo per Sebai, sono stati condannati anche Tinelli Giuseppe e la di lui madre e sorella; 21 agosto 1997, Lapiscopa Rosa Lucia, anni 90, Laterza (Taranto), ergastolo; 27 agosto 1997, Sansone Angela, anni 84, Spinazzola (Bari), ergastolo; 15 settembre 1997, Nico Lucia, anni 75, Palagianello (Taranto), ergastolo; per il delitto del gennaio 1994, ai danni di Aprile Assunta, unica sopravvissuta delle 15 vittime, quantunque ricoverata in prognosi riservata, gli investigatori non rilevarono le impronte digitali e, inoltre, a dispetto delle accuratissime descrizioni dell'aggressore, fornite dalla vittima, non fu esperita alcuna ricerca fra le foto schedate nel casellario centrale. Un tale accertamento avrebbe potuto impedire tutti i successivi 14 delitti, risalendo ai dati del Sebai schedati sin dal 1991; per il delitto del 13 agosto 1995, ai danni di Commessatti Celeste, il signor Sebai viene fermato con la refurtiva sottratta alla vittima, viene fotografato, vengono rilevate le sue impronte digitali e poi rilasciato. In tale circostanza, la negligenza investigativa, manifestatasi già nel 1994, assume connotati gravi aprono la strada ai successivi 5 delitti, confessati dal Sebai; per il delitto del 1o maggio 1997, ai danni di Stella Anna Maria, nel corso delle indagini successive, furono rilevate le tracce di Dna sulle cicche di sigaretta, rinvenute sulla scena del delitto, nonché le impronte digitali. Comparato il Dna a quello di Sebai, risultando negativo, Sebai fu rilasciato senza comparare le impronte digitali. Solo nel 2008, cioè 11 anni dopo, a seguito degli accertamenti disposti dal nuovo sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor Ludovico Vaccaro, si scoprirà che Sebai aveva lasciato l'impronta sulla scena del delitto Stella. L'accertamento sulle impronte, omesso nel 1997, consente al Sebai lo stato di libertà nel corso del quale compie altri 6 omicidi. ''La procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia l’avv. Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni “pur essendo innocenti”. Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la corte d’appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono condannate per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’assise d’appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti. Altro precedente: Non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocenti ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi. Per la Procura, che sostiene la tesi della colpevolezza di Sabrina e della madre Cosima per il delitto e la responsabilità di Michele Misseri solo per la soppressione del cadavere di Sarah, la ritrattazione della psicologa sono manna dal cielo, un supporto alle proprie tesi. Da tenere presente una cosa: trattare come veritiere le dichiarazioni di Dora Chiloiro rese nell’udienza preliminare e nella precedente testimonianza in Corte d’Assise o considerare quest’ultima trattazione come la vera verità? Certo che a rettificare la dichiarazione nello stesso procedimento, porta la Chiloiro a liberasi del fardello del procedimento penale per falsa testimonianza, non incorrendo così nelle conseguenze di carattere professionale. Questa cosa dà da pensare. Scegliere la propria carriera ed i propri interessi o salvare delle vite umane dal carcere? Una scelta di carattere pratico o una strategia difensiva, oppure cedere al rimorso della coscienza? Questa è solo una considerazione di carattere logico, non una diffamazione nei confronti di chiunque. Anche perché a Taranto ogni logica, anche giuridica viene disattesa. Taranto dove i magistrati si sentono anche legislatori. I magistrati di Taranto hanno una loro ben definita contrapposizione: «Prendiamo atto che il governo, di fronte ad una situazione complessa e con gravi ripercussioni occupazionali, si è assunto la grave responsabilità di vanificare le finalità preventive dei provvedimenti di sequestro emessi dalla magistratura e volti a salvaguardare la salute di una intera collettività dal pericolo attuale e concreto di gravi danni», dice il segretario dell'Associazione magistrati (Anm), Maurizio Carbone, proprio a Taranto sostituto procuratore. Per Carbone «resta tutta da verificare la effettiva disponibilità dell'azienda ad investire i capitali necessari per mettere a norma l'impianto e ad adempiere alle prescrizioni contenute nell'Aia», tenuto conto che «sino ad ora la proprietà ha dimostrato di volersi sottrarre all'esecuzione di ogni provvedimento emesso dalla magistratura». Ed ancora non ha lesinato critiche al provvedimento d'urgenza di Palazzo Chigi: «È un'invasione di campo, dov'è finito il principio della separazione dei poteri? Il decreto legge vanifica di colpo tutti gli effetti dei provvedimenti presi dai magistrati per la tutela della salute dei cittadini. Il governo, così facendo, si è preso una grossa responsabilità». Per il gip di Taranto Patrizia Todisco la nuova Aia per l'Ilva «non si preoccupa affatto della attualità del pericolo e della attualità delle gravi conseguenze dannose per la salute e l'ambiente». L'attività produttiva dell'Ilva è «tuttora, allo stato attuale degli impianti e delle aree in sequestro, altamente pericolosa». I tempi di realizzazione della nuova Aia sono «incompatibili con le improcrastinabili esigenze di tutela della salute della popolazione locale e dei lavoratori del Siderurgico», scrive il gip. Tutela che «non può essere sospesa senza incorrere in una inammissibile violazione dei principi costituzionali» (articoli 32 e 41). Come è possibile, sulla base di quanto emerso dalle indagini, «autorizzare comunque l'Ilva alle attuali condizioni e nell'attuale stato degli impianti in sequestro, a continuare da subito l'attività produttiva», senza «prima pretendere» gli interventi di risanamento? aggiunge il gip dicendo no al dissequestro degli impianti. La partita con l'Ilva non è finita, «abbiamo ancora qualche cartuccia da sparare», sorride amaro il procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, che proprio non ci sta a passare per «il talebano», così come viene definito sui giornali, «il pazzo nemico di 20 mila operai», «se solo avessi cinque minuti per un caffè con il presidente Napolitano e con Mario Monti racconterei loro dei bambini che qui nascono già malati di tumore...», si sfoga il vecchio magistrato. La Procura solleva eccezioni di incostituzionalità del decreto legge di Palazzo Chigi, chiedendo l'intervento della Corte Costituzionale. Il diritto all'eguaglianza, ad esempio: la legge è uguale per tutti, no? Ma se la legge è nata per l'Ilva, dove finiscono i principi di astrattezza e generalità? Intanto, oltre al sindaco di Taranto, alcuni preti della città, alcuni giornalisti tarantini, alcuni parlamentari locali, l’inchiesta coinvolge anche la provincia. Così come per il delitto di Avetrana: nel dubbio, tutti dentro, avvocati compresi. L'inchiesta afferra il Presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, un passato importante da sindacalista quale ex segretario regionale della Cisl e un presente da dirigente locale del Pd. Un'informativa di 182 pagine in parte mutilata da omissis e allegata all'ordinanza di custodia cautelare che aveva già bussato al palazzo della Provincia, relegando agli arresti domiciliari l'ex assessore all'ambiente Michele Conserva, lo fulmina in poche righe. "Si evidenzia - scrivono i militari della Finanza - che alla luce di quanto accertato, vanno ascritte al dottor Gianni Florido, Presidente della Provincia di Taranto, specifiche responsabilità penali per il delitto di concussione o, in subordine, di violenza privata". Certo è che qualcuno dovrebbe spiegare ai magistrati, che si lamentano quando la legge si stila senza la loro dettatura, che non vi è scontro tra poteri, proprio perché la magistratura non è un potere. Se l’articolo 1 della Costituzione detta che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ne consegue che Potere è quello Legislativo che legifera in modo ordinario e quello Esecutivo che legifera in modo straordinario. La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.” Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla. Per gli effetti l’art. 101 dichiara che “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.” Ergo: i magistrati devono applicare la legge, rispettarla e farla rispettare, non formarla, né criticarla. Non devono sentirsi portatori di una missione non loro. E nessuna risonanza mediatica può essere ammessa, in special modo quando vi sono interessi più grandi che quelli castali. E si deve ricordar loro, ai magistrati ed alla claque che li santifica, che c’è anche quella legge ambientale che prevede il dogma “chi inquina paga”. Non esiste il dettato tutto di stampo tarantino: “chi inquina, chiude i battenti e tutti a casa”, specialmente se l’industria che viene chiusa, con le tasse che paga, mantiene i suoi detrattori.» Una cosa è certa: a Taranto non si deve dire la verità. Chi parla paga. Così come è successo al dr Antonio Giangrande: denuncia la malagiustizia a Taranto e le pratiche mafiose a Manduria, paese retto da un commissario e sotto indagine per infiltrazioni mafiose, e viene processato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa. Processo che dura da anni e che non vede fine. Giangrande, però, non può bearsi, come per Alessandro Sallusti, della “solidarietà” dei coraggiosi colleghi giornalisti, in quanto il Giangrande non fa parte di un Ordine, come tutti gli ordini professionali, di origine normativa fascista, ma è un semplice scrittore che racconta ai posteri quello che oggi non si osa dire.

Come per esempio il caso di Bossetti.

Massimo Bossetti e le torture psicologiche. Secondo i suoi difensori l'uomo, accusato del delitto di Yara Gambirasio, sarebbe stato vessato durante la sua permanenza in carcere. Ecco perché, scrive Giorgio Sturlese Tosi su “Panorama”. "Massimo Bossetti è sottoposto a torture psicologiche, a continue pressioni. Siamo tornati al processo inquisitorio, ma la prova del Dna non è il Sacro Graal". Lo dicono, rompendo un patto formale di non belligeranza con la procura di Bergamo, gli avvocati dell'operaio di Mapello, Silvia Gazzetti e Claudio Salvagni. L'annunciato interrogatorio di stamani di Massimo Bossetti, in carcere dal 16 giugno per il delitto di Yara Gambirasio, ha riservato dei colpi di scena inaspettati. Anche se Bossetti, di fronte al pubblico ministero Letizia Ruggeri, agli ufficiali del Ros dei Carabinieri e al dirigente della Squadra Mobile di Bergamo, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Nonostante, come spiegato dagli avvocati Silvia Gazzetti e Claudio Salvagni, "volesse rispondere a tutte le domande perché deciso a dimostrare la propria innocenza". Invece, su proposta della difesa, silenzio. Le "torture" secondo la difesa. All'uscita del carcere di via Gleno i legali hanno elencato alcuni episodi che, a loro giudizio, sono delle vere e proprie torture. Vediamo quali. Anzitutto è stato contestato che il cappellano del carcere, don Fausto Resmini, secondo le dichiarazioni dell'avvocato Salvagni, avrebbe parlato con Bossetti dicendogli: "gli avvocati fanno il loro lavoro, ma forse è opportuno che tu riveda la tua posizione e strategia processuale". "Il sacerdote si occupi della sua anima, non di altro", dice Salvagni. E poi, il fatto che la procura non abbia autorizzato il criminologo investigativo Ezio Denti, consulente della difesa, ad avere colloqui protetti con Bossetti, cioè da solo, per più tempo rispetto ad una visita normale, e con la certezza di non essere intercettato. E ancora, il fatto che sempre la procura non avrebbe autorizzato visite straordinarie per i figli dell'operaio, come pure che la prima telefonata a casa, Bossetti, l'abbia potuta fare solo dopo 45 giorni dall'arresto. Telegrafica la replica del procuratore capo Francesco Dettori: "Garantisco la correttezza della Procura, non è vero che agiamo in un'unica direzione e non tralasciando eventuali prove a favore". In attesa della decisione della Corte di Cassazione circa la richiesta di scarcerazione di Bossetti, i legali lavorano alla richiesta sulla ripetizione dell'estrazione del dna di Bossetti dagli slip di Yara. Il "Sacro Graal", appunto, da cui dipende la sorte di Massimo Bossetti. 

Eppure la sedicente stampa di tutto questo se ne fotte. Ed allora dove è mirata la sua attenzione?

Dalla bacheca facebook di Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti si legge.

1 - SOUBRETTE E INFORMAZIONE. LA PRIMA DENUNCIA. Migliaia di persone (la stragrande maggioranza colleghi) hanno letto il post BASTA SOUBRETTE, ORA LE DENUNCIAMO. Esattamente, per gli amanti delle statistiche, 57.504 al momento di questa nota. In 691 lo hanno condiviso, raggiungendo così altre migliaia di cittadini. In 1.663 hanno manifestato apertamente il loro gradimento e un numero significativo ha deciso di aggiungere un commento (qualche isolata critica non è mancata: è la democrazia e va bene così). C’è chi, in privato, mi ha chiesto di non fare mucchi, mettendo tutti i “contenitori” o le trasmissioni sullo stesso piano. Non ci pensa nessuno.  La cosa che mi ha colpito di più è che praticamente tutti hanno pensato mi riferissi alla signora Barbara D’Urso (che non è giornalista). Non pensavo solo a lei, non agiremo solo nei suoi confronti. Mi arrivano le prime segnalazioni in tema di esercizio abusivo della professione. Dobbiamo controllarle, ovviamente (ne capite le ragioni, vero?) e, quindi, occorrerà del tempo. Ma ho firmato la prima denuncia/esposto proprio nei confronti della signora D’Urso. E’ indirizzato a due Procure della Repubblica (Milano e Roma), all’Agcom, al Garante per la protezione dei dati personali e al Comitato Media e minori. Valutino loro. Hanno gli strumenti e, direi, il dovere di farlo. Il femminicidio non si consuma solo con l'uccisione di una donna, ma, oltre la morte, anche con l'oltraggio alla sua vita e a quello della sua carne: i suoi figli.

2 - BASTA SOUBRETTE, ORA LE DENUNCIAMO. Senza distinzioni di genere (il sinonimo al maschile non lo conosco) o di reti sulle quali si esibiscono. L'informazione è materia delicata. Basta con l'occhio umido e la recitata partecipazione alle tragedie. Basta con il dolore come ingrediente dello spettacolo per fare audience. Basta con le banalità/bestialità dispensate a piene mani, soprattutto nelle tv, da chi si preoccupa solo di come aumentare il personale compenso, passando sopra a diritti e sentimenti (Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Melania Rea, Melissa Bassi e, da ultimo, Elena Ceste: tanto per citare alcuni casi e tutti coloro i quali a queste vicende sono collegati), anche di persone estranee alle vicende che possono avere un interesse pubblico. L'esecutivo dell'Odg nazionale ha deciso che, senza eccezione alcuna, denuncerà alle magistratura per esercizio abusivo della professione giornalistica quanti galleggiano sul diritto dei cittadini all'informazione, senza dover rispondere a quelle regole deontologiche che impongono precisi doveri ai giornalisti.

Ecco cosa ha detto il 25 novembre 2014 in diretta, la conduttrice di Pomeriggio 5: "Grazie all'amore che ci dimostrate tutti i giorni, fino all'ultimo minuto di Pomeriggio Cinque. Siamo sottotestata giornalistica, ho il dovere e mi piace informarvi, e stare sui fatti di cronaca e non solo". Queste le parole della presentatrice durante la puntata della trasmissione di Canale 5, dopo che il Presidente dell’OdG Enzo Iacopino ha fatto sapere di aver presentato una denuncia esposto alle Procure di Roma e di Milano contro il nome di Barbara D’Urso.

In difesa di Barbara D’Urso, scrive Enzo Ciaccio su “Rete News 24”. Aiuto, sono arrivati, sono tra noi, ce li sentiamo sulla pelle, nel corpo, nell’anima. Eccoli, i Padroni del Dolore che ogni giorno in Tv ci drogano di tragedie, cold case e gole tagliate e comandano da despoti sul ridere e sul piangere di un intero popolo di teleutenti in terapia. Eccoli, con gli occhioni sgranati, le mani in grembo, l’annuncio a sorpresa, la lacrimona a go go. C’è quello che quando parla sembra una mitraglia, quell’altro che ha modi da mezzo prete, c’è l’ex editorialista famosa con un po’ di puzza al naso e la signorina per bene che non ha idea di quel che le hanno chiesto di dire. Sornioni come gatti da strada, ridicoli come manager in mutande. Davanti a una telecamera, i Padroni del Dolore  si rivelano abili come illusionisti, perversi come serial killer, tenerissimi come pedofili. Eccoli, sono sbarcati, compaiono in Tv dalla mattina alla sera, sono abusivi camuffati da giornalisti ma anche giornalisti con la voglia di consumare abusi. Comunque sia, eccoli qui. E sono tanti, tantissimi, hanno occupato tutti i canali, gli spazi, le fasce orarie. Molti anni fa Giorgio Gaber scrisse un brano in cui raccontò come ci avrebbe ridotto male la cosiddetta “Tv del dolore”, quella – cantava – con zio Evaristo che “faceva il matto a Chi l’ha visto”. Oggi, il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti Enzo iacopino, esasperato dalla pioggia di programmi Tv basati sulla lacrima facile e sulla strumentalizzazione delle tragedie altrui, ha minacciato di denunciare alla magistratura chiunque, senza essere giornalista, speculi su questo tipo di pseudo-informazione. Iniziativa più che condivisibile, la sua. Ma il timore è che sia destinata a una difficile applicazione. Gli strali dell’Ordine dei giornalisti sono indirizzati ai programmi del pomeriggio, quelli – per intenderci – alla “Barbara D’Urso” e “ai suoi occhioni sgranati (per contratto? ndr) sugli orrori della porta accanto”. Resta il fatto, denunce a parte, che i programmi della D’Urso accumulino audience da terno al lotto e che ogni pomeriggio in Italia un popolo da milioni di utenti decida sua sponte di lasciarsi travolgere dalla cascata di persone scomparse, sequestrate, sgozzate, rapinate, seviziate, proposte H24 non solo dalla D’Urso ma anche da tutti coloro che, come lei, fanno Tv sul piagnisteo. Sono tantissimi, i “colleghi” di Barbara. E non sono meno spregiudicati di lei. Perciò, evviva la D’Urso. O almeno, non è mica giusto prendersela solo con la star di Canale 5. Caro presidente Iacopino, c’è poco (o troppo) da denunciare in Tv: ormai sono qui, sono ovunque, sono dentro le nostre case. I Padroni del Dolore stanno intossicando l’Italia, dopo aver già un po’ rimbecillito (secondo molti) una parte degli italiani. C’è da chiedersi: se ancora fosse vivo, Pier Paolo Pasolini farebbe l’eremita o andrebbe ospite in prima serata da Bruno Vespa? Lui, come Gaber, aveva avvertito di guardarci da mamma Tv, che è un po’ come una bellissima donna: se le concedi troppo, può farti del male. E ora, ciao a tutta la fascia d’ascolto. Sta iniziando “Uomini e donne”. E poi c’è la tele-rissa da Giletti. E il pomeriggio con Barbarella.

Caro Iacopino, su Barbara D’Urso hai torto, scrive invece Angela Azzaro su “Il Garantista”. Viviamo immersi nella tv del dolore. Non c’è programma o quasi che non si fondi sull’uso e abuso di casi strappalacrime, molti dei quali sono storie di donne sparite e uccise. Ogni giorno, a ogni ora. A destra come a sinistra. Sulla Rai e su Mediaset. Il dolore fa share e ha solitamente un valido compagno: il giustizialismo. Non basta far piangere. Importante è consegnare al pubblico un assassino, un colpevole, da condannare anzitempo. Su questo rapporto tra televisione e processo abbiamo tanto scritto, ma molto  ancora bisognerà scrivere per ricordare e denunciare come, sempre più spesso, condanne e assoluzioni avvengano sul piccolo schermo e non nei tribunali. Davanti a questo quadro sconfortante, l’ordine dei giornalisti perlopiù tace, non tenta di fare un’analisi complessiva del fenomeno. Preferisce invece prendere di punta solo alcuni casi. Ieri il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino, ha infatti denunciato alle procure di Roma e Milano la presentatrice Barbara D’Urso per esercizio abusivo della professione. Sotto accusa le interviste fatte durante la trasmissione Domenica Live e in particolare quella della scorsa domenica a un amico di Elena Ceste, la donna trovata morta qualche settimana fa,  tra i casi più amati da tutte le trasmissioni  di cronaca e di mistero. La denuncia di Iacopino, presentata anche all’Agcom, al Garante per la protezione dei dati personali e al Comitato media e minori, appare come un gesto intimidatorio. Se infatti dovesse passare la legge già approvata al Senato su chi esercita abusivamente la professione del giornalista, Barbara D’Urso potrebbe rischiare fino a due anni di galera e una multa che va dai 10 ai 50mila euro. La decisione di Iacopino non convince per tanti motivi. Due su tutti.

Il primo è legato esattamente al discorso sulla tv del dolore che lui stesso richiama spiegando il perché della denuncia. La tv del dolore è ovunque, e lascia davvero basiti che si prenda di mira solo una trasmissione e una persona solo perché non è giornalista. Seguendo il ragionamento del venire meno della privacy – e aggiungiamo noi – della persecuzione che spesso viene fatta nei confronti dei cosiddetti colpevoli, Iacopino dovrebbe passare le sue giornate nelle varie procure d’Italia a denunciare metà dei giornalisti italiani e quasi la totalità delle più grandi testate. Perché è stato zitto quando tutti i giornali titolavano: “Preso l’assassino di Yara”? Perché non ha detto niente? È forse bastato che mettessero quella frase tra virgolette? Oppure ci chiediamo se a Iacopino basti che Sciarelli sia giornalista per non dire nulla su una trasmissione come Chi l’ha visto che ha già deciso chi sono gli assassini per esempio di Roberta Ragusa, della stessa Yara e ora di Elena Ceste?

Il secondo motivo per cui non convince la denuncia dell’Ordine nei confronti di Barbara d’Urso è legata all’idea che sia ha della nostra professione e del modo di difenderla. Si tutela questa professione creando condizioni d’accesso uguali per tutti, garantendo alle giovani generazioni un lavoro dignitoso. Non credo che la strada delle denunce sia quella giusta. Va aperto invece un grande dibattito nel Paese sul rapporto tra informazione e procure, tra diritto di cronaca e tutela degli indagati. Serve una messa in discussione degli ultimi vent’anni. Altro che una denuncia per abuso di professione che cozza peraltro con l’articolo 21 della Costituzione. Quello sulla libertà d’espressione, garantita a tutti, che si abbia o no il tesserino.

Viva Barbara d’Urso e la libertà! Scrive Caino Mediatico su “The Frontpage”. “Ho firmato la prima denuncia/esposto nei confronti della signora Barbara d’Urso. Il femminicidio non si consuma solo con l’uccisione di una donna, ma, oltre la morte, anche con l’oltraggio alla sua vita e a quello della sua carne: i suoi figli”. Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei Giornalisti, annuncia su Facebook la decisione di presentare la denuncia “a due Procure della Repubblica (Milano e Roma), all’Agcom, al Garante per la Protezione dei Dati Personali e al Comitato Media e Minori“. All’origine della decisione dell’Ordine un’intervista che la conduttrice di Domenica Live ha fatto ad un amico di Elena Ceste, la donna scomparsa il 24 gennaio e trovata morta a metà ottobre nell’Astigiano. Vergogna, vergogna, vergogna. Iacopino non permetterti di minacciare la nostra libertà! Di cittadini, elettori, ascoltatori. La costituzione di questo paese e la carta dei diritti dell’uomo ci fanno liberi di ascoltare, scegliere, decidere chi e cosa che vogliamo sapere. Contro le calunnie ci tutela la legge, contro il buongusto ci tuteliamo da soli. Giù la mani dalla nostra libertà. Non ci sono corporazioni, gilde, massonerie, bastonatori di professione che possano farci paura. Non abbiamo paura di te e di quelli come te. Noi schifiamo ed ignoriamo gli untori che in nome della loro ideologia pretendono di dirci chi ascoltare e leggere minacciando la galera. Riteniamo più credibili tutte la Barbare d’Urso del mondo, con le Tv del dolore o del buonumore, che i finti monaci del paleontologico Ordine dei Giornalisti. Che serve solo a sanzionare politicamente e a minacciare le manette laddove possa, e che presume di stabilire chi possa o debba intervenire e dove. Aguzzini manettari senza rispetto, che in una giornata in cui si parla, male o bene di violenza sulle donne, provate a violentare la libertà di espressione una professionista. Di una persona che il pubblico, e solo il pubblico ha deciso e può decidere se merita di essere ascoltata. Bisogna risalire ai regimi stalinisti, alla Corea Comunista per trovare associazioni ideologiche che si arrogano il diritto di stabilire chi dobbiamo ascoltare, e se quelli che abbiamo ascoltato erano ascoltabili o no. Per fortuna gli Iacopini stanno morendo, i cittadini hanno perso la parola e si cercano le notizie da soli, ed i giovani che mantenete spesso in precarietà con le vostre pretese fanno a meno di voi delle vostre ridicole pantomime. Sempre più cittadini scrivono e leggono quel che vogliono, e sempre più giornalisti seri si chiedono a che cosa servite nel difendere la loro professionalità. La vostra iniziativa rappresenta di fatto un’intimidazione alla libertà di espressione sancita dalla costituzione, e rischia di ricostruire indirettamente una dittatura censoria inammissibile. Spero che qualcuno vi denunci e vi persegua per questo attentato. Per fortuna l’opinione pubblica vi ha già condannato.

Adesso la casta dei giornalisti vuole imbavagliare la D'Urso. Il presidente dell'Ordine denuncia la conduttrice per esercizio abusivo della professione: "Basta tv del dolore", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Sei mesi di reclusione, ma forse di più se passerà la proposta di legge già approvata al Senato, e caldamente sostenuta dall'Ordine dei giornalisti, per inasprire il codice penale per chi «esercita abusivamente» la professione: due anni di galera e multa da 10.000 euro a 50.000 euro, oltre alla «confisca delle attrezzature e degli strumenti utilizzati». È quel che potrebbe rischiare la conduttrice Barbara D'Urso, volto popolare di Mediaset, oggetto di una denuncia depositata in ben due procure (Milano e Roma), ma anche all'Agcom, al Garante per la protezione dei dati personali e al Comitato Media e minori, dal presidente dell'Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino. Nel mirino alcune interviste realizzate durante Domenica Live che, secondo il presidente dell'Odg, non terrebbero conto «di esigenze quali la difesa della privacy e/o il coinvolgimento di minori» sanciti dai codici deontologici. Ma l'accusa precisa è un'altra: «Si evidenzia che la signora D'Urso - si legge nella denuncia - pur non essendo iscritta all'Albo dei giornalisti compie sistematicamente un'attività (l'intervista) individuata come specifica della professione giornalistica, senza esserne titolata e senza rispettare le regole, con negative ripercussioni all'immagine di quest'Ordine. Si chiede di avviare ogni accertamento di competenza, ivi compreso quello per esercizio abusivo di una professione ai sensi dell'articolo 348 del Codice penale». E questa è solo la «prima denuncia» di una serie, fa capire Iacopino in un post su Facebook intitolato «Soubrette e informazione». «Non agiremo solo nei suoi confronti», avverte il presidente. Denunce pronte per tutti gli altri showman e soubrette che si permettono di intervistare qualcuno senza essere muniti del tesserino dell'Ordine? Iacopino avverte che sta ricevendo già «le prime segnalazioni in tema di esercizio abusivo della professione», che verranno valutate una ad una. I conduttori sono avvisati, qui si rischia la galera. È stata un'intervista in particolare della D'Urso a far partire la denuncia, andata in onda nell'ultima puntata di Domenica Live, ospite un amico di Elena Ceste, la donna di Costigliole d'Asti trovata morta dopo essere scomparsa da casa a gennaio. Un'intervista che ha scatenato un dibattito in Rete. «C'è un tipo di informazione che è un'autentica vergogna ed è quella che io chiamo la tv del dolore - dice il presidente dell'Odg - dove si esibisce la vita e la morte con l'unico obiettivo di acquisire attenzione da parte di un'opinione pubblica che forse non è il meglio di questa società». E dopo l'attacco, la denuncia alle Procure. Da Mediaset non si commenta, bocche cucite ai vertici che rimandano ad oggi una decisione sul da farsi, silenzio anche dallo staff della D'Urso. Che già in passato ha avuto problemi con l'Ordine dei giornalisti, a cui non è più iscritta. All'inizio degli anni '90, quando firmava «interviste aggressive» (ha raccontato lei in un'intervista al magazine del Corriere) sui periodici King e Moda, diretti allora da Vittorio Corona (padre del paparazzo Fabrizio), fu radiata perché faceva anche degli spot pubblicitari. Non è la prima volta che dall'Ordine partono denunce penali per esercizio abusivo della professione. L'Odg del Friuli Venezia Giulia ha spedito in Tribunale una web tv di Pordenone che pubblica video degli utenti, anche su notizie di cronaca o politica (Iacopino: «Chi dà notizie è un canale informativo. E come tale svolge attività giornalistica»). Nei guai è finito anche il coraggioso direttore della tv antimafia Telejato, Pino Maniaci, denunciato per abuso della professione perché non iscritto all'Ordine e poi assolto. E pure sul governatore siciliano Crocetta c'è un fascicolo in Procura perchè si scrive i comunicati stampa da solo. Tutti imputati, insieme alle soubrette «giornaliste abusive», che l'Ordine vuol mandare in galera.

Giornalisti e tv, meglio mettersi una maschera in faccia, per non farsi riconoscere per la vergogna.

Tette, Papi e Femen, scrive Giano su “Torre di Babele”. Non tutte le tette sono uguali. O meglio, come direbbero  i maiali di Orwell, si potrebbe dire che “Tutte le tette sono uguali, ma alcune tette sono più uguali di altre“. Insomma, secondo il più classico doppiopesismo dei moralisti a corrente alternata, c’è tetta e tetta.  Ha fatto scalpore il curioso “incidente hot” successo nel corso del programma  Tale e quale show, condotto da Carlo Conti.  Veronica Maya, durante la sua esibizione canora, forse per un movimento eccessivo del corpo, ha causato lo scivolamento del vestito lasciando in bella vista il seno. Grande imbarazzo, ma la nostra “Maya desnuda“ continua ad esibirsi, facendo finta di coprirsi ( sembra che sia  recidiva; lo stesso “incidente” le era successo già in passato), e intervento di Conti che  interrompe il numero e cerca di coprire le grazie nude della Maya. Del resto, scoprire improvvisamente alcune parti del corpo solitamente nascoste, è un “incidente” che succede molto frequentemente nel mondo dello spettacolo.  Basta ricordare Belen Rodriguez che in diretta TV a Sanremo mostra con disinvoltura la sua farfallina inguinale. O Laura Pausini che durante un concerto in Messico, rientra sul palco, dopo una pausa,  indossando solo un accappatoio che si apre sul davanti, lasciando vedere a tutto il pubblico che, forse per una dimenticanza o per la fretta di rientrare, ha dimenticato di indossare le mutandine. Succede a tutti, no? Strani incidenti che lasciano molti dubbi sul fatto che si tratti di un “incidenti casuali“. Si tratta, comunque, di immagini di nudità che, solitamente, sui media  appaiono ritoccate o censurate (esempio classico è quel ridicolo quadratino o fascetta che nasconde i capezzoli o la sfocatura su foto e video). Poi magari, subito dopo va in onda un film della serie Giovannona coscia lunga, dove si vede di tutto e di più, ma continuano a mettere le fascette sui capezzoli. E’ lo stesso principio per cui, quando ci sono espressioni forti o scurrili in TV vengono censurate col classico Bip. Poi guardate un talk show, dove piovono insulti di ogni genere, o un monologo di Crozza e comici vari, e volano cazzi, culi, fighe e coglioni  come libellule a primavera.  Valli a capire questi censori ed i loro criteri.  Infatti anche nel video pubblicato dal Corriere.it, sopra linkato, si può vedere che il seno viene offuscato da una macchia biancastra. Quanto pudore! E quanta ipocrisia, in dosi industriali. Ma anche il pudore in Italia, come la morale,  è a corrente alternata. Questa a lato è Eva Grimaldi, reduce da non ricordo quale reality, ospite al programma “Quelli che il calcio” su RAI3, di primo pomeriggio, ora di massimo ascolto. Qui un servizio fotografico che documenta la sua performance da far invidia a Sharone Stone. Il fatto è che indossa un vestitino che non può dirsi nemmeno “mini“, è già a livello pubico e, come se non bastasse, ha due lunghi spazi laterali, col risultato che quando si siede, praticamente è come se fosse in  mutande. C’è chi mostra il sopra e chi mostra il sotto. E sembra una gara a chi mostra di più. Le tette della Maya alle 10 di sera fanno scandalo, le mutande della Grimaldi alle 3 del pomeriggio no. Qual è, secondo voi, il parametro di giudizio su ciò che è lecito e ciò che non lo è? Ah, saperlo. Ma non è il caso di farsene un problema, non lo sanno nemmeno gli addetti ai lavori,vanno a caso; questo sì, questo no. Ma torniamo alle tette. Abbiamo appena detto che mostrare il seno in TV non è consentito. Ora, proprio due giorni fa al programma Anno uno su LA7 si sono viste non due tette, ma addirittura 10, tutte nude, ben in vista e con i capezzoli in primo piano, senza sfumature o  quadratini che li coprissero. Erano le Femen, ormai famose per le loro azioni di protesta a seno nudo. Non sono capitate lì per caso, né si è trattato di una incursione, come sono solite fare. No, sono state espressamente invitate dalla conduttrice Giulia Innocenzi, quella che ha poche rivali nel giocarsi il ruolo di più antipatica della TV, grazie alla sua vocina leggermente nasale, il parlare cantilenante e l’aria spocchiosa e supponente della ragazzina  impertinente con la puzza sotto il naso. Ma questa esibizione è considerata del tutto normale. Infatti la Innocenzi, essendo “innocente“, ingenua e pura di cuore, non ci vede niente di male, non corre a coprile ed anzi le ringrazia per la partecipazione. Conclusione: le tette delle Femen sì, quelle della Maya no. Ma cosa c’entrano le Femen in quel programma? Sono andate per protestare contro la visita del Papa al Parlamento europeo, programmata per il prossimo 25 novembre. Dicono: “Siamo qui per annunciare che la parità, i vostri diritti, i nostri diritti, sono in pericolo e, sfortunatamente, la fonte del pericolo è proprio qui in Italia. Il 25 novembre il Papa si reca a parlare al Parlamento europeo, a Strasburgo in Francia. E questo è un attacco diretto alla laicità, alla parità, ai diritti umani ed alla separazione fra Chiesa e Stato, che deve diventare una priorità oggi.“.  Insomma, queste ragazzotte accaldate vogliono decidere chi può e chi non può andare al Parlamento europeo. Alla faccia della libertà di pensiero. Come se non bastasse, non si sono accontentate di fare la loro apparizione in TV. Visto che si trovano in Italia, approfittano delle “Vacanze romane” per fare, come tutti i bravi turisti, una visita a San Pietro. Ma loro sono turiste un po’ particolari e, quindi, si esibiscono in una performance non proprio rispettosa del luogo e del simbolo della fede cristiana.  Eccole che tengono un crocifisso in mano e se lo mettono…nel sedere.  Ecco, queste “brave ragazze“, invece di denunciarle e sbatterle in galera, noi le ospitiamo in televisione e le ringraziamo. Saremmo curiosi di vederle andare a Teheran (o in un altro paese musulmano) e fare una cosa del genere tenendo una copia del Corano sul culo. Non credo che le ospiterebbero sulla televisione nazionale. Di recente due cristiani (marito e moglie) in Pakistan, con l’accusa di blasfemia per aver offeso il Corano, sono stati bruciate in una fornace per laterizi. Altro che ospiti in TV. Ma è risaputo, la Chiesa ed  il Papa si possono offendere, sbeffeggiare, oltraggiare tranquillamente: è libertà di pensiero. Ma guai anche solo ad insinuare qualcosa di poco simpatico contro i musulmani: sarebbe gravissimo atto di islamofobia.  Ecco, questo è un perfetto esempio di doppia morale. Ora, oltre alla sottile differenza fra tette sì e tette no, tette scandalose e tette lecite, fra “tette buone” e “tette No buone“, si pone un altro problema. Non solo le tette delle Femen sono permesse (forse sono politicamente corrette e progressiste, al contrario di quelle della Maya che, evidentemente, sono reazionarie),  ma si tira in ballo il Papa ed il suo diritto di intervenire al Parlamento europeo. Allora bisogna fare un passo indietro e bisognerebbe leggere questo articolo del 28 settembre “Conchita Wurst in Europa; nell’Unione europea si parla di gay e trans”. Conchita Wurst è una trans (oggi vanno come il pane), ma con tanto di barba, che tempo fa ha vinto il festival europeo della canzone. Non è molto chiaro se abbia vinto perché più brava degli altri partecipanti, oppure perché è trans (sembra essere un titolo di merito: si vincono i festival, i reality, si va in Parlamento, si è ospiti fissi in TV)); resta il dubbio. Ovviamente è una delle attiviste militanti della lobby che raggruppa gay, lesbo, trans, bisex  e varia sessualità. Come programmato, lo scorso 8 ottobre, è intervenuta al Parlamento europeo dove ha tenuto un discorso sui diritti omosessuali, con interventi di altri europarlamentari di diversi gruppi. Successivamente si è esibita all’esterno interpretando alcune canzoni. Bastano questi pochi esempi (ma se ne potrebbero fare a centinaia) per  capire che, evidentemente, esiste una strana morale grazie alla quale certe nudità sono oscene ed altre sono del tutto naturali. Basterebbe ricordare che tempo fa la solita sinistra con la doppia morale fece una campagna contro Striscia la notizia, accusando il programma di Ricci di sfruttare il corpo femminile. Ora riguardate la foto di Eva Grimaldi e giudicate le differenze con le due veline che ballano a Striscia e che sono molto più coperte della Grimaldi. Basta ricordare le tante show girl che stazionano perennemente nei salotti TV ad ogni ora del giorno e della notte per notare che tutte sembrano impegnate in quel giochino del mostrare tette, gambe e culi, perché più mostri e più facilmente finisci sulla stampa. Ma allora come si fa a distinguere ciò che è lecito da ciò che non lo è? Non è possibile; l’unico criterio è che non esiste un criterio, vale la regola della doppia morale. Tutto ciò che è in sintonia col pensiero unico dominante e politicamente corretto è bene, lecito, giusto e democratico. Tutto il resto, fossero anche le stesse cose (o le stesse tette), è deleterio, provocatorio, indecente, maschilista, osceno, esecrabile, fallocratico. Chiaro? Ecco perché le veline di Striscia sono un’offesa alle donne e sfruttano il corpo femminile e le tette della Maya sono un “incidente” e vanno subito coperte,  mentre le tette delle Femen dalla Innocenzi sono lecite e regolamentari. Ma, soprattutto, si pone una domanda: perché al Parlamento europeo ci possono andare i trans e non ci può andare il Papa? E perché se una trans va al Parlamento europeo per sostenere la causa dei diritti gay, lesbo, trans, bisex, plurisex, annessi, connessi ed assimilati,  è una legittima e democratica espressione della libertà di pensiero,   mentre se ci va il Papa  è un grave attentato ai diritti umani? Provate a dare una risposta logica ed onesta.

Da questo maquillage mediatico la politica alternativa ci guadagna.

Il candidato ideale, continua Giano su “Torre di Babele”. Sembra proprio che Napolitano abbia intenzione di lasciare il Quirinale. E si scatena subito il “totopresidente”, gioco preferito dei nostri giornalisti, osservatori ed opinionisti;  quelli che si spacciano per esperti tuttologi e ogni giorno imperversano  su stampa, radio e TV, facendo sfoggio di  cultura enciclopedica, informazioni segretissime e doti di preveggenza che esprimono in inutili chiacchiere come quelle che voi fate al bar dello sport. Solo che voi le fate gratis, loro sono pagati per farlo. Chi sarà il prossimo inquilino del Colle? Già si accennano i primi nomi e la Boldrini, giocando d’anticipo, dice che sarebbe la volta di eleggere una donna (che ci stia facendo un pensierino?)..Non so chi sarà il prescelto (non ho doti da paracul…pardon, da paragnosta, come i nostri autorevoli esperti), ma posso elencare alcune caratteristiche del candidato ideale. Sono in corso mutazioni epocali, stiamo vivendo tempi di grandi cambiamenti, di rottura col passato, di grandi fermenti sociali, di nuove tendenze e di valorizzazione della diversità culturali, etniche, religiose, di tendenze sessuali poco ortodosse. Oggi i “diversi”, in tutti i campi, fanno scuola, fanno tendenza, fanno notizia, fanno carriera e fanno quello che gli pare, senza pregiudizi, senza scrupoli, senza remore, senza pudore, senza timore e senza vergogna. Se sei una persona normale non ti nota nessuno. Ma se sei “diverso“ entri automaticamente, di diritto, nel novero delle ”categorie protette“, assistito, coccolato e tutelato da varie associazioni, come le specie in via di estinzione, come il panda o la foca monaca.  E come soggetto tutelato, hai molte probabilità di finire in prima pagina e di avere successo nel mondo dello spettacolo, della politica (puoi entrare in Parlamento o diventare vicepresidente di un grande partito), dell’arte, della cultura, del cinema, della televisione (puoi vincere un talent show, un reality o un festival europeo della canzone), della stampa (puoi diventare anche direttore di famosi settimanali di gossip).  Quindi, italiani, auguri e… figli diversi. In USA hanno eletto Obama, il primo  presidente nero. In Italia una congolese nera è diventata ministro.  In Parlamento  sono entrate porno star come Cicciolina e trans come Luxuria. Le donne, grazie alle pari opportunità ed alle quote rosa, vivono un momento di riscatto e sono a capo di aziende, sindacati ed Enti pubblici. E’ una donna la presidente della RAI Tarantola, la segretaria generale della CGIL Camusso, la ex segretaria della Confindustria Marcegaglia, la presidentessa della Camera Boldrini, la presidente della Regione Friuli Venezia Giulia Serracchiani, l’ex direttore dell’Unità Concita De Gregorio. Sono donne alcune delle calamità televisive nazionali di grande successo, come Antonella Clerici, Mara Venier, Maria De Filippi, Barbara D’Urso, Lucia Annunziata, Lilly Gruber e  molte conduttrici di rubriche e programmi televisivi o a capo di importanti testate giornalistiche; evito i nomi, l’elenco sarebbe troppo lungo.  Essere donna, carina e “renzina” è anche una condizione per scalare il PD; vedi Boschi, Moretti, Madia, Serracchiani, Bonafè, Picierno. Insomma, è un momento d’oro per le donne. Ecco perché la Boldrini auspica una donna al Colle; sarebbe il coronamento ideale del lungo percorso di riscatto femminile. Renzi è oggi il simbolo di questo cambiamento, della rottura. E’ diventato segretario del PD perché predicava la rottura col passato, il cambiamento radicale e la “rottamazione” dei vecchi dirigenti.  Oggi questi sono i requisiti richiesti per avere successo. Parola d’ordine ”cambiamento“; bisogna rompere con il passato, rompere gli schemi, rompere i pregiudizi, rompere gli stereotipi, rompere gli equilibri, rompere gli indugi…insomma, bisogna rompere qualcosa. Ed infatti è da tempo che la nostra classe dirigente e politica rompe; oh se rompe! Il guaio è che tutti rompono, ma nessuno paga. Quindi, tenuto conto di ciò, ritengo che oggi il Presidente ideale, per essere al passo coi tempi e rappresentare al meglio l’aspirazione al cambiamento sociale, culturale, politico, etnico, religioso e sessuale,  debba avere le seguenti caratteristiche: essere donna, nera, lesbica, atea o, meglio ancora, musulmana o buddista. Se fosse anche trans e con ascendenze zingare sarebbe il massimo.

Eppure, del superfluo si parla, nel necessario si tace.

LA MORIA DEGLI AVVOCATI. Chi studia giurisprudenza pensa che vale la forza della legge. Chi come me ha esperienza e perizia, afferma che vale la legge del più forte. Ossia: nei tribunali la prassi fotte la legge. In tutta Italia.

L’unico consiglio che io posso dare è che, ormai in questa Italia, è meglio non fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato, e non avere nulla, perché si fottono tutto i legulei.

Già, i legulei.

I giornalisti approssimativi e disinformati da sempre ce la menano sul dato che in Italia ci siano 250 mila avvocati con la tendenza all’aumento di 15 mila unità all’anno. A loro è imputata ogni sorte di maldicenza. Al loro incremento numerico è addebitata la responsabilità della deriva della giustizia in Italia.

Cosà più falsa non c’è.

Sicuramente tra gli scribacchini ci sarà qualcuno che avvocato lo è o comunque ha partecipato invano all’esame per diventarlo e quindi la verità è a loro portata.

Eppure si sottace o si continua a negare l’evidenza sul come ci si abiliti all'avvocatura, alla magistratura, o ad ogni altra professione, così come attestato dalle sentenze dei Tar di tutta Italia. Un esame truccato nelle voglie dei commissari. Un sistema insito in tutti gli esami o i concorsi pubblici.

Abilitazione uguale a omologazione. Subisci e taci e non rompere il cazzo. Se sei diverso e ti ribelli: sei fuori.

Oggi c'è il paradosso che, a prescindere dall’esame truccato di abilitazione, non conviene più parteciparvi, in quanto pur superandolo non ci si può iscrivere agli albi per esercitare la professione.

Un ostacolo ulteriore per chi entra, un impedimento a proseguire per chi già c’è.

Ecco perché in tempo di crisi non si parla dell’imminente moria dei cosiddetti “pesci piccoli” forensi.

E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu .

Non paghi di aver partorito in Parlamento una riforma forense contro l’inclusione dei giovani nel mondo leguleico, i marpioni, sempre in Parlamento, hanno adottato un riforma, affinchè chi sia entrato nel loro autarchico mondo venga espulso per stato di necessità. E cioè sono coloro che non ben ammanicati nel sistema forense giudiziario non ce la fanno a supportare le inani spese di gestione della professione.

Di questo nessuno ne parla. Ed aimè tocca a me farlo per una categoria che non merita solidarietà ma solo commiserazione.

Da sempre il popolo forense si divide in due parti.

I dinosauri privilegiati con degni  natali e con potere in Parlamento, ma genuflessi alla magistratura;

i loro followers per ignavia o per necessità, ossia i praticanti ed i giovani avvocati.

Il 7 agosto 2014, il Ministero per del Lavoro e delle Politiche Sociali ha approvato il Regolamento attuativo dell'art. 21 della Legge Professionale n. 247 del 2012, che impone a tutti gli avvocati, iscritti all'apposito albo, l'iscrizione obbligatoria anche alla Cassa Forense, con versamento di un contributo di importo fisso indipendentemente dalle condizioni reddituali.

I contributi minimi dovuti dagli iscritti, rivalutati per ogni anno di iscrizione alla Cassa, sono i seguenti:

a) Contributo minimo soggettivo: € 2.780,00;

b) Contributo minimo integrativo: € 700,00;

c) Contributo di maternità: € 151,00.

Il regolamento prevede: o paghi o ti cancelli dall’Albo e nulla valgono le presunte agevolazioni previste.

«La conseguenza immediata di tale provvedimento è che, di qui a poco, circa cinquantamila avvocati italiani, soprattutto più giovani, rischiano di sparire dagli albi professionali, in quanto impossibilitati a far fronte agli onerosi contributi obbligatori richiesti! Molti avvocati con un reddito basso e insignificante non  possono iscriversi alla Cassa per mancanza di liquidità economica e rischiano, pertanto, di subirne  le relative conseguenze, ovvero la cancellazione forzata ed obbligata dai relativi albi professionali di appartenenza. Il  versamento obbligatorio dei contributi previdenziali, così come previsto dalla nuova normativa, se per gli studi legali con giro d'affari multimilionario, risulterà praticamente insignificante,  colpisce, tuttavia, una schiera di professionisti che avranno serie difficoltà a sostenere tale spesa: appunto, qualcosa come cinquantamila avvocati - coloro, cioè, che percepiscono un reddito inferiore ai 10.300 euro annui. Per loro sarà complicato trovare un'alternativa alla disoccupazione, vuoi per l'età, vuoi per l'alta specializzazione in un settore e in nessun altro», dice l’avv. Eugenio Gargiulo di Foggia.

Vero è che la contribuzione obbligatoria e l’esoso peso fiscale accompagnato dalla mano morta della burocrazia colpisce ogni categoria professionale. Ed è questa stagnazione dello status quo che alimenta la crisi economica.

Inoltre i liberi professionisti del ramo tecnico, ingegneri, architetti, geometri e periti sono alla fame. Nessuno ne parla. Sono un esercito di oltre 500.000 persone senza protezioni sociali.

E’ questa l’Italia che continuiamo a volere? Con l’astensionismo elettorale il popolo mette sotto processo la politica inconcludente ed ignava e rea di aver sfornato una classe dirigente inetta, frutto di familismo e raccomandazioni.

Perché in Italia, oramai, si lavora esclusivamente per mantenere le sanguisughe.

La rottamazione assoluta del sistema senza schemi identitari ed ideologici, se non ora, quando?

Ed in carcere cosa succede?

Le squadre speciali usavano la “cella zero” per violenze di ogni tipo. Ecco cosa succedeva, scrive Pietro Ioia su “Il Garantista”. Pietro Ioia, presidente “ex detenuti organizzati napoletani”. Incappucciati, spogliati nudi e azzannati dai cani di razza fino a fargli mordere i genitali. A seguito della nostra inchiesta sui Gom, i reparti speciali del corpo della polizia penitenziaria conosciuti anche per i loro metodi non propriamente democratici e civili, ci scrive l’ex detenuto Pietro Ioia che ci racconta la terribile esperienza vissuta negli anni 80 al carcere di Poggioreale. In particolar modo ci descrive l’utilizzo della cosiddetta ”cella zero” e i metodi di tortura delle squadrette speciali, i precursori dei Gom. Erano gli anni della faida interna della criminalità organizzata campana. Una guerra tra la ”nuova camorra organizzata” di Raffaele Cutolo e la ”nuova famiglia”, la quale si combatteva anche all’interno delle carceri. Per salvaguardare la propria incolumità, ogni detenuto, anche chi non era affiliato, doveva proteggersi con la pistola e fare da sentinella armata all’interno del proprio padiglione. Per far fronte a tutto ciò, lo Stato faceva intervenire il corpo speciale della polizia penitenziaria, la quale utilizzava metodi simili alla tortura di Pinochet. Pietro Ioia attualmente è un uomo libero e ha fondato un’associazione napoletana che si batte per i diritti dei detenuti. A primavera uscirà un suo libro intitolato L’origine e fine della cella zero, dove racconta tutta la terribile vicenda della cella utilizzata per torturare i detenuti. L’eventuale ricavato delle vendite, verrà utilizzato per aiutare i detenuti più poveri che non hanno i soldi per comprare i beni essenziali utili per sopravvivere all’interno del carcere. Grazie alle denunce e testimonianze di Pietro Ioia, la Procura di Napoli ha aperto un’inchiesta per far luce sull’utilizzo recente della ”cella zero”. Secondo la denuncia, tale cella è stata utilizzata fino a qualche mese fa. Oggi, grazie anche al cambio della dirigenza, il carcere di Poggioreale è diventato un po’ più ”dignitoso”. A seguire, la sua lettera shock dove racconta la brutalità delle squadre speciali. Erano le 11 del mattino ed eravamo situati al terzo piano del ”padiglione Salerno” del carcere di Poggioreale. Fuori dalla mia cella si commentava il trasferimento notturno e coatto di alcuni boss mafiosi avvenuti nei giorni scorsi, quando all’ improvviso ci fu l’irruzione armata delle ”teste di cuoio” dei penitenziari, la squadretta che dopo anni verrà chiamata Gom: spararono all’impazzata verso il soffitto del padiglione e tutti noi ci rifugiammo all’interno delle nostre celle. Io mi infilai sotto al mio letto dove sentivo fischiare le pallottole fin dentro la mia cella. Il tutto durò per pochi e interminabili minuti e restammo chiusi per tutta la giornata nelle celle. La ”pace” finì presto.

Verso le 19 e 45 della stessa giornata, mentre stavamo guardando il Tg3 regionale, sentimmo delle urla strazianti in lontananza. Piano piano si fecero sempre più forti finché fu la volta della nostra cella: entrarono due uomini alti, robusti e incappucciati dove con fucili alla mano ci intimarono di spogliarci nudi. Una volta spogliati ci pestarono con il calcio del fucile e ci obbligarono ad uscire di corsa fuori dalla cella. Ad aspettarci c’erano altri uomini che ci accompagnarono con calci, pugni e manganellate giù al piano terra. A quel punto, sotto il tiro delle armi, faccia al muro fummo pestati con manganelli dietro la schiena e sui glutei. Poi ci fecero correre tra le due fila composte da giovanissimi guardie che arrivarono dalla scuola della polizia penitenziaria di Portici. Continuarono a pestarci con manganelli, pugni e, come se non bastasse, venimmo azzannati da cani di razza, i pastori tedeschi. Ad alcuni detenuti, i cani gli morsero i genitali e rischiarono di farseli strappare. Poi di corsa, tutti tumefatti, pieni di sangue e senza alcuna assistenza medica, fummo portati giù alle compresse dove all’epoca cerano celle segrete molte ampie. Dopo due giorni, legato mani alla schiena e incappucciato, venni prelevato e portato in un ufficio. A quel punto mi fu tolto il cappuccio e vidi davanti a me molti uomini con il viso coperto. Alla domanda dove avevo nascosto la pistola, io risposi di non saperlo. Quindi mi fu rimesso il cappuccio e portato di peso al piano terra di un padiglione, mi fu tolto di nuovo il cappuccio e vidi una cella vuota con una luce rossa opaca, uno sgabello e una corda a cappio. Al tal punto io subito dissi dove nascosi l’arma e mi fu risparmiata l’ennesima tortura. Correva l’anno 1982 ed era in corso la guerra di camorra di Raffaele Cutolo e la ”nuova famiglia”: era in quell’anno che io e molti altri detenuti abbiamo assistito alla nascita della cella zero.

VENERDI’ 12 DICEMBRE 2014. TERZA UDIENZA D’APPELLO. I NODI DEL PETTINE ED I CRIMINOLOGI: FENOMENI DA PALCOSCENICO.

Venerdì 12 dicembre 2014. I dubbi e le contraddizioni del processo di I° grado. Claudio Scazzi, fratello della piccola Sarah Scazzi uccisa ad Avetrana ancora in attesa di giustizia, sceglie di parlare a Pomeriggio 5 del 28 novembre 2014. Si ostina a rimarcare il buon lavoro degli inquirenti, come se lui sapesse vagliarne la qualità. Claudio dice: “Io, lavorando a Milano, vedevo Sabrina e il resto della famiglia solo durante i periodi vacanzieri. La procura ha fatto un lavoro eccezionale, ci hanno dedicato anima e corpo, quando vedi persone così competenti e qualificate che ti dicono che le cose sono andate in una certa maniera portando anche delle prove che sono dei fatti, ti fidi.”.

«Non chiamatelo mostro». Massimo Picozzi: omicidio nato dall'ossessione sessuale, scrive di Daniele Lorenzetti. «L'omicidio di Sarah Scazzi è il racconto paradigmatico di come l’uomo riesca a fare cose mostruose senza essere un mostro in partenza». Lo  dice a Lettera43 Massimo Picozzi, docente di criminologia all'Università Carlo Cattaneo di Castellanza e autore di libri tra i quali  “Un oscuro bisogno di uccidere” commentando i tragici sviluppi che hanno portato all'arresto dello zio reo confesso, Michele Misseri. Secondo Picozzi, tutta la vicenda «appare come un caso di quasi pedofilia degenerata. È probabile che Michele Misseri si fosse fatto un’ossessione sulla nipote, ma la reazione è arrivata solo di fronte al rifiuto, anzi meglio di fronte alla minaccia di rivelare tutto all’esterno. Questa è una costante di molti delitti sessuali». Fondamentale nella dinamica delle indagini, aggiunge l'esperto, è stato il profilo psicologico dell'assassino stilato dall'Unità Analisi Criminologica dei Ris di Roma. Oltre al passo falso commesso da Misseri, quando dichiarò di aver ritrovato in un campo il telefonino della nipote quindicenne.

Intanto sul versante giudiziario durante l'udienza odierna la Corte ha accolto la richiesta della difesa di Sabrina di una nuova trascrizione di una importante intercettazione di un colloquio telefonico in dialetto tra la stessa giovane e il padre Michele Misseri relativa alla notte tra il 6 e il 7 ottobre del 2010 quando il cadavere della giovane venne fatto ritrovare dallo stesso Michele che all'iniziò confessò di essere l'unico autore del delitto. Il pm Antonella Montanaro si era opposta alla richiesta. Inoltre la Corte ha respinto la richiesta dei legali di Cosima Serrano di un nuovo sopralluogo nella casa di via Deledda dove si consumò il delitto secondo la ricostruzione dell'accusa e la sentenza di primo grado. La scena del delitto è mutata. E la richiesta della difesa è considerata troppo generica, riporta “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La villetta di via Deledda, in cui il 26 agosto 2010 fu uccisa la 15enne Sarah Scazzi, continuerà inevitabilmente a custodire i suoi segreti. La Corte d’Assise d’Appello ha respinto l’istanza di procedere a un nuovo sopralluogo in casa Misseri, ad Avetrana, avanzata dai legali di Cosima Serrano, madre di Sabrina Misseri. Le due donne in primo grado sono state condannate all’ergastolo per omicidio volontario, sequestro di persona e concorso in soppressione di cadavere. Anche oggi hanno assistito all’udienza dalle vetrate di un gabbiotto, ascoltando impassibili le decisioni dei giudici. Quasi con rassegnazione. I legali di mamma e figlia sostengono che ad uccidere Sarah sia stato Michele Misseri, lo zio della ragazza, condannato a otto anni per soppressione di cadavere, e che l’omicidio sia avvenuto nel garage dell’abitazione. Ma per il collegio presieduto da Patrizia Sinisi (a latere De Felice e sei giudici popolari), l’esperimento tecnico non risulta necessario in quanto "la descrizione dei luoghi è già consacrata in atti mediante fotografie e verbale di sopralluogo". Inoltre, sia la "casa che il garage non si trovano più nello stato in cui erano al momento del fatto". L’esperimento, quindi, "non potrebbe fornire un contributo e non rappresenta una prova nuova". Ed è proprio l’assenza di elementi di novità che ha indotto la Corte a bocciare praticamente tutte le richieste di integrazione probatoria presentate dal collegio difensivo e dallo stesso procuratore generale, Antonella Montanaro. L’unica eccezione, riguarda l’esclusione di una conversazione registrata da Anna Pisanò, una delle super testimoni di un colloquio che ebbe con un’altra teste, Antonia Malorgio. Nell’udienza odierna ha prestato giuramento Francesco Abbinante, il perito incaricato della trascrizione di tre intercettazioni telefoniche. Il pg aveva chiesto alla difesa di rinunciare alla trascrizione di una delle conversazioni perchè erroneamente era stato detto che non era mai stata trascritta, ma che invece risulta agli atti del fascicolo processuale. Si tratta della telefonata tra Sabrina e il padre Michele risalente alla notte del 7 ottobre 2010, alle 3.47 e 32 secondi. Le squadre dei carabinieri e gli operai dell’impresa di scavi non avevano ancora estratto il corpo di Sarah dal pozzo-cisterna di contrada Mosca. Sabrina chiamò Michele. "Perchè non me lo hai detto subito papà?". Michele rispose: "Non mi aspettare più". Ed ancora Sabrina: "Però, papà, perchè lo hai fatto? Io non me lo so spiegare proprio, tu non hai fatto mai niente di male, perchè in quel momento cosa ti è venuto?". Michele: "Non lo so". La Corte ha stabilito che anche questa intercettazione sarà trascritta sia in dialetto che con la traduzione in italiano. Abbinante ha chiesto 60 giorni per depositare la relazione, un lasso di tempo ritenuto eccessivo dalla difesa. Il processo è stato aggiornato al 23 gennaio 2015 e in quella sede sarà ascoltato anche il perito nel caso riuscisse a ultimare le operazioni. "Utilizzi bene questo periodo natalizio e cerchi di fare presto", ha dichiarato la presidente rivolgendosi al consulente. Ma Sabrina e Cosima si apprestano a trascorrere un altro Natale in carcere.

Intanto l’avv. di Cosima Serrano, Franco De Jaco”, parla ai microfoni di Blustar Tv e sottolinea l’innocenza delle due donne condannate all’ergastolo in primo grado per l’omicidio della quindicenne di Avetrana.

« Be’ vedremo in una sede terza come si svolgeranno i fatti. Ma assolutamente. Andremo in cassazione tranquillamente. Tanto l’ho sempre detto: questo è un processo che si risolve in Cassazione, visto che c’è una pressione mediatica tale che non c’è serenità in nessuno. Oggi è un’udienza di transizione. E’ stato nominato il perito. Per cui sarà affidato quest’incarico, poi noi valuteremo. Penso sempre che ci sia una giustizia, però se questo è lo spirito, purtroppo dobbiamo affrontarlo. Mi dispiace che due innocenti stanno in carcere.»

Anche Lillino Marseglia, l’avvocato di Sabrina Misseri, dice la sua sull’intenzione di Cosima Serrano di rendere dichiarazioni in aula.

«Ho avuto la netta impressione che volesse rendere delle…non solo delle sommarie dichiarazioni per rivendicare genericamente la sua estraneità ai fatti o proclamare la sua innocenza. Credo che voglia fare un racconto completo di tutta questa vicenda perché non è mai stata sentita. Solo ora. Ne parlavamo con il collega. Spesso e volentieri gli imputati sono anche prigionieri delle strategie processuali. Ci sono tanti motivi. Spesso il silenzio non coincide con la reticenza. Spesso viene imposto per ragioni diverse. Parlerà. Sicuramente parlerà. E come dicevo prima, non si limiterà a fare un racconto proprio di maniera, di stile “sono innocente, sono detenuta senza motivo”. Credo che voglia raccontare i fatti in maniera articolata e poi dovrebbe essere, comunque, una cosa di sicuro interesse processuale, perché Cosima Serrano non ha mai parlato».

Intanto le storie si accavallano. Tutto il mondo è paese. Tutte le disgrazie ed i crimini sono uguali. Il popolino giudicante, come marziani diversi dai poveri terrestri, dicon sempre la loro.

«Veronica è l’assassina» Processo inutile…, scrive Daniel Rustici su “Il Garantista. Nuovo interrogatorio fiume di cinque ore per Veronica Panarello, la mamma del piccolo Loris, che è indagata per omicidio volontario e occultamento di cadavere in relazione al delitto del figlio. Lei nega tutto ma intanto è stata trasferita nel carcere di Piazza Lanza a Catania, dove al suo arrivo i detenuti le hanno urlato «Vergogna, devi morire!». Il legale della donna ammonisce: «Basta con i processi mediatici: la mia cliente ha risposto punto su punto, rimanendo ferma sulle sue posizioni: lei è innocente» e attacca la Procura, «indagini frettolose». Orazio Fidone, il cacciatore che trovò il corpo del bambino e fino a due giorni fa risultava l’unico indagato dice: «Non voglio commentare cose che non conosco, ma ora sono più tranquillo». Intanto nella scuola che frequentava Loris arriva un team di psicologi. Dopo una breve pausa, giusto il tempo di dormire qualche ora, non più nelle vesti di semplice persona informata dei fatti ma di indagata per omicidio volontario e occultamento di cadavere per Veronica Panarello, la mamma del piccolo Loris, sono ripresi gli interrogatori.

La donna, che ha passato la prima notte di fermo in una camera di sicurezza della questura per essere poi trasferita nella sezione femminile del penitenziario di Ragusa, ieri mattina inizialmente si è avvalsa della facoltà di non rispondere e quando ha deciso di rispondere ai quesiti dei magistrati, lo ha fatto solo per ribadire la propria innocenza. Della sua estraneità al delitto del figlio sembra però non essere più certo nemmeno il marito Davide che fino a quando gli inquirenti non gli hanno mostrato la prova video del fatto che la moglie ha mentito agli inquirenti quando disse di non aver mai percorso la stradina di campagna che conduce al canalone dove è stato trovato il cadavere di Loris, aveva difeso a spada tratta la 25enne siciliana. «Se fosse stata lei», ha detto ai giornalisti di una televisione, «potrebbe anche morire». La zia paterna di Veronica, Antonella Stival invece ribadisce: «Non ci credo che Veronica abbia ucciso Loris, proprio non ci credo: il mio pensiero e il mio cuore sono con lei. Ricordiamo che per il momento è soltanto in stato di fermo e quindi aspettiamo gli sviluppi dell’inchiesta. E’ sempre stata una mamma splendida e speciale». E il suo legale, l’avvocato Francesco Villardita, ammonisce: «La mia assistita è stata indagata mediaticamente quando non era indagata, adesso spero non venga condannata mediaticamente prima ancora del processo». E quella della procura di Ragusa secondo il difensore della mamma di Loris è stata «un’indagine leggermente frettolosa». Riferendosi all’interrogatorio-fiume di cinque ore a cui è stata sottoposta la sua assistita ha inoltre aggiunto: «La mia cliente ha risposto punto su punto, rimanendo ferma sulle sue posizioni: lei è innocente e ha confermato di aver portato il bambino a scuola e di essere andata poi a Donnafugata. La signora ha visto il fotogramma, e ha chiesto da cosa avrebbero individuato il fatto che fosse Loris. Perché non e’ assolutamente soggetto individuabile. “Veronica non ti volevo, sei nata per sfortuna”. La frase della madre che le sconvolse la vita, scrive Pierangelo Sapegno su “La Stampa”

Considerata da tutti la “forestiera” in paese è già stata condannata

Quando Veronica Panarello è arrivata in piazza Lanza, a Catania, sulla macchina della Polizia, ha cominciato a sentire i fischi prima ancora di avvicinarsi alla soglia del carcere. Gridavano «Assassina, assassina, devi morire...». Anche Anna Maria Franzoni aveva sentito quelle urla la prima volta che l’avevano portata in prigione pochi giorni dopo la morte del piccolo Samuele. Ma poi non era andata così. Disse che passò la notte piangendo nella cella e che la vicina le bussò contro il muro: «Per noi tu sei innocente». Il giorno dopo venivano a cercarla e le dicevano la stessa cosa. Aveva una compagna e diventò sua amica, chiacchierando sulla branda. Al Sud è diverso. E Veronica era già per tutti la «forestiera», prima ancora che arrivassero tutti questi giornalisti e suonassero le sirene per le strade del villaggio. Anna Maria Franzoni era tornata a casa, in questo Paese di campanili, nel carcere della Dozza, a Bologna, ed era come se dentro quelle mura si riproponesse questo strano mosaico, che vedeva solo qui, sotto le pendici degli Appennini e di Monteacuto, la sua terra, la gente schierarsi con lei. E’ come se il carcere, in fondo, con le sue regole terribili e crudeli, assorbisse anche le leggi e la morale della sua società di appartenenza. Dev’essere così. 

Nelle televisioni, fra i cronisti che sono andati in giro a sentire la gente del suo paese, molti hanno ripetuto le cose che diceva quel tipo che si grattava i capelli sotto la visiera del berretto calato sugli occhi: «Ce lo aspettavamo. Perché era strana, e le voci di un piccolo posto come questo dove ci si conosce tutti, non sbagliano mai». Veronica era già in carcere, prima di entrarci. Il delitto di cui è accusata è come quello dei pedofili, un crimine contro natura, e non importa che contro di lei ci siano solo indizi e nessuna prova. Gli applausi alla polizia non sono solo l’omaggio a chi ha comunque lavorato bene: sono anche il riconoscimento a chi ha accusato la persona più indesiderata, la più colpevole. Il suo paese l’ha già condannata, l’hanno condannata le sue radici. E che cos’è una persona senza radici? Anche Sabrina Misseri era stata insultata e fischiata il giorno che l’avevano portata in cella per la morte di Sarah Scazzi: ma lei aveva pagato l’esposizione televisiva, quel bombardamento mediatico che aveva finita per isolarla, fino a renderla «una persona che ha cercato troppa pubblicità a scapito degli altri e di una ragazzina uccisa», come disse qualcuno. In carcere, questo odio sociale, espresso a ruota libera sul web («devi morire», «ci vuole la pena di morte»), è ancora più duro. Il carcere non è solo un luogo di pena. E’ la realtà che credevi non esistesse, e che adesso appartiene alla tua vita. Giuseppe Colazzo, un detenuto che si è laureato in scienze politiche a Torino e che ha scritto una splendida tesi sulla vita penitenziaria, spiega che «all’interno della vita carceraria si mantengono poteri e status, in quanto regole condivise e ritualità vanno a intrecciarsi in un processo di adeguamento denominato “prigionizzazione”, più incisivo sulla vita del singolo di quanto non lo sia la burocrazia carceraria». Resti quello che eri prima, ma nelle spire di una gerarchia molto più violenta e terribile. E che cos’era Veronica, la ragazza insultata persino dalla mamma che le aveva gridato addosso «io non ti volevo! Tu sei nata solo per sfortuna»? Questa piramide carceraria, poi, è molto più profonda al Sud, dove comandano le mafie e i boss, che al Nord. In questa classifica, ai gradini più bassi ci sono proprio i detenuti che non riescono a integrarsi, che subiscono l’ambiente loro malgrado, che provengono da una cultura diversa e lontana, - quella della libertà in genere -. «Questi detenuti», spiega Giuseppe Colazzo nella sua tesi, «vengono messi alla prova in tutti i momenti della giornata, sia dai loro stessi compagni che dalle pratiche istituzionali». Ma ancora più sotto di loro, ci sono «i detenuti devianti per eccellenza: i pedofili, gli stupratori, gli omosessuali, i pentiti». E le mamme che uccidono i loro figli. Veronica, già isolata nella sua vita reale, è finita dentro a questo girone. Qui non c’è il silenzio del paese, non ci sono le cose non dette, i pensieri cattivi che fluttuano nell’aria quando non ci sei, non ci sono i veleni nascosti, le antipatie inespresse. In un carcere, c’è solo la legge della sottomissione. Ma può valere per tutti gli altri, non per quelli che come Veronica sono già stati condannati, da tutti, persino da sua mamma. Per lei non vale neanche la lezione che il vecchio detenuto suggerì a Colazzo, avvicinandolo nel suo primo giorno di carcere: «Ricordati, fai quello che dicono. E non fare quello che fanno».  

La riflessione di Giulia D’Argenio su “Orticalab”. Loris, Yara, Avetrana, Cogne: il circo del macabro che ci piace. Ben presto il piccolo ucciso a Ragusa sarà sostituito nelle nostre menti e noi saremo pronti a pagare un altro biglietto pur lamentando la qualità scadente dello spettacolo. «Veronica è una mamma speciale e non voglio che si infanghi il suo nome». A dirlo è Davide, il papà di Loris, la piccola vittima del delitto di Santa Croce Camerina a Ragusa. Il lutto per la perdita del figlio da giorni riempie pagine di giornali e interi sevizi di notiziari. Un’attenzione mediatica rispetto alla quale il parroco del paese ha espresso fastidio, facendo riferimento ad una diffusa e invasiva presenza della stampa, dalla casa del piccolo, alla scuola e la chiesa. In effetti, i giornalisti stazionano nel piccolo centro ragusano con aggiornamenti costanti relativi all’evoluzione del caso e riportando qualsiasi notizia utile a farne parlare. Ma qual è l’utilità della ripetizione continua e morbosa di immagini di volti straziati dal dolore? Volti di mostri che potrebbero anche non essere tali. Quel è, dunque, la linea che separa la cronaca dall’accanimento? Il confine entro il quale la notizia secca viene preservata dal divenire puro e semplice gossip?

Venti anni di “telenovelas” e di “politica del qualunquismo”, somministrato a suon di sorrisi, hanno reso questo confine labile, estremamente labile. L’accelerazione della rete, poi, ha esasperato e dilatato a dismisura un fenomeno complesso ma certo inarrestabile. Nonostante ciò, il problema resta. Resta il problema di comprendere dove arriva, realmente, la cronaca, cioè la narrazione dei fatti, per garantire alle persone strumenti di comprensione e dove, invece, comincia la speculazione. Come nel caso della notizia del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi, data al programma televisivo di Rai3 “Chi l’ha visto?”, mentre in collegamento diretto da Avetrana c’era la madre della ragazza. O come nel caso di Simone Schettino, sulla cui vita privata si sono accesi i riflettori come fosse un personaggio pubblico o un divo dello spettacolo. Tuttavia, in un Paese nel quale è Alfonso Signorini, con gli speciali sul “gelato” della Madia, ad imporsi come uno dei personaggi che contribuiscono alla dieta informativa dei lettori, è evidente che lo stato di salute del settore soffre a causa di un processo di deformazione nell’approccio all’informazione. E’ vero: noi saremmo gli ultimi a poterci a esprimere in materia. E’ un poco come pestarsi i piedi da soli, essendo anche noi operatori del settore e, soprattutto, realizzando un’informazione sempre critica, non rinunciando mai a dare una chiave di lettura. Ma con un obiettivo chiaro: suscitare dibattito, contribuire alla formazione di un’opinione. Con tutti i limiti del caso ma mai con l’intento di speculare. È normale documentare l’evoluzione di un’indagine ma quanto serve sapere che il padre di Loris ha appreso della morte del figlio tramite facebook? È nell’economia di questo lavoro documentare le operazioni di recupero della Costa Concordia e dire agli italiani che il comandante sotto inchiesta per quel disastro è stato (indebitamente diciamo noi) invitato a tenere una lezione all’università. Ma perché raccontarci delle presunte amanti? Perché invitare in trasmissioni televisive Anna Maria Franzoni, accusata del delitto del figlio, per parlare di nuove gravidanze? E ancora: è giusto che gli elettori sappiano che Berlusconi era ricattabile per il giro di donne nel quale era imbrigliato, tra le Olgettine, villa Certosa e Arcore ma cosa importa loro di quel che dice la Pascale o del cane Dudù? La risposta sta nel fatto che l’informazione, qui come altrove, risponde al mercato spesso, è vero, in barba ad ogni deontologia. E il mercato chiede questo. Il mercato ha fame di leggerezza, di “inciuci” e di orrori sui quali intessere ore e ore di vacue conversazioni. In virtù di ciò, ben presto Loris sarà sostituito nelle nostre menti da un’altra Sarah o da un’altra Yara: allora, questo morboso circo del macabro ricomincerà e noi saremo pronti a pagare un altro biglietto pur lamentando la qualità scadente dello spettacolo.

La morte di Loris e il giornalismo da "reality show", scrive  Fausto Cicciò su “La Gazzetta del Sud”. Già da diversi anni c’è chi, come Umberto Eco, avverte del rischio, per chi naviga sul Web, di imbattersi in un’enorme “massa di informazioni non filtrate, inattendibili, imprecise”. Un eccesso che finisce con l’equivalere a una assenza di certezze e a una babele in cui regna l’ignoranza. Se poi questa baraonda di notizie, illazioni, falsi scoop e immediate smentite viene prodotta dagli stessi giornalisti e “operatori dell'informazione” la catastrofe è compiuta. L'ultimo triste capitolo di questa degenerazione digitale è l’inspiegabile sequenza di annunci, “breaking news” e rettifiche attraverso le quali la stampa online e la televisione stanno raccontando affannosamente la vicenda di  Andrea Loris Stival, il bimbo trovato morto in un fossato a Scoglitti, nel Ragusano. Come già avvenuto in altri casi analoghi (da Samuele Lorenzi a Sarah Scazzi),  qualunque indiscrezione o pettegolezzo viene spesso “promosso” da ansiosi reporter di alcune agenzie e riferito attraverso le testate su internet (così come dai tg che trasmettono 24 ore su 24) senza le dovute verifiche imposte dalla ormai sconosciuta deontologia professionale. In quella che appare sempre più una spregiudicata gara di velocità sulla Rete,  la concitazione agonistica impone di assecondare il dilagante  voyeurismo dei lettori, proponendo non più la cronaca dei fatti ma un “reality show” che sforni una folle sequenza di “post” confezionati su misura per il pubblico dei social network. Un meccanismo avvilente pensato con il solo scopo di conquistare il maggior numero di clic e impressions. Non è possibile ancora sapere se e quando assisteremo al tramonto del giornalismo “classico” che,  secondo le teorie più di moda, sarà rimpiazzato dal cosiddetto “citizen journalism”  (ovvero la “partecipazione attiva” degli utenti). Ma lasciateci sperare che se proprio dovremo assistere al declino di questo “antico mestiere”, ciò non passi attraverso un “suicidio di massa” causato da una degradante perdita di credibilità.

E poi ci sono loro: FENOMENI DA PALCOSCENICO. Criminologi da salotto, quei soliti noti sulla cronaca nera, scrive Aldo Grasso su “Il Corriere della Sera”. Ogni sera, in tv, c’è chi fa cronaca e chi fa sciacallaggio. C’è chi si accontenta di brandelli di verità e chi si butta sul cadavere di Loris, come un avvoltoio, come un vampiro. Succede sempre così, quando un’indagine brancola nel buio, quando si accumulano indizi ma non ci sono prove. Una compagnia di giro che negli anni ha affinato i meccanismi passa da un salotto all’altro: finge di interessarsi al caso ma pensa soprattutto alla propria visibilità, alla propria affermazione personale. Sedicenti criminologi, esperti di costume, psicoqualcosa, giornalisti di pronto impiego, magistrati, tecnici della spossatezza, conduttori nella pienezza del declino congetturano la scena del crimine, insinuano ferocie di cui non sanno niente, cercano di dare un nome all’inconoscibile, litigano fra di loro, stordiscono il pubblico, oppressi da una tenebra gelida che trascinano da ipotesi in ipotesi, da psiche in psiche. Uno che è sempre in tv a interpretare il ruolo del santo cinico dichiara ai giornali: «L’autorità inquirente cerca una ricostruzione dei fatti in maniera precipitosa sotto la spinta dei media». Ma se è lui che ogni giorno è in tv a spingere gli inquirenti! Avvoltoi, vampiri, ipocriti, sempre bisognosi di una falsa causa che nobiliti i loro interessi, sempre alla ricerca di parole che si offrano come la guarigione del male, facendo finta di ignorare che il male è in noi. Anche in noi che li guardiamo, in noi che facciamo lievitare gli ascolti. Ha ragione Annalena Benini: «Vogliamo il nome dell’orrore, che ci consenta la rabbia e poi la catarsi. Ma questo nome non ci rassicura perché è scritto addosso all’umanità. Imperfetta, a volte malata e feroce, capace di sopraffare i più indifesi, anche quando sono i suoi figli». Così, spettatori indulgenti, ascoltiamo inebetiti la compagnia di giro che oggi si esibisce su Loris come ieri si è esibita su Yara, su Samuele, su Sarah, su Chiara...

E chi con le disgrazie altrui fa fortuna. Criminologi in tivù: famosi coi casi irrisolti. Da Bruzzone a Bruno: chi sono i più conosciuti esperti di cold case ). Che nei talk show indagano. E pontificano. Finendo per complicare le indagini, scrive Antonella Scutiero su “Lettera 43”

L’esempio più facile da citare è quello del circo mediatico scatenatosi intorno al giallo di Cogne, con tanto di plastico nello studio di Porta a Porta di Bruno Vespa. Ma in realtà a portare i crimini in tivù ci aveva già pensato Costanzo nel suo Maurizio Costanzo Show. Il merito, o la colpa, è del successo del 'giallo irrisolto', a metà tra la cronaca e il genere letterario, che ha inondato il piccolo schermo con serie tivù americane come Csi, Cold Case e così via. In fondo anche l’italianissimo Un giorno in pretura, in onda su RaiTre dal 1988, ha soddisfatto la voglia di crime degli spettatori, mandando in onda processi per i delitti del mostro di Firenze a Pietro Pacciani o quelli per la strage di Erba e la morte di Sarah Scazzi. Un vero e proprio genere televisivo, dunque, che dalle aule di tribunale passa per la fiction e, soprattutto, per i talk show: è qui che trova la sua consacrazione la figura dell’esperto, il criminologo, che dalla sua sua poltrona indaga e pontifica, spesso anche direttamente coinvolto nel caso in esame. Insomma, nello scenario televisivo italiano il criminologo ha trovato la sua chiave per uscire da aule universitarie e tribunali. Trovando fama e soldi. E non è un caso che dopo l’affermazione della categoria sulla scena mediatica si sono moltiplicati gli aspiranti professionisti del genere. Tanto che a Torino nel 2013 è nato il primo corso di laurea specialistica in Psicologia criminologica e forense, destinato a 100 aspiranti Csi. Ecco chi sono i più famosi.

Francesco Bruno, il criminologo lanciato da Costanzo e Vespa. Se a consacrare l’esame del crimine nel salotto televisivo fu Vespa, il primo criminologo mediatico è stato, senza dubbio, Francesco Bruno, visto anche al Maurizio Costanzo Show e a Delitti.
Originario della provincia di Cosenza, laurea alla Sapienza di Roma, dove è diventato professore di criminologia e medicina forense, negli Anni 90 ha collaborato con vari ministeri contro la criminalità mafiosa e la lotta alla droga. Fece parte del collegio difensivo di Pacciani e nell'inchiesta sul «mostro di Firenze» subì una perquisizione di 15 ore a casa, nello studio, e all’università: è stato probabilmente questo caso - insieme con le collaborazioni istituzionali - a portarlo nello studio di Porta a Porta, dove è stato ospite pressoché fisso per lungo tempo, allargandosi poi a Pomeriggio sul 2, La vita in diretta, Pomeriggio Cinque, Matrix, e tanti altri, per disquisire di tutti i casi mediatici degli ultimi anni, da Garlasco a Sarah Scazzi.

Roberta Bruzzone, dalla macchina della verità al caso Scazzi. Un altro volto noto della criminologia italiana, Roberta Bruzzone, arriva invece dall’edizione di Buona Domenica di Costanzo, dove sottoponeva i vip ospiti alla “macchina della verità”, esperienza poi ripetuta nel reality game La Talpa 3 condotto da Paola Perego.
La notorietà le è arrivata con la conduzione de La scena del crimine sul canale 877 di Sky e Donne mortali su Real Time. Già consulente per la strage di Erba, è stato il caso di Avetrana ad aver consacrato la psicologa e criminologa ligure, che all’indomani del delitto sedeva in tivù ad analizzare i profili dei vari protagonisti, definendo Michele Misseri «pedofilo e assassino», salvo poi vedersi affidato il ruolo di consulente della difesa proprio dell'uomo. In seguito fu chiamata a testimoniare contro Michele, dichiarando che lui, durante un colloquio in carcere, accusò dell'omicidio sua figlia Sabrina. Di rimando, Misseri ha poi accusato la psicologa e il suo legale di aver fatto pressioni perché accusasse la ragazza. È proprio durante il polverone del caso Avetrana che Aldo Grasso scrisse che Bruzzone «entra ed esce dalle carceri e dagli studi televisivi come fossero la stessa cosa, non distingue la realtà dalla rappresentazione». Dalla scena del crimine alla Tv,
il doppio lavoro della criminologa. È nata una stella, si chiama Roberta Bruzzone, ora è anche la consulente di Michele Misseri, scrive Aldo Grasso su “Il Corriere della Sera”. È nata una stella, si chiama Roberta Bruzzone, viaggia sulla quarantina, finta bionda, sguardo magnetico, uno spiccato accento ligure. Su Facebook piace a 1.007 persone (qualcuna in più da quando è stato scritto questo pezzo), vanta un fan club. Da giorni è balzata agli onori della cronaca per i suoi ripetuti interventi sul giallo di Avetrana, quello della povera Sarah Scazzi. Ospite assidua dei talk, che come belve feroci si sono buttati sulla preda, aveva sostenuto la tesi di un secondo livello non ancora emerso. Così, in quattro e quattr'otto, è stata nominata consulente di parte dello zio di Sarah e, intervistata da Monica Maggioni, ha descritto il suo cliente come una persona con un «legame solidissimo con la sua famiglia» e che per questo «ha risentito molto sul piano emotivo di tutto quello che è successo». Dalla sua biografia ufficiale veniamo a sapere che è autrice e conduttrice del programma La scena del crimine, alla sua terza edizione sull'emittente Gbr-Teleroma 56 (canale 877 di Sky) e di Donne mortali, giunto alla sua seconda edizione, su Discovery Real Time (canale 118 di Sky). È inoltre consulente scientifico di numerosi programmi che trattano tematiche relative a fatti criminali. Insomma, nel giro di poco tempo, la finta bionda ha soppiantato i colleghi criminologi arruolati come star televisive, tipo Massimo Picozzi, Francesco Bruno e tanti altri. Per non parlare di psicologi, magistrati, tuttologi. Negli ultimi anni, grazie ai salotti di Bruno Vespa e di Matrix, il criminologo è diventato un personaggio tv: lo abbiamo visto all'opera, infervorato e dottorale, nel «Novi Ligure show», nel «Cogne Show», nell'«Erba show», nel «Garlasco show» e in tanti altri spettacoli. Spesso in una situazione imbarazzante, perché coinvolto direttamente o indirettamente nel caso. Diciamo anche che per alcuni di loro la tv è diventata un'ottima vetrina per dare lustro alla loro attività, a scapito forse di ogni deontologia professionale. Ma il caso Bruzzone ci fa fare un ulteriore passo in avanti: il mattino è in tribunale ad assistere il suo cliente, il pomeriggio nell'etere a spiegare quello che è stato detto e fatto. Entra ed esce dalle carceri e dagli studi televisivi come fossero la stessa cosa. Del resto si dice esperta di ricostruzioni di 3D della scena del crimine e ama farsi fotografare con un berrettino dell'Fbi. Insomma, per lei, realtà e rappresentazione sembrano la stessa cosa.

Massimo Picozzi, lo psichiatra milanese esperto di criminologia. Prima della bionda criminologa c’era stato, comunque, anche Massimo Picozzi, ospite pressoché fisso di trasmissioni come Porta a Porta e Matrix, Delitti su History Channel, Chi l’ha visto? e Quarto Grado, e pure voce fissa di Csi Milano, in onda durante il programma 105 Friends di Radio 105. Picozzi, psichiatra e criminologo milanese, è stato coinvolto nei processi per il delitto di Cogne, per quello di Novi Ligure, la strage di Erba, Michele Profeta e gli omicidi delle Bestie di Satana ed è stato chiamato come consulente per il processo sull'omicidio di suor Maria Laura Mainetti a Chiavenna.

Vincenzo Maria Mastronardi, il perito amico di Schettino. L’ultimo ad affermarsi sulla scena è stato Vincenzo Maria Mastronardi, psichiatra e criminologo, direttore del Centro sperimentale cineteatrale di criminologia alla Sapienza di Roma, famoso soprattutto per aver invitato il comandante della Costa Concordia Francesco Schettino in cattedra al seminario organizzato al Circolo aeronautico di Roma. Capelli tinti di un nero inverosimile per la sua età, autore di perizie nel caso Cesaroni, Pietro Maso, Rudy Guede, era già da qualche tempo entrato negli studi televisivi a suon di analisi dei crimini e barzellette.

I criminologi? Peggio degli economisti, scrive Cristiano Gatti su “Il Giornale”. Gli economisti non ne azzeccano una, ma c'è una categoria che li batte: i criminologi. Questa pregiata categoria di espertissimi, per secoli sommersa nei meandri più remoti delle università e recentemente affiorata proprio al centro della nostra scena televisiva, sta inanellando ad Avetrana una tale serie di sfondoni da ridicolizzare i maghi della finanza, che pure hanno dato. Noi che li stiamo a sentire, quando eventualmente si riprendono dal sonno (vedi i servizi di Striscia che li pescano teneramente immersi in fase Rem durante i talk-show), nutriamo anche una certa soggezione. Da utenti generici, che costruiscono il proprio bagaglio giallo sulle teleserie psico-sanguinolente d'America o sui «Ris» de noantri, seguiamo le loro analisi con grande interesse e inevitabile senso di inferiorità. Però è anche il caso di chiederci, a un certo punto: questi eminenti personaggi si formano sulle scene del crimine o sulle dispense del Cepu? Come dimenticare. Un giorno, questo zio rimasto sempre sullo sfondo, defilato, quasi trasparente, ignorato anche dai criminologi più scafati, improvvisamente trova il cellulare di Sarah e finisce per farsi incastrare dalla Polizia. Il bravo criminologo, attrezzo umano ormai in dotazione a qualunque bravo conduttore tv, prontamente ci spiega tutto. Elementare, un caso classico. Si vedeva benissimo che lo zio non reggeva il peso della sua malvagità, in qualche modo l'inconscio ha voluto richiamare l'attenzione per farsi prendere.
Inizia così la lunga epopea del mostro di famiglia. Un po' Biscardi, i bravi criminologi volentieri si prestano al gioco della moviola: ecco, vedete, quando un soggetto sorride con il labbro inferiore messo di sghembo, mentre si gratta l'orecchio di sinistra, è il chiaro segno di colpevolezza. E gli occhi, notati gli occhi? Signori, non c'è niente di più rivelatore di quell'incerto inarcarsi del sopracciglio, evidente segnale di coscienza sporca, tipico, non ci sono dubbi.
Le parole perché sono parole, i silenzi perché sono silenzi: tutto spiega in maniera inequivocabile la colpevolezza di questo diabolico soggetto. Noi, che al massimo abbiamo notato soltanto uno strano pianto senza lacrime, restiamo incantati. Diamine, l'assassino non lo sa, ma ogni giorno parla e confessa agli occhi infallibili dello scienziato «noir». Nel profondo di questo mare d'ammirazione, molto in fondo, si fa sommessamente strada solo una domanda: ma dirlo prima? Perché, ci chiediamo profani e ignari, il bravo criminologo non si fa avanti subito, diciamo dopo una settimana, chiamando al cellulare il piemme per dire più o meno una cosa come questa: dottore, occhio, questo zio ha tutte le labbra e tutte le sopracciglia del bieco assassino. Si renderebbe più utile. Eviterebbe tante perdite di tempo. Farebbe anche la sua bella figura. Invece, come il bravo economista, il bravo criminologo ha questo di strano: te la spiega sempre dopo, quando la sappiamo già. Te la spiega benissimo, ti fa sentire pure un po' di coccio per non averlo capito prima, ma quando gli inquirenti hanno già chiuso la conferenza stampa con le clamorose novità. Come gli economisti, uguale: le banche fallite e i banchieri in manette, ci spiegavano con tono saccente quanto fosse prevedibile la bolla finanziaria che nessuno di loro aveva previsto. Gli uni e gli altri, criminologi ed economisti, vittime della stessa ambizione: piegare la realtà ai dogmi scientifici. Ma la regola uno della vita segnala immancabilmente come la realtà abbia molte più variabili - molta più fantasia - di qualunque schema teorico. Adesso si apre una fase nuova. Questa ennesima novità dello zio che vuota il sacco - un'altra volta - e confessa di aver confessato per non sconfessare la figlia Sabrina, via, è un'enorme seccatura. Il mostro, tutto sommato, è un pezzo di pane. Dopo averci spiegato la fenomenologia della belva umana, grattate d'orecchio e sorrisi sbilenchi, i criminologi sono chiamati a dimostrarci che gli stessi gesti sono quelli tipici del generoso padre di famiglia. Di un padre così morbosamente attaccato alla figlia e in generale al suo branco, da non esitare ad addossarsi tutte le infamanti colpe dello spietato omicidio, come peraltro dimostrato dall'ossessivo rimestare in tasca della mano sinistra, lo si vede benissimo, alla ricerca di chissà cosa, forse della pace perduta (?, ndr). Sì, se davvero l'assassino non è lo zio, se quest'uomo tanto miserabile, l'ultimo degli uomini, è in realtà un padre accecato dall'amore, lo voglio proprio vedere, il bravo criminologo. Conoscendo il genere di specialista, quanto prima avvertiremo uno stridore pazzesco di pneumatici per la frenata e un assordante rombo di motori per la retromarcia. Per la cronaca, già sono all'opera. Nemmeno il tempo di apprendere che secondo le prime indiscrezioni, forse, chissà, lo zio Michele avrebbe confessato la sua estraneità all'omicidio di Sarah, ed ecco il principe dei criminologi dettare il proprio verdetto all'Adnkronos: «Questa è certamente la versione più credibile». Se rinasco, faccio il criminologo.

Giornalismo è giustizia, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale che si concluderà questa mattina. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

VENERDI’ 23 GENNAIO 2015. QUARTA UDIENZA DI APPELLO. PERCHE’ STAMPA E TV TACCIONO SULLA BRUZZONE?

All’udienza di venerdì 23 gennaio 2015 in aula erano presenti i tre principali imputati: le due detenute Sabrina Misseri, cugina della vittima, e la madre Cosima Serrano, condannate all'ergastolo in primo grado per omicidio volontario, sequestro di persona e concorso in soppressione di cadavere, e Michele Misseri, marito di Cosima, condannato in primo grado a otto anni per soppressione di cadavere. Non è stata ancora depositata, malgrado la sollecitazione della Corte d’Assise d’Appello fatta nella udienza precedente, la trascrizione di tre intercettazioni telefoniche che era stata commissionata dai giudici nell’ambito del processo d’appello per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e buttata in un pozzo il 26 agosto del 2010. Il perito Francesco Abbinante, che aveva rilevato anche un errore nell’indicazione di un numero progressivo del verbale di una delle conversazioni da trascrivere (quella tra Cosima Prudenza e Giuseppina Scredo), ha comunicato al collegio di giudici che il suo lavoro è in via di ultimazione. Nell’udienza del 12 dicembre scorso il perito Abbinante aveva avuto 60 giorni per ultimare il suo lavoro. Un lasso di tempo che era stato giudicato eccessivo dalla difesa degli imputati e aveva spinto il presidente della Corte Patrizia Sinisi a chiedere al consulente di cercare di depositare la perizia entro l’udienza di oggi. Le altre due telefonate da trascrivere (anche traducendo il dialetto) riguardano le telefonate tra Sabrina e il padre Michele prima dell’arresto di quest’ultimo, in particolare nelle prime ore del 7 ottobre 2010, quando l’agricoltore fece ritrovare i resti di Sarah Scazzi in un pozzo nelle campagne di Avetrana. La Corte d'assise d'Appello, presieduta dal giudice Patrizia Sinisi (a latere De Felice e sei giudici popolari), ha sciolto le ultime riserve confermando il rigetto di eccezioni già presentate dalle difese dei tre imputati relative, tra le altre cose, all'annullamento della sentenza di primo grado per presunte violazioni di natura tecnica, all'utilizzo di interviste rilasciate nel corso di trasmissioni televisive e alle modalità tecniche e di procedura di alcuni accertamenti eseguiti nel corso dell'inchiesta dai carabinieri del Ros. Il collegio di giudici ha inoltre acquisito, su richiesta del sostituto procuratore generale Antonella Montanaro, un'ordinanza del 2011 del tribunale del riesame di Taranto relativa alla conferma delle misure cautelari per Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Il collegio di giudici ha respinto le richieste della difesa di Cosima Serrano volte a dichiarare l’inutilizzabilità degli accertamenti compiuti dai carabinieri del Ros di Lecce sulle celle telefoniche di Avetrana, rilievi tecnici che hanno consentito alla Procura prima di stabilire che Cosima Serrano il pomeriggio del delitto andò nel garage dell’abitazione di famiglia, dove probabilmente era stato portato il corpo senza vita di Sarah, e poi il giorno dopo, assieme alla figlia Sabrina, andò a fare un sopralluogo in contrada Mosca, sul pozzo nel quale era stato buttato il corpo della 15enne. Gli avvocati De Iaco e Rella, ma anche quelli di Sabrina Misseri (Franco Coppi e Nicola Marseglia), hanno sempre eccepito l’inutilizzabilità del lavoro svolto dal Ros perché la difesa non sarebbe stata messa nelle condizioni di partecipare ai rilievi con propri consulenti e che qualche mese dopo i gestori di telefonia mobile hanno modificato gli impianti, rendendo così impossibile una consulenza di parte. La corte d’assise d’appello non ha condiviso tale impostazione, qualificando il lavoro fatto dai Ros a rilievi tecnici e non ad accertamenti tecnici irripetibili, e dunque pienamente utilizzabili senza alcuna lesione al diritto di difesa. Concluse, dunque, le schermaglie iniziali e fissato sempre per la prossima udienza l’esame del perito Abbinante chiamato a trascrivere una manciata di telefonate, tutte già note, e dunque difficilmente destinate a cambiare il quadro probatorio, spetterà proprio agli imputati, con le loro dichiarazioni spontanee tentare di convincere i giudici che il verdetto di primo grado è sbagliato.  Nella prossima udienza sono previste la deposizione del perito ed eventuali dichiarazioni spontanee degli imputati. L'avvocato Franco de Jaco difensore di Cosima Serrano, ha annunciato che la sua assistita parlerà in aula. Cosima Serrano parlerà ai magistrati. Per la prima volta dal 26 agosto del 2010, quando la povera Sarah Scazzi fu uccisa ad Avetrana, la zia della vittima, condannata in primo grado all’ergastolo assieme alla figlia Sabrina Misseri, accetterà di confrontarsi con i giudici, dopo aver declinato tutte le occasioni che le si sono presentate in questa lunga e intricata vicenda processuale: dall’interrogatorio di garanzia dinanzi al gip Martino Rosati, all’indomani dell’arresto (26 maggio 2011), all’udienza preliminare con il gup Pompeo Carriere, al lungo processo in corte d’assise. Il prossimo 27 febbraio, invece, Cosima dovrebbe - almeno così ha annunciato ieri l’avvocato Franco De Iaco che la difende assieme a Luigi Rella - fare dichiarazioni spontanee dinanzi alla corte d’assise d’appello, dichiarazioni che potrebbero, in base al loro contenuto, imprimere una direzione diversa rispetto a quella sinora assunta dal processo di secondo grado. «Penso che voglia confutare, sostanzialmente, tutto ciò che è emerso sino ad oggi - dice l’avv. Franco De Jaco – Poi sarà creduta o non sarà creduta, questo per lei è relativo. Vuole liberarsi, sostanzialmente, del fatto che la gente pensi che lei non voglia rispondere alle cose. Vuole rispondere, però, chiaramente ci sono delle scelte tecniche che abbiamo fatto noi e che fino adesso le hanno impedito di assolvere a questo suo desiderio. Adesso lo vorrà affrontare e lo affronterà. Tanto, voglio dire, alla fine conosce benissimo lo spirito di questo processo e quindi…» La corte presieduta da Patrizia Sinisi, infatti, sinora ha praticamente falcidiato tutti i motivi di appello proposti dai legali delle principali imputate, concedendo qualcosa unicamente riguardo alla trascrizione di tre telefonate intercorse la notte tra il 7 e l’8 ottobre del 2010 tra Sabrina Misseri e suo padre Michele (che quella notte confessò, facendo ritrovare il corpo di Sarah) e all’inutilizzabilità di un colloquio registrato dalla super testimone Anna Pisanò con una parente del fioraio Giovanni Buccolieri (quello che vide Cosima e Sabrina sequestrare Sarah, dicendo poi che si trattava solo di un sogno). Il processo, quindi, è stato aggiornato al 27 febbraio.  Tanto che fretta c’è…

Com’era già successo nello scorso mese di novembre 2014, il giorno prima Michele Misseri ha tirato un’altra secchiata su una giornalista e l’operatore Rai che erano andati con l’intenzione di sentire un suo parere sull’udienza di oggi. Il gavettone del contadino di Avetrana questa volta è toccato alla giornalista di Uno Mattina, per la rubrica Storie Vere, Maria Grazia Sarrocco e all’operatore dell’agenzia Poiana di Ostuni. Non contento della secchiata, una volta rientrato in casa zio Michele, probabilmente con una manichetta, ha annaffiato la giornalista spruzzando acqua attraverso il portoncino, scrive Sara Piccione su “La Voce di Manduria”. Chi era e cosa è diventato Michele Miseri  di Sara Piccione. E’ durata poco l’udienza in corte d’appello a Taranto per il processo sulla morte di Sarah Scazzi, ma Michele Misseri non è mancato d’esserci come in nessun’altra precedente udienza Pertanto anche oggi la sua presenza è stata d’obbligo. Chi lo ha osservato, ha potuto notare il grande cambiamento di questa figura. In letteratura (e in psicanalisi) lo chiamano Doppelgänger, il sosia uscito dall’ombra di una cella: è la figura spettrale di un Michele Misseri opposto a quello esistente in natura. Zio Michele non è più il contadino sfatto, tremulo, dallo sguardo perennemente volto al terreno di un tempo. Uscito dal tribunale non è apparso più l’omicida dagli abiti e dai pensieri dismessi, lo sfortunato dal cuore tenero che sussurrava con tremore parole dialettali incomprensibili davanti ai magistrati. Michele Misseri appare diverso: capelli corti, ben rasato, baffi folti e un defilato sorriso da esattore delle tasse, gli occhiali d’una temerarietà quasi intellettuale, dettando anche lui una moda che non sfugge all’occhio più critico di chi lo ha visto in tv per tanti mesi. Non si sorprende più davanti all’assalto dei cronisti (che li prende anche a secchiate), attraversando glacialmente la strada che lo porta all’ingresso del Palazzo di Giustizia. Lo contraddistinguono le risposte sprezzanti date ai giornalisti in difesa della moglie e della figlia, l’ombra del dubbio non fa più capolino dai suoi occhi di ghiaccio. Quindi si può dire che la copia letteraria di Michele Misseri è stata plasmata da mesi di galera e di contatti umani di vario peso. Soprattutto la sua figura si è scandita attraverso le uscite pubbliche in tv, quasi a riprendere un reality horror senza fine. La televisione, come il sonno della ragione, a volte genera mostri. Michele è passato dai panni del  “mostro” uccisore di ragazzine e necrofilo a vittima, «ciuccio di fatica» costretto dalla moglie arpia a dormire sulla sdraio: questo accadeva mano a mano che cambiava il quadro dell’accusa e i talk show invocavano i colpi di scena. Il nuovo Michele è un puro prodotto da video. È come quelle ragazzine acqua e sapone che, un anno dopo aver vinto Miss Italia, si ripresentano al pubblico scafate, truccate e con la cadenza dialettale piallata dai corsi di dizione. Ogni frase pronunciata da Michele viene filtrata attraverso il video e a fare moda. Emblematica e di uso comune risulta essere la frase pronunciata all’esterno del Tribunale di Taranto contro la giornalista Rai Filomena Rorro: “Tu sei una cretina, prima cosa”. Oramai è diventato un tormentone tra i giovani. E pensare che a creare moda è stato comunque un imputato di un processo per omicidio!

VENERDI’ 23 GENNAIO 2015. QUARTA UDIENZA DI APPELLO. PERCHE’ STAMPA E TV TACCIONO SULLA BRUZZONE?

La domanda è sorta spontanea al dr Antonio Giangrande che sulla vicenda di Avetrana ha scritto il libro ed il sequel “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana, Il resoconto di un Avetranese”. Questione importante, quella sollevata da Antonio Giangrande, in quanto se fondata, mette in una luce diversa il rapporto tra la stessa dr.ssa Bruzzone e Michele Misseri, suo accusatore.

Veniamo alla notizia censurata dai media.

La criminologa Roberta Bruzzone vittima di stalking, si legge su “ net1news” dal 12 gennaio 2015. “La criminologa e psicologa Roberta Bruzzone ha denunciato il suo ex fidanzato per stalking. Proprio grazie alla sua professione, la donna si è spesso occupata di vittime di molestie e persecuzioni e mai forse avrebbe pensato di vivere tutta quell’angoscia in prima persona. Roberta Bruzzone che conduce una trasmissione sul canale tematico del digitale terrestre “real time” è ormai un volto noto essendo spesso ospite nei salotti televisivi in qualità di esperta della materia. La donna è però entrata a far parte della folta schiera di vittime di molestie. A perseguitarla, l’ex fidanzato, appartenente alle forze dell’ordine che dopo una relazione durata cinque anni, chiusasi nel 2008 ha cominciato a tormentarla. Telefonate, sms, ma anche pedinamenti e agguati veri e propri: “E’ arrivato a puntarmi una pistola alla tempia – ha confessato la criminologa – è pericoloso”. La Bruzzone ha denunciato il suo ex per ben sette volte. L’uomo ha anche diffuso calunnie sul suo conto via internet. Ora pare le cose vadano meglio.  Sulla questione ci sono degli aggiornamenti. A riferirle a Net1 News tramite raccomandata sono i legali dell’interessato, secondo cui la dottoressa Bruzzone per le sue dichiarazioni ai media è stata rinviata a giudizio per diffamazione aggravata: la prima udienza del processo è stata fissata per quest’anno. Al processo, sempre secondo quanto riferisce la raccomandata ricevuta, si costituiranno parte civile alcune associazioni a tutela delle donne.”

A quanto pare l’interessato, che sembra abbia presentato varie controquerele, si lamenta del fatto che il perseguitato è proprio lui e che ciò sia fatto per screditarlo dal punto di vista professionale, perché entrambi i soggetti svolgono la stessa professione, anche con comparsate in tv.  

Visionando l’atto pubblico si anticipa già che il processo a carico della Bruzzone avrà vita breve. Non perché non sia fondata l’accusa, la cui fondatezza non mi attiene rilevare, ma per una questione tecnica. I tempi adottati per la fissazione della prima udienza e il fatto che vi è un errore di procedura da parte del Pm (non si è rilevato il possibile reato di calunnia continuato e comunque il reato di atti persecutori, stalking, e quindi si è saltata la fase dell’udienza preliminare) mi porta a pensare che la prescrizione sarà l’ordinario esito della vicenda italica. Comunque un Decreto di Citazione a Giudizio diretto presso un Tribunale Monocratico contiene già di per se il seme del dubbio sul carattere della persona incriminata. Sospetto insinuato proprio da un magistrato e per questo credibile, salvo enunciazione di assoluzione postuma.

A me non interessa la vicenda in sé. Sarà la magistratura, senza condizionamenti, a decidere quale sia la verità. E sarà, comunque, la persona offesa dalla diffamazione in oggetto a dire la sua anche sul comportamento di alcuni organi di stampa citati in querela. Il professionista, noto perché svolge la stessa professione della Bruzzone, non cerca pubblicità, anche se, per amor di verità, è citatissimo sul blog di Roberta Bruzzone. In questa sede una cosa, però, mi preme rilevare. Dove sono tutti quei giornalisti che per la Bruzzone si stracciano le vesti, riportando a piè sospinto su tutti i media ogni sua iniziativa, mentre questa notizia del suo rinvio a giudizio non è stata ripresa da alcuno? Che ciò possa inclinare la sua credibilità e minare l’assunto per il quale Michele Misseri non abbia avuto alcun condizionamento nell’accusare la figlia Sabrina?

Oltre tutto la dr.ssa Bruzzone non ha gli stessi trattamenti di riguardo in Fori giudiziari che non siano Taranto.

A scanso di facili querele si spiega il termine “di riguardo” usato, riportandoci alle dichiarazioni del 19 marzo 2013 fatte dall’avv. di Sabrina Misseri, Franco Coppi: «Come si può definire priva di riscontri la confessione di un uomo che fa trovare il cadavere e il telefonino della vittima?», ha detto ancora Coppi. «Le motivazioni della successiva ritrattazione - ha aggiunto - rivalutano la confessione di Misseri come unica verità. La confessione del 6 ottobre 2010 spiazza i pubblici ministeri che già si erano affezionati alla pista che porta a Sabrina Misseri. Mi chiedo se quel metodo di indagine non sia contrario allo spirito del codice di procedura penale. I mutamenti di versione da parte di Michele avvengono quasi sempre dopo sospensioni di interrogatorio e su richiesta del difensore, anche con qualche aiuto involontario di quest'ultimo». Esempio, ha detto Coppi, l'interrogatorio in carcere di Michele Misseri del 5 novembre 2010, in cui l'agricoltore accusa la figlia Sabrina del delitto, e «al quale non si comprende a quale titolo partecipa la criminologa Roberta Bruzzone quale consulente di parte». «Michele è scaltro - ha aggiunto - e coglie l'occasione per accusare la figlia. C'è stata un'opera di persuasione efficace nei suoi confronti. E poi perché non dice nulla su quello che per gli inquirenti sarebbe il vero movente dell'omicidio, non dice nulla sull'arrivo di Mariangela, sulla moglie, e non basta dire, come fanno i pubblici ministeri, che lui non sapeva nulla perché non era in casa al momento del delitto».

Ecco, quindi, che a proposito dei diversi trattamenti riservati a Roberta Bruzzone si cita Savona. A Savona il tanto atteso colpo a sorpresa della parte civile non è arrivato, scrive “Il Secolo XIX”. Anzi. L’irruzione nel processo per il delitto di Stella della notissima criminologa genovese Roberta Bruzzone, è stato bloccato sul nascere dal giudice delle udienze preliminari Emilio Fois che ha respinto l’istanza del legale di Andrea Macciò, ucciso con un colpo di fucile al cuore il 13 dicembre 2013 da Claudio Tognini, di un incidente probatorio per la verifica dello stato dei luoghi dove si è consumato il dramma. L’obiettivo della parte civile sarebbe stato quello di cercare tracce ematiche nella cucina di Alessio Scardino, il proprietario del fucile che ha sparato e dell’alloggio, per arrivare ad una nuova ricostruzione dei fatti. Se il pubblico ministero Chiara Venturi non si è opposta alla richiesta, ci ha pensato il giudice a rigettarla.

 Vittima di stalking denuncia la criminologa Bruzzone. Marzia Schenetti, parte offesa a processo contro l'ex fidanzato, si è sentita diffamata da una lettera della nota criminologa ora agli atti della causa di Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Due donne contro, di cui una a dir poco famosa visto che è spesso ospite di Bruno Vespa nel suo programma televisivo “Porta a porta”. Stiamo parlando della criminologa 41enne Roberta Bruzzone che, a partire da febbraio , dovrà affrontare un processo (davanti al giudice di pace) per diffamazione, visto che è stata denunciata dall’imprenditrice toanese 48enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l’ex fidanzato Rodolfo “Rudy” Marconi che accusa di stalking. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell’udienza del 17 maggio 2013 che “esplode” questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all’Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E’ in quest’ambito che fra le due nascono delle frizioni, talmente poco edificanti da finire a carte bollate. In questo clima avvelenato “piomba” – nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking – una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo il capo d’imputazione in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano che viene definita “soggetto alquanto discutibile che ha mostrato, in una serie innumerevole di occasioni, la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze al solo scopo di danneggiare le persone verso cui nutre rancore”. Giudizi sulla Schenetti che diventano vere e proprie rasoiate: “Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato e complesso come la violenza sulle donne e sui minori, persona con problematiche personologiche incline a distorcere e mistificare la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettative di fama, successo e arricchimento personale o che, come nel caso della scrivente – rimarca la criminologa – avevano la colpa di metterla in secondo piano». Con l’ultimo deciso affondo: “Persone come la Schenetti rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza e che il Marconi è stato raggiunto da una serie di false accuse, costruite a tavolino allo scopo di poter permettere alla presunta vittima di sfruttare biecamente la sua condizione ed ottenere così visibilità mediatica”. La Schenetti, tramite l’avvocatessa Enrica Sassi, ha denunciato per diffamazione la criminologa e di recente il giudice di pace ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, fissando le date del processo. «In realtà la diffamata sono io – replica la nota criminologa – e ho denunciato la Schenetti in procura a Roma. Testimonierò nel processo e, atti alla mano, spiegherò come stanno veramente le cose. Quella lettera è il mio pensiero e ritengo di avere agito in buona fede».

La criminologa tv finisce a processo. Roberta Bruzzone imputata per diffamazione. Tra i testimoni anche il generale Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Lei: «La vera vittima sono io» di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. Dalle poltrone bianche di Bruno Vespa, alle aule del tribunale di Reggio. Roberta Bruzzone, 41 anni, la fascinosa criminologa forense, si trova ora catapultata nella prospettiva opposta: imputata per diffamazione nei confronti di una reggiana, presunta vittima di stalking. Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking, e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi, poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. Per questo è accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone — si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due donne, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Nella missiva, infatti, il personaggio tv ribadiva come la parte civile di quel processo fosse «incline a distorcere la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettavate di fama, successo e arricchimento personale». Non solo. Avrebbe anche aggiunto, nero su bianco, che i soggetti come lei «rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza». L’ipotesi di reato, dunque, è diffamazione. Il giudice di pace, mercoledì, ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, Emanuele Florindi, e ha fissato le date delle prossime udienze: 4, 11, 18 e 25 febbraio. Tra i testimoni della parte offesa, c’è poi un altro personaggio di spicco: il generale in congedo Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Ma la Bruzzone, combattiva più che mai, si difende: «Si tratta di un ricorso diretto al giudice di pace che non ha avuto nemmeno il vaglio del pm — incalza —. Lei mi accusa in maniera falsa e infondata ed è stata a sua volta querelata da me. Quella lettera era stata mandata in virtù di consulente esperta, chiamata dal suo avvocato. Da sempre porto avanti una battaglia contro le finte vittime di stalking e questo mi pare uno di quei casi». Promette, anche, che arriverà qui, a spiegare le sue ragioni: «Io verrò a Reggio e sarò sottoposta a esame, come ho richiesto: intendo dimostrare a tutti chi è questa donna: una persona a caccia di visibilità, che non ha ottenuto in altro modi». Una prima udienza davanti al giudice di pace di Reggio Emilia piena di tensioni, perché la nota criminologa 42enne Roberta Bruzzone ha subito inteso replicare per le rime all’accusa per diffamazione mossagli dall’imprenditrice toanese 49enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l'ex fidanzato Rodolfo "Rudy" Marconi che accusa di stalking, scrive Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell'udienza del 17 maggio 2013 che "esplode" questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all'Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E' in quest'ambito che fra le due nascono delle frizioni, poi "piomba" - nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking - una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo la procura in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano, da qui la denuncia ora sfociata nel processo. Ieri la criminologa ha dato battaglia solo davanti ai cronisti (verrà sentita in aula più avanti): «La Schenetti ha un problema di visibilità – dice la Bruzzone – che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile e io non mi fermerò davanti a niente, procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei. Io non credo che sia una vittima e continuerò a ripeterlo in ogni sede». L'imprenditrice – costituitesi parte civile tramite l’avvocatessa Enrica Sassi – è sta sentita in udienza: «Per me quella lettera fu una violenza tremenda, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me». Tanti i nervi scoperti e siamo solo alla prima “puntata”...

Tacchi alti, vestita di nero, trucco impeccabile e capello fluente, scrive di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. È iniziato così, non senza momenti di tensione e brusii di chi la vedeva nei corridoi, il processo per diffamazione che vede imputata Roberta Bruzzone, 42 anni, la fascinosa criminologa forense habituée delle poltrone bianche di Bruno Vespa, a Porta a Porta. Ad accusarla è una donna reggiana, presunta vittima di persecuzioni (non ne riveliamo l’identità per proteggere la sua privacy). Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi (l’imputato), poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. La Bruzzone è dunque accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone – si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi (che rappresenta la parte offesa) e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Ieri la prima udienza, davanti al giudice di pace, con la testimonianza della presunta vittima. «Quella lettera per me fu una violenza tremenda – ha detto –. Non fu altro che un insieme di diffamazioni e calunnie, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Mi sono sentita colpita da una donna che si intrometteva con violenza in un procedimento di violenza che io stessa avevo subito». E ha aggiunto: «Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me. Ci siamo sentite una volta al telefono quando è entrata nell’associazione di cui io sono presidente e la Bruzzone mi ha detto di essere stata anche lei vittima di stalking. Io invece non le ho mai parlato della mia vicenda personale. Avrei voluto, ma non ne ho avuto il tempo. Poi ci siamo viste una volta a luglio del 2012 a Sinai (in provincia di Cagliari) durante un’iniziativa contro la violenza alle donne, in cui lei ha colto l’occasione per presentare il suo libro, senza citare la nostra associazione. Al termine del convegno le abbiamo chiesto di uscirne e lei lo ha fatto il giorno dopo». La Bruzzone, però, non ci sta. E a margine dell’udienza, chiosa: «Quella donna ha un problema di visibilità che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile. Io non mi fermerò davanti a niente e procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa che dirà contro di me. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei». Tutto rimandato alla settimana prossima, per i testimoni di parte civile.

Prossimamente scopriremo che credibilità ha Roberta Bruzzone, finta vittima di stalking che presto verrà processata... e non solo perché denunciata da un ufficiale di Polizia, scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando Contro Vento”. Non ho mai amato i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure amo quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire. Per questo preferisco contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa. Come me tanti altri si formano una propria idea in maniera autonoma, senza ascoltare i vari gossippari che si mostrano in video per convenienza professionale... quando non hanno un contratto a pagamento. Ma non tutti resistono alla tentazione, per cui c'è chi questi programmi li guarda. Addirittura c'è anche chi li ascolta e si infastidisce per le parole che sente. Ad esempio, giorni fa mi hanno informato di alcune frasi pronunciate in maniera troppo leggera e spensierata nella puntata di Porta a Porta trasmessa martedì 20 gennaio 2015. A pronunciarle il magistrato Simonetta Matone. Simonetta Matone in televisione non va con la toga da magistrato. Per cui figura essere un'opinionista con molta esperienza giuridica. Lei martedì 20 gennaio, forse non pensando al dopo, ha paragonato i gruppi facebook creati a favore degli imputati ai fanatici che inneggiano e osannano i terroristi, nel caso specifico a chi ha ucciso i giornalisti di Charlie Hebdo e tanti altri francesi. Quella parte della puntata trattava l'omicidio di Loris Stival, quindi i gruppi a cui si riferiva sono certamente quelli che sostengono "Veronica Panarello". Non contenta, ha reiterato il reato verbale facendo credere ai telespettatori che chi aderisce ai gruppi innocentisti e critica le indagini, su internet scrive a vanvera e senza sapere nulla perché degli atti non ha letto neppure una riga. Probabile che non se ne sia resa conto, ma ha praticamente affermato che nessuno ha il diritto di criticare i magistrati perché questi sono "unici, bravi belli e infallibili". Ora c'è da dire che, pur essendosi ritagliata un'enorme visibilità mediatica partecipando da tanti anni al programma presentato da Bruno Vespa, nella vita privata è un magistrato che lavora al ministero di Grazia e Giustizia. E dai dati si capisce il probabile motivo per cui difende i magistrati. Ma c'è anche da dire che in questi anni trascorsi di fronte alle telecamere, lei prima di tutti ha dato giudizi senza aver letto neppure una riga, seppur cercando di restare neutrale chiarendo ogni volta il punto, sui casi di cronaca nera trattati da Porta a Porta. E fa specie che si permetta di giudicare in pubblico chi ha democraticamente il suo stesso diritto di parlare ed esternare la propria idea. La speranza è che a mente fredda abbia compreso di avere un tantino esagerato e magari chieda scusa a chi non è d'accordo col pensiero di alcuni magistrati, a chi si è sentito chiamato in causa anche se critica in maniera civile e dopo essersi informato al meglio (naturalmente non deve scuse a chi i magistrati li offende). Questo perché non tutti i magistrati sono infallibili. D'altronde le richieste di risarcimento a causa di errori giudiziari, in Italia sono quasi tremila ogni anno, stanno a dimostrare la non infallibilità della giustizia. In ogni caso, a parte la svista di cui sopra, le opinioni di Simonetta Matone si possono accettare perché ha un passato davvero encomiabile e in materia giuridica è senz'altro molto ferrata. Meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai? Su quest'ultimo punto vedremo se sarà dello stesso avviso dopo i diversi processi che la attendono da qui in avanti. Ad esempio, il 15 dicembre 2015 dovrà presentarsi al tribunale di Tivoli per rispondere del reato previsto dall'articolo 595 - comma tre - del codice penale per aver messo in atto, con più azioni consecutive, un disegno criminoso fatto di calunnie e offese atte a colpire un ufficiale di Polizia. Infatti le accuse di stalking presentate dalla Bruzzone contro un ufficiale di Polizia col quale aveva avuto una relazione fra il 2004 e il 2005, addirittura una ventina di denunce dal 2009 al 2014, si sono rivelate tutte infondate. Mentre le interviste rilasciate sulla vicenda dalla opinionista di Porta a Porta, in cui non lesinava particolari sul comportamento malato, parole sue, di chi la perseguitava (ma ora grazie ai magistrati sappiamo che nessuno in realtà la perseguitava), sono tuttora impresse negli archivi delle testate giornalistiche nazionali (Corriere della Sera in primis), su internet e in televisione, sulle registrazioni di Porta a Porta e di Uno Mattina. Insomma, chi la fa l'aspetti - verrebbe da pensare - perché la vita a volte può riservare sorprese. E la Bruzzone di sorprese ne avrà una in più, perché, dato che è ambasciatrice di Telefono Rosa, un'associazione che aiuta le donne vittime di violenza, e viste le denunce per stalking da lei presentate e rivelatesi infondate, in tribunale si troverà di fronte anche alcune associazioni in difesa della donna che hanno deciso di costituirsi parte civile perché "l'utilizzo strumentale" della denuncia per un reato grave come lo stalking contribuisce a rendere meno credibili le donne che subiscono realmente una violenza. Ma non è l'unica bega che la Bruzzone dovrà affrontare in tribunale, visto che è indagata anche dalla Procura di Reggio Emilia per un reato simile ( così come su riportato da di Benedetta Salsi su “Il resto del Carlino” e Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. La moglie di un vero stalker, oggi ancora nei guai perché accusato di truffa da un'altra sua ex, si è sentita descrivere dalla Bruzzone quale finta vittima incline a distorcere la realtà (in pratica ha difeso lo stalker poi condannato). In questo caso le date del processo sono ancora più vicine nel tempo (le udienze sono fissate per il 4 - 11 - 18 e 25 febbraio 2015). Altra bega, che risale al 2012 e che presto verrà dipanata dai giudici, è una citazione civile che riguarda lei ed alcuni suoi collaboratori (promossa  dall’associazione Donne per la Sicurezza. Lei e loro su Facebook, con frasi razziste, (secondo quanto riporta il sito dell’associazione: “Mmmmm..   quanto costa affittare una russa per fare qualche foto e far finta di avere una vita ???? troppo divertenteeeee…” oppure   ““ ..ci vuole stomaco per stare con un pezzo di merda così anche se solo per sghei e solo per 5 minuti…STRANO MA VEROOO”),  hanno insultato per lungo tempo sia la modella di origine russa Natalia Murashkina, moglie del poliziotto che nel contempo la Bruzzone denunciava ingiustamente, sia le ragazze russe trattate come donne che si vendono a poco prezzo. Di questa vicenda si interessò alla fine del 2012 anche "La Pravda", un giornale russo letto da oltre cento milioni di persone. Senza parlare delle accuse mosse contro di lei da Michele Misseri, che afferma di essere stato convinto dalla Bruzzone ad inserire nel delitto di Sarah Scazzi la figlia Sabrina (con prospettive davvero vantaggiose), affermazioni che se provate le costerebbero una condanna rilevante e la carriera, ciò che ancora nessuno ha capito, e immagino che al tribunale di Tivoli si cercherà anche di chiarire questo punto, è il motivo per cui la Bruzzone abbia innestato un movimento di denunce rivelatesi infondate condite da interviste mediaticamente rilevanti ma alla luce dei fatti false. O tutti ce l'hanno con lei, e francamente è difficile da credere, o è lei ad avere motivi che l'hanno spinta a screditare l'ufficiale di polizia e le altre persone. Che dietro ci sia qualcosa di importante? Su questo punto troviamo il dato certo che il poliziotto da lei accusato, nel 2009 - anno delle prime denunce di stalking - aveva avviato una campagna politico-sindacale per ridurre gli sprechi della pubblica amministrazione. In pratica, aveva proposto di far acquistare i prodotti per le investigazioni scientifiche (alle forze di polizia) direttamente in America risparmiando così milioni di dollari di tasse e, soprattutto, di spese di mediazione ad aziende di import export.

Questo è l’articolo di riferimento. Csi all'italiana: paghiamo il doppio degli altri la polvere per le impronte digitali. La denuncia del sindacato di polizia: la Scientifica è costretta a risparmiare sulle indagini. La colpa è dei mediatori che fanno raddoppiare il costo delle attrezzature made in Usa, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Ci vuole preparazione scientifica, occhio addestrato, pazienza: ma l'analisi scientifica della scena di un crimine si basa anche sull'utilizzo di materiale tecnico avanzato e costoso. Chi non è rimasto allibito nel vedere in televisione la prontezza con cui i tecnici della Csi, la polizia scientifica statunitense, sfoderano ogni genere di diavolerie hit-tech? Non che le forze di polizia italiane abbiano granchè da invidiare a quelle a stelle e strisce, quanto a preparazione. Ma l'abbondanza di mezzi è una delle caratteristiche che, in questo e in altri campi, ci separa irrimediabilmente dall'America. E, secondo la denuncia del sindacato di polizia Consap, la situazione negli ultimi tempi si è ulteriormente aggravata. La carenza di mezzi è diventata cronica, al punto che spesso e volentieri - in particolare sulla scena di reati considerati «minori», come i furti in appartamento - la polizia evita di compiere tutti i rilievi necessari perchè l'ordine è quello di risparmiare su tutto: compresa la polverina necessaria a rilevare le impronte digitali. Colpa della crisi economica, sicuramente. Ma anche di una anomalia tutta italiana: la polvere per le impronte è di produzione Usa, tutte le polizie la comprano direttamente dai produttori oltreoceano, mentre la polizia italiana passa - chissà perchè - attraverso una società di mediazione. Il risultato, sostiene il Consap, è che paghiamo il prodotto il doppio degli altri. «Prodotti, come ad esempio le polveri per rilevare le impronte digitali o il famoso luminol per la ricerca del sangue umano, hanno costi abbastanza elevati e vengono prodotti da poche ditte al mondo. In particolare la Polizia di Stato e le altre forze di polizia italiane utilizzano in larga parte prodotti della Sirchie, azienda americana leader del mercato per qualità e affidabilità dei materiali commercializzati. In questo periodo di profonda crisi economica, i tagli di bilancio, oltre che a congelare gli stipendi dei poliziotti, stanno riducendo la possibilità di acquisire una quantità sufficiente di tali sostanze e di fatto i reparti specializzati di investigazioni scientifiche devono limitare il loro impiego solo ai casi più eclatanti, in pratica solo gli omicidi e qualche rapina. Sempre più spesso i cittadini che hanno subito reati definiti minori, come furti, danneggiamenti, non ricevono un intervento adeguato da parte degli investigatori che non dispongono di attrezzature sufficienti e che spesso sopperiscono, per amor proprio, con materiali acquistati di tasca loro o con mezzi di fortuna che poi spesso vengono contestati in sede di processo. La Consap, che da più di un anno sta monitorando e analizzando questo problema, ha potuto constatare che i prodotti per criminalistica non vengono acquistati dall'Amministrazione direttamente dall'azienda produttrice ma da una ditta concessionaria italiana. In pratica la Polizia di Stato paga i materiali da utilizzare sulla scena del crimine circa il doppio del loro prezzo di catalogo. Il problema è stato da tempo posto all'attenzione degli esperti di settore e di alcuni politici. E si è subito avuta la sensazione di aver toccato degli interessi economici rilevanti». Uno «spreco ingiustificato, che si ripercuote in maniera drammatica sulla sicurezza e sulla possibilità di ottenere giustizia da parte del cittadino».

E ciò che pare strano, è che la Bruzzone collabora con le aziende che controllano la maggioranza delle forniture di prodotti alle forze di polizia (la Sirchie e la Raset). C'è da chiedersi se non voglia dire nulla la sua presenza nel video pubblicitario presente sulla pagina "Chi siamo" del sito internet della Sirchie.

In seguito a questo articolo ci sono stati degli sviluppi.

"Alla dottoressa Roberta Bruzzone non piace la critica e con una strana Diffida mi inviata a pagarle 250.000 euro e a darle il nome di chi mi informa..., - scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando-Controvento”. . E' capitato anche a me. Come altri in questi anni anch'io ho ricevuto la Diffida dalla dottoressa Roberta Bruzzone. Una diffida strana in cui mi invita a pagarle - inviandoli allo studio del suo avvocato – ben 250.000 euro quale risarcimento per i gravissimi danni di immagine provocati da ciò che ho scritto in un articolo, in questo articolo, in cui, visto quanto aveva affermato a Porta a Porta, l'ho criticata. Articolo che ho completato con le notizie su una serie di processi in cui dovrà difendersi. Alla fine, dopo aver notato alcune stranezze, ho anche posto una domanda lecita che si sarebbe sciolta in acqua con una semplice e veloce risposta plausibile. Invece mi è arrivata una diffida. Strana. Ora, prima di entrare nel dettaglio e contestare pubblicamente tutte le parole del legale della Bruzzone, voglio premettere che la nostra legge è chiara e che per fare una diffida ci vogliono motivi validi. Motivi che non esistono se chi informa scrive notizie vere usando parole non offensive senza entrare nella sfera privata del personaggio di cui parla. Quindi, per quanto riguarda il diritto di cronaca si devono usare certe accortezze e ci si deve informare in maniera esaustiva. Qualcosa cambia quando chi scrive esercita il diritto di critica. Naturalmente non si può criticare un pinco pallino qualunque in un articolo destinato a più persone, specialmente se il pinco pallino a livello nazionale non lo conosce nessuno e vive e agisce in un ambiente ristretto. Al contrario, però, si può criticare quanto dice chi nel tempo è diventato un personaggio pubblico e in pubblico, o in programmi seguiti da milioni di telespettatori, esprime proprie opinioni e concetti. Concetti e opinioni che non tutti debbono per forza condividere e proprio per questo si possono criticare, perché - come ha stabilito anche il tribunale di Roma già nel 1992 - chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica. Dopo questa obbligatoria premessa, mi addentro nella diffida inviatami dal legale della dottoressa Bruzzone, avvocato Emanuele Florindi, per dimostrare quanto sia strana, assurda e priva di ogni fondamento. Il legale inizia col dire che nell'articolo ho scritto un numero impressionante di falsità. E non appena ho letto questa frase mi è spuntato un sorriso venendomi alla mente la storia del bue che chiamava cornuto l'asino. Questa la prima parte della diffida: Dott.ssa Roberta Bruzzone Vs Massimo Prati. <Gentile Sig. Prati, formulo la presente in nome e per conto della Dott.ssa Roberta Bruzzone, in relazione all'articolo da lei pubblicato su volandocontrovento.blogspot.it, per contestarne integralmente toni e contenuti. Nello specifico, non soltanto il suo articolo contiene un numero impressionante di falsità e di imprecisioni, ma risulta anche essere singolarmente contraddittorio: è davvero strano, infatti, che, mentre nelle prime righe del suo articolo Lei affermi di non amare "i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure [...] quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire", poi si presti a fare esattamente la stessa cosa mescolando artatamente giuste informazioni, velate menzogne e subdole insinuazioni volte a creare pregiudizio alla mia Assistita. Non mi risulta neppure che Lei abbia provveduto a "contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa", dato che ha proceduto a pubblicare il suo articolo basandosi su fonti unilaterali... a tal proposito, saremmo piuttosto interessati a conoscere l'identità di tali fonti, visto che sembrerebbero aver concorso con Lei ad un trattamento illecito di dati personali e di dati giudiziari il che, per un paladino dei diritti dell'imputato quale Lei si presenta, appare piuttosto singolare. Basandosi su tali "fonti" Lei ha, infatti, redatto un articolo falso, diffamatorio e gratuitamente offensivo nei confronti della mia Assistita, da Lei presentata come faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare e falsificare la realtà e collusa con le aziende che controllano le forniture di prodotti alle forze di polizia.> Alla faccia! Sarò mica malato a scrivere le cotante robacce notate dal legale...Non sono malato, non necessito di cure e quindi, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali rispondo punto per punto perché mi sono accorto che né la dottoressa né il suo avvocato paiono aver capito un articolo non diffamatorio in cui non ho assolutamente presentato Roberta Bruzzone quale persona faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare, a falsificare la realtà e collusa. E mi chiedo con quale spirito e pensiero l'abbiano letto. Partiamo dall'inizio. E' vero che non amo quelle trasmissioni in cui gli opinionisti sono chiaramente ostili alle difese e danno per certo quanto trapela dalle procure. Mi piace l'imparzialità e non credo che trasmissioni "unilaterali" siano da mandare in onda. E' vero che per scrivere sui fatti di cronaca nera non mi baso su quanto scrivono quei media e quei "gossippari" che diffondono notizie che a posteriori si rivelano inutili e tendenziose. Gli esempi sono migliaia. E' vero che le mie fonti principali sono le stesse dei giornalisti: avvocati, indagati, i loro familiari e anche periti e inquirenti. E' vero che per non lasciarmi influenzare dai pregiudizi baso i miei scritti soprattutto sugli atti ufficiali, che leggo più volte per non travisarli, e sulla logica. Mi sembra il minimo da fare quando si vuol scrivere di cronaca nera in maniera corretta e di un indagato, magari in custodia cautelare in carcere, che si dichiara innocente e rischia l'ergastolo. Detto questo, non credo sia difficile comprendere che l'inciso inserito a inizio articolo era generico e riferito ai casi di cronaca nera e non alla dottoressa Bruzzone. Infatti è quando scrivo di cronaca nera che contatto chi è parte della notizia. Quindi nessuna falsità inserita nella premessa dell'articolo, che era solo una premessa, per l'appunto, e nulla c'entra con quanto ho poi scritto sulla dottoressa che, a meno non commetta un omicidio (o non ne confessi uno già commesso) o non venga carcerata ingiustamente, al momento non è parte di alcun caso di cronaca nera. Detto anche che per scrivere di processi che devono ancora iniziare non si necessita di "fonti" particolari, se la notizia è vera, se l'udienza è fissata e se il capo d'accusa esiste che fonte serve?, mi chiedo per quale motivo dovrei divulgare le identità di chi mi informa e, soprattutto, perché dovrei farle conoscere all'avvocato Florindi. Un motivo lecito e valido non esiste. Inoltre, nessun trattamento illecito dei dati personali si può rilevare quando si parla di atti processuali non secretati riguardanti i maggiorenni (non sono io che divulga quanto è secretato dalle procure), dato che sono atti pubblici a disposizione di chiunque ne faccia richiesta. Come non esiste nessun trattamento illecito sulla privacy se si vengono a conoscere notizie sui personaggi pubblici parlando del più e del meno in un bar con un magistrato, un cancelliere o un avvocato che frequenta quel dato tribunale. Perché, vista la dimensione mediatica della dottoressa Bruzzone, vale sempre il dettame dei giudici. Loro e non io hanno stabilito che chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla propria dimensione pubblica. Per cui, pare proprio che nella premessa di falsità non ne abbia scritte. E per continuare a confutare la diffida inviatami, ci sarebbe da chiedersi da quale esternazione, presente nei quasi novecento articoli da me scritti e presenti sul blog, l'avvocato abbia capito che io sono "un paladino dei diritti dell'imputato". Mai ho scritto di essere un paladino e mai che difendo tutti gli imputati. Difendo i diritti di alcuni, questo è vero, ma lo faccio quando sono lesi in maniera per me evidente. Per cui, tanto per esemplificare e far capire meglio, critico i procuratori e i giudici quando un indagato che si dichiara innocente viene spedito in carcere ancor prima di indagini approfondite o di riscontri che provino le accuse formulate da terzi. Basti pensare a Sabrina Misseri (in custodia cautelare da quattro anni e mezzo) che nel volgere di poche ore finì in galera senza alcuna verifica sulle parole del padre - che quel 15 ottobre 2010 non era nelle migliori condizioni fisiche e mentali - e che ora è in carcere per motivi assai diversi da quelli che si sono usati per carcerarla. Forse l'avvocato Florindi neppure sa che Michele Misseri fu svegliato a notte fonda e portato ad Avetrana dalle guardie penitenziarie che lo presero in custodia quando ancora era buio pesto. Tanto che una volta giunte al paese furono costrette a "nascondersi", con l'imputato in auto, fra la vegetazione di contrada Urmo in attesa dell'arrivo dei procuratori. Questa è una notizia inedita, mai uscita sui media, e dimostra che mi informo nei modi giusti e nei luoghi giusti senza cercare lo scoop a tutti i costi. In pratica dovrebbe far capire, anche all'avvocato, che non sono uno dei tanti che copia-incolla per avere un maggior numero di entrate e guadagnare mostrando improvvisamente uno spot pubblicitario. Inoltre non scrivo articoli a favore di chiunque sia indagato, perché gli assassini veri li vorrei vedere in carcere per la vita... anche i reo-confessi se autori di delitti efferati. Per questo critico la legge che permette a chi confessa di ottenere troppi benefici e di uscire dal carcere in tempi rapidi. Ma la dottoressa Bruzzone, nonostante i processi che la attendono, non è in carcere e nemmeno ci andrà mai. Lei è libera di esternare le sue convinzioni in televisione e di andare dove vuole. Nessuno, giustamente, ha limitato la sua libertà. Quindi nessun suo diritto è da difendere. Stia pur certo l'avvocato che se venisse spedita in carcere prima ancora di essere indagata nella giusta maniera, che se contro di lei i gossippari parlassero solo in base a chi accusa, sarei io il primo a difenderla e a criticare i media per la mancanza di etica e professionalità. E ancora: in quale passaggio dell'articolo avrei descritto la dottoressa faziosa, forcaiola e quant'altro? Io, dopo aver criticato la dottoressa Simonetta Matone per aver paragonato chi scrive su facebook, nel particolare si parlava dei siti innocentisti che credono a Veronica Panarello, a chi incita i terroristi (citando Charlie Hebdo), scrissi: "meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai?" Dove sarebbero le falsità, visto che la dottoressa si contrappone chiaramente a chi cerca di difendere Veronica Panarello e lo dice apertamente al dottor Vespa, allo stesso avvocato Villardita e ai telespettatori? Se è vero, come è vero, che Veronica Panarello deve ancora subire il primo processo e si dichiara innocente, dire di fronte a milioni di persone che si hanno idee diametralmente opposte all'avvocato Villardita, quindi colpevoliste, non significa forse parlare senza imparzialità e, soprattutto, senza considerare la presunzione di innocenza? Non è forse vero che l'opinione della dottoressa è molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori? Vista la sua popolarità credo proprio che questo non si possa negare. Come non si può negare che nelle mie parole non si trovino frasi che sottintendano termini quali: "incompetente" (mai scritta e mai pensata una cosa del genere), "forcaiola" (non c'è nulla nell'articolo che porti a questo termine, visto che viene usato per situazioni molto più gravi), "razzista" (questa parola neppure se ampliamo al massimo il significato entrando sulla Treccani c'entra nulla con quanto ho scritto), "faziosa" (per essere faziosi bisogna sostenere con intransigenza e senza obiettività le proprie tesi, non limitarsi ad esprimere una opinione parlando con toni alti e molto colpevolisti). Non ho quindi scritto alcuna falsità e la mia critica ha basi più che fondate. Anche perché vale sempre la legge che dice: il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca perché nell'articolo non si parla di fatti ma si esprime un giudizio o, più genericamente, un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un'interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti. Ora qui ribadisco che alla luce di quanto ho visto e ascoltato in registrazioni di Porta a Porta, la mia critica era più che obiettiva anche se per legge non necessitava di una obiettività approfondita. Quindi, ancora una volta mi chiedo per quale motivo l'avvocato Florindi mi abbia inviato una diffida. Comunque, tanto per finire, mi addentro anche nell'ultima accusa che mi fa, quella di aver dipinto la sua assistita come una persona propensa a mistificare la realtà e collusa con le aziende che "controllano le forniture alle forze di Polizia" (e tanto per far capire come son fatto, non per altro, mi sono chiesto subito cosa stessero a significare le parole - "controllano le forniture alle forze di Polizia" - scritte dall'avvocato). Nell'articolo mi chiedevo se la dottoressa Bruzzone considererà ancora infallibili i giudici e i procuratori dopo i processi che dovrà affrontare. Specialmente perché il rigetto di tutte le denunce da lei presentate contro un dirigente dell'UGL (Polizia di Stato) la dipingono come una falsa vittima di stalking che ha approfittato della sua posizione parlando ai media di reati mai subiti. E questo sarebbe veramente grave perché contribuirebbe a rendere meno credibili le tante vere vittime di stalking. E' per queste parole che per l'avvocato l'avrei dipinta come persona propensa a mistificare la realtà? Forse l'avvocato dimentica che non sono stato io a rigettare le denunce della dottoressa, ma i magistrati che hanno valutato le indagini partite in seguito a quelle denunce. Io mi sono limitato a riportare la notizia e a far qualche considerazione. Non è quindi a me che deve fare accuse, ma a chi ha svolto le indagini e a chi le ha valutate prima di rigettarle. Comunque, proprio a causa di quei rigetti mi chiedevo il motivo per cui, a partire dal 2009 (anno in cui uscì da una associazione di criminologi di cui il dirigente dell'UGL era presidente) avesse presentato una ventina di denunce, quelle poi rigettate, nei confronti del presidente stesso. E qui mi ero fermato. Ma dato che ora ne sto scrivendo, amplio l'informazione dicendo che le denunce coinvolsero altri membri del consiglio direttivo dell'associazione di cui fino a poco tempo prima lei stessa faceva parte. E che iniziò a presentarle dopo le richieste di spiegazioni su questioni economiche che la stessa associazione le poneva. Insomma, pur senza entrare nei dettagli, nell'articolo ponevo una domanda lecita a cui si poteva rispondere in maniera chiara così che, in maniera altrettanto chiara, avrei inserito la risposta a capo articolo dando spazio a una replica. Non era così complicato da fare. Anche perché nell'articolo di cui si discute non ho calcato la mano preferendo restar fuori da vicende ben più complesse che l'avvocato di certo conosce. Ma proseguiamo con la parte della diffida in cui è scritto: Se Lei, comportandosi da interlocutore corretto e scrupoloso ci avesse contattato, avremmo potuto produrLe pagine di osservazioni atte a smentire le informazioni in Suo possesso, dimostrando, ad esempio, che l'azione civile della sig.ra Natalia Murashkina (tra l'altro neppure Russa!) è pretestuosa, infondata e priva di riscontri (ci basti qui osservare che la pagina contestata risulta creata in data successiva ai fatti)... Mi fermo un attimo per un chiarimento e per dimostrare non che l'avvocato è male informato quando afferma che Natalia Murashkina non è neppure russa, perché pur se nata fuori dai confini è a tutti gli effetti russa e lui lo sa, ma per dirgli che gli sarà molto difficile convincere un giudice che non è reato scrivere parolacce e brutte offese su una donna russa nata fuori dai confini russi, mentre lo è scriverle su una donna russa nata a Mosca. Oltretutto l'avvocato sa per certo che in Russia i passaporti distinguono la nazionalità dalla cittadinanza. Motivo per cui si può essere di nazionalità russa anche se nati occasionalmente in altra nazione. In ogni caso, non erano né l'avvocato né la dottoressa che dovevo contattare per scrivere quelle quattro righe che riguardavano la vicenda di Natalia Murashkina, visto che al massimo avrebbero potuto fare una arringa difensiva (quella va indirizzata a un giudice e non a me) e non produrmi atti giudiziari in grado di contrastare il fatto che gli insulti, per il magistrato che porta avanti la causa ci furono. E a questo proposito oggi aggiungo una postilla che avevo evitato di inserire. Una informazione che potevo dare e non ho dato. E cioè che La Pravda nel suo articolo parlò di offese scritte anche da alcuni collaboratori della dottoressa. Particolare che avevo evitato di sottolineare perché mi pare non credibile (però ho chiesto e non risulta che la Pravda abbia ricevuto alcuna diffida), ma che oggi aggiungo per far capire quanto avessi scritto in maniera soft senza appesantire situazioni che invece paiono pesanti. A processo la pagina facebook risulterà essere successiva ai fatti? Meglio per la dottoressa e peggio per la Murashkina, che quando perderà la causa criticherò aspramente per aver denunciato il falso. Qui colgo l'occasione per aggiornare in maniera migliore la notizia e dire che la causa civile intentata da Natalia Murashkina è stata rigettata per vizio di forma. Non per altro. Naturalmente verrà ripresentata in appello senza alcun vizio. E naturalmente questo non inficia il procedimento penale - che si occupa degli stessi reati e ha un iter diverso - che continua per la sua strada. Andando avanti nella diffida si legge che il processo di Reggio Emilia ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile visto che dal dibattimento stanno emergendo dati ed informazioni in grado di confermare quando affermato dalla dott.ssa Bruzzone nel corso del processo a carico del presunto stalker (a proposito, lei non sosteneva a spada tratta la presunzione di innocenza?) che non risulta ancora condannato...No avvocato, non è proprio così che sta andando. Giusto per aggiornare anche questa notizia, le confermo che il processo di Reggio Emilia - in cui la dottoressa risponde di diffamazione - nella prossima udienza, fissata a maggio, vedrà sul banco dei testimoni - citati dal pubblico ministero - sia il Generale Luciano Garofano che lo stesso dirigente dell'UGL denunciato più volte dalla sua assistita. Inoltre, sempre in quel di Reggio Emilia, a causa di quanto la dottoressa ha dichiarato ai giornalisti all'uscita dall'aula dopo le prime udienze c'è la possibilità, neppure tanto remota, che si apra un secondo processo. Vedremo presto se ho sbagliato la diagnosi. In ogni caso il processo di Reggio Emilia non ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile, come ha scritto, e il signore che chiama presunto stalker è persona nota e prima della vicenda che ha visto coinvolta la dottoressa era già stato condannato sia per truffa (condanna definitiva) che per stalking (nel 2012 il pubblico ministero nella sua arringa lo definì uno "stalker seriale" e il giudice confermò le sue parole condannandolo). Motivo per cui, in questo caso la presunzione di innocenza, per come la vedo, poco c'entra. E ancora ha scritto che il processo di Tivoli del 15 dicembre 2015 viene atteso con ansia e trepidazione della nostra Assistita visto che in quella sede avrà finalmente modo di provare, innanzi ad un Giudice la fondatezza delle sue accuse... Per quanto riguarda Tivoli, non vedo l'ora di sentire cosa dirà la sua assistita al giudice e come risponderà alle domande. Mi auguro che abbia una spiegazione plausibile e delle prove a discolpa certe che la aiutino a non subire una condanna e a dimostrare di essere una vera vittima di stalking. Così che io possa poi criticare e chiedere una condanna per lo stalker, che al momento non esiste, e per i magistrati che non l'hanno fin qui creduta. Inoltre ha anche scritto: In merito a Michele Misseri, le avremmo spiegato che attualmente questo signore è sotto processo proprio per quelle famose affermazioni...Michele Misseri, come avrà capito, lo conosco e conosco anche le accuse da lui mosse contro la sua assistita. So che il processo ha già subito dei rinvii e che a maggio è in programma l'ennesima prima udienza. Quindi nessuno sul punto mi doveva spiegare nulla perché conosco perfettamente entrambe le posizioni. Inoltre nell'articolo mi sono limitato alla considerazione che se se alla dottoressa "andrà male" la sua carriera sarà finita. Questo perché è sempre possibile, almeno in ipotesi, che un processo si possa perdere. E continua scrivendo: mentre in relazione all'accusa di collusione con le aziende che forniscono materiali alle nostre Forze di Polizia... definire questa "notizia" ridicola è decisamente utilizzare un eufemismo. Mi scusi avvocato, ma quando mai ho parlato di collusione? Fare accuse di collusione significa affermare che un determinato accordo c'è stato sicuramente. Io invece ho semplicemente messo in relazione fra loro eventi verificabili da chiunque e notando una stranezza ho posto una domanda a cui bastava dare risposta. Scrivere che la "notizia" è ridicola non è dare una risposta, è aggirare l'ostacolo che non si vuole saltare. La mia domanda, posta a un personaggio pubblico, era lecita perché la cronistoria ci dice che la relazione fra la dottoressa e il dirigente della Polizia durò pochissimo e finì nel lontano duemilacinque. Che la sua assistita continuò la collaborazione con l'associazione di criminologi per altri quattro anni, fino al duemilanove quando si interruppe in maniera non amichevole. Che il presidente della stessa associazione - intervistato da Luca Fazzo nel 2011 - denunciò le enormi spese sostenute dal ministero e spiegò quanto fosse economicamente vantaggioso acquistare il materiale per le indagini direttamente in America e non dagli intermediari. La domanda che posi nell'articolo nacque da una serie di considerazioni. Nel duemilanove la dottoressa Bruzzone fondò l'associazione culturale A.I.S.F. (Accademia Internazionale Scienze Forensi), una organizzazione "non profit" - questo è da dire - che da statuto non dà dividendi ai soci. Una associazione che tra i suoi partner allinea l'azienda che produce e vende i prodotti alla Polizia e quella che ha l'esclusiva per l'Italia di tali prodotti. A questo si aggiungono due fatti certi: sia che la dottoressa ha partecipato al video pubblicitario dell'azienda produttrice, video presente sul sito internet dell'azienda e su You Tube (se lo ha fatto per amicizia bastava scriverlo senza pensar male delle mie parole), sia che le denunce di stalking, quelle rigettate, furono presentate a partire dal 2009 contro chi dapprima le chiedeva conto del denaro speso mentre collaborava con l'associazione di criminologi e dopo si era attivato in prima persona per cercare di far acquistare i prodotti direttamente dall'America senza pagare intermediari. Avvocato, lei sa che nell'articolo non ho scritto la parola "collusione" e sono rimasto soft non inserendo tante altre domande lecite che mi frullavano per la testa. Domande che in questa risposta pubblica inserisco per farle capire quale altro modo uso per informarmi. Ad esempio, nell'articolo in questione mi limitai e non chiesi se il dottor Bruno Vespa conosce il sito della A.I.S.F. ed è al corrente che ogni volta che presenta la dottoressa Bruzzone di riflesso pubblicizza, a titolo gratuito sulla principale televisione di stato, non solo l'organizzazione "no profit" di cui la dottoressa è presidente - la A.I.S.F. - ma anche un'azienda privata. Essendo l'associazione culturale una "non profit" la pubblicità gratuita è sicuramente lecita. Perlomeno credo fosse certamente lecita fin quando l'associazione nel suo sito internet non ha riportato l'IBAN (cioè un'utenza bancaria su cui fare bonifici) di una S.A.S. (Società in Accomandita Semplice) che in teoria dovrebbe essere esterna all'associazione stessa. La S.A.S a cui mi riferisco è quella aperta dalla stessa dottoressa Bruzzone il 06 giugno 2014 (quindi dieci mesi fa) e registrata alla camera di commercio il 12 giugno 2014. Una Società in Accomandita Semplice che, come da visura camerale, ha quali soci accomandatari anche i due avvocati che figurano con nome e cognome sulla carta intestata della diffida che mi ha inviato, assieme al suo signor Florindi. Gli stessi avvocati che, come lei d'altronde, figurano nel consiglio direttivo della "associazione no profit". Ora, per quanto possa capirne e mi hanno spiegato, credo che prima di fare un simile movimento pubblicitario, cioè inserire l'IBAN di una azienda commerciale che guadagna sul proprio lavoro ai piedi di tutte le pagine elettroniche di una associazione "no profit" (che essendo "no profit" non dà dividendi ai soci), ci si sia fatti consigliare da un buon commercialista. Per cui immagino che sia del tutto legale, dato che la SAS sul proprio guadagno ci paga le tasse. Ciò che trovo strano è altro. Una stranezza, ad esempio, è che il logo della SAS sia praticamente identico, tranne per le scritte, al logo dell'associazione "no profit". Un'altra ancora più strana è che cliccando sul logo della SAS presente nelle pagine dell'associazione "no profit", si venga reindirizzati su una pagina della stessa associazione "no profit" e non sul sito della SAS. Quasi che la SAS e l'associazione "no profit" siano l'unica faccia di due società. In pratica una società che per statuto non può dividere gli utili nel suo sito ospita e pubblicizza una SAS che gli utili fra i suoi soci li può dividere. Insomma, ciò che si vede dall'esterno (magari non è così e la Rai avrà la gentilezza di spiegarcelo in maniera chiara) è che il dottor Bruno Vespa pubblicizzando l'associazione no profit finisca per pubblicizzare gratuitamente una S.A.S. - capisce cosa intendo, avvocato? Che a un occhio critico la situazione pare quantomeno ambigua e andrebbe spiegata. Come ambigua è la parte della diffida in cui scrive: Ne consegue che, non avendo lei eseguito alcun riscontro nè alcuna verifica, ha redatto un articolo ricco di falsità ponendo in essere proprio quelle condotte che, tanto severamente, ha tentato di stigmatizzare nel suo testo. Tutto ciò premesso, la dott.ssa Bruzzone, mio tramite Vi - INVITA E DIFFIDA - a rimuovere dal Suo Blog l'articolo in questione, a comunicarci immediatamente, e comunque non oltre 5 giorni dal ricevimento della presente, il nominativo (o i nominativi) di chi Le ha fornito le informazioni ivi pubblicate e di versare, per il tramite di questo Studio, la somma di euro 250.000 a titolo di risarcimento per i gravissimi danni all'immagine della mia Assistita cagionati dalla diffusione di notizie false e diffamatorie. In queste sue parole, false e intimidatorie signor avvocato, un giudice di polso potrebbe pure configurare il reato di estorsione. Specialmente perché, seppur sia stato limitato volendo risponderle con un articolo che non può essere infinito, le ho dimostrato non solo che non ho assolutamente mentito, ma anche che prima di scrivere mi informo e faccio verifiche (e ne faccio tante), cerco riscontri e quando qualcosa non mi quadra pongo domande pubbliche per non ottenere risposte di circostanza (che non servono a nulla e non aiutano i lettori a capire). Per questi motivi non ho rimosso, e non ho alcuna intenzione di rimuovere, l'articolo in questione. Per questi motivi la invito a cambiare atteggiamento e, se vorrà, a rispondere alle mie domande in maniera pacata senza cercare di intimidire chi critica la sua assistita. Fornire ai lettori notizie relative a un personaggio pubblico è cosa che si fa tutti i giorni (e se il personaggio finisce sotto processo la notizia esiste e si può dare). Inoltre tutti i personaggi pubblici, finché restano tali, ricevono critiche per quanto dicono o scrivono. Dalla piccola show girl al Presidente della Repubblica. E' la norma, dato che la democrazia permette di non appiattirsi al pensiero altrui e di esternare il proprio, anche se diverso. Per questo motivo, non essendo avvezzo a criticare un personaggio pubblico a prescindere ma avendo l'abitudine di elogiarlo o criticarlo per i vari comportamenti che pone in essere di volta in volta, così come posso essere d'accordo e apprezzare la sua assistita per quanto fa e dice su certi casi di cronaca nera (Chico Forti è uno ma ce ne sono altri), posso anche non essere d'accordo e criticarla quando a parer mio non si dimostra all'altezza del suo ruolo pubblico o fa qualcosa che mi risulta strano e incomprensibile. Una cosa deve essere chiara. Volandocontrovento è un blog indipendente che non ha editori a cui obbedire. Un blog che prima di pubblicare articoli cerca informazioni e riscontri. Un blog in cui nessuno scrive falsità (al massimo negli articoli pubblicati si possono trovare piccole inesattezze scritte in buonafede). E fin quando la democrazia lo permetterà, a nessun personaggio, sia bianco o sia nero, sia giallo o sia verde, sia rosso o sia blu, sia pubblico o che pubblico lo diventi per quindici giorni o per quindici anni a causa di una posizione politica ridicola o di una indagine criminale in voga sui media, è concessa l'immunità da critiche...”

Bruzzone contro Raffaele: «Imitazione becera e volgare». La criminologa querela l'imitatrice: «Sessualizzazione della mia persona», scrive “Il Corriere della Sera”. Una «becera e volgare sessualizzazione della mia persona». Così la criminologa Roberta Bruzzone bolla, parlando a Fanpage.it, la performance di Virginia Raffaele che l’ha imitata sabato ad «Amici». «Io non ho nessun problema contro la satira» precisa Bruzzone, «l’elemento intollerabile è giocare sull’aspetto sessuale in maniera sguaiata, becera, volgare, gratuita», lontana - precisa - da una professionista che tutto questo l’ha sempre evitato. «L’elemento che mi porta in tv ormai da oltre dieci anni - sottolinea - non è la mia avvenenza fisica ma il tipo di contenuti che tratto e l’esperienza dovuta al lavoro che svolgo». « Non siamo più nella satira, questa è diffamazione bella e buona» aggiunge, confermando la sua decisione di querelare la Raffaele. In tempi di femminicidi, mentre lottiamo contro la visione della donna-oggetto, «che questo tipo di contenuti sia proposto da una donna è ancora più sconcertante», osserva.

Selvaggia Lucarelli contro la criminologa Bruzzone: «La Raffaele è ben più simpatica e gnocca di lei», scrive “Il Messaggero”. Virginia Raffaele imita la criminologa Roberta Bruzzone, ma questa non gradisce. E nella faccenda non poteva che intromettersi Selvaggia Lucarelli. Ne è scaturito un botta e risposta che non va tanto per il sottile. «Bagascia vestita in modo improponibile», ha tuonato la Bruzzone contro l'imitatrice, "rea" di aver messo in scena «una rappresentazione becera, volgare, gratuita, sguaiata». Dopodiché in un tweet la Bruzzone ha annunciato che sarebbe passata alle vie legali. E la replica della Lucarelli non si è fatta attendere: «Leggo che la Bruzzone, in un tweet, lascia intendere di aver scomodato il suo favoloso team di legali per bastonare Virginia Raffaele che ha osato farne una parodia (divertente) ad Amici - ha scritto - Nella vita ho ricevuto un po' di querele, ma la lettera dell'avvocato della Bruzzone per un mio servizio su Sky me la ricordo bene. Spiccava. Non solo per la pretestuosità degli argomenti (era un servizio innocuo e fu l'unica tra 100 servizi a offendersi), ma perchè inviò copia al Ministero delle pari opportunità per accusarmi di sessismo». «La Raffaele - continua la Lucarelli - è ben più simpatica e gnocca di lei. (tanto il ministero delle pari opportunità è stato abolito, magari scriverà alla Boldrini)».

Vittorio Feltri contro Roberta Bruzzone: "Al suo confronto i pm sono delle mammolette", scrive “Libero Quotidiano”. Dopo le imitazioni di Virginia Raffaele, il commento di Vittorio Feltri. La criminologa diventata famosa al grande pubblico grazie a Bruno Vespa che l'ha invitata più volte a Porta a Porta, viene attaccata dal fondatore di Libero che scrive: "Si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere" Feltri l'accusa soprattutto di dare affosso all'imputato dato che è più facile che difenderlo.  "La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia".  Con una stilettata Feltri dice che in sui confronto i pubblici ministeri sono delle "mammolette". Feltri ricorda quando, durante una puntata di di Linea Gialla di Salvo Sottile si trovava accanto alla Bruzzone per comentare le vicenda giudiziaria di Raffale Sollecito che all'epoca era ancora in attesa di giudizio. Feltri riteneva che non vi fossero gli estremi per condannarlo, lei sì. La Cassazione ha dato ragione a Vittorio. Da qui la conclusione di Feltri: "Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".

“Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione”…, scrive Vittorio Feltri per “il Giornale”. "Da alcuni anni Roberta Bruzzone, criminologa dall'aspetto attraente (ciò che aiuta sempre a rendersi riconoscibili e, perché no, apprezzabili a occhi maschili e pure femminili), è personaggio televisivo tra i più noti. Il suo bel volto compare spesso in video, anzi sempre, nelle trasmissioni che trattano di morti ammazzati, assassini probabili, gialli irrisolti: temi che da qualche tempo vanno forte e hanno un seguito notevole di pubblico. A lanciare la gentile signora è stato Bruno Vespa a Porta a porta, in cui gli omicidi raccontati sono frequenti e costituiscono una sorta di rubrica fissa, come il bollettino meteorologico. Il principe dei conduttori, dopo averla invitata una prima volta, non ricordo in quale circostanza, avendone gradito gli interventi - forse anche le fattezze - non ha più smesso di convocarla per discettare di coltellate, strangolamenti, alibi e roba del genere noir. Roberta si è tenacemente costruita una fama di investigatrice spietata: ormai è ospite indispensabile in qualsiasi programma al sangue in onda su varie emittenti, tutte assai interessate a dissertare di delitti, un filone appassionante per il pubblico serale, stanco di talk show politici prodotti in serie con la fotocopiatrice. La criminologa mostra di trovarsi a proprio agio nelle discussioni, di solito vivaci, sulla colpevolezza di Tizio e di Caio; e si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere. Si sa come vanno i processi mediatici. Si dà addosso all'imputato dato che è più facile e più spettacolare che non difenderlo. Si calca la mano sugli elementi a suo carico e si sorvola su quelli a discarico. Cosicché la gente, sempre vogliosa di sentenze esemplari, si eccita e non tocca il telecomando nel timore di perdersi le fasi più sadiche del linciaggio. La natura umana fa schifo e collide con i principi basilari del diritto: chi è stato incastrato dalla cosiddetta giustizia andrebbe considerato innocente fino a prova contraria. La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia. In confronto a lei, i pubblici ministeri sono mammolette. Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione. Ciascuno ha le proprie inclinazioni e magari le asseconda con pertinacia. La criminologa, benché non sia togata, agisce con una determinazione impressionante: nei dibattiti davanti alla telecamera riesce a spiazzare chiunque, magistrati inclusi. Una notte, a Linea gialla, diretta da Salvo Sottile (bravo e preparato), ero seduto accanto a Bruzzone per esaminare la vicenda di Raffaele Sollecito, in attesa di giudizio. Personalmente ero dell'idea che il giovanotto fosse da assolvere per mancanza di prove; lei aveva un'opinione opposta alla mia. Non dico che litigammo, ma eravamo in procinto di farlo. Trascorsi alcuni mesi, la Cassazione ha dato ragione a me. Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".

Rissa legale tra criminologi, scrive Mauro Sartori su “Il Giornale di Vicenza”. Si trasferisce anche in città il duro confronto tra Roberta Bruzzone e l'ex compagno Marco Strano. L'uomo accusa di plagio l'autrice per alcuni passaggi riportati. Lei replica con denunce per stalking e chiedendo misure di sicurezza. Carabinieri a piantonare la sala, notifica di documenti legali per spiegare il terreno minato su cui si muoveva l'incontro pubblico di ieri sera, querele e minacce attraverso i social network: sono gli ingredienti della guerra in atto fra due criminologi di fama, che ieri ha vissuto un capitolo scledense. Da una parte Roberta Bruzzone, psicologa forense nota per le partecipazioni come consulente ai talk show televisivi quando si parla di omicidi; dall'altra l'ex fidanzato Marco Strano, dirigente della polizia di stato, fondatore dell'Associazione internazionale di analisi del crimine. Oggetto del contendere il libro “Chi è l'assassino - diario di una criminologa”, edito dalla Mondadori. Strano accusa Bruzzone di plagio. Nella parte introduttiva del libro ci sarebbero passaggi copiati senza autorizzazione, tanto che il dirigente della polizia avrebbe chiesto con una procedura d'urgenza il ritiro dal commercio del libro, ma non l'ha ottenuto. Ieri sera la criminologa, chiamata come esperta da Bruno Vespa per le puntate di “Porta a porta” in cui si parla dei delitti di Sarah Scazzi e Melania Rea, tanto per citare i due più conosciuti, era a palazzo Toaldi Capra, dove ha presentato proprio il libro conteso ed ha parlato anche della sua attività quale ambasciatrice di “Telefono rosa”. L'altro ieri alla libreria Ubik, che organizzava l'incontro, due avvocati dell'Alto Vicentino, come domiciliatari dei legali di Strano, hanno recapitato ai titolari copia di un'ordinanza emessa dal tribunale di Milano in cui viene rigettato il ricorso di sequestro del libro, ma lascia aperta la porta ad un eventuale risarcimento del danno patito dal poliziotto. Una mossa che in verità non ha avuto conseguenze sullo svolgimento della serata ma che ha inasprito la tensione fra le due parti, tanto che ieri Bruzzone ha twittato parlando «di due scagnozzi non identificati che denuncerò per concorso in atti persecutori» che sarebbero andati alla Ubik e, in una successiva mail diffusa, «di un ennesimo tentativo di screditarm posto in essere da un soggetto che ormai trova l'unica ragione della sua misera esistenza nel rancore nutrito nei miei confronti e nel porre in essere atti persecutori nei miei confronti di cui sono vittima da quattro anni». In pratica da quando è finita la relazione sentimentale fra i due che un tempo andavano d'amore e d'accordo. La criminologa si è sentita minacciata tanto da richiedere misure di sicurezza ai promotori, prima di entrare in sala: «L'ho denunciato per stalking e quanto accaduto a Schio mi seriverà per integrare la denuncia stessa. Purtroppo non accetta l'evidenza dei fatti - ci ha riferito ieri sera Roberta Bruzzone. - La mia è un'opera autonoma, tratta da miei incarichi documentati. Le sue accuse sono deliranti. Per me la vicenda era chiusa con il rigetto del ricorso ma non si rassegna e allora comincio ad avere timore, soprattutto se si allarga a minacciare anche gli organizzatori delle mie serate nel tentativo di boicottarle. La mia vita è cristallina, ma non posso andare avanti così».

I casi di omicidio che hanno diviso l'Italia, scrive  Nadia Clementi su “Ladigetto”. Ne parliamo in esclusiva con il noto avvocato penalista Nicodemo Gentile. Negli Studi di Mediaset a Milano durante la trasmissione d’inchiesta «Quarto Grado» su Rete4 abbiamo avuto il piacere di conoscere l’avvocato Nicodemo Gentile, penalista ed esperto in diritto dell’immigrazione, e legale di riferimento di numerose comunità di immigrati e di associazioni di volontariato a scopo sociale. L’avvocato Nicodemo Gentile è un noto penalista della cronaca giudiziaria italiana. Nel suo studio di Perugia trovano spazio fascicoli riguardanti alcuni dei più noti fatti di cronaca nera. Un archivio di potenziali colpevoli e innocenti che raccontano storia e crimine della nostra bella Italia. Gentile è stato infatti uno dei legali di parte civile per la madre di Sarah Scazzi nel processo per l'omicidio di Avetrana (Taranto) e si è occupato delle difese di Rudy Guedé, per l'uccisione di Meredith Kercher, e di Salvatore Parolisi, l'ex caporalmaggiore condannato per aver ucciso la moglie Melania Rea. Inoltre è stato difensore di Winston Manuele Reves, il domestico filippino che confessò di aver ucciso la contessa Alberica Filo della Torre, nonché legale a cui si è affidata la madre di Brenda, la transessuale coinvolta nell’inchiesta Marrazzo, ritrovata cadavere dopo l’incendio del suo appartamento in via Gradoli a Roma.  Ogni omicidio dietro la freddezza dei fatti nasconde vite umane che si incontrano e si intrecciano in una miscela mortale; vittima e assassino spesso si confondono, i morti non possono né difendere né accusare; l'omicida spesso nasconde un passato tormentato, una vita di repressioni, violenza, frustrazione che esplode nel momento sbagliato. Esistono i crimini dettati da interesse economico, vendetta, gelosia, ma vi sono anche gli assassini compiuti in un «raptus» di follia (parola spesso usata a sproposito e di cui molti criminologi negano addirittura l'esistenza); infine vi sono gli omicidi seriali perpetrati dai cosiddetti serial killer, di cui è ben scarsa la casistica in Italia, la dove la motivazione che porta ad uccidere si nasconde nei meandri di menti squilibrate, persone disturbate che agiscono mossi da qualcosa che non riescono a controllare. Sono tanti i casi, anche molto noti, in cui si è gridato al mostro che entra di notte dalla finestra e stermina una famiglia intera (questa fu la prima ipotesi in casi come quello di Erika e Omar, la strage di Erba oppure nel delitto di Cogne) quando poi la realtà è molto più dura da accettare: ad uccidere è molto spesso qualcuno di familiare che si incontra tutti i giorni, che vive sotto lo stesso tetto delle vittime. Fortunatamente nella stragrande maggioranza dei casi i delitti vengono risolti grazie a poche settimane di indagini, dove fondamentali sono i testimoni oculari, i familiari, le telecamere di sorveglianza, le intercettazioni e i rei confessi. Poi ci sono i grandi misteri che rimangono irrisolti per anni, sono quelli che più affascinano i non addetti ai lavori perché riescono a smuovere sentimenti forti e profondi, grazie anche alla grande copertura mediatica, e dividono la gente in vere e proprie fazioni. Molti gli esempi degli ultimi anni: quello della giovane Yara Gambirasio o l'omicidio di Chiara Poggi a Garlasco, quello di Meredith Kercher a Perugia che, ad oggi, sono ancora senza colpevole. In tutti questo che ruolo ha la giustizia italiana, con tutte le polemiche alimentate dalla sua lentezza e macchinosità? Gli esperti hanno sottolineato più volte come in Italia il sistema giudiziario sia lento e farraginoso, incapace di rispondere con efficacia alle esigenze del cittadino. I processi possono prolungarsi anche per dieci, quindici anni. La lentezza e l'inefficienza nell'amministrazione della giustizia non soltanto ledono i diritti e la fiducia dei cittadini, ma provocano anche concreti danni economici. Tra i 47 Paesi aderenti al Consiglio d’Europa, l’Italia è quello più arretrato nell’ambito penale, al secondo posto per quello civile e sempre sul podio per il numero di giorni che occorrono per vedere la fine di un processo di primo grado. Questa, in sintesi, la fotografia scattata dal quinto rapporto della Commissione per l’Efficienza della Giustizia (Cepej) dell’organismo paneuropeo. Da anni nel nostro Paese si discute di una colossale, quanto difficile, riforma della giustizia. Un lavoro legislativo enorme che però sarebbe necessario per alleggerire il lavoro dei tribunali, ma al tempo stesso una manovra che si è trasformata più volte in ricatto politico snaturandone così la vera missione e trasformandola nell'ennesima pedina nel gioco al massacro tra partiti. Parliamo di giustizia penale con l’illustre avvocato Nicodemo Gentile che di esperienza sul campo ne ha davvero molta. 

Avv. Gentile, parliamo del caso dell'omicidio della quindicenne Sarah Scazzi, uccisa il 26 agosto 2010 dalla zia Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri, entrambe condannate all'ergastolo. In qualità di difensore della famiglia Scazzi, vi attendete ulteriori sviluppi in merito alla vicenda nel processo d'appello?

«Noi avvocati difensori della parte civile, in questo caso la famiglia Scazzi, siamo molto soddisfatti dell'istruttoria finale che convalida l'accusa penale. Abbiamo lavorato bene sia dal punto di vista delle intercettazione e delle indagini del caso ed è stato fatto tutto il possibile. «Siamo quindi fiduciosi e crediamo di arrivare tranquillamente alla conferma della sentenza accusatoria per gli imputati. Vale a dire l'ergastolo per madre e figlia accusate di aver strangolato con una cintura la giovane Sarah. «Otto anni di reclusione, invece, per il padre Michele Misseri accusato della soppressione del cadavere. Tutte condanne, queste, che sono state emesse dalla Corte d'Assise di Taranto.»

Secondo lei la gelosia può scatenare un'azione tanto brutale? Come è possibile che le due donne abbiamo avuto il coraggio di strangolare Sarah?

«Certamente, anche se la gelosia nel caso Scazzi è solo una concausa di un contesto psicologico complesso. Dalle perizie era emerso come Sabrina fosse una ragazza con fragilità emotiva e alternasse momenti di aggressività e ferocia, tanto che il padre la chiamava la Tigre. In quel periodo era in corso la separazione dei genitori, Sabrina ne soffriva molto e litigava spesso con la madre. Aveva anche problemi con se stessa, non si piaceva fisicamente, era una ragazza sfiduciata e complessata che viveva una forte frustrazione emotiva, particolarmente invidiosa della cugina. Il ruolo della mamma secondo la pubblica accusa è stato quello di collaborare e coordinare la fine dell'orrendo crimine per salvare la reputazione della figlia, che era già compromessa da occasionali relazioni sessuali con ragazzi del posto. La mamma ha perso la testa perché la figlia aveva portato all'esterno, nel piccolo paesino di Avetrana (TA), le proprie debolezze, che andavano a compromettere il buon nome della famiglia. È stato chiaro fin da subito agli inquirenti che Sabrina uccise per gelosia in un contesto emotivo di fragilità, mentre la madre è stata spinta dalla necessità di tacere la fuga di notizia per l'onore e la dignità della figlia e della famiglia.»

Lei è l'avvocato difensore dell’ex caporalmaggiore Salvatore Parolisi, accusato di aver ucciso la moglie Melania Rea il 18 aprile 2011 con 35 coltellate, e condannato in appello a 30 anni di carcere. Nella sua difesa emergono nuovi importanti indizi a favore del suo assistito per i quali Lei ha chiesto alla Corte di Cassazione di annullare la sentenza in appello prevista in febbraio. Cosa si aspetta in proposito?

«Fra pochi giorni nella sentenza di Cassazione Parolisi si giocherà il terzo grado di giudizio. Abbiamo lavorato molto sugli indizi delle tracce disponibili sulla scena del crimine. L'accusa si avvale delle tracce del DNA di Parolisi nella regione labiale di Melania, che secondo noi è un dato ambiguo, discutibile, non soddisfacente, e non dimostrabile come traccia attinente al momento dei fatti. Noi difensori, invece, abbiamo sempre sostenuto che ci siano altre tracce non identificate, come l'impronta di scarpa imbrattata di sangue corrispondente e non superiore al nr. 40, mentre Parolisi calza il nr. 43. Forti della nostra consulenza tecnica siamo convinti che questa potrebbe essere un’altra importante prova di innocenza. Sarà la Suprema Corte a decidere, noi siamo convinti della sua innocenza.» 

Nota. La Cassazione riunitasi il 10 febbraio 2015 (dopo l'intervista) ha annullato l'aggravante della crudeltà nei confronti di Parolisi, senza toccare l’impianto processuale. Sarà ora la Corte d'Assise d'Appello di Perugia a determinare la diminuzione della pena che secondo avv. Gentile potrebbe scendere anche sotto 20 anni, rispetto alla condanna in appello a 30 anni.

In questo delitto apparentemente manca il movente. Chi potrebbe secondo Lei aver ucciso la giovane donna? Cosa pensa dell'ipotesi del maniaco solitario?

«Purtroppo i casi di cronaca testimoniano che vari soggetti con disturbo psichico possono agire in modo imprevedibile e incontrollato. Posso ricordare il caso della professoressa di Sora, amante del jogging, che è stata aggredita da uno sconosciuto e ritrovata dopo alcuni mesi; il caso di due giovani aggrediti alle spalle da una sconosciuta, o altri episodi di persone scomparse e mai più ritrovate. L'azione di uno psicopatico nel caso di Melania potrebbe essere molto probabile, anche perché è stata trovata con i pantaloni abbassati e aveva preso due botte in testa. Tutto potrebbe essere successo. Non è da escludersi qualsiasi ipotesi, ma quello che possiamo affermare è che sulla scena crimine non ci sono segni a nostro parere sufficienti a incolpare il marito.»  

Il 25 marzo 2015è prevista l’udienza in Cassazione per il processo a Raffaele Sollecito e ad Amanda Knox per l’omicidio di Meredith Kercher. Sollecito e la Knox sono stati condannati rispettivamente a 25 e 28 anni e mezzo di reclusione dalla Corte d’Assise di Firenze. Entrambi si sono sempre proclamati estranei al delitto compiuto a Perugia. Meredith Kercher venne uccisa a Perugia con una coltellata alla gola, la notte tra il primo e il 2 novembre del 2007. Quattro giorni dopo la polizia arrestò Sollecito, la Knox, allora sua fidanzata, e Patrick Lumumba, risultato poi però totalmente estraneo al delitto e quindi prosciolto. In cella finì invece, il 20 novembre, Rudy Guede che, processato con il rito abbreviato, sta scontando una condanna definitiva a 16 anni di reclusione definitivo. Quali sono le Sue considerazioni in proposito?

«In qualità di difensore di Rudy Guede, condannato con rito abbreviato, posso dire che si tratta di un’udienza molto importante che dovrebbe dar fine ad un percorso giudiziario che si trascina dal 2007. Noi siamo assolutamente convinti che in quella casa la violenza sessuale non ci sia mai stata, e Guede lo ha sempre detto. Purtroppo sul profilo tecnico non ci sono stati concessi degli approfondimenti e pertanto anche noi attendiamo il risultato di quest’ultima sentenza. Gli altri due imputati chiedono l'assoluzione, cercando in qualche modo di incolpare Guede come unico presente in casa. Per i giudici si tratta di concorso in omicidio e di violenza sessuale a tre, ma è stato dimostrato che Guede non risulta essere l'esecutore dell'omicidio.» 

Quanto è importante l'esame del DNA al fine di un'inchiesta?

«A mio avviso il DNA può avere un'importanza fondamentale o rappresentare solo un indizio del mosaico di eventi che, valutati nell'insieme, possono portare alla colpevolezza o innocenza. Dipende dai casi e dal tipo di DNA. Per esempio, nel caso del delitto dell'Olgiata, nel 1991, il filippino Windston Manuel Raves, che si trova ora in carcere per l'omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, l'esame del DNA è stato fondamentale. Grazie alle tecniche moderne, nel 2007 (16 anni dopo) si è potuto analizzare il lenzuolo trovato sul cadavere della Contessa e le tracce trovate del DNA hanno determinato la presenza del filippino nella scena del crimine, per cui in seguito è stato condannato. Pertanto con la sola prova del DNA si può arrivare alla soluzione del caso e può essere considerata come prova certa sia di condanna che di assoluzione. Tanto è vero che la Cassazione parla di DNA come prova assoluta, come elemento schiacciante quando lo stesso è puro, leggibile e non contaminato, attraverso analisi e protocolli direttivi internazionali. Nei casi, invece, come quello di Parolisi, il DNA della moglie ritrovato nella sua automobile, o il suo sul corpo della vittima, è per così dire contaminato, perché si tratta di soggetti che si frequentavano già in precedenza e assiduamente. Il caso sarebbe diverso se il DNA ritrovato fosse di un estraneo. Stiamo aspettando che anche in l'Italia si attivi la banca dati del DNA. Sono certo che darebbe risposta a molti casi che, per ragioni diverse, rimangono irrisolti.»

Quanto incide nella soluzione del caso la valutazione scientifica?

«Dipende da caso a caso, potrebbe essere un elemento fondamentale e in altri, invece, rimarrebbe solo compresa nella serie di indizi.»

Quanto è difficile gestire un processo mediatico?

«Il processo mediatico secondo me non esiste. Il processo è sempre uno solo e si celebra con intervento dei gip e nelle aule del tribunale. Se invece parliamo dell'attività mediatica di informazione, questa è molto utile nel processo penale, tanto è vero che un avvocato penalista deve essere particolarmente attento a tale aspetto. Negli ultimi casi gli articoli e le interviste ai telegiornali hanno assunto particolare importanza nella valutazione dei soggetti dei singoli casi, permettendo di individuare aspetti molto utili alle indagini. Per questo motivo l'attività giornalistica entra a pieno titolo nel processo e i documenti vengono valutati dai giudici. Nella mia esperienza è capitato più volte che alcuni testimoni siano stati trovati tramite indagini giornalistiche. Ricordo, nel caso di Meredith, che il clochard individuato per caso da un reporter è risultato un valido testimone nella ricostruzione della notte del fatto. In particolare è bene segnalare che le interviste rilasciate prima del processo penale vengono assunte come materiale probatorio utilizzato dai giudici per i loro provvedimenti.» 

Può dirci più o meno quanti sono i casi di omicidio rimasti irrisolti in Italia e secondo lei perché?

«Non sono a conoscenza di una statistica precisa, comunque non sono pochi. Molte volte si sbaglia la prima ipotesi e poi è difficile trovare la soluzione del caso.» 

Ci può dare una Sua risposta alla domanda sul perché secondo Lei la giustizia sia così lenta in Italia?

«Uno dei fattori sono i finanziamenti: alle ore 17 noi avvocati dobbiamo sgomberare le aule del tribunale assieme ai giudici, non possiamo lavorare di più perché mancano i cancellieri ai quali non vengono pagate le ore straordinarie. Si tratta di figure necessarie per effettuare le trascrizioni e le formalità che un processo prevede. Qualcuno pensa che ci siano troppi avvocati che paralizzano i procedimenti, ma io aggiungo che in Italia c'è troppo diritto penale e quindi le procure vengono invase da notizie di reati minimi e sciocchi. L'obbligatorietà dell'azione penale il più delle volte prevede in caso denuncia, di istanza, di querele o di esposto un'apertura di procedimento che porta a processi. Procedimenti che contribuiscono all'inceppamento della macchina, già complessa e arrugginita, della giustizia. Questo è uno dei fattori che portano a rallentare i tempi, creando dei disservizi che noi ogni giorno viviamo continuamente. Questa potrebbe essere una ragione di fondo, anche se ne possiamo elencare delle altre. Credo sia giunto il momento di pensare ad una razionalizzazione dei casi per far sì che tante vicende, che si possono risolvere diversamente, non arrivino all'attenzione dei giudici.» 

Ovviamente una sentenza che arriva dopo 15 o 20 anni deve essere definita giustizia. Ma perché in America un processo viene rinviato al pomeriggio o all’indomani e qui invece (se va bene) a sei mesi dopo?

«Purtroppo sì, una sentenza può arrivare anche dopo 10 anni. Non succede spesso ma normalmente il processo penale è abbastanza lungo, sia rispetto a quello americano che ai nostri partner europei.»

Parliamo del caso Chico Forti a noi tanto caro. Secondo Lei l'avvocato Tacopina riuscirà a chiedere la revisione del processo?

«Sono uno dei fan accaniti del caso Forti, mi auguro di cuore che tutto vada per il meglio e se potessi contribuire in qualche modo lo farei volentieri. Purtroppo gli americani, che io ho avuto modo di incontrare e sentire per il caso di Amanda Knox, sono molto feroci e critici dei confronti della giustizia italiana. In realtà guardano la pagliuzza negli occhi degli altri ma non ci fanno vedere la trave. Il caso di Chico Forti è un vero caso di malagiustizia e soprattutto un errore giudiziario che fa venire i brividi. Non a caso persone importanti, qualificate ed illustri come il magistrato Imposimato si sono offerte di dare assistenza a questo nostro sfortunato concittadino. Mi auguro di cuore che in Italia il movimento a favore di Chico possa divenire forte, fortissimo, perché credo sia stata una persona molto sfortunata che è incappata in un sistema giudiziario, come quello americano, che non permette la revisione del processo e, qualora possibile, lo vedrebbe sicuramente innocente.» 

Lo Stato difende effettivamente le vittime degli errori giudiziari? Oppure le vittime per essere risarcite devono muovere un’altra causa che può durare altri 10 anni?

«Per quanto riguarda l'aspetto penale, conosco vicende in cui lo Stato è arrivato a dover pagare cifre anche considerevoli per cause ingiuste. Si tratta della riparazione per ingiusta detenzione che, per essere ottenuta, prevede l'apertura di un’ulteriore causa che normalmente non dura così tanto. Questo è uno dei casi in cui la giustizia arriva con celerità. Per quanto riguarda il processo civile abbiamo creato un mostro: la legge Pinto dava diritto ai cittadini, che avevano in corso dei processi lunghi ed interminabili, la possibilità di chiedere la riparazione economica in ragione di queste lungaggini non giustificabili. Con il tempo però anche la legge Pinto, a sua volta, si è rivelata un'ulteriore fase della giustizia lumaca e le cause di risarcimento sono più lunghe della stessa causa. Mentre nel caso penale le cose vanno più spedite, per i casi civili non abbiamo riscontrato un grande successo.» 

La condanna a Fabrizio Corona per un’estorsione da 25.000 euro è diventata per la stampa un po’ come un metro di misura. Se diamo “peso 10” a Corona e valutiamo le altre sentenze, ci sentiamo sconcertati. Cosa dobbiamo dire ai nostri lettori? Di avere fiducia lo stesso nella giustizia?

«La vicenda Corona la conosco poco, ma penso che la giustizia nel suo caso dovrebbe avere un po’ più di cuore. Corona è una persona che ha fatto i suoi errori li sta pagando. Credo che per lui il tempo trascorso in carcere sia stato sufficiente per farlo ritornare sulla retta via. Nel suo caso si dovrebbe procedere a un percorso di rieducazione attraverso forme alternative come quella degli arresti domiciliari con la possibilità di lavorare. Nella vita dobbiamo avere tutti una seconda possibilità di credere che non tutto sia perduto.»

Quelli che… dagli, dagli all’assassino! Scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Prima di sapere come andava a finire, finalmente Schettino ha pianto. Finalmente non perché pensiamo che dovesse piangere, che si dovesse battere il petto per chiedere perdono, come molti volevano. Finalmente perché ha detto tutto quello che ha passato. Non solo il dolore per le persone che sono morte, ma anche il fatto che in questi anni è stato «sotto il tritacarne mediatico». Sì, questi tre anni, dal naufragio della Concordia, gli italiani hanno vissuto sonni tranquilli, perché tanto il Colpevole, l’Assassino era lui. Sul processo e sulla sentenza, pesa questo sentimento che fin da subito ha colpito il comandante. Non erano passate neanche poche ore che già agli occhi dell’opinione pubblica mondiale era diventato lui l’unico responsabile del naufragio, il comandante vile che ha lasciato morire trentadue persone. È bastato davvero poco perché la sentenza fosse emessa, perché non ci fosse nessuna attenuante. La telefonata del comandante De Falco che gli grida di tornare a bordo – a quanto pare fatta uscire appositamente per delegittimare ancora di più Schettino – ha fatto il resto. Ma la gogna pubblica, messa in piedi da tv e giornali, è andata oltre. Ha fatto qualcosa di ancora più grave. Non solo ha condizionato pesantemente l’esito del processo, la condanna che ieri è stata trasmessa come se fosse una fiction, ma ha anche creato il Mostro. Schettino il vile, il comandante poco coraggioso, è diventato il personaggio perfetto per costruire il capro espiatorio, il responsabile di tutti i mali, l’esempio da stigmatizzare di quell’Italia che si merita di andare a fondo. In questi anni, senza nessuna pietà, Schettino è stato additato, offeso, perseguitato. Questo non significa che lui non abbia responsabilità, ma che queste responsabilità si sono mescolate con un sentimento di odio e di gogna che poco c’entra con la giustizia e con la verifica puntuale di tutte le responsabilità. Dall’opinione pubblica, o meglio dal pubblico di questo osceno spettacolo, si è passati all’aula di giustizia, dove il pm – che aveva chiesto per Schettino 26 anni, reputandolo l’unico colpevole – sono arrivate parole inaccettabili in un tribunale. Lo ha chiamato «abile idiota». Non una prova, ma un giudizio morale. Non la frase di un pubblico ministero, ma l’urlo della folla inferocita. Schettino, allora, ci racconta anche di noi. Di come siamo diventati e di come è diventata la giustizia in questo Paese. Noi, questa società, è diventata più barbara. Siamo sempre pronti a mandare qualcuno al patibolo, pensando che siamo migliori. Non esercitiamo il dubbio, non proviamo pietà, siamo solo capaci di affermare verità, la nostra verità. Una verità che ci scagiona e accusa l’altro. Da questo punto di vista il comandante Schettino è stato perfetto, il migliore obiettivo che ci si potesse dare in pasto. E noi lo abbiamo accolto, mangiato e sputato come qualcosa di spurio, come colui che corrompe il tessuto sociale e va fatto fuori. La giustizia, quella andata in scena non in un tribunale, ma in un teatro di Livorno, ne esce altrettanto male. La scelta anche del luogo dove celebrare il processo ci racconta di un rapporto morboso tra media e giudici. L’obiettività è stata sostituita dalla spettacolarizzazione, lo stato di diritto dalla condanna in diretta. Molti godranno della pena inflitta a Schettino, anzi si lamenteranno che gli anni non sono stati abbastanza, noi no. E non solo per il suo bene.

LA VERITA’ NON VI VERRA’ MAI DETTA… QUESTA E’ L’UNICA CERTEZZA!!!

Che questo accadesse, diciamocela tutta: non avevamo dubbi, scrive “Informare per resistere”. Ma che a dirlo e spiattellarlo ai 4 venti, fosse una giornalista Rai…Beh non lo avremmo mai pensato. La donna in questione è Elisa Ansaldo. Lei stessa ha reclamato e si è battuta per i diritti ad un’informazione giusta e veritiera! Cosa che in Rai non accadeva e non accade neppure adesso!! Nelle 2006 e nel 2007 conduce la sezione giornalistica durante le due edizione di Unomattina. Poi nel Settembre 2008 passa alla conduzione del TG1 della notte. Il 25 maggio 2011, in polemica con il direttore Augusto Minzolini, annuncia il suo ritiro da conduttrice del TG1, contestando il fatto che esso violerebbe i più elementari doveri dell’informazione pubblica come equilibrio, correttezza, imparzialità e completezza dell’informazione seguendo di circa un anno la medesima decisione della collega di redazione e amica Maria Luisa Busi. La stessa Elisa Ansaldo aveva affermato: “Per motivi professionali e deontologici non ritengo più possibile mettere la faccia in un tg che fa una campagna di informazione contro”. Solo nel 2013 torna alla conduzione del TG1 conducendo: prima l’edizione delle 17, poi quella delle 13:30. E’ proprio nel periodo della sua pausa giornalistica Rai che la stessa giornalista ha manifestato pubblicamente il suo disappunto nei confronti di una testata giornalistica, quale il TG1. Privo di veridicità e fondamenti basati sulla lealtà alla notizia… Insomma, la giornalista Elisa Ansaldo non le ha mandate a dire a nessuno e non ha accettato il modus operandi della Rai, in quanto non conforme alle leggi ma soprattutto determinato a celare, nascondere e modificare la notizia. Ha reclamato il diritto all’informazione: un’informazione corretta, integrale e non censurata. – “In Rai si ha paura della notizia, e le cose accadono sempre dove noi non siamo…Nella case, nelle industrie, nelle carceri, nella aziende…Guarda caso noi siamo da un’altra parte - e continua polemizzando - Chi si poteva immaginare che le gente comune si trovava a combattere con la disoccupazione, i licenziamenti e la cassa integrazione. Che esiste il problema del precariato nelle scuole. Invece no…Noi pensavamo che a voi questo non interessasse…Credevamo che voleste sentir parlare di Michele e Sabrina Misseri, Sara Scazzi, e Yara… Insomma di tutto lo spettacolo montato intorno a queste povere ragazze”. Ascoltate l’intero intervento della giornalista Elisa Ansaldi e capirete molte cose… Il video è caricato in fondo all’articolo!
A nostro avviso, la situazione è grave. E i politici vogliono la nostra disinformazione perchè è comoda. Solo così possono continuare ad operare indisturbati. E’ proprio per questo che noi stessi non seguiamo più l’informazione che viene passata dalla tv. Che sia pubblica o privata, esse è un’ informazione corrotta e manipolata. Non è un’informazione che nasce per informare, ma è determinata a disinformare!!!

Così come è rimasto nel dimenticatoio ogni riferimento alle querele fatte dalla famiglia Scazzi contro i media a tutela della loro immagine e della loro Privacy.

Giallo di Avetrana, un vastese querelato da Claudio Scazzi, scrive Natalfrancesco Litterio su “Zona Locale. Non è passata inosservata la presenza presso il Tribunale di Vasto di Claudio Scazzi, fratello di Sarah, la ragazza vittima di quello che è stato chiamato "il giallo di Avetrana", per cui sono state condannate all'ergastolo Cosima Serrano e Sabrina Misseri. La giovane, come si ricorderà, era stata ritrovata senza vita all'interno di un pozzo e proprio un'immagine del cadavere all'interno del luogo del ritrovamento sarebbe al centro della vicenda giudiziaria che ha portato il fratello Claudio a Vasto. Il giovane, infatti, avrebbe denunciato tre testate, Il Corriere della Sera ed Il Corriere del Mezzogiorno, dove scrive come corrispondente locale Nazareno Dinoi de “La Voce di Manduria”, e un vastese per aver pubblicato su internet, sembrerebbe su un blog, la foto raffigurante il cadavere all'interno del pozzo. Il Tribunale di Milano, quindi, ha passato il procedimento a quello di Vasto, per quanto di sua competenza, e oggi si è tenuta l'udienza in cui è stata sentita la parte offesa, quindi lo stesso Claudio Scazzi, assistito dall'avvocato Nicodemo Gentile, del Foro di Perugia. Ad assistere l'imputato, invece, l'avvocato Angela Pennetta. La prossima udienza è stata fissata per il 24 aprile 2015.

La drammatica morte di Sarah Scazzi ha avuto uno strascico giudiziario anche a Vasto, scrive “Il Nuovo”. Ecco perché la presenza al tribunale di Vasto del fratello della povera ragazza, Claudio Scazzi, non è passata inosservata. Il titolare di un blog locale, Alessandro Oliveri, vastese, è stato querelato dallo Scazzi per “aver pubblicato subito dopo il ritrovamento della vittima fotografie dal contenuto raccapricciante, che mostravano il cadavere di Sarah.” Quelle foto, secondo l’accusa, avrebbero provocato disagio e malessere nei familiari della vittima. Ieri mattina, sentite le parti, il giudice ha aggiornato l’udienza al prossimo 24 aprile. Il giovane vastese è difeso dall’avvocato Angela Pennetta del foro di Vasto.

Ed ancora “Foto di Sarah blogger vastese querelato”. La tragica morte di Sarah Scazzi ha avuto uno strascico giudiziario anche a Vasto. Il titolare di un blog, Alessandro Oliveri, vastese, è stato querelato dalla fratello della ragazza di..., scrive P.C. su “Il Centro”.  La tragica morte di Sarah Scazzi ha avuto uno strascico giudiziario anche a Vasto. Il titolare di un blog, Alessandro Oliveri, vastese, è stato querelato dalla fratello della ragazza di Avetrana uccisa barbaramente. L'accusa è «avere pubblicato subito dopo il ritrovamento della vittima fotografie dal contenuto raccapricciante, che mostravano il cadavere di Sarah». Quelle foto, secondo l'accusa avrebbero provocato disagio e malessere nei familiari della vittima. Ieri mattina l'indagato è comparso davanti al giudice per le indagini preliminari. Ad assisterlo l'avvocato Angela Pennetta. In aula era presente Claudio Scazzi, fratello della ragazzina di Avetrana insieme al proprio legale di fiducia, l'avvocato Antonio Cozza del foro di Perugia. L'avvocato Pennetta ha rimarcato che il blog si limitò all'epoca dei fatti a riportare una foto che era comparsa su altre testate nazionali di maggiore prestigio. Le foto quindi non furono carpite ad alcuno né pare vi fosse nel responsabile del blog l'intenzione di fare uno scoop. Il dolore della famiglia Scazzi tuttavia fu grandissimo ed è ancora tale. Le presunte responsabili di quella morte atroce sono in carcere ma la vicenda giudiziaria è ancora in corso. E altre "costole" del processo cardine sono in itinere. Una anche a Vasto. Ieri mattina, sentite le parti il giudice ha aggiornato l'udienza al prossimo 24 aprile. Quel giorno Claudio Scazzi è intenzionato a tornare.

Giornalisti in galera, scrive Umberto Brindani il direttore di Oggi. Pochi giorni fa, potevo finire in galera anch’io. D’accordo, non è del tutto vero, ma mi sembra un buon incipit, forse sufficiente a convincervi a non girare immediatamente pagina. Da qualche settimana si ragiona del caso Sallusti (condannato a 14 mesi in via definitiva) e della questione dei giornalisti in carcere. So benissimo che alla maggior parte di voi, come dicono a Roma, non gliene potrebbe fregare di meno. E anzi, forse molti di coloro che non fanno parte della categoria, o della corporazione, qualche «pennivendolo» dietro le sbarre in fondo ce lo vedrebbero con gusto. Ma ne parlo perché la libertà di stampa, e cioè la libertà di esprimere il proprio pensiero, è il fondamento di ogni democrazia. E, se si manda in prigione una persona per aver scritto o detto qualcosa, è la democrazia stessa che comincia a incrinarsi, travolgendo poi, a poco a poco, la libertà di tutti. Per capirlo, basta leggere il nuovo, meraviglioso libro di Salman Rushdie (Joseph Anton, Mondadori, appena uscito). Joseph Anton è il nome falso che lo scrittore anglo-indiano dovette assumere per salvare la propria vita dalla fatwa dell’ayatollah Khomeini. Il libro racconta i suoi anni da «uomo invisibile», prigioniero in casa (in case sempre diverse), zittito,umiliato, minacciato, ricercato da squadre della morte. La sua colpa? Aver scritto I versetti satanici, un’opera sgradita agli islamici radicali. Rusdhie scrisse un libro, loro decisero di ucciderlo. in confronto a questa storia il caso Sallusti fa ridere. E il mio caso fa addirittura scompisciare. È successo che tempo fa abbiamo pubblicato un articolo su Claudio Scazzi (il fratello della povera Sarah, assassinata ad Avetrana) e una sua visita presso Lele Mora nell’ambito della quale i due avevano parlato anche della possibilità che il ragazzo facesse televisione. Scazzi si è sentito diffamato e ha querelato. La settimana scorsa, il pubblico ministero ha chiesto per me e il collega autore del pezzo una pena incredibile: due anni e sei mesi di galera! Per fortuna il giudice l’ha vista diversamente. Siamo stati assolti perché il fatto non sussiste (cioè abbiamo raccontato la verità) e comunque perché il fatto non costituisce reato (cioè, se anche avessimo inventato, non avremmo diffamato nessuno). Bene, per ora pericolo scampato. Qualcuno potrebbe trovare assurdo, o quanto meno esagerato, che venga chiesta ufficialmente una reclusione di due anni e mezzo per una vicenda così minuscola. Chissà che pena avremmo rischiato se avessimo scritto cose davvero pesanti, davvero diffamatorie. Eppure, il pm ha fatto il suo: ha chiesto una pena prevista dalla legge. già, la legge. Ecco il punto. In queste ore, proprio per «salvare il soldato Sallusti» si discute di un decreto che elimini la galera per i giornalisti. Ma, sostiene tra gli altri l’avvocato Caterina Malavenda (co-autrice di un bel libro appena uscito: Le regole dei giornalisti, Il Mulino), se si moltiplicano le pene pecuniarie viene comunque messa in pericolo la libertà di stampa, perché non sempre giornalisti ed editori avranno i soldi per risarcire. E quindi i cronisti preferiranno auto-censurarsi. Insomma, la questione è aperta. Mi viene però un dubbio. Non sarà che alcuni vengono assolti e altri condannati solo perché i primi hanno semplicemente scritto la verità?

Intanto Concetta Serrano ha ritirato la querela nei confronti di Fabrizio Corona per violazione di domicilio. La madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano, ha ritirato la querela per violazione di domicilio nei confronti del fotografo dei vip Fabrizio Corona. Secondo quanto denunciato dalla mamma della ragazzina uccisa ad Avetrana (Taranto), Corona si era introdotto nella sua abitazione il 26 febbraio del 2011. La donna aveva sentito dei rumori e se l'era trovato davanti. Lui si era accomodato in cucina, aveva tirato fuori un registratore dicendole di volerla intervistare. In cambio le offriva fino a 100mila euro. Era ora di pranzo. Concetta sentì dei rumori provenire dalla camera da letto e nel corridoio di casa si trovò davanti Corona. "E tu che ci fai qui?" disse la donna rimanendo pietrificata. "Come, non mi riconosci?" fu la risposta del fotografo. Corona chiese un bicchiere d'acqua ed in cucina accese un registratore spiegando a Concetta di essere lì per un'intervista che era pronto a pagare anche 50-100mila euro. Poco dopo arrivò a casa Scazzi la giornalista Filomena Rorro che aveva un appuntamento con Concetta. Ad aprire la porta di casa fu Fabrizio Corona. L'udienza che era prevista oggi 17 dicembre 2014 in tribunale quindi è stata cancellata; il paparazzo ha chiesto scusa alla Serrano e l'ha risarcita con qualche migliaia di euro. L'udienza, inizialmente fissata a marzo, poi slittata a luglio ed infine ad oggi, è stata cancellata perché Concetta Serrano, la mamma di Sarah Scazzi, la quindicenne strangolata nell'agosto 2010, ha ritirato la querela per violazione di domicilio in virtù di un accordo transattivo. Fabrizio Corona ha chiesto scusa a Concetta e versato un risarcimento di qualche migliaia di euro.

I guai di Corona con il tribunale di Taranto, però, non si sono limitati solo a questo episodio. Il chiacchieratissimo fotografo è stato anche condannato in primo grado dal giudice Benedetto Ruberto a 5 mesi per aver partecipato ad un'ospitata in discoteca a Martina Franca, in provincia di Taranto, violando gli obblighi di sorveglianza speciale a cui era sottoposto per altri procedimenti penali a suo carico, scrive “La Presse”.  "Concetta non ha mai avuto intenzione di vendicarsi o perseguitare Corona - spiega uno dei suoi legali Luigi Palmieri - ha sempre detto di volersi occupare solo del processo che riguarda l'omicidio della figlia".  Non mi piacciono i giochetti, non cerco lo scoop ad ogni costo” diceva, nell’ormai lontano 2011, Alessandra Borgia la protagonista, insieme a Barbara D’Urso dell’ormai famoso e triste siparietto organizzato con il cacciatore che trovò il cadavere del piccolo Loris nelle campagne di Santa Croce Camerina. Parole che stridono con questo spettacolo scoperto da Striscia la notizia, scrive “Blitz Quotidiano” il 18 dicembre 2014.

Alessandra Borgia, inviata a Santa Croce di Camerina per la trasmissione della D’Urso, ha infatti finto di incontrare casualmente il cacciatore Orazio Fidone, l’uomo che ha trovato il cadavere di Andrea Loris Stival. In realtà era tutto preparato. Il fuori onda di Striscia svela infatti che la giornalista e il cacciatore avevano un segnale convenuto per l’ingresso in scena dell’uomo. Nel 2011, intervistata da Infilitrato.it, invece Alessandra Borgia tutt’altra etica professava: “C’è una linea sottilissima che in questi casi è molto difficile non superare, perché magari vuoi trovare quella notizia in più per poter arrivare ad una possibile verità. Però io dico sempre che l’accanimento della redazione su un fatto di cronaca succede perché effettivamente c’è morbosità anche da parte del pubblico. È come se la gente volesse fare un vaccino comune attraverso queste situazioni, per capire da chi dobbiamo stare attenti e di chi dobbiamo preoccuparci. Le persone sono molto spaventate, ecco perché si legano in maniera quasi morbosa a queste vicende: tracciano identikit per autodifesa. Sarah Scazzi, Yara sono ragazze che fanno una vita normale, senza grilli per la testa e che vengono coinvolte in situazioni che nessuno si aspetterebbe. E questa normalità fa sì che il pubblico riveda in loro un proprio familiare, una nipote, una figlia, una vicina di casa. Ecco da dove nasce il legame morboso”.

Morbosità, però, non deve essere colpevolismo e comunque mai essere manipolazione della verità.

VENERDI’ 27 FEBBRAIO 2015. QUINTA UDIENZA DI APPELLO. FINALMENTE PARLA COSIMA SERRANO, MA CHI LE CREDE?

Sarah Scazzi ed il dibattimento a Taranto. Il processo maledetto nel foro dell’ingiustizia.

Il resoconto della giornata da parte dello scrittore Antonio Giangrande, che sulla vicenda ha scritto dei libri.

Chi segue le vicende giudiziarie sul delitto di Sarah Scazzi deve tener ben presente di quale foro si parli. Di quest’aspetto nessuno ha il coraggio di parlarne e per dovere di informazione prendo su di me questo greve fardello, prendendo spunto da quanto già è stato pubblicato dagli organi di stampa.

Ad oggi tutto stride con la osanna mediatica sinistroide dell’infallibilità dei magistrati, ma come emerge dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 dal presidente vicario della Corte d’Appello di Lecce, Mario Fiorella, il numero di processi proprio a carico di magistrati, anche tarantini, sono ben 113. Il dato ufficiale si riferisce ai procedimenti aperti nel 2013 ed il Distretto di Corte d'Appello comprende i Tribunali di Taranto, Brindisi e Lecce. Come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, sono stati infatti quelli i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. A ben vedere si scoprirà, certamente, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati! Ma non per tutti è stato così.

Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati. Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.

E poi ancora…andando indietro nel tempo. Corruzione al Palazzo di Giustizia di Taranto, interessi privati e intrecci poco chiari tra ambienti della magistratura, della questura e dell'imprenditoria locale. Sono stati rinviati a giudizio l'ex procuratore capo della Repubblica di Taranto, Giuseppe Raffaelli, 72 anni, sua moglie Giacoma Bianca De Filippis, 58 anni, e l'ex sindaco di Massafra (Taranto), il democristiano Orazio Bianco, 55 anni, tutti e tre accusati di concorso in interesse privato. Di corruzione dovranno invece rispondere l'ex sostituto procuratore Giuseppe Lamanna, 60 anni, e il presidente degli industriali di Taranto, Donato Carelli, 49 anni. Un altro magistrato di Taranto, l'ex sostituto procuratore Giuseppe Lezza, 47 anni, ha evitato il rinvio a giudizio perché il reato di corruzione contestatogli, fra gli altri, si è estinto per prescrizione.

Tra le vittime illustri delle campagne scandalistiche giudiziarie, si conta perfino l'ex procuratore capo della Repubblica di Taranto, Nicola Cacciapaglia, messo alle strette da alcune rivelazioni televisive che ricordano il "caso Thomas", il giudice americano di colore imputato di molestie sessuali. Anche qui il magistrato è finito sotto processo per abuso di poteri: l'accusa, secondo il rinvio a giudizio, è di "aver palpato la spalla e il seno" di una signora contro la sua volontà, "sbottonato i pantaloni, estratto il membro e facendo forza sulla testa" costretto la donna "a portare la bocca all'altezza del membro". Ingloriosa fine carriera di un alto magistrato, scriveva il 4 febbraio 1993 “Il Corriere della Sera”. Il Tribunale di Potenza ha condannato a venti mesi di reclusione (pena sospesa) e al pagamento di una provvisionale di cinque milioni di lire Nicola Cacciapaglia, 69 anni, procuratore della Repubblica di Taranto dall'87 al '90. I giudici lo hanno riconosciuto colpevole del reato di atti di libidine nei confronti di Anna De Pasquale, cinquantacinque anni, casalinga, di Taranto. I fatti risalgono al 1989, quando la donna chiese al magistrato di aiutarla a recuperare una figlia tossicodipendente che rischiava la prigione. Nell'ufficio del Procuratore, Anna De Pasquale visse momenti allucinanti: il magistrato non si fermò alle avance, ma le mise le mani addosso e per poco non la violentò.

La stampa spesso e volentieri, come si vede, ha fatto trapelare qualche nefanda notizia, di cui si fa scarno riferimento in questa sede, per non dimenticare, le cui vicende, però, sono analiticamente approfondite nel libro che parla di Taranto e di quello che non si osa dire.

Corruzione a Palazzo di Giustizia. Sono stati sorpresi mentre si scambiavano una mazzetta di quattromila euro. Così sono stati presi, in flagranza di reato, il giudice Pietro Vella e l'avvocato Fabrizio Scarcella. I due sono stati arrestati il 13 marzo 2012 su ordine di cattura firmato dal gip del Tribunale di Potenza su richiesta della locale procura della Repubblica che è competente per i procedimenti a carico dei magistrati di Taranto.

"Toghe sporche sullo Jonio. Se si trattava degli amici, la giustizia a Taranto poteva diventare strabica. E all'occorrenza anche cieca", titolava "La Repubblica". Da questa accusa si sono difesi due alti magistrati, il Procuratore Capo Aldo Petrucci ed il Gip Giuseppe Tommasino sospettati di aver pilotato alcuni procedimenti, approfittando del loro ruolo. Si trascina dietro una carica dirompente l'indagine condotta dai giudici di Potenza sul conto di toghe sino a poco tempo fa adagiate su poltrone strategiche del palazzo di giustizia ionico. Entrambi sono stati assolti.

Spesso però dei magistrati di Taranto si parla del loro operato nel segno del loro dovere, per alcuni considerato sbagliato.

Come si fa a salvare l’Ilva senza la collaborazione della procura di Taranto? Si chiede Luigi Amicone  su “Tempi”. Siamo stati facili profeti quando abbiamo ricostruito le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Eppure una via di uscita che non sia il fallimento o la statalizzazione si può ancora trovare. Due numeri a fotografare lo spartiacque tra cos’era prima della “cura” a cui è stata sottoposta dalla procura di Taranto e cos’è oggi, dopo tre anni di inchieste, arresti, sequestri, blitz della polizia giudiziaria, la più grande acciaieria d’Europa: da una media di utili annua che sfiorava i 100 milioni, Ilva è passata a perdite secche di 1 miliardo l’anno. Siamo stati facili profeti quando ricostruimmo le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria.

Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannati per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati (secondo le testimonianze) per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato con prove a sostegno la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il serial killer delle vecchiette, trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997.

Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri, ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.

Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Il Pm era lo stesso per tutti questi procedimenti: Vincenzo Petrocelli.

Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi. Per la Procura, che sostiene la tesi della colpevolezza di Sabrina e della madre Cosima per il delitto e la responsabilità di Michele Misseri solo per la soppressione del cadavere di Sarah, la ritrattazione della psicologa sono manna dal cielo, un supporto alle proprie tesi. Da tenere presente una cosa: trattare come veritiere le dichiarazioni di Dora Chiloiro rese nell’udienza preliminare e nella precedente testimonianza in Corte d’Assise o considerare quest’ultima trattazione come la vera verità? Certo che a rettificare la dichiarazione nello stesso procedimento, porta la Chiloiro a liberasi del fardello del procedimento penale per falsa testimonianza, non incorrendo così nelle conseguenze di carattere professionale. Questa cosa dà da pensare. Scegliere la propria carriera ed i propri interessi o salvare delle vite umane dal carcere? Una scelta di carattere pratico o una strategia difensiva, oppure cedere al rimorso della coscienza? Questa è solo una considerazione di carattere logico, non una diffamazione nei confronti di chiunque. Anche perché a Taranto ogni logica, anche giuridica viene disattesa. Taranto dove i magistrati si sentono anche legislatori.

E poi c’è signor Scialpi ed il 13 maledetto. Cerca di riscuotere la vincita dal 1981.

Come si fa a sfuggire dai magistrati di Taranto? Non si può!

Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che «turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull'arresto di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo la fuga di notizie che l'aveva preannunciato («Fu un tentativo di linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò versione più volte, accusò sua figlia dell'omicidio e tornò di nuovo al primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»). Per riassumerla con le parole di Coppi: «L'abbiamo sempre detto, in questo procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c'è serenità è giusto trasferirlo».

Ma il processo resta a Taranto ed è qui che, nel proseguo in appello, parlerà Cosima Serrano.

L’avv. di Cosima Serrano, Franco De Jaco, parla ai microfoni di una tv locale e sottolinea l’innocenza delle due donne condannate all’ergastolo in primo grado per l’omicidio della quindicenne di Avetrana. «Penso che voglia confutare, sostanzialmente, tutto ciò che è emerso sino ad oggi - dice l’avv. Franco De Jaco – Poi sarà creduta o non sarà creduta, questo per lei è relativo. Vuole liberarsi, sostanzialmente, del fatto che la gente pensi che lei non voglia rispondere alle cose. Vuole rispondere, però, chiaramente ci sono delle scelte tecniche che abbiamo fatto noi e che fino adesso le hanno impedito di assolvere a questo suo desiderio. Adesso lo vorrà affrontare e lo affronterà. Tanto, voglio dire, alla fine conosce benissimo lo spirito di questo processo e quindi…» Continua De Jaco. «Be’ vedremo in una sede terza come si svolgeranno i fatti. Ma assolutamente. Andremo in cassazione tranquillamente. Tanto l’ho sempre detto: questo è un processo che si risolve in Cassazione, visto che c’è una pressione mediatica tale che non c’è serenità in nessuno. Oggi è un’udienza di transizione. E’ stato nominato il perito. Per cui sarà affidato quest’incarico, poi noi valuteremo. Penso sempre che ci sia una giustizia, però se questo è lo spirito, purtroppo dobbiamo affrontarlo. Mi dispiace che due innocenti stanno in carcere.»

Anche Lillino Marseglia, l’avvocato di Sabrina Misseri, dice la sua ad una tv locale sull’intenzione di Cosima Serrano di rendere dichiarazioni in aula. «Ho avuto la netta impressione che volesse rendere delle…non solo delle sommarie dichiarazioni per rivendicare genericamente la sua estraneità ai fatti o proclamare la sua innocenza. Credo che voglia fare un racconto completo di tutta questa vicenda perché non è mai stata sentita. Solo ora. Ne parlavamo con il collega. Spesso e volentieri gli imputati sono anche prigionieri delle strategie processuali. Ci sono tanti motivi. Spesso il silenzio non coincide con la reticenza. Spesso viene imposto per ragioni diverse. Parlerà. Sicuramente parlerà. E come dicevo prima, non si limiterà a fare un racconto proprio di maniera, di stile “sono innocente, sono detenuta senza motivo”. Credo che voglia raccontare i fatti in maniera articolata e poi dovrebbe essere, comunque, una cosa di sicuro interesse processuale, perché Cosima Serrano non ha mai parlato».

Il professor Coppi vuole arrivare presto in Cassazione  per dimostrare l’innocenza di Sabrina. «Questo ergastolo è il più grande cruccio della mia carriera», ha spiegato in un’intervista alla giornalista Ilaria Cavo. «Ci sto consumando la mia vita, perché sapere che una ragazza di 23 anni – per me innocente – sta marcendo in carcere con una condanna all’ergastolo, mi toglie il sonno». «Sabrina è innocente» continua a sostenere Coppi in tutte le sedi, anche quando si occupa di vicende complesse e complicate come quelle dell’ex premier Silvio Berlusconi oppure, restando in ambito tarantino, dell’Ilva, visto che difende delle società della famiglia Riva (fatto che lo porterà a rinnovare il duello con gli stessi pm e probabilmente con gli stessi giudici togati della corte d’assise).

«Insomma chiunque abbia riferito fatti e ricordi favorevoli alle tesi difensive adesso rischia di trovarsi sotto processo» commenta Franco De Jaco, difensore di Cosima. Su Avetrana una cappa di dubbi, dolore e rabbia. Mentre a via Deledda, la strada della villetta Misseri, continua il via vai di telecamere e curiosi.

«Il giorno in cui è stata uccisa mia nipote Sarah Scazzi, avevo lavorato nei campi con una temperatura di 38 gradi, per cui non potevo avere sufficienti energie per fare quello che i magistrati dicono che ho fatto». Per la prima volta da quando è stata arrestata (era il 26 maggio del 2011), Cosima Serrano, mamma di Sabrina Misseri con la quale divide la cella e la condanna all’ergastolo perché accusate di avere ucciso la nipote quindicenne, dirà questo ed altro per convincere della sua innocenza la Corte d’assise d’appello che la deve giudicare. Dal carcere di Taranto dove è rinchiusa, la donna anticipa attraverso uno dei suoi legali, l’avvocato leccese Franco De Jaco, quello che dirà in aula, con un’intervista rilasciata a Nazareno Dinoi sul Corriere del Mezzogiorno / Corriere della Sera/ La Voce di Manduria.

La sua assistita si è sempre rifiutata di parlare davanti ai magistrati, lo farà domani. Cosa dirà per convincere i giudici della sua innocenza?

«Oltre a ribadire l’assoluta estraneità all’omicidio, ricostruirà minuto per minuto il suo agire dal momento in cui si allontanò da casa, e cioè dalle 3 della notte alle 13,30, 13,40 di quel 26 agosto, dimostrando come – considerata la fatica a cui si era sottoposta lavorando nei campi con una temperatura media in quel lasso di tempo di 36/38 gradi -, le sarebbe stato difficile se non impossibile avere sufficienti energie per dare corso a tutto quello che le si contesta. Spiegherà anche come non poteva covare nessun risentimento nei confronti della sorella Concetta per la quale più volte si era sacrificata in suo favore accudendola e addirittura convincendola a fare pace con il padre adottivo. Parlerà anche dei ricordi che la legano con Sarah e di quanto fosse legata a lei da trattarla come una terza figlia».

Sarà sufficiente questo, a sua avviso, per cancellare la condanna all’ergastolo avuta in primo grado?

«Bisogna credere nella serenità dei magistrati per poter sperare. Ciò che non si è voluto vedere fino ad ora, potrebbe essere correttamente e, finalmente, secondo giustizia, portato alla luce. Ovviamente se ciò non dovesse accadere, il nostro sistema ci offre un’ulteriore possibilità che intenderò sfruttare senza dispendi di energie perché fermamente convinto dell’innocenza della mia assistita».

E’ plausibile, secondo lei, un verdetto di assoluzione per Cosima e uno di condanna per sua figlia Sabrina?

«La giustizia italiana è sempre foriera di novità e incongruenze, pertanto, alla luce delle risultanze processuali, non mi sembra possibile ritenere Sabrina responsabile dell’assassinio della cugina e men che meno che Cosima possa essere ritenuta connivente o sua complice. Tuttavia, considerando che sino ad oggi, prima gli inquirenti e poi la Corte, tutti hanno ritenuto di individuare alternativamente ben quattro diversi moventi per giustificare l’azione penale contro Cosima e Sabrina – ricordo prima la gelosia di Sabrina, poi il conflitto familiare tra Cosima e Concetta, poi ancora i segreti inconfessabili di Sabrina, e poi ancora ed in ultimo il presunto odio di Cosima nei confronti della sorella -, considerato questo, può essere possibile anche un verdetto così clamoroso».

Avvocato De Jaco, a tre anni dall’arresto quali sono le condizioni di Cosima?

«Cosima è distrutta moralmente. Il suo vero dramma, quello che la distrugge intimamente, è la condizione vissuta da sua figlia Sabrina. Il suo vero cruccio, più che il suo, è il futuro della ragazza che rischia di restare in carcere a vita. Le condizioni fisiche e psicologiche di entrambe, poi, ve le lascio immaginare: restare rinchiuse tre anni in cella da innocenti, sopportare un processo per difendersi da un’accusa così infamante, sono esperienze che demolirebbero chiunque».

Cosa prova Cosima per suo marito Michele Misseri? Le ha mai espresso il desiderio di incontrarlo?

«E’ una ipotesi questa che esclude del tutto. Cosima mi ha ripetuto che non ha intenzione di avere alcun rapporto con il Misseri perché lo ritiene colpevole dell’omicidio della nipote Sarah ed anche di tutto ciò che oggi sta patendo la figlia Sabrina a causa delle sue sconclusionate dichiarazioni che hanno poi ingenerato l’assurda e incredibile accusa per entrambe. Non ne suole più sentir parlare di lui. Per quello che ha fatto mio marito, mi dice, non posso che provare aperto sentimento di condanna che m’impedisce ogni residuo sentimento nei suoi confronti».

E nei riguardi di sua sorella Concetta, mamma di Sarah, quali sono i suo sentimenti?

«Per Concetta non prova risentimento ma forte amarezza. Cosima è amareggiata perché malgrado la sorella sappia quanto affetto la legava a Sarah, dubita ancora della buona fede sua e di Sabrina. Ovviamente fino a quando Concetta avrà di lei questa considerazione, pur giustificandone il dolore, non mi pare che Cosima voglia mai incontrarla».

Questo il testo integrale della dichiarazione che Concetta Serrano ha consegnato al suo avvocato Nicodemo Gentile: "In quattro anni (Cosima, ndr) non ha mai parlato, rifiutandosi di rispondere in tutte le occasioni in cui le è stato chiesto. Questo sta ad indicare che, parlando solo ora, ancora una volta si vuole arrampicare sugli specchi, proferendo ulteriori menzogne e infangando cosi nuovamente la memoria di Sara".

Anche uno dei due difensori della ragazza, l’avvocato manduriano Nicola Marseglia, ha risposto ad alcune domande poste da Sara Piccione e pubblicate su “La Voce di Manduria”.

A distanza di quasi cinque anni dall’arresto, quali sono le attuali condizioni fisiche, psicologiche e morali di Sabrina Misseri nel penitenziario tarantino?

«Le condizioni di salute sono croniche nel senso che è una depressa ed è una depressione derivante da una carcerazione che si protrae ininterrottamente da circa 5 anni a carico di una ragazza che quando è entrata in carcere era poco più che ventenne e che rivendica la sua innocenza a tutto tondo. Quindi diciamo la carcerazione come fatto completamente destabilizzante rispetto al suo stile di vita, alla sua personalità, acuita dalla sofferenza per l’ingiustizia che sta subendo. Ecco mi faccio interprete del suo pensiero, delle sue sensazioni. Se scendiamo nel dettaglio clinico, lei è sottoposta a terapia di interesse neuropsicologica, è sottoposta ad una terapia farmacologica oltre a quella psicologica con gli operatori del carcere».

Sabrina è fiduciosa nella giustizia e negli esiti che ne potranno derivare dalla Corte d’assise d’appello?

«È fiduciosa nella giustizia con i timori connessi alla piega che ha preso il processo. La condanna per tutti i reati, che le sono stati contestati da parte della corte d’assise, fanno ritenere abbastanza complicato la riforma della sentenza, ma ciò è non soltanto la sua aspirazione, che poi è quella di tutti i soggetti che si trovano nelle sue condizioni, però al fondo c’è la convinzione che prima o poi la verità verrà galla. Lei rivendica, e lo ripeto per la seconda volta, la sua assoluta innocenza in tutta questa vicenda ed è una vicenda irripetibile dal punto di vista processuale e non solo, e quindi l’aspettativa di una riforma della sentenza c’è tutta, nonostante la percezione delle difficoltà oggettive che ci sono».

La Corte ha disposto la trascrizione della telefonata intercorsa tra Sabrina e il padre Michele Misseri avvenuta la notte tra il 6 e il 7 ottobre 2010 per confrontarla con quella precedente già in atti. In che misura potrebbe variare la posizione di Sabrina Misseri?

«Sono accertamenti complementari che non rivoluzionano il quadro probatorio e soprattutto l’interpretazione del dato probatorio, che è la cosa più importante. Si tratta di elementi che possono contribuire ad una riconsiderazione delle cose. Siccome questa telefonata è una telefonata che è intercorsa tra padre e figlia la sera in cui lui fu arrestato e quindi era una telefonata nella quale cambiava tutto. Nessuno poteva immaginare quello che poi sarebbe venuto fuori, la confessione di Michele Misseri. Si offre attraverso la trascrizione di questa conversazione, per il momento in cui è intervenuta, un’occasione ai giudici della corte d’assise d’appello per ripartire da zero nel rapporto padre-figlia in relazione al delitto. Si parla finalmente di queste cose, si potrebbe cercare di capire gli stati d’animo dell’una e dell’altro. Si fa fatica a pensare che possa essere una telefonata concertata, perché, insomma, le circostanze di tempo e di luogo sono tali che non è possibile arrivare a questo tipo di riserva mentale. E’ certamente una conversazione, una telefonata genuina dalla quale è possibile partire per fare una riflessione».

Naturalmente lei, avvocato, crede nell’innocenza della sua assistita, vero?

«Si, io credo nell’innocenza della mia assistita, soprattutto perchè le sono stato vicino in tutto questo tempo. Probabilmente quando ho assunto questo incarico, la fase delle indagini preliminari era abbastanza avanzata ed io sono intervenuto quando la prima parte delle indagini era già stata effettuata, buona parte delle indagini era già stata impostata, la Misseri era già detenuta e sono entrato con quelle perplessità che mi derivavano da quell’intossicazione mediatica che aveva dipinto la Misseri come la vera colpevole, l’unica colpevole, poi successivamente è stata incriminata anche la madre. L’opinione pubblica era stata sapientemente orientata dai mezzi di informazione, e non solo, in una certa direzione. E col tempo, non solo per mestiere, ma proprio per una vicinanza che si è protratta con lei, sono stato persuaso della sua innocenza e certamente il processo è denso di ingiustizie che vanno corrette».

All’udienza di venerdì 27 febbraio 2015 in aula erano presenti i tre principali imputati: le due detenute Sabrina Misseri, cugina della vittima, e la madre Cosima Serrano, condannate all'ergastolo in primo grado per omicidio volontario, sequestro di persona e concorso in soppressione di cadavere, e Michele Misseri, marito di Cosima, condannato in primo grado a otto anni per soppressione di cadavere.

La verità di Cosima: “Se Sarah si fosse confidata con me si sarebbe salvata”. La zia della vittima: “Io ho la tv accesa anche di notte, è difficile sentire cosa succede nel garage”. Questa è l’intervista rilasciata in esclusiva a La Stampa, il 23 marzo del 2011, da Cosima Misseri. La prima volta in cui la donna ha parlato con i giornalisti. La ripubblica Maria Corbi nel giorno in cui a Taranto riprende il processo d’Appello per l’omicidio di Sarah Scazzi. Udienza in cui sono attese sue dichiarazioni spontanee.  L’hanno chiamata la sfinge di Avetrana, la donna misteriosa che custodisce i segreti di famiglia, l’arpia che comanda a bacchetta il marito, che lo fa dormire su una sdraio e lo nutre di avanzi. Cosima Misseri non ha mai risposto a queste che definisce «calunnie». Fino ad oggi, che ha deciso di farlo attraverso La Stampa e la trasmissione Matrix che andrà in onda questa sera. Quando entra nella stanza del suo avvocato, Francesco De Iaco, si guarda intorno, gli occhi si abbassano, come ha imparato a fare in questo tempo in cui l’alzarli ha significato ricevere sguardi di odio e di sospetto. E’ dimagrita molto, una ventina di chili, consumata dal dolore, non certo per dar retta a chi per offenderla sui giornali l’ha definita obesa, cicciona, megera. I capelli bianchi sono tirati indietro da un cerchietto, nero, come i vestiti. Gli occhi stanchi guardano da dietro le lenti e sembrano non avere luce, appannati dalle lacrime. Parla con dolcezza, non c’è traccia della Cosima che ci hanno raccontato. Per giorni il tamtam delle notizie ha parlato di un suo imminente arresto. E lei, rassegnata al destino che le sta portando via tutto, si era accorciata i pantaloni e preparata la borsa nonostante non sia mai stata nemmeno indagata. Tutti ricordano l’immagine di lei che tira dentro il garage il marito Michele, e tutti hanno interpretato quel gesto come quello di una donna che comanda con arroganza. E lei vuole partire proprio da questo. «Io l’ho fatto per difenderlo, perché non volevo che parlasse delle cose dette in caserma altrimenti si sarebbe trovato nei guai. I carabinieri sempre ci dicevano che non dovevamo parlare».

Chi è Cosima Serrano?

«Certamente non sono come mi hanno descritta, sono una donna e una moglie come tante altre, forse più di altre. Ho sempre cercato di dare il meglio al marito e ai figli e alla casa. Ho lavorato non molto, moltissimo e ancora oggi lo faccio».

L’hanno definita una donna misteriosa, con dei segreti, la mente di un delitto di famiglia.

«Io sarei stata la prima ad andare dai carabinieri se avessi saputo che Sabrina era colpevole. Misteriosa? Certamente non sono una pettegola, una che si ferma con le vicine, non ne ho mai avuto il tempo. Di quel maledetto giorno io non ricordo tanto, ma è la verità. Il problema è che molti ricordano il falso. Per esempio hanno detto che sono andata in banca mentre ero al lavoro. E se non ci fosse stata quella firma falsa a scagionarmi io adesso sarei in prigione».

Cosa ricorda?

«Quando stavo andando a riposarmi dopo pranzo Sabrina era già a letto. Ricordo solo lo squillo del messaggio e che poi Sabrina ha detto “devo avvisare Sarah che dobbiamo andare al mare” e poi lo sbattere della porta e ancora Sabrina che chiede al padre se era arrivata Sarah».

Gli investigatori cercano di spostare l’omicidio di Sarah in casa e qui entra in gioco la porta che dalla casa porta al garage dove hanno trovato una macchia che comunque pare non sia di sangue.

«Io non ho mai pulito quella porta perché sono tranquilla. Altrimenti lo avrei fatto, non le pare? Sono 7/8 anni che non è mai stata aperta. Non so come l’abbia chiusa Michele, ma so che non c’era la maniglia e c’erano bidoni di olio, vasetti della salsa vuoti davanti. Se avessi sentito litigare in casa, avrei detto smettetela».

E in casa si sentono le cose che accadono in garage?

«Io sono sempre con la televisione accesa, anche di notte, e quindi è difficile sentire qualcosa dal garage».

Perché Sarah è andata al garage dallo zio invece che suonare al citofono come sarebbe logico?

«Il campanello del citofono è accanto al mio letto. Io mi lamentavo spesso perché mi disturbava quando suonava a quell’ora. Forse ha visto la porta del garage aperta e si è affacciata aspettando che Sabrina uscisse».

Cosa le ha raccontato suo marito?

«Lui dice che quel giorno stava arrabbiatissimo per il trattore e Sarah gli ha chiesto “zio, perché urli?”. Lui le ha detto “vattene che è meglio”, ma Sarah ha continuato. Allora lui l’ha spostata di peso e poi le ha buttato la corda».

Ha mai avuto un sospetto su suo marito?

«Se non avesse fatto ritrovare il corpo non ci avrei mai creduto, mai e poi mai». E quando ha ritrovato il cellulare di Sarah? «Ho pensato che era strano. Proprio lui lo doveva trovare? Se fosse stata Sabrina avrebbe fatto ritrovare il cellulare? Invece Michele ha subito chiamato la figlia per chiederle come era fatto il cellulare di Sarah e lei ha spiegato come era. Se fosse stata lei a uccidere Sarah gli avrebbe detto: “Papà, ma sei pazzo?”».

Lei subito dopo la confessione di Michele aveva giurato di non voler vedere più suo marito neanche da morto. Invece non è andata così. E in molti pensano che lei ci vada per fare pressioni in modo che ritratti le accuse su sua figlia.

«Se avessi voluto coprirla, come dicono, però sarei andata subito da Michele per tranquillizzarlo. E non l’ho fatto. Quando poi ho saputo il motivo per cui ha accusato sua figlia, allora mi sono detta: “Non lo abbandonerò”».

E i motivi per cui ha accusato Sabrina ce li può spiegare?

«Meglio di no. Lo sanno i carabinieri».

A un certo punto hanno arrestato suo cognato e suo nipote.

«Altri innocenti in galera».

Sabrina cosa dice?

«E’ arrabbiata con il padre, non capisce perché deve rimanere in galera. Se fosse colpevole starebbe più tranquilla. I chili che sta perdendo mia figlia li sta prendendo mio marito che si è liberato la coscienza».

Si era mai accorta di molestie di Michele nei confronti di Sarah?

«No, non so se le cose che ha detto sono vere o se le ha dette per incolparsi di più. Però se mi avessero detto dei 5 euro che le regalava mio marito raccomandandosi di stare zitta, lui che non dava mai un centesimo a nessuno, mi sarei allarmata, avrei fatto delle domande, forse l’avrei salvata».

Lei non è mai andata sulla tomba di Sarah, perché?

«Perché per me pensarla sotto terra è un dolore troppo forte. Quando verrà Sabrina andrò con lei. Sarah è come se fosse sempre in casa. Io l’ho sognata due volte, dietro il cancello che suonava: “Sono io, zia, apri, apri”».

Siamo ad oggi 27 febbraio 2015. Cosima piange e si continua a professare innocente. Ha parlato per più di un’ora e mezza, Cosima Serrano, la donna condannata in primo grado all’ergastolo insieme a sua figlia Sabrina Misseri per avere ucciso Sarah Scazzi, rispettivamente nipote e cugina delle due, il 26 agosto 2010. Dopo quattro anni di silenzio oggi, nel giorno in cui a Taranto si è riaperto il processo d’Appello, la zia della vittima rilascia, per la prima volta, dichiarazioni spontanee. Piange Cosima mentre racconta la sua verità, mentre parla di Sarah, del carattere un po’ chiuso e timido di sua nipote. Del perché non ha parlato prima e durante il processo. «Me lo ha consigliato il mio avvocato, tanto non mi avrebbero creduta». I ricordi di quei giorni, di quelle ore si affastellano, perdendo a volte il filo del discorso. Troppe cose da dire, da ribattere, da chiarire. Mentre parla Cosima ha un foglio in mano che non ha mai letto, e sta parlando a braccio da più di un'ora.

Il giorno della scomparsa di Sarah.

«Il 26 agosto sono andata a lavorare la mattina, siamo andati fra San Giorgio Jonico e Taranto, sono tornata non prima delle 13.30 e a casa non c’era nessuno. Sono andata in bagno non c’era nessuno, ho mangiato, poi sono andata a letto e lì c’era mia figlia che stava dormendo. Ho acceso la tv perché sto più tranquilla, il silenzio mi dà fastidio. Sarah quando sapeva che io lavoravo non suonava il campanello, magari faceva uno squillo. Questo non lo dico solo io, lo dice anche Claudio, il fratello. Ha raccontato lui stesso che un pomeriggio Sarah lo ha fermato, mentre stava citofonando dicendo “la zia sta riposando”. Dopo un po’ ho sentito un messaggio e mia figlia mi ha detto "devo andare al mare, mo’ avviso Sarah".Dormivo e non dormivo, Sabrina stava col telefonino in mano, si è alzata, mi sono tranquillizzata quando ho sentito sbattere la porta. Dopo alcuni secondi ho sentito dire "Papà, hai visto arrivare Sarah?" e poi ha chiesto a me aggiungendo "perché Sarah non c’è". Ho detto magari è successo qualcosa in strada, forse l’hanno investita e portata in ospedale e ho chiamato mia sorella dicendole di telefonare in ospedale. A quel punto mi sono vestita per andare dai carabinieri, ho incontrato mia sorella che andava in caserma per informarli. Mia figlia mi ha detto "facciamo un pò di giri in auto". Abbiamo incontrato Mariangela Spagnoletti e un’altra amica, poi sono tornata a casa. Dopo la scomparsa di Sarah ho pensato avesse avuto un incidente. Il 26 agosto 2010, quando Sarah scomparve, ho detto "magari è successo qualcosa in strada, forse l’hanno investita e portata in ospedale", e ho chiamato mia sorella dicendole di chiamare in ospedale. "Se ha fatto una cosa di queste uno schiaffo se lo merita", dissi sperando che Sarah fosse andata via con un amico. Per questo l’ho detto. Purtroppo non è stato così. Durante la notte pensavo cosa poteva essere successo. Il pensiero è stato: o l’hanno presa per violentarla oppure qualcuno di San Pancrazio l’ha adocchiata, magari qualcuno che ce l’aveva con mio cognato. Queste cose le ho dette ai carabinieri, a mia sorella e a mio cognato. Ma cosa poteva essere successo? E’ sempre uscita con Sabrina, anche di notte, e non è mai successo niente, e adesso succedeva di giorno?».

La lite di Sarah con Sabrina.

«Quella mattina non ha litigato affatto con Sabrina».

Sarah e la madre.

«Si dice che dopo 3 giorni l’ospite puzza. Non è mai puzzata Sarah, è sempre venuta a casa nostra. E quando parlava male della madre io la difendevo e le spiegavo che doveva capirla, che avrebbe capito, quando sarebbe diventata lei mamma, che la sua aveva ragione. Le brave mamme sono proprio quelle che rimproverano».

Sarah ed il padre delinquente.

«Alcuni amici di Sarah le dicevano che il padre era un delinquente. Non ho mai detto questo, lo può dire anche Claudio (fratello di Sarah, ndr). A mio cognato chiedevo se c’era qualcuno che ce l’aveva con lui. Hanno detto che ho accusato mio cognato, ma non l’ho mai fatto e mia sorella lo sa. E anche i pubblici ministeri lo sanno.»

La sorella Concetta.

«Si è parlato tanto di invidia e gelosia, ma non è vero, quale rancore? Ci siamo sempre aiutati l’un l’altro tra genitori e sorelle, quando Concetta ha avuto bisogno di me sono stata sempre presente, sempre a disposizione, non me lo facevo ripetere due volte. Parla male di me, ma nel cuor suo sa che non c’entro niente. La comprendo perché ha perso una figlia e quindi non me la prendo per quello che dice. Anche io lo avrei fatto».

Sabrina e Ivano.

«Dicono che abbiamo ucciso Sarah per la vergogna della gente. Ma chi se ne frega della gente? Ivano non era sposato, cosa c’è di male? Non mi importa della vergogna che dice la gente. Mia figlia è una persona con la testa sulle spalle. Tutti sapevano che a Sabrina piaceva Ivano. Anche io lo sapevo. Era un bravo ragazzo. E, per me, il fatto che si appartassero in auto, non era un problema, tutti i ragazzi lo fanno. Anzi, io avrei preferito che, se si dovevano proprio appartare, lo avessero fatto in casa. E non in macchina perché è pericoloso. Ero tranquilla, non le ho mai chiesto di Ivano. Mi preoccupavo solo quando non rientrava. Mi addormentavo solo quando sentivo la sua voce»

Il marito Michele.

««Prima del ritrovamento del telefonino, il giorno prima, i carabinieri hanno chiamato mio marito, poi Sabrina, poi me. Quando sono stata interrogata mi hanno chiesto cosa avevo fatto quel giorno. E poi mi hanno domandato dove si trovava mio marito. Mi chiesero dove si trovasse Michele Misseri, all’ora di pranzo del 26 agosto 2010, risposi “che stava in casa”. Ho risposto a casa. Ma a casa dove? Per me in camera, in bagno, in giardino, in cantina, sempre a casa era. Ma loro volevano saperlo precisamente. Non ricordavo bene. Era a casa, ma non ricordavo esattamente dove. Siccome insistevo a dire non ricordo, quando poi mi ha interrogato il pm mi ha detto “dicevi che era sulla sdraio”, e io ho detto “mettete pure che stava sulla sdraio”. Se uno le cose non le ricorda le deve dire per forza? Mio marito ha tentato di aggredirmi due volte. La prima con un'accetta, la seconda volta in campagna con una pietra»

Anna Pisanò ed il fioraio.

«Il fioraio racconta un sogno, è assurdo che Sarah si trovasse lì in strada e Anna Pisanò ha amplificato un sogno. Quel giorno Sarah non l’ho vista proprio, l’ho vista la sera prima. Dice di vedermi correre in mezzo alla strada. Inseguire Sarah. Io non ho mai corso in vita mia, ero tornata da poco a casa dopo sei ore di lavoro nei campi con un caldo di 40 gradi. Ero anche più robusta di ora. E poi cosa aveva fatto Sarah per scappare da me? Noi abbiamo visto Sarah l'ultima volta la sera prima, quella mattina non l'abbiamo vista proprio. Lei sapeva che riposavo dopo il lavoro nei campi, non suonava neanche il campanello»

Alessandra Spagnoletti.

«Anche la ragazzina, Alessandra Spagnoletti, ha raccontato le cose come una poesia, era impossibile che potessi essere vestita come dice lei».

La Giustizia.

«Sono passati 2015 anni e Gesù Cristo venne condannato dal popolo. Se allora tutti vogliono che siamo condannate... Oggi tutti i giorni vengono condannati degli innocenti. Noi non abbiamo fatto niente. Io ero a casa a quell’ora. Alla fine dopo 40 anni che uno è stato condannato si scopre che è innocente. O perché si sono sbagliati o perché non vogliono dire di avere sbagliato. Gesù Cristo è stato condannato dal popolo e il giudice ha fatto quello che voleva il popolo. Non è giusto. Gesù lo volevano tutti condannato e ancora oggi vengono condannati degli innocenti. Noi a Sarah abbiamo fatto sempre del bene».

La risposta di Concetta, mai scalfita da ogni ombra di dubbio, non si è fatta attendere. «Cosima deve prendere la sua responsabilità e raccontare la verità. Siamo sempre allo stesso punto, non ha fatto altro che ripetere quello che ha detto prima. Non credo che da lei uscirà la verità. Evidentemente sta studiando religione.»

Oggi il perito nominato dalla corte d'assise d'appello ha depositato la trascrizione di tre telefonate sfuggite al processo di primo grado. Una telefonata è quella intercettata fra Sabrina e suo padre, Michele Misseri, durante la notte fra il 6 ed il 7 ottobre 2010, quando il contadino rivelò agli investigatori il luogo dove era nascosto il corpo della nipote, dichiarandosi responsabile del delitto. "Però papà perché lo hai fatto? Io non me lo so spiegare! Tu non hai fatto mai niente di male, perché quel momento? Che ti è successo?" dice al telefono Sabrina parlando al padre, subito dopo che si era diffusa la notizia della confessione. "Non lo so!", risponde lui, "Poi parliamo!" replica la figlia. Frammenti di conversazione sui quali la difesa vuol tentare di aprire una breccia su un processo difficile. Si cerca di sostenere che Sabrina fosse ignara ed incredula alla notizia del coinvolgimento del padre nel delitto. Per la procura, invece, Sabrina sapeva di essere intercettata e fingeva fin dalle prime fasi del ritrovamento del corpo di Sarah.

In aula è stata riascoltata anche gran parte di un lunga telefonata tra Giuseppina Scredo e Cosima Prudenzano, rispettivamente moglie e suocera di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana (Taranto) che riferì agli inquirenti, per poi dire che si era trattato di un sogno, di aver visto il 26 agosto 2010 (giorno dell’uccisione di Sarah) Cosima Serrano costringere la quindicenne a salire a bordo della sua auto, dove – secondo l’accusa – probabilmente c'era anche Sabrina. Buccolieri è indagato in un altro procedimento per false dichiarazioni al pubblico ministero.

La prossima udienza, definita “interlocutoria”, è prevista per il 13 marzo e verrà dedicata al deposito e alla discussione di una memoria tecnica preannunciata dall’avvocato Nicola Marseglia, uno dei difensori di Sabrina Misseri. Le udienze successive sono state fissate per il 27 marzo (discussione , mattina e pomeriggio, del sostituto procuratore generale Antonella Montanaro che rappresenta l’accusa), il 1° aprile (interventi delle parti civili e della difesa di Michele Misseri), il 10 aprile (interventi dei legali di Cosima, anche per loro mattina e pomeriggio), il 17 aprile (interventi dei difensori di Sabrina, gli avvocati Nicola Marseglia e Franco Coppi), il 24 aprile (previsti gli altri difensori).

La sensitiva Rosemary a Adriana Costanzo di Retenews: “Ho avvertito cosa nasconde Cosima, Ecco l’infausto segreto”.

“E’ stata aggredita alla spalle, l’ha colpita alla testa. Lui ha tra i 40 e i 45 anni, carnagione e capelli scuri. E’ cattivo, malvagio, la uccide. Lascia il corpo non lontano dal posto dove l’ha aggredita. Non l’ha seppellita. Lui verrà trovato presto, la pagherà”. Era il 23 novembre e Gilberta Palleschi, la professoressa di Sora, era ancora ufficialmente scomparsa. Eppure, lì, sul luogo dove erano stati trovati i suoi oggetti personali una sensitiva si accascia al suolo, sbianca in volto e ha una visione. Si scoprirà solo qualche settimana dopo che la sua versione corrispondeva a realtà, purtroppo. Tutto in ogni minimo dettaglio. Lei si chiama Maria Rosa Laboragine di Montegrotto, ma tutti ormai la conoscono come la vegente Rosemary. Il caso di Gilberta non è l’unico che ha risolto con una precisione nei dettagli quasi da brividi, come diranno poi i testimoni dell’accaduto. Una sensibilità che Rosemary ha sviluppato negli anni e che mette gratuitamente a disposizione di chi ha cari scomparsi o defunti, lavorando, a volte, anche al fianco degli inquirenti. Una dote che per gli ultimi avvenimenti potrebbe essere utile. Tanti, forse troppi, infatti, i casi di omicidio irrisolti. Tante le sparizioni. E così Rosemary rivela a Retenews24 quello che lei ha avvertito per gli ultimi gialli ormai infaustamente agli onori della cronaca. “Ad Avetrana, sento che stanno sbagliando tutto. Ho avvertito la piccola Sarah morta nel garage, uccisa dallo zio Michele. Sabrina, per quanto non mi risulti simpatica, la sento innocente. Nelle mie visioni vedo la piccola uccisa da Michele che poi ha chiesto aiuto alla moglie. Infatti ho visto Cosima, la mamma di Sabrina, spogliare Sarah dei suoi vestiti prima che fosse gettata nel pozzo. Michele è stato aiutato anche dai suoi complici. Quella bambina non avrà ancora giustizia”. Una visione quella di Rosemary che contrasta con i sentimenti dell’opinione pubblica e con l’ultima sentenza che vede la giovane Misseri, colpevole del delitto della cuginetta. In questi giorni il processo di appello durante il quale Cosima Serrano, sorella di Concetta, la mamma di Sarah, ha detto di voler parlare e forse rivelare nuove verità. Ma anche sul caso di Roberta Ragusa la vegente pare non avere grandi dubbi: “Roberta non la troveranno mai più, il marito l’ha bruciata e ha gettato le ceneri in acqua. Io ho avuto una visione di come siano andate realmente le cose e c’è anche un testimone che dice il vero e sa – dice Rosemary – I due, moglie e marito, hanno litigato fuoriosamente dentro l’autoscuola. Poi sono entrati in macchina e li, lui l’ha uccisa per poi bruciarne il corpo. Su questo caso verrà fatta giustizia”. E ancora sul caso di Meredith Kercher, la studentessa uccisa a Perugia: “Dissi al padre di Raffaele Sollecito, prima dell’ultimo processo, che il figlio sarebbe stato assolto. Ma non giustamente. Secondo le miei sensazioni infatti, i due sono entrambi colpevoli, sia Raffaele che Amanda”.

Di Sabrina Misseri si è interessato anche il criminologo Carmelo Lavorino che in lei vede un’innocente. Carmelo Lavorino le ha mandato il suo libro, «Il delitto di Arce», storia della fine assurda della diciottenne Serena Mollicone e calvario d'un perfetto colpevole poi risultato innocente: Carmine Belli, il carrozziere che si fece 17 mesi di galera prima di essere scagionato.

Tutti contro "il bugiardo" Michele Misseri, scrive Carmelo Lavorino su Affaritaliani. Noto che tutte persone che hanno puntato l’indice accusatorio della “colonna infame” contro Sabrina Misseri, da quando venne sospettata da (quasi) tutti e poi accusata  dal padre Michele di essere l’assassina di Sarah Scazzi, oggi, dopo l’autoaccusa confessoria di Michele, sono tutte in gelida difficoltà non palesata e reagiscono in quattro maniere:

1. fanno finta di niente e continuano imperterrite nelle loro elucubrazioni mentali per dimostrare di “avere visto giusto”, attribuendo a Misseri la patente di non credibilità per le versioni 1 e 8 (!),

2. continuano ad accusare Misseri senza tenere conto delle sue spiegazioni e della sua versione, perché non possono ammettere di avere sbagliato e quindi di essersi fatti abbindolare dalle sirene accusatorie,

3. continuano a pagare il piatto di lenticchie ai loro sponsor che li hanno riempiti di segreti istruttori, continuando ad accusare Sabrina,

4. guardano imperterrite il dito del contadino che indica la luna (dove la luna è la verità).

Ricordo che “chi indaga in nome e per conto del Popolo italiano” non ha il diritto di sbagliare e/o di fissarsi su ipotesi investigative e/o su scenari fissi, così come non ha  il diritto di puntare  le proprie immagine e credibilità sull’ipotesi che gli è cara, perché gioca con soldi e con mezzi non suoi, ma  del Popolo.

Naturalmente è impossibile pronunciare le tre difficilissime parole: "Io ho sbagliato". Lasciamo stare, poi, chi ha usato Michele Misseri e le sue accuse come passepartout televisivo e per mettere da parte qualche soldino: è la vittoria dello squallore e della non meritocrazia. Tutto questo, però, succede perché in Italia vi sono diverse cupole e logge “mass mediatiche legal-thriller” che  spaziano dall’accaparramento di clienti imputati e parte offese alle poltroncine di talk show e similari.

Non è ancora arrivata l’alba e Michele Misseri si prepara per andare al processo di appello che vede imputate sua figlia Sabrina e sua moglie Cosima che oggi renderà dichiarazioni spontanee, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. Si aggira solo per la villetta di via Deledda che è stata fino a quel maledetto 26 agosto il coronamento di una vita di sacrifici, l’orgoglio di una famiglia unita. Per poi diventare il luogo dell’orrore, teatro di una tragedia irrevocabile, della fine di una ragazzina di soli 16 anni, Sarah, sua nipote. Lui, Michele, anche oggi continua a dire: «Sono stato solo io, mia moglie e mia figlia non c’entrano niente». Nessuno le crede però…«La mia preoccupazione è che le condannino da innocenti».

Oggi Cosima parlerà, rendendo dichiarazioni spontanee. Ci sarai in aula?

«Si ci sarò. Anche se parla Cosima non le crederanno come non hanno creduto a me. Sono teso, ho dormito male questa notte…». 

Quando siete in aula è l’unico momento in cui puoi vedere tua moglie e tua figlia. Cosa provi? Loro ricambiano i tuoi sguardi?

«Io le guardo e mi sento male perché Cosima è invecchiata troppo presto, Sabrina ha la faccia piatta, carica di odio. Questo è il mio pensiero, sicuramente mi odia, almeno questo penso. Non vogliono più nemmeno guardarmi».

La gente di Avetrana pensa sempre che sono loro le uniche colpevoli?

«Si pensano che io sia una vittima, ma non è così. Non ho solo il senso di colpa per quello che ho fatto a Sarah, Sabrina e Cosima, ma la rabbia che non mi crede nessuno. Se fosse stata mia figlia io non l’avrei abbandonata, l’avrei aiutata, ma non mi sarei mai caricato la colpa. Ogni volta che faccio il nome di Sabrina mi viene da piangere perché sta soffrendo per colpa mia». 

Sei stato tu a uccidere Sarah, solo tu?

«Si solo io. Lo ho sempre detto. E se saranno condannate per me è la fine. Io non ce la faccio più ad andare avanti così».

VENERDI’ 13 MARZO 2015. SESTA UDIENZA DI APPELLO. SI PARLA DI CELLA…TELEFONICA.

I legali della giovane condannata, assieme alla madre Cosima Serrano, all’ergastolo per concorso in sequestro di persona e omicidio volontario aggravato, hanno depositato il 9 marzo 2015 nella cancelleria della corte d’assise d’appello di Taranto una memoria difensiva con acclusa una perizia redatta dal consulente tecnico di parte Antonio Politi, esperto di informatica forense con studio a Lecce. Così scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La questione in ballo riguarda l’accertamento svolto dai carabinieri del Ros di Lecce, guidati dal tenente colonnello Paolo Vincenzoni, sulla copertura delle compagnie telefoniche presenti nel territorio di Avetrana. Una premessa tecnica è d’obbligo. Tutte le persone coinvolte nell’omicidio Scazzi usavano cellulari Vodafone e malgrado l’aiuto fornito agli inquirenti dai tecnici del gestore, nessun telefonino era dotato di dispositivo satellitare gps e dunque è stato difficile accertare con estrema precisione la loro posizione. Nel caso di Avetrana c’è però una particolarità tecnica che ha aiutato gli investigatori. L’abitazione della famiglia Misseri è coperta infatti da un ripetitore Umts, quello di terza generazione (sul display dei cellulari compare il simbolo 3G). Non così il garage, dove il segnale Umts non arriva e quindi i cellulari non solo scalano sulla frequenza Gsm, come avviene in questi casi, ma agganciano una cella che gli specialisti del Ros non hanno poi mai rilevato nella veranda, nel cortile e nell’abitazione degli zii di Sarah. Probabilmente una diabolica coincidenza di segnali e di campi che però ha permesso ai carabinieri del Ros di specificare in quale porzione della villetta di via Deledda si trovavano i cellulari dei protagonisti quel tragico pomeriggio. Proprio usando questi parametri, secondo i militari del Ros, il telefono di Cosima Serrano alle 15.25 si trovava in garage, un luogo dove lei ha sempre negato di essere stata quel giorno e soprattutto in quelle ore. Invece, per 40 secondi, il suo cellulare ha agganciato un’altra cella, quella del garage, che, come detto, non è stata mai captata nella veranda, nel cortile e nell’abitazione. Sulla perizia del Ros hanno dato battaglia in primo grado gli avvocati difensori di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, contestando non solo la perentorietà delle conclusioni a cui i carabinieri sono giunti ma anche il fatto che non sia più possibile ripetere l’accertamento, questa volta alla presenza dei consulenti di parte, in quanto dal settembre del 2011 la rete telefonica di Avetrana è cambiata. In apertura del processo d’appello, i legali sono tornati alla carica, chiedendo alla corte di escludere ai fini della decisione, proprio la consulenza dei Ros. La corte d’assise d’appello lo scorso 23 gennaio ha però rigettato tale richiesta, sostenendo che quello compiuto dai carabinieri non rientra nel novero degli accertamenti tecnici irripetibili e dunque non è stato leso alcun diritto di difesa. Ora gli avvocati Coppi e Marseglia, sostengono che quell’accertamento in realtà potrebbe essere ripetuto chiedendo però al gestore di ripristinare la geografia della rete presente il 26 agosto del 2010, e in ogni caso allegano la consulenza del dottor Politi, sottolineando che la perizia dei Ros è priva di fondamento probatorio e contiene errori procedurali e scientifici, a partire proprio dall’accertamento riguardante la presenza di Cosima Serrano nel garage della villetta di via Deledda: i carabinieri avrebbero infatti compiuto un errore nell’indicare il tipo di cella agganciata dal cellulare della madre di Sabrina. Spetterà alla corte d’assise d’appello nell’udienza in programma venerdì prossimo decidere sulla richiesta degli avvocati Coppi e Marseglia.

C’è ancora qualcosa di «inquietante dal punto di vista tecnico» nelle indagini sull’uccisione di Sarah Scazzi. Ne sono convinti i difensori di Sabrina Misseri, la ragazza condannata in primo grado all’ergastolo per l’uccisione della cugina con il concorso di sua madre, Cosima Serrano, scrive Nazareno Dinoi su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Nell’udienza di oggi davanti alla Corte d’assise d’appello che dovrà rivedere la condanna all’ergastolo delle due imputate, gli avvocati della ragazza, Franco Coppi e Nicola Marseglia, cercheranno di smontare la perizia fatta dai carabinieri del Ros sui telefonini delle due donne. Secondo questa lettura, il 26 agosto del 2010, intorno all’ora in cui avvenne l’omicidio, il cellulare di Cosima si trovava nel garage dove Sarah morì strangolata. Diversa invece la tesi difensiva che, forte di una nuova lettura di quegli elaborati tecnici, colloca l’apparecchio della moglie di Michele Misseri al piano superiore della casa di via Deledda. Una questione non di poco conto perché la posizione della mamma di Sabrina in un punto o nell’altro dell’abitazione, mette in discussione l’impianto stesso dell’accusa. In una relazione di cinque pagine, l’esperto leccese di informatica forense, Antonio Politi, ingaggiato dai difensori di Sabrina, dimostrerebbe l’inattendibilità delle analisi tecniche fatte dai militari ad Avetrana, il 6 ottobre del 2010 e il 24 aprile del 2011, sulle celle dei ripetitori e nella casa dei Misseri. Un’attività tecnica «condivisibile» dal punto di vista della rilevazione strumentale, ma non sulle «modalità di esecuzione delle misure», spiega l’ingegnere Politi nel motivare le divergenze trovate. I punti contestati del lavoro dei Ros, riguardano principalmente la scarsa attendibilità dei parametri valutati che non avrebbero tenuto conto della differenza degli apparecchi impiegati per le prove sul campo (telefonini differenti per marca e modello), della disuguale temperatura esistente il giorno del delitto (pieno agosto) con il giorno delle misurazioni (ottobre e aprile), ma soprattutto la differente capacità di trasmissione dei dati e quindi di captazione dei segnali, tra la rete Umts e Gsm, entrambi attivabili dagli apparecchi studiati. Ma l’aspetto che metterebbe in crisi l’accusa, quello che l’ingegnere nella sua reazione definisce «inquietante», riguarda una presunta mancata trascrizione di un dato rilevato dagli apparati del Ros ma non trascritti nelle loro relazione. In particolare, spiega l’ingegnere Politi, «la prova inconfutabile (secondo i Ros, ndr) secondo la quale all’interno del garage è stata registrata come servente una cella Gsm» e che la stessa cella, sempre secondo i carabinieri «non è stata mai captata nella veranda, nel cortile e nell’abitazione», sarebbe «errata». Interpretando i tabulati del Ros, l’esperto della difesa si sarebbe accorto che il telefono di Cosima «ha agganciato per ben due volte» la cella captata in garage anche quando l’apparecchio si trovava nelle parti superiori della casa. Da qui le convinzioni dell’ingegnere che saranno di sicuro oggetto di contestazione da parte della Procura generale rappresentata dal sostituto procuratore generale, Antonella Montanaro: «Sulla base degli elementi acquisiti vi è la prova tecnico-scientifica di come il cellulare di Serrano Cosima potesse essere al piano superiore della villetta dalle ore 15:25:04 e alle ore 15:25:42».

Ciononostante, al processo di secondo grado per l'omicidio di Sarah Scazzi, il sostituto procuratore generale Antonella Montanaro ha chiesto alla Corte d’Assise d’Appello l'inammissibilità della relazione peritale allegata alla memoria difensiva depositata il 6 marzo scorso dall’avv. Nicola Marseglia per conto di Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo in primo grado, insieme a sua madre Cosima Serrano, per l'omicidio della quindicenne di Avetrana, uccisa e buttata in un pozzo il 26 agosto del 2010, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La consulenza dell’esperto informatico Antonio Politi riguarda l’accertamento dei carabinieri del Ros di Lecce sulla copertura delle compagnie telefoniche presenti nel territorio di Avetrana. Secondo il perito "vi è la prova scientifica che il cellulare di Cosima Serrano potesse essere al piano superiore della villetta alle 15.25 del 26 agosto 2010". Oggi, nell’ambito della sesta udienza del processo d’appello, il pm ha chiesto l'inammissibilità della consulenza ritenendola a tutti gli effetti un elemento nuovo che non è stato oggetto di contraddittorio nel corso dell’udienza preliminare nè in sede di processo di primo grado, nè presentata nei motivi di impugnazione delle condanne. I legali di Sabrina sostengono che l'accertamento dei Ros debba essere ripetuto e che la perizia non ha fondamento probatorio. Il rappresentante dell’accusa ha parlato di una doppia violazione di legge, rilevando che i difensori dell’imputata fanno propria la relazione presentandola come memoria, ma che invece integra il contenuto dell’atto d’appello e non è una prova sopravvenuta. "Dovremmo considerare questi – ha spiegato il sostituto pg Montanaro – dei motivi nuovi o aggiunti, ma evidenzio la mancata osservanza del termine procedurale anche per il contenuto della memoria". Nella consulenza si fa riferimento a eventuali discrasie nella relazione dei Ros. Si contesta, ad esempio come dato tecnico, la mancata considerazione della valutazione delle celle telefoniche adiacenti. "Il consulente – ha aggiunto Montanaro – si contraddice perchè in una parte contesta che sia stata utilizzato un telefono bloccato in modalità Umts nel complesso abitativo e in altra parte che sia stato utilizzato, simulando il cellulare di Cosima Serrano, un telefono bloccato in modalità Gsm".

Oggi erano presenti in aula Cosima Serrano, seduta accanto ai suoi legali, Luigi Rella e Franco De Iaco, mentre Sabrina Misseri ha preferito rimanere seduta nel gabbiotto con le vetrate. Era in aula anche Michele Misseri (marito di Cosima e padre di Sabrina). Era assente l’avv. Coppi. La Corte d'assise d'appello, presieduta dal giudice Patrizia Sinisi, si è riservata di decidere sulla richiesta del sostituto procuratore generale Antonella Montanaro di dichiarare inammissibile la memoria della difesa di Sabrina Misseri, corredata da una consulenza tecnica sulle celle telefoniche agganciate dai cellulari delle due imputate il giorno dell'omicidio. La difesa ha chiesto di valutare la consulenza del perito Antonio Politi ed eventualmente di ascoltare il comandante dei Ros Paolo Vincenzoni e del maresciallo Piro sulla perizia contestata. L'udienza è stata aggiornata al 27 marzo prossimo.

Concetta Serrano, la madre di Sarah Scazzi, non si vedeva da un po’ in televisione. È tornata a parlare l’8 marzo 2015, festa della donna, ai microfoni di Domenica Live, il programma condotto da Barbara D’Urso e in onda ogni domenica pomeriggio su Canale 5. Concetta serrano parla sull’ultima udienza riguardante il processo per l’omicidio della figlia, Sarah Scazzi: “Mia sorella si è sfogata, perché è in una condizione disperata. Non c’è bisogno di essere in carcere per capire che non è una bella condizione e, poi con la prospettiva di starci tanti anni…”.  Nessun dubbio per Concetta, la mamma di Sarah Scazzi: la sorella e la nipote Sabrina sono colpevoli. La madre della giovane vittima, davanti alle telecamere di Domenica Live, riparla del caso e della difesa della famiglia, senza scrupoli o dubbi di coscienza.  “Avrei voluto che mia sorella fosse innocente, ma tutti questi indizi contro di loro sono troppi”. Barbara D’Urso fa sentire un’intercettazione telefonica tra Sabrina e il padre Michele Misseri arrestato, in cui la figlia chiede al padre perché abbia commesso l’omicidio. “A sentirli parlare sembra una finzione. Lei sa perfettamente che suo padre non c’entra niente perché se la sta prendendo perché suo padre ha confessato. Credo che lei sapesse che il suo cellulare fosse intercettato. È stato proprio lei a dirmi che i cellulari erano intercettati. Si nota che non ha una reazione normale”. Si vede che è una telefonata finta – ribadisce Concetta – facevano attenzione a quello che dicevano. Sapevano di essere intercettati, me lo aveva detto Sabrina”. Concetta dice che incontra spesso Michele. “Io vedo spesso Michele perché nella stessa via abita una nostra sorella e quindi lo vedo”. “Ti ha mai chiesto perdono?”, gli domanda Barbara D’Urso. “Quando mai! Ormai siamo estranei. Non mi dice niente, come se non mi conoscesse”. Sotto i riflettori anche le dichiarazioni del fioraio che aveva detto di aver visto Sarah nell’auto di Cosima, e poi ha ritrattato dicendo che si era trattato soltanto di un sogno. “Penso stia mentendo ora che dice che è solo un sogno. I sogni non sono mai così precisi”. Concetta che non mancherà la prossima udienza, conclude: “A loro dico solo quello che dico da sempre: dite la verità”.

L’Avv. Francesca G. Conte del Foro di Lecce è stata venerdì 13 marzo 2015 alle ore 12,30 su Rai 2 come ospite e opinionista della trasmissione “I Fatti Vostri”, condotta da Giancarlo Magalli, Adriana Volpe, Marcello Cirillo, e Paolo Fox. La trasmissione che va in onda come di consueto tutti i giorni dal lunedì al venerdì, oramai entrata nelle case di quasi tutti gli italiani, si rivolge ad una più sempre più ampia fascia di pubblico, occupandosi puntualmente di attualità con un occhio particolare a cronaca, costume o televisione. L’Avv. Francesca G. Conte (che è stata precedentemente difensore di Sabrina Misseri) è stata ospite in trasmissione per parlare dell’ormai tristemente noto caso di Sarah Scazzi, a distanza di poco tempo dalla prima udienza del processo d'appello del 23 gennaio 2015. Le ultime novità su questo intricatissimo caso giudiziario, riguardano una memoria difensiva scritta dagli avvocati di Sabrina Misseri che mira a screditare la perizia sui telefoni cellulari effettuata dal Ros dei carabinieri. Dunque il percorso processuale è molto complesso e a tutt’oggi  numerose sono ancora le zone d’ombra su cui fare luce.  E’ in collegamento da Taranto l’inviata del programma Filomena Rollo, la cui posizione contro Sabrina e Cosima è nota ai più, quello del “tu sei una cretina...” detto da Michele Misseri. Tanto che in collegamento si manifesta la parzialità della Rollo. La sua indole giustizialista si è manifestata oltretutto, dal portarsi appresso ed al suo fianco l’avv. Luigi Palmieri, legale della famiglia Scazzi, costituita parte civile, dandogli la facoltà di arringare le folle. Collegamento senza contraddittorio delle difese degli imputati e per di più con la testimonianza accessoria di Concetta con la sua solita tiritera. “Michele non è stato - Dando per scontato che non lo sia stato – Sabrina non è stata, Cosima non è stata. Chi è stato ad uccidere Sarah?” Dice l’avv. Conte, parlando delle dichiarazioni spontanee rese da Cosima e criticando l’operato dei colleghi: «Per carità. Non è che a volte si può insegnare a memoria ciò che l’imputato deve dire. Io, personalmente, l’avrei fatta rispondere, come le ho già detto la volta scorsa, nel corso dell’esame di primo grado, nel contraddittorio delle parti, affinchè le sue dichiarazioni avessero valenza di prova. Così, purtroppo, non hanno alcuna valenza. (Il paragonarsi a Gesù) purtroppo quest’enfasi è tipica del popolino, magari. Io avrei voluto dire qualcosa sulla richiesta di perizia che c’è stata sulle celle, su quello che il Procuratore Generale ha detto. E’ chiaro che esiste per noi un principio cardine nel nostro processo: le prove si acquisiscono in primo grado. Il Procuratore Generale dice: “avete avuto il tempo di acquisirle in primo grado, oggi è tardi. Oggi questa richiesta è inammissibile”. Inammissibile teoricamente, però nel nostro rito accusatorio vige il principio che la rinnovazione istruttoria in appello è istituto eccezionale. Quindi, solo se la Corte di Assise di Appello ritenesse assolutamente necessario alla fine del decidere, d’ufficio potrebbe disporre questa perizia. Lo ripeto: la rinnovazione in appello è istituto eccezionale nel nostro codice. Non si possono acquisire nuove prove, salvo che la corte con i suoi poteri, anche di ufficio, non ritenga questa prova assolutamente indispensabile ai fini del decidere. (Con le celle telefoniche)…c’è tutto un problema per vedere in quel momento, a quell’ora, le celle se erano sature, per cui c’è la cosiddetta cella servente e poi c’è la cella subordinata, per cui se una zona è satura per mille ragioni si aggancia ad un’altra cella e, quindi, in un’altra fetta di territorio. Non c’è mai la sicurezza al 100%. (Riguardo Sabrina e l’integrazione delle dichiarazioni)… Considerando la linea difensiva, che sin dall’inizio è quella della assoluta estraneità, io ritengo che non ha null’altro da aggiungere. Insomma, considerando anche il prestigio del collegio difensivo che l’assiste ed ove il prof. Coppi dovesse ritenere indispensabile un suo intervento, sicuramente lo farà con cognizione di causa. Però, ripeto, le dichiarazioni spontanee nel nostro codice, salvo che uno non confessi qualcosa, purtroppo sono inutili se ritardate. Noi la possiamo vedere, se fosse una fiction, con due finali differenti: Uno, con zio Michele che uccide la nipotina con dolo d’impeto e concorre poi con la moglie Cosima per l’occultamento del cadavere; l’altra con l’omicidio preterintenzionale, un incidente, che poi per bassezza culturale e terrore si è trasformato in  un omicidio volontario. In ogni caso non era un processo da ergastolo. Io lascio queste due versioni e ricordo ai telespettatori di tutta Italia che si può esser condannati solo quando la colpevolezza è provata al di là di ogni ragionevole dubbio. La genialità dell’accusa è stata togliere di mezzo Michele, perché non so se la conclusione del primo grado sarebbe stata quella dell’ergastolo per entrambe le donne. E’ stata una genialità levare il protagonista principale e quindi le opzioni in campo son rimaste solamente quelle della colpevolezza. Però se omicidio deve essere, sicuramente è preterintenzionale e non volontario. Cioè al di la dell’intenzione. Un incidente. Michele potrebbe essere richiamato dentro perché l’archiviazione non è sentenza di proscioglimento. Se esistono elementi nuovi, la Procura può chiedere al GIP di riaprire il caso e quindi processare Michele Misseri per omicidio volontario nei confronti della povera Sarah.»

Anche precedentemente il 27 febbraio 2015 l’avv. Conte è stata ospite di Magalli. E’ in collegamento da Taranto l’inviata del programma Filomena Rollo, la cui posizione contro Sabrina e Cosima è nota ai più, quello del “tu sei una cretina..” detto da Michele Misseri, tanto che in collegamento, più che un resoconto della giornata ha fatto una requisitoria contro Cosima. La Rollo ha esordito, smontando la portata delle dichiarazioni rese da Cosima; ha definito le stesse dichiarazioni come un copione atto a screditare tutti i testimoni. La Rollo ha fatto ascoltare le intercettazioni telefoniche  intervenute tra Sabrina e zia Concetta la notte dell’arresto di Michele, in seguito al quale ha fatto ritrovare il corpo, e quella intervenuta successivamente tra Sabrina ed il padre Michele, sminuendone la portata e spiegando bene che si possono interpretare in modo bivalente e non solo in favore di Sabrina, che, però, palesemente, sembra essere ignara di quanto accaduto. Si parla degli attimi successivi alla famosa diretta di “Chi la Visto?”. Concetta che non parla con Sabrina e passa il telefono al suo avvocato Biscotti.

Concetta: «….pronto?»

Sabrina: «zia?»

C: «Dimmi...»

S: «Ma si sa qualcosa? Tu hai capito qualcosa?»

C: «E che….niente…stanno cercando il corpo di Sarah»

S: «Sì, ma c’entra mio padre?»

C: «..……si sente male….»

S: «Sì, ma c’entra mio padre?»

Avv. Biscotti: «Sabrina..»

S: «Ehh..voglio sapere ma c’entra mio padre? »

B: «No e non so niente. Non sappiamo niente, io so solo che stanno cercando il corpo di Sarah.»

S: «Ahhhhhhhhhhhh»

B: «Però non so, non ho notizie di tuo papà, insomma…»

S: «Va bene, grazie».

B: «tu hai notizie?»

S: «No, e perché sennò mica chiamavo!»

B: «Però Sabrina si stanno cercando il copro, probabilmente ha confessato».

S: «E come caspita è? C’Eravamo noi testimoni che l’abbiamo visto fare su e giù».

B: «Che ti devo dire. Boh! Che ti devo dì?»

S: «Io penso, casomai, lo stanno incastrando».

B: «Adesso vediamo. Adesso comunque vediamo se lo trovano. Evidentemente, lui parlando ha indicato, deve essere crollato, un luogo, adesso bisogna vedere se trovano quel luogo. E il luogo mi dicono che è? Luogo a Mosca, mi dicono».

«Perché non me lo hai detto subito che eri stato tu, papà?». Queste sono state le prime parole pronunciate da Sabrina Misseri, parlando al telefonino con suo padre, la notte del suo arresto. Certamente dialogo non premeditato. Infatti, la notte della prima confessione di Michele Misseri in cui fece ritrovare Sarah, la giovane condannata all’ergastolo insieme alla madre per l’omicidio della cugina Sarah Scazzi, parlò con suo padre. Prima di non parlarsi mai più, infatti, la ragazza e suo padre Michele Misseri, 59 anni, si scambiarono una drammatica telefonata nella notte in cui il contadino di Avetrana fece ritrovare il corpo della nipote uccisa confessandone il delitto (che ritrattò in parte una settimana dopo). In quella breve e ultima conversazione tra padre e figlia, è contenuto l’epilogo della sconvolgente notte, tra il 6 e il 7 ottobre del 2010, che fece perdere le speranze di ritrovare viva la 15enne scomparsa misteriosamente il 26 agosto dello stesso anno. Mentre i due si parlavano, l’orecchio elettronico degli investigatori ascoltava e registrava minuziosamente ogni parola. «Perché non me lo hai detto subito papà? », chiedeva la ragazza al padre. Erano le 3.47. Tutte le edizioni notturne dei telegiornali nazionali avevano già diffuso l’angosciante notizia dell’uccisione di Sarah Scazzi e della confessione dello zio-orco. Anche i giornali avevano già dato alle stampe quella che per diversi giorni sarebbe stata la notizia d’apertura. Il reo confesso aspettava nella caserma dei carabinieri di Manduria di essere trasferito nel carcere di Taranto. Aveva appena firmato il suo primo interrogatorio da indagato (qualche ora prima, quando era crollato, era ancora considerato “persona informata sui fatti”). Il carabiniere che lo teneva d’occhio gli consegnò il telefonino che durante l’interrogatorio aveva squillato più volte. A chiamare era stata sempre Sabrina, sua figlia. Ed era ancora suo il nome che cominciò a lampeggiare sul display alle 3.47 in punto. Michele Misseri guardò il militare, che con un cenno gli fece capire che poteva rispondere alla telefonata. Fu quella una mossa studiata a tavolino dagli investigatori, ai quali interessava molto ascoltare (e registrare) l’inattesa conversazione tra padre e figlia. Sabrina Misseri, dall’altra parte del telefono, si trovava nella villetta in via Deledda ad Avetrana con la sorella Valentina, 28 anni, e la madre Cosima Serrano, 58 anni. Sapevano la stessa cosa che ormai tutti avevano appreso in quelle ore: ad ammazzare Sarah era stato zio Michele. Questo aveva confessato Michele. Aveva dichiarato di aver strangolata Sarah nel garage sotto casa per poi caricarla sull’auto per far sparire il corpo come un animale morto. Per tutti ormai era lui il mostro. Lo era anche per Sabrina, che appena ebbe l’occasione di parlargli non concesse al padre nessun dubbio, nessuna titubanza circa la sua certa colpevolezza: «Perché non me lo hai detto subito papà?» (“che eri stato tu a uccidere Sarah?”, è la naturale continuazione della frase).

Sabrina: «Perché non me lo hai detto subito papà?»

Michele : «… [incomprensibile]… non mi aspettare più.»

Sabrina: «Sì, va bene papà, … io ti voglio parlare, però poi…»

Michele: «Ma chissà quando…»

Sabrina: «No, ma chissà quando…! Vedi che puoi decidere quando vuoi tu per parlare con noi…»

Michele: «Sì, però, se il telefonino lo lasciano a me!»

Sabrina: «Va bene… e tu non ti preoccupare che se tu vuoi parlare con noi alla fine loro ti fanno parlare.»

Michele: «Il telefonino no, stasera è l’ultima telefonata… il telefonino me lo tolgono …»

Sabrina: «Ho capito papà… però gli avvocati poi alla fine gli danno il coso per farti parlare…»

Michele: «Sì.»

Sabrina: «Però; papà, perché lo hai fatto? Io non me lo so spiegare proprio… tu non hai fatto mai niente di male… perché in quel momento … cosa ti è venuto?»

Michele: «Non lo so.»

Sabrina: «Poi parliamo…»

Michele: «Sì.»

Sabrina: «Ciao.»

Michele: «Ciao.»

Dice l’avv. Conte, in riferimento alle dichiarazioni rese in aula da Cosima Serrano: «Le dichiarazioni spontanee non hanno valenza di prova. Su questo la Cassazione è stata molto chiara perché il nostro processo si basa sul principio della “Progress Esamination”, dell’esame incrociato, quindi la dichiarazione spontanea non ha valore di prova nemmeno quando è confessoria. Per intenderci. Ha valore di elemento, dal quale il giudice può prendere spunto, ma non ha valore di prova. Nella maniera più assoluta. L’imputato viene avvisato all’inizio del processo che in qualsiasi momento può fare dichiarazioni spontanee, purchè siano attinenti all’oggetto della causa. E’ chiaro che hanno valenza. Hanno una valenza generale, ma non di prova, tecnicamente parlando». In riferimento alle dichiarazioni tardive rese in appello ella continua: «Io penso che lei abbia, sicuramente, concordato con il collegio difensivo. Lei le abbia concordate. E’ chiaro che il livello culturale…io ho avuto modo di conoscere la signora ed è talmente basso e limitato, che il fattore emotivo può aver giocato un ruolo determinante. Ed anche in primo grado, magari per dire ai propri difensori “non mi sento di rispondere all’esame”, perché quello sì che ha valore di prova. Io sicuramente mi sarei, al posto di Cosima, sin dal primo secondo, sottoposta all’interrogatorio. Anche in dialetto, perché ognuno risponde con quelle che sono i suoi mezzi culturali. Avrei chiesto il permesso di  esprimermi in dialetto e mi sarei difesa nelle sedi opportune, perché, l’ho sempre detto, secondo me Cosima in questa vicenda non c’entra assolutamente nulla.  

Prosciolto il marito di Roberta Ragusa, è giusto così. Dopo due anni di indagini, Antonio Logli è stato scagionato dall'accusa di aver ucciso e distrutto il cadavere della moglie, che non è mai stato ritrovato, scrive Carmelo Abbate  su “Panorama”. Antonio Logli è stato prosciolto. La procura della Repubblica di Pisa lo accusava di omicidio volontario e distruzione di cadavere ai danni della moglie Roberta Ragusa, scomparsa dalla casa di Gello di San Giuliano Terme nella notte tra il 13 e 14 gennaio 2012 e mai più ritrovata. Per i carabinieri che hanno condotto due anni d’indagini è stato il marito, che l’avrebbe uccisa perché la moglie aveva scoperto la tresca che l’uomo intratteneva con l’amante Sara Calzolaio, amica e impiegata nell’autoscuola di famiglia. La procura ha chiesto il rinvio a giudizio, ma oggi il giudice per le indagini preliminari ha detto che il fatto non sussiste. Non luogo a procedere. Antonio Logli prosciolto e inchiesta bocciata. La decisione del giudice di Pisa suscita sgomento e fa arrabbiare tutti coloro che non riescono a distinguere il processo vero e proprio dalla fase delle indagini preliminari, quando i giornali pubblicano indiscrezioni sull’inchiesta totalmente sbilanciate a favore dell’accusa, e la gente pensa che l’indagato sia già stato condannato. Salvo poi urlare indignata contro l’assassino che l’ha fatta franca quando arriva un giudice che valuta in modo sereno gli elementi indiziari e fa soltanto il suo dovere. Come in questo caso. Per quanto possa sembrare amara questa verità, la decisione presa oggi nel tribunale di Pisa è giusta e fa giustizia. Gli indizi raccolti dall’accusa contro Antonio Logli in questi anni dimostrano che lui è un bugiardo, che la notte della scomparsa ha litigato con la moglie, che aveva un motivo e un interesse per ammazzare la donna. Ma non dimostrano in modo inequivocabile che poi abbia realmente ucciso e distrutto il corpo di Roberta Ragusa. Piaccia o no, è così. C’è da dire che alla fuga volontaria della moglie non crede nessuno, è una ipotesi semplicemente ridicola. E in questi due anni di indagine gli inquirenti hanno fatto tutto ciò che era nelle loro possibilità, questo gli va riconosciuto. Hanno dimostrato che Antonio Logli si trovata all’esterno della sua abitazione quella notte verso l’una, quando lui dice di essere andato a dormire e di essersi accorto al mattino presto che la moglie era sparita. Hanno trovato le tracce di due telefonate fatte da Logli all’amante al mattino presto. Nella prima la invita a spegnere il telefono, poi la richiama e le ordina di far sparire tutti i cellulari. Ancora più importanti, le telefonate brevi nella notte della scomparsa partite sempre dal telefonino di Logli e indirizzate all’amante, che per la procura erano state fatte da Roberta Ragusa che in quel momento scopre la tresca e firma la sua condanna a morte. Infine ci sono i racconti della stessa Roberta, che in seguito a un incidente domestico accusa il marito di aver provato a ucciderla. Insomma, la procura ha fatto di tutto per mettere Logli con le spalle al muro, e c’è anche riuscita. Ma in assenza del corpo della donna, che non è mai stato ritrovato, non si può non prendere atto che manca la prova che il marito abbia davvero ucciso la moglie. E allora la giustizia non può che alzare le braccia: per noi sei tu l’assassino, sappiamo che sei stato tu, ma non possiamo dimostrarlo. Questo avrebbe dovuto fare la procura, prendere atto e chiedere l’archiviazione, per tenersi la possibilità di riaprire le indagini in futuro nel caso della scoperta di nuovi indizi. Invece ha tirato dritto e ha sbattuto la faccia contro l’assoluzione più netta: perché il fatto non sussiste. C’è un giudice a Pisa.

Alla faccia del garantismo in tv. Decine e decine di puntate, a raccontare la scomparsa di quella donna avvenuta nella notte tra il 12 e il 13 gennaio 2012. Poi il ritrovamento delle tracce del cadavere di Roberta Ragusa, ll'apertura di una inchiesta a carico del marito, la richiesta di rinvio a giudizio per omicidio e, il 6 marzo 2015, il proscioglimento di Antonio Logli da parte del gup. La vicenda Ragusa è stata, per "Chi l'ha visto", una delle storie portanti della trasmissione in questi ultimi tre anni. E il sito huffingtonpost.it ha intervistato la conduttrice Federica Sciarelli a poche ore dal proscioglimento del marito della vittima. E lei non usa mezze parole, nel giudicare quanto accaduto: "Questa è la giustizia italiana" spara la Sciarelli. "Vorrà dire che il giudice avrà creduto alle menzogne di Logli, che aveva raccontato agli inquirenti di non avere un'amante e invece non era vero, così come non era vero che non avesse due telefoni: li aveva buttati via, ed è stato scoperto". Roberta Ragusa, Federica Sciarelli: "I giudici hanno creduto alle menzogne del marito, ma le donne non scompaiono quasi mai volontariamente". La scomparsa di Roberta Ragusa è uno dei filoni più battuti dai cronisti di "Chi l'ha visto?", scrive Laura Eduati su L’huffingtonpost. Ecco perché il proscioglimento del marito della donna, Antonio Logli, colpisce particolarmente la conduttrice Federica Sciarelli: "Questa è la giustizia italiana! Vorrà dire che il giudice avrà creduto alle menzogne di Logli, che aveva raccontato agli inquirenti di non avere un'amante e invece non era vero, così come non era vero che non avesse due telefoni: li aveva buttati via, ed è stato scoperto".

Puntata dopo puntata, gli inviati del programma hanno raccontato le indagini a carico dell'uomo, insistendo sugli indizi che potevano provare una sua colpevolezza.

«Non siamo stati colpevolisti. Piuttosto siamo partiti da una semplice considerazione: una mamma come Roberta non poteva sparire volontariamente senza mai contattare i figli. Lo dico da madre ma anche da giornalista: ormai dopo tanti anni di trasmissione sappiamo che quando scompare una donna - specialmente quando è sposata con bambini -, spesso è stata uccisa e il suo cadavere è stato occultato. Ci stiamo avvicinando all'8 marzo e vale la pena ricordare anche questo fenomeno».

Nessuno, però, è mai riuscito a trovare il corpo della Ragusa.

«Molti processi si aprono anche in mancanza del corpo. In questo caso sono stati i giudici a non volere un processo indiziario. Non ho letto le motivazioni del proscioglimento e dunque per il momento mi limito a fare una opinione personale, però posso avanzare l'ipotesi che il giudice non abbia avuto la voglia di aprire un processo senza la prova regina e cioè il cadavere. Questa è la giustizia italiana! Vorrà dire che il giudice avrà creduto alle menzogne di Logli, che aveva raccontato agli inquirenti di non avere un'amante e invece non era vero, così come non era vero che non avesse due telefoni: li aveva buttati via, ed è stato scoperto».

È delusa da una decisione del genere?

«Non posso usare la categoria della delusione. Non sono nemmeno sorpresa, se è per questo. Dopo aver seguito decine di casi di donne scomparse come Elisa Claps, che per 17 anni molti pensavano se ne fosse andata via da Potenza e invece il suo cadavere stava sotto il tetto della chiesa, non mi stupisco più di niente. Torno a ripetere: le donne spesso vengono uccise e poi nascoste, non si può lasciare niente di intentato. Può anche essere che il proscioglimento sia stato deciso per permettere a eventuali nuovi elementi di emergere nel tempo, così da costruire un processo con prove più solide: se Logli fosse stato processato e assolto per tre gradi di giudizio, poi nessuno avrebbe potuto indagare ancora sul suo conto».

"Chi l'ha visto?" continuerà a occuparsi del caso e delle mosse di Antonio Logli?

«Dopo questa decisione del gup il caso è più aperto che mai e continueremo a cercare di capire che cosa è successo a Roberta Ragusa. Siamo al fianco delle sue cugine e della sua famiglia, più di prima se possibile. In queste ore l'indirizzo della posta elettronica del programma è intasato di messaggi, le persone che hanno seguito la trasmissione sono indignate e ci scrivono "Vergogna!". Continueremo a seguire la vicenda anche per loro».

Roberta Ragusa. Testimoni nuovi e nuovi veggenti alimentano un indagine inseritasi in un labirinto che pare senza uscita..., scrive Massimo Prati sul suo blog Volando Controvento. Non ci crederete, una convinzione ormai solida e radicata ve lo impedisce, ma a Pisa siamo arrivati al caffè: fra poco la cena sarà finita e ancora non si saprà nulla di quanto accaduto a Roberta Ragusa. E' viva e nonostante i figli ha deciso di rendere vendicativo il dolore da lei provato negli ultimi otto anni? Anni in cui ha convissuto da amica con l'amante di suo marito, minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno? Anni di corna e prese in giro generali, visto che tutti sapevano e lei era l'unica a non sapere? Oppure è morta davvero. Uccisa da un qualcuno che conosceva da molto o da pochissimo, un qualcuno che le ha offerto il suo aiuto nelle sere di sconforto o in una sera di sconforto, un qualcuno che si era offerto di parlarle della famosa amante, un qualcuno che credeva di conoscere ma in realtà non conosceva affatto? O forse è stata uccisa dal marito dopo un litigio nato proprio a causa dell'amante? Oppure, chissà, magari aveva premeditato l'omicidio da tempo perché la moglie gli era d'intralcio, visto che la relazione extraconiugale stava prendendo sempre più spazio? Che sia viva non lo pensa nessuno. Nessuno ci crede o vuole crederci. Che sia morta lo dicono in primis i procuratori, seguiti dai media e dall'opinione pubblica sovrana a cui viene demandato il compito di bruciare il già condannato. Poco importa se non c'è cadavere, perché per chi ha in mano le indagini è certo che il marito l'ha uccisa e poi sepolta. E presto la pagherà cara! Queste ultime frasi sono diventate un tormentone e ormai le ripetono tutti in coro. Non solo i media, ma anche la gente comune: è un mantra ossessivo che ha convinto e sta convincendo anche chi di solito è propenso ad usare la logica prima di schierarsi. E nel caso in questione, come in tanti altri che l'hanno preceduto, la logica pare diventare un fattore irrilevante. Perché? Perché troppe cose non tornano - si dice in giro - troppe balle aleggiano sull'aria fresca di San Giuliano, sull'autoscuola e su quel di Gello in particolare. Il marito non la racconta giusta e la gente è reticente... è omertosa perché di certo ha visto e tace! Lui è un bugiardo traditore che si è liberato di una moglie scomoda e invadente per non darle una lira e poter vivere con l'amante, loro lo sanno ma non parlano... sono tutti suoi complici e lo proteggono.
Ma davvero si può credere che a Gello c'è chi sa qualcosa e da subito ha deciso di tacere? Siete mai stati a Gello? Avete mai parlato con chi vi abita? Credo proprio di no. I media e il mantra ossessivo colpiscono l'opinione pubblica e la convincono, come può convincere il pinguino di uno spot (se hai capito il concetto è perché sei intelligente e potrai navigare e messaggiare illimitatamenteeee), di chissà quali indizi o prove, e per tutti ora il Logli è, in anticipo rispetto ai tempi (manco si sa se andrà a processo), un vile assassino. Quasi che di un fatto non provato, di un omicidio senza vittima, vi sia la certezza assoluta perché lo vuole la procura e lo vogliono i media. E già!, gli indizi nel nostro ordinamento stanno prendendo sempre più le sembianze della "prova"! A Teramo come a Taranto, ed ora anche a Pisa, si son trovate troppe stranezze non appena si è stretto il cerchio investigativo su un unico indagato. A Teramo come a Taranto, ed ora a Pisa, più passano i giorni più spiccano il volo nuove ricostruzioni e nuovi testimoni. Ad oggi quelli su cui far conto sono tre. No, sono quattro, o forse cinque o forse più di cento. Testi attendibili, ci dicono, testi che non avrebbero motivo per mentire. E al momento non c'è alcun motivo per dubitarne. E' giusto come ragionamento, ma forse qualche ricordo strano è affiorato a posteriori nella mente di chi ha aspettato a parlare perché intimidito dalla famiglia Logli. Famiglia che ora non intimidisce più. Tanto che dalla bocca del teste di punta, spunta pure la descrizione di un indagato provato, bianco come un cencio, come un cadavere, perché non ce la fa più a nascondere quanto di male ha fatto alla moglie. Parole e testo di Loris Gozi, l'ex timoroso testimone che dal parlare poco nascosto dietro un cappuccio è passato al non tacere mai. Oppure, se vogliamo ragionarla come il suo ex avvocato, è passato al parlare troppo con chi gira armato di microfono. E questo suo modo di fare inizia a dar da pensare, come ha fatto pensare il modo usato da una testimone di Avetrana, che forse il suo intento non è solo il voler aiutare chi indaga... perché sembra quasi chieda una mano ai telespettatori, mano che nessuno pare intenzionato a dargli (pur se a parole tutti gli sono vicini). Lui non perde occasione per far conoscere la sua situazione privata, quasi voglia intenerire chi lo ascolta, e ormai tutti sappiamo che non lavora e che anche la moglie, a causa della testimonianza del marito, il lavoro lo ha perduto. Ma lui agli inquirenti aveva parlato già all'inizio dell'estate scorsa, e fin quando non è apparso in video con tanto di volto sua moglie ha lavorato senza problemi. Quindi, fosse pure ingiustamente, se c'è chi ha deciso di interrompere un rapporto lavorativo, il motivo lo ha trovato nella troppa pubblicità che le sue uscite mediatiche hanno messo in circolo. Non a tutti piace di avere giornalisti alla porta della propria pizzeria, non a tutti piace di rilasciare dichiarazioni ai vari canali televisivi. A questo punto c'è da sperare che lui e sua moglie trovino un nuovo impiego. C'è da sperare che la smetta di rilasciare interviste ai media e che parli solo coi procuratori. Ma non è l'unico a cui serve una mano. Come si diceva i testimoni, inizialmente inesistenti, ora sono aumentati. L'ultimo è apparso da pochi giorni: è uno spacciatore extracomunitario da tempo agli arresti domiciliari per una rapina andata male. Lui, al buio e sottozero, in una notte di gennaio del 2012 si trovava in una pineta al confine fra Migliarino e Torre del Lago. In quei frangenti, mentre era intento a spacciare, dice di aver visto entrare fra gli alberi due persone che trasportavano un enorme sacco nero. Una di queste, ora a forza di guardare la tivù ne ha la certezza, era il marito di Roberta Ragusa, Antonio Logli. Ohibò! Ma allora, se il suo ricordo è giusto, il Logli aveva davvero un complice! E torniamo al primo testimone e alla sua famiglia che parlano di un altro uomo assieme al marito quando s'è presentato alla loro porta con una foto incorniciata. La stessa foto vista da tutti noi sui giornali e in televisione. Oddio, c'è da dire che tutto può essere e che tutto al mondo può accadere. Può essere che il Logli sia andato a cercare la moglie nel punto in cui vi erano più roulotte e nascondigli ed ora non lo voglia dire. Perché, anche l'avesse fatto in buonafede, ammettere quella ricerca dopo il bailamme creato dall'avvistamento e dalla litigata testimoniate dal Gozi, significherebbe dare carte servite agli inquirenti che non vedono l'ora di arrestarlo e di fargliela pagare. Il Logli sa bene, come lo sanno i suoi figli e non so in che modo riescano a superare questo trauma, che le indagini della procura si sviluppano solo contro di lui. A confermarglielo, se mai ne avesse avuto bisogno, è lo stesso teste dell'accusa che il 12 aprile sulla sua pagina facebook (pagina in cui da qualche settimana figurano quali nuovi amici anche tanti giornalisti) scrisse: "ringrazio tutti per la vostra solidarietà ringrazio tutte le cugine di roberta ragusa andrò contro avvocati giudici ma le mie parole rimarranno sempre quelle non le cambierò mai anche se qualcuno prova a mettermi paura però anche stamani ho incontrato gli inquirenti e mi hanno rassicurato che questo codardo la pagherà cara". Gli inquirenti mi hanno rassicurato che questo codardo la pagherà cara! Scrive il Gozi a chi lo segue su facebook. Non c'è che dire, le esternazioni degli inquirenti, riportateci dal testimone che le fa sue, sono interessanti e confermano tante brutte cose. Ma c'è da chiedersi: come farà il procuratore ad incastrarlo, quel codardo del marito, se nessuno confermerà mai la testimonianza del suo teste eccellente? Se nessuno si presenterà per dire che in via Gigli nella notte del 13 gennaio ha visto l'auto del Logli? Logli che di logica, secondo quanto affermato dal Gozi, pare non essere una persona normale ma un mago, visto che in un batter di ciglia, il tempo necessario al teste per entrare in casa e uscire coi cani (o col cane: questo passaggio non è chiaro dato che Quarto Grado parla di un cane mentre nel video del Tirreno si parla di più cani), fa sparire la sua auto ed apparire quella della moglie. Nel frattempo è andato a casa per cambiare la vettura ed è tornato con la Citroen nel punto esatto in cui sapeva che di lì a poco sarebbe arrivata Roberta... forse passando fra i campi? Per quale motivo doveva cambiare l'auto? E soprattutto: come faceva a sapere che sua moglie sarebbe sbucata sulla strada esattamente in quel punto? Oppure: lei è arrivata con la Citroen da Metato e si è fermata dopo aver visto il marito sul ciglio della strada? Era andata dall'amante di lui, da Sara Calzolaio, per cercare un chiarimento e stava tornando a casa quando è stata aggredita? E l'auto del Logli che fine ha fatto, visto che il teste non la vede nel secondo avvistamento? L'aveva già portata a casa un complice e lui era rimasto sulla strada in attesa? Ma il cellulare del Logli non ha registrato telefonate dopo le 0.17 e il Gozi sistema gli avvistamenti fra la mezza e l'una, come ha fatto ad avvisare un complice? O forse l'auto era ancora in strada e il teste non l'ha vista? Quindi, dopo l'aggressione, il Logli sarebbe andato di persona a prendere il complice, forse con la moglie già morta sul sedile del passeggero, lo avrebbe fatto salire dietro e dopo aver insaccato il corpo, dopo averlo portato in un luogo sicurissimo, dopo averlo occultato, sarebbe tornato in via Gigli per riprendersi l'auto? E la Citroen? L'ha riportata il complice all'autoscuola e solo dopo il Logli l'ha riaccompagnato a casa? Madonna che caos e che movimento notturno. Ma se davvero fosse così: possibile che tutto quel viavai sia passato inosservato? Possibile che solo il Gozi abbia visto quell'auto in via Gigli? Ah, già!, dimenticavo che i gellesi sono omertosi. Però c'è da chiedersi, senza enfatizzare, cosa il teste, che senza pudore ai giornalisti dice di aver visto un cadavere che non ce la fa più a nascondere quanto di male fatto alla moglie, in realtà dichiari di aver visto. Lui ha parlato di un volto all'interno di una vettura parcheggiata. Dopo mesi in cui le televisioni picchiavano duro e le iniziative a Gello e San Giuliano si inseguivano a ritmo frenetico, disse che il viso era quello del Logli. Di altri volti non parla neppure ora, quando racconta la scena in cui figura esserci una coppia che litiga di brutto. Lui non ha mai detto di aver visto altre facce, ha sempre affermato di aver sentito le urla di una donna e di aver notato un'auto simile a quella della Ragusa. Non di aver visto i volti del Logli e di sua moglie, non di aver visto per certo l'auto della Ragusa. Eppure quando parla in televisione è un colpevolista convinto in grado di convincere. E torniamo alle mille domande che non portano a nulla. Torniamo a un orologio che nessuno sa se davvero esista, e pare davvero non esista, torniamo a degli abiti che nessuno sa se si siano ritrovati, torniamo a domande che non trovano una facile risposta, perlomeno in chi non è predisposto a credere ad ogni costo ai "si dice" spacciati per realtà. Insomma, i Pm sanno che i testimoni possono aver visto ben altro. Sanno che se si facesse un esperimento, ad esempio mettendo in una notte buia più uomini simili all'interno di varie auto ferme sul ciglio di una strada stretta (qual è via Gigli), ci sarebbe una alternanza di risultati (meno giusti e più sbagliati). Sanno che grazie ai tamburi dei media, nel tempo ci si può anche convincere di aver visto qualcosa di importante pur non avendo visto nulla di importante. Inoltre sanno che qualche aggiunta ai fatti narrati inizialmente, grazie al tam tam dell'informazione, i testimoni la tirano sempre fuori, che i loro ricordi vanno scremati e verificati al meglio. I due sopracitati saranno da ringraziare se quanto dicono un domani verrà provato, perché se i racconti sono reali non possono essere gli unici ad aver visto un simile movimento notturno. Un po' meno da ringraziare sono le altre decine e decine di testimoni che il clamore mediatico risveglia dal letargo e che servono solo a far scena e a perdere tempo. Quelli che vivono anche a centinaia e centinaia di chilometri da Gello e dicono di vedere con la mente. I loro nomi non sono importanti, almeno non su questo blog, ma le loro visioni paiono esserlo per la procura che li segue scodinzolante. Sto parlando dei tantissimi sensitivi che fanno da patatine fritte, quindi da contorno, alle indagini degli inquirenti. C'è chi Roberta l'ha vista in acqua, ed allora i sommozzatori si sono immersi in ogni stagno o laghetto della Toscana, chi l'ha vista nelle grotte, e gli speleologi sono scesi nelle grotte, chi l'ha vista sotto terra, ed allora si è scavato con pala e piccone in ogni dove. Gli ultimi scavi in una zona lucchese del Monte Serra, zona irraggiungibile in auto (a che serve scavare se mai nessuno può esserci arrivato?) ma uguale alla descrizione della sensitiva che, per stessa ammissione di chi comandava le ricerche, era in stretto contatto telefonico sia con il responsabile della protezione civile che con lui. Protezione Civile che per darle ascolto ha fatto sudare le fatidiche sette camicie ai volontari che, oltre a dover sradicare una radice per poter operare, con pale e picconi hanno scavato buche profonde dai due metri e mezzo ai tre metri (questa la misura stabilita dalla veggente). Peccato per la medium e per la procura, che la terra nascondesse solo altra terra. In poche parole, i fatti si ripetono nel tempo e come in tante altre occasioni siamo arrivati al nulla investigativo assoluto. Non si sa che fare e siamo al punto che dopo sedici mesi di indagini ci si aggrappa al pizzo delle mutande dei veggenti, nuovi e vecchi, e dei testimoni che a ragionarci dicono di non aver visto nulla di rilevante. Almeno sino a quando non ci sarà chi potrà confermare anche solo in minima parte i loro racconti. Ed alla fine della favola si torna sempre all'inizio, alle ricerche di un corpo privo di vita. Perché senza un cadavere che attesti un omicidio tutto è maledettamente complicato e difficile. Per questo ora in campo ci sono pure i droni: elicotteri in miniatura che hanno il compito di sorvolare quei punti di montagna in cui non si riesce ad arrivare (ma che li mandano a fare se davvero nessuno ci può arrivare?) e di rimandare immagini fotografiche. Siamo al limite dell'immaginazione o forse oltre ogni immaginazione. Ormai è chiaro che a Pisa non sanno che pesci pigliare, che ci troviamo di fronte ai soliti casi di cronaca nera amplificati dai media e mal digeriti dalle procure che, essendo sotto la lente dell'opinione pubblica, mettono in campo le solite indagini unidirezionali attuate al solo scopo, per non sfigurare, di incolpare l'unico indagato disponibile sulla piazza. Il problema è che c'è un marito nel mirino, ma non gli si può ancora sparare perché nessuno ha le munizioni per poterlo fare. Ed è un marito che con quanto si ha in mano non lo si può nemmeno interrogare (mesi e mesi che i media annunciano un interrogatorio imminente), perché prima occorre dare una forma logica ad una lunga serie di interrogativi. Cosa potrebbe chiedere un procuratore al Logli? Alla domanda: "C'è una persona che l'ha vista in via Gigli fra la mezza e l'una di notte, cosa ci faceva lì?" - corrisponderebbe la risposta: "Ero a letto a quell'ora, non in via Gigli". E questa, anche se non sembra, è una risposta che toglie forza a quanto afferma il testimone. E la toglie proprio a causa dei tanti interrogativi. Quali, ad esempio: "Com'è possibile che solo il Gozi abbia visto il Logli, o almeno un'auto simile alla sua, in quella strada? Come si può essere certi che in un paio di secondi abbia focalizzato in maniera veritiera il marito di Roberta Ragusa, che in testimonianza dice ha cercato di coprirsi il volto, e la sua auto? Com'è possibile che all'una di una notte freddissima il Gozi portasse a spasso i cani per via Gigli, visto che ha un cortile recintato, visto che prima di arrivare in via Gigli doveva percorrere i circa cento metri della stradina sterrata, dove non c'è pericolo che i cani vengano investiti perché di notte non passano auto, in cui si affaccia la sua casa e che prosegue anche dalla parte opposta (non bastava per i bisogni?), visto che vive fra un insieme di appezzamenti di terra non recintati?" Ed anche la domanda: "Per quale motivo, facendosi accompagnare da un altro uomo, il 14 gennaio è andato a casa del teste per ben due volte, sia di mattina che di pomeriggio? L'hanno vista anche i familiari del testimone?" - troverebbe una risposta immediata: "Io la mattina ho cercato Roberta, ho anche chiamato i Carabinieri e la Polizia, non mi sono fermato a casa di chi non conoscevo neppure nel pomeriggio, quando sono andato in caserma per la denuncia di scomparsa e poi a casa per star vicino ai miei figli che stavano soffrendo più di me". Pure questa risposta toglierebbe forza all'accusa, dato che si parla di familiari del Gozi e non di persone a lui estranee. Diverso sarebbe stato se qualche estraneo alla famiglia avesse notato il Logli o la sua auto entrare, visto che è andato per ben due volte, se non nel cortile del testimone almeno nella stradina che porta al cortile. Ci sono altre case in zona e c'è un allevamento di cani in fondo alla strada sterrata. Diverso sarebbe stato se dopo il primo verbale la procura avesse piazzato un paio di cimici in casa sua per capire quale parte possano aver avuto i media sulla testimonianza. Come diverso sarebbe se si sapesse il nome, sempre esista, dell'amico visto nel cortile di cui il Gozi ha parlato solo ultimamente. Ed a proposito: è alquanto strano che durante l'interrogatorio formale, di fronte a un giudice, questo importante particolare non sia uscito. Come è alquanto strano che dell'accompagnatore si sapesse già in fase di sommarie informazioni, come detto dal procuratore (ma aveva anche detto, per sbaglio?, che col Logli c'era uno della protezione civile) e solo nell'ultimo periodo, dopo l'intervista rilasciata dal Gozi a una tivù locale, si sia cercato di individuarlo con interrogatori mirati. Insomma, alla fin fine è chiaro il motivo per cui la convocazione del Logli tardi ad arrivare. La procura cerca di trovare gli appigli che servono a non sbagliare le domande. O meglio: la procura cerca di trovare le domande da fare e di puntellare le poche parole buone di un testimone che al momento ha portato solo interrogativi e poche certezze (anche se per la stampa pare non sia così e l'opinione pubblica la segue). Perché portare a processo una storia simile può pagare solo in primo grado e solo a causa delle campagne mediatiche che bruciano sia la logica che il cervello degli uomini, siano persone comuni, giudici popolari o togati. Ma a processo è facile che mai ci si arrivi, perché un procuratore preparato e serio non può non capire che nell'insieme la testimonianza del Gozi, nebulosa e piena di forse, è tutto all'infuori che un fortino inespugnabile. Possono fingere di non capirlo i media, che resistendo su una posizione colpevolista incamerano introiti. Gli stessi media che stabilendo il loro quartier generale negli uffici dei procuratori, e continuando a chiedere informazioni, influenzano lettori e telespettatori con ricostruzioni via via diverse ma sempre colpevoliste. E non può essere diversamente visto che le prime ricostruzioni, sempre e in ogni caso, le porta chi accusa, cioè la procura. Ed è logico che un attacco mediatico di massa pressi in maniera negativa chi indaga, chi deve decidere se optare per un processo o per un'archiviazione. Nei casi in cui i media se ne stanno nascosti, nove volte su dieci quando una maggiorenne scompare si archivia. Ma la scomparsa di Roberta Ragusa da ormai sedici mesi sta facendo campare di rendita buona parte della stampa e dei programmi televisivi che allattano e crescono a loro immagine e somiglianza l'opinione pubblica. Ed io mi chiedo come si possa azzerare la vita di una persona, pur se fedifraga, e come si possa col pregiudizio minare la stabilità psichica dei figli di Roberta, senza mostrare scrupoli o minimi dubbi. Tutti son convinti di conoscere il nome dell'assassino e lo conferma anche chi comandava le ricerche sul monte Serra, parlo dell'uomo in contatto telefonico con la medium, che ai giornalisti ha detto di voler dare ai figli il corpo della loro madre e un luogo su cui pregare (le sue parole non possono essere che figlie di una convinzione pregiudizievole ormai stabilizzata). Ed ancora mi chiedo come si possa continuare a indagare il Logli e solo il Logli quando in realtà i filoni di indagine dovrebbero essere almeno due: uno colpevolista e uno innocentista. Ed allora: per quale motivo non esistono anche indagini atte a ricercare una persona viva, visto che sedici mesi di ricerche non hanno portato a un corpo morto? Ed ancora: per quale motivo non si è creato un fascicolo contro ignoti, un fascicolo in cui inserire anche la possibilità che Roberta sia sepolta nella proprietà privata di qualche vicino o conoscente? Magari un qualcuno di cui si fidava. Magari un qualcuno che invece di lasciarla sfogare ha cercato un contatto fisico non voluto. Magari un qualcuno che le aveva promesso di farle sapere la verità avendo in mente anche di far altro. Ma senza un fascicolo aperto non si può far nulla, neppure ipotizzare che ad ucciderla sia stata la stessa amante del marito durante un chiarimento degenerato. Ed io mi chiedo: fascicoli del genere non si aprono perché queste ipotesi sono impossibili da immaginare? Perché le amiche che incontrava un'ora ogni tanto hanno affermato che non c'era nessuno che si interessasse a Roberta? Ma per davvero? Come detto in precedenza tutto può essere e tutto può accadere: anche che il marito sia un assassino e che Loris Gozi abbia realmente visto tutte le scene che ci ha descritto. Come è possibile anche che il procuratore Adinolfi non sia all'oscuro di quanto ogni tanto "si dice", anche se qualche volta gli è già capitato di dover tacere o sbagliare nel parlare, e si sia accordato col teste per fargli dire le cose a spizzichi e bocconi nella speranza di far cadere in buca l'indagato. Ma visto che la parola "tutto" ha un suo significato, a guardarla solo da un lato si fa peccato. Per cui potrebbe essere pure che il Gozi si sia lasciato prendere la mano dai media e per questo aggiunga particolari ad ogni occasione utile, ad ogni domanda specifica. Che abbia dato peso a un qualcosa senza valore, che abbia visto un'altra auto e un'altra persona, che la litigata sia avvenuta, sì, ma fra una coppia estranea al caso Ragusa o fra la Ragusa e un altro uomo (o donna). Chi mi spiega perché non è possibile che Roberta possa aver litigato con qualcuno che non fosse suo marito? Ciò che appare certo, è che dopo un anno e quattro mesi costellati di indizi poco convincenti, perché interpretabili in varie maniere, chi indaga non sa come fare a trovar prove contro il marito, l'unica persona che si vuole indagare. Ciò che appare certo è che manca un corpo morto e per trovarlo ci si affida a veggenti e spacciatori, che la Toscana è stata setacciata in lungo e in largo ed ancora ci si ostina a credere vi sia un cadavere nascosto in un luogo pubblico. L'ho già ripetuto più volte. Ormai restano da controllare solo le proprietà private: e se si crede che Roberta sia morta davvero, perché non guardare col geo-radar in quelle di chi la conosceva, ad iniziare dai vicini e dalle amiche? Nessuno si ribellerà a questa ricerca, visto che tutti le volevano bene, dicono, e che tutti si prodigano solo, ridicono, per tenere alta la tensione sul caso (non per incastrare il marito). Troppo invadente o complicato? Meglio ascoltare medium e spacciatori? Ciò che appare certo è che l'opinione pubblica ormai si è stabilizzata sui media, che nessuno cambierà la propria idea colpevolista nonostante si sia in presenza di un'indagine monca. La solita indagine diventata un labirinto senza uscita che si porta avanti quando non si sa a che santo votarsi. La solita indagine che forse porterà al solito processo indiziario e alla solita condanna in primo grado. Quella capace di calmare i bollori dell'opinione pubblica...

Un gup come la Sciarelli, meglio non averlo mai visto, scrive Maurizio Crippa su “Il Foglio”. Indeciso per tutto il giorno se macerarmi nel senso di colpa per essere maschio e senza mimose l’Otto marzo, o per non aver mai sentito parlare della povera Roberta Ragusa, verso sera ho deciso per l’autodafé della piena vergogna: sono uno che non l’ha mai visto, “Chi l’ha visto”. Quando ho voglia di angoscia, la sera, mi basta “Ballarò” (modica quantità). Può darsi che sia solo insensibile, però il sospetto, che è l’anticamera del cambio canale, che ci sia qualcosa di orwelliano, di poliziottesco, in questa mania di andare a scovare chiunque sia scomparso – e putacaso l’avesse fatto sua sponte, è capitato anche questo – insomma questa formattizzazione dell’inesistenza della privacy, mi ha sempre spaventato. Ora, accade che il gup del tribunale di Pisa ha deciso il non luogo a procedere per il marito di Roberta Ragusa, scomparsa da casa, e accusato di omicidio e distruzione di cadavere. Al che, Federica Sciarelli ha tuonato: “Questa è la giustizia italiana! Vorrà dire che il giudice avrà creduto alle menzogne di Logli”. Se qualcuno cerca una difesa d’ufficio dell’operato di magistrati e giudici, com’è noto ha sbagliato testata. Ma peggio dei magistrati e dei giudici quando esercitano il loro mestiere prendendo sottogamba i diritti degli indagati o degli imputati, tra i quali quello di poter persino essere innocenti, c’è solo il giornalismo convinto che l’essenza del mestiere sia di tranciare sentenze e chiudere istruttorie. Se Federica Sciarelli, che è tanto brava, e il diuturno successo del suo format vale da medaglia, voleva fare il giudice, forse ha sbagliato albo professionale.

Il grido di allarme ignorato: al Tribunale di Taranto condanna certa, perché è impedito difendersi e criticare. La rivelazione di Antonio Giangrande. Dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014 dal presidente vicario della Corte d’Appello di Lecce, Mario Fiorella, il numero di processi proprio a carico di magistrati, anche tarantini, sono ben 113. Il dato ufficiale si riferisce ai procedimenti aperti nel 2013 ed il Distretto di Corte d'Appello comprende i Tribunali di Taranto, Brindisi e Lecce. Come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, sono stati infatti quelli i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!

Per esempio, il 5 marzo 2015 si tiene a Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Lucio Setola, già sostituto procuratore di quel Foro. Processo per diffamazione e calunnia su denuncia del giudice di Taranto, Rita Romano, persona offesa costituita parte civile.

La colpa di Antonio Giangrande è di aver esercitato il sacrosanto diritto di difesa, per non vedersi esser condannato ingiustamente, e per gli effetti aver presentato 3 richieste di ricusazione contro la Rita Romano, perché questa non si era ancora astenuta nei tre processi in cui giudicava il Giangrande, nonostante nel procedere in altri processi collegati già si era espressa in sentenza addebitando la responsabilità all’imputato, sebbene questi non fosse sotto giudizio, e contro il quale già aveva manifestato il suo parere in sentenze di altri processi definendolo in più occasioni, di fatto, soggetto testimonialmente inattendibile. La ricusazione oltre che fondata era altresì motivata con una denuncia allegata presentata contro la stessa Rita Romano ed a Potenza risultata archiviata, nonostante la fondatezza delle accuse e delle prove. Inoltre gli avvocati difensori De Donno e Gigli per la ricusazione presentata hanno rinunciato alla difesa. Fatto sta che i processi ricusati, con la decisione di altri giudici, però, hanno prodotto il proscioglimento per l’imputato. Sulla attendibilità di Antonio Giangrande, poi, parlano le sue opere ed i riscontri documentali nelle cause de quo.

Altro esempio è che il 30 aprile 2015 si tiene presso il Tribunale di Potenza l’ennesima udienza contro Antonio Giangrande, presieduta dal giudice monocratico Natalia Catena. Processo per diffamazione su denuncia presentata da Alessio Coccioli, quando era sostituto procuratore a Taranto prima di passare a Lecce, perché la Gazzetta del Sud Africa, e non Antonio Giangrande, pubblicava un articolo in cui si definiva il Tribunale di Taranto il Foro dell’ingiustizia, elencando tutti i casi di errori giudiziari, e per aver pubblicato l’atto originale della richiesta di archiviazione, poi accolta dal Gup, e le relative motivazioni attinenti una denuncia per un concorso truccato per il quale il vincitore del concorso a comandante dei vigili urbani di Manduria era colui il quale aveva indetto e regolato lo stesso concorso.

Come si vede le denunce a carico dei magistrati di Taranto sono 113 quelle presentate in un solo anno a Potenza e di seguito archiviate, e non sono di Antonio Giangrande, però Antonio Giangrande è uno dei tanti imputati su denuncia dei magistrati di Taranto a sottostare a giudizio, e sicuramente a condanna, per aver esercitato il suo diritto di critica e o il suo diritto/dovere di difesa. Diritti garantiti dalla Costituzione ma disconosciuti sia a Taranto, sia a Potenza.

Una delle frasi più amare del grande scrittore Franz Kafka è: “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è servo della Legge e come tale sfugge al giudizio umano”. Viene da pensare a questa frase quando a venire giudicato è chi dovrebbe amministrare una giustizia chiara ed imparziale, scrive Roberto De Salvatore su “Lecce Cronaca”. Dicendo questo mi riferisco alla vicenda che ha visto Antonio Giangrande (nella foto), presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia, chiamato a rispondere davanti al tribunale di Taranto di diffamazione e calunnia. Il motivo che aveva dato origine alla vicenda era un caso di corruzione per un concorso truccato per un posto di comandante dei vigili urbani a Manduria, a detta del Giangrande ampiamente documentata. La vicenda processuale ha prodotto una serie di procedimenti nei confronti di ben 113 magistrati tarantini, ma non solo. Sono questi come riporta Chiara Spagnolo su “la Repubblica”, i numeri degli iscritti nel registro degli indagati, inchieste poi trasferite per competenza a Potenza, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. I dati sono fuorvianti, in quanto, a ben vedere si scoprirà, che le accuse agli imputati magistrati si tramuteranno in archiviazioni tacite, mentre le accuse in cui i magistrati sono parti offese si trasformeranno in condanne certe e roboanti: perché così va il mondo. Magistrati giudicandi, ma ingiudicati!

Ciascuno dovrebbe aver diritto ad un equo processo, a prescindere dalla categoria cui appartiene, nella convinzione (forse ingenua) che quanto si legge scritto sui muri dei tribunali ‘la legge è uguale per tutti’ non sia solo uno slogan. Non sappiamo giudicare dove sia il torto e dove la ragione, né siamo abilitati a farlo se non esprimendo un parere da cittadini, nella speranza che ancora sia permesso esprimere una opinione liberamente, ancorché però non sfoci nella calunnia. Viene in mente la recente legge sulla responsabilità dei magistrati e la levata di scudi della categoria contro questa legge rea a loro dire di mettere il bavaglio alla magistratura. A mio avviso invece è una legge civile a salvaguardia della certezza del diritto.

Certo speriamo che i potenti non siano gli unici beneficiari di tale legge, ma che serva di monito a compiere il proprio dovere senza preconcetti, o peggio ancora ispirati da concezioni politiche che con la democrazia non hanno nulla a che fare. I magistrati devono essere assimilabili a qualunque categoria del pubblico impiego per le quali chi sbaglia è giusto che paghi. Non hanno nulla da temere coloro che fanno da sempre il loro dovere, ma i tempi dei Viscinsky di staliniana memoria devono terminare, i normali cittadini sono stanchi di considerare la magistratura qualcosa di assolutamente divino e di intoccabile. E basta con le toghe rosse, nere o grigie, la toga di un magistrato non deve avere un colore, ma rappresentare un baluardo di imparzialità verso tutti.

Decine di saggi di inchiesta suddivisi per tema o per territorio dove la cronaca diventa storia e dove luoghi e protagonisti sono trattati allo stesso modo e sullo stesso piano.

Vi siete mai chiesti perché non conoscete Antonio Giangrande? Perché egli, pur avendo scritto di Mafia, Massoneria e Lobbies, non abbia la notorietà generalista di Roberto Saviano, lo stesso che a Scampia gli hanno dedicato un motto: “Scampia-moci da Saviano”? Vi siete mai spiegati il motivo sul perché, avendo Antonio Giangrande scritto decine di saggi di inchiesta e ben due libri sul delitto di Sarah Scazzi ed essendo egli stesso avetranese, mai sia stato invitato nei talk show televisivi a render presente la posizione anti giustizialista, a differenza della Roberta Bruzzone che presenzia in qualità di esperta in conflitto di interessi essendo ella autrice di un libro su Sarah Scazzi ed allo stesso tempo presunta parte offesa in un procedimento connesso?

Il motivo è chiaro. Egli non è allineato, conforme ed omologato e scrive fuori dal coro sistematico ed ideologico. Di fatto è stato estromesso dai salotti buoni e di conseguenza ignorato dal pubblico generalista.

La sua storia è paradigmatica dell'imbecillità italiana, dove il tuo valore si misura non per ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni e dove dipende tutto dai momenti della convenienza. Devi per forza dare il senso di appartenenza a sinistra, difendere lo status quo ed osannare i magistrati. Non puoi dire il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa. I cittadini devono essere imbottiti non di informazioni ma di suggestioni.

Come dire: sui social network girano le foto di otto cadaveri appesi a testa in giù ad una struttura metallica di Hawija, nella provincia di Kirkuk, allora si parla di barbarie dell’Isis, come è giusto che sia. Quando i comunisti appesero Mussolini e la Petacci in Piazzale Loreto o infoibarono gente innocente nel Carso, si parlò di atti di eroismo dei partigiani.

Se qualcuno racconta la verità e presto tacciato di mitomania o pazzia. Quando non dici più quello che piace al sistema, composto da amici e compari, ti relegano tra i reietti della penna o della tastiera, se non addirittura dietro le sbarre di una prigione: Così va questa Italia!

Questa recensione non è un tentativo di promuovere uno spot gratuito per interessi economici.

I libri di Antonio Giangrande li trovi su Amazon.it o su Lulu.com o su CreateSpace.com o su Google Libri. Ma si possono leggere parzialmente free su Google Libri ove vi sono circa 60.000 mila accessi al dì, come si possono leggere gratuitamente anche su www.controtuttelemafie.it , il sito web della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, sodalizio nazionale antimafia antagonista a Libera di Don Ciotti e della CGIL.

Si provi a leggere solo l’articolato dei capitoli per rendersi conto che in quei libri si troveranno le malefatte della mafia, ma anche gli abusi dell’antimafia. In quei libri si parla dell’Italia e degli italiani e di tutti coloro che a torto si mettono dalla parte della ragione e si lavano la bocca con la parola “Legalità”, pur vivendo nell’illegalità. Si troverà per argomento o per territorio quanto si fa fatica a scrivere. Si provi a leggere quanto nella propria città succede ma non si dice.

Fino a che la maggior parte di giornalisti, scrittori, editori, saranno succubi dell’ignavia, della politica e dell’economia, ci sarà sempre bisogno di leggere i saggi di Antonio Giangrande, giusto per conoscere una versione diversa dei fatti, così come raccontati da quelle solite esposizioni omologate che si vedono in tv e si leggono sui libri, o sui giornali, o sui siti web o blog dei soliti noti.

VENERDI’ 27 MARZO 2015. SETTIMA UDIENZA DI APPELLO. PERIZIA SULLA CELLA…TELEFONICA.

Sarah, slitta il processo: disposta una nuova perizia sui telefonini di Cosima e Sabrina. Nuove analisi sulle celle telefoniche dopo i dubbi sulle perizie del Ros sollevati dalla difesa, scrive “La Repubblica”. Cosima non era in garage, né in altre parti della casa, ma al primo piano della villetta il giorno della morte di Sarah. Questo vuole dimostrare la difesa di Sabrina Misseri che ha contestato l'interpretazione dei cosiddetti 'file log' della perizia dei Ros sui cellulari della ragazza e della madre, condannate all'ergastolo in primo grado per l'omicidio della 15enne di Avetrana Sarah Scazzi. La sezione distaccata di Taranto della Corte d'assise d'appello di Lecce, presieduta dal giudice Patrizia Sinisi, ha disposto una perizia d'ufficio per verificare la corretta interpretazione dei dati della consulenza tecnica dei carabinieri del Ros di Lecce sulle celle telefoniche agganciate nel pomeriggio del 26 agosto 2010 dai cellulari delle due donne. E' stata invece dichiarata inammissibile la memoria presentata dall'avvocato Nicola Marseglia, corredata da una consulenza tecnica del perito Antonio Politi, ed è stata rigettata la richiesta di ascoltare il comandante del Ros di Lecce Paolo Vincenzoni e il maresciallo Giuseppe Piro sulla perizia contestata. L'istanza del legale è stata giudicata "irrituale e tardiva" e "non legata a prove nuove e sopravvenute dopo il giudizio di primo grado". Nell'udienza del 10 aprile verrà affidato l'incarico peritale. Questa nuova consulenza farà slittare il cronoprogramma delle udienze che era stato precedentemente definito. La perizia, ha spiegato la Corte, viene "assegnata alla luce delle sollecitazioni della difesa di Sabrina Misseri che ha adombrato la possibilità di un errore nella analisi dei file log, effettuata dal Ros e che andrebbe a incidere su un accertamento complementare alla ricostruzione dei fatti". Sono tre esperti del Politecnico e dell'Università di Torino che dovranno redigere la perizia. La difesa potrà nominare consulenti di parte. L'accertamento, ha precisato ancora la Corte di Assise d'appello, è necessario ai sensi dell'art. 111 della Costituzione "a costo di sacrificare l'ulteriore diritto a una rapida definizione del processo nei confronti di imputate in custodia cautelare". Respinta, dunque, la relazione peritale che era stata allegata alla memoria difensiva depositata il 6 marzo scorso dall'avvocato Marseglia per conto di Sabrina. La consulenza dell'esperto informatico Antonio Politi riguarda l'accertamento dei carabinieri del Ros di Lecce sulla copertura delle compagnie telefoniche presenti nel territorio di Avetrana. Secondo il perito "vi è la prova scientifica che il cellulare di Cosima Serrano potesse essere al piano superiore della villetta alle 15.25 del 26 agosto 2010", giorno del delitto. Volendo fare chiarezza sulle differenti tesi, quindi, la presidente della Corte ha quindi affidato il compito a tre ingegneri del Politecnico di Torino, Giuseppe Vecchi, Michela Meo e Piergiorgio Mauli che il prossimo 10 aprile si dovranno presentare nella nuova udienza per il conferimento dell’incarico.

All’interno della diretta di Quarto Grado, il programma di Rete 4 condotto da Gianluigi Nuzzi in onda venerdì 13 marzo 2015 sulla terza Rete Mediaset, scrive Urban Post, si è parlato del caso riguardante la morte della giovane Sarah Scazzi e dell’udienza odierna sul caso; una udienza in cui per la prima volta oggi la signora Cosima Serrano era a pochi metri di distanza dal marito, Michele Misseri, ma non ha mai incrociato il suo sguardo mentre si dibatteva sulla richiesta di approfondimento tecnico per quanto riguarda la perizia sui cellulari e sulle possibili celle che essi avessero agganciato, e in cui  si è notata l’assenza di mamma Concetta che, a quanto pare,  ha preferito rimanere a casa sua, ad Avetrana, perché delusa dalle dichiarazioni della sorella nella precedente udienza. All’interno di Quarto Grado, dopo aver sentito il giudizio del legale della famiglia Scazzi che ha ribadito di essersi opposto, come così la procura, all’approfondimento tecnico, si è parlato poi, della condotta che Cosima e Sabrina Misseri hanno tenuto, in tutti questi anni, in carcere. Una condotta che non ha alcuna macchia e che fa apparire le due donne come due persone tranquille e rassegnate, due persone che partecipano quotidianamente ad un corso scolastico e a tutte le varie attività anche se, qualche tempo fa, solo Sabrina si è recata ad una cerimonia religiosa in occasione dell’arrivo della Madonna di Loreto. Gli invitati presenti in studio, chiudendo la discussione sul caso Sarah Scazzi, hanno poi chiosato il dibattito televisivo sottolineando come le passate dichiarazioni di Cosima Serrano siano addirittura più inutili delle precedenti interviste rilasciate alle varie trasmissioni televisive quando era ancora in libertà. La donna, parlando dopo 4 anni di silenzi, in aula, non ha aggiunto alcun particolare rilevante, non ha mai incolpato suo marito Michele, ma soprattutto non ha nemmeno mai difeso la figlia Sabrina cercando di svelare dettagli in grado di scagionarla. Ancora una volta il programma si è distinto per la sua estrema parzialità.

Ma anche la Barbara D’Urso con il suo Pomeriggio 5 non è da meno, con l’immancabile ospite nella persona dei difensori della parte civile. Chi l’ha visto e Quarto grado, la svolta “gialla” per non perdere ascolti. Sciò Business, scrive Stefano Balassone su “Il Fatto Quotidiano”. Stasera va in onda “Chi l’ha Visto?”, dal titolo vagamente solidaristico, venerdì toccherà a “Quarto Grado” dal titolo esplicitamente repressivo, ma ambedue hanno abbandonato l’originario campo semantico. “Chi l’ha Visto?” ha iniziato a cambiare fin dal 1992, quando ci si accorse che la trasmissione nata per occuparsi di chi era scomparso, capirne le ragioni o le cause e, se possibile, riportarlo in società, stava annaspando rispetto agli ascolti dei primi anni. E fu allora che venne impressa la svolta “gialla”, affollata di misteri criminali più che di caserecce scomparse, e poi, con la conduzione di Federica Sciarelli, anche di delitti politici a completare il mazzo insieme con i delitti tout court. “Quarto Grado” la sua evoluzione l’ha avuta più di recente, quando alla conduzione di Salvo Sottile è subentrata quella di Gianluigi Nuzzi. Così l’eccitazione imbonitoria è calata a favore del clima di mistero, nel quale Nuzzi da sempre squazza con passo sicuro. Il pubblico dapprima ha esitato, quasi dimezzandosi, ma poi si è di nuovo infoltito al punto che ormai gli ascolti di “Quarto Grado” si stanno riavvicinando a quelli di “Chi l’ha Visto?”, ma con una differenza rispetto al passato. Nel 2012 (ad esempio) sempre a metà marzo, le due audience si pareggiavano per quantità, ma non si somigliavano affatto. Però da allora il pubblico di “Quarto Grado” è cambiato (è meno maschile e meridionale) e oggi sembra quasi una goccia d’acqua rispetto a quello di “Chi l’ha Visto”. E tutto fa pensare che chi segue una trasmissione spesso segua anche l’altra. La spiegazione di tanta somiglianza sta certamente nell’avvicinamento degli stili di conduzione, da quando con Nuzzi anche a Quarto Grado l’aria di questura ha lasciato il posto alla osservazione ravvicinata del delitto come campo di manifestazione delle passioni. Del resto, la dominante femminile del pubblico e la circostanza che le vittime dei delitti in scaletta siano quasi sempre donne, evidenzia che i crimini “per la tv” sono quelli in cui trova ruolo un qualche tipo di passione piuttosto che un plot di azione, come sarebbe invece per il restante assortimento di misfatti, guidati da logiche di avidità o potere, e dunque a sfondo psicologico più maschile (retaggio delle disparità di genere). Vien da chiedersi, a questo punto, come riescano a prosperare due programmi abbastanza simili e che per di più riscaldano la stessa minestra, occupandosi, e ripetutamente, degli stessi casi: Yara Gambirasio, Elena Ceste, Roberta Ragusa, etc, con Sarah Scazzi che rispunta ogni tanto. E la risposta sembra una sola: nei mass media non funziona, se non rarissimamente, la “originalità”, quanto la “variazione”. Già lo sapevamo sapeva con il romanzo e il cinema (dove domina il “genere”, che vuol dire sapere “cosa” accadrà, ma essere in attesa del “come”). E figurati se la regola non valeva ancor più in tv, il regno dei cloni!

VENERDI’ 10 APRILE 2015. OTTAVA UDIENZA DI APPELLO. INCARICO PER LA PERIZIA SULLA CELLA…TELEFONICA.

Spetterà al dipartimento di Elettronica delle comunicazioni del Politecnico di Torino la perizia d’ufficio per il processo d’appello per l’omicidio della 15enne Sarah Scazzi, uccisa nel 2010 ad Avetrana. Il professor Giuseppe Vecchi, la professoressa Michela Meo e l’ingegnere Piergiorgio Mammoli dovranno stabilire quali sono le celle telefoniche agganciate nel pomeriggio del 26 agosto 2010 dai cellulari di Sabrina Misseri e di Cosima Serrano, madre e figlia condannate in primo grado all’ergastolo.

Omicidio Sarah Scazzi nuova verità da perizia sulle celle telefoniche, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. I tre consulenti nominati oggi dalla sezione distaccata di Taranto della Corte d’Assise d’Appello di Lecce nell’ambito del processo di secondo grado per l'omicidio di Sarah Scazzi dovranno innanzitutto analizzare ed esplicitare il contenuto dei "file log" delle relazioni dei Ros di Lecce sulle celle telefoniche agganciate dai cellulari di Sabrina Misseri, Cosima Serrano, Michele Misseri e Sarah Scazzi il 26 e il 27 agosto 2010. Poi dovranno stabilire la localizzazione o l’incompatibilità della localizzazione degli apparecchi di telefonia mobile in uso ai tre imputati e alla vittima. Per le operazioni peritali i consulenti acquisiranno la copia dei supporti informatici contenenti dati relativi ai tracciati afferenti i rilevamenti tecnici effettuati dal Ros, tutte le relazioni del Reparto speciale dei carabinieri con gli allegati, la relazione dei consulenti di parte (Quarta e Tamburrano) di Cosima Serrano, l’esame testimoniale reso davanti alla Corte d’Assise di Taranto dal colonnello Vincenzoni e dal maresciallo Piro, la memoria difensiva dell’avv. Marseglia depositata per conto di Sabrina Misseri, la memoria del procuratore generale Montanaro. Inoltre visioneranno copie dei rilievi filmati, fotografici e topografici, delle ortografie, degli accertamenti catastali e dei verbali d’ispezione dei luoghi dell’omicidio di Sarah Scazzi e della soppressione del suo cadavere e ogni altro atto e accertamento acquisito al fascicolo del dibattimento ritenuto utile. La Corte ha infine autorizzato i periti ad avvalersi di collaboratori e tecnici e ad acquisire in comodato d’uso dalla polizia giudiziaria o a noleggio le apparecchiature corredate da software o altra necessaria strumentazione elettronica o informatica necessaria allo svolgimento delle operazioni. “I nostri periti hanno lavorato con gli strumenti utilizzati dagli stessi Ros e hanno verificato una discrasia nella lettura dei 'file log' importanti per determinare la presenza delle imputate sul presunto luogo dell’ omicidio. Non è che si possa leggere in modo diverso: o è A o è B”. Lo ha detto l’avv. Franco De Jaco, che insieme al collega Luigi Rella difende Cosima Serrano, una delle due imputate (l'altra è la figlia Sabrina) condannate all’ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi, commentando la decisione della Corte d’Assise d’appello di affidare una perizia d’ufficio sulle relazioni dei carabinieri del Ros di Lecce. “Chi conosce questo meccanismo di analisi – ha aggiunto De Jaco – sa benissimo che non si può interpretare, quello è. Se poi si vuole leggere in modo diverso è un altro discorso”. Qualora dovesse emergere una crepa nella ricostruzione degli inquirenti in relazione alla posizione di Cosima Serrano, “questa crepa riguarderebbe – ha dichiarato De Jaco – anche la posizione di Sabrina perchè la Procura ha legato le due personalità. Siccome noi riteniamo che siano assolutamente innocenti ci aspettiamo che questo avvenga”. Questo, ha concluso il legale, “è un passaggio, ma sappiamo che ci sarà un terzo passaggio e forse anche un quarto perchè in Italia non si finisce mai di fare dibattimenti, tant'è che hanno prolungato la prescrizione per questo motivo in quanto non riescono a concludere mai un processo nei tempi giusti”.

A questo punto il mondo si ribalta e succede quello che non ti aspetti.

Sarah Scazzi, a Quarto Grado: Cosima Serrano è innocente? A Quarto Grado, il programma di attualità e di cronaca condotto da Alessandra Viero e da Gianluigi Nuzzi, in onda su Retequattro di Mediaset in prima serata del 10 aprile 2015 si è discusso dell’omicidio di Sarah Scazzi, partendo dall’insinuazione di un sospetto: Cosima Serrano potrebbe essere innocente. La difesa di Cosima e della figlia Sabrina Misseri accusate dell’omicidio di Sarah Scazzi mirano a smontare uno dei pilastri su cui si fonda l’accusa: il traffico telefonico: “I periti della difesa hanno lavorato con gli strumenti utilizzati dagli stessi Ros e hanno verificato una discrasia nella lettura dei "file log" importanti per determinare la presenza delle imputate sul presunto luogo dell’ omicidio. Non è che si possa leggere in modo diverso: o è A o è B”. Secondo la difesa dei membri della famiglia Misseri le simulazioni effettuate dai Ros sarebbero inficiate dal clima: essendo state effettuate nel mese di gennaio, mentre il delitto si è consumato ad agosto. Secondo i periti di parte il clima influisce sulla propagazione del segnale e questo sarebbe determinante per la localizzazione degli imputati e della vittima attraverso il traffico telefonico, poiché le telefonate nel giallo di Avetrana sono l’unico dato tecnico oggettivo.

Strage al tribunale di Milano, Corte d’assise d’appello di Taranto ricorda le vittime. Riunita per udienza sul caso Scazzi, scrive “Il Paese Nuovo”. Si è aperta con la commemorazione delle tre vittime della strage che si è consumata ieri nel Tribunale di Milano l’udienza del processo d’appello per l’omicidio di Sarah Scazzi nella sezione distaccata di Taranto della Corte d’Assise d’Appello di Lecce. Il giudice fallimentare Fernando Ciampi, l’avvocato Lorenzo Alberto Claris e Giorgio Erba sono stati ricordati dal presidente Patrizia Sinisi che ha detto: “Le parole del presidente della Repubblica pronunciate davanti al plenum del Csm colgono nel segno. Non è solo un problema di sicurezza dei palazzi di giustizia, ma di sicurezza sociale. Il discredito porta frutti amari: la sfiducia nella giustizia, la voglia di farsi giustizia da soli e di vendicarsi, che travolge tutto e tutti”. Travolge, ha aggiunto il giudice Sinisi, “gli avvocati, anche loro esposti in prima linea perchè spesso devono fungere da cuscinetto delle tensioni dei cittadini, travolge i testimoni, travolge gli utenti di palazzo di giustizia, travolge anche fuori dai palazzi giudiziari e studentesse come Melissa Bassi, uccisa a Brindisi davanti alla sua scuola da un uomo che ha posto in essere un attentato dinamitardo perchè si riteneva vittima di una ingiustizia”. Il discredito, ha puntualizzato la presidente della Corte d’Assise d’Appello, “travolge magistrati, cancellieri, forze dell’ordine, stampa e cittadini. Abbiamo tutti bisogno quotidianamente, non solo in occasione di eventi tragici come quello di ieri nel palazzo di giustizia di Milano, di ricordare i valori empirici e le regole della democrazia e di osservare una pausa di riflessione sull’operato di ciascuno di noi per poi ripartire nel segno della legalità costituzionale”.

Amanda e Raffaele assolti per non aver commesso il fatto. Buona Giustizia Atto uno, scrive “Massimo Prati sul suo Blog “Volando Controvento”. La Cassazione ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall'accusa di aver ucciso Meredith Kercher e tutti i media salgono sulla barca del vincitore. Solo l'opinione pubblica, che ancora non ha capito come funziona il pregiudizio mediatico e quanto siano pronti i giornalisti a cambiare rotta pur di navigare in favore di vento, ha il dente avvelenato e chiede ancora la forca per i due ragazzi. Alle casalinghe di Voghera questa assoluzione resterà in gola, perché convinte dai guaiti di quei cagnolini che si accucciano sugli zerbini della procura in attesa di notizie colpevoliste da abbaiare sui video. E pensare che bastava fare due più due per capire che tutto era sbagliato, che tutto era solo l'enorme bluff di una procura che senza attendere gli esiti delle analisi tecniche aveva appoggiato troppo presto la sua lunga mano su due studenti che cercavano di aiutarli. Dopo sette anni e mezzo finalmente si chiude in maniera seria uno dei tanti capitoli di giustizia ridicola che sta infestando il nostro Paese, dove troppi magistrati pescano un colpevole e gli costruiscono addosso una gabbia di cartone, dipinta di color ferro, e usufruendo dell'aiuto mediatico convincono il popolo che la loro logica scadente è la migliore. Ma non è così, non può essere che la verità sia illogica e questa sarà una sentenza che servirà a mettere in riga i troppi magistrati che si sentono potenti e invincibili. Da ora in avanti, dice la Cassazione con questa assoluzione, chi inventerà storielle senza avere in mano nulla di serio, pur di mandare in carcere l'imputato preferito, non verrà coperto, ma lasciato solo a gestire il dopo sentenza. In quel frangente sarebbe il caso che qualche giornalista pubblicizzasse gli errori dei magistrati, così da non permettere che possano far carriera nonostante abbiano dimostrato di sbagliare grossolanamente... perché ancora il sistema non è pronto a decidere cosa farne della sua costola che si incrina. Infatti in questo caso, se non ci saranno giornalisti a criticare, il dopo cosa prevede? Nulla di nulla. E' chiaro che Rudy Guede è l'unico plausibile assassino, anche se è stato condannato perché ha partecipato all'omicidio e non per averlo commesso. Fra pochi mesi, alla faccia di tutti, sarà ugualmente libero di girare fra noi perché nessuna giustizia potrà cambiare le carte ormai cristallizzate. I procuratori non avranno conseguenze perché, come gli oncologi, sono liberi di seguire il loro istinto investigativo e, quindi, di sbagliare a discapito della vita altrui. I tecnici che hanno periziato non contano più niente, nessuno andrà da loro a chiedere il motivo per cui hanno lavorato in maniera scadente o scritto cose poco vere. I poliziotti presenti all'interrogatorio della Knox, che hanno anche visto una sensitiva assistere agli interrogatori, non dovranno neppure giustificarsi. Hanno fatto il loro lavoro. Sono militari: qualcuno più alto in grado ordina e loro ubbidiscono senza fiatare. Questa è la regola. Chi della sentenza si lamenterà è la parte civile che, purtroppo in questo caso come in altri, invece di restare al centro o cercare di fare indagini proprie senza lasciarsi influenzare dalle carte di chi vuole arrivare a una condanna, si adagia a corpo morto alla procura che mai le fornirà notizie o informative contrarie alla propria tesi colpevolista. La procura ha detto che più persone hanno ucciso Meredith, quindi la famiglia Kercher si aspetta che più persone vengano condannate. Poco importa come e con quali motivazioni. Poco importa se per un gioco erotico o perché Guede non ha voluto pulire il bagno. La condanna è ciò che vuole l'accusa e, di conseguenza, ciò che vuole la parte civile. Che ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema è facile da capire, che ci sia da lavorare per dividere le carriere dei magistrati e per modificare certe congiunture (parte civile-procura) che ora lavorano in coppia anche. Perché le teste se lavorano in gruppo non ragionano in maniera autonoma... e la giustizia per funzionare al meglio ha bisogno di poca amicizia fra le parti.

Sotto a chi tocca. Oggi in carcere ci sono Veronica, Sabrina, Massimo e tanti altri, ma se il sistema giustizia non cambia domani l'inferno potrebbe toccare anche a noi... Il dottor Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, durante la "stagione storica" che tutti conosciamo col nome "mani pulite" - usò lo strumento che ancora utilizzano tanti procuratori per intimorire gli indagati e ottenere confessioni: la custodia cautelare in carcere. Detto questo, però, tempo dopo fu lui uno dei magistrati che, nonostante la legge gli consenta l'uso di tale strumento di tortura, fece autocritica dicendo che non sempre quanto dallo Stato è considerato legittimo è anche necessario e opportuno. Onore a lui, anche per quanto ha dichiarato dopo la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Non ha peli sulla lingua il dottor Norbio e non si è fatto scrupolo di dire che: "Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare, dev'essere buttato fuori dalla magistratura". Fatta questa premessa, parliamo di chi ha spedito in carcere persone che si proclamano innocenti nonostante gli indizi non siano sufficienti a suffragare un sequestro di stato. Ne parliamo perché troppo spesso capita di trovare persone mandate in carcere da magistrati che sbandierano una ricostruzione ad hoc, ma poco credibile, basata su indizi e perizie che solo all'apparenza sembrano concordare. Massimo Bossetti, ad esempio, è in carcere esclusivamente per colpa di uno strano Dna che non solo non doveva trovarsi su un cadavere esposto alle intemperie nei tre mesi invernali, ma che contiene anche stranezze non propriamente spiegabili. Il resto, gli indizi a contorno che escono dalla procura e tanto vengono pubblicizzati ogni volta che la difesa cala una buona carta o ha un appuntamento con un giudice, sono fronzoli sistemati a modo e adattati in un secondo tempo. D'altronde, la nuova moda adottata da molte procure moderne consiste nell'arrestare il colpevole predestinato prima di svolgere indagini. Indagini che si portano avanti ad personam in un secondo tempo, quando è facile adattarle al predestinato di turno (ma anche a qualsiasi altra persona). E' indagando a posteriori che si può smazzare il mazzo e cambiare in corso d'opera le carte già sistemate sul tavolo. Come si è fatto con Sabrina Misseri, arrestata perché coinvolta da suo padre in un delitto colposo avvenuto in garage mentre lui dormiva sulla sdraio in cucina. Questa ricostruzione "convincente" è stata avallata da un Gip e cristallizzata dai giudici in un incidente probatorio durato dieci ore. Peccato per la giustizia con la G maiuscola che tanti mesi dopo Sabrina Misseri sia stata rinviata a giudizio e processata per un assassinio avvenuto in cucina mentre il padre, che nella nuova ricostruzione non dormiva più sulla sdraio, si trovava in garage. Ma come? E la ricostruzione convincente avvallata da tanti giudici? Chissà che fine ha fatto. E non è l'unica anomalia, visto che per confermare la ricostruzione accusatoria si è usato il sogno che chi frequentava il fiorista conosceva da ottobre 2010. Sogno che è entrato in scena - e diventato irreale realtà - solo ad aprile 2011 quando Anna Pisanò - che girava per Avetrana col registratore fornitole dai carabinieri autorizzati dalla procura - decise finalmente di firmare un verbale con tanto di nome e cognome del sognatore. In poche parole, pare che le procure abbiano imparato bene quel gioco di prestigio in cui i fazzoletti colorati entrano nel cilindro per poi uscirne trasformati in mazzi di fiori. L'ultima vittima di questa nuova procedura è senza dubbio Veronica Panarello, probabilmente arrestata e spedita in carcere perché convinti di ottenere una rapida confessione (così da chiudere in velocità un caso mediatico troppo invadente). Contro di lei non c'è un Dna degradato, ci sono una serie di filmati, alcuni degradati, che riportano orari sballati. Solo quelli, nulla di più. Eppure son bastati per convincere un procuratore a far arrestare la madre di Loris e a far scrivere ai giudici che si tratta di una assassina immonda, altamente pericolosa che potrebbe reiterare il reato, scappare dall'Italia o inquinare le indagini. Cappero che filmati esaustivi hanno in procura! Che abbiano filmato l'assassinio? Ad Avetrana nei tre mesi successivi all'arresto di Sabrina Misseri si modificarono le testimonianze della prima ora. Testimonianze concordanti. Ad esempio, si spinse sulla coppia di fidanzati che videro Sarah per strada alle 14.30 - e cronologicamente questo era un orario molto compatibile con quello da subito fornito dalla famiglia Scazzi e dalla badante rumena che avevano parlato, e firmato a verbale, di un'uscita da casa a ridosso proprio delle 14.30 - affinché cambiassero l'ora dell'avvistamento. E lo stesso trattamento si riservò ad altri. Cosicché le indagini postume all'arresto di Sabrina Misseri riuscirono nel miracolo di limare quella mezzora che impediva la ricostruzione colpevolista. Tutti sappiamo che gli aggiustamenti ci furono, perché fu proprio un testimone a dichiarare in televisione che i nuovi orari li aveva ricostruiti assieme e grazie ai procuratori. E su questa affermazione è meglio stendere un velo pietoso. A Santa Croce Camerina si sta cercando di fare la stessa cosa? Probabile, dato che un agente della municipale aveva da subito dichiarato di aver visto Veronica Pannarello e la sua auto passare a pochi metri dalla scuola sulle otto e trenta o poco più. La sua testimonianza era concordante al 100% con quanto dichiarato dalla stessa Panarello, ma già nella richiesta d'arresto i procuratori scrissero che al secondo e terzo interrogatorio la persona in questione aveva modificato la sua versione non mostrandosi più sicura come all'inizio. Però il motivo di quella insicurezza è facile da capire, dato che di certo chi l'ha interrogata le ha sbandierato in faccia una nuova verità fatta di telecamere e filmati che parevano smentirla. Ma, c'è da chiedersi, quei filmati saranno davvero sicuri o saranno sicuri come quel testimone che inizialmente alla procura di Palermo non volevano vedere neppure in fotografia e finì per essere utilizzato dalla procura di Caltanisetta? Quello che Ilda Bocassini e altri bollarono a bugiardo cronico e che invece, grazie anche al procuratore Petralia, che ora segue in prima persona il caso dell'omicidio di Loris Stival ma che al tempo lavorava a Caltanisetta, diventò la bocca della verità in grado di far condannare delle persone all'ergastolo (dopo 16 anni di carcere liberate con tante scuse nel 2011) e di depistare tutta l'indagine sulla strage di via D'Amelio? Il pentito non pentito ma pentito si chiama Vincenzo Scarantino e per tutti era un criminaletto da strapazzo a cui piaceva violentare commesse (e aveva una moglie e tre fidanzati trans) che poco ci azzeccava con la mafia. Per tutti... ma non per alcuni procuratori e per chi si occupava delle indagini. Procuratori, uno proprio Carmelo Petralia, che si avvalsero delle indagini di un pool di poliziotti che a causa del loro modo di indagare stanno subendo un processo che li vede accusati di aver costruito prove false (ancora il processo non è concluso, ma vedrete che saranno tutti assolti) e costretto il pentito non pentito (e i suoi amici) a fare dichiarazioni false. Fra questi, certamente lo ricorderete perché venticinque giorni prima della scomparsa di Yara Gambirasio divenne Questore di Bergamo e fu lui a seguire le indagini sulla scomparsa e sulla morte della ragazzina di Brembate Sopra, un giovane Vincenzo Ricciardi affiancato, al tempo, da un altrettanto giovane Mario Bo. Quest'ultimo, diventato poi dirigente della squadra mobile in quel di Gorizia, è finito a processo per "falso". Processo che in questi giorni è alle ultime battute e che ha posto fine alla sua carriera. C'è da dire che anche la carriera di Vicenzo Ricciardi poteva interrompersi pochi mesi fa, quando fu indagato e rischiò di finire a processo. Insomma, come la giri la giri siamo sempre alle solite. Sempre a chiederci a cosa e a chi dobbiamo credere. A chiederci se le indagini sono sempre genuine oppure...Dobbiamo quindi credere ad occhi chiusi a un procuratore che fa di tutto per chiudere velocemente un "caso spinoso" (d'altronde lo ha fatto anche quando si è fidato del pool investigativo di La Barbera e delle parole estorte a Vincenzo Scarantino), o dobbiamo credere a una madre a cui hanno ucciso un figlio e che nonostante i mesi trascorsi in carcere continua a proclamarsi innocente? Veronica potrebbe essere colpevole? Se qualcuno porterà prove "genuine" tutti ci crederemo. Per il momento continuiamo a chiederci il motivo per cui sia in carcere. Esiste davvero un motivo... oppure è reclusa a causa di un sistema giustizia che si avvolge e si chiude in se stesso e invece di vagliare al meglio gli indizi, a favore e contro, si protegge isolando la difesa e adeguandosi alle conclusioni di chi ha indagato e della procura? La domanda è logica, perché gli esempi che portano a questa conclusione sono tanti dato che in tanti casi i Gip e i giudici si sono appiattiti alle procure. Inseriamo la mano nel sacchetto degli errori giudiziari e prendiamone uno a caso. Parliamo del grossolano sbaglio di valutazione di uno stimato magistrato che tante importanti inchieste sta portando avanti negli ultimi anni. La dottoressa Assunta Cocomello che opera in stimate istituzioni romane. Fu lei nel 2011 a chiedere il rinvio a giudizio di Josè Alberto Cadena Ruiz per aver ucciso, nel dicembre 2008 - secondo la sua procura durante un rapporto sessuale estremo - Graciela Carbo Flores. Lo chiese nonostante José avesse un alibi. Mentre Graciela moriva lui era dall'altra parte di Roma, a trenta chilometri da lei, con tre amiche che inizialmente testimoniarono in suo favore. Poi due ebbero paura e si defilarono. Ne restò una che ribadì sempre la stessa storia...Ma, ormai s'è capito, poco importano i testimoni che forniscono alibi quando una procura ha un disegno chiaro in mente (come dimostrano le condanne di tanti testimoni della difesa). Così la sua amica da testimone a favore diventò parte attiva del crimine e fu incriminata per favoreggiamento. José era già in carcere al momento della richiesta di rinvio a giudizio, nonostante la logica non volesse un'incriminazione perché la situazione che aveva generato la morte, il rapporto sessuale estremo ipotizzato dalla procura, non esisteva proprio. Infatti gli accertamenti provarono che Graciela non aveva avuto alcun rapporto sessuale prima di morire. E questa sicurezza toglieva valore alla ricostruzione della procura e avrebbe dovuto impedire un qualsiasi arresto. Così si cambiò leggermente il movente, e si insinuò che ci fossero screzi fra José e Graciela. Ma Graciela aveva una malattia cronica che l'obbligava a recarsi spesso in ospedale, e in fondo non era difficile capire che la povera donna era morta di morte naturale a causa del complicarsi della malattia e che i leggeri segni sul collo erano riferibili al foulard che sempre indossava aderente (come testimoniato da quelli che la conoscevano). Infatti, "morte naturale" fu la diagnosi che si fece al ritrovamento del cadavere (constatata anche dalla Polizia Scientifica). Il problema nacque dopo, quando un perito incaricato dalla dottoressa, unico fra tanti, sbagliando clamorosamente scrisse che la donna era stata strangolata. Vabbé, dirà il lettore, una svista del genere sarebbe stata semplice da smontare per la difesa. Quando uno sbaglio è clamoroso è facile da smentire. Per cui, se nonostante tutte le garanzie che esistono in Italia l'imputato non fu scarcerato, significa che in fondo in fondo qualcosa di criminale aveva fatto. Che la difesa non aveva nulla (che servisse a scagionarlo) da portare a discolpa ai giudici. Nessun magistrato metterebbe in carcere una persona incensurata senza averne motivo. Ecco il ragionamento che fa la gente quando viene a sapere di un arresto. Il luogo comune vuole che chi finisce in carcere qualcosa abbia commesso di sicuro. E' un ragionamento che a priori non è sbagliato perché si fonda sul fatto che le indagini e gli accertamenti non sono in mano a una sola persona o una sola istituzione. Infatti, la giustizia pretende che a indagare siano le forze dell'ordine (polizia, carabinieri, guardia di finanza ecc...) che poi devono riferire a un procuratore  (quello di turno al momento del crimine) che ordina nuove indagini e si affida a suoi periti (anche esterni) e dopo aver trovato e vagliato prove o indizi ipotizza una ricostruzione del crimine e presenta una richiesta di arresto al Gip - che solo dopo aver a sua volta verificato la logicità del quadro accusatorio e delle prove portate dal procuratore decide se arrestare oppure no. Insomma, un indagato non va mai in carcere per colpa di un singolo. E se ad andare in carcere è un innocente, significa che c'è stato un concorso di colpa che ha coinvolto molte "persone perbene e stimate". Compreso quel giudice che alle persone stimate ha creduto a prescindere dalla logica che hanno usato nelle indagini e nelle ricostruzioni. Per questo sui media si può leggere, a fronte di un omicidio che non c'è stato, che una coppia di amanti diabolici è stata finalmente arrestata. Per tornare al povero José Alberto, anche in quell'occasione il Gip si adeguò alle conclusioni colpevoliste della procura. E a lui si adeguarono i giudici del tribunale del riesame, cui il difensore portò tutto ciò che serviva per scarcerare il proprio assistito. Tribunale del riesame che invece di scarcerare José - perché come dicevano tanti periti non c'era alcun omicidio ma si trattava di una morte naturale - si complimentò per il lavoro certosino svolto sia dalla procura che dal Gip e decise che l'imputato era un essere immondo, un assassino altamente pericoloso che avrebbe potuto sia inquinare le prove, sia reiterare il reato, sia fuggire all'estero. Solo nel 2013 - nel frattempo l'imputato aveva trascorso due anni e mezzo in carcere - un giudice si attivò per scarcerarlo in quanto, scrisse nelle motivazioni, "il fatto non sussiste dato che non ci fu alcun omicidio". E la Procura, che nel frattempo aveva cambiato i procuratori, neppure impugnò la sentenza tanto era pacifico e chiaro che José Alberto non fosse un assassino. E tutto finì così, senza neppure le scuse di chi aveva imbastito un quadro accusatorio immaginario né quelle di chi quel quadro ridicolo lo aveva accettato chiudendo un innocente in cella per due anni e mezzo. No problem José, chiedi (un rimborso milionario allo stato italiano) e ti sarà dato... tanto i sudditi del Bel Paese pagano volentieri per gli errori dei loro magistrati e dopo aver pagato continuano ad essere contenti e a sproloquiare contro chiunque venga arrestato e contro chiunque chieda siano rispettate le giuste regole. Lo fanno quando leggono i giornali, quando ascoltano gli opinionisti e gli pseudo criminologi televisivi lavorare pro' procura e di fronte a milioni di telespettatori accusare di omicidio, senza avere alcuna prova in mano, chi si dichiara innocente. In fondo José, il tuo è solo uno dei tanti errori giudiziari che capitano giornalmente in Italia a causa di "qualche persona stimabile". In fondo tu alla fin fine hai trovato un giudice capace e grazie a lui sei restato in carcere "solo" trenta mesi... tu dall'inferno ne sei fuori José, pensa a chi ci è appena entrato o a chi ci vive da anni e non sa se mai ne uscirà...

VENERDI’ 5 GIUGNO 2015. NONA UDIENZA DI APPELLO. RISULTATI DELLA PERIZIA SULLA CELLA…TELEFONICA.

Sarah Scazzi, processo d’appello ultime notizie: perizia scagiona Cosima Serrano. Una nuova perizia sui cellulari di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate in primo grado all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi, potrebbe ribaltare le sorti del processo d'appello. Per l'accusa, entrambe, madre e figlia, erano nel garage in cui la 15enne è stata uccisa il 26 agosto 2010, ad Avetrana (Taranto). Secondo quanto riferito in merito alla perizia dei difensori delle imputate, "il cellulare di Sarah ha smesso di funzionare alle 14.42.48 in garage, esattamente nei momenti in cui Michele Misseri sostiene di averla strangolata con una corda. Ed è proprio quando Sabrina, come ha sempre sostenuto, prova a chiamare la cugina insieme a Mariangela Spagnoletti. Dunque alle 14.42.48 il cellulare di Sarah era in garage e sua cugina sicuramente per strada insieme alla testimone Spagnoletti. Ergo? Secondo la difesa delle due donne le conseguenze di questa perizia sono chiare: Cosima e Sabrina sono estranee all’omicidio”.

Novità sul processo d’appello per l’omicidio di Sarah Scazzi: la perizia su celle telefoniche e cellulari commissionata a tre consulenti nominati dal presidente del collegio giudicante potrebbe scagionare Cosima Serrano, ecco i dettagli. È stata discussa stamani nell’aula della corte di Assise d’appello di Taranto la perizia tecnica su cellulari e celle telefoniche redatta dal Politecnico di Torino su richiesta del giudice Sinisi, nell’ambito del processo d’appello sul caso Sarah Scazzi, che vede imputate Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, condannate in primo grado all’ergastolo per l’omicidio delle 15enne di Avetrana, avvenuto il 26 agosto 2010. La relazione presentata stamani potrebbe scagionare Cosima Serrano in quanto attesterebbe che “non c’è certezza su dove fosse Cosima Misseri al momento della morte della nipote”. Questo sarebbe emerso oggi in udienza dalla relazione dei tre periti incaricati, che tuttavia non ha contraddetto quanto accertato nella relazione tecnica dei carabinieri del Ros di Lecce sulle celle telefoniche agganciate nel pomeriggio del 26 agosto 2010 dai membri della famiglia Misseri. Per l’accusa, infatti, il cellulare di Cosima alle 15.25 del 26 agosto 2010 agganciò la cella del garage della sua abitazione, esattamente 60 minuti dopo il presunto orario della morte di Sarah, prova del fatto che la donna fosse nel luogo del delitto intenta a eliminare le tracce dell’omicidio della nipote. Ma l’importante e “foriero di nuovi spunti” esito della relazione, secondo gli avvocati delle due donne, Franco Coppi e Franco De Jaco, aprirebbe la strada a nuovi sviluppi nel processo, che potrebbero scagionare le imputate. La perizia, inoltre, ha accertato che il cellulare di Sarah Scazzi ha smesso di funzionare in garage, alle 14.42.48, proprio negli istanti in cui lo zio, Michele Misseri, ha sempre sostenuto di averla strangolata con una corda. Stessi minuti in cui la figlia Sabrina provava a chiamare Sarah al cellulare, mentre si trovava in compagnia dell’amica Mariangela Spagnoletti. Questi dati per la difesa di Cosima e Sabrina proverebbero che le due donne sono estranee all’omicidio.

Come al soliti, intorno ad un fatto, ci sono molteplici interpretazioni interessate per avvocati e giornalisti.

Ovviamente questi elementi hanno galvanizzato la difesa: ”La perizia ha dato molti spunti interessanti per la difesa”. Lo hanno detto gli avvocati Franco Coppi e Franco De Jaco, che difendono Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano. ''E' una perizia - ha aggiunto l'avv. Coppi - di cui siamo, tutto sommato, abbastanza soddisfatti''. Secondo l’avvocato De Jaco, la consulenza ”fa chiarezza su tre poste assolutamente importanti. I periti confermano che si tratta di un atto irripetibile, non individuano l’esatta posizione del telefono di Cosima, sostenendo che poteva essere su o poteva essere giù, e sostengono che alle 14.42 il telefonino di Sarah Scazzi cessa di funzionare in garage. Quindi, sostanzialmente i tempi sono compatibili con quelli indicati da Misseri e non certo dalla Procura. Più di questo?”.

I consulenti tecnici, ha concluso De Jaco, ”si sono pure sforzati di non colpire, come avrebbero dovuto, la perizia dei Ros e ne prendiamo atto. Sapevamo benissimo che nessuno si sarebbe premurato di sbugiardare a 360 gradi la perizia dei Ros: questi ctu quanto meno si sono mantenuti su un limite di obiettività che possiamo accettare”. Per l’avv. Nicodemo Gentile, difensore di parte civile per la famiglia Scazzi, ”si tratta di un accertamento di valore complementare nella ricostruzione dei fatti che, a nostro avviso, non sposta nulla. Non è attraverso questo risultato che passa l’assoluzione di Sabrina o di Cosima”.

Daltra parte anche i giornalisti si schierano da una parte.

Omicidio Scazzi, la perizia sulla posizione dei telefonini non scioglie alcun dubbio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La perizia sulla posizione dei cellulari non scioglie tutti i dubbi e, soprattutto, non apporta elementi di novità rilevanti. E così il processo d’appello per l’omicidio di Sar ah Scazzi, la 15enne scomparsa ad Avetrana il 26 agosto del 2010, si appresta ad essere discusso dalle parti con praticamente lo stesso materiale probatorio che il 20 aprile del 2013 portò la corte d’assise a condannare all’ergastolo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per il sequestro e l’uccisione della ragazzina, cugina di Sabrina e dunque nipote di Cosima. Nelle 15 pagine della consulenza affidata dalla corte d’assise d’appello ai periti Piergiorgio Mammoli, Michela Meo e Giuseppe Vecchi, e depositata ieri in vista dell’udienza del prossimo 5 giugno, non ci sono risposte definitive ai quesiti riguardanti posizioni e celle telefoniche agganciate dai cellulari in uso agli imputati Sabrina Misseri, Cosima Serrano e Michele Misseri e alla vittima Sarah Scazzi il 26 e il 27 agosto 2010. I consulenti hanno analizzato il contenuto dei «file log» acquisiti dai carabinieri del Ros di Lecce nel corso dell’inchiesta. La perizia d’ufficio era stata disposta dalla corte d’assise d’appello per fugare i dubbi sollevati dalla difesa di Sabrina Misseri proprio sulla lettura dei «file log». Le antenne delle reti radio mobili sono gestite da computer che registrano ogni singolo evento di cui sono testimoni in un apposito file di registro («file log»). Ogni volta che un telefono entra nell'area di copertura della cella, e si «presenta» alla cella stessa, la sua apparizione viene registrata. Questo avviene anche se il telefono non viene impegnato in nessuna comunicazione. Di conseguenza, analizzando i «file log» di cella è possibile vedere quali telefoni si trovavano in una certa area in un certo momento. Secondo il consulente della difesa di Sabrina Misseri, il cellulare di Cosima Serrano alle 15.25 del giorno in cui fu uccisa Sarah, circa un’ora dopo l’omicidio, si trovava al piano superiore della villetta della famiglia Misseri e non nel garage come invece sostenuto dai carabinieri del Ros. Un distinguo tutt’altro che irrilevante in un processo indiziario come quello del giallo di Avetrana. Invece - come la Gazzetta è in grado di rivelare - sul punto specifico i consulenti della corte d’assise d’appello sostengono che non si può escludere che quella telefonata sia avvenuta all’interno dell’abitazione piuttosto che nel garage dove gli inquirenti, e anche i giudici di primo grado, hanno collocato Cosima, probabilmente intenta a ripulire le tracce lasciate dal cadavere di Sarah, nel frattempo trasportato dal marito Michele in campagna. Ma si tratta, appunto, di una risposta non definitiva. Così come non blindato è il rilievo riguardante la posizione del cellulare di Sarah alle 14.42 del 26 agosto, quando riceve la telefonata della cugina Sabrina (una messa in scena secondo l’accusa perché Sabrina aveva già ucciso la cugina e faceva quella chiamata per far vedere che la stava cercando). Secondo i periti, quella chiamata è arrivata al telefonino di Sarah probabilmente mentre si trovava nel garage, fatto emerso già durante le indagini e il primo processo. Il lavoro dei consulenti sarà comunque al centro del loro esame fissato per l’udienza del 5 giugno prossimo. Dopodichè - in tempi prevedibilmente celeri - il processo dinanzi alla Corte presieduta da Patrizia Sinisi, entrerà nella fase conclusiva, con la requisitoria del sostituto procuratore generale Pina Montanaro, le discussioni delle difese e la sentenza, attesa per gli inizi di luglio. Salvo ulteriori (ma improbabili) colpi di scena riguardanti quanto emerso dall’inchiesta Scazzi-bis, che conta 12 indagati per falsa testimonianza e fa emergere uno scenario nel quale altri sanno quello che davvero è accaduto alla povera Sarah quel maledetto 26 agosto.

Di tutt’altro tenore è, invece, il resoconto di Maria Corbi su “La Stampa”. La perizia che può riaprire il caso sul delitto di Sarah Scazzi. Il documento redatto dal Politecnico di Torino: «Non c’è certezza su dove fosse Cosima Misseri al momento della morte della nipote». Nessuna certezza di dove fosse Cosima Misseri quando sua nipote Sarah veniva uccisa e nelle fasi che sono seguite. Una perizia del Politecnico di Torino è stata depositata e oggi, venerdì 5 giugno, verrà discussa nell’aula della corte di Assise d’appello di Taranto dove si svolge il processo di appello per Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Un risultato che conta molto per la difesa sia di Cosima che di Sabrina che hanno sempre contestato la dinamica dell’omicidio disegnata dall’accusa e poi confermata dalla corte di Assise. Anzi le dinamiche omicidiarie perché, ricordiamolo, se ne sono sedimentate diverse in questi cinque anni (quasi). A iniziare dalle diverse confessioni di Michele, a quelle vergate negli ordini di custodia cautelare. Sarah fu uccisa in casa, dove era presente anche Cosima, e il suo cadavere fu spostato in garage per ragioni «prudenziali», come dice la sentenza. Secondo il giudice di primo grado non vi è dubbio sulla localizzazione del telefonino della donna. Mentre questa perizia dice il contrario: non vi è alcuna certezza. E quindi, come sostiene la difesa di Cosima «la giovane Sarah è stata uccisa nel garage, senza che Serrano Cosima si rendesse conto di nulla, anche perché, diversamente, vi sono tutte le ragioni per ritenere che ella sarebbe intervenuta per impedire tale atroce delitto». In ogni caso non si riesce ad andare oltre ogni ragionevole dubbio. Ma la perizia che verrà discussa oggi in aula a Taranto dice anche altre due cose importanti. La prima è che il cellulare di Sarah ha smesso di funzionare alle 14.42.48 in garage, esattamente nei momenti in cui Michele Misseri sostiene di averla strangolata con una corda. Ed è proprio quando Sabrina, come ha sempre sostenuto, prova a chiamare la cugina insieme a Mariangela Spagnoletti. Dunque alle 14.42.48 il cellulare di Sarah era in garage e sua cugina sicuramente per strada insieme alla testimone Spagnoletti. Ergo? Secondo la difesa delle due donne le conseguenze di questa perizia sono chiare: Cosima e Sabrina sono estranee all’omicidio. Ma c’è un altro punto importante in questa perizia. Perché i tecnici affermano che le rilevazioni sulle celle effettuate durante le indagini dai Ros nel gennaio 2011 erano impossibili da integrare «a causa dei cambiamenti nel frattempo intervenuti agli apparati e alle configurazioni della rete dell’operatore». Dunque, dice l’avvocato Franco De Jaco, difensore della Serrano, «erano accertamenti irripetibili a cui la difesa non è stata ammesso e questo ha leso un diritto delle due imputate». «Finalmente qualcosa emerge - commenta De Jaco -, dalle nebulose indagini e si sta chiarendo quello che la difesa aveva rappresentato e cioè che gli accertamenti tecnici non potevano trovare ingresso nel processo in quanto irripetibili». Anche Franco Coppi, difensore di Sabrina, accoglie questa perizia positivamente: «Quello che sembrava certo e cioè che Cosima fosse nel garage non è supportato dal dato scientifico».

Sabrina Misseri e la perizia che smentisce la procura e i giudici di Taranto ...scrive Massimo Prati sul suo blog “Albatros -Volando Contro Vento” . Ora c'è una perizia "neutra" (l'unica che proviene da fuori Taranto) a dimostrare che il cellulare di Cosima Serrano verso le 15 e 30 di quel maledetto 26 agosto 2010 poteva essere ovunque e non per forza nel garage di via Deledda 22. I periti di Torino, non quelli che abitualmente lavorano a Taranto, nella loro perizia scrivono chiaramente che non vi può essere alcuna certezza su dove si trovasse il telefonino. Quindi poteva essere anche in casa o in giardino. Questa perizia certifica lo sbaglio commesso dal giudice Cesarina Trunfio che in primo grado, dopo aver condannato Cosima Serrano, nelle sue motivazioni diede per scontato e certo che la donna si trovasse nel garage col suo cellulare. Invece ora sappiamo che non c'è niente di certo e che, quindi, la condanna inflitta a Cosima ha basi d'argilla ed è bastato allontanarsi un solo attimo da Taranto per capirlo. Ma c'è dell'altro perché a proposito della cella telefonica i periti di Torino scrivono anche che a causa dei cambiamenti nel frattempo intervenuti agli apparati e alle configurazioni della rete dell’operatore, quindi a causa delle modifiche apportate dopo le verifiche del Ros, non è possibile una integrazione della perizia. Perizia che quindi non si può rifare, perizia a cui non fu invitata a partecipare la difesa, come sarebbe stato obbligatorio, e che fu redatta per la sola procura. Motivo per cui la perizia voluta dai procuratori si dimostra "irripetibile" - come da sempre urlato a gran voce dalla difesa - e per legge va tolta dai processi perché mancante delle più elementari garanzie giuridiche. Cosa che non è stata fatta nell'aula della dottoressa Trunfio e che nelle prime udienze del processo d'appello, quelle in cui praticamente non si accolse nulla di quanto chiesto dagli avvocati difensori, non fece neppure il giudice Rosa Patrizia Sinisi, che lo presiede, perché, sentita con le mie orecchie, a parer suo era possibile ristabilire gli stessi parametri presenti al momento delle analisi del Ros. Ci sarebbe da chiedersi chi l'avesse consigliata e convinta di una simile inverosimile baggianata. Per cui la cosa più logica e giusta da fare, sarebbe quella di eliminare la perizia della procura (inutilizzabile) e inserire nei faldoni la perizia di corte per ragionare con questa ben assimilata dalla mente dei giurati. Perché la perizia del politecnico di Torino non serve solo a ristabilire una giusta equità processuale e a far capire che la precedente è priva di valore, ma fa luce anche sulla posizione del cellulare di Sarah al momento della chiamata effettuata da Sabrina Misseri alle 14.42. E questo è un punto importante perché i periti hanno scritto che il cellulare di Sarah in quell'orario era sicuramente in garage. Certo, a prima vista può sembrare una sciocchezza perché la procura può sempre dire che in quell'orario anche il cadavere di Sarah, che per i procuratori fu uccisa in casa quasi mezzora prima, si trovava in garage. A prima vista e senza ragionarci sopra si potrebbe persino dar credito a questa tesi e ai giornalai zerbino che sui quotidiani pugliesi spacciano per inutile la perizia del politecnico torinese (forse non sono abituati a ragionare con la loro testa). Ma solo a prima vista e solo per un attimo, perché basta usare tutti gli elementi a disposizione per capire che il cellulare di Sarah posizionato nel garage alle 14.42 dimostra che Michele Misseri non ha mentito quando ha detto di aver ammazzato la nipote. Sin dal primo verbale il punto fermo della sua confessione è stato lo squillo del cellulare che lo aveva come "risvegliato" obbligandolo a lasciare la corda con cui aveva legato il collo della nipote. Lo ha sempre detto. Il cellulare squilla e lui lascia la presa. Il cellulare cade subito prima del cadavere di Sarah e finendo sul pavimento di cemento si apre e smette di suonare. Lui in quel momento capisce di aver fatto una cosa aberrante. Tocca il collo della nipote e non sente pulsazioni, le allarga gli occhi toccandoli con un dito e si accorge di essere un assassino. Se colleghiamo questa parte della sua confessione alla perizia, non abbiamo un teorema ma la certezza che Sarah è stata uccisa dallo zio e che lui accusandosi del delitto il 6 ottobre non ha mentito ai procuratori. "... l'ho presa per le spalle e l'ho sollevata di peso girandola verso il portone. A quel punto mi ha dato un calcio col tallone nelle parti intime e non ci ho visto più. Ho preso la corda appoggiata sul trattore, l'ho attorcigliata un paio di volte al suo collo e ho stretto con tutta la forza che avevo. Non so per quanto tempo, forse per cinque minuti. Poi è squillato il cellulare che Sarah stringeva ancora in una mano e ho lasciato la presa. Il cellulare è caduto e si è aperto. Anche Sarah è caduta..." La perizia dice che il cellulare alle 14.42 ha squillato per l'ultima volta ed era nel garage di via Deledda 22. Michele Misseri nel primo interrogatorio dice che il cellulare ha squillato mentre stringeva la corda e che poi è caduto e si è aperto facendo uscire la batteria. Se la perizia avesse dimostrato che il cellulare era in casa o da un'altra parte che non fosse il garage, questi due indizi non avrebbero potuto incrociarsi e la procura avrebbe avuto ragione di sospettare figlia e moglie. Ma il cellulare era in garage e i due indizi si possono unire e completandosi uno con l'altro formare una prova che fa capire tante cose. Prima fra tutte che Sabrina Misseri mentre Sarah moriva era in strada assieme a Mariangela Spagnoletti. Non può essere altrimenti perché altre ricostruzioni appaiono illogiche. Infatti è assurdo pensare che il cellulare di Sarah sia passato di mano, da Sabrina Misseri a suo padre, e poi sia stato dalla stessa dimenticato, o sottovalutato, per oltre un mese. Questo è assurdo perché la ricostruzione accusatoria che vuole il telefonino nella disponibilità di Sabrina Misseri almeno fino alle 14.28, quindi fino al momento dello squillo che secondo i procuratori la ragazza si invia col cellulare della cugina per crearsi un alibi, non spiega il motivo per cui dopo il suddetto squillo, visto che Sarah per i procuratori a quel punto era già cadavere, il cellulare non venga spento. Non lo spiega in alcun modo. Eppure non poteva restare "acceso" nelle mani di Michele, visto la sua poca conoscenza dei cellulari e di quell'apparecchio in particolare. E se qualcuno avesse cercato Sarah, la madre il padre il fratello o un'amica, e lo zio avesse schiacciato il tasto sbagliato rispondendo pur senza parlare? Non era un rischio da correre dopo un omicidio e un depistaggio pensato per la creazione di un alibi ad hoc. Inoltre chiamare quel cellulare alle 14.42, se Sabrina Misseri lo avesse davvero dato al padre che sapeva posizionato in garage col cadavere, significava correre un rischio enorme che mai un assassino avrebbe corso, sapendo del telefonino acceso, dei portoni aperti, e vista la presenza di Mariangela e di sua sorella. E se le due ragazze avessero sentito gli squilli provenire dal garage? Ma oltre a questo i procuratori non hanno spiegato neppure il motivo per cui, se il cellulare lo avesse dato Sabrina al padre, hanno accusato la ragazza di aver cercato la scheda sim fra la spazzatura. Ma come? Lei le sim le conosceva bene e non si era accorta che quella in questione era ancora inserita nel cellulare di Sarah? No, non poteva non accorgersene e quindi è più convincente la spiegazione di Michele Misseri che dice alla figlia di far mucchiette con la scopa perché deve ritrovare una vite particolare che ha perduto. In pratica, la perizia portata in tribunale dai periti di Torino apre a una nuova ipotetica ricostruzione che potrebbe vedere Sarah uscire di casa alle 14.28, al momento dello squillo inviato a Sabrina, per poi passare da via Kennedy, dove fu vista dai fidanzati, alle 14.31 e arrivare di fronte alla casa dei Misseri sulle 14.33. In strada non c'è nessuno, ma il garage è aperto e lo zio sta bestemmiando. Poco ci vuole a immaginare che, seppur titubante, si sia fatta forza per chiedere, dall'alto, se poteva citofonare. Poco ci vuole che sentendosi ignorata e vedendo la sua voce coperta dalle bestemmie di Michele Misseri, abbia deciso di avvicinarsi allo zio per chiedere se poteva citofonare e il motivo di tante parolacce. In fondo si era sempre mostrato gentile con lei. E poco ci vuole che si sia trovata ad avere a che fare con il furore di una persona in quel momento ingestibile. E poco ci vuole a credere che verso le 14.37/14.38 lui l'abbia presa alle spalle stringendole una corda al collo fino al momento in cui lo squillo del cellulare lo ha risvegliato mettendolo di fronte al crimine che aveva commesso. Poi la vergogna per quanto compiuto ha fatto il resto, fin quando i sensi di colpa hanno preso il sopravvento. Perché no? Se prima la procura riteneva poco plausibile una simile ricostruzione, ora c'è una perizia che la conforta e la avalla. Ed ecco che una perizia esterna donata quale "una tantum" alla difesa, forse perché troppo fiduciosi delle conclusioni del Ros e probabilmente perché si credeva di ottenere le stesse risposte, riapre i giochi e ci fa chiedere per l'ennesima volta il motivo per cui si siano lasciati i processi in mano ai giudici di Taranto. Giudici che operano in un clima poco sereno e che poco serenamente valutano le tesi portate dalle difese. Si potrebbe eccepire sul fatto che l'appello è in mano alla corte di Lecce, seppur si faccia nella sezione distaccata che si trova a Taranto. Ma resterebbe il fatto che la stessa dottoressa Rosa Patrizia Sinisi, pur essendo originaria di Bari, opera sin dal 2010 nella corte in cui, e questo appare ancora più strano, ha operato anche il giudice Cesarina Trunfio. Colei che al tribunale di Taranto, non nella sezione distaccata, decise di condannare Cosima Serrano e Sabrina Misseri avallando testimonianze imbarazzanti e, ora lo sappiamo, dando per certo ciò che certo non era. Insomma, l'intreccio di conoscenze e amicizie (ricordo a tutti che la dottoressa Trunfio per molti anni è stata procuratrice, quindi sottoposta del dottor Sebastio e collega dei procuratori Argentino e Buccoliero) non aiuta un processo che per essere imparziale avrebbe bisogno di svolgersi al di fuori di un ambiente oramai inquinato e difficilmente gestibile dai giudici locali che si trovano ad avere sicurezze mentali radicate da tempo che però, e la perizia di Torino lo dimostra, sicurezze non sono. Il problema è che a causa di tante aleatorie sicurezze due donne innocenti sono in carcere da molti anni... che forse sarebbe bastato spostare il primo processo a Potenza per scoprire che la verità non è mai né troppo complicata né troppo difficile da capire...

VENERDI’ 12 GIUGNO 2015. DECIMA UDIENZA DI APPELLO. REQUISITORIA DELLA PROCURA GENERALE.

Dinanzi alla Corte di Assise di appello di Taranto è iniziata l’udienza del processo di secondo grado per l’omicidio di Sarah Scazzi, che prevede la requisitoria del sostituto procuratore generale Antonella Montanaro. Tra gli imputati c'è Sabrina Misseri ma non la madre Cosima Serrano (entrambe condannate in primo grado all’ergastolo).

Cosima Serrano, imputata nel processo d’appello sul delitto Scazzi, non si è presentata nell’aula dell’udienza perché si è rifiutata di indossare le manette durante il trasferimento dal carcere. Uno dei suoi legali, l’avv. Franco De Jaco, ha riferito alla Corte che la rinuncia deriva dal fatto che la scorta che doveva accompagnare Cosima dal carcere all’aula di Corte di Assise di appello voleva mettere le manette ai polsi della detenuta. Quest’ultima ha quindi rinunciato a presenziare all’udienza. Circostanza che ha colto un pò di sorpresa il presidente della Corte di assise di appello, Patrizia Sinisi. La sua assenza stamani era stata inizialmente attribuita a ragioni di salute. E’ stato invece il suo avvocato difensore, Franco De Jaco, a rivelare i motivi della contumacia della sua assistita. «Lo ha fatto per protestare contro la decisione della polizia penitenziaria di ammanettarla durante la traduzione dal carcere al tribunale», spiega il legale che trova inspiegabile la procedura «mai rispettata prima». Sabrina, per la prima volta sola nella cella riservata ai detenuti dell’aula della Corte d’assise d’appello, ha invece accettato le manette.

Il presidente della Corte, Patrizia Sinisi, ha poi riferito che sono state depositate in cancelleria le osservazioni scritte, con 10 allegati, di tre periti della difesa di Sabrina Misseri su una perizia dei Ros su celle telefoniche. La difesa ha anche chiesto di estromettere alcune parti della consulenza fatta svolgere dalla Procura generale. La Corte si è riservata di decidere.

«Non l’ho uccisa. Sono molto addolorata che si pensi che abbia ucciso Sarah. Non l’ho uccisa, so io quanto sono addolorata. Solo io so cosa sto passando perché non c'è più». Sabrina Misseri ha pronunciato solo queste parole dopo aver chiesto di rendere dichiarazioni spontanee. Poi è scoppiata in lacrime senza riuscire più a continuare. Sabrina, condannata in primo grado all’ergastolo, ha detto al presidente della Corte di non sentirsela di continuare a parlare. Subito dopo è iniziata la requisitoria del sostituto procuratore pg Antonella Montanaro.

La Procura generale non le crede. «Chi ha ucciso Sarah Scazzi? - esordisce Antonella Montanaro rivolgendosi alla Corte d'assise - La domanda ha martellato l'Italia per anni. Adesso tocca a voi decidere se la sentenza di primo grado vi ha offerto la certezza processuale che a uccidere Sarah e ridurla in quelle condizioni dopo essere stata in un pozzo per 42 giorni sia stato Michele Misseri o siano state Sabrina e Cosima, perché non c'è alternativa. L'unica tesi alternativa è che sia stato Michele Misseri». «Sarah è una sorella, dice Sabrina - ha sottolineato il pg - peccato che Sarah quasi nella stessa giornata dice che "è una stronza", peccato che Sabrina dicesse che Sarah "si vende per due coccole". Sarah non era più la "cosa" di Sabrina da quando aveva cominciato a frequentare il suo gruppo. Sarah diventa la rivale di Sabrina e nella sua testa vuole prendere il suo posto con Ivano Russo». Già, Ivano, l’oggetto della presunta contesa tra Sabrina e la cugina Sarah che avrebbe fatto scattare il movente della gelosia. «Lei lo voleva, lui giocava: è il dramma personale di Sabrina, la sua frustrazione», ha spiegato il pg - Sabrina era ossessionata da Ivano, come dimostrano i 4.500 sms scambiati tra i due da gennaio ad agosto 2010”. Quanto alle fasi successive al delitto, il corpo di Sarah, secondo l’accusa, viene portato in garage, Sabrina resta in casa per far ritardare l’amica Mariangela Spagnoletti, Cosima e Michele Misseri si occupano del cadavere trasportandolo attraverso l’ingresso interno posteriore di casa che porta al garage. Sarah Scazzi «viene strangolata in casa Misseri con una cintura da Cosima e Sabrina» ha detto con voce decisa il sostituto pg Antonella Montanaro, aggiungendo «Sarah è stata uccisa dalla cugina e dalla zia, una la teneva, l’altra la strangolava, non potendo reagire». Un delitto con «dolo d’impeto, non con premeditazione». Per l'accusa si è trattato di un omicidio familiare particolarmente violento, maturato in un contesto di rapporti difficili, rabbia, gelosia, invidia da parte delle due donne verso Sarah e sua madre Concetta. Il pg ha quindi ricostruito le ultime fasi precedenti al delitto. «Per raggiungere casa Misseri da casa di Sarah – ha spiegato – ci vogliono circa 4 minuti, tra le 13.35 e le 13.45. Arriva alle 13.50 circa. Alle 13.55 una teste vede due auto dinanzi a casa Misseri, quella di Cosima, una Opel Astra, e quella di Michele Misseri, la Seat Marbella; il garage è aperto. Dopo pochi minuti Sarah esce per un litigio, piangendo, ed è intenzionata a tornare a casa. Subito dopo Cosima e Sabrina escono e la inseguono con la Opel. La bloccano, Cosima scende e costringe Sarah a salire. In quel momento, ore 14 circa, incrocia il furgone del fioraio Giovanni Buccolieri che sta andando da Vanessa Cerra. L’intento in quel momento di Cosima e Sabrina è di calmare Sarah, non di ucciderla. La Opel fa un giro più lungo e incrocia l’auto di un altro testimone, la Opel va a velocità sostenuta e si ferma dinanzi al cancelletto pedonale di casa Misseri». Poi, secondo l’accusa, le terribili fasi dell’omicidio nella villetta. Nella ricostruzione della Procura generale ci sono anche i presunti tentativi di depistaggio di Cosima e Sabrina, le dichiarazioni autoaccusatorie «mutevoli e inattendibili» di Michele Misseri, tranne che per il ritrovamento del corpo di Sarah, i rapporti tesi all’interno della stessa famiglia di via Deledda, le testimonianze che farebbero cadere gli alibi dei tre principali imputati, uno scenario di piccolo centro di provincia a metà strada tra il "bigotto" e il "reticente".  Gli orari, le testimonianze, i tempi degli spostamenti confermano che Michele Misseri non può aver ucciso Sarah. «Misseri non sa come è stata uccisa la nipote, non conosce nemmeno l'arma del delitto» dice l'accusa. «Al momento dell’omicidio Michele Misseri è in garage, tant’è che non sa come è stata uccisa Sarah, non conosce le modalità, non sa qual è l’arma, sbaglia quando gli viene chiesto di spiegarlo dagli investigatori». Dalla perizia medico-legale emerge inoltre che la vittima non ha fatto resistenza nei 3-5 minuti di strangolamento, prova che sono state due persone ad uccidere, una tratteneva e l'altra strangolava. Il pg ha parlato anche della scena del rapimento della ragazzina, inseguita dalle due donne in auto durante un litigio subito dopo pranzo. Alla scena ha assistito il fioraio Giovanni Buccolieri che prima racconta ai carabinieri ciò che ha visto e poi cambia idea dicendo di averla solo sognata. La versione del sogno, per la procura, è motivata dall'esigenza di coprire una relazione extraconiugale ed è costata al fioraio una imputazione per false dichiarazioni al pm. Il pg ha elencato poi tutte le contraddizioni e le bugie delle imputate, i loro tentativi di depistaggio e il "silenzio" di comunicazione sui cellulari di Sabrina e Sarah negli stessi 24 drammatici minuti in cui si consuma, per l'accusa, l'omicidio. Cosima e Sabrina avrebbero ucciso per un litigio scaturito da gelosia e rabbia per il rapporto di amicizia crescente fra Sarah e Ivano Russo, il giovane di cui Sabrina era innamorata.

In aula, su un piccolo schermo, sono state mostrate le immagini crude dei resti del corpo di Sarah, recuperato la notte tra il 6 il 7 ottobre 2010, 42 giorni dopo la scomparsa della 15enne. Michele Misseri ha assistito impassibile, mentre Sabrina è sembrata singhiozzare a tratti stringendo in mano un fazzoletto.

«Sabrina Misseri e Cosima Serrano, sua madre, devono essere condannate all’ergastolo». Lo ha chiesto il sostituto procuratore generale, Antonella Montanaro, al termine della sua requisitoria durata circa 8 ore. E questo nonostante Michele Misseri continui a ripetere di essere stato lui a uccidere la nipote. «Sarah è stata uccisa più volte, fate giustizia», ha concluso il pg rivolgendosi alla Corte. Secondo la pubblica accusa, quindi, sarebbe da confermare la condanna al carcere a vita inflitta alle due imputate dalla Corte d’assise. Il pg chiede inoltre la conferma delle altre sette condanne. In primo grado, ad aprile 2013, la Corte d'assise di Taranto condannò a otto anni di reclusione Michele Misseri, accusato di soppressione di cadavere per aver gettato il corpo della nipote in un pozzo. Per lo stesso reato furono condannati a sei anni il fratello Carmine Misseri e il nipote Cosimo Cosma, morto lo scorso anno. Per favoreggiamento personale furono condannati a due anni l'avvocato Vito Russo, ex legale di Sabrina Misseri, a un anno e quattro mesi Giuseppe Nigro e a un anno di reclusione Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano.

Il processo d’appello riprenderà lunedì prossimo con l’udienza riservata agli interventi degli avvocati delle parti civili e di Michele Misseri.

Cosima Misseri non è voluta andare in aula ad ascoltare la requisitoria della pg Antonella Montanaro, scrive Maria Corbi su “La Stampa”. Non vuole l’umiliazione delle manette. «Non ho fatto niente, non sono una criminale». E’ rassegnata, si aspettava quello che poi è accaduto, la richiesta della conferma dell’ergastolo per lei e per la figlia. Mentre Sabrina decide di fare dichiarazioni spontanee, ma non ce la fa, dice solo poche parole e poi scoppia a piangere: «non sono stata io, e mi addolora che si pensi che possa avere ucciso Sarah». E invece la pg lo pensa eccome. Per lei Sabrina e Cosima sono le assassine mentre Michele Misseri avrebbe trasportato il corpo senza vita della ragazza dall’abitazione di Avetrana in campagna dove poi fu ritrovato in un pozzo il 7 ottobre del 2012. «Una la tratteneva e l’altra la strangolava» ha detto il pg senza farsi sfiorare dal dubbio. Eppure ce ne sono molti in questo processo dove anche l’ultima perizia disposta dalla corte sulle celle telefoniche ne ha aggiunti. Il movente? Secondo la pg «l’uccisione di Sarah Scazzi è stata una «esplosione di rabbia e di gelosia di Sabrina nei confronti di Sarah, di rabbia anche da parte di Cosima, che ha rapporti astiosi con la sorella Concetta». Cosima in aula, in corte di appello ha parlato a lungo del movente, della gelosia di Sabrina che la avrebbe spinta a uccidere Sarah. «Gelosia? Ma gelose di che? Era una ragazzina». «Dicono che noi abbiamo ucciso Sarah per la vergogna della gente. Cosa avevamo fatto? Perché mia figlia si frequentava con un ragazzo e si sono appartati? Ce ne sono tante di coppie che lo fanno, è una cosa normalissima». «Sono cinque anni che stiamo discutendo di questi argomenti. Il magistrato è di tutto rispetto e ha fatto benissimo il suo lavoro. Ma non condividiamo nulla di quello che ha detto», commenta Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri. «Lei provi ad immaginare come possa sentirsi una persona innocente che si vede accusata di aver ucciso la cugina», ha risposto a chi gli chiedeva del pianto di Sabrina «Non credo che riproverà a parlare». La sorella di Sabrina non è andata in aula, ma in queste settimane di ferie è andata spesso in carcere. «Sabrina si sta preparando al peggio», dice «Non vuole avere delusioni. Lei è innocente e sta pagando una colpa non sua. Sta malissimo e l’unica sua consolazione in questi anni è stato il rapporto di affetto che ha costruito con il professor Coppi». Per Franco De Jaco, difensore di Cosima Misseri «fino a quando non si uscirà da questo territorio sarà impossibile avere giustizia». «E mi chiedo, tra le altre cose, come mai la pg abbia prima spiegato come la morte non era prevista e fosse frutto di un atto imprevedibile per poi chiedere l’ergastolo». La sentenza i primi di luglio. E intanto Michele Misseri continua a dire di essere l’unico colpevole: scrive tutti i giorni a Sabrina e a Cosima senza ricevere risposta.

Michele Misseri che alle elezioni amministrative regionali, alla sezione 2 del seggio di Avetrana, presieduta dal dr Antonio Giangrande, era lì ad aspettare il suo turno. Le 6 e mezzo di domenica mattina del 31 maggio 2015. Mezz’ora ad aspettare per dare il suo voto o chissà a presentare una scheda bianca o una delle tante che conteneva offese ai politici ed alle autorità.

LUNEDI’ 15 GIUGNO 2015. UNDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGHE DEI DIFENSORI DELLE PARTI CIVILI E DI CARMINE E MICHELE MISSERI.

Nuova udienza oggi del processo d’appello per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo di contrada Mosca il 26 agosto 2010, con le arringhe dei difensori di parte civile e dei fratelli Michele e Carmine Misseri. Nella scorsa udienza il sostituto procuratore generale Antonella Montanaro ha chiesto la conferma dell’ergastolo per le due imputate in carcere, Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano (cugina e zia della vittima), e per gli altri sei imputati: Michele Misseri (marito di Cosima e padre di Sabrina) e il fratello Carmine, condannati in primo grado a 8 e 6 anni di carcere per soppressione di cadavere; Vito Russo jr, ex legale di Sabrina condannato a due anni per intralcio alla giustizia; Giuseppe Nigro, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano, condannati a pene comprese tra un anno e un anno e quattro mesi per favoreggiamento. Il primo a prendere la parola è stato l’avv. Nicodemo Gentile del foro di Perugia, uno dei legali della famiglia Scazzi (gli altri sono Valter Biscotti, Antonio Cozza e Luigi Palmieri). Parte civile anche l’ex badante della famiglia Scazzi, Maria Ecaterina Pantir (tramite l’avv. Luigi Palmieri) e il comune di Avetrana (rappresentato dall’avvocato Pasquale Corleto). «Per noi è stato un omicidio domestico. Loro, Sabrina e Cosima, non ci aiutano ma lanciamo un appello ad aiutarci processualmente perché non può venire niente di nuovo - Lo ha affermato l’avv. Nicodemo Gentile, uno dei legali di parte civile. - L'unica cosa – ha aggiunto Gentile, che ha discusso per conto della famiglia Scazzi – è se loro hanno un moto coscienza, se veramente queste lacrime sciolgono questa durezza interiore e ci dicono quello che è successo veramente. Altrimenti saremo noi insieme alla procura e ai giudici a ricostruire quella verità, la verità processuale che le inchioda alle loro responsabilità, che ci sono e sono evidenti e non hanno fatto nulla per dimostrare il contrario».

Dopo l’avv. Nicodemo Gentile (che rappresenta insieme agli avvocati Valter Biscotti e Antonio Cozza la madre di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, il padre Giacomo Scazzi e il fratello Claudio) hanno parlato l’avv. Luigi Palmieri per l’ex badante della famiglia Scazzi, Maria Ecaterina Pantir, e l’avv. Pasquale Corleto per il Comune di Avetrana. Poi è stata la volta degli avvocati Luca Latanza e Lorenzo Bullo per Michele e Carmine Misseri, condannati in primo grado a 8 e 6 anni di reclusione. «Per la mia arringa degli imput li ho ricevuti direttamente dal procuratore generale che dice apertamente che Michele Misseri è una persona buona, una persona che non ha mai fatto del male a nessuno, una persona che è stata costretta a fare quello che ha fatto», ha detto dal canto suo l’avv. Luca La Tanza, difensore di Michele Misseri, parlando con i giornalisti a margine del processo. La Tanza discute la posizione del contadino di Avetrana, zio di Sarah, per il quale il pm Antonella Montanaro ha chiesto la conferma della condanna a 8 anni di reclusione per soppressione di cadavere. «Ci sono processualmente parlando le prove – ha aggiunto il legale – che dimostrano che Michele Misseri sin dal primo giorno avrebbe voluto far ritrovare il corpo della nipote. A parere di questa difesa la pena che è stata comminata è stata sicuramente elevata». Preferendo, secondo il legale, l’occultamento e non la soppressione del cadavere. Quella di Michele Misseri è una posizione processuale anomala perchè mentre il suo difensore giudica la pena inflitta in primo grado elevata, il contadino nelle varie interviste rilasciate agli organi di informazione dichiara di aver ucciso lui la nipote Sarah e che sua moglie e sua figlia Sabrina sono in carcere ingiustamente.

Le parti civili del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, riportandosi alle conclusioni del sostituto pg Antonella Montanaro, hanno infine chiesto la conferma delle condanne per gli otto imputati
Ha parlato anche Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi.  "Non hanno ceduto fino ad adesso, non so cosa accadrà. Vediamo come va a finire". "Le lacrime di Sabrina? E’ disperata – ha aggiunto Concetta - perchè sono tanti anni che è là dentro ed è dura per lei".

MERCOLEDI’ 17 GIUGNO 2015: DODICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGA DELLE DIFESE DI SABRINA MISSERI E COSIMA SERRANO.

E’ stata un’arringa a perdita di fiato, a tratti toccante, con un veterano principe del foro che al termine di sei ore di discussione annuncia il suo ultimo processo importante. «Dedico gli ultimi anni della mia vita a questo caso perché credo fermamente nell’innocenza di questa ragazza». Così l’avvocato Franco Coppi ha concluso l’intervento finalizzato a chiedere l’assoluzione della sua assistita, Sabrina Misseri, la ventisettenne di Avetrana che con la madre Cosima Serrano è stata condannata in primo grado all’ergastolo con l’accusa di avere ucciso sua cugina Sarah Scazzi. «Questo processo è come un melodramma greco – ha detto Coppi – perché il vero colpevole reo confesso è libero mentre chi è innocente è in galera». «Non ha saputo resistere al giovane corpo della nipotina che stava per sbocciare perdendo poi la testa davanti ad un suo rifiuto», ha detto Coppi interpretando così la causa del delitto. La parte finale della sua arringa è stata una lezione di diritto penale con l’argomento della condanna quando si è colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio. «Si condanna – ha detto Coppi – se l’imputato risulta colpevole e non se il giudice ritiene che lo sia».

L'assassino è fuori. Per l’avv. Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri, il processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa il 26 agosto del 2010, è viziato da una clamorosa contraddizione. Chi si autoaccusa del delitto della 15enne di Avetrana – Michele Misseri – non viene creduto. Le due donne che hanno sempre protestato la propria innocenza – Sabrina Misseri e Cosima Serrano, mamma e figlia condannate all’ergastolo – sono in carcere e rischiano di rimanervi per sempre. "E' paradossale – ha osservato il legale nel corso della sua arringa-fiume davanti ai giudici della Corte d’Assise d’Appello - che un reo confesso sia libero”. L'avv. Franco Coppi ha dichiarato che “le indagini sono cominciate già col pregiudizio nei confronti di Sabrina”, che avrebbe ucciso – secondo l’accusa – Sarah in un moto d’impeto e poi avrebbe cercato di ostacolare le indagini. Il movente principale sarebbe legato alla gelosia che Sabrina nutriva nei confronti della cugina, invaghitasi come lei dell’amico comune Ivano Russo. La 15enne sarebbe stata strangolata in casa Misseri da Sabrina e sua madre Cosima con una cintura.  Coppi è convinto che zio Michele, tornato ad autoaccusarsi di tutto (è indagato per autocalunnia), non fosse affatto “succube” delle donne di casa e che sia stato lui a causare, preso da un raptus, la morte di Sarah. Il legale aveva iniziato l'arringa sostenendo che diversi punti relativi alle motivazioni d’appello non sono state considerate dal procuratore generale, che ha chiesto la conferma in toto della sentenza di primo grado, a cominciare dall’orario in cui la vittima arrivò in casa Misseri. La sequenza dei messaggi scambiati da Sabrina nel pomeriggio del 26 agosto collima, ha precisato Coppi, con quanto era stato concordato il giorno prima, cioè di andare al mare. “Da parte di Sabrina non c'è stato alcun depistaggio. Sono convinto della sua innocenza”.

Franco Coppi viene considerato il difensore dei potenti, scrive nel suo rendiconto Maria Corbi su “La Stampa” e sul “Il Secolo XIX”. E Berlusconi certamente lo è. Ma è anche il difensore di Sabrina Misseri che nelle caselle della vita è in quella «dei vinti» e in quella dell’opinione pubblica in quella dei colpevoli, condannata all’ergastolo in primo grado insieme alla madre Cosima per la morte della cuginetta Sarah Scazzi. L’arringa della difesa iniziamo a raccontarla dalla fine quando Coppi si è rivolto ai giudici, popolari e togati: «Come potete con incrollabile certezza non avere perlomeno dubbi su Michele Misseri quando accusa se stesso e poi la figlia. Oppure quando ammette le molestie per poi smentire e poi riammetterle, oppure quando parla di corda, poi di cintura e poi ancora di corda, o quando Michele dice di accusare la figlia perché così gli è stato suggerito? Come si fa a superare ogni dubbio sulla metodologia usata dai pm nei loro interrogatori con le loro domande suggestive?». Che di prove non ce ne siano lo ha ammesso la scorsa settimana anche il pm Antonella Montanaro nella sua requisitoria alla fine della quale ha comunque chiesto la conferma dei due ergastoli: «Non ci sono prove, ma tanti indizi gravi e concordanti». Oltre al fatto che il movente non è proprio di quelli granatici trattandosi della gelosia di Sabrina per sua cugina Sarah a causa del bell’Ivano.

Il movente. «Un movente gonfiato se non totalmente inventato», sottolinea Coppi che aggiunge: «la sera del 25 agosto non ci fu nessuna lite tra le due cugine-sorelle. La frase pronunciata da Sabrina rivolta a Sarah “tu ti vendi per due coccole” è stata strumentalizzata. Sabrina era infastidita dal fatto che la cugina si mostrasse ancora affabile nei confronti di Ivano con cui aveva rotto. La stessa frase “Sarah si vende per due coccole” è stata detta anche da mamma Concetta, ma era un modo di dire, di certo una madre non può descrivere la figlia come una poco di buono».

Michele Misseri. «Questo, ha detto Coppi, è l’unico caso in Italia in cui una persona reo confessa è libera mentre due persone che lui dice che sono innocenti sono in carcere. Una atrocità disumana se queste due dovessero essere davvero innocenti». La ritrattazione di Misseri? «Di fronte a quella confessione che lo inchiodava di fronte a quella terribile verità, ha trovato conveniente ritrattare tanto lui sarebbe stato libero e la figlia, ha pensato lui, avrebbe fatto pochi anni di carcere». E a chi si stupisce di un padre che accusa la figlia spiega: «Una persona di questo genere, un mostro che ha ucciso Sarah in quel modo è capace di farlo. Anche se in seguito ha cercato di riscattarsi, oramai troppo tardi, dicendo che a figlia e la madre sono innocenti». Il movente di Misseri è molto più solido e credibile di quello individuato per Sabrina: Michele Misseri pochi giorni prima dell’omicidio tentò un approccio sessuale su Sarah con una pacca sul sedere. Confermato il 5 novembre anche davanti agli inquirenti. Nel ricorso della difesa si precisa con stupore come il medico legale parli di unghiature sulle braccia di Misseri come se avesse avuto avuto una colluttazione con Sarah. Poi quando ritratta e accusa la figlia quelle unghiature diventano sfregi provocati dal lavoro nei campi. «Michele Misseri è un uomo che da bambino ha subito lui stesso violenze sessuali, ha ricordato Coppi, da un parente proprio sotto quell’albero di fico dove ha portato il corpo di Sarah dopo averla uccisa e dove non ha resistito ad abusare di lei attratto da quel giovane corpo che sbocciava».

Il ritrovamento del cellulare. Vanno considerati anche gli indizi a favore tra cui il fatto che quando Michele Misseri trovò Sarah fu Sabrina la prima a dire di chiamare subito i carabinieri e fu lei, subito dopo, a telefonare al fratello di Sarah, Claudio Scazzi, soddisfatta perchè quel ritrovamento sarebbe servito come impulso a far ritrovare la cugina.

La logica. Come ha scritto nei motivi di appello Franco Coppi, non esiste logica nella tesi della colpevolezza di Cosima e Sabrina. Cinque persone vengono coinvolte in un delitto senza che nessuno abbia la minima esitazione?

Gli orari. E poi ci sono gli orari in cui inserire la responsabilità delle due imputate. E per far tornare i conti molti testimoni sono stati ascoltati più volte. Ed è almeno discutibile, se non bizzarro, che i ricordi più lontani dal fatto possano valer più di quelli nell’immediatezza del fatto. Ogni azione viene velocizzata per poter essere inserita nel quadro colpevolista come in un film muto. Per la difesa nei tabulati telefonici, nel susseguirsi di messaggini, telefonate e squilli tra Sabrina, la cugina, l’amica Mariangela e un’altra ragazza c’è la prova dell’innocenza di Sabrina. Per l’accusa c’è la prova del depistaggio. Quel maledetto 26 agosto accade quello che era stato messo in programma dalle tre ragazze la sera prima, ossia l’organizzazione della gita al mare. L’atteso messaggio di Mariangela arriva a Sabrina alle 14.23.31: “Il tempo di mettere il costume e vengo”. Sarah non aveva nessun motivo di uscire prima di ricevere quel messaggio e infatti la madre nella denunzia di scomparsa dice che è uscita alle 14,30. Alle 14,24 Sabrina chiede a Mariangela: “Avviso Sarah?”. Mariangela risponde e Sabrina alle 14,25 avverte Sarah che non risponde subito, sia perché non aveva credito, sia perché pensava di raggiungere la cugina; tanto che dopo che Sabrina la sollecita a una risposta (alle 14.28.13), Sarah, alle 14.28.26, invia un semplice squillo, tanto la risposta era ovvia. Quindi alle 14.28.26 Sarah Scazzi era in vita e stava per raggiungere o aveva raggiunto casa Misseri. Misseri ha ammesso che alle 14.30 era in garage e che Sarah é arrivata intorno alle 14.25. La sentenza secondo la difesa supera l’interpretazione più ovvia dei fatti e sostiene che Sarah fosse stata già uccisa nel momento in cui parte lo squillo dal suo telefonino e afferma che esso sarebbe stato lanciato da Sabrina, la quale dopo l’uccisione della cugina avrebbe inscenato uno scambio di messaggi in base al quale precostituisti un alibi per poter sostenere che mentre era ancora in casa a prepararsi, alle 14.28.26, Sarah era in vita e non poteva che essere stata uccisa dal padre che in quel momento si trovava nel garage di casa. Secondo la sentenza Sarah non sarebbe uscita dopo aver ricevuto il messaggio di Sabrina ma molto tempo prima e precisamente tra le 13,45 e le 13,50. L’orario è fondamentale per poter procedere a una ricostruzione dei fatti che vede Sabrina e Cosima colpevoli. Ma perchè la ragazzina sarebbe dovuta uscire prima dicendo una bugia quando non ne aveva alcun bisogno? Oltre al fatto che Sarah esce dicendo alla madre che ha ricevuto il messaggino della cugina e quel messaggino c’è ed è delle 14,25. Appena ricevuta la conferma di Sarah Sabrina inizia i preparativi va in bagno e alle 14.28.40 manda a Mariangela il messaggio “sto tentando in bagno” con uno smile. Alle 14.31.44 Angela Cimino le manda un messaggio al quale risponde 4 minuti dopo (proprio perché era in bagno), alle 14.35.47. Finito di prepararsi alle 14,39 Sabrina invia a Mariangela un sms: “pronta” ed esce di casa. Una serie di messaggi che, per sequenza e contenuto sono coerenti con il programma fatto dalle ragazze la sera prima. Sabrina non trova Sarah ad aspettarla come sarebbe stato logico e per questo quando arriva Mariangela è preoccupata. Sono le 14.42 e Sabrina prova a chiamare Sarah. E’ questo il momento in cui secondo le dichiarazioni di Michele Misseri, da lui rese il 28 settembre 2010, esce dal garage e viene notato dalla figlia che gli chiede notizie di Sarah. «Sarah arrivò a casa degli zii alle 14,25, 14,30», ha spiegato Coppi, «Lo dicono diversi testimoni e anche il papà di Sarah, Giacomo Scazzi quando Sabrina, intorno alle 14,45, andò a chiedergli se la figlia fosse ancora lì, il giorno della scomparsa, e lui rispose: è appena uscita. In questa vicenda si è giocato con gli orologi e gli orari».

Il sogno. E poi c’è il sogno. Perchè questa è una storia dove una condanna a due ergastoli si basa su un sogno. Peccato che in appello il sognatore non c’è. Perchè le 1638 pagine che motivano la condanna hanno come filo conduttore della colpevolezza il racconto del fioraio Giovanni Buccolieri secondo cui in quel maledetto pomeriggio di agosto le due donne avrebbero rincorso in auto la piccola Sarah per le strade di Avetrana e dopo averla costretta a salire in macchina la avrebbero portata a casa e uccisa. Senza questa sequenza non reggono gli orari che secondo la corte d’Assise rendono compatibili le imputate con il delitto. Ma il «sognatore», che in tutte le sedi mediatiche ha continuato a ripetere che di sogno si è trattato, non sarà ascoltato perchè la giustizia glielo consente in quanto imputato di reato connesso. Ossia di false dichiarazioni al pm (quando ha voluto precisare che il suo racconto era un sogno). E tutte le persone che hanno confermato di aver sempre saputo che quel racconto non era altro che sogno sono state perseguite, d’altronde solo trasformando quel sogno in realtà si poteva condannare Cosima Misseri, la madre di Sabrina. Condannati in primo grado per favoreggiamento Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano (cognato e suocera del fioraio Buccolieri) e Giuseppe Nigro, proprietario di una masseria nota ad Avetrana per le feste di nozze. Una domanda rimane senza risposta: perchè mai il fioraio dovrebbe passare tutti questi guai ostinandosi a ripetere che il suo racconto era solo onirico e soprattutto far condannare amici e parenti, se non per un monto di coscienza? Ed è questo che va a dire Buccolieri in giro, non vuole avere sulla coscienza la condanna di due innocenti.

Il diritto. L’avvocato Coppi ha concluso la sua arringa difensiva con una lezione di diritto e lo fa analizzando l’articolo 533 del codice di procedura sui criteri di applicazione della colpevolezza e sulla regola del ragionevole dubbio per ogni condanna e sulla incrollabile certezza del giudizio. «Si condanna se l’imputato risulta colpevole e non se il giudice ritiene che lo sia».

L’addio. «Questo sarà il mio ultimo grande processo - ha annunciato l’avvocato - Mi paga solo l’amore per la giustizia. Sto consumando gli ultimi anni della mia vita per questo processo. E non ne uscirò sino a quando la verità non sarà emersa».

A seguire ha parlato l’avv. Franco De Jaco, uno dei legali di Cosima Serrano, il quale ha contestato la ricostruzione degli inquirenti in merito a quanto sarebbe avvenuto nella villetta di via Deledda il giorno dell’omicidio. «La famiglia – ha affermato De Jaco – è sempre stata governata da Cosima, quindi è normale che fosse lei a gestire tutto: lavoro, casa e figlie». Secondo il legale il processo è stato “incanalato volutamente in una sola direzione”.

VENERDI’ 19 GIUGNO 2015: TREDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGA DELLE DIFESE DI SABRINA MISSERI E COSIMA SERRANO.

In apertura di udienza ha preso la parola l'avvocato Luigi Rella, uno dei legali di Cosima Serrano, che ha contestato, tra l'altro, gli accertamenti tecnici eseguiti dai carabinieri del Ros di Lecce sulle celle telefoniche relative alla casa della famiglia Misseri.

A parlare, dopo, è l'avvocato Nicola Marseglia, difensore di Sabrina Misseri, condannata in primo grado all'ergastolo, insieme alla madre Cosima Serrano, per l'omicidio della 15enne avvenuto nell'agosto 2010 ad Avetrana. "La ricostruzione offerta nella sentenza di primo grado è solo frutto di congetture", ha detto Marseglia, facendo presente che secondo il suo giudizio gli inquirenti "coltivato una sola ipotesi di lavoro" e si è detto convinto che ''Sabrina non ha commesso alcun reato". «L’acquisizione della prova è avvenuta in modo opaco e malato», con questa affermazione forte l’avvocato Nicola Marseglia, difensore di Sabrina Misseri con il professor Franco Coppi, dà il La alla sua lunga arringa nel processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, scrive Monica Arcadio su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E non lesina affermazioni al veleno contro gli inquirenti che, a suo dire, avrebbero fatto pressioni sui testimoni per indurli a dichiarare ciò che volevano sentirsi dire per tirare in ballo la sua assistita. Questo è un processo meno che indiziario per l’avvocato Marseglia che insiste, senza alcuna fatica, sulla gogna mediatica che ha indirizzato questa inchiesta il cui movente della gelosia non regge. Non può reggere, secondo il legale, perché il rapporto tra Ivano Russo e Sabrina non è mai decollato, neppure a livello sessuale. E a questo punto legge in aula alcuni messaggi tra i due giovani intercettati in fase investigativa. «Questo processo è fondato sul pregiudizio», aggiunge soffermandosi sulla figura di Michele Misseri. «Da modesto contadino passa per essere un orco pedofilo», tuona ancora chiedendo ai giudici della Corte di rivedere il filmato del 15 ottobre quando lo zio di Sarah, dopo nove giorni dalla confessione che lo porta in carcere, viene condotto nel garage della villetta di via Deledda per spiegare sul posto come è avvenuto l’assassinio della nipote. «Michele è un demente», lo ripete per due volte in aula l’avvocato Marseglia. «Questo processo - spiega il legale - è basato su un vizio di forma fino alla sentenza di primo grado. I testi sono stati sentiti e risentiti per renderli maledettamente funzionali alle ipotesi dei moventi passionale e familiare che si contrappongono a quello della violenza sessuale di Michele». A questo punto l’avvocato del foro di Taranto smonta pezzo pezzo alcuni di questi testi tra cui quelli principali come Anna Pisanò che raccontò di aver visto Sarah imbronciata a casa Misseri, la mattina del 26 agosto, e Mariangela Spagnoletti che, nel pomeriggio, arrivò in via Deledda e dichiarò di aver visto già fuori da casa Sabrina. La Pisanò, dice il difensore della giovane imputata, stranamente è in mezzo a diversi episodi di questa inchiesta. Anna Pisanò la definisce il prodotto esemplare di questo l processo mediatico. La Spagnoletti è pure una teste centrale e cambia tre volte versione, nella prima non fornisce neppure elementi «trascendentali» per le indagini. L’avvocato Marseglia si sofferma sul sogno del fioraio Giovanni Buccolieri, sull'interrogatorio per rogatoria avvenuto in Germania della sua ex commessa Vanessa Cerra, torna sugli orari che non coinciderebbero e sulla famiglia Scazzi. I genitori di Sarah non ricordavano come fosse vestita la figlia, sottolinea, e neppure seppero dare un orario preciso del momento in cui la 15enne uscì da casa per recarsi in via Deledda. L’avvocato Marseglia ha chiesto, come già fatto dal professor Coppi nell’udienza di mercoledì scorso, l’assoluzione per non aver commesso il fatto.

Il pubblico ministero ammette in aula che non vi sono prove contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano e parla di indizi gravi e concordanti. Proviamo a cercarli...scrive Massimo Prati su “Arbatros-Volando controvento”. Venerdì 12 giugno 2015 il Pubblico Ministero Antonella Montanaro ha confermato la regola e dimostrato ai giudici che spesso chi accusa, e non solo a Taranto, ha la memoria corta. Corta come quella dei Pm di primo grado che nonostante le "dimenticanze" ottennero due ergastoli mettendo in scena uno spettacolo magico di prim'ordine. Chissà se questi giudici hanno capito che l'accusa per chiedere le condanne finge di dimenticare e usa, oltre alle tante deduzioni personali (prive di valore probatorio ma che furbescamente "chiama" indizi) solo quello che più le aggrada scartando testimonianze importanti che se messe in campo rischierebbero di rovinare il gran finale colpevolista. Quel che s'è capito a Taranto è che, come in primo grado, anche in appello per colmare le dimenticanze si porta in scena l'illogico e si dà sfogo alla fantasia. Ad esempio "scordandosi" che alla domanda: "Sarah le ha mai confidato di avere un interesse per Ivano", sua madre in aula disse: "Al contrario, anzi criticava fortemente Sabrina che gli stava dietro...". In poche parole, per accreditare la "gelosia" della cugina (che l'avrebbe portata ad eliminare chi ormai considerava una rivale) all'accusa occorre che ci sia stato un interessamento di Sarah nei confronti di chi, per la procura, Sabrina amava alla follia. Diversamente la cugina non sarebbe stata gelosa e non avrebbe ucciso. Per questo si finge di sapere che la ragazzina avesse una cotta per Ivano senza che mai ci siano stati testimoni in tal senso. E per farlo l'accusa fantastica e dà credito a una breve frase trovata su uno dei tantissimi diari. Come se i pensieri adolescenziali di una quindicenne non fossero aliti di vento caldo, turbamenti passeggeri che dopo l'ultima pagina del diario resteranno a ricordo di un anno triste o felice, un I Love Justen Bieber scritto a tutta pagina e completato da cuoricini rossi e fede nuziale, l'accusa si getta a capofitto nel mondo degli adolescenti e cavalca un'emozione momentanea per negare le testimonianze di chi non ha notato alcuna sbandata amorosa. Oltre alla madre, infatti, non l'ha notata Mariangela Spagnoletti, che pur girando col gruppo mai si è resa conto di un interesse di Sarah per Ivano, o viceversa, come ha testimoniato a processo dicendo, fra l'altro: "Io l'ho saputo dalla tivù che a Sarah piaceva Ivano". L'hai saputo dalla tivù? E la tivù da cosa ha dedotto che a Sarah piaceva Ivano? Ah già! Anche lei dalla frase estrapolata da uno dei tanti diari e quaderni di una adolescente a cui, in quanto adolescente, piacevano, o non piacevano, sicuramente tante cose e persone. Un'adolescente non ha la mente di un adulto coi piedi ancorati a terra e fin troppo serio, quale può essere la mente dei procuratori che giornalmente hanno a che fare coi delinquenti. A quindici anni i pensieri volano e per capirli serve un altro adolescente che viva in un contesto simile. Nel caso in questione l'adolescente a cui chiedere, perché queste caratteristiche le ha, esiste. E' la cugina di San Pancrazio con cui Sarah trascorse quasi tre giorni poco prima del suo omicidio. Lei, vista l'età e le affinità, è la più qualificata a dare giudizi e, chissà perché, la intende in maniera diversa da come l'hanno intesa la procura e i media. Le sue parole a processo, dette direttamente al giudice Trunfio dopo aver letto la frase scritta sul diario di Sarah (giudice che forse non ha condiviso la versione della ragazza, vista l'età avanzante e che di certo ha vissuto l'adolescenza in un contesto diverso da quello in cui l'hanno vissuta Sarah e sua cugina), sono state: "Lei non intendeva dire di volere Ivano come fidanzato, in pratica ha detto mi piacerebbe avere un fidanzato come Ivano". Quindi, visto anche che alla cuginetta Sarah in quei tre giorni parlò di un ragazzo che le piaceva, ma non di Ivano, dove sta la fonte del movente? Dove sta quella gelosia che Sabrina provava verso Sarah che, a detta del Pm Montanaro, considerava una rivale da uccidere? Dove sta dato che all'amica più intima di Avetrana (fra l'altro figlia di uno dei testi dell'accusa), che la conosceva da otto anni, neppure lo aveva mai fatto il nome di Ivano, come la stessa disse a processo all'avvocato di Sabrina perché i Pm si erano ben guardati dal porle domande sull'argomento (non volevano che la giuria sentisse le risposte?)? Dove sta visto che Sarah a maggio aveva fatto creare, sempre dall'amica, un profilo facebook solo per chiedere l'amicizia di Davide, il ragazzo di due anni più grande di cui aveva parlato alla cugina di San Pancrazio poco prima di morire? A Sarah non piaceva Ivano, e quanto sopra lo attesta in maniera inequivocabile. Ivano la coccolava come un fratello, lo disse lui stesso a Claudio Scazzi che lo riferì a processo. Tutti nel gruppo sapevano che la piccola chiedeva le "coccole", ma nessuno ha mai pensato che volesse qualcosa in più. Perché doveva pensarlo Sabrina che da sempre riprendeva la cugina quando esagerava o faceva cose non consone a una ragazzina della sua età? Anche questo è uscito a processo. Tutto è uscito in primo grado, basta leggere gli atti e le trascrizioni senza condizionamenti per farsi un'idea chiara e capire che le due donne non c'entrano nulla con l'omicidio di Sarah. Eppure l'opinione pubblica si affida all'apparenza che spargono giornalai zerbino e opinionisti d'assalto, ai pensieri negativi che sembrano essere nati a pelle (ma che in realtà sono nati a causa di come i media hanno presentato i personaggi), all'accusa che racconta mezze verità pur di portare a casa il risultato. A Taranto non si cerca la verità, si cerca la vittoria e per ottenerla si danno calci negli stinchi agli avversari senza che l'arbitro intervenga. Ed io mi chiedo se sarà possibile trovare, se non in appello almeno in cassazione, un giudice con la mente sgombra dai pregiudizi che si chieda: "Ma come? La madre della ragazzina dice che Sarah non aveva alcun interesse per Ivano, anzi. La persona che girava assieme a Sarah e Sabrina dice che in tanti mesi non si era accorta di nulla e che seppe dell'interessamento dalla televisione. La cugina con cui Sarah trascorse gli ultimi tre giorni dice che le piaceva un ragazzo di due anni più grande, non Ivano, che la frase sul diario ha un senso diametralmente opposto a quello datogli dall'accusa. Alla sua amica storica neppure aveva mai fatto il nome di Ivano e quando stavano insieme cercavano il modo (poi trovato) per parlare o incontrare il ragazzo di poco più grande che le piaceva. Nel gruppo nessuno aveva mai notato stranezze che portassero a pensare che Sarah stesse accanto a Ivano per motivi d'amore. Sabrina da sempre la sgridava ogni volta che si comportava in maniera non consona perché per Sarah era una sorella maggiore sempre presente (anche queste parole sono uscite a processo.... e porca l'oca, dove diavolo si trova l'indizio grave di cui ha parlato la dottoressa Montanaro per chiedere la conferma delle condanne?". Di certo all'accusa serve un indizio che conforti il movente. Ma se l'indizio non c'è, non c'è. E se il Pm dice che c'è, significa che lavorando di fantasia sta cercando di influenzare i giudici popolari. In aula la dottoressa Antonella Montanaro ha detto: "Non ci sono prove, ma tanti indizi gravi e concordanti". Indizi gravi e concordanti? Ma se basta una rapida occhiata per scoprire che alla fin fine i gravi indizi si riducono alla gelosia di cui sopra, al sequestro di Sarah, sognato o reale, e all'ignoranza lessicale e giudiziaria di Michele Misseri (che per alcuni ha cambiato versioni per sensi di colpa o grazie alla sua mente forbita da contadino, mentre lui dice che non avendo conoscenze giuridiche è stato il suo avvocato, coadiuvato poi dalla sua assistente, a guidarlo e a dirgli quello che doveva dire per salvare capra e cavoli). Insomma, detto questo e viste le testimonianze credo che la parte più importante della frase del Pm sia la prima, quel non ci sono prove che suona come una verità sempre nascosta dai media e che dovrebbe bastare per assolvere le due donne. Non me lo invento io, l'ha detto il Pm Montanaro ai giudici che non ci sono prove! Ed è strano che due donne incensurate siano state arrestate in mancanza di prove e dopo quasi un lustro, all'interno del quale vi è un anno di indagini in cui di prove non se ne son trovate, restino in custodia cautelare. Certo, il Pm ci dice che ci sono indizi gravi e concordanti e almeno un giudice popolare, viste le sue smorfie, venerdì scorso l'ha convinto ed è già pronto a votare per la colpevolezza ancor prima che parli la difesa. Ma fermiamoci un attimo perché noi, al contrario di quel giudice popolare, prima di emettere verdetti cerchiamo riscontri. E in questo caso ci siamo accorti che riscontri logici non ne esistono e da anni ci raccontano mezze verità. Torniamo al momento dell'arresto di Sabrina, quando la ricostruzione accusatoria scritta dalla procura e accettata dal Gip era completamente diversa da quella attuale e gli indizi di cui parla la dottoressa Montanaro ancora non esistevano, dato che sono usciti a mesi di distanza e dopo più deposizioni e più cambi di testimonianze (in pratica tutti hanno cambiato i loro ricordi... un record!). Questo, mi dica la dottoressa se sbaglio, significa che i procuratori e il Gip nel 2010 hanno chiuso in carcere Sabrina Misseri senza avere né prove né indizi (di certo non avevano quelli che hanno poi portato a processo). Attualmente nulla è cambiato e la maggioranza dei gravi indizi concordanti vivono nella mente dell'accusa e nelle tasche dei media che li usa per imboccare di ciance la pubblica opinione e fargli comprare dentifrici, pannolini di marca e settimanali "dedicati". Perché indizi seri non esistono e non esisteranno fino a quando altri giudici non li confermeranno in quei processi tarantini che continuano ad essere rinviati come se non fossero importanti. Per questo si può dire che alla mancanza di prove si somma la mancanza di indizi e che attualmente ai giudici vengono inculcate solo le deduzioni personali di un qualche procuratore tarantino che continua a soffiare sulla sua tesi e spulciando le carte, proprio nel bel mezzo del processo d'appello, crea nuovi imputati (ben 12) al solo scopo di far crescere il pregiudizio giudiziario. Al solo scopo perché è facile che i processi ai nuovi imputati neppure arrivino in cassazione, come difficilmente ci arriverà quello intentato contro il fiorista. Quasi che qualcuno abbia paura dei pareri altrui e preferisca arrivare alla prescrizione del reato piuttosto che a una sentenza. Forse per non rischiare di sentirsi dire, prima che il processo Misseri arrivi in cassazione, che davvero il fiorista ha sognato. Perché se non esistesse il sequestro la ricostruzione della procura sarebbe un corpo senza scheletro e non starebbe in piedi neppure con le stampelle. Stessa sorte tocca all'altro procedimento importante, quello che vede su banchi diversi Michele Misseri e i suoi ex consulenti. Anche in questo caso pare che si voglia andare avanti all'infinito, che ogni volta si decida un rinvio per non sentirsi dire che zio Miché, digiuno di un lessico italiano completo e ancor più di tattiche giuridiche, non ha mentito e alla procura ha racconto quanto gli dicevano di raccontare i suoi consulenti. In pratica, i processi che confermerebbero o smentirebbero la tesi accusatoria si sono accantonati e a Taranto sta per concludersi ugualmente un processo d'appello monco di basi solide e sicurezze. E davvero non si capisce il motivo per cui nessuno denunci questa incredibile anomalia che lascia all'accusa la possibilità di dire in aula che contro gli imputati ci sono "indizi gravi e concordanti". L'unica cosa certa è che mancano le prove della colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, come ammesso dal Pm in aula. Il resto è solo uno spettacolo di magia, è pura fantasia...

Malagiustizia: come fabbricare le non prove e arruolare giornalisti per inculcare il pregiudizio nella pubblica opinione che festeggerà la condanna dell'innocente... continua Massimo Prati. In una puntata di "Ombre sul Giallo" la stupenda Franca Leosini entra a gamba tesa in uno degli orrori investigativi-giudiziari più schifosi dei primi anni '90 e grazie a chi si occupò del caso smaschera le malefatte della procura e degli investigatori e mostra la pochezza mentale di quasi 50 giudici e la forza di pochi altri. Uno spezzone del programma venne dedicato anche a Gennaro De Stefano, uno straordinario giornalista - purtroppo morto nel 2008 - che per aver cercato la verità e non essersi piegato al volere del potere costituito venne incastrato da un ispettore di Polizia (grazie a un delinquente "suo amico") e incarcerato per due mesi. Chiaramente non spero che la casalinga di Voghera abbia un'ora per guardare il video e ascoltare la campana che non si adegua ai compromessi. Quindi credo proprio che l'opinione pubblica non cambierà mai idea e, a bocca aperta, continuerà a fidarsi dei cagnolini che vagano per le procure, dei giornalisti zerbino e degli opinionisti scurrili e poco informati. Peccato, perché la storia recente e lontana dimostra che è vero, "i roghi furono accesi sotto le streghe dal popolo", ma su istigazione di qualche popolano influente e senza scrupoli aizzato e ingrassato dal potere. La storia. Il pomeriggio del 24 agosto 1990 Cristina Capoccitti, che aveva solo 7 anni, lo passò assieme a un suo cugino tredicenne. Alle 20.45 fu uccisa e, tre giorni dopo, del delitto si auto-accusò, prima in caserma poi in procura, proprio il cugino. Ma nel cuore della notte il ragazzo, che pur se minorenne durante gli interrogatori non aveva né un genitore né un avvocato al suo fianco, cambiò le carte in tavola e accusò suo padre che venne subito arrestato. Il nastro della confessione sparì, anzi un carabiniere a processo disse che ci aveva registrato sopra, ma da quel momento, e ancor più nell'immediato futuro grazie a invenzioni ad hoc, nacque il mostro di Balsorano. La parte civile si abbracciò agli investigatori che le mostrarono prove, che ora sappiamo essere non credibili, e si appiattì alla procura alla stessa maniera di come si appiattiscono agli investigatori e alle procure tutte le parti civili dei processi attuali. Il padre accusato dal figlio si chiamava Michele, e quando a furor di popolo venne condannato all'ergastolo la gente in tribunale e fuori applaudì e nel suo paese si festeggiò coi fuochi d'artificio. Peccato che non fosse lui il colpevole, visto che quanto gli si addebitava, si scoprì nel '97 in un processo a parte celebrato anni dopo la sentenza di condanna definitiva, convergeva contro suo figlio (anche il dna) che però non ammise mai le sue colpe e continuò, dopo essere stato affidato a un'altra famiglia cambiando cognome e città, ad accusare il padre. La vergogna giudiziaria proseguì anche dopo le nuove prove che lo scagionavano e, incredibilmente, a Michele fu negata la revisione del processo. I procuratori e i giudici ormai erano stati promossi, il mostro di Balsorano doveva restare "il mostro" e Cristina, la piccola Cristina di soli sette anni, non meritava la giusta giustizia. Michele morì in carcere nel 2003 da innocente. L'opinione pubblica per anni l'aveva massacrato, gli investigatori l'avevano massacrato, la giustizia l'aveva massacrato e lui, che si sentiva massacrato, in punto di morte ancora chiese giustizia. Le sue ultime parole, dette a uno sconosciuto prima di esalare l'ultimo respiro, furono: dite a tutti che non ho ucciso io Cristina.

MERCOLEDI’ 24 GIUGNO 2015: QUATTORDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGA DELLE DIFESE DEGLI ALTRI IMPUTATI MINORI.

Rinviata al primo luglio 2015.

MERCOLEDI’ 1 LUGLIO 2015: QUATTORDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ARRINGA DELLE DIFESE DEGLI ALTRI IMPUTATI MINORI.

Oggi sono intervenuti per le loro arringhe i difensori degli imputati cosiddetti minori. Presente in udienza Michele Misseri giunto alle 8.30 in compagnia del suo legale. Presenti anche Cosima Serrano e Sabrina Misseri. Il primo a parlare è l’avv. Pasquale De Laurentiis, il difensore di Giuseppe Nigro condannato in primo grado ad 1 anno e 4 mesi con l’accusa di favoreggiamento. Per lui è stato chiesto il proscioglimento, poiché, secondo il difensore, sarebbe vittima di un disguido. La stessa richiesta è stata avanzata dall’avvocato Pasquale Lisco per i suoi assistiti, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano, condannati ad 1 anno sempre per favoreggiamento. L'avvocato Gianluca Pierotti ha chiesto l'assoluzione del suo assistito, l'avvocato Vito Russo, ex difensore di Sabrina Misseri, condannato a 2 anni per intralcio alla giustizia. Il professionista, accusato di favoreggiamento personale, in primo grado venne condannato a due anni di pena. L'ultima udienza è stata stabilita dalla Corte, presieduta da Rosa Patrizia Sinisi, per sabato 18 luglio quando ci sarà spazio per le eventuali repliche dell'accusa, in particolare del sostituto procuratore generale Antonella Montanaro, e delle difese. Da quel momento i giudici entreranno in Camera di consiglio per la sentenza.

SABATO 18 LUGLIO 2015: QUINDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. LE REPLICHE DI ACCUSA E DIFESE.

Sono presenti Cosima Serrano e Sabrina Misseri, le due imputate detenute per le quali il procuratore generale Antonella Montanaro ha chiesto la conferma della condanna all’ergastolo, e Michele Misseri, condannato in primo grado a 8 anni per soppressione di cadavere. In aula anche la famiglia della vittima: la mamma Concetta Serrano, il papà Giacomo Scazzi e il fratello Claudio. Le due imputate detenute erano presenti in aula, ma hanno scelto di seguire l'udienza in posti diversi. Sabrina, occhiali neri e capelli raccolti con un elastico, indossava una polo bianca e rossa e un pantalone nero. È rimasta seduta tutto il tempo nel gabbiotto. Cosima Serrano era invece accanto ai suoi legali. Anche lei non ha tradito emozioni. Indossava una maglia marrone e un pantalone nero. Alle sue spalle, due file dietro, c'era suo marito: Michele Misseri, camicia a righe verticali bianca e azzurra e marsupio a tracolla. Dall'altro lato la famiglia della vittima: la mamma Concetta Serrano, il papà Giacomo e il fratello Claudio.

Accusa. L'udienza di oggi, riservata alle repliche di accusa e difesa, ha di fatto consentito un supplemento di requisitoria alla rappresentante dell'accusa, che ha ribadito come il materiale probatorio non possa «essere frammentato: questo è il gioco della difesa». Cita la sentenza Parolisi e ammette che quello per l'omicidio di Sarah Scazzi è un processo indiziario, ma tutti gli elementi più significativi sono «coerenti e convergenti verso un'unica spiegazione». Per la procura generale la sentenza di primo grado ha fatto luce sul delitto e va confermata. Sarah Scazzi uscì di casa il 26 agosto del 2010 intorno alle 13:40 per recarsi dalla cugina Sabrina, con cui aveva appuntamento per andare a mare. Fra le due ci fu un tremendo litigio, a cui prese parte anche la zia Cosima. Sarah fuggì di casa ma fu inseguita, riportata in auto a casa e lì strangolata per 5 minuti. “Una la tratteneva, l’altra stringeva intorno al collo una cinta, con chiara volontà omicida” dice il pg. L’omicidio è avvenuto fra le 14 e le 14:18, quando Michele Misseri era in garage. “La difesa ha tentato di adattare la sua tesi ad alcune testimonianze ed orari, anticipando di un po’ l’orario del delitto ma non regge”. “La difesa vorrebbe farvi credere che procura, investigatori, carabinieri, gip, giudici del Riesame, della corte d’assise e perfino della Cassazione hanno partecipato ad un complotto per incastrare Sabrina Misseri, ripetendo questa tesi all’infinito per farla sembrare vera ma questa tecnica di comunicazione funziona nei talk show non nelle aule di giustizia, qui si usano atti ed intercettazioni che vanno letti per intero”. “La madre – ha detto il pg in aula – le diceva sempre di reagire, di farsi rispettare, di non uscire con la cugina se poi questa la maltrattava. Sarah ha pagato con la vita la sua reazione”. “Gelosia, rabbia, frustrazione sono i motivi che più frequentemente sono alla base dei delitti intra-familiari” ha aggiunto il pg, ricordando che quel giorno, non vedendo Sarah arrivare a casa, dopo soli venti minuti di ritardo, Sabrina disse “l’hanno presa, l’hanno presa” e poi andò a casa di Sarah: “una persona semplicemente allarmata per un ritardo avrebbe chiesto se era lì la cugina, invece Sabrina non lo chiese perché già sapeva che Sarah era morta”. L’udienza di oggi è iniziata con le repliche del procuratore generale che ha contestato la versione della difesa sul presunto complotto da parte di polizia giudiziaria, carabinieri, pm e giudici, anche della Cassazione, nei confronti in particolare di Sabrina. «Che motivo avrebbero avuto?» ha detto il pg, ricordando che le indagini dopo la scomparsa di Sarah furono «portate avanti a 360 gradi. Furono compiuti accertamenti su tutti, anche sulla stessa famiglia Scazzi». La dottoressa Montanaro ha quindi sottolineato il fatto che la difesa ha «modificato leggermente» la tesi in relazione all’ orario dell’omicidio per farla combaciare con le dichiarazioni di Sabrina. «L’omicidio è stato commesso tra le 14 e le 14.18 perché Sarah non risponde all’sms dell’amica Francesca Massari, non è in grado di farlo. Si verifica il sequestro, viene portata in casa e uccisa». È quanto ha sottolineato il procuratore generale, Antonella Montanaro, in fase di replica, a conclusione della discussione di accusa e difesa nel processo d’appello per l’omicidio di Sarah Scazzi. «Dalle perizie – ha proseguito – emerge che ci sono voluti dai tre ai cinque minuti per soffocarla con la cintura. L’omicidio si è verificato subito dopo il sequestro in casa. Sapete che Michele Misseri non sa quale è l’arma del delitto, non sa con quale modalità è avvenuto. Sapete, dalla consulenza medico-legale, che ad ucciderla sono state due persone, madre e figlia. Nessuna ha svolto la funzione di mera favoreggiatrice. Cinque minuti sono interminabili: la volontà omicida è chiara perché Cosima avrebbe potuto dissuadere la figlia. C’è stato un concorso materiale, non morale, anche se sarebbe bastato quello morale. Una stringeva e l’altra soffocava, una la manteneva e l’altra stringeva». Il procuratore generale ha poi ricordato che le imputate hanno «fornito un alibi falso». «Sabrina Misseri fece pressioni psicologiche sull’amica Mariangela Spagnoletti per convincerla che non ricordava bene quanto accaduto nel primo pomeriggio del 26 agosto, quando con Sarah si sarebbero dovute recare al mare. Era così insistente che Mariangela a un certo punto disse: è come dici tu». «Gli accertamenti su Sabrina - ha aggiunto - iniziarono quando lei si presentò in caserma sostenendo di aver ricevuto un sms anonimo che poteva essere attribuito a Sarah e che diceva: mamma sto bene, non ti preoccupare». Montanaro ha tracciato un profilo dell’imputata evidenziando anche la sua capacità comunicativa, di «ridere all’infinito su una circostanza non dimostrata per farla passare come vera. Questa strategia - ha precisato - può passare nel talk show, non qui». Il procuratore generale ha poi fatto riferimento a un sms inviato da Sabrina a Ivano Russo il 27 agosto 2010, giorno dopo la scomparsa di Sarah, in cui osservava: «Saremo tutti sotto controllo». Montanaro ha detto, concludendo, che «la Corte ha a disposizione una lunga serie di circostanze che consentono di confermare la sentenza di primo grado».

Parti civili. «Ma non c'è Sarah», ha detto nel suo intervento Nicodemo Gentile, difensore di parte civile. «Questo è il processo di Sarah: dovremmo ricordarcelo tutti. La famiglia avrebbe fatto volentieri a meno di essere qui, oggi». Il processo, ha aggiunto Gentile, «ha una svolta obbligata, bisogna capire anche in appello: chi ha ucciso Sarah? Perché? Se la sentenza di primo grado deve essere ribaltata - ha osservato rivolgendosi ai giudici - indirettamente voi direte, come dicono le difese, che a uccidere è stato Michele Misseri. Vi chiediamo di non commettere l'errore del secolo, di portata planetaria, parlando di un assassino che non sa perché ha ucciso e con che cosa ha ucciso». In seguito ha parlato Luigi Palmieri, anch’esso difensoro della famiglia Scazzi.

Le difese di Sabrina. Quindi ha preso la parola l’avvocato Franco Coppi, uno dei difensori di Sabrina, che ha sottolineato come la difesa non abbia «mai parlato di complotti ma di errori colossali» e di non aver modificato la tesi dell’orario del delitto, «sempre collocato tra le 14.28, perché parte uno squillo telefonico dal telefono di Sarah, e le 14.42». A rispondere, punto per punto, ai rilievi dell'accusa è stato l'avvocato Franco Coppi, altro legale di Sabrina, secondo il quale «la difesa non ha mai parlato di complotto ma di errori colossali. Oggi il pg ha analizzato, in sede di replica, solo situazioni di contorno, senza toccare le questioni fondamentali. Noi crediamo - ha ribadito Coppi - alla confessione di Michele Misseri, che ci ha spiegato i motivi per i quali fu indotto ad accusare ingiustamente la figlia perchè pensava di cavarsela con poco e che Sabrina avrebbe avuto la sospensione condizionale. Un reo-confesso è libero, mentre in carcere, con un pregiudizio di fondo, sono finite due innocenti».

Le difese di Cosima. La difesa di Cosima Serrano ha invece polemizzato contro il procuratore generale Ciro Saltalamacchia, reo di aver concesso un’intervista al settimanale Oggi in cui sosteneva la bontà della tesi accusatoria. Caustico l’avvocato Franco De Iaco, difensore di Cosima Serrano, che ha intimato alla giuria popolare di fare attenzione perché il tribunale tarantino spesso sbaglia sentenze e poi è costretto a risarcire gli imputati. Per l’accusa Sarah è morta per aver reagito per la prima volta ai numerosi rimproveri da parte di Sabrina e Cosima. “In questo processo non c’è prova. I primo giudici hanno valutato le prove e hanno preso, così come faceva oggi il procuratore generale, le parti che fanno comodo ad un alinea accusatoria” - ha detto alle tv fuori dall’aula l’avv. Luigi Rella. L’avv. Franco De Jaco, nella stessa intervista al tgr Puglia ha detto: “Penso che, forse, a tutti i magistrati sarebbe, come dire, utile fare un mese in galera in modo di sapere che cosa poi irrogano ai cittadini. Ed anche una valutazione psicologica non guasta”. Le difese in caso di condanna già annunciano ricorso in Cassazione perché durissimo è il giudizio dei difensori sul metodo adottato dal tribunale nell’ascolto e nell’impiego delle testimonianze.

VENERDI’ 24 LUGLIO 2015: SEDICESIMA UDIENZA DI APPELLO. ULTIME REPLICHE E CAMERA DI CONSIGLIO.

"Dopo 15 udienze ed oltre, lasciateci andare in camera di consiglio". Il presidente della Corte d’Assise d’appello di Taranto, Patrizia Sinisi, ha dovuto liquidare con una battuta l’insistenza dell’avvocato generale Ciro Saltalamacchia che chiedeva, seduto accanto al pg Antonella Montanaro, di poter ribattere alla replica dell’avv. Nicola Marseglia, co-difensore di Sabrina Misseri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il processo di secondo grado per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana (Taranto) uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto del 2010, ha imboccato l’ultima curva prima del traguardo. Dopo l’arringa, a tratti dura e spigolosa, dell’avv. Marseglia, che non ha risparmiato critiche nei confronti dell’accusa, il collegio di giudici si è ritirato in camera di consiglio per emettere la sentenza, che dovrebbe arrivare (non sono state date indicazioni certe sui tempi) tra domenica sera e lunedì prossimi. Il legale di Sabrina, una delle due imputate detenute condannate in primo grado all’ergastolo (l'altra è sua madre, Cosima Serrano), ritiene che gli inquirenti si siano innamorati, sin dall’inizio, di una sola pista investigativa, "calpestando – ha sostenuto Marseglia – le elementari regole di civiltà giuridica". La tesi, sostenuta dal pg Montanaro, secondo cui la difesa avrebbe cercato di spostare l’attenzione dei giudici su un presunto complotto ordito da magistrati, polizia giudiziaria e testimoni "è – ha detto ancora l’avvocato – assolutamente risibile. Io ho sempre sostenuto che questo processo paga il prezzo di un insopportabile pregiudizio nei confronti di Sabrina Misseri". Marseglia, nel corso della sua replica, ha sostenuto che «la prova non è stata formata, la potete anche inventare, ma abbiate il dubbio che sia stata presa una cantonata su questa ragazza (Sabrina, ndr), nei confronti della quale si è formato un colossale pregiudizio». «Il procuratore generale dice che noi gridiamo al complotto. Questo è risibile. Io ho sempre sostenuto che Sabrina è vittima di un insopportabile pregiudizio». «Dobbiamo avere l’onestà intellettuale di ammettere - ha aggiunto il legale - che c’è la percezione di un’idea prima degli inquirenti, poi diventata collettiva, che sia andata in un certo modo. Quello che fa trasecolare la difesa è l’idea nel 2015 che si possano superare regole di civiltà giuridica, perché l’imputato deve essere giudicato prima, tanto il padre chi lo crede». L’arringa, in sede di replica, dell’avvocato Nicola Marseglia, co-difensore di Sabrina Misseri, è durata circa due ore. Il procuratore generale Ciro Saltalamacchia aveva chiesto di replicare ulteriormente, ma la Corte d’Assise d’appello ha deciso di chiudere il dibattimento non essendo previsti dal codice ulteriori interventi a meno di dichiarazioni spontanee degli imputati. «Dopo 15 udienze - ha detto la presidente Patrizia Sinisi - lasciateci andare in camera di consiglio». La Corte dovrà decidere anche la sorte di altri sei imputati: Michele Misseri (marito di Cosima e padre di Sabrina), condannato ad otto anni per soppressione di cadavere; Carmine Misseri, fratello di Michele e zio di Sarah (sei anni per soppressione di cadavere); l’avvocato Vito Russo, ex legale di Sabrina (due anni per favoreggiamento); Giuseppe Nigro, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano (condannati in primo grado a pene comprese tra un anno e un anno e quattro mesi per favoreggiamento). Al termine dell’udienza, il sostituto pg Montanaro si è intrattenuta a parlare brevemente con i giornalisti, a conferma della straordinaria attenzione mediatica che suscita la vicenda dell’omicidio della ragazzina. "Non mi aspetto nulla. Io – ha affermato – sono pronta ad accettare qualunque decisione venga presa”. In aula oggi era presente anche Michele Misseri. Fu proprio il contadino a far ritrovare il corpo della vittima, a confessare inizialmente l’omicidio per poi addossare tutte le responsabilità sulla figlia Sabrina. In seguito, cambiando più volte versione, ritrattò accusandosi di tutto.

LUNEDI’ 27 LUGLIO 2015: LA SENTENZA DI APPELLO.

Dalle ore 12.30 del 24 luglio fino alle ore 20,24 del 27 luglio 2015. 80 ore di camera di consiglio, dove sicuramente poco peso avranno avuto le opinioni dei giudici popolari in caso di difformità di vedute. Una lunga camera di consiglio, durata più di 80 ore, particolare che la dice lunga sulla complessità della decisione in camera di consiglio.

Da parte dei media, in particolare da parte Mediaset, nel frattempo c'è stato uno stillicidio contro gli imputati.

Il dispositivo della sentenza è stato letto dalla presidente della Corte, Patrizia Sinisi (a latere Susanna De Felice, più i sei giudici popolari) poco prima delle 20.30. Nella gabbia a vetro c'erano Cosima e Sabrina arrivati poco prima dal carcere di Taranto. In aula non c'era alcun esponente della famiglia Scazzi: mamma Concetta ha atteso a casa il verdetto, suo marito Giacomo e il figlio Claudio sono al Nord Italia. Mamma e figlia hanno ascoltato la lettura della sentenza in piedi, una vicina all’altra, con le mani raccolte sulla pancia.

Conferma dell’ergastolo per entrambe. Mamma e figlia hanno ascoltato la lettura della sentenza in piedi, una vicina all’altra, con le mani raccolte sulla pancia. La madre, Cosima Serrano, è rimasta impassibile sino alla fine, il volto tirato ma senza apparenti emozioni.

Sabrina Misseri invece, la figlia, non ha trattenuto le lacrime. Ha guardato dove erano seduti gli avvocati che la difendono, forse in cerca di un confronto che non poteva esserci, ed è uscita dal gabbiotto scortata dagli agenti di custodia penitenziaria.

Dinanzi alla Corte di assise di appello, il 27 febbraio scorso, Cosima aveva reso dichiarazioni spontanee. Per 75 minuti, stringendo in mano un foglio sul quale però non aveva rivolto quasi mai lo sguardo, aveva difeso con vigore se stessa e la figlia Sabrina, piangendo per qualche attimo. "Sono passati 2015 anni - disse - e Gesù venne condannato dal popolo. Se allora tutti vogliono che siamo condannate... Oggi tutti i giorni vengono condannati degli innocenti". Il 12 giugno scorso, nella stessa aula, Sabrina riuscì solo a dire "non l'ho uccisa, so io quanto sono addolorata", per poi scoppiare a piangere senza riuscire più a parlare. Difese accorate che non hanno scalfito neppure la convinzione dei giudici di secondo grado.

Condanna ad otto anni per la soppressione del cadavere anche per Michele Misseri, marito e padre delle due donne ancora in carcere.

Nessuna reazione invece da parte di Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, il quale sedeva tra i banchi accanto al suo avvocato.

I giudici hanno comunque parzialmente riformato la sentenza di primo grado per alcuni imputati di reati minori. Assolti, perché il fatto non sussiste, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano, che il 20 aprile 2013 erano stati condannati a un anno di reclusione per favoreggiamento personale. Confermata la condanna a un anno e quattro mesi per Giuseppe Nigro, imputato per lo stesso reato. La Corte ha inoltre rideterminato, riducendola, la pena per altri due imputati: un anno e quattro mesi a Vito Russo junior, ex legale di Sabrina Misseri (due anni in primo grado per favoreggiamento personale), cinque anni e 11 mesi a Carmine Misseri, fratello di Michele (sei anni in primo grado per soppressione di cadavere).

L’agricoltore non ha fatto dichiarazioni e, scortato dalla Polizia, ha lasciato l’aula subito dopo la lettura della sentenza. Michele Misseri, all’uscita dall’aula, aveva lo sguardo basso e ha evitato taccuini e telecamere. Mentre le due detenute lasciavano la sala delle udienze e venivano riaccompagnate nella cella del penitenziario di Taranto che condividono da quasi 5 anni, il capofamiglia abbandonava il tribunale scortato dai suoi avvocati e dalla polizia inseguito da urla inferocite, «assassino, assassino», provenienti dai balconi dei vicini palazzi.

Questo sta a dimostrare che la gente non è stata convinta dalla sentenza pronunciata, né è stata condizionata dal tam tam colpevolista mediatico, continuando a credere che Michele sia il vero ed unico responsabile del delitto.

Sospesi per 90 giorni, il tempo per depositare i motivi della sentenza, i termini di custodia cautelare nei confronti di Cosima e Sabrina.

L'accusa. Soddisfazione da parte della pubblica accusa, secondo la quale ha retto l'impianto accusatorio. "Siamo soddisfatti della sentenza perchè ha retto l’impianto accusatorio. E’ chiaro che non si esulta quando ci sono gli ergastoli". Lo ha detto il procuratore generale presso la Corte d’Appello di Taranto Ciro Saltalamacchia commentando la sentenza. "E' stato fatto – ha aggiunto – un buon lavoro pensando esclusivamente a questo processo e al raggiungimento della verità". Il pg Antonella Montanaro ha iniziato così la sua requisitoria: «Chi ha ucciso Sarah Scazzi». Ha aperto poi il suo discorso con una immagine shock trasmessa sui monitor: l’immagine del corpo di Sarah Scazzi che galleggia nel pozzo in contrada Mosca prima di essere recuperato. «Così l’hanno ridotta», ha commentato la Montanaro. Poi ha ricostruito il giorno della sparizione di Sarah Scazzi. «Sarah arriva a casa Misseri intorno alle 13.50 del 26 agosto 2010. All’interno avviene una lite furiosa con Sabrina. Sarah esce da casa in lacrime e si dirige verso l’abitazione dei suoi genitori in via Verdi. Cosima e Sabrina si mettono in macchina, la Opel Astra guidata dalla madre raggiungono Sarah. Cosima scende dall’auto e costringe la nipote a salire in macchina. In quel mentre incrociano il furgone di Giovanni Buccolieri, il fioraio che si sta recando dalla sua commessa Vanessa Cerra che abita di fronte casa Misseri con la quale ha un appuntamento. Inizialmente l’intenzione delle due donne non è quella di uccidere la ragazzina ma di calmarla. Ma una volta in casa la uccidono strangolandola, in due, con una cintura. Ognuno dei tre Misseri svolgono compiti diversi. Sabrina resta in casa con il telefono di Sarah per ritardare l’arrivo dell’amica Mariangela Spagnoletti con la quale devono andare al mare mentre Cosima e Michele trascinano il corpo di Sarah nel garage passando attraverso la porta interna. Michele prende il corpo di Sarah e la carica sulla Seat Marbella e insieme a Cosima puliscono le tracce di urina di Sarah lasciate sul terreno della cantina dove era stato poggiato il corpo». Montanaro al termine della sua ricostruzione ha chiesto di confermare la condanna all’ergastolo per Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri.

Le difese. Delusione nel collegio difensivo dei principali imputati, che ha annunciato ricorso in Cassazione. Tutti hanno espresso disappunto per quella che è stata definita come una «decisione ingiusta». Già deciso, per tutti, il ricorso in Cassazione. Il primo a lasciare il tribunale è stato l’avvocato di Carmine Misseri, fratello di Michele, anche lui condannato per aver concorso nella soppressione del cadavere di Sarah. Il più risentito è apparso l’avvocato Nicola Marseglia che con il professore romano Franco Coppi (assente) difende la più giovane delle imputate. «Speravamo in un esito diverso, la conferma dell’ergastolo era un pericolo, un opzione. Appelleremo la sentenza è in ogni caso sapevano che ci sarebbe stato un terzo grado di giudizio. Se fossero state assolte – ha osservato il legale – avrebbe impugnato la sentenza la procura generale. Ora lo faremo noi e cercheremo di far valere le nostre ragioni. Se la difesa poteva fare qualcosa di più? Si può sempre – ha concluso il legale – far qualcosa di più ma noi abbiamo evidenziato le contraddizioni di un processo senza prove». Anche l’avvocato Franco De Jaco che con il suo collega Luigi Rella cura le sorti di Cosima Serrano, la speranza di una vittoria è riposta ai giudici del terzo grado. «Avevamo la sensazione che sarebbe andata a finire così, l’ambiente ha maturato una convinzione basata su indizi fuorvianti. Siamo convinti dell’innocenza delle due imputate condannate all’ergastolo e speriamo davvero di trovare a Roma un giudice terzo». Lo ha dichiarato ai giornalisti l’avvocato Luigi De Iaco, co-difensore di Cosima Serrano. Il legale ha quindi preannunciato ricorso in Cassazione contro la sentenza evidenziando come la sentenza presenti qualche aspetto che non va. Il riferimento è all'assoluzione degli imputati per favoreggiamento: si tratta di coloro che sostenevano la tesi del "sogno": se hanno detto il vero, ha precisato il legale, bisognerà spiegare il perchè del venir meno di quelle che lui ritiene parti importanti del processo.

Della terribile storia di Sarah Scazzi si parlerà a lungo anche perchè ha generato altri due procedimenti giudiziari. Dinanzi al tribunale di Taranto è in corso un processo per false informazioni al pm a carico di Giovanni Buccolieri, fioraio di Avetrana che raccontò agli inquirenti di aver visto Cosima sequestrare in auto Sarah per poi dire che era stato un sogno, e il suo amico Michele Galasso. In un’inchiesta-bis, invece, sono imputati in 12, a vario titolo per falsa testimonianza, calunnia e false informazioni al pm. Tra questi c'è Michele Misseri (ma per il reato di autocalunnia perchè dal dicembre 2010 continua in varie forme ad accusarsi del delitto) e Ivano Russo, l’amico di Sabrina e Sarah che, per l'accusa, sarebbe stato il motivo della gelosia di Sabrina nei confronti della cuginetta, sino a spingerla al delitto insieme alla madre Cosima.

Sabrina scoppia a piangere, scrive Maria Corbi su “la Stampa”. Tenta di trattenere ma non ce la fa. Era preparata a una nuova condanna ma non a un nuovo ergastolo. Ieri mattina, abbracciando il suo avvocato, Nicola Marseglia, che la difende insieme a Franco Coppi, gli aveva detto: «L’unica cosa che mi fa paura è sentire di nuovo la parola ergastolo». Nei colloqui con la sorella Valentina aveva riversato tutto il suo dolore e le sue paure. «Ho capito da come mi guardavano i giurati popolari che avevano già deciso. Io sono innocente, amavo Sarah come una sorella e chi mi ha condannato dovrà rispondere prima o poi alla sua coscienza e alla verità».  «Siamo soddisfatti della sentenza perchè ha retto l’impianto accusatorio, è chiaro che non si esulta quando ci sono gli ergastoli», ha commentato il procuratore generale presso la corte di Appello di Taranto Ciro Saltalamacchia. La mamma di Sarah non era in aula. Ha preferito rimanere a casa con il suo dolore e la sua certezza della colpevolezza della nipote e della sorella. Una tragedia che spezzato non solo la vita di una sedicenne ma anche una famiglia. «D’altronde - commenta Valentina, in singhiozzi - dopo cinque anni di processi televisivi colpevolisti cosa ci si doveva aspettare? Ma dove sono le garanzie? Come pensano i giudici di essere andati oltre ogni ragionevole dubbio? Una sentenza che prescinde dal buon senso». E’ stata confermata anche la condanna di primo grado a 8 anni per Michele Misseri, che ieri era in aula. «Sono stato io e io solo. Perchè non mi vogliono credere? Io non avrei mai coperto Sabrina, le sarei stato vicino ma non mi sarei preso la colpa. Ho un peso troppo grande sulla coscienza, ho ucciso tre persone, non solo mia nipote Sarah ma anche mia figlia e mia moglie». Il professor Franco Coppi ha aspettato la sentenza a Roma ed è attonito: «Sono veramente senza parole di fronte a questa sentenza che considero profondamente ingiusta. Non ci resta che la strada del ricorso per Cassazione». Rimane dunque fermo il racconto di primo grado che vede le due donne responsabili di rapimento, omicidio e occultamento di cadavere. «Cinque persone vengono coinvolte in un delitto senza che nessuno abbia la minima esitazione?», si chiede la difesa. Sabrina decide di far fuori la cugina, chiede aiuto alla madre Cosima e questa le dice subito: «Certo». Poi chiamano Michele che, senza domande, accetta di occultare il cadavere. Secondo il difensore di Cosima, Franco De Jaco, la sentenza è incomprensibile perché sottrae alle responsabilità, assolvendole, due figure essenziali nel sostegno della tesi accusatoria. «Come è possibile?». De Jaco si riferisce a Cosima Prudenzano e Antonio Colazzo, suocera e cognato del fioraio, colui che riferì di aver sognato Cosima e Sabrina che inseguivamo Sarah e la costringevano a salire in auto. Il fioraio (che non ha partecipato a questo processo neanche come teste, in quanto imputato di reato commesso) ha sempre continuato a sostenere che si trattava di un sogno. E anche Colazzo e Prudenzano lo hanno sostenuto, finendo imputati di favoreggiamento per aver avallato la tesi del sogno. Ieri sono stati assolti «perchè il fatto non sussiste» e De Jaco si chiede come mai allora, «se hanno detto il vero, Cosima e Sabrina sono state condannate». Una spiegazione che potrà arrivare dalla motivazione della sentenza, entro 90 giorni.

Speriamo che ci sia un giudice a Berlino, scrive Claudio Romiti su “L’Opinione”. Come da copione, nel processo di appello di Taranto è stata confermata la condanna all’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. Una condanna basata su un sogno, il cui autore continua ostinatamente e coraggiosamente a considerare tale, così come ha sottolineato Maria Corbi su “La Stampa”. La stessa brava giornalista, che ha seguito il caso sin dalle prime fasi, condivide le mie stesse perplessità sulla presunta colpevolezza delle due donne, dato che persino il magistrato che ha pronunciato la requisitoria - la dottoressa Antonella Montanaro - ha candidamente ammesso che si tratta di un processo indiziario. Un processo che, soprattutto per l’odio mediatico che ha attirato sulle due principali imputate, richiama alla mente periodi oscuri dell’umanità, in cui la giustizia aveva molto a che vedere con il pregiudizio e la magia e molto poco con l’evidenza delle prove. E in effetti prove reali a carico di quest’ultime non esistono. Allo stesso modo le varie ricostruzioni che nel tempo sono state messe in piedi per incastrarle sono sembrate a dir poco surreali. Molto nitida, al contrario, è apparsa da subito la posizione del reo confesso Michele Misseri, la cui successiva e poi rapidamente ritrattata chiamata in correità a danno della figlia - senza mai citare alcuna responsabilità della moglie - è avvenuta in condizioni ambientali a dir poco discutibili, con un popolino fomentato dai media colpevolisti che chiedeva a gran voce le teste delle due novelle streghe di Salem. L’impressione molto tragica è che da un caso di omicidio scaturito da un probabile raptus sessuale si sia passati ad un giudizio, con tanto di sondaggi televisivi, sulla simpatia/antipatia dei soggetti tirati in ballo. Tutto ciò, unito all’eccessivo peso che le procure esercitano nel cosiddetto giusto processo, sembra aver offuscato ancora una volta quel fondamentale principio di civiltà secondo il quale si è colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio. Principio di civiltà che in troppi casi è sostituito da una giustizia teorematica la quale, sostenuta dal colpevolismo a prescindere di buona parte dell’informazione, continua a generare mostri. A questo punto, nell’interesse di Sabrina Misseri, di sua madre Cosima Serrano e soprattutto in quello della moltitudine di cittadini che soffrono e che hanno sofferto un’ingiusta detenzione, non ci resta che sperare sempre che ci sia un giudice a Berlino. Suprema Corte di Cassazione docet.

Avetrana, ecco perché questa sentenza secondo me è ingiusta, scrive Maria Corbi. Il commento della giornalista de La Stampa che ha seguito per cinque anni il delitto Scazzi. “Seguo questa vicenda da cinque anni, dal giorno in cui Michele Misseri confessò. Ho conosciuto tutti i protagonisti di questa vicenda, sono stata la prima, per questo giornale, a intervistare Michele Misseri uscito dal carcere. Ho seguito il processo udienza per udienza e letto tutte le carte. Non ho mai incontrato Sabrina e su lei non posso che avere un giudizio mediato dagli atti e dai racconti di chi la conosce. Una premessa doverosa per chi sta per spiegarvi perché ritiene questa sentenza ingiusta. In un salotto tra amici potrei sbilanciarmi e sostenere che Sabrina e Cosima sono innocenti. In maniera pubblica, invece, devo ragionare in maniera diversa e astenermi dalla certezza, se non da quella che in questo processo non si é riusciti ad andare oltre ogni ragionevole dubbio. La stessa Pg Antonella Montanaro nella sua requisitoria ha ammesso che si tratta di un processo indiziario e quindi mi corre un brivido lungo la schiena a pensare anche solo per un attimo che lei e i giudici si siano sbagliati. Soprattutto dopo quello che è successo ieri quando due figure importanti del processo sono state assolte: Cosima Prudenzano e Antonio Colazzo. Suocera e cognato del fioraio su cui si basa tutta la condanna di primo grado e quindi anche di secondo grado. Il fioraio di Avetrana, Buccolieri Giovanni, raccontò alla commessa di avere sognato Cosima e Sabrina che rapivano Sarah trascinandola in auto dopo averla inseguita. La commessa lo ha raccontato alla mamma, una teste chiave dei pm di primo grado, Anna Pisanò, e questa lo ha raccontato a un carabiniere. Buccolieri allora è stato chiamato e gli è stato chiesto conto del sogno.  «Il sogno devo raccontare?». «Si». Ma nel verbale quel sogno diventa realtà e quando lui chiede che sia specificato che di sogno si trattava si becca una imputazione per false dichiarazioni al pm. E nonostante a Buccolieri bastasse cambiare versione e dire che il sogno era realtà per cavarsi di impaccio, non lo ha mai fatto. «Non voglio andare all’inferno per aver fatto condannare due innocenti», ha sempre ripetuto. La cosa bizzarra è che si è potuto sottrarre al processo. Quindi in un processo dove il sogno è protagonista il sognatore non c’è. Ma veniamo ai due assolti di ieri, Prudenzano e Colazzo, rispettivamente suocera e cognato del fioraio. Loro nei guai ci sono finiti perché quando gli è stato chiesto se loro sapevano se il sogno era realtà loro hanno risposto senza incertezze «Noi abbiamo sempre saputo che era un sogno». Condannati in primo grado per favoreggiamento. E adesso assolti. Dunque il sogno era tale? E allora dovrebbe, per logica, cadere anche la colpevolezza di Sabrina e Cosima almeno nella parte del rapimento. E anche se i giudici pensano che i due possono essere stati ingannati dal fioraio, come mai allora non si è sentita la necessità di ascoltare il sognatore visto che in ballo ci sono due ergastoli, ossia due sentenze alla morte civile? 

Ma sono tante le cose che non tornano in questa storia.  

5 persone vengono coinvolte in un delitto senza che nessuno abbia la minima esitazione. Ogni azione descritta per poter essere inserita nel quadro colpevolista viene velocizzata come in un film muto (per citare Coppi). 

Nei tabulati telefonici c’è la prova dell’innocenza di Sabrina ma per i giudici lo scambio di sms tra Sabrina e Sarah nei momenti appena precedenti al delitto sono un depistaggio. Quindi Sabrina, che aveva appena ucciso la cuginetta avrebbe provato a farsi un alibi scrivendosi sms dal cellulare di Sarah. Comportamento di un capo mafia non di una ragazza che fino a quel giorno non aveva fatto del male a nessuno. 

Il medico legale che visitò Michele Misseri in carcere parlò di unghiature sulle braccia di Misseri come se avesse avuto una colluttazione con Sarah. Poi quando l’uomo ritratta e accusa la figlia quelle ferite da colpo d’unghia diventano sfregi provocati dal lavoro nei campi. 

E poi c’è lui, Michele Misseri, che anche ieri ha continuato a ripetere di essere lui è solo lui il colpevole. «Non avrei mai difeso Sabrina se fosse stata lei. Le sarei rimasto vicino ma non mi sarei mai preso la colpa». Quando Michele Misseri trova il cellulare di Sarah chiama le figlie, che erano a casa, ad Avetrana. E dalla descrizione del telefonino è Sabrina a riconoscerlo, a dire che è di Sarah e a chiamare subito i carabinieri in modo che potessero prenderlo in custodia e analizzarlo. Perché avrebbe dovuto farlo sapendo che sarebbe stato usato contro di lei?  

Come si fa a non avere dubbi visto che oltre a confessare Michele ammette la soppressione del cadavere, l’incenerimento degli oggetti della vittima, rivelando i luoghi in cui tutto questo è accaduto? 

Come si fa a dare due ergastoli con questi presupposti? Gli errori giudiziari esistono. Per questo esiste la norma garantista della condanna oltre ogni ragionevole dubbio. A tutela non solo di Sabrina. Ma di tutti noi”.  

Ergastolo confermato per Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Quando la legge perde di valore basta una induzione e non servono prove per condannare...scrive Massimo Prati su “Albatros volando controvento”. Ancora una volta l'incredibile gioco di prestigio si materializza. Nonostante la mancanza assoluta di prove, ammessa a processo anche dal pubblico ministero, nonostante i pochi indizi sfocati portati da persone influenzate per mesi dai media, persone già poco credibili in partenza dato che sono necessitati più interrogatori e molti mesi per far dir loro quanto si voleva dicessero, il tribunale d'appello di Lecce, che però si trova a Taranto ed è frequentato da magistrati tarantini, ha confermato l'ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Che dire, se non che anche questa sentenza dimostra che siamo già arrivati oltre il limite della decenza giudiziaria, quel limite che con l'avvento dei processi indiziari si è allargato a dismisura dando ai giudici la possibilità di sentenziare non più in base alla legge ma in base a proprie convinzioni personali. Convinzioni che, per come vanno i tempi, non possono essere altro che colpevoliste viste le campagne mediatiche colpevoliste che da troppi anni vanno in onda. A confronto, la pubblicità tradizionale, quella nociva dei gratta e vinci, del superenalotto, delle app da installare sui cellulari per giocare con la frutta o nei casinò online, fa meno danni alla mente degli italiani, perché i media sono obbligati a scrivere che si tratta di pubblicità che può far male e ognuno di noi può decidere se guardarla, acquistare il prodotto o cambiare canale. I talk show colpevolisti, invece, non sono obbligati a inserire nessuno scritto. Anzi, sotto il faccione dell'opinionista colpevolista di turno scrivono referenze faraoniche ma del tutto teoriche, all'atto pratico da dimostrare o indimostrabili.

Perché il governo non tratta tutti allo stesso modo? Perché ha obbligato le multinazionali del tabacco a scrivere sul pacchetto che il fumo nuoce alla salute e provoca gravi malattie, e non obbliga le redazioni dei "programmi televisivi dedicati al crimine" ad inserire scritte del tipo: "Attenzione, la signora e il signore opinionista che state ascoltando sono amici del tal dei tali, vengono in trasmissione proprio perché amici degli amici e solo per farsi pubblicità, per questo seguono la corrente maggioritaria e blaterano perché hanno la bocca, ma non ci capiscono una mazza di processi e tanti di loro non hanno letto neppure una pagina degli atti". Poco ci vuole ad avvertire gli italiani del pericolo mentale che si corre ascoltando certe persone. I bugiardi che fingono di sapere delle colpevolezze altrui sono ovunque, perché dunque non inserire informazioni sui danni collaterali che possono provocare in chi li guarda e ascolta... in fondo un bugiardino è inserito obbligatoriamente anche nelle scatole dei farmaci. Basterebbe questa piccola avvertenza per ridimensionare i virus che divulgano certi personaggi e impedire che la giustizia si adegui ai media e al volere della Casta, e non viceversa come dovrebbe essere, anziché alla legge. Una ragazza incensurata è in custodia cautelare da cinque anni senza che nessuna prova porti a pensarla colpevole... e a nessuno importa nulla di lei e di come alcuni giudici bistrattino la giustizia italiana sentenziando ergastoli a go go in mancanza di prove. Lei e sua madre sono state condannate da giudici costretti prima dalla procura e poi dai media a ragionare in maniera superficiale e frivola. Solo in questa maniera potevano sentenziare la loro colpevolezza. Sarah Scazzi è arrivata alla casa di via Deledda, lo dice lo zio che si autoaccusa dell'omicidio, e chi era in casa l'ha uccisa. Questo il ragionamento induttivo e semplicistico accettato a prescindere senza provarlo con qualcosa di solido. Ma prove non ce ne sono, anzi, ed allora si continua con l'induzione e a causa di questa si sbaglia. In fondo il giudice a latere del processo d'appello, Susanna de Felice, sa già come si fa a sbagliar sentenze, visto che nel dicembre 2011 condannò per omicidio Raffaele Lazzari. Peccato che l'uomo fosse innocente. Infatti alla fine venne assolto e risarcito per il tempo trascorso in carcere. Ma che importa a loro della vita altrui e se la coscienza vuole che senza prove sia meglio assolvere che condannare? Nel 2010 Sabrina Misseri fu massacrata da procuratori convinti delle loro idee e di una confessione ottenuta in modo strano, a rate, e poi ritrattata tutta in una volta con tanto di querele e denunce. Dopo l'arresto di Sabrina Misseri nacquero gruppi colpevolisti che seguirono la procura e i Pm, neanche fossero i nuovi "messia", facendosi spazio a forza di offese e minacce fra i pochi che chiedevano un equo processo. Il fenomeno venne notato dai media e tanti giornalisti pugliesi, pur di trovare nuovi lettori e numeri per poter salvare i loro quotidiani (poi finiti ugualmente nella merda, falliti o ridimensionati) si prostituirono in procura per ottenere una notizia in più... magari da vendere a buon prezzo ai tg nazionali.

Erano giornalisti pugliesi come quelli acquistati un tanto al chilo dall'Ilva. Grazie alle loro indiscrezioni i programmi dedicati al gossip colpevolista triplicarono le ore di trasmissione e gli ascolti. Grazie a loro gli opinionisti televisivi, senza far nulla se non usando toni colpevolisti per alzare l'audience e i loro compensi, poterono pagarsi le vacanze a Formentera e il mutuo della nuova villa. I cronisti dei settimanali furono obbligati dai loro direttori a posizionarsi a 90° e a far annusare il sedere, lavato di fresco e oliato, a chi vendeva lo scoop del momento. Quei direttori fecero scuola, tanto che da qualche anno sono nati nuovi settimanali con nuovi direttori che ugualmente obbligano i loro cronisti a girare per le procure a culo nudo. A questi mafiosi dell'informazione poco importa della verità.

Poco importa della legge e delle garanzie processuali di cui dovrebbe godere un imputato, visto che seppelliscono chiunque sia indagato, nel caso in questione una ragazza incensurata, sotto quintali di melma puzzolente che neppure si sa da dove provenga. Qualcosa in questi cinque anni è cambiato. Ora a favore di chi viene arrestato senza prove ci sono molti gruppi facebook. Ci sono persone che prima di emettere giudizi pensano con la loro mente, ragionano e cercano riscontri negli atti. Poi, se è il caso, criticano quelle procure che anche in mancanza di prove abusano dei loro poteri. Veronica Panarello e Massimo Bossetti lo dimostrano. Ma anche loro due, che seppur nessuno ci pensi vivono sulla falsariga di Sabrina Misseri e Salvatore Parolisi, saranno condannati. I processi di Taranto fanno scuola. Chi si vuole colpevole, anche in assenza di prove e indizi validi, sarà colpevole... costi quel che costi. Nonostante questo, il pregiudizio sparso a piene mani su Sabrina Misseri è di una enormità mai vista e sono pochi quelli che si espongono in suo favore. Il pensiero generale si è oramai uniformato a quello mafioso-mediatico e i giudici di Taranto, con le loro condanne induttive, l'hanno reso di granito. Certo, chi ha mente per ragionare si chiede il motivo per cui i giudici d'appello Patrizia Sinisi e Susanna De Felice ad inizio processo rigettarono tutte le richieste avanzate dalle difese. E questo fatto, quindi non è un pensiero venuto alla mente dopo la conferma dell'ergastolo, fece da subito pensare che il verdetto fosse già scritto. Ciò che invece ci si chiede oggi, è il motivo per cui le menti di due giudici, che dovrebbero essere aperte a ogni soluzione, non abbiano tenuto conto dell'unica perizia chiesta da loro. Perizia che dava per molto improbabile la presenza del cellulare di Cosima in garage. Ma questo ce lo spiegheranno nelle motivazioni della sentenza. Hanno novanta giorni di tempo ed è chiaro che si spera di non leggerle fra oltre un anno, che si spera che non siano un mattone alla dottor Zivago come quelle di primo grado, quelle della ex collega dei procuratori, Cesarina Trunfio, che a forza di copia incollare ciò che le aveva portato la procura costruì un libro di 1631 pagine in cui si spargeva polvere e non stava scritto nulla di serio. Una condanna all'ergastolo va motivata nel migliore dei modi. Non servono duemila pagine di fumo, basta dire che la prova della loro colpevolezza è dimostrata in maniera inequivocabile dal fatto che...Se un fatto concreto emerso a processo dimostra la colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano che i giudici ce lo mostrino nel suo splendore, perché è difficile vederlo fra il fumo dei fuochi d'artificio che negli anni hanno sparato i giornalisti senza mutande che frequentano la procura di Taranto... naturalmente non si accettano motivazioni basate su opinioni personali nate da induzioni prive di verifiche serie e professionali. Insomma, non vorremmo leggere ancora motivazioni che non tengano conto che solo dopo il processo al fiorista di Avetrana si potrà ragionare su una ricostruzione accusatoria che al momento viene accettata da tutti i giudici "sulla fiducia", visto che il processo al fiorista la procura di Taranto preferisce non farlo (di certo a forza di spostamenti il reato andrà in prescrizione) per non rischiare di passar da realtà a sogno e far capire che a Taranto non servono motivi validi per spedire in carcere e condannare all'ergastolo anche le persone incensurate... basta un'idea geniale e un gioco di prestigio che nessun giornalista nazionale criticherà mai....basta chiedersi il motivo per cui i parenti del fiorista ieri sono stati assolti...

LE TAPPE DEL PROCESSO.

Avetrana, le tappe dell’inchiesta e del processo fino al 27 luglio 2015.

Tutto iniziò il 26 agosto 2010. Da quasi cinque anni tiene banco la vicenda umana e giudiziaria per l’uccisione di Sarah Scazzi. Ecco le tappe principali dell’inchiesta e del processo: 

26 agosto 2010. Sarah Scazzi esce da casa ad Avetrana (Taranto) per recarsi al mare con la cugina Sabrina Misseri. Scompare nel nulla. A denunciare la scomparsa di Sarah Scazzi, studentessa che frequentava il secondo anno dell'istituto alberghiero, era stata la madre Concetta Serrano. La 15enne era uscita dalla propria abitazione verso le 14.30 per andare a trovare la cugina Sabrina, distante poche centinaia di metri, con l'intenzione di andare insieme con un'amica al mare. Da quel momento si persero le sue tracce. All'inizio, le indagini delle forze dell'ordine si focalizzarono su un'ipotetica fuga di Sarah o su un presunto rapimento da parte di un uomo che l'avrebbe adescata sui social network. Le ricerche proseguirono per tutto settembre 2010. Il 29 di quello stesso mese il telefono cellulare della ragazzina fu ritrovato semicarbonizzato in un terreno vicino alla sua abitazione, dallo zio Michele Misseri.

6 ottobre 2010. Michele Misseri confessa di aver ucciso Sarah, strangolandola, e fa ritrovare i resti del corpo in un pozzo nelle campagne di Avetrana. Dopo un'altra settimana di ricerche, il 6 ottobre 2010, Misseri confessò l'omicidio della nipote e indicò agli inquirenti il posto dove ammetteva di aver nascosto il cadavere.

15 ottobre 2010. Michele Misseri chiama in correità nel delitto la figlia Sabrina, che finisce in cella. I giorni successivi, l'uomo ritrattò la propria confessione e il 15 ottobre confermò i sospetti su un coinvolgimento della figlia Sabrina. La ragazza venne arrestata, dopo essere stata interrogata per sei ore, con l'accusa di concorso in omicidio. La convalida del fermo fu eseguita il 21 ottobre. Gli inquirenti sospettarono che il movente di Sabrina fosse dettato dalla gelosia nutrita nei confronti della cugina che riceveva attenzioni da Ivano Russo, giovane di cui Sabrina Misseri sarebbe stata innamorata. In un continuo rimpallo di responsabilità, Michele Misseri ritrattò nuovamente la confessione, addossando le responsabilità sulla figlia Sabrina e spiegando di essere stato coinvolto da lei dopo la morte di Sarah per aiutarla a nascondere il corpo ormai senza vita.

5 novembre 2010. Michele Misseri accusa la figlia Sabrina di aver ucciso Sarah.

19 novembre 2010. Nell’incidente probatorio Michele Misseri conferma le accuse del 5 novembre nei confronti della figlia. Misseri, nel frattempo, spiega di avere accusato la figlia Sabrina su suggerimento dal proprio legale Galoppa e dalla Bruzzone, durante l'incidente probatorio. I due denunciarono l'uomo per calunnia.

Dicembre 2010. Michele Misseri comincia a scrivere lettere, sostenendo che ha fatto tutto lui, dal delitto alla soppressione del cadavere. 

23 febbraio 2011. I carabinieri arrestano Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello e nipote di Michele Misseri, per concorso in soppressione di cadavere. 

10 marzo 2011. Il Tribunale del Riesame scarcera Carmine Misseri e Cosimo Cosma. 

26 maggio 2011. Viene arrestata Cosima Serrano, moglie di Michele Misseri e madre di Sabrina. E’ accusata di concorso in omicidio e sequestro di persona. Analogo provvedimento viene notificato a Sabrina in carcere. Il 26 maggio 2011, nuovo colpo di scena. Scattano le manette anche per Cosima Serrano, madre di Sabrina e moglie di Michele Misseri. In base alle analisi effettuate sui tabulati risultò una chiamata fatta dalla donna all'interno del garage, pur avendo la Serrano dichiarato di non essersi recata quel pomeriggio. Il marito uscì dal carcere dopo 5 giorni dall'arresto perché erano scaduti i termini della custodia cautelare, per l'accusa di soppressione di cadavere.

30 maggio 2011. Michele Misseri viene scarcerato. Ora è accusato solo di soppressione di cadavere. 

1 luglio 2011. La Procura chiude le indagini preliminari. 

29 agosto 2011. Dinanzi al gup comincia l’udienza preliminare, che si chiuderà con nove rinvii a giudizio, tre assoluzioni e un proscioglimento. 

10 gennaio 2012. Comincia il processo dinanzi alla Corte di Assise di Taranto. 

17 luglio 2012. Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri, citate dall’accusa, si avvalgono della facoltà di non rispondere. Stessa cosa fanno Carmine Misseri e Cosimo Cosma. 

29 ottobre 2012. Michele Misseri, citato dall’accusa, non risponde alle domande. 

20 novembre 2012. Cosima Serrano, citata alla difesa, non risponde. 

20 novembre 2012. ’’Reputavo Sarah una sorella minore, non una cugina, e la trattavo di conseguenza. Qualche rimprovero sì, ma non litigi’’: lo dichiara Sabrina Misseri durante l’esame della difesa. 

5 dicembre 2012. ’’Ho ucciso io Sarah, questo rimorso non lo posso più portare dentro di me’’. Lo dichiara Michele Misseri e il suo difensore, Armando Amendolito, rimette il mandato. Viene sostituito di ufficio dall’avv. Luca Latanza. 

29 gennaio 2013. Uno dei sei giudici popolari viene “pescato” mentre esprime giudizi poco lusinghieri su una testimone e viene sostituito. 

5 marzo 2013. La Procura di Taranto conclude la requisitoria, cominciata il 25 febbraio dal pm Mariano Buccoliero, e formula le richieste di condanna. 

25 marzo 2013. Viene diffuso un “fuori onda” tra presidente della Corte e giudice a latere; la difesa di Sabrina chiede alla Corte se non intenda astenersi dal processo. 

26 marzo 2013. La Corte si astiene rimettendo gli atti al presidente del Tribunale, che il giorno dopo rigetta l’astensione. Il processo prosegue. 

20 aprile 2013. La Corte d’assise di Taranto condanna all’ergastolo Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Michele Misseri invece viene condannato a 8 anni per concorso in soppressione di cadavere. Per lo stesso reato vengono inflitti 6 anni ciascuno a Carmine Misseri difeso dall’avvocato Lorenzo Bullo e Cosimo Cosma, difeso dall’avvocato Raffaele Missere, rispettivamente fratello e nipote di Michele Misseri. Anche l’ex difensore di Sabrina viene condannato, a due anni di reclusione in questo caso, per intralcio alla giustizia.  

16 novembre 2014. Prima udienza del processo d’appello. 

27 luglio 2015. Confermata in appello la condanna a due ergastoli per Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Confermata anche la condanna di primo grado per Michele Misseri: otto anni reclusione per soppressione di cadavere.   

PROCESSO SARAH SCAZZI. UNA CONDANNA SENZA PROVE E SENZA INDIZI.

Non c'è ora certa della morte. C'è discordanza sull'ora della morte. Il cordon bleu nello stomaco di Sarah fa pensare che la morte risalga tra le ore 15.30 alle ore 16. L’orario della morte di Sarah Scazzi andrebbe posticipato di un’ora e mezza-due ore. E quindi indicato tra le 15.30-16.00 e non fissato alle 14-14.10, come stabilito dalla Procura. Lo ha affermato al processo per l’omicidio di Sarah Scazzi la biologa Valeria Scazzeri, che ha eseguito una perizia di parte, affidatale dall’avvocato Raffaele Missere, difensore di Cosimo Cosma, in relazione alla durata della digestione delle vittima, prima che venisse uccisa. Cosimo Cosma è nipote di Michele Misseri ed è accusato, insieme allo stesso e al fratello di zio Michele, di soppressione di cadavere. Sarah, il 26 agosto 2010, prima di raggiungere casa della cugina Sabrina Misseri, mangiò nella propria abitazione in tutta fretta un cordon bleu.

Non c'è ora certa dell’arrivo di Sarah dagli zii. Per la difesa nei tabulati telefonici, nel susseguirsi di messaggini, telefonate e squilli tra Sabrina, la cugina, l’amica Mariangela e un’altra ragazza c’è la prova dell’innocenza di Sabrina. Per l’accusa c’è la prova del depistaggio. Quel maledetto 26 agosto 2010 accade quello che era stato messo in programma dalle tre ragazze la sera prima, ossia l’organizzazione della gita al mare. L’atteso messaggio di Mariangela arriva a Sabrina alle 14.23.31: “Il tempo di mettere il costume e vengo”. Sarah non aveva nessun motivo di uscire prima di ricevere quel messaggio e infatti la madre nella denunzia di scomparsa dice che è uscita alle 14,30. Alle 14,24 Sabrina chiede a Mariangela: “Avviso Sarah?”. Mariangela risponde e Sabrina alle 14,25 avverte Sarah che non risponde subito, sia perché non aveva credito, sia perché pensava di raggiungere la cugina; tanto che dopo che Sabrina la sollecita a una risposta (alle 14.28.13), Sarah, alle 14.28.26, invia un semplice squillo, tanto la risposta era ovvia. Quindi alle 14.28.26 Sarah Scazzi era in vita e stava per raggiungere o aveva raggiunto casa Misseri. Misseri ha ammesso che alle 14.30 era in garage e che Sarah é arrivata intorno alle 14.25. La sentenza secondo la difesa supera l’interpretazione più ovvia dei fatti e sostiene che Sarah fosse stata già uccisa nel momento in cui parte lo squillo dal suo telefonino e afferma che esso sarebbe stato lanciato da Sabrina, la quale dopo l’uccisione della cugina avrebbe inscenato uno scambio di messaggi in base al quale precostituisti un alibi per poter sostenere che mentre era ancora in casa a prepararsi, alle 14.28.26, Sarah era in vita e non poteva che essere stata uccisa dal padre che in quel momento si trovava nel garage di casa. Secondo la sentenza Sarah non sarebbe uscita dopo aver ricevuto il messaggio di Sabrina ma molto tempo prima e precisamente tra le 13,45 e le 13,50. L’orario è fondamentale per poter procedere a una ricostruzione dei fatti che vede Sabrina e Cosima colpevoli. Ma perchè la ragazzina sarebbe dovuta uscire prima dicendo una bugia quando non ne aveva alcun bisogno? Oltre al fatto che Sarah esce dicendo alla madre che ha ricevuto il messaggino della cugina e quel messaggino c’è ed è delle 14,25.

Appena ricevuta la conferma di Sarah Sabrina inizia i preparativi va in bagno e alle 14.28.40 manda a Mariangela il messaggio “sto tentando in bagno” con uno smile.

Alle 14.31.44 Angela Cimino le manda un messaggio al quale risponde 4 minuti dopo (proprio perché era in bagno), alle 14.35.47. Finito di prepararsi alle 14,39 Sabrina invia a Mariangela un sms: “pronta” ed esce di casa. Una serie di messaggi che, per sequenza e contenuto sono coerenti con il programma fatto dalle ragazze la sera prima.

Sabrina non trova Sarah ad aspettarla come sarebbe stato logico e per questo quando arriva Mariangela è preoccupata. Sono le 14.42 e Sabrina prova a chiamare Sarah. E’ questo il momento in cui secondo le dichiarazioni di Michele Misseri, da lui rese il 28 settembre 2010, esce dal garage e viene notato dalla figlia che gli chiede notizie di Sarah. «Sarah arrivò a casa degli zii alle 14,25, 14,30», ha spiegato Coppi, «Lo dicono diversi testimoni e anche il papà di Sarah, Giacomo Scazzi quando Sabrina, intorno alle 14,45, andò a chiedergli se la figlia fosse ancora lì, il giorno della scomparsa, e lui rispose: è appena uscita. In questa vicenda si è giocato con gli orologi e gli orari».

Non c'è luogo certo della morte. Non si conosce il luogo della morte se in casa, in cantina o in altri luoghi.

Non c'è luogo certo ove fossero gli imputati nel momento del delitto. Le analisi sui tabulati e le celle telefoniche non sono chiare e certe.

Non c'è arma certa del delitto. Si parla di corde, ma anche di cinture dei pantaloni, come quelle dello zainetto di Sarah, che però non corrisponde con i segni sul collo della piccina.

Non c'è movente certo del delitto. Si parla di gelosia, ma anche di invidia, di uno scatto d'ira e di altri possibili moventi.

Non c'è un responsabile certo del delitto. C'è un reo confesso non creduto, ci sono due imputate che si dichiarano innocenti. E' stato Michele? E' stata Sabrina? E' stata Cosima? E' stato uno di loro o tutti insieme o insieme con un altro?

Non c'è solidarietà dei familiari con la famiglia della vittima. Le sorelle ed i fratelli di Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, madre di Sarah, solidarizzano con la sorella Cosima, ma non con Concetta. Concetta Serrano, rivela a “segreti e Delitti” del 24 luglio 2015 condotto da Gianluigi Nuzzi su Canale 5 (promozione in prima serata di Quarto Grado di Rete 4): «Sono in tensione per la sentenza anche perché non si sa quando uscirà. Siamo tutti in attesa dell’esito. Per Sabrina e Cosima provo tanta rabbia e dolore. Rabbia perché mi chiedo cosa sia successo quel giorno e perché. Dolore perché continuano a nascondere la verità, continuano a fingere questa loro innocenza anche se ormai si sa bene che sono state loro due». È perentoria Concetta Serrano nel suo intervento in diretta a “Segreti e delitti” su Canale 5. La madre di Sarah Scazzi, intervistata da Gianluigi Nuzzi, racconta così le ore di attesa che separano lei e i suoi familiari dalla sentenza del processo d’Appello per il delitto di Avetrana. «Quel giorno fatale in cui è morta Sarah, è sempre fisso nella mia mente. Ricordo quando Sabrina ha detto “Sarah non è venuta a casa nostra”. Non pensavo che loro mi mentissero, ma nei loro comportamenti e parole sentivo qualcosa di strano». «Quando Sabrina veniva a casa nostra, però dava l’impressione di una cugina che ci teneva, per questo non immaginavo c’entrasse in quello che è accaduto a Sarah», prosegue la donna. «Non ho mai avvertito gelosia né invidia da parte di Sabrina. Al contempo, non ho mai creduto alle confessioni di Michele. Conoscendolo non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere. Sarah non aveva nessuna relazione con lui perché stava con sempre con Sabrina. In passato ha detto che sarebbe venuto da me per chiedermi perdono, ma non l’ho mai visto». E conclude: «Se Sabrina e Cosima non hanno confessato fino adesso, credo che non confesseranno più». Ma una domanda scabrosa è posta da studio: “perché i suoi familiari l’hanno abbandonata e preso le parti di sua sorella Cosima?”. La risposta potrebbe anche essere che forse i familiari sono certi della innocenza di Cosima, come sono certi del fatto che qualcuno, tra i parenti od i loro avvocati od amici, cavalchi la notorietà o si speculi sulla morte di una bambina?

Non ci sono testimoni certi dei fatti. Le imputate sono state condannate per colpa di Michele Misseri, Giovanni Buccolieri ed Anna Pisanò. Michele Misseri, a suo dire, ha accusato la figlia Sabrina tratto in inganno dalla Bruzzone e da Galoppa, sua consulente ed avvocato. Giovanni Buccolieri ha accusato Sabrina e Cosima per mezzo di un sogno e messo in mezzo da Anna Pisanò, ed a suo dire, usato artatamente dai carabinieri, tanto è vero che i testimoni che ne confutavano la versione del sogno sono stati assolti, mentre lui è stato tenuto debitamente fuori dal processo, pur non essendo stato ancora condannato in altri processi per falsa testimonianza. Anna Pisanò, nota pettegola e bugiarda a detta di Sabrina Misseri, ha indicato responsabili, tempi e movente, ma è stata sbugiardata proprio da sua figlia Vanessa Cerra. 

I TESTIMONI DELL'ACCUSA: MICHELE MISSERI, GIOVANNI BUCCOLIERI, ANNA PISANO' SE LI CONOSCI LI EVITI.

Michele Misseri. Le sette diverse versioni fornite da Michele Misseri in relazione all'omicidio della nipote quindicenne, Sarah Scazzi, sono «tra di loro incompatibili e sovente contrapposte» e ciascuna «porta con sè una totale o parziale, ma sempre significativa, quota di ritrattazione e, con essa, un grave segnale di inattendibilità». Questo uno dei passaggi delle motivazioni, depositate giovedì, in base alle quali la Cassazione ha annullato martedì 17 maggio 2011, con un rinvio, una delle ordinanze di carcerazione di Sabrina Misseri ordinando al Tribunale del Riesame di Taranto di rivalutare tutto il materiale indiziario e di rispondere a tutte le obiezioni della difesa di Sabrina. I supremi giudici con la sentenza bacchettano i giudici che hanno confermato la custodia in carcere di Sabrina. Non sostengono l'estraneità della ragazza all'omicidio di Sarah, ma criticano aspramente la circostanza di aver dato retta al racconto di Michele Misseri senza «alcuna verifica dei comportamenti da lui effettivamente tenuti» e soltanto riscontrando il suo racconto con le sue stesse dichiarazioni, mentre il procedimento di verifica deve essere «compiuto dall'esterno». La Suprema Corte, inoltre, accogliendo le obiezioni sollevate dalla difesa di Sabrina sui metodi usati dai magistrati nell'interrogatorio di Michele Misseri, rilevano che non è stato tenuto nel debito conto la «suggestionabilità» dell'uomo, il quale, ricorda la Cassazione, aveva già ricevuto dal gip il richiamo «a non mentire». Per la Cassazione nei confronti di Sabrina Misseri, i giudici del Tribunale del Riesame hanno sbagliato a scegliere sempre criteri di giudizio «a discapito dell'imputata» soprattutto quando c'era il «dubbio sul significato della prova». In proposito la Cassazione - nelle motivazioni con le quali ha ordinato al Tribunale del Riesame di rivalutare gli elementi indiziari a carico di Sabrina Misseri - sottolinea che «in materia di libertà personale se due ipotesi sono egualmente sostenibili, se due significati possono parimenti essere attribuiti a un dato deve privilegiarsi quello più favorevole all'imputato, che può essere accantonato solo ove risulti inconciliabile con altri univoci elementi di segno opposto». Il colpo di scena, in quest’udienza, lo si deve però proprio a Misseri, che in aula ha reso delle dichiarazioni spontanee per accusarsi del delitto, scagionando la moglie e la figlia. Michele Misseri ha spiegato al gup che la sua confessione davanti al gip Martino Rosati il 15 ottobre 2010, in cui accusava le due donne di aver preso parte al delitto, era stata volutamente falsata, sotto consiglio del suo ex avvocato difensore, Daniele Galoppa, e della criminologa Roberta Bruzzone, consulente della difesa di Michele nell’autunno 2010. I due, secondo Misseri, lo avrebbero «indotto, durante un colloquio a dare una versione diversa, perché così facendo avrebbe dimostrato che si era trattato di un incidente e quindi lui e la figlia se la sarebbero cavata con pene irrisorie».

L'assoluzione delle imputate Sabrina Misseri E Cosima Serrano, avrebbe avvalorato la versione di Michele e messo nei guai la bionda consulente ed in imbarazzo i programmi in cui questa svolge le comparsate, l'avvocato che rilascia interviste su quei programmi ed i magistrati che li sostengono.

E comunque è da censurare il fatto comunque siano andate le cose: sia che per salvarsi si accusi la figlia; sia che ci si faccia abbindolare facilmente.

Giovanni Buccolieri. Naturalmente parlo dei parenti di Giovanni Buccolieri che in corte d'assise non hanno ceduto alle spallate dell'accusa e insistito nel dire che in famiglia si era sempre parlato di un sogno e non di un fatto realmente accaduto. A questo proposito bisognerebbe che almeno l'attuale pubblica accusa, ma dovrebbero farlo anche tutti gli italiani, si chiedesse il motivo per cui quelle persone continuino, come il fiorista non imputato in questo processo, a perseverare con una versione che per loro comporta solo notevoli spese legali. Per quale motivo i parenti del fiorista, come il fiorista stesso, se sanno di mentire continuano ad insistere su una versione che li ha visti condannati? L'unica risposta plausibile e che non stanno affatto mentendo, che davvero alla famiglia (ma anche agli amici) Giovanni Buccolieri ha sempre parlato di un sogno. Apro una parentesi per informarvi del fatto che solo il sei giugno 2015 si sono chiuse le indagini sul sogno del fiorista. Ai Pm ci sono voluti tre anni per capire se Buccolieri mentiva o meno, un'eternità per un fatto del genere che non necessitava di perizie tecniche. Un'eternità investigativa se paragonata ai nove mesi bastati per chiudere le indagini sulla morte di Sarah. Ma in fondo, a chi non soffre di pregiudizio è chiaro il motivo per cui la procura non abbia portato ancora a processo il fiorista. Se un giudice avesse già giudicato Giovanni Buccolieri, magari dichiarandolo innocente perché davvero spinto a firmare un verbale che non conteneva la verità, come poteva esistere un processo d'appello basato solo su quel sogno trasformato in realtà? E questa è la contraddizione delle contraddizioni. Un processo minore che dovrebbe essere celebrato prima per capire se il maggiore ha motivo di esistere, visto che il minore funge da stampella che sorregge l'accusa nel maggiore, forse non sarà neppure celebrato perché si porterà avanti sino alla prescrizione, ormai sicura data la durata delle indagini, per fare in modo che non incida in alcun modo nel processo maggiore. Potrebbe capitare, quindi, che le Misseri vengano condannate definitivamente senza che la giustizia ci dica se Giovanni Buccolieri ha sognato oppure visto realmente. E data questa grave incongruità, fa strano che nella prima udienza d'appello le contraddizioni le abbia trovate chi sostiene l'accusa, il sostituto procuratore Antonella Montanaro.

Franco Coppi: Il fioraio Giovanni Buccolieri non è credibile. Tutti i testimoni sentiti parlano di un sogno. Anche Vanessa Cerra, figlia di Anna Pisanò e presunta amante del fioraio, ha detto che l’episodio del rapimento era un sogno a lei raccontato dal suo datore di lavoro.

E comunque è da censurare il fatto comunque siano andate le cose: sia che si siano divulgati fatti comparsi in sogno; sia che si ritratti fatti che non siano frutto di un sogno.

Anna Pisanò. La Cassazione spiega il perchè dell’annullamento con rinvio, per nuovo esame, dell’ordinanza di conferma della carcerazione di Sabrina Misseri, emessa dal Tribunale del riesame. E lo fa bacchettando i giudici del Tribunale che hanno confermato l’arresto di Sabrina, perchè hanno dato retta al racconto di Michele Misseri senza alcuna verifica dei comportamenti da lui effettivamente tenuti. Le sette versioni differenti fornite da Michele Misseri “tra di loro incompatibili e contrapposte” sono la dimostrazione – secondo la Cassazione – dell’ “inattendibilità” del padre di Sabrina. Inoltre, secondo la Cassazione è necessario approfondire le dichiarazioni dell’amica di Sabrina, Anna Pisanò, la retrodatazione dell’orario del delitto, il movente sessuale che potrebbe aver spinto Michele Misseri all’omicidio della 15enne e quello della gelosia per Ivano Russo. I supremi giudici, infatti, non ritengono che Russo sia stato l’elemento scatenante dell’omicidio di Sarah ad opera di Sabrina. La Cassazione ordina quindi al Tribunale del Riesame di Taranto di procedere ad un nuovo esame della vicenda.

A questo punto L'avv. Nicola Marseglia, l’avvocato del foro di Taranto difensore di Sabrina Misseri, smonta pezzo pezzo alcuni di questi testi tra cui quelli principali come Anna Pisanò che raccontò di aver visto Sarah imbronciata a casa Misseri, la mattina del 26 agosto, e Mariangela Spagnoletti che, nel pomeriggio, arrivò in via Deledda e dichiarò di aver visto già fuori da casa Sabrina. La Pisanò, dice il difensore della giovane imputata, stranamente è in mezzo a diversi episodi di questa inchiesta. Anna Pisanò la definisce il prodotto esemplare di questo l processo mediatico. La Spagnoletti è pure una teste centrale e cambia tre volte versione, nella prima non fornisce neppure elementi «trascendentali» per le indagini. Tra i testimoni dell'accusa nei cui confronti Franco Coppi ha puntato l'indice accusatorio c'è Anna Pisanò, amica di Sabrina, definita "troppo precisa", ma anche "personaggio perfido". "Anna Pisanò - dice Coppi - è attratta dalle interviste.

CHI SONO GLI ACCUSATORI? SE LI CONOSCI LI EVITI!

«Cara Sabrina, ti voglio bene. Ma odio quello che hai fatto alla mia Sarah». Concetta Serrano Spagnolo in contemporanea all’intervista di Saltalamacchia scrive alla nipote, in carcere per l’omicidio di sua figlia, avvenuto ad Avetrana nel 2010. L’esclusiva del settimanale «Dipiù. «Cara Sabrina, quello che sto per scriverti ti sembrerà forse impossibile, ma io ti voglio bene come voglio bene a Sarah». «Credo di essere stata per te una buona zia. Comunque sia, ripeto – scrive - non ti ho mai odiata, ma ho odiato invece quello che hai fatto. Quello che tu hai fatto a Sarah, alla mia bambina Sarah, alla tua cugina Sarah, quella che tu dicevi di voler proteggere, quella a cui dicevi di volere bene come una sorellina più piccola: Sarah che è morta, uccisa, in quella casa, nella vostra casa». «Anche se tu e tua madre, mia sorella Cosima, vi proclamate innocenti, e anche se davvero foste innocenti – scrive Concetta - una cosa vale per me e per tutti: mia figlia Sarah quel giorno è venuta a casa vostra, fidandosi di voi, fidandosi di te che la dovevi portare al mare». «Non posso dimenticare che tuo padre Michele, per nascondere il delitto, ha gettato il corpo di Sarah in un pozzo, buttando via la mia bambina come se fosse stata un rifiuto, e lasciando a me, a suo padre e a suo fratello, per quarantuno giorni strazianti, la crudele illusione che Sarah fosse ancora viva chissà dove».

Intanto l’11 luglio 2015 a Vasto il titolare di un blog locale, Alessandro Oliveri, vastese querelato da Claudio Scazzi per “aver pubblicato subito dopo il ritrovamento di Sarah Scazzi fotografie dal contenuto raccapricciante, che mostravano il cadavere della ragazza" è stato assolto dal giudice Antonio Lauriola con la formula “il fatto non sussiste”, scrive Paola Calvano “su Vasto Web” e “Termoli on line”. Quelle foto, secondo l’accusa, avrebbero provocato disagio e malessere nei familiari della vittima. Questa mattina sentite le parti, il pm Iaia Marino ha chiesto due mesi di reclusione. Il giudice accogliendo la richiesta dell’avvocato Angela Pennetta che assisteva l’imputato, lo ha assolto. Termina quindi lo strascico giudiziario vastese sulla morte della povera ragazza di Avetrana uccisa barbaramente. L’accusa ha insistito che avere pubblicato subito dopo il ritrovamento della vittima fotografie dal contenuto raccapricciante, che mostravano il cadavere di Sarah era stato molto dannoso per la famiglia. Diversa l’opinione della difesa e del giudice.

"Sono molto contenta per il mio assistito, perché è stata ristabilita la verità che abbiamo sempre sostenuto". Soddisfatto il commento dell'avvocato Angela Pennetta, a margine della pubblicazione della sentenza che ha assolto il suo assistito, un giornalista vastese, messo sotto accusa da Claudio Scazzi, fratello di Sarah, la giovane vittima del giallo di Avetrana, per la presunta pubblicazione di foto macabre sul sito di cui il giornalista vastese era responsabile, scrive “Zona Locale”. Claudio Scazzi, rappresentato in Aula dal noto avvocato – spesso ospite delle tv nazionali - Nicodemo Gentile, del foro di Perugia, aveva lamentato danni morali per la pubblicazione di foto che ritraevano il cadavere della sorella ancora all'interno del pozzo nel quale era stata ritrovata, e il pm Mariagrazia Marino aveva chiesto la condanna a 2 mesi di reclusione e al pagamento di 2mila euro di multa; il giudice Antonio Lauriola ha invece assolto il giornalista, difeso dall'avvocato Angela Pennetta, "perché il fatto non sussiste", facendo riferimento a una sentenza della Cassazione che stabilisce che non si può equiparare il reato commesso a mezzo stampa con quello eventualmente commesso via web, qualora la Procura non provi che a pubblicare quella foto sia stato proprio il sito del giornalista imputato. La controparte, infatti, ha portato in causa solo una stampa – evidentemente facilmente modificabile – ma non era stato effettuato alcun sequestro del sito che dimostrasse l'avvenuta pubblicazione. Da qui la sentenza di assoluzione pubblicata nella mattinata di oggi.

Invece la giornalista Ilaria Cavo rischia processo per diffamazione con Misseri. La Procura di Taranto ha chiesto il rinvio a giudizio per la neoassessore della giunta Toti in Liguria, ex di Mediaset, dopo una denuncia presentata dalla criminologa Roberta Bruzzone e dell'avvocato Daniele Galoppa, scrive Francesco Casula il 17 luglio 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Il pubblico ministero Mariano Buccoliero ha chiesto il rinvio a giudizio per Ilaria Cavo, giornalista di Mediaset e da poco nominata assessore regionale dal governatore della Liguria, Giovanni Toti, con deleghe alla Comunicazione istituzionale, politiche giovanili, scuola cultura, sport e pari opportunità. La giornalista, entrata in politica alle ultime consultazioni regionali con la lista di Forza Italia, è accusata di diffamazione nei confronti della criminologa Roberta Bruzzone e dell’avvocato Daniele Galoppa, ex difensore di Michele Misseri, lo zio di Sarah Scazzi, uccisa e gettata in un pozzo di Avetrana il 26 agosto 2010. La famosa criminologa Roberta Bruzzone, ha dichiarato sul settimanale Giallo che a carico delle donne esistono prove schiaccianti e nulla e nessuno potrà evitare il carcere a vita a madre e figlia. 'La perizia sui telefonini, che doveva scagionare Cosima, ha aggravato la sua posizione e le sue lacrime in aula non serviranno ad evitare un'altra condanna', queste sono le parole pronunciate dalla Bruzzone, che pesano come macigni sulle due donne.  Il rinvio a giudizio è stato chiesto anche per lo stesso Misseri, accusato di calunnia nei confronti dei due professionisti. Secondo la procura ionica, il contadino di Avetrana avrebbe formulato accuse nei confronti del suo difensore e della consulente affermando di essere stato spinto a incolpare la figlia Sabrina, indagata in seguito alle sue confessioni e poi condannata all’ergastolo per omicidio insieme alla madre Cosima Serrano al termine del processo di primo grado. Nei confronti della Cavo l’accusa è invece quella di aver rilanciato le accuse dello zio di Avetrana, condannato in primo grado a otto anni di reclusione per la soppressione del cadavere di Sarah. L’uomo però, da tempo continua ad affermare di essere l’unico responsabile della morte della 15enne e di aver accusato la figlia Sabrina solo perché indotto a farlo Una versione che scatenato l’ira di Galoppa e della criminologa Bruzzone che sono così passati alla vie legali. Nel procedimento penale, inoltre, il giudice per l’udienza preliminare Valeria Ingenito ha concesso all’avvocato Galoppa e alla consulente Bruzzone di citare come responsabili civili la Rai, la Rti per Mediaset, le Edizioni Universo e la società Rcs per il settimanale Oggi. Nel procedimento oltre a Misseri e la Cavo è imputato per diffamazione anche l’avvocato Fabrizio Gallo. Ma questo è solo l’ultimo dei tanti rivoli giudiziari aperti a Taranto dopo il reality horror di Avetrana: la stessa Ilaria Cavo è stata assolta in un altro procedimento per l’utilizzo di materiale fotografico che sarebbe stato, secondo l’accusa iniziale, venduto da un consulente della procura. Sotto inchiesta sono finiti anche Cristiana Lodi, inviata di Porta a Porta, insieme alla parlamentare dell’allora Pdl Melania Rizzoli: durante una visita al carcere di Taranto la Lodi si presentò come assistente parlamentare e riportò poi il contenuto dell’incontro con Michele Misseri, all’epoca detenuto, in un pezzo su Libero. Entrambe hanno patteggiato sei mesi di reclusione usufruendo della sospensione della pena, la parlamentare ha poi trasformato la pena in una multa di circa 50mila euro. Ora i riflettori sono pronti a riaccendersi: il 23 luglio prossimo, infatti, la corte d’appello di Taranto si ritirerà in camera di consiglio per emettere il verdetto di secondo grado.  E il gran circo mediatico tornerà con dirette ed esclusive nelle case degli italiani.

Vita e morte dell’informazione. Intervista a Nazareno Dinoi, di Pietro Alessio Palumbo su “Cronaca Nera”.

Dinoi, lei vive a Manduria e come giornalista ha curato gli articoli di cronaca nera sulla drammatica storia di Sarah Scazzi ad Avetrana. È il direttore de “La Voce di Manduria” e collabora per il “Corriere del Mezzogiorno”. Qual è stato il suo primo pezzo pubblicato sul caso?

«Il mio primo articolo su Sarah Scazzi l’ho pubblicato il 29 agosto, tre giorni dopo la sua scomparsa. La notizia l’avevo avuta il giorno prima ma parlando con i carabinieri decisi, sbagliando, di aspettare ancora».

Vivendo a Manduria, vicino ad Avetrana, ha potuto respirare anche le sensazioni della popolazione: qual è stata la sua prima impressione, e quale, invece, l’idea che si è fatto in seguito?

«L’impressione che ho avuto subito è stata quella che poi si è purtroppo avverata. Nessuno in quel paese, me compreso, ha mai creduto ad una fuga volontaria nonostante le voci iniziali del possibile coinvolgimento di facebook, delle chat e della volontà di fuggire della ragazza. Tutti eravamo convinti del peggio. Un aspetto alquanto strano, questo, che meritava di essere approfondito sin da subito. Solo dopo si è capito che tutti quanti siamo stati manipolati dalla famiglia Misseri che è stata la prima, dai primissimi istanti della presunta scomparsa di Sarah, ad infondere pessimismo sulla sua sorte».

Che cosa significa, per i cittadini di Avetrana, da un punto di vista socio-antropologico, un delitto in una cittadina così piccola e così lontana finora dai fatti di cronaca?

«L’abnorme interesse dei media su una comunità così piccola, così distante dai grandi eventi mediatici, difficile da raggiungere persino geograficamente, ha prodotto un’iniziale eccitazione con forte desiderio di partecipare al circo dell’informazione “all inclusive”. Nessuno di noi cronisti, per molti giorni, ha mai avuto difficoltà a raccogliere impressioni, racconti, aneddoti, persino spunti investigativi dagli avetranesi. Dopo, però, la macchina si è guastata e la gente ha cominciato a vederci come degli intrusi; e aveva ragione perché in troppi abbiamo approfittato, anche con l’inganno, della loro disponibilità».

Perché il turismo macabro dell’orrore, e quello squallido voyeurismo, ad Avetrana?

«Voglio subito sfatare quello che è stato marchiato come una prerogativa tutta avetranese e del Sud più in generale. Il turismo dell’orrore è sempre esistito laddove si sono consumate le peggiori tragedie a danno di giovani vittime. Casalecchio di Reno, Cogne, Erba e Parma, e prima ancora Vermicino. Anche in quei casi non sono mancati gli altarini con fiori, dediche e orsacchiotti bianchi e gite di gruppo o familiari in visita nei luoghi dell’orrore».

Quale “vuoto” di umanità, relazioni, cultura c’è alla base di questo fenomeno, secondo lei?

«Assodato che il voyeurismo noir non predilige latitudini, mi diventa più difficile dare una lettura antropologica del fenomeno. Forse tutto si spiega con il bisogno dell’essere umano di sentirsi partecipe del dolore altrui: più insopportabile è la perdita per gli altri, più ci interessa conoscerla da vicino, studiare i particolari, provare a rendere tangibile quella sensazione di sofferenza che si prova da semplice spettatore. O molto semplicemente per dire: “io sono stato lì”. In quest’ultimo caso giocano un ruolo fondamentale la televisione, le immagini, l’informazione in generale».

In uno dei suoi articoli, si legge che “tutti ci siamo fatti travolgere dall’eccitante ebbrezza del giallo di Avetrana dimenticando la piccola Sarah”. Qual è il modo migliore per ricordare Sarah, allora: costruire e intitolarle un canile come ha pensato il fratello Claudio, cercare verità e giustizia, fare un passo indietro dal punto di vista mediatico e giornalistico…

«Bella domanda che merita più risposte. Ribadisco: ci siamo fatti travolgere dall’eccitazione del giallo dimenticando la vittima. Noi operatori dell’informazione, forse per la prima volta nella storia dei grandi omicidi, abbiamo avuto a disposizione una grande quantità di materiale da raccontare. Dai primissimi giorni abbiamo avuto accesso alle cose più personali, intime di Sarah. Abbiamo potuto raccogliere i ricordi della madre, del padre, gli zii, le cugine, le amiche, i professori. Siamo stati abbondantemente serviti, al limite della liceità, da una mole di dati investigativi spesso imbarazzanti. La prima volta che sono andato a casa Scazzi ho trovato le porte incredibilmente aperte e un’insperata disponibilità della famiglia. Io con altri colleghi siamo entrati nella stanza di Sarah quando c’erano ancora i suoi odori, tutte le sue cose sparse sulla scrivania, persino i jeans che il 26 agosto aveva tolto per indossare il costume da bagno. Conservo ancora le foto e un breve filmato video con il cellulare di quei pantaloni-feticcio rivoltati e gettati disordinatamente e in fretta sul suo lettino. Noi giornalisti, prima ancora degli investigatori, abbiamo avuto tra le mani i diari di Sarah, i suoi quaderni di scuola, le lettere piegate nei libri. I dirigenti della sua scuola hanno permesso la pubblicazione dei suoi diari, delle schede di ammissione, hanno fatto fotografare le scritte che Sarah lasciava sui banchi e sui davanzali dell’aula. Abbiamo tutti coscientemente violato il suo mondo ma pur avendo la possibilità di raccontarlo abbiamo preferito parlare del giallo, del pericolo di facebook, delle insidie di internet, del traffico d’organi, dei sospetti sui familiari, delle cose peggiori della loro vita privata. Nessuno di noi si è preoccupato, se non in minima parte e solo dopo la scoperta della sua morte, del dramma di quella ragazzina vissuta da sola nell’indifferenza di tutti. Sarah, abbiamo scoperto dopo, era un piccolo fantasma passato inosservato persino agli abitanti di una comunità dove si conoscono tutti. Qualcuno dei nostri intervistati, allora, aveva inventato ricordi di lei pur di apparire o di rendersi utile. Tutti abbiamo trascurato il vero dramma di questa storia che è l’abbandono: la mamma di Sarah, Concetta, abbandonata dalla sua famiglia che l’aveva ceduta agli zii diventati secondi genitori, la stessa Sarah abbandonata dal padre che aveva deciso di vivere lontano da lei e abbandonata anche dalla madre divenuta schiava di un credo in Geova che segna l’isolamento suo e della sua bambina dal resto del mondo. Sarah non ha mai potuto festeggiare un compleanno, un capodanno, un Natale, una festa di cresima, un ferragosto, una notte di San Lorenzo. Per questo persino il carattere non dolce della cugina Sabrina diventava un piacere per la povera ragazzina che adorava vivere con la famiglia che l’ha uccisa.  L’idea del fratello Claudio di intitolare un canile a Sarah sarebbe stata buona se fosse stata gestita da altre persone».

In un suo articolo, lei ha insistito molto sulla figura di Ivano Russo. Di lui si racconta che, nonostante la confidenza con Sarah, il giorno della scomparsa della quindicenne, Ivano non la cercò mai al cellulare quando gli fu detto che Sarah era scomparsa. Qual è il suo parere su questo aspetto?

«Prima che lo zio di Sarah, Michele Misseri, confessasse il delitto, noi giornalisti e credo anche gli inquirenti, eravamo convinti che Ivano sapesse la verità. Credo anche che in quel periodo il suo mandato di cattura fosse già pronto. Per il resto credo che la sua posizione sia tuttora oggetto di forte interesse da parte della procura».

A proposito di Concetta, la mamma di Sarah, lei l’ha descritta come una “madre distratta, prigioniera della sua fede a Geova”. Io credo però che le espressioni del viso, la “poca loquacità” di un essere umano, il suo essere anche un po’ defilato e riservato, non siano condannabili. Forse la affettività e la anaffettività, non possono essere decodificate, non possono equivalere a un modo di comportarsi standardizzato, o assoluto. Credo che pensare in questo modo, cioè attribuire una natura distratta a una madre da una posizione esterna, per giunta attraverso la telecamera, sia il prodotto di una “sovrastruttura sociale” di cui noi stessi siamo vittime. Lei che ne pensa?

«Personalmente non ho mai condannato Concetta per l’assenza di lacrime. Anzi, come dicevo prima, dopo Sarah è lei la seconda vittima di questa triste storia: da un’infanzia fatta di abbandoni ha trovato un matrimonio sbagliato che l’ha lasciata sola con la figlia e ora con la figlia ha perso anche ogni seppure minimo legame che aveva con le sue sorelle e il fratello naturale che, di fatto, si sono tutti schierati con la famiglia Misseri. Dopo tutto questo, non le si può fare una colpa se non è capace di piangere. Io ho vissuto con lei tutti i momenti delle ricerche ed ero con lei la terribile notte in cui fu trovato il corpo della figlia gettato nel pozzo. E’ stata l’unica volta che ho visto le lacrime sul suo volto, erano lacrime senza pianto, senza singhiozzi, eppure l’immagine di lei che seguiva le notizie dei telegiornali della notte e quelle che le davamo noi era quella del dolore puro, indimenticabile».

In quale modo “La Voce di Manduria” ha trattato l’argomento del giallo di Avetrana e come hanno reagito i lettori de “La Voce di Manduria”, anche sul vostro sito?

«Il sito “La Voce di Manduria” ha trattato costantemente l’argomento con almeno due notizie al giorno. I lettori si sono comportati nella maniera scontata: inizialmente hanno gradito poi, dai commenti che lasciavano, hanno cominciato ad esprimere giudizi negativi dicendoci di chiudere il sipario. Nonostante tutto, ancora oggi, le notizie su Sarah sono le più lette con una preferenza costante di almeno tre volte in più rispetto alle altre».

Qual è dal punto di vista mediatico e giornalistico l’aspetto più squallido della vicenda, secondo lei? L’errore da non commettere mai più?

«L’aspetto più squallido è stato il mercato di immagini, di interviste e di documenti dell’inchiesta ad opera di personaggi tuttora, diciamo, “oscuri” e lo sfruttamento televisivo che si è fatto e si continua a fare: troppi esperti da talk show che si inventavano i fatti hanno fatto perdere credibilità alla notizia. A mio avviso sono questi gli errori da non commettere più insieme a quello di non violare l’intimità di una ragazza morta perché era sola.

* Nazareno Dinoi vive e lavora a Manduria. È direttore de “La Voce di Manduria”, giornalista del “Corriere del Mezzogiorno”, e autore del libro Dentro una vita (Reality Book 2010), il racconto dei 18 anni in regime di 41 bis del boss pugliese Vincenzo Stranieri».

Si avvicina la sentenza Misseri, si getta la solita polvere e Nazareno Dinoi tenta l'ultimo scoop e offre 500 euro a Michele Misseri per una lettera da pubblicare sul settimanale che pubblicò quella in cui Concetta scrisse: cara Sabrina ti voglio bene, scrive Massimo Prati sul suo blog “Volando Controvento”. Certi personaggi di Taranto sono sull'orlo del baratro e dopo aver volato per quattro anni non si accorgono di vivere in un momento di precario equilibrio. Ciò che non si capisce è se siano preda della follia - che andrebbe subito diagnosticata e curata - della malafede, della smania di protagonismo, della voglia di guadagno facile o della convinzione che non ci sarà mai chi smaschererà la loro ipocrisia. Il processo contro Sabrina Misseri e sua madre è alle battute finali e dopo l'arringa della difesa - che senza giri di parole ha attaccato i metodi usati dai procuratori per rivoltare nei mesi una frittata già pronta e chiedere un processo e più condanne basate su un sogno - nei palazzi tarantini serpeggia la paura di una sentenza assolutoria. Sentenza assolutoria che i giudici privi di pregiudizio troverebbero logica - data la completa mancanza di elementi probatori a colpevolezza. Sentenza che però in loco non è gradita, perché non sarebbe facile spiegare il motivo di una custodia cautelare così lunga. Ed ecco che per incanto, come si è fatto alla fine del processo di primo grado quando furono addirittura i giudici di corte a incentivare la voglia di colpevolezza, nella città dei due mari i personaggi oscuri si muovono e alzano polveri sottili. Non sono le polveri alzate dai giornalisti tarantini indagati perché sul libro paga dell'Ilva, quelli sono talmente tanti che nessuno sa quanti realmente siano, e pagati profumatamente per dire che tutto a Taranto è bello e pulito, che gli allarmismi ambientali sono fasulli. No, i giornalisti che alzano polvere sul caso Scazzi sono altri... anche se il seme e il sistema che hanno usato appare identico. Infatti, pur di continuare a condizionare le teste italiane e i giudici che fra pochi giorni dovranno sentenziare, pur di far condannare ancora una volta Sabrina Misseri, sua madre e gli imputati che a processo insistono a parlare di un sogno, ad alzare la polvere sono i personaggi che negli anni sui media si sono affermati grazie all'informazione nazionale che ne amplificava la voce. Ed ecco perché ancora oggi le polveri di Taranto si spargono come un virus nell'etere italiano. Alcuni di quei personaggi si mostrano al pubblico una tantum, come fece il Gip Rosati che rilasciò una lunga intervista al Tg1 delle 20.30 quando la Cassazione doveva decidere se mantenere il processo a Taranto o spostarlo a Potenza (e quell'intervista concordata all'ultimo momento e mandata in prima serata sulla tivù di stato fece capire che tipo di contatti mediatici-politico-giudiziari ci fossero sull'asse Taranto-Roma), mentre altri sono presenti sin dalla scomparsa di Sarah e hanno già raggiunto moltissimi cervelli convincendoli che da un lato sono tutti buoni e dall'altro tutti schifosi e cattivi. I buoni, naturalmente, sono i colpevolisti, quelli schierati contro Sabrina Misseri e sua madre. A partire dai famigliari di Sarah Scazzi per arrivare agli avvocati di parte civile passando dai procuratori che alla ragazzina vogliono rendere giustizia a modo loro. Ma non sono i soli ad essere pensati buoni e onesti. Attorno a questa brava gente girano anche strani opinionisti e giornalisti che grazie al caso Scazzi in questi ultimi anni hanno ricevuto promozioni e onorificenze fino ad arrivare al plus della loro carriera. Come non ricordare gli articoli di Mimmo Mazza, a Taranto si vocifera che si abbronzi la capa pelata dalle finestre della procura, il giornalista che per contratto non può criticare i procuratori e durante le indagini (indagini???) copiava e incollava quanto gli dicevano di copiare e incollare. Che anche dopo aver assistito alle udienze e ascoltato con le proprie orecchie i testimoni travisava intere testimonianze. Lui è uno dei miti che hanno fatto diventare tanti suoi lettori colpevolisti. Ma non c'è solo la "velina Mazza" (pare che "velina" sia il soprannome datogli negli ambienti tarantini) a imperversare... c’è un altro mito di cui parlare. Si può forse dimenticare il bravo Nazario Dinoi, che dirige La Voce di Manduria, scrive per il Corriere del Mezzogiorno e non disdegna di assemblare qualche libro? E' vero, non è un giornalista perfetto: basti pensare che andò in contrada Mosca con la videocamera per far conoscere i luoghi del crimine ai suoi lettori e filmò, soffermandosi anche a fondo su quanto si trovasse al suo interno, il fico sbagliato: quello attaccato alle mura cadenti non sapendo neppure che il giusto si trovava a 30 e passa metri di distanza (ora è stato potato e rimpicciolito). Pazienza, anche i migliori sbagliano e in fondo la sua onestà chi la può mettere in dubbio? Non era forse lui che in una intervista fattagli nel gennaio 2012 bacchettava i suoi colleghi e alla domanda: "Qual è dal punto di vista mediatico e giornalistico l’aspetto più squallido della vicenda, secondo lei?", rispondeva: "L’aspetto più squallido è stato il mercato di immagini, di interviste e di documenti dell’inchiesta ad opera di personaggi tuttora, diciamo, 'oscuri' e lo sfruttamento televisivo che si è fatto e si continua a fare"? Era lui che rispondeva in siffatta maniera, era il bravo Nazareno Dinoi che tutti amano e che dando quella risposta aveva completamente ragione. Infatti uno degli aspetti squallidi della vicenda Scazzi è stato il mercato di interviste e lo sfruttamento televisivo (mediatico) che personaggi oscuri han fatto per anni e continuano a fare. Mercato che, però e ahimè, da venerdì 10 luglio 2015 ha un personaggio "oscuro" in meno, dato che sappiamo essere il mitico Nazareno Dinoi uno degli oscuri personaggi da lui citati. E questa scoperta fa nascere spontanea la domanda: "Ma il Dinoi in questi anni ha scritto per informare i suoi lettori o per altri motivi? Quante bugie ci ha raccontato?". Non si possono fare altri pensieri dopo aver saputo che è andato lui stesso a cercare Michele Misseri, addirittura scendendo nella cava dietro casa (e ci sono persone che dall'alto hanno visto e sentito e anche chi ha parlato con l'uomo che lo attendeva in auto), per offrirgli 500 euro in cambio di una sua lettera a Concetta. Una lettera scritta in qualsiasi forma che dicesse qualsiasi cosa. Una lettera da non spedire ma da pubblicare su Di Più, lo stesso settimanale che la settimana scorsa ha pubblicato la lettera benevola - ma altamente colpevolista - della madre di Sarah. La lettera che iniziava con: cara Sabrina ti voglio bene. Embé, caro signor Dinoi, l'ha stupita il dignitoso rifiuto di Michele Misseri che da quando gli hanno bloccato il conto corrente per sopravvivere si arrangia con le unghie e coi denti? Di certo quei 500 euro gli avrebbero fatto molto comodo e lei lo sapeva. Eppure si è comportato come non è stato capace di comportarsi lei e i suoi trenta denari li ha rifiutati. A questo punto dovrebbe dirci se è stata Concetta Serrano a contattarla per pubblicare la lettera in cui, pur scrivendo cara Sabrina ti voglio bene, dava per scontata la colpevolezza della nipote o se, invece, è stato lei a chiederle di scriverla. In fondo è stata pubblicata solo una settimana fa e sotto c'era la sua firma (quindi la Cairo Editore l'ha ben pagata). Signor Dinoi, ha offerto soldi anche alla signora Concetta e lei li ha accettati? Sarebbe bello se qualche giornalista non coinvolto nei giochetti del potere telefonasse alla signora e glielo chiedesse. Sarebbe bello ascoltare la sua risposta (chissà che non sia io a porle la domanda e a registrare la risposta). Perché, sa signor Dinoi, a noi che da troppo tempo non ci fidiamo né di lei né dei giornalisti come lei né della famiglia di Sarah né di nessun altro che si comporti in maniera simile alla vostra, ancora non vanno giù tante cose. Noi rispettiamo Sarah più di qualsiasi altro, più di chi commercia e guadagna usando il suo nome e la sua morte, e oltre a chiedere per lei una vera giustizia vorremmo capire chi l'ha usata da morta per scopi economici. Tanto per iniziare si potrebbe parlare del canile promesso da Claudio Scazzi e mai realizzato. Sin dall'inizio eravamo perplessi e non capivamo per quale motivo, se Sarah non voleva vedere cani in gabbia, si fosse deciso di costruire un canile. Lei signor Dinoi, che vive a un passo da Avetrana e ha stazionato per mesi in casa Scazzi, questa domanda se l'è posta e l'ha posta ai diretti interessati? Vabbé, tanto poco conta ormai quella domanda, visto che il canile è svanito nel nulla assieme al sito internet servito a raccogliere fondi. Di questi ultimi lei sa qualcosa signor Dinoi? Se sì, perché non ne scrive? A noi han detto che i denari raccolti e incassati grazie anche al libro e al calendario (sui 90.000 euro) non sono più nel conto corrente gestito da Concetta Serrano... a noi han detto anche dove sono finiti. Possibile che lei, invece, nulla sappia? Lei che quell'associazione l'ha pubblicizzata tramite il Corriere del Mezzogiorno e La Voce di Manduria, inserendo anche la piantina del progetto e le specifiche sui luoghi in cui si sarebbe realizzata? In pratica ha incentivato i suoi lettori a versare oboli sul numero di conto corrente che ha pure inserito sotto l'articolo che ha scritto. Lettori pentitisi della loro offerta mesi dopo. Come dimostra il commento di una sua lettrice su La Voce di Manduria, commento che lei ha ripreso in un articolo in cui giustificava le istituzioni locali, invece di usarlo per criticare chi si stava comportandosi in maniera ignobile. Poi, della stranezza di quell'associazione ha scritto solo la Gazzetta del Mezzogiorno (non Mimmo Mazza però) nell'agosto del 2012. Alla fine è calato l'oblio e nessun giornalista tarantino si è azzardato a tornare sull'argomento, neppure quando il sito è scomparso da internet. E come i giornalisti nessun procuratore tarantino si è mai chiesto né che fine abbiano fatto i denari raccolti da un'associazione senza scopo di lucro (grazie al calendario, al libro e alle donazioni) né quali conti correnti avetranesi e manduriani si siano gonfiati grazie alla morte di Sarah. A noi, dopo avervi assicurato che il conto corrente della famiglia Misseri non si è gonfiato dopo la morte della piccola, nessun giornalista ha mai pagato una intervista ai Misseri, piacerebbe sapere, dato che poco ci vuole a vedere chi siano i nuovi ricchi della zona, come siano arrivati i tanti denari che alcuni hanno accumulato. Ce lo chiediamo anche se in fondo, ragionando senza emotività, è facile capire il motivo di quegli introiti che non vengono da giochi di prestigio personali ma di certo hanno tratto linfa dai giochi di prestigio messi in pratica da altri. Il primo gioco di prestigio messo in atto a Taranto era chiaro e pochissimo ci voleva ai giornalisti veri per capirlo e farlo capire ai propri lettori. La procura sin da settembre aveva una propria tesi (tesi che contemplava la colpevolezza di Ivano e Sabrina ed era conosciuta da tutti i giornalisti), che non abbandonò neppure dopo la confessione del contadino. La difesa di Michele Misseri fu invitata al gioco dal procuratore che usò il suo cellulare per chiamare l'avvocato amico (mentre avrebbe dovuto lasciare il compito al centralone della procura che avrebbe scelto un avvocato a caso). E fu così che invece di far tacere il proprio assistito, quando a fatica lo stesso capiva le domande e cosa stesse dicendo (basta guardare il video dell'interrogatorio del 15 ottobre per rendersene conto), il legale scelto dal procuratore lo incentivò affinché dicesse la verità voluta dall'accusa. Forti di questo gioco di prestigio che stava riuscendo, nei primi mesi i giornalisti tarantini, coadiuvati da quelli delle tivù nazionali, invece di farsi domande (ad esempio su come si potessero ottenere tante versioni da Michele Misseri) divulgarono sui media la verità della procura e le innumerevoli interviste della madre di Sarah (che l'anno successivo le diede in esclusiva a una sola giornalista... a pagamento?), convincendo per primi gli avetranesi della bontà della tesi accusatoria. Non per niente ci fu chi girava con Sarah e sua cugina e nonostante questo quando testimoniò disse che seppe dalla televisione della gelosia di Sabrina. Con il lavoro di gruppo, con le accuse mosse dalla procura che mese per mese venivano divulgate dai giornalisti quale verità acclarata, si resero certamente più malleabili le menti di quei testimoni che non avevano portato nulla di valido a ridosso della scomparsa di Sarah. Gli stessi testimoni che a cadenza mensile vennero chiamati e ascoltati in caserma e in procura e che a poco a poco, seguendo la rotta colpevolista indicata dai procuratori e reclamizzata dai media, divennero colpevolisti, cambiarono le precedenti versioni e finirono per diventare i perni dell'accusa. Possibile che le persone intelligenti non abbiano capito questo elementare trucco che nonostante sia vecchio si continua a usare in tante città e procure? Sorprendere con numeri di prestigio degni del miglior circo - non della giustizia - per influenzare la mente della pubblica opinione e dei giudici popolari. Questo è il motto che andava di moda qualche anno fa e che ancora si usa. Un motto che continua a spopolare in luoghi dove più che la bravura giudiziaria di procuratori e giudici che contribuiscono alle indagini, agli interrogatori e alle sentenze, abbiamo assistito a magie, a fuochi d'artificio e a giochi di prestigio capaci di far presa anche sulla Casta e mantenere in carcere per quasi cinque anni due persone che di pericoloso non han nulla e per la legge sono innocenti fino a sentenza definitiva. E, come ho già scritto, se nel processo di primo grado furono addirittura i giudici Trunfio (ex collega dei pubblici ministeri che chiedevano le condanne) e Misserini a far capire ai popolari quale fosse la direzione da prendere per giungere all'ergastolo, oggi abbiamo altri della stessa risma che, pur essendo una parte attiva del processo, premono sulla pubblica opinione grazie a giornalisti e settimanali che non hanno né vergogna né coscienza. Parlo del procuratore generale Ciro Saltalamacchia che dopo le arringhe della difesa ha rilasciato un'intervista in cui ha cercato di abbindolare la pubblica opinione senza avere nulla da portare a conferma della sua tesi... cosa che un magistrato serio lascia nell'aula del processo senza sbandierarla ai quattro venti. C'è da chiedersi perché il giornalista lo abbia fatto parlare del caso Scazzi senza cogliere l'occasione per chiedergli il motivo per cui suo figlio è diventato socio de la "Magna Grecia Società sportiva dilettantistica a responsabilità limitata" e di un signore indagato a Potenza. Dovete sapere che la società di cui sopra, aperta il 2 marzo 2015 solo per partecipare al bando di assegnazione di un famoso centro sportivo tarantino chiuso bruscamente l'anno passato e in odor di mafia, è amministrata da un tale (da far girare in manette visto che ha già patteggiato una condanna per aver usato le mani in maniera impropria) che mesi fa picchiò il figlio del procuratore aggiunto Pietro Argentino. Avete letto bene, a prenderle purtroppo fu proprio il figlio del magistrato che ha indagato, interrogato per mesi, cambiato varie versioni e chiesto l'ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Proprio chi ora vuole portare a processo altre dodici persone per falsa testimonianza. Proprio lui che un giudice di Potenza vorrebbe a sua volta portare a processo per falsa testimonianza, assieme ad altri magistrati e uomini di spicco delle forze dell'ordine tarantine (21 in totale), tanto da aver spedito gli atti alla procura di Taranto (di Taranto?) perché i procuratori valutino la sua posizione. Naturalmente il nuovo gioco di prestigio prevede che nessun giornalista scriva mai di simili fatti. A Taranto è vietato farsi domande su società sportive a responsabilità limitata (non SRL tradizionali che non potrebbero accedere a fondi speciali) che i figli dei procuratori aprono per poter entrare nei marchingegni segreti dei Comuni magari solo per ricevere sovvenzioni a fondo perduto dallo stato. Nessun giornalista capisce il valore della parola vergogna mentre finge di non conoscere i collegamenti che si incrociano in maniera inquietante nella sua città e nessun procuratore indaga sulla scomparsa dei fondi di un'associazione non a scopo di lucro e su quanto l'informazione manipola e acquista. Ilaria Cavo per qualche stupida foto è diventata parte in causa nel processo d'appello contro Misseri e altri. I giornalisti pugliesi invece sono tutti liberi di andare ad acquistare interviste da vendere ai settimanali per rimpinguare il loro conto corrente. Possibile che sia tutto regolare? Possibile non capire che per ogni intervista che un giornalista acquista c'è una persona che l'intervista la vende? Chi è la persona più intervistata di Avetrana? La povera Sarah è morta e sin dal 2010 c'è chi fa soldi facili grazie alla sua morte. C'è chi sfruttando il suo nome alza polvere per nascondere il nulla probatorio all'opinione pubblica. C'è chi, pur di creare nuovi adepti colpevolisti, usa il suo nome per sporcare di ipocrisia il foglio di giornale su cui scrive e gli schermi delle televisioni da cui parla. C'è chi ha deciso che la sua ultima ricostruzione accusatoria, ideata a otto mesi dall'arresto del suo colpevole preferito e molto diversa dalle prime che il Gip aveva in ogni caso avallato come buone per mandare e mantenere in carcere Sabrina Misseri, è perfetta anche senza prova alcuna. C'è chi in nome di Sarah e del popolo italiano chiede la condanna di una ragazza incensurata che per la ragazzina era una sorella maggiore. Siamo alle battute finali di un processo che non si doveva neppure celebrare in primo grado e sarebbe il caso di iniziare a cambiare, di lasciare in pace Sarah lavorando con più morale e meno smania di guadagno. Sarebbe il caso di non inserire il popolo nella formula di condanna e sentenziare a titolo personale scrivendo su un file del tribunale tutti i nomi degli italiani che la condanna la vogliono. Così che un domani, in presenza di uno sbaglio giudiziario rilevante, non sia tutto il popolo a pagare i risarcimenti milionari ma solo quella parte inserita nel file. Naturalmente dopo aver pagato i rimborsi gli stessi potrebbero rivalersi sui magistrati, sugli opinionisti televisivi (qualsiasi professione dichiarino) e su quei giornalisti privi di scrupoli che li hanno convinti della colpevolezza pubblicizzando giochi di prestigio buoni a stuzzicare l'emotività, pagando interviste di comodo e sostenendo iniziative rivelatesi buffonate...

Esempi di pessimo giornalismo. Immagini sconsigliate a un pubblico intelligente, scrive Alessia Glaviano su “L’Inkiesta”. Mi chiedo come possa il Corriere della Sera online pubblicare un articolo come quello di tale Nazareno Dinoi dal titolo delirante "Il corpo di Sarah estratto dal pozzo. In 71 scatti la sequenza dell'orrore". E' il classico caso da citare nelle scuole di giornalismo come trappole in cui non cadere. Titoloni urlati approfittando delle tragedie altrui per attirare i lettori e sotto il vestito niente. A corredo dell'articolo una squallida fotogallery che ovviamente non è composta dai 71 scatti della sequenza dell'orrore perchè quelli li vedranno in aula (E MENO MALE a meno che il signor Dinoi non voglia propinarceli anche sul Corriere) ma da foto in bianco e nero del pozzo da cui è stata estratto il corpo di Sarah Scazzi. La prima slide tuona addirittura "ATTENZIONE IMMAGINI PARTICOLARMENTE CRUDE E SCONSIGLIATE AD UN PUBBLICO SENSIBILE", le slides a seguire sono tutte immagini del buco per terra, misurazioni ecc, non c'è nessuna foto che possa urtare la sensibilità di alcuno ma l'intelligenza si. Premesso che io la cronaca nera la eliminerei tout court perchè non ne vedo proprio l'utilità se non quella di appagare un lato oscuro e morboso degli esseri umani, turisti nelle disgrazie altrui, quando invece ci sarebbero tanti altri argomenti interessanti da approfondire, ma capisco che se fatta professionalmente e con rispetto possa essere un termometro della società (o almeno di alcune sue parti). Aggiungo che in questo mirabile articolo di questo credo giornalista non capisco quale sia il diritto - dovere di cronaca. La notizia è che durante il processo saranno proiettate le immagini del ritrovamento del cadavere, quindi il titolo è falso e fuorviante, così come la photogallery. Vi sono poi ammiccamenti nel testo da fare venire i brividi : "Non mancherà l’occasione (l’implacabile esigenza della giustizia lo imporrà), di vedere la sequenza fotografica di quella terribile notte tra il 6 e il 7 ottobre del 2010" e ancora: "Sarà un film composto da settantuno scatti, non sarà facile guardare." e poi: "Da questo punto in poi le immagini sono inguardabili perché l’antro allargato dalla pala d’acciaio mostra qualcosa che galleggia che è ricoperto di terra. Sarà quella la parte peggiore per chi vorrà resistere. " Questo è un articolo del Corriere del Mezzogiorno ripreso dal Corriere della Sera, il mio consiglio per le prossime photogallery del genere è come prima slide di mettere la seguente scritta: ATTENZIONE IMMAGINI SCONSIGLIATE A UN PUBBLICO INTELLIGENTE.

Atto Camera. Interrogazione a risposta orale 3-00826 presentata da ELISABETTA ZAMPARUTTI lunedì 4 gennaio 2010, seduta n.262.

ZAMPARUTTI, BELTRANDI, BERNARDINI, FARINA COSCIONI, MECACCI e MAURIZIO TURCO. - Al Ministro della giustizia. - Per sapere - premesso che:  l'ex boss della Sacra Corona Unita Vincenzo Stranieri, oggi 49enne, aveva 24 anni quando fu arrestato nel 1984 e, da allora, non è più uscito dal carcere dove sta espiando - secondo il provvedimento di cumulo pene emesso l'11 aprile del 2007 dalla procura generale della Repubblica di Taranto - la pena complessiva di anni 29, mesi 4 e giorni 3 di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, sequestro di persona a scopo di estorsione, estorsione ed altro (non sta scontando ergastoli, quindi, né ha condanne per omicidio);

già affiliato alla camorra di Raffaele Cutolo e passato alla Sacra Corona Unita di Pino Rogoli quando era già in carcere, Stranieri ha ancora un sospeso con la giustizia che riguarda il processo nato dall'inchiesta cosiddetta «Corvo» dove è imputato a piede libero per un contrabbando di tabacchi lavorati esteri (niente a che fare con l'associazione mafiosa), contrabbando al quale secondo l'accusa avrebbe partecipato da dentro il carcere ristretto in regime di 41-bis;

Vincenzo Stranieri, attualmente detenuto nel supercarcere di L'Aquila, è sottoposto ai regime di cui all'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario ininterrottamente da 17 anni, cioè dal momento della sua istituzione avvenuta nell'agosto del 1992;

il 3 dicembre 2009, con decreto del Ministro della giustizia, a Stranieri è stata notificata l'ennesima proroga del regime di carcere duro, motivata con una formula che negli anni si è ripetuta sempre la stessa: «non risulta sia venuta meno la sua capacità di mantenere contatti con esponenti tuttora liberi dell'organizzazione criminale di appartenenza»;

oltre alle note informative e alle segnalazioni degli organi investigativi e giudiziari che di decreto in decreto si ripetono nell'ultimo provvedimento applicativo del 41-bis compare una «novità» segnalata dalla direzione distrettuale antimafia (DDA) di Lecce che secondo il Ministro Guardasigilli sarebbe indicativa tra le altre della capacità di Vincenzo Stranieri di mantenere i rapporti con la criminalità organizzata;

nella suddetta nota, la DDA di Lecce si esprime testualmente come segue: «Da segnalare infine il tentativo di intervista a Stranieri da parte di un giornalista di quotidiano a tiratura nazionale che potrebbe veicolare notizie, informazioni e messaggi che il detenuto ben potrebbe articolare proprio in risposta allo schema di domande predisposto dal giornalista ed inviatogli per lettera, non consegnatagli a seguito di provvedimento di non inoltro da parte del Magistrato di sorveglianza di Milano in data 13 ottobre 2008 (nonostante l'interessamento di "persone sempre più influenti" che il giornalista avrebbe interessato per incontrare Stranieri, evidentemente con scarso successo!). Secondo tale schema, Stranieri avrebbe dovuto, tra l'altro, indicare "con quale degli imputati dei primi processi a Lecce e Brindisi mantenesse rapporti epistolari", se "avesse letto il libro di Antonio Perrone" (esponente fin dal primo momento della S.C.U. della zona a Nord di Lecce, avente influenza nella città di Trepuzzi, condannato all'ergastolo per omicidio, oltre che per il delitto di cui all'articolo 416-bis c.p., e autore di un libro sulla vita della S.C.U. e sulle modalità della sua partecipazione ad essa), se abbia letto "quello di Salvatore Mantovano" ed il giornalista aggiunge se abbia saputo che l'autore è stato ucciso (ma sbaglia il cognome perché la persona in questione si chiama Padovano, detto Nino Bomba, esponente "storico" e di primo piano della criminalità mafiosa salentina, affiliato alla Sacra Corona Unita e "responsabile" del territorio di Gallipoli, autore di un libro sulla condizione carceraria, ucciso il 6 settembre 2008 su mandato del fratello Rosario per conflitti all'interno della famiglia "naturale" e di quella "mafiosa" di appartenenza di entrambi). E infine il giornalista chiede a Stranieri "quali personaggi pubblici o politici o cosiddetti vip (ammesso che Manduria ne abbia mai avuti) ricordi dopo tanti anni di assenza da Manduria". Si ritiene, pertanto, che nei confronti Stranieri Vincenzo debba essere mantenuto il regime di sospensione delle regole del trattamento penitenziario di cui all'articolo 41-bis...»;

un giornalista in questa vicenda esiste effettivamente e agli interroganti risulta essere Nazareno Dinoi, corrispondente da Lecce e Taranto del Corriere del Mezzogiorno (inserto pugliese del Corriere della Sera) e coautore con Vincenzo Stranieri del libro di prossima pubblicazione «Dentro una vita», con prefazione del segretario di Nessuno tocchi Caino Sergio D'Elia, nel quale l'ex boss di Manduria racconta la sua storia da delinquente e, poi, di detenuto da 17 anni al carcere duro;

agli interroganti risulta altresì che Nazareno Dinoi, nella primavera del 2008, in previsione della scrittura del libro, avrebbe avanzato al Ministero della giustizia formale richiesta di incontrare in carcere Vincenzo Stranieri e, ricevutane risposta negativa, avrebbe deciso di procedere per via epistolare, sempre qualificandosi ed esplicitando le finalità del carteggio -:

se il giornalista di cui si riferisce nella nota della DDA di Lecce corrisponda al nome di Nazareno Dinoi e se corrisponda al vero che il giornalista abbia avanzato al Ministero della giustizia richiesta di incontrare in carcere Vincenzo Stranieri e, in seguito, deciso di intrattenere con lui un rapporto epistolare finalizzato alla scrittura di un libro sulla storia dell'ex boss di Manduria;

in tal caso, se non intenda accuratamente verificare che i «dati» e i «fatti» indicativi dell'attualità dei collegamenti di Stranieri con la criminalità organizzata segnalati dalla DDA di Lecce siano tali da giustificare la permanenza ancora, dopo 17 anni, del detenuto in regime di carcere duro. (3-00826).

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Popolo di Avetrana, se avete un po’ di dignità ed orgoglio, indignatevi e condividete questo post su quanto ha scritto contro gli avetranesi Nazareno Dinoi, amico dei magistrati di Taranto (ma non dei magistrati di Bari, per cui è stato processato a Lecce per aver diffamato il Procuratore Laudati) e direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi, e non me ne spiego l'astio, e gli amministratori locali e la loro opposizione non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.

“La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più. Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.”

Il giornalista, come lui si definisce, dovrebbe sapere che i conti si fanno alla fine. Per ora omette di contare i due imputati assolti dall'accusa di favoreggiamento...o questo per omertà o censura non si può dire?

Quarto Grado. Nuzzi, Longo ed Abbate, Avetrana vi dice: vergogna!

Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».

Vada per i condannati; vada per gli imputati, ma tutto il paese cosa c’entra?
Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»

Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?

Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenerlo egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «..però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»

Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo!

Al Presidente del Consiglio Comunale di Avetrana

Per il sindaco di Avetrana e la Giunta Comunale

Per i consiglieri comunali

Avetrana lì 3 giugno 2015

Oggetto: Art. 47/49 Statuto di Avetrana. Richiesta di convocazione di un Consiglio Comunale monotematico attinente il Caso Sarah Scazzi per la ricerca di strumenti di tutela dell’immagine e della reputazione del paese e dei suoi cittadini di fronte alla gogna mediatica a cui è perennemente sottoposto.

Il sottoscritto Dr Antonio Giangrande, scrittore, nato ad Avetrana il 02/06/1963 ed ivi residente alla via Manzoni, 51, presidente nazionale della Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, direttore di Tele Web Italia e vice presidente della Associazione Pro Specchiarica, sodalizio di promozione del territorio, con sede legale in via Piave 127 ad Avetrana, tel 0999708396 cell. 3289163996,

premesso che sin dal 26 agosto 2010, dal momento della scomparsa di Sarah Scazzi in Avetrana, i cittadini del paese sono oggetto di una gogna mediatica senza soluzione di continuità che non trova pari in nessun altro caso di cronaca nazionale ed internazionale. Da allora ho scritto 3 libri sul delitto, rendicontando giorno per giorno eventi avvenuti e commenti elargiti in tutta Italia. Per gli effetti ho verificato che di Avetrana si è fatta carne da macello. Se da una parte, per quanto riguarda i protagonisti della vicenda, il diritto di cronaca è tutelato dalla Costituzione italiana, quantunque per esso non vi è giustificazione quando per loro questo si travalica. E’ criminale, però, quando si coinvolgono in questa matassa tutti gli altri cittadini di Avetrana che nulla centrano con la vicenda. Eppure dal 26 agosto 2010 tutti gli avetranesi sono stati dipinti come retrogradi, omertosi e mafiosi. Chi riesce ad andare oltre i confini della “Cinfarosa” si accorge che Avetrana è conosciuta in tutto il mondo e certo non in toni lusinghieri. Tanto da far mortificare i suoi cittadini e far pagare loro fio per colpe non commesse. Non basta il mio prodigarmi a favore di Avetrana attraverso la pubblicazione dei miei libri o di video o di note stampa sui miei o altrui blog per ristabilire la verità. Io sono sempre un semplice cittadino che non fa testo e questo è un limite, oltretutto, chi mi segue, per come mi conosce, non pensa che io sia di Avetrana e ciò rende meno efficace la posizione da me assunta. D’altra parte, però, a difesa dei diritti di Avetrana si è notato una certa mancanza di iniziativa adeguata da parte dell’Amministrazione Comunale, tanto meno la minoranza ha adottato misure opportune di pungolo o di critica. Il tutto per mancanza di coraggio o di impreparazione comunicazionale. E per questo nei libri non ho mancato di rilevare l’ignavia atavica degli amministratori. Poco si è fatto e quel poco è risultato al di più dannoso. Se da una parte può essere considerato opportuno, con oneri per la comunità, costituirsi parte civile nei confronti di chi si addita prematuramente come responsabile e comunque non ha nulla da risarcire, intollerabile è che Pasquale Corleto, avvocato per il Comune di Avetrana, che dovrebbe tutelare l’immagine degli avetranesi, dica in pubblica udienza inopinatamente: «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». Io non sono come Michele Misseri. Io non mi accuso di essere un assassino!

Comunque, l’inadeguato contrasto da parte del Comune di Avetrana ha portato all’apice dell’ignominia.

In occasione della notifica dei 12 gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari fatti notificare a quanti, secondo l’accusa, erano a conoscenza di fatti e particolari riguardanti l’omicidio e hanno taciuto, o peggio detto il falso, dinanzi ai pubblici ministeri o alla corte d’assise, i media si sono sbragati.

Nel caso dell'omicidio di Sarah Scazzi, trattato molto spesso da “Quarto Grado” su “Rete 4” di Mediaset la redazione (guidata da Siria Magri) si è attestata su una linea prevalentemente conforme agli indirizzi investigativi della pubblica accusa, cioè della Procura della Repubblica di Taranto. Tanto che i suoi ospiti, quando sono lì a titolo di esperti (pseudo esperti di cosa?) o, addirittura, a rappresentare le parti civili, pare abbiano un feeling esclusivo con chi accusa, senza soluzione di continuità e senza paura di smentita. A confermare questo assioma è la puntata del 15 maggio 2015 di “Quarto Grado”, condotto da Gianluigi Nuzzi ed Alessandra Viero e curato da Siria Magri.

A riprova della linea giustizialista del programma, lo stesso conduttore è impegnato a far passare Ivano come bugiardo, mentre il parterre è stato composto da:

Alessandro Meluzzi, notoriamente critico nei confronti dei magistrati che si sono occupati del processo, ma che sul caso trattato è stato stranamente silente o volutamente non interpellato;

Claudio Scazzi, fratello di Sarah;

Nicodemo Gentile, legale di parte civile della Mamma Concetta Serrano Spagnolo Scazzi.

Solita tiritera dalle parti private nel loro interesse e cautela di Claudio nel parlare di omertà in presenza di cose che effettivamente non si sanno.

Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».

Vada per i condannati; vada per gli imputati; vada per gli indagati; ma tutto il paese cosa c’entra?

Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «Io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»

Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?

Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenere egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «..però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»

Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo! Tutto ciò detto di fronte a milioni di spettatori creduloni.

Si noti bene: nessun ospite è stato invitato per rappresentare le esigenze della difesa delle persone accusate o condannate o addirittura estranee ai fatti contestati.

Per questi motivi

SI CHIEDE ALLA SV VOSTRA

Non essendoci fin qui, colpevolmente, nessun provvedimento adottato per motu proprio, ossia d’ufficio, nonostante le segnalazioni verbali al presente ufficio di presidenza, al sindaco, al vice sindaco ed ad esponenti della minoranza, di convocare ai sensi dello Statuto del Comune di Avetrana, come previsto dagli artt. 24 comma 3, 29, 37, attraverso la presente richiesta di pubblico interesse inoltrata in virtù del dettato dello Statuto del Comune di Avetrana, ex art. 47, in qualità di presidente di una associazione ed ex art. 49 da semplice cittadino, un consiglio comunale monotematico per le motivazioni in oggetto, opportunamente pubblicizzato e partecipato. In tale sede si ricerchino e si adottino, finalmente all’unanimità ed in unione, adeguati e netti strumenti di tutela dell’onorabilità di Avetrana e dei suoi cittadini, come per esempio una denuncia per diffamazione a mezzo stampa e relativa azione civile contro i giornalisti ed al direttore del programma televisivo citati. Altresì aggiungersi una campagna stampa istituzionale, affinchè, a tale delibera adottata, sia data ampia rilevanza nazionale in modo tale che la querela non sia fine a se stessa ma attivi un clamore mediatico. In questo modo, dal dì di approvazione in poi, sia di monito a tutti e, finalmente, tutti si possano lavare la bocca prima di pronunciare qualsivoglia considerazione malevola sul nostro paese.

Comunque qualcosa va fatto, in quanto la misura è abbondantemente colma e con vostra responsabilità.

Mi è stato consigliato di soprassedere alla mia proposta, ovvia e normale in altri luoghi, ma forse considerata estemporanea ad Avetrana. Io non dispero, considerando, nonostante tutto, Avetrana un paese normale.

Con ossequi. Dr Antonio Giangrande

“La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più. Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.” Così scriveva il 29 luglio 2015 Nazareno Dinoi sul Corriere del Mezzogiorno – Corriere della Sera e su “La Voce di Manduria”. Un giornalista che sicuramente i conti li deve fare con la sua coscienza e la sua professionalità, in quanto ha qualche problema nello scrivere con libertà e verità stante la sua propensione a favore della posizione dei magistrati, di cui è ampio megafono, e dedito alla menzogna, se parla di Avetrana come paese omertoso sol perché i suoi amici magistrati lo hanno fatto passare come tale, anche se in questo è in buona moltitudine compagnia con i suoi colleghi pseudo giornalisti. Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il 7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»

Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?

«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità», rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia.  «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente: «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no? Cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole…..»

Giustizia, d’ora in avanti i processi facciamoli solo in tv, commenta Antonello Caporale su “Il Fatto Quotidiano”. Quanto costa un processo? Ma soprattutto quanto vale un omicidio? Uno a caso. Per Yara Gambirasio la Procura di Bergamo quanti soldi ha speso per raggiungere la sua verità? Mille, diecimila, centomila, un milione di euro? Di più? E cosi fa sempre? Si impegna fino allo spasimo per giungere a una giusta condanna, foss’anche l’ultimo derelitto a chiedere giustizia? E sempre a proposito di soldi: la famiglia accusata dell’efferato omicidio di Avetrana, per non parlare delle altre, a quali fondi occulti attinge per avvalersi di quella tribù di avvocati, criminologi, psichiatri, analisti tutti di eccellente e prezioso curriculum? Ma soprattutto: la severità dell’indagine, lo scrupolo col quale accusa e difesa avanzano indizi o li neutralizzano è amore per la verità o (anche) frutto dell’aspettativa del tempo di esposizione in televisione e dunque del fatturato che ne deriverà dalla notorietà acquisita? Voglio spiegarmi meglio: tutti questi bei processoni che producono faldoni zeppi di documenti e di consulenze, tonnellate di prove e controprove, sono il risultato di una sincera sete di giustizia o solo, e purtroppo, il magico saldo del bisogno ossessivo di tv? Perché, nel caso fosse vera la seconda ipotesi, varrebbe la pena saltare il tribunale e infilare l’imputato, i suoi accusatori e i suoi difensori, dopo averli fatti passare in sala trucco, direttamente in uno studio televisivo.

E' iniziato il 3 luglio 2015 il processo per l'omicidio di Yara Gambirasio. E subito si è attivato il circo mediatico, con dispiegamento di telecamere ed analisi chiamati a interpretare la psico-somatica dell'imputato. Sarebbe invece il caso di spegnere le luci dei riflettori: per una difesa garantista di chi è accusato e per il rispetto della povera vittima, scrive Gianluca Veneziani su “L’Intraprendente”. Eccolo là, l’imputato, arrivare abbronzatissimo, in jeans, maglietta e scarpe da ginnastica, nel tribunale di Bergamo per l’inizio del processo a suo carico. Ed eccolo là, il circo mediatico che si riattizza, pronto a scrutare ogni minimo gesto dell’uomo accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio, a cogliere ogni suo segno di cedimento, a interpretare il “suo muovere continuamente i piedi” – scrivono le agenzie – “come un sintomo di nervosismo”. Ed eccole lì, le troupe televisive, munite di arnesi in grado di riprendere senza comprendere, e i curiosi assembrarsi davanti all’ingresso del Palazzo di giustizia e addirittura accamparsi dal giorno prima pur di assistere all’Evento, immortalare l’Evento, essere spettatori e al contempo protagonisti di quell’Evento. A prescindere da quale sarà l’esito della vicenda giudiziaria, l’esordio non è stato affatto buono, perché ha dato il segnale che il processo a Massimo Bossetti possa trasformarsi nella versione aggiornata, 2.0, del caso Avetrana. Con una spettacolarizzazione mediatica fuori luogo (magari con qualche tablet e smartphone in più rispetto ad alcuni anni fa), con la stessa attenzione morbosa, quasi voyeuristica, su dettagli insignificanti, con l’elevazione preventiva dei protagonisti del fattaccio di cronaca a icone del Male o viceversa del Bene (spietati carnefici o, al contrario, vittime della giustizia, perché così vuole la semplificazione giornalistica), e quindi con la riduzione di quello che è stato un dramma familiare abnorme (la morte di una ragazza di tredici anni) a pretesto di un ennesimo fenomeno di costume e malcostume italico. Sarebbe bene piuttosto che il processo rientrasse nei ranghi e nei canoni che più gli sono propri, cioè quelli giudiziari. E sarebbe opportuno in primo luogo per Bossetti, la cui immagine rischia di essere cannibalizzata da tv e giornali e associata, in modo indelebile, a quella del “mostro”. In un sistema garantista la difesa dell’imputato e la sua reputazione come innocente fino a sentenza definitiva dovrebbero passare anche dalla tutela della sua privacy e dalla sua non eccessiva esposizione mediatica. Ci vorrebbe pudore anche nel (non) mostrare il volto del (presunto) colpevole, una sobrietà nel non utilizzare il suo corpo come cavia sulla quale psicologi d’accatto possano esercitare le loro fasulle velleità ermeneutiche (vedi il tic della gamba). Ma il ridimensionamento del processo a un ambito meno prossimo all’avanspettacolo sarebbe soprattutto una forma di rispetto nei confronti della piccola vittima e della sua memoria. Sarebbe doloroso vedere Yara costretta alla sorte mediatica di Sarah Scazzi, ridotta a oggetto di assurdi sondaggi e ricostruzioni post-mortem (“Ma a chi stava più antipatica, secondo voi, a zio Michè o alla cugina Sabrina? Votate!”), a pedina di un gioco macabro funzionale allo share nonché a destinataria simbolica di indecenti pellegrinaggi dell’orrore. Ricordare così il nome di una persona significa offenderne la memoria, visitare così la sua tomba significa profanare il luogo in cui riposa. Lasciamo dunque che la giustizia faccia il suo corso, senza processi preventivi e complementari fuori dall’aula e nei salotti tv, e lasciamo che i morti seppelliscano i morti, custodendo le spoglie della piccola Yara, affinché il suo nome non venga ulteriormente violato dal chiacchiericcio e dai “si dice”. Prendiamo esempio dai genitori della ragazzina di Brembate di Sopra, che hanno deciso di non figurare in aula, di non farsi attirare dalle luci dei riflettori, imprigionati nel ruolo di “vittime da compiangere” che impone loro il copione, ma hanno preferito stare in disparte, preservare in silenzio il loro dolore, senza renderlo osceno, volgare, inautentico, magari con un pianto studiato durante un talk show. E prendiamo le distanze dalle parole dello stesso Bossetti, che ha chiesto a gran voce che le telecamere fossero presenti in aula, affinché «tutti possano vedere, in quanto non ho niente da temere o da nascondere», volendo diventare forse il protagonista dell’ennesima saga mediatico-giudiziaria all’italiana, in onda sui migliori schermi. Il Male si compie al buio, in una periferia abbandonata, lontani da occhi indiscreti. Ma poi la celebrazione del rito che dovrebbe giudicarlo e, in caso, punirlo, la si vuole necessariamente a porte aperte, a favore di telecamera, alla presenza del pubblico in aula e degli spettatori a casa. C’è una contraddizione palese: il marcio si occulta ma il suo lavacro (che può essere gogna o catarsi, comunque espiazione) deve essere guardato da tutti, senza vergogna. Quasi che la visibilità del giudizio e della pena possa ridurre la potenza del Male, alleviare i nostri animi e assolverci per non essere stati presenti e non aver voluto vedere, quando c’era da assistere e da non voltare lo sguardo altrove.

Intanto Avetrana non è più scenario di un efferato delitto, ma set del film “Belli di papà”, scrive “Manduria Oggi”. La comunità avetranese ha “adottato” la troupe, composta da circa 70 unità fra attori ed equipe tecnica, del film diretto da Guido Chiesa, che ha come protagonista uno dei pilastri del cinema e del teatro italiano contemporaneo: Diego Abatantuono. Non più scenario di un efferato delitto, trasformato in una sorta di romanzo noir ancora alla ricerca dell’ultimo capitolo che sveli trame e colpevoli e al centro di una smisurata attenzione mediatica. Da una decina di giorni, Avetrana è il set del film “Belli di papà”, che si propone come uno dei “cine panettoni” del prossimo Natale. Uno strumento efficace per offrire al grande pubblico un volto differente di questo centro. La comunità avetranese ha “adottato” la troupe, composta da circa 70 unità fra attori ed equipe tecnica, del film diretto da Guido Chiesa, che ha come protagonista uno dei pilastri del cinema e del teatro italiano contemporaneo: Diego Abatantuono. Con lui recitano anche Francesco Facchinetti (al debutto in un film), Matilde Gioli, Andrea Pisani, Francesco Di Raimondo e alcuni attori pugliesi (fra questi, Uccio De Santis e Umberto Sardella). Dopo alcune scene girate a Roma e a Taranto, attori e cineoperatori si sono stabiliti ad Avetrana. Hanno “invaso” alberghi, ristoranti e bed & breakfast, che registrano il “tutto esaurito”, soprattutto nei week end, quando i protagonisti del film vengono raggiunti da familiari o amici. Non solo un ritorno di immagine notevole dal grande schermo per questa cittadina, che si sforza di cancellare un neo che ne offusca qualità e pregi, ma anche un riscontro economico immediato più venale. «Siamo felicissimi e orgogliosi per questa scelta» sono le parole di Emanuele Micelli, operatore culturale del posto, che si è offerto di svolgere gratuitamente il ruolo di “location manager”, collaborando, gomito a gomito, con la troupe per l’organizzazione logistica. «I ritorni sono sotto gli occhi di tutti: non solo quelli diretti e immediati per le attività ricettive (che, a mio avviso, non si discostano dagli introiti prodotti da un paio di stagioni estive), ma soprattutto quelli di immagine. Tutta l’Italia potrà ammirare le bellezze di una cittadina purtroppo assurta alla notorietà per un delitto». Diverse scene sono già state girate nel centro storico della cittadina dell’estrema area orientale della provincia. Presto le telecamere si sposteranno all’interno dello storico palazzo Pignatelli e di un capannone della zona industriale. Anche Torre Colimena ha conquistato gli scenografi di “Belli di papà”: sono state effettuate tre giornate di registrazione nel ristorante “da Caterina” e, presto, una scena sarà ambientata nella pescheria “Mancini”.

Però Guido Chiesa bacchetta i giornalisti: “Giornalismo etico modello AVETRANA”....mi domando, perché (quasi) nessuna testata - nazionale e peggio ancora locale - cita il nome di AVETRANA. Giriamo “Belli di papà” per 1 settimana a Roma, 1 a Taranto (città di sorprendente fascino), e 4 settimane, dico Q-U-A-T-T-R-O a AVETRANA, paese in provincia di Taranto al confine con quella di Lecce, città semplice e ospitale, con una delle più belle spiagge d’Italia. La gente ci ha accolto con una disponibilità straordinaria. Ora, mi domando, perché (quasi) nessuna testata – nazionale e peggio ancora locale – cita il nome di AVETRANA, preferendo menzionare le pur belle e ospitali San Michele Marzano (dove faremo 3 giorni di riprese) e Manduria (1 giorno)? Forse perchè non vogliono insudiciare le loro testate con il nome di un paese in cui è accaduto un tragico fatto di cronaca? Ma allora smettiamo di parlare di Padova per via di Michele Profeta o Roma per la banda della Magliana. E basta parlare di Firenze come città di Dante, dei Medici o del Battistero, perché c’è stato Pacciani e la città è marchiata a vita. E via dalle mappe Novi Ligure, Cogne, Erba, ecc. Cari amici giornalisti, io vi adoro e rispetto, ma vi prego, non offendete con le vostre “dimenticanze” tanta brava gente che qui vive, lavora ed è giustamente orgogliosa del suo paese. Ve l’abbiamo detto e ripetuto, non potete far finta di non saperlo: noi giriamo a AVETRANA e ne siamo felici. Felici di far sì che per almeno un po’ – speriamo per tanto – questo paese sia ricordato per qualcosa di positivo, speriamo divertente. Con affetto. Post pubblicato sulla pagina di Fb di Guido Chiesa, regista, e sul suo blog, poi ripreso da “La voce di Maruggio”.

Come nessuno parla dei natali e del "tesoretto di Avetrana". Tesoretto che i locali sognano di trovare con la cosiddetta "Occhiatura", ossia non come se ne dà il significato ordinario come il rito contro il malocchio o i buchi del formaggio, ma un divenir in sogno di un buco (occhiatura), indicato da un parente morto, in cui scavare e trovare un piccolo anfratto che porta ad una antica tomba o la bocca di una grotta dove vi è custodito un antico tesoro. O il lascito nascosto dai "Scianari" o dai "Masciari" o addirittura dallo "Zù Lauru". Le Gatte masciare. Queste streghe si trovano a Bari e possono trasformarsi in gatti e girovagare per la città di notte, operando i loro malefici. Al tramonto, si dice, questa donne si ungono di olio masciaro, che permette loro di potersi gettare nel vuoto, dai tetti delle case, e volare. Ecco dunque che ritorna l'unguento come uno degli strumenti magici delle streghe. Il termine masciaro sembra derivi dal latino megaera, da cui appunto proviene il nostro megera, che significa strega, maga. C'è un piccolo collegamento fra le gatte masciare pugliesi e le cogas sarde: se un uomo era convinto che un gatto fosse in realtà una strega, poteva recitare una formula magica e il gatto si sarebbe immediatamente trasformato in una donna nuda. Erano inoltre chiamati masciari coloro che si erano venduti al demonio e potevano così entrare in possesso di poteri straordinari. Janare. Le janare sonno terribili streghe della Campania – nei pressi di Caserta esiste il monte Ianaro, che da loro ha preso il nome – brutte e con lunghe zanne di cinghiale. Vestono con un mantello nero macchiato di sangue. Poteva penetrare nelle fessure delle finestre diventando vento e si dice che rubasse asini e cavalli nelle stalle, riportandoli all'alba stremati. Il suo nome probabilmente deriva da Dianare, ossia le sacerdotesse di Diana. Laùru. Da piccolo ricordo che i vecchi mi raccontavano del "lauro". Nei racconti è un piccolo gnomo o folletto dispettoso con un cappello in testa. Si dice che Lu Laùru appare di notte, e seduto sulla pancia fa svegliare il malcapitato che dorme a causa della difficoltà nel respirare e togliendogli la forza di qualsiasi movimento. Se chi svegliandosi riesce a sottrargli il cappello, lui pur di riaverlo è pronto ad esaudire un desiderio. Si raccontava di questo folletto che di notte andava ad intrecciare la coda dei cavalli o i crini e guai a scioglierli: l'animale sarebbe morto. Nella realtà si tratta di ben 1915 monete, venute alla luce in contrada “Demani” nel 1936, scrive “Manduria Oggi”. Ben 1915 monete in argento della Repubblica Romana e, nello specifico, 1.669 denari e 241 quinari, coniate fra il 211-195 e il 38 avanti Cristo. E’ una parte del “tesoretto” di Avetrana, venuto alla luce nel 1936, in contrada “Lupara”, in una zona denominata “Demani”. Si narra, infatti, che attraverso questa straordinaria scoperta archeologica, in un orciolo di terracotta, furono recuperate quasi quattromila monete romane, ben conservate e non ancora poste in commercio. Quest’ultimo particolare lascia presagire la probabile esistenza in zona di un vero e proprio cono romano. La riproduzione fedele di queste monete, oggi custodite nel Museo di Taranto, sarà consegnata alla città di Avetrana dal Soprintendente ai Beni Culturali della Puglia, Luigi La Rocca, nel corso di una cerimonia che si terrà domani sera 9 giugno 2015, alle 18,30, nell’aula delle assemblee della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana. Si tratta di uno dei ritrovamenti più significativi in materia di monetazione archeologica. Si narra che per il “tesoretto di Avetrana” al rinvenimento è seguito l’occultamento e, in un secondo tempo, il tentativo di alienazione. Questi tentativi il più delle volte si concludono con l’intervento delle forze dell’ordine e il sequestro del materiale. Anche il “tesoretto di Avetrana” non è sfuggito a questa infausta “prassi”. Infatti coloro che lo rinvennero cercarono di venderlo al Museo Provinciale di Lecce, ma la notizia venne diffusa, qualche tempo dopo, sulla stampa e, pertanto, la Guardia di Finanza si attivò per recuperare il gruzzolo. Fu poi Ciro Drago, all’epoca direttore del Reale Museo Nazionale di Taranto, a condurre in porto il recupero come si evince anche dalla una lettera del 26 agosto 1936, conservata nell’archivio storico della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia. Il materiale venne sequestrato e poi confiscato ed infine assegnato al Museo di Taranto dove tuttora si trova. Il “tesoretto”, seppur in copia, ritornerà a partire da domani ad Avetrana, su iniziativa dell’Amministrazione Comunale e dell’associazione turistico-culturale “Terra della Vetrana”, grazie alla sponsorizzazione garantita dalla Banca di Credito Cooperativo di Avetrana e sotto la supervisione della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia. «Potremo conoscere e apprezzare in tutta la sua bellezza il “tesoretto”» annuncia l’assessore al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. «Ovviamente si tratterà di una fedele riproduzione, mentre ai presenti verrà donato il catalogo illustrativo delle monete esposte, nella consapevolezza che esso possa costituire fonte di arricchimento e l’avvio di un percorso virtuoso che incrementi sempre più l’apporto di materiali provenienti dal passato, fosse anche solo in riproduzione, dimenticati dalla memoria comune, al fine di produrre alimento alla coscienza di quel sano spirito di appartenenza ad una comunità ed alla sua storia». Una prima parte del “tesoretto di Avetrana” è ritornata nel centro ionico. Si tratta delle prime cinquanta monete su un totale di 1915 della Repubblica Romana (211-38 a.C.), ritrovate nel maggio del 1936 in una campagna di Avetrana. Sono state riprodotte, in argento come le originali, dal restauratore, avetranese anch’egli, Cosimo De Rinaldis. Potranno essere inizialmente ammirare all’interno della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana, che ha sostenuto finanziariamente l’iniziativa, per poi entrare a far parte della mostra archeologica già esistente, arricchendola, nella casamatta del torrione. «Questa operazione si inquadra nell’ottica della diversificazione dell’offerta turistica della nostra cittadina» hanno rimarcato sia il sindaco Mario De Marco, sia l’assessore al Marketing Territoriale, Enzo Tarantino. «Non solo mare e gastronomia, ma anche le testimonianze della nostra storia. Con la riproduzione delle prime cinquanta monete di quel “tesoretto”, intendiamo riappropriarci di una parte delle radici culturali della nostra cittadina, un patrimonio che vogliamo far scoprire anche alle nuove generazioni». La riproduzione eseguita dal tecnico restauratore della Soprintendenza, Cosimo De Rinaldis. La professionalità e il legame forte per la sua terra alla base della riproduzione in argento delle prime cinquanta monete del “tesoretto di Avetrana”. Tecnico restauratore della Soprintendenza, Cosimo De Rinaldis, avetranese, ha le “mani d’oro”. Nella sua ormai lunga carriera ha recuperato e restituito al loro originario splendore migliaia di preziosissimi reperti archeologici, venuti alla luce in diverse regioni del sud. Proprio per questa sua straordinaria abilità, fu inserito, ad esempio, nella squadra dei quattro restauratori cui fu affidato, qualche lustro fa, il delicato compito di ridar lustro agli “Ori di Taranto”. E’ stato lui a far da tramite fra Comune di Avetrana e associazione “Terra della Vetrana” con la Soprintendenza per i Beni Archeologici affinchè questo sogno potesse realizzarsi. «Ho impiegato pochi giorni per riprodurre le prime cinquanta monete» ci racconta Cosimo De Rinaldis, che poi ci spiega le tecniche e i materiali utilizzati. «Per i calchi, abbiamo scelto materiali che non potessero danneggiare in alcun modo le monete. Il calco è stato realizzato con gesso di fusione, mentre il metodo che ho seguito è stato quello denominato “a cera persa”». Per De Rinaldis la “sfida” continua. E’ stato proprio il Soprintendente La Rocca ad annunciare la prossimo operazione: la riproduzione delle due “pintadere” ritrovate nella grotta “Dell’Erba” di Avetrana. Si tratta degli antesignani degli attuali clichè, che venivano utilizzate come stampo o timbro per decorare il corpo, il pane o i tessuti.

AMBIENTE SVENDUTO E TARANTO INQUINATA: GIORNALISMO CORROTTO E STAMPA INFETTA.

Tutta la verità e le intercettazioni sui giornalisti a “libro paga” dell’ILVA. Scrive “Il Corriere di Taranto” il 4 ottobre 2014. E nel frattempo da 2 anni l’inchiesta interna all’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, sui giornalisti coinvolti nelle intercettazioni dorme sonni profondi. Sino a quando? Un folto pubblico di giornalisti, era presente nella biblioteca civica “Acclavio” a Taranto dove si è svolta due una conferenza sul tema: “La deontologia dei giornalisti nei massimari della giurisprudenza dell’Ordine”. Un’ occasione solo per raccogliere ulteriori crediti (in questo caso 5) per assolvere all’ obbligo formativo richiesto a tutti gli iscritti all’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, o forse per alcuni la voglia di pulire la propria coscienza? Presenti fra i relatori il vice presidente del Consiglio di Disciplina Nazionale Elio Donno, il consigliere dell’Ordine pugliese Piero Ricci e il presidente del Consiglio di Disciplina pugliese Paolo Aquaro. La presenza del collega Aquaro, che sta seguendo insieme agli altri componenti del Consiglio di Disciplina un procedimento disciplinare sui comportamenti vergognosi di alcuni giornalisti tarantini coinvolti a pieno titolo, e per loro fortuna allo stato attuale senza responsabilità penale, nell’inchiesta “Ambiente Svenduto” avviata dalla Procura della Repubblica di Taranto e conclusasi con un recente richiesta di rinvia a giudizio per 49 imputati e 3 società, . Un’indagine interna, quella dell’Ordine dei Giornalisti della quale si attendono da oltre due anni gli esiti. Lo scorso 30 novembre del 2012, il Consiglio dell’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, si riunì in seduta straordinaria con all’ordine del giorno l’ esame della squallida vicenda che coinvolgeva dei giornalisti tarantini, emettendo uno scarno comunicato di poche righe per dire semplicemente quanto segueIl Consiglio ha deciso di procedere ad approfondimenti ascoltando  in fase preliminare i giornalisti coinvolti che saranno convocati nei prossimi giorni, perché possano fornire la loro versione dei fatti”. Sono passati due anni da quel giorno ed un’imbarazzante silenzio è calato su questi approfondimenti. Pressochè impossibile, ricevere qualsiasi tipo di aggiornamento, notizia, neanche la più piccola indiscrezione sullo stato dell’inchiesta interna all’ Ordine dei Giornalisti pugliese. L’unica certezza è che vi sono state le audizioni di alcuni giornalisti che negli anni scorsi avevano fatto da scendiletto ai dirigenti dell’ILVA ed in particolare all’addetto alle pubbliche relazioni Girolamo Archinà, successivamente licenziato dai Riva. Di concreto, come immaginabile, nulla. Il silenzio più totale. Alcuni dei giornalisti coinvolti, paradossalmente ricoprano incarichi direttivi in giornali e telegiornali tarantini. Resta da capire con quale credibilità per loro e le varie testate. Durante la solita “lezioncina” sul corretto svolgimento della professione giornalistica, è arrivata la coraggiosa domanda che ha creato non poco imbarazzo ai giornalisti presenti: “scusate, a che punto è il procedimento disciplinare per i giornalisti intercettati nell’inchiesta Ambiente Svenduto?” A farla coraggiosamente, ma soprattutto giustamente è stato il collega Cataldo Zappulla, un coraggioso freelance, rivolgendosi a Paolo Aquaro.  La risposta-reazione del giornalista che è presidente del Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia, è stata però succinta, per non dire fredda: “E’ in corso”. Chiaramente, come prevedibile nessuno dei presenti si è minimamente soffermato sulla vicenda chiarendo il numero esatto dei giornalisti coinvolti. Il consigliere dell’ordine dei giornalisti Paolo Aquaro, avvicinato da una freelance a fine conferenza, le ha detto che “non si può sbilanciare ed ha ammesso che l’inchiesta è resa meno spedita per la mancanza di documentazione. Insomma, mancherebbero gli atti della Procura, nonostante le richieste avanzate”. Sara vero? Noi ne dubitiamo fortemente in quanto, il Consiglio dell’ordine ha dei poteri di “persona giuridica di diritto pubblico (art. 1, ultimo comma, della legge n. 69/1963) ed ente pubblico non economico (art. 1, comma 2, del Dlgs 29/1993, oggi Dlgs n. 165/2001)” Non a caso infatti, l’Ordine dei Giornalisti è sottoposto alla vigilanza della Direzione Affari Civili del Ministero della Giustizia (art. 24 della legge 69/1963). “Sono assoggettati al controllo della Corte dei conti gli ordini e collegi professionali – nella qualità di enti pubblici non economici nazionali, di cui è menzione nell’art. 1 comma 2 d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 – in quanto ricompresi tra gli enti di diritto pubblico, a loro volta assumibili tra le amministrazioni pubbliche di cui al comma 4 dell’art. 3 l. 14 gennaio 1994 n. 20” (C. Conti, Sez.contr. enti, 20/07/1995, n.43; – FONTE Riv. Corte Conti, 1995, fasc. 5, 48;). Ne consegue che l’Ordine dei Giornalisti di Puglia, ha il diritto e dovere di acquisire gli atti in mano alla Procura della Repubblica di Taranto, invece di limitare la sua sinora sterile azione alla semplice lettura di articoli di giornali o di ascoltare altre informazioni raccolte in giro verbalmente qua e là. L’unico a dire qualcosa di più ma veramente ben poco, è stato il consigliere dell’Ordine, il collega Piero Ricci: «Non posso dirvi il numero esatto dei giornalisti coinvolti. La situazione è abbastanza delicata, ma secondo me il numero è ancora incompleto perché non abbiamo avuto ancora tutti i nomi e tutte le carte. Finché non li abbiamo non possiamo fornire un numero definitivo. Sicuramente chiederemo alla Procura e al presidente del Tribunale di poter accedere a tutto l’incartamento, perché ciò che abbiamo è insufficiente per aprire altri procedimenti disciplinari. Sono convinto che bisognerà aprirne altri. Questo, adesso, possiamo dire all’opinione pubblica. Speriamo di avere la necessaria collaborazione per delineare un quadro completo della situazione». E dopo due anni stiamo ancora al “Sicuramente chiederemo alla Procura e al presidente del Tribunale di poter accedere a tutto l’incartamento” ???  Come non dare ragione poi a Beppe Grillo ed a quanti propongono la chiusura dell’Ordine dei Giornalisti !?! Di fatto, Ricci ha avvalorato le voci di corridoio che circolano da tempo fra i giornalisti di Taranto. Infatti nelle carte e nel materiale della Procura non figurerebbero solo i nomi già pubblicati di alcuni giornalisti. La rete dei “pennivendoli” complici di Archinà e sul libro paga dell’ILVA in realtà è di fatto più estesa ed ancora attiva. Sarebbe il caso che il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia invece di organizzare corsi e conferenze inutili, che senza i crediti professionali, andrebbero deserti, si dessero fare e svolgessero il loro dovere istituzionale ed il loro compito professionale e morale. Le omissioni nell’applicazioni delle norme di legge, infatti, sono perseguibili penalmente. I “pennivendoli,”, i giornalisti “marchettari” vanno sanzionati ed in modo evidente ed esemplare. Lo impone il necessario rispetto nella Legge, ma soprattutto il dovuto massimo rispetto nei confronti dei dei lettori e telespettatori che hanno diritto a ricevere un’informazione corretta su quanto è accaduto ed accade intorno all’ ILVA«Anche nel mese di ottobre 2010 – si legge nell’ordinanza del gip Patrizia Todisco  si registravano eventi di rilievo sul fronte dei rapporti tra Archinà e Assennato, il direttore generale di Arpa Puglia,e su quello dei rapporti che Archinà intratteneva con la carta stampata e che gli consentivano di manipolare letteralmente la maggior parte dell’informazione locale che, con sistematicità, risultava accondiscendente, alle indicazioni e ai suggerimenti di Archinà”. Nelle pagine del provvedimento del GIP si legge un rapporto diretto e colluso con i giornalisti di due testate giornalistiche di Taranto. Vengono riportati i nomi sia di Michele Mascellaro il direttore di Taranto Sera (quotidiano che ha cessato le pubblicazioni riapparendo successivamente ed ancor oggi in edicola sotto il nome di Taranto “Buona Sera”) , che del giornalista  Pierangelo Putzolu che all’epoca dei fatti era caposervizio per la redazione di Taranto del Nuovo Quotidiano di Puglia attuale il direttore editoriale  a Taranto “Buona Sera” . In particolare fu Putzolu, il 24 agosto del 2010, a consentire la pubblicazione, sul Quotidiano all’interno della rubrica “Punto di Vista”, un articolo dal titolo “L’allarme berillio e i fondi pubblici per la bonifica, firmato da un fantomatico Angelo Battista, spacciato come “esperto ambientale”, ma che secondo quanto accertato e scritto dal gip Patrizia Todisco non esisterebbe, ed in realtà sarebbe stata scritta e firmata con un nome di fantasia da Girolamo Archinà. Di seguito vi proponiamo i passaggi più interessanti e significativi della “macchina del fango” giornalistico, messa in piedi dai Riva ed Archinà con il portafoglio sempre aperto.

Come volevano “bruciare” gli ambientalisti. Nico Russo, coordinatore di Taranto Futura, non piaceva all’ ILVA ed

Archinà. Era quindi necessario trovare un modo per bruciarlo. Archinà al telefono con l’avvocato Perli trova la soluzione ideale:segnalarlo a Michele Mascellaro. L’uomo, alla guida del quotidiano locale Taranto Sera (ora Taranto “Buona Sera”) , è abituato a riportare le notizie con i “toni che vogliamo noi” diceva la “longa manu” della famiglia Riva

Archinà (ILVA): “Avvocato se io per bruciare questo Russo, se io la facessi chiamare dal direttore di Taranto Sera, che è poi quello che trascina le notizie per il giorno dopo”.

Avv. Perli  (legale ILVA) : “Eh”. 

Archinà (ILVA): “Ritiene opportuno che gli spiega lei, magari senza interviste glielo spiega“.

Avv. Perli  (legale ILVA) : “Si, ma io non farei interviste eh!”.

Archinà (ILVA): “Non interviste. No! No!  Gli dà notizie…in modo che lo scrive lui”.

Avv. Perli  (legale ILVA) : “Come si chiama questo?”.

Archinà (ILVA): “Michele Mascellaro. La faccio chiamare io”.

Avv. Perli  (legale ILVA) : “Ma è…c’è da fidarsi?”.

Archinà (ILVA): “E’ nostro! E’ nostro! E’ nostro! Si….”

Avv. Perli  (legale ILVA) : “Mhhhh”.

Archinà (ILVA): “E’ nostro per intero!”

Avv. Perli  (legale ILVA) : “Ok”.

Archinà (ILVA): “E’ quello…è quello che ha fatto scoppiare la questione Berillio!”

Avv. Perli  (legale ILVA) : “Ah…Ok. Va bene”.

Archinà (ILVA): “Le do il suo numero perchè così lui riporta la notizia, così con il tono che vogliamo noi.…”

Avv. Perli  (legale ILVA) : “Certo”.

Archinà (ILVA): “In modo che Russo domani se vuole tenere la conferenza stampa deve stare attento”.

Avv. Perli  (legale ILVA) : “Mhhh… va bene”.

Archinà (ILVA): “Va bene? quindi provvedo”.

Avv. Perli  (legale ILVA) : “Mi…Mi…Mi interessa molto quell’accesso agli atti”.

Archinà (ILVA): “Si, si, si certo. Certo va bene.”

Avv. Perli  (legale ILVA) : “Grazie arrivederci…ci sentiamo buongiorno….”

(Intercettazione del 21 aprile 2010 – 11:36)

Le intercettazioni tra Mascellaro (direttore di Taranto Sera) e Girolamo Archinà (pubbliche relazioni ILVA) svelano i sistemi usati dalle aziende per gestire i rapporti con la stampa locale:

Archinà (ILVA): “comunque è andato… mò ti faccio una confidenza, non ti far trapelare niente quando lo vedi. E’ andato ieri in maniera improvvida e senza avermi avvisato, Cattaneo (ufficio stampa ILVA – n.d.r) da Walter Baldacconi (direttore responsabile STUDIO 100 – n.d.r). Vabbè ma voleva fare i soliti incontri giornalistici. Come li ha fatti con te e con gli altri, no? In maniera…alla milanese maniera"!

Mascellaro (Taranto Sera): "Si".

Archinà (ILVA): “E si Baldacconi l’ha portato da Cardamone…”

Mascellaro (Taranto Sera): “Ah…quanto gli hanno chiesto?” 

Archinà (ILVA): “Appena è arrivato, dice “sa noi dall’ ENI abbiamo ricevuto una promessa di un milione di euro, poi Roma l’ha bloccata, per questo noi li stiamo attaccando”.

Mascellaro (Taranto Sera): "Ah".

Archinà (ILVA): “Ehhhh va buò. Dice che ne è tornato scandalizzato".

Mascellaro (Taranto Sera): "AhAhAhAhAhAh Ah AhAhAh (risata)".

Archinà (ILVA): “Va buò !”

Mascellaro (Taranto Sera): "Ma non ti ha detto quanto gli hanno chiesto a lui?"

Archinà (ILVA): “No vabè ma mica lo fa così lui (Cardamone). So che sono tre o quattro volte che mi chiama oggi. e non gli rispondo a Cardamone."

Mascellaro (Taranto Sera): "Ah. ho capito".

Archinà (ILVA): “Va buò va! Ci sentiamo domani.

Mascellaro (Taranto Sera): “Beato a chi gli è amico”.

Archinà (ILVA): “Ciao! Un abbraccio”.

Mascellaro (Taranto Sera): “Ciao Girolamo ciao”.

Il 31 agosto dello stesso anno anche “Taranto Sera” pubblicava la seguente notizia: “Esclusiva: documento top secret dell’Arpa smentisce tutto. Un affare di milioni dietro la finta emergenza berillio”. In un dialogo intercettato Michele Mascellaro, all’epoca dei fatti direttore di Taranto Sera, e Girolamo Archinà si parlavano così al telefono:

Archinà (ILVA)"Mai hai visto? Tutti i giornali ti hanno seguito eh!"

Mascellaro (Taranto Sera): "Che mi tieni a fare a me?"

Archinà (ILVA)"Hai fatto uno scoop hai fatto…"

Mascellaro (Taranto Sera): "L’ho scritto anche: “Nostra esclusiva”".

Ma non è finita qui. In un altro passaggio dell’ordinanza, inoltre, si parlava l’emittente televisiva “Studio 100” di Taranto citata da un’annotazione della polizia giudiziaria “Si ritiene che il contratto pubblicitario rappresenti solo un escamotage per mascherare la dazione di denaro da parte dell’ILVA al gruppo di Cardamone per ottenere una linea editoriale favorevole”. Sempre scorrendo gli atti, secondo la polizia giudiziaria “dalle attività tecniche emerge che l’ILVA ha commissionato ad un’agenzia pubblicitaria degli spot (al costo di 120.000 euro) che verranno trasmessi dal network facente capo ai Cardamone. Appare chiaro che il pressing di Gaspare Cardamone abbia sortito gli effetti desiderati in quanto evidentemente ha ricevuto una sostanziosa commessa pubblicitaria da parte dell’ ILVA la quale, a sua volta, come ritorno potrà essere tranquilla che non riceverà attacchi mediatici ed anzi potrà sfruttare i predetti media a proprio favore anche mediante una campagna di comunicazione tesa a ridimensionarne la figura [in senso favorevole ad essa Ilva] agli occhi dell’opinione pubblica, al fine di non apparire sempre e solo come causa principale dell’inquinamento ma anche come uno stabilimento proteso all’incremento dello sviluppo eco-sostenibile dei propri impianti”.

(Intercettazione del 21 aprile 2010 – 11:36)

Una conferenza telefonica tre, da una parte della cornetta c’è Girolamo Archinà, dall’altra lo scomparso Emilio Riva, patron dell’ILVA ed Alberto Cattaneo, dirigente della comunicazione in azienda. Oggetto della discussione gli spot su una televisione locale.

Emilio Riva (patron ILVA): “Archinà!”

Archinà (pubbliche relazioni ILVA): “Si dottore l’ho chiamata poco anzi, mi hanno detto che era impegnato”.

Emilio Riva (ILVA): “Sono qua con Cattaneo ” (responsabile comunicazione ILVA).

Archinà (ILVA): “Ti saluto”.

Cattaneo (ILVA): “Con questi cavolo di spot che vogliamo fare su Studio 100?”

Archinà (ILVA): “Siii

Cattaneo (ILVA): “Ma ce li mandano in onda o no?”

Archinà (ILVA): “Ma allora io, me lo chiesi. Contrattualmente li devono mandare per forza in onda, io non vedo nessun problema di questo tipo. Era l’unica cosa quando me lo chiese il ragioniere, era di vedere un pò, se mandare gli spot, poi non aumentano gli appetiti degli altri esclusi, Questo era l’unico problema.  Ma per Studio 100, non è un problema, lo devono mandare, punto e basta. Perchè è previsto dal contratto”.

Cattaneo (ILVA): “Girolamo. Ehi, quello che non ho colto da Cardamone è proprio questa volontà, però se tu ci assicuri noi siamo a posto. Siccome stiamo spendendo dei soldi per gli spot televisivi. Il nostro problema se spenderli o no, se questi non li mandano. Capisci?”

Archinà (ILVA): “Il problema, c’è un contratto firmato per questo, no, c’è un contratto, punto. Per me il contratto firmato va onorato da entrambe le parti”.

Cattaneo (ILVA): “Perfetto”.

Archinà (ILVA): “Punto. E’ un problema che non mi pongo, mi segui?”.

Cattaneo (ILVA): “Si. Sono felice di quello che mi stai dicendo”.

Archinà (ILVA): “Quando la settimana scorsa il ragioniere mi fece cenno di questo, io gli dissi, l’unico momento di riflessione deve essere un momento che, se attraverso questi spot, gli altri esclusi, Telerama, TBM, At6, cioè quelle televisioni escluse non…”

Cattaneo (ILVA): “Eh, ma qualcosa faremo anche con loro eh”.

Archinà (ILVA): “Ecco quindi ….”

Cattaneo (ILVA): “non mi preoccuperei di questo”.

Archinà (ILVA): “Infatti, solo di questo avevo detto. Punto e basta. Perchè gli altri, se vogliono i soldi, devono darci gli spazi, che invece di fare i redazionali, come mandiamo noi, cioè, quindi che cacchio vogliono?”

Cattaneo (ILVA): “Si ma il fatto è che siccome questi spot costano, poi dobbiamo mandarli in onda eh!”.

Archinà (ILVA)“Si, dottore lo so…”

Cattaneo (ILVA): “Costano 120.000 euro andiamo a spendere, perchè sono fatti bene, sono fatti con una logica …”

Archinà (ILVA): “No, no, dottore, il discorso che dico io, contrattualmente ci spettano degli spazi. Contrattualmente. Parlo di Studio100. Per cui su questo, se vogliamo, se vuole, io la prossima settimana oppure anche, perchè oggi e domani non ci sta lui che stà a Milano, a ritirare un premio, non so, gliene parlo, gli vado a parlare. Cosa…?”

Rumori di sottofondo (è la voce di Emilio Riva che parla)

Archinà (ILVA): “Si, esatto. Glielo vado a dire in maniera spiccicata”.

Cattaneo (ILVA): “Diciamoglielo, guardi caro signore, che noi stiamo andando, non stiamo facendo per finta. ILVA sta spendendo dei soldi per fare gli spot, non è uno scherzo!”

Archinà (ILVA): “Lunedì, vado e glielo dico in maniera spiccicata. Ripeto l’unico motivo di riflessione dottore che aveva fatto con suo padre era questo: attenzione siccome in quel budget erano escluse altre televisioni Telerama, TBM, e così non svegliamo gli appetiti di questi esclusi. Punto”.

Cattaneo (ILVA): “Va bene”.

Nell’ordinanza viene alla luce anche quanto non pochi sospettavano e denunciavano da tempo, rimanendo chissà perchè inascoltati…. «Il complesso delle attività tecniche svolte fa emergere uno spaccato nel quale si vede come l’ ILVA utilizzando lo strumento delle “sponsorizzazioni pubblicitarie”, veicoli in maniera più o meno “lecita” delle somme agli organi d’informazione, sia stampa che radio-televisivi, al fine di non essere continuamente avversata in conseguenza dei numerosi e costanti comunicati stampa e delle frequenti manifestazioni che le associazioni ambientaliste del territorio (Altamarea, Peacelink, etc) promuovono contro l’ ILVA considerata la principale fonte inquinante del territorio».

Ecco cari amici come andavano (e chissà se non continuano ancora) i rapporti giornalistici a Taranto della stampa corrotta e collusa con i poteri economici. Se persino il quotidiano LA REPUBBLICA ha messo online i file audio delle intercettazioni, cosa aspetta l’Ordine dei Giornalisti di Puglia a svegliarsi dal consueto silente torpore? Se poi qualcuno si rivolgesse alla Direzione Affari Civili del Ministero di giustizia ed alle Procure della repubblica di Bari e Taranto, allora qualche giornalista potrebbe iniziare a preoccuparsi anche penalmente. E’ proprio il caso di dire, Taranto inquinata, grazie anche a (certa) stampa infetta!

“Ambiente svenduto” & giornalismo corrotto, scrive Antonello De Gennaro il 2 dicembre 2014 su "Il Corriere del Giorno". "Solo chi non fa nulla non sbaglia mai. Sbaglia soltanto a nascere (1982)" Indro Montanelli intervistato da Enzo Biagi nel suo programma televisivo “Il Fatto”, poco prima della sua scomparsa, dipinse in maniera emblematica (alla sua maniera!) il rapporto tra un giornalista, il suo editore ed il pubblico, e disse: “Oggi non esiste più un solo giornalista che sappia dialogare con il suo editore, tutti hanno paura. Ma sono gli editori che dovrebbero temere i propri giornalisti: dovrebbero temerli perchè essi sono i primi difensori della trasparenza dei giornali e garanti della lealtà verso il pubblico”. In questa città sono nato oltre 50 anni fa ed ho avuto la fortuna di avere un padre come Franco de Gennaro, che insieme ai suoi soci e co-fondatori fondò il Corriere del Giorno, cioè il quotidiano, che oggi state leggendo nella sua edizione online. Ho avuto la fortuna di avere oltre a mio padre, dei grandi e veri “maestri” di giornalismo come Mario Gismondi, Oronzo Valentini, Giorgio Tosatti, Antonio Ghirelli ecc. Ho avuto la fortuna di riuscire a diventare giornalista professionista a soli 23 anni (e mio padre era già morto da 3 anni), record che ancora oggi mi risulta imbattuto. Perchè ve lo racconto? Non certo per ricevere facile consenso, l’ammirazione o applausi dai lettori che stanno leggendo quello che scrivo, nè tantomeno per atteggiarmi a “guru” del giornalismo. Ve lo racconto con grande umiltà, per sfatare delle leggende metropolitane messe in giro recentemente da giornalisti tarantini (e della provincia “complessata”) disoccupati, frustrati, incapaci, come le loro carriere confermano, per mettervi a conoscenza della verità e cioè che in 30 anni (fra un mese) di giornalismo professionistico, non ho mai ricevuto un qualsiasi tipo di richiamo deontologico dagli Ordini dei Giornalisti a cui sono stato iscritto (Bari, Milano, Roma). Qualcuno vi dirà: ma quello, de Gennaro è stato condannato per diffamazione (non giornalistica!). Come ho già detto in passato, sono fiero di aver preso una condanna (“processo Svanity Fair“) peraltro coperta da indulto, e che in appello è stata dimezzata, anche perchè quelle diffamazioni (di oltre 10 anni fa)  successivamente alla luce nelle inchieste “Vallettopoli” e “Berlusconi Ruby-gate” e “Berlusconi Ruby-gateBis”, sono diventate a posteriori delle “verità” raccontate dal sottoscritto in anticipo su tutti, da “solitario” e senza avere a disposizione i potenti mezzi informatici e di intercettazioni delle forze dell’ordine. Utilizzati dai pubblici ministeri Woodcock e Boccasini nello loro indagini. In queste settimane abbiamo pubblicate le intercettazioni che comprovavano le connivenze fra la delinquenza mafiosa tarantina ed alcuni esponenti della politica locale e del suo squallido sottobosco. Qualcuno ci ha accusato: “perchè non parlate anche dei giornalisti corrotti?” Premesso che già lo avevamo fatto, abbiamo deciso di pubblicare le intercettazioni “INTEGRALI” agli atti dell’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Taranto, su richiesta della Procura della repubblica, meglio nota come “inchiesta Ambiente Svenduto”. I giornalisti coinvolti Pierangelo Putzolu e Walter Baldacconi li conosco molto bene da anni, ad eccezione di Michele Mascellaro, anche se ora questi “signori della disinformazione” quando mi incontrano fanno finta di non vedermi. E fanno bene, perchè sono loro che devono abbassare il capo e guardare per terra dalla vergogna. Io sto facendo solo e soltanto il mio lavoro: informare il lettore. Senza “se” e senza “ma”, e soprattutto senza fare sconti a nessuno. Giornalisti compresi. Partiamo dalle intercettazioni che riguardano il quotidiano Taranto Sera, successivamente chiuso per mancanza di lettori… oberato dai debiti e rifondato sotto mentite spoglie, ribattezzato in (Taranto) Buona Sera con direttore lo stesso giornalista: Michele Mascellaro. “Ad ogni buon conto, la stampa, in quel caso il quotidiano “Taranto Sera”, diffondeva la notizia che si era di fronte ad “una finta emergenza berillio”, insinuando il dubbio che dietro tale emergenza, di fatto, si celassero ben altri interessi [v. articolo apparso sul quotidiano “Taranto Sera” del 31.08/01.09.2010, dal titolo: “Un affare di milioni dietro la fìnta emergenza berillio. NOSTRA ESCLUSIVA. Il documento top secret dell‘Arpa smentisce tutto”, allegato 57 all’informativa 21.09.2012, tratto dalla rassegna stampa interna dell’ILVA, decreto 356/10 R.I.T., prog. 2802]. All’indomani della pubblicazione di detto articolo di stampa, l’ARCHINÀ si intratteneva al telefono con il dott. MASCELLARO, direttore di “Taranto Sera”, e commentava con soddisfazione l’articolo che questi, su sua sollecitazione, aveva pubblicato; lo esortava, altresì, a continuare nella stessa direzione, con un nuovo articolo “pepato” in relazione alla conferenza stampa che il sindaco STEFÀNO aveva convocato a seguito della diffusione di dette notizie (conv. dell’01.09.2010, progr. 8013, ore 10.50, allegato 58 all’informativa 21.09.2012).

E gli articoli su “commissione di Archinà ai giornalisti al suo “servizio” non sono finiti……

Scrive ancora “Il Corriere del Giorno” il 5 dicembre 2014. Eccovi quindi il seguito delle intercettazioni agli atti dell’inchiesta giudiziaria “Ambiente Svenduto” che coinvolgono Pierangelo Putzolu ex responsabile della redazione tarantina del Quotidiano, ed attuale direttore editoriale del quotidiano (Taranto) “Buona Sera” edito da una cooperativa con sede a Grottaglie (TA), nato sulle ceneri di “Taranto Sera” la cui società editrice ha cessato la propria attività. Nelle intercettazioni, Putzolu dimostra di essere asservito agli interessi di Girolamo Archinà, all’epoca dei fatti responsabile delle relazioni esterne dell’ILVA (Gruppo RIVA) a Taranto. Come sempre tutto riportato testualmente ed integralmente. “Proseguono I pubblici ministeri nella richiesta di misura cautelare (pag 38 e segg.) Sulla scorta di quanto innanzi evidenziato non possono esservi dubbi sulla metodica utilizzata per raggiungere gli obiettivi perseguiti dall’ ILVA.  E’ evidente che con il ruolo che rivestiva e con le mansioni che gli erano state demandate, ARCHINA‘ travalicava sovente, gli argini della liceità, come nel caso che si va a descrivere sempre finalizzato a screditare sia il direttore dell’ARPA Puglia ASSENNATO sia il sindaco di Taranto STEFANO visti come i principali nemici dell’ILVA. In tale opera ARCHINA‘ veniva poi valentemente supportato da due direttori di quotidiani locali, il dott. Pierangelo PUTZOLU, direttore della sede tarantina del “Nuovo Quotidiano di Puglia” (Gruppo CALTAGIRONE Editore – n.d.r.), ed il dott. Michele Mascellaro, direttore di “Taranto Sera”. ….omissis…… In tale disegno, ARCHINA‘ veniva supportato dai direttori dei quotidiani locali. Infatti con l’aiuto del dott.  Pierangelo PUTZOLU, direttore dell’edizione tarantina del “Nuovo Quotidiano di Puglia” pubblicava in una nota nell’ambito della rubrica “Punto di Vista” del suddetto quotidiano a firma di un fantomatico BATTISTA Angelo, esperto ambientale, nella quale portata alla luce la questione, venivano sostanzialmente smentite ARPA Taranto ed ARPA Puglia. L’articolo di stampa in questione veniva intercettato nella rassegna stampa dell’ILVA, grazie al monitoraggio della posta elettronica di ARCHINA‘.  Si riporta di seguito, la nota pubblicata il 24.08.2010 sulle pagine del “Nuovo Quotidiano di Puglia”, edizione di Taranto (allegato 50 all’informativa 21.09.2012).

Le “bufale” di Peacelink sulla trasparenza, su cui molti giornalisti tarantini scivolano…scrive "Il Corriere del Giorno" l'8 dicembre 2014. Questa è veramente bella! L’Associazione PeaceLink ha reso noto oggi di essersi iscritta nel “pubblico” Registro Europeo per la Trasparenza istituito e gestito dal Parlamento europeo e dalla Commissione europea per consentire “una interazione tra le istituzioni europee e le associazioni dei cittadini, le ONG, le imprese, le associazioni commerciali e di categoria, i sindacati, i centri di studi”. Per i soliti rappresentanti dell’associazione invece «È una forma di cittadinanza attiva europea che vogliamo espandere.  Vogliamo, con la nostra iscrizione al Registro Europeo per la Trasparenza, promuovere la democrazia partecipativa transnazionale in modo da permettere alle istituzioni stesse di realizzare politiche adeguate che rispondano alle esigenze dei cittadini europei”. Peccato però che sull’ Associazione PeaceLink vi sia poca trasparenza. Anzi, nessuna! Infatti, visitando il loro sito nulla è dato sapere su sia ubicata realmente la propria sede sociale che nell’atto costitutivo risulta essere collocata presso l’abitazione di uno dei due soci fondatori (Giovanni Pugliese) e cioè in via Galuppi 15 a Statte (Taranto). Sul sito dell’associazione peraltro non compare nessun atto dell’assemblea dei soci   che abbia modificato l’atto costitutivo dove uno dei soci fondatori (Alessandro Marescotti) che la qualifica ed il titolo di “insegnante di scuola media superiore”, risulta solo portavoce, mentre oggi lo stesso si auto-qualifica come “Presidente” come potete verificare di seguito con i vostri occhi. Anche consultando lo statuto dell’Associazione, si può verificare con i propri occhi come l’ambiente fosse un interesse molto limitato delle loro attività di “volontariato”.  Ma il comunicato dell’Associazione in questione riserva delle altre sorprese. Recita (in tutti i sensi…)”. È un grande onore per Peacelink diventare un’associazione accreditata presso la Commissione Europea e il Parlamento Europeo. – proseguono - Vogliamo continuare il nostro lavoro presso le Istituzioni Europee inaugurando anche un’azione di macro-progettazione europea che possa confluire nella Strategia Europa 2020. Mentre in Italia vengono fatte leggi per rendere legale ciò che non è legale (incorrendo in infrazioni europee), e mentre si diffonde un preoccupante intreccio fra mafia e politica, confermato dalle indagini di Roma, riteniamo che l’Europa sia un riferimento di legalità imprescindibile per fermare questa riscrittura malata della legislazione nazionale. Taranto e la nostra nazione – conclude Peacelink - non possono e non devono sprofondare definitivamente nel malaffare e nella malapolitica. Vogliamo portare permanentemente il caso Taranto in Europa». Non sono pochi i giornalisti tarantini che sono caduti nella rete di Peacelink, Spaziano dalla redazione tarantina del quotidiano regionale (sempre più in crisi di vendite) La Gazzetta del Mezzogiorno, al quotidiano “Taranto Oggi”  venduto più ai semafori che nelle edicole, passando per qualche collaboratore dell’edizione barese del quotidiano La Repubblica, che ha così scritto testualmente “Intanto l’associazione ambientalista Peacelink Taranto ha ricevuto una lettera dal presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, nella quale il presidente si dice “costantemente informato sulla evoluzione della situazione a Taranto”, rispondendo ad una missiva di Peacelink del 5 settembre scorso. Lo rendono noto Alessandro Marescotti, Antonia Battaglia e Luciano Manna per conto della stessa associazione”.  Qualcuno può spiegare a questi giornalisti che ricevere una lettera formale di risposta ad una propria lettera/istanza/esposto. Non equivale a ricevere una lettera di Stato o impegnativa da parte dell’Europa? Resta da capire di quale “onore” trattasi, essendo l’iscrizione al Registro Europeo per la Trasparenza aperta praticamente a chiunque voglia. E quindi non si capisce bene di quale “onore” si stia parlando ?!?  Che l’attività “ambientalista” sia di fatto qualcosa di anomalo per l’associazione lo si deduce da uno stesso articolo del 29 ottobre 2011 presente sul loro sito (appena tre anni fa) a firma di Marescotti. Ebbene in quell’articolo che riepilogava i loro 20 anni di attività, è singolare, ed impossibile non farci caso, non si parla mai di ambiente!  Come se l’Associazione di volontariato Peacelink, (e quindi non di tutela dei cittadini e/o consumatori) non sapesse nulla dell’inquinamento dell’ILVA che non è stato creato o causato certamente negli ultimi mesi. Un “interesse “ambientalista… dell’ultima ora, che quindi genera di conseguenza non pochi dubbi sul reale scopo della richiesta costituzione di parte civile presentata dall’associazione al Gip del Tribunale di Taranto nel processo “Ambiente Svenduto” attualmente in corso. Ironia della sorte, quell’articolo a firma Marescotti venne pubblicato nel 2011 proprio dal defunto quotidiano cartaceo “Corriere del Giorno di Puglia e Lucania” che come è ben noto a tutti i tarantini ed i nostri lettori, è miseramente fallito in liquidazione coatta con la cessazione definita delle sue pubblicazioni lo scorso 30 marzo 12014. Parliamo quindi del clone, cioè della brutta e mal riuscita copia dell’ “originale” Corriere del Giorno fondato nel 1947 , quello creato dai giornalisti  Franco de Gennaro, Egidio Stagno, Franco Ferraiolo e Giovanni Acquaviva (accanto ai quali successivamente si affiancarono gli imprenditori  Angelo Galantino e Nicola Resta ), e di cui questo quotidiano online che state leggendo è il naturale “erede” e le legittima prosecuzione della missione di dotare la città di Taranto di una sua “voce” indipendente. Così come resta da capire come viva (o sopravviva) quest’ Associazione PeaceLink, chi siano i suoi finanziatori, in quanto di tutto ciò non vi è traccia, così come non vi è traccia di alcun bilancio pubblicato sul loro sito. Esiste solo una pagina, con cui l’Associazione chiede ai propri ignoti sostenitori di contribuire con un finanziamento. Ma anche in questo caso la “trasparenza” latita in quanto non vi è neanche un elenco pubblico dei sostenitori. Un comportamento questo, un pò in antitesi con il vero significato della parola “trasparenza”!  I “volontari” di PeaceLink sono invece molto bravi ad usare i paroloni ad effetto tipo “Vogliamo continuare il nostro lavoro presso le Istituzioni Europee inaugurando anche un’azione di macro-progettazione europea che possa confluire nella Strategia Europa 2020″, pubblicizzando la solita letterina di cortesia politica ricevuta da un esponente del Parlamento Europeo dopo appena 3 mesi in risposta alla loro solita “lettera”.  Di quale “lavoro” parlino poi è ignoto saperlo. Probabilmente si riferiscono alla valanga di esposti, documentazioni, richieste che sono state inviate dappertutto da PeaceLink (soprattutto ai giornalisti “fiancheggiatori”) e che non hanno mai sortito alcun concreto effetto ambientalista. E’ anche inutile ricordare i vari tentativi dei rappresentanti di quest’ Associazione di entrare nelle istituzioni partecipando a varie campagne elettorali, che si sono sempre rivelate vane: infatti non hanno mai eletto nessun loro rappresentante. Alle ultime elezioni amministrative del 2012 per il Comune di Taranto, hanno presentato una lista denominata “ARIA PULITA PER TARANTO” che ha raccolto appena l’1,99% dei voti e Marescotti ricevuto appena 507 preferenze.  Considerati i circa 200mila cittadini residenti e votanti a Taranto, un risultato alquanto eloquente e deludente.  Ci sarà un perchè a tutto questo?  Secondo noi, una volta tanto i tarantini non si sono fatti prendere in giro…! “Non potremo mai dire la verità senza non dover dare un dispiacere a qualcuno”. Questa cari lettori, amici e nemici, è la regola del “nostro” giornalismo. Che può anche non piacere a “qualcuno”, ma appunto costituisce solo e soltanto l’opinione di “qualcuno”, e chiunque esso sia questo “qualcuno”, la sostanza dei fatti non cambia di una sola virgola! P.S. Abbiamo trovato anche tracce giudiziarie di un noto esponente di Peacelink (sempre in prima fila accanto a Marescotti), che vanta alle spalle un’imbarazzante vicenda giudiziaria di sfratti reiterati, di case occupate abusivamente a Taranto e Roma. Ed ora costui parla di “legalità”….

Il conto alla rovescia è iniziato. Dal 18 luglio 2015 i giudici del processo di appello per l’omicidio di Sarah Scazzi entreranno in Camera di Consiglio per emettere la sentenza. Anche questa volta, come fu per la decisione dei giudici di primo grado, tra le immancabili polemiche. Il clima tutto sommato tranquillo che si era riusciti a consolidare quasi fino all’ultimo è stato improvvisamente interrotto da una intervista del Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Taranto, Ciro Saltalamacchia, rilasciata al settimanale “Oggi” nel numero della prima settimana di luglio, che ha fatto arrabbiare non poco la difesa, fino a far dire all’avv. Francesca De Jaco con una nota stampa letta al tg 3 Rai, in cui si dichiarava la fondatezza dell’istanza di remissione del processo ad altra sede  per legittimo sospetto che il Foro di Taranto non fosse sereno a giudicare. Il Procuratore rappresenta l’accusa e per l’accusa Cosima e Sabrina meritano l’ergastolo. E’ stato detto anche in udienza. Ma un conto sono le aule giudiziarie, altro i giornali. E sul settimanale Saltalamacchia si è lasciato andare a giudizi e previsioni paragonabili quanto meno ad una caduta di stile. Il Procuratore anticipa la sentenza, ha reagito la difesa di madre e figlia e commette una grave scorrettezza. Inoltre emette giudizi sulle imputate e perfino sui difensori con una iniziativa inusitata, continuano al tgNorba del 5 luglio 2015, che ci lascia costernati. Di qui l’appello ai giudici della Corte di Appello affinchè conservino il loro equilibrio, senza lasciarsi condizionare dall’inconsueta iniziativa del procuratore.  

«Abbiamo lavorato serenamente. Sono stati rimossi tutti i motivi di tensione che ci sono stati in primo grado. – dice il procuratore - E’ stata Cosima il motore di tutto. Quella donna ha una intelligenza volpina. Al processo ha parlato per oltre un’ora, seguendo i punti annotati su un solo foglietto, Una donna attenta, a cui non è sfuggita una virgola di quanto è stato detto nel processo».

Ma chi è Pina Antonella Montanaro, Sostituto Procuratore Generale delle Repubblica presso la Corte di Appello di Taranto?

Quando la storia si ripete: corsi e ricorsi storici...

Il Csm accerti il ruolo di quei pm, scrive “la Repubblica”. Il processo a carico di Ben Mohamed Ezzedine Sebai, il serial killer delle vecchiette che si è accusato di aver ucciso 14 donne, deve essere «trattato con la dovuta importanza che rileva la ricerca della verità e l'attuazione di una giustizia reale, anche al fine di evitare altre ingiustizie e il rischio di vita di persone, per scienza e coscienza dello scrivente sicuramente innocenti». E' quanto chiede Luciano Faraon, l'avvocato che difende Sebai, in una lettera inviata al premier, al Guardasigilli, al procuratore generale presso la Cassazione, al Csm e al procuratore generale di Lecce. Il legale ricorda che Sebai si è autoaccusato degli omicidi e ha dichiarato che intende scagionare gli imputati condannati ingiustamente al suo posto. Per scongiurare il rischio che altre persone condannate ingiustamente compiano gesti autolesionistici (una infatti si è suicidata), Faraon chiede ai destinatari della missiva di interessarsi alla vicenda e di accertare l'esito delle inchieste avviate dopo la confessione. Il penalista fa presente che all'udienza, nonostante la confessione di Sebai, il pm di Taranto Antonella Montanaro ha chiesto l'assoluzione del tunisino per due omicidi. Secondo il legale, sia il pm Montanaro sia il pm Vincenzo Petrocelli, che si stanno occupando delle indagini su tre omicidi confessati da Sebai, «avrebbero dovuto astenersi per evidenti situazioni di incompatibilità visto che hanno sostenuto l'accusa di persone che, alla luce delle confessioni del Sebai, risultano invece essere innocenti». Riferendosi ai due magistrati, Faraon osserva che «la condanna di Sebai farebbe emergere anche il loro coinvolgimento e non improbabili responsabilità, la cui sussistenza dovrà accertarla il Csm».

Serial killer delle vecchiette reo confesso ma per la procura di Taranto è innocente, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il serial killer delle 14 vecchiette assassinate in Puglia negli anni Novanta non è credibile perchè si è autoaccusato dei delitti solo per scagionare i veri responsabili, che ha conosciuto in carcere. Per questo il pm di Taranto, Antonella Montanaro, ha chiesto oggi l’assoluzione di Ben Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino di 44 anni, per due dei 14 omicidi di cui l’imputato si è accusato negli ultimi tempi. L’uomo è già stato condannato con sentenza definitiva a quattro ergastoli per altrettanti omicidi (all’epoca non ancora confessati) e, in primo grado, a 18 anni per un altro delitto compiuto nel foggiano per il quale il giudice ha ritenuto la sua confessione «pienamente attendibile». La richiesta di assoluzione è giunta al termine del processo con rito abbreviato per l’uccisione di Grazia Montemurro, di 75 anni (Massafra, 4 aprile 1997), e di Pasqua Rosa Ludovico, di 86, (Castellaneta 14 maggio 1997). Per la prossima udienza (l'8 gennaio 2009) è attesa la requisitoria dei pm Maurizio Carbone e Vincenzo Petrocelli per altri due omicidi di cui Sebai si è attribuito la responsabilità: quelli di Celeste Commessatti, di 73, (Palagiano, 13 agosto 1995), e Rosa Lucia Lapiscopia, di 90, (Laterza, 21 agosto 1997). Poi arriverà la sentenza. Sebai, arrestato a Palagianello (Taranto) nel settembre del 1997, ha confessato in tutto 14 omicidi e ha dichiarato di voler scagionare gli imputati detenuti ingiustamente. In sette sono stati condannati in via definitiva (un altro imputato si è suicidato dopo la condanna), ma fino a questo momento uno solo di loro, Cosimo Montemurro, ha ottenuto la semi-libertà. Contro le conclusioni della pubblica accusa tuona il legale di Sebai, Luciano Faraon. «Questo pm – denuncia – non poteva svolgere indagini perchè su questi fatti aveva già ottenuto sentenze di condanna a carico di altri due imputati ingiustamente condannati». «Il pm Montanaro – sottolinea Faraon – fa queste conclusioni per non dire di aver sbagliato in passato. Lo so che tecnicamente non vi è incompatibilità del pubblico ministero ma ciò è assurdo. Io non mi sento tranquillo». Per questo a gennaio solleverà questione di legittimità costituzionale (in relazione agli articoli 3, 24, 97 e 111) perchè il fatto che la legge non prevede l'incompatibilità del pm (ma solo del giudice) lede i diritti dei cittadini. Il legale sta anche valutando se chiedere la remissione del processo dinanzi ad altro giudice. Mentre il difensore di alcuni dei condannati «per orrore», Claudio Defilippi, chiede al Guardasigilli di inviare gli ispettori per verificare l’operato della procura di Taranto.

Ma chi è Ciro Saltalamacchia, Procuratore Generale delle Repubblica presso la Corte di Appello di Taranto? Il giudice è in ferie. Giacomo Mancini può attendere: salta l'udienza preliminare che doveva decidere l'eventuale rinvio a giudizio del sindaco di Cosenza. Per la Procura di Reggio Calabria l'anziano ex segretario socialista deve essere processato per "concorso esterno in associazione mafiosa". L' udienza è stata rinviata al primo dicembre. Mancini si è detto "sorpreso" nell' apprendere "che al rinvio è stato necessario arrivare per il fatto che il magistrato designato si trova in ferie ordinarie. Non riesco a rendermi conto come tale circostanza non sia stata considerata al momento della fissazione della data. Condivido perciò l'auspicio dei miei difensori che finalmente procedura e merito di questa oscura vicenda si incanalino sui binari della regolarità". Mancini sarebbe stato. Secondo le dichiarazioni di dieci pentiti, il referente della cosca Jamonte di Melito Porto Salvo. Le ultime "confidenze" verbalizzate dal procuratore aggiunto Boemi e dal sostituto Verzera provengono da un personaggio di tutto rispetto nella geografia della 'ndrangheta. Giuseppe Scopelliti (ex braccio destro del boss Antonino Imerti) ha parlato dei rapporti tra Mancini e Giuseppe Piromalli, capo dell'omonima cosca di Gioia Tauro. Scopelliti è stato infatti per circa sei mesi assieme a Piromalli all'interno del supercarcere di Palmi. E qui nascono i primi dubbi. Perchè Scopelliti e Piromalli erano nella stessa cella quando entrambi erano sottoposti al regime del 41 bis, ovvero ad una condizione carceraria di totale isolamento? Non c'è una risposta al primo piano del Palazzo di giustizia dove i magistrati della Procura si affrettano ad aprire un'inchiesta. E' un mistero anche la storia del giudice delle indagini preliminari Alberto Cisterna, messosi improvvisamente in ferie. Il compito di annunciare il rinvio è stato affidato al giudice Andrea Esposito che ha accolto comunque la richiesta del difensore di Mancini, Francesco Gallo, che aveva richiesto i termini a difesa avendo da poco avuto l'incarico di co-difensore dell'ex parlamentare socialista. La vicenda giudiziaria di Giacomo Mancini trova origine nella sua attività politica. I pentiti lo accusano di favori ai boss e in particolare di essersi interessato ad un processo che vedeva imputato il figlio del boss Natale Jamonte, Giuseppe, accusato di omicidio. In cambio, dicono i pentiti calabresi Scriva, Lauro, Barreca e Nucera, l'esponente socialista aveva ottenuto l'appoggio elettorale per le sue campagne dal 1978 al 1992. Accuse che Mancini considera infamanti. Il sindaco di Cosenza si era presentato lo scorso novembre davanti ai magistrati proprio per chiarire la sua posizione. Ma nelle quarantatrè pagine di richiesta di rinvio a giudizio spunta inoltre un episodio che coinvolgerebbe il giudice Ciro Saltalamacchia, attuale sostituto procuratore di Taranto. Il pentito della Sacra corona unita, Marino Pulito, fa sorgere sospetti sul "comportamento" del magistrato che firmò il permesso al boss della 'ndrangheta, Mico Martino, detenuto nel carcere di Bari. La libertà di Marino, braccio destro del boss reggino Paolo De Stefano, sarebbe servita per intercedere presso Umberto Bellocco, affinchè liberasse il commerciante di Massafra (Taranto), Cataldo Albanese, rapito dalla cosca calabrese. E' indignato per questi sospetti il giudice Saltalamacchia, che all'epoca dei fatti era giudice di sorveglianza presso il Tribunale di Bari. Secondo il pentito pugliese Mancini in questa vicenda ebbe un ruolo (tutto ancora da chiarire) d'intermediario. Avrebbe contattato Bellocco tramite Natale Jamonte, per ottenere la liberazione del sequestrato. Un quadro di complicità tra Mancini e la 'ndrangheta cosentina l'ha tracciato anche il pentito Franco Staffa. Il collaboratore ha parlato di legami tra l'ex parlamentare con la cosca di Franco Pino, boss di Cosenza. Indicazioni vaghe. Staffa accusò tempo fa anche i presunti profanatori della tomba del maresciallo di polizia Aversa e della moglie Lucia Precenzano. I giudici però non ritennero vere quelle accuse e assolsero i due imputati. Macri' Carlo, pagina 14 (24 settembre 1994) - Corriere della Sera.

Lo hanno tirato in ballo dieci pentiti, scrive Pantaleo Sergi su "La Repubblica" lo stesso giorno. I magistrati della Procura antimafia dipingono Giacomo Mancini, grintoso leader del Psi, come un "uomo d' onore". Lo accusano di concorso esterno in associazione mafiosa e dicono che forniva appoggi alle cosche amiche, che si interessava delle vicende processuali degli uomini dei clan; che favoriva latitanze; che interveniva per far concedere permessi ai detenuti. Tutto in cambio di appoggi elettorali. Dicono addirittura che Giacomo "il Vecchio" , sindaco-re di Cosenza, si adoperò, con mediazioni mafiose, per la liberazione di un giovane sequestrato in Puglia, ottenendo soltanto uno "sconto" sulla cifra del riscatto. Accuse gravi che l'anziano uomo politico respinge con sdegno, ottenendo solidarietà in tutto il Paese. Ieri si doveva svolgere l'udienza preliminare davanti al giudice delle udienze preliminari, il Gup - rinviata al primo dicembre prossimo per l'assenza del magistrato - sulla richiesta di rinvio a giudizio firmata dal procuratore aggiunto Salvatore Boemi e dal sostituto Giuseppe Verzera. I quali, contemporaneamente, hanno trasmesso alla Procura di Lecce il fascicolo con gli "spunti investigativi" (così li definiscono) riguardanti il "comportamento" di un loro collega, il sostituto procuratore di Taranto, Ciro Saltalamacchia, all'epoca dei fatti in servizio a Bari, "in merito al sequestro di persona riferito dal collaboratore Marino Pulito" (il magistrato pugliese parla però di calunnie e minaccia di denunciare giudici e giornalisti). Al centro delle attenzioni resta comunque il ruolo di Mancini, il quale auspica che "procedura e merito di questa vicenda si incanalino finalmente sui binari della regolarità". Secondo i magistrati, l'anziano leader socialista - e le conferme arrivano dai dieci pentiti che lo accusano - ha contribuito "sistematicamente", anche come ministro, alle attività e agli scopi criminali di clan potenti come i Pesce e i Bellocco di Rosarno, i Piromalli di Gioia Tauro, Iamonte di Melito Porto Salvo, Muto di Cetraro ed altre cosche minori di Cosenza e Lamezia Terme. Dall'inchiesta viene fuori un volto inedito, quasi incredibile di Mancini che per ottenere voti era pronto ad agire in maniera spregiudicata in favore degli amici mafiosi. Reggerà l'accusa davanti al Gup? Il sindaco di Cosenza attacca e parla di congiura, ma lo accusano i pentiti, diventati dieci nelle ultime ore, con l'aggiunta di Francesco Staffa (un collaboratore di giustizia cosentino considerato inattendibile in un altro processo) e Giuseppe Scopelliti, già braccio destro del boss Nino Imerti, il quale stando in cella con don Peppino Piromalli, nonostante che entrambi fossero sottoposti ad isolamento totale, avrebbe raccolto le confidenze riguardanti i rapporti del capobastone con l'uomo politico accusato. I pentiti della 'ndrangheta e della Sacra Corona Unita, sono oltremodo loquaci. Mancini viene descritto come un politico sempre disponibile. Marino Pulito, l'uomo dei Modeo di Taranto, che aveva promesso caterve di voti a Licio Gelli perché aiutasse i suoi padrini in carcere, racconta che qualcuno, saputo che il giovane Cataldo Albanese - sequestrato a Massafra - era nelle mani del boss Umberto Bellocco, si diede da fare per arrivare a Mancini il quale, tramite il boss Natale Iamonte, doveva fare pressioni per far liberare il rapito. E siccome tali pressioni si sarebbero rivelate insufficienti, Mancini e Iamonte pensarono a un mediatore, Mico Martino, vicino ai De Stefano di Reggio, che ottenne un permesso dal carcere di Bari dov'era detenuto. E' su questo ultimo passaggio che i magistrati di Lecce sono chiamati a chiarire l'eventuale ruolo avuto dal giudice Saltalamacchia, uno dei magistrati che ha scoperchiato la pentola del malaffare nella tangentopoli della Marina a Taranto.

Toghe & Logge, scrive “La Repubblica” nel lontano 17 luglio 1993. Prima la pubblicazione dei nomi, poi, com'era facile aspettarsi, la pioggia di smentite. Magistrati iscritti alla massoneria? Altro che 42, come si diceva in un primo tempo, o 36 come pubblicato dall' "Espresso", o 52 come da elenco del "Corriere della sera" (che parla dell'esistenza di altri 80 nomi, senza data e luogo di nascita): a sentir loro, toghe con grembiulino non ne esistono; nessun giudice si è mai sognato di aderire al credo massonico. Ieri, ad esempio, sette magistrati del tribunale di Taranto citati come aderenti alla cazzuola e al compasso hanno dichiarato "di non aver mai prestato giuramento alla massoneria in una qualsiasi delle forme, pubblica, segreta, all' orecchio del maestro" e "di non aver mai fatto in alcun modo parte della massoneria". E trovano il conforto di Antonio Bargone, Pds, in visita con la commissione Antimafia in Puglia: "dalla notizie che abbiamo si tratta di sciocchezze, di cose che non hanno nessun fondamento". I magistrati hanno inviato una lettera al "Corriere della sera" - diffusa ad altri organi di informazione - a proposito dell' "elenco delle toghe che hanno prestato giuramento" pubblicato ieri; i firmatari sono il procuratore della Repubblica di Taranto, Giovanni Massagli, i sostituti procuratori Vincenzo Petrocelli, Ciro Saltalamacchia, Nicolangelo Ghizzardi e Pietro Genoviva, il gip Augusto Bruschi e il giudice di sezione Luciano la Marca: compaiono nell'elenco col solo cognome. I magistrati, che si riservano "ogni diversa e più incisiva tutela", fanno sapere inoltre nella lettera di aver inviato già il 10 luglio una denuncia al ministro della Giustizia, al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura e al procuratore della Repubblica di Roma "lamentando la leggerezza con la quale s'è prestato fede a fonti non solo inattendibili, ma del tutto prive di riscontro e chiedendo la punizione dei colpevoli". In pratica, un vero e proprio attacco ad Agostino Cordova, procuratore della Repubblica di Palmi, dominus delle indagini sulla massoneria. Attacco che si è mosso in contemporanea con quello, del tutto inatteso, sferrato dall' ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga il quale ha dichiarato: "Mi aspettavo che un procuratore della Repubblica - che abbiamo corso il rischio, fortunatamente sventato grazie anche alle mie iniziative, di vedere nominato capo della direzione nazionale antimafia, e che puntualmente risolleva il problema della massoneria ogniqualvolta si trova a dover essere scrutinato dal Csm per nuovi incarichi - andasse a raccogliere spazzatura negli angiporti di qualche confidente delle forze di polizia. Io mi onoro di essere amico di quel galantuomo e democratico che è Armando Corona; e mi onoro di spartire questa amicizia insieme con Giovanni Spadolini che al dottor Cordova può impartire mattina e sera, pomeriggio e notte, lezioni di efficace azione contro le deviazioni della massoneria". A Cossiga ha replicato il Pm Federico Neri, braccio destro di Cordova in tutte le inchieste più delicate: "La dichiarazione dell'ex presidente Cossiga non merita alcuna risposta. Il magistrato è investito di una funzione pubblica e deve fare il proprio dovere in rispettoso silenzio, dando risposte di giustizia e non di parte. Peraltro, non è la prima volta che Cossiga minaccia i giudici di Palmi quando inquisiscono Gelli o la massoneria o quando cercano di scoprire come si concretizza il voto di scambio e il rapporto mafia-politica". "Una cosa è certa", ha concluso Neri, "in procura siamo tutti con Cordova e ci impegneremo al massimo in questa come in tutte le altre inchieste. Per quanto riguarda l'attacco del senatore Cossiga, rassegniamo ogni valutazione del caso al Csm". "Oggi più che mai è importante che il governo spieghi quali impegni intenda assumere nei confronti della vicenda esposta da Cordova che ha denunciato di aver rilevato una diffusa riluttanza a indagare sulla massoneria e adesso viene attaccato duramente dall' ex presidente Cossiga": lo ha dichiarato l'on. Pino Soriero del Pds.

Svanito il "porto delle nebbie" della Procura di Roma, a Taranto la "Procura della diossina". Su cui bisogna fare chiarezza, scrive Antonello de Gennaro su “Il Corriere del Giorno”. Il Tribunale di Roma si portava addosso il titolo di “porto delle nebbie”, conquistato tra gli anni ’70 e ‘90. Sospetti, indagini contese con altri tribunali, dalle schedature Fiat allo scandalo dei petroli, passando per i fondi neri Iri e la Loggia massonica segreta P2. Un elenco che tocca anche Tangentopoli, con le inchieste romane che, per usare un eufemismo, non produssero gli effetti di quelle milanesi. I magistrati romani oggi giustamente ripetono orgogliosi: “Non siamo più il porto delle nebbie”. Ed a dare ragione loro sono gli ottimi risultati raggiunti sotto la guida dall’integerrimo procuratore capo Giuseppe Pignatone. Altrettanto non si può dire della Procura di Taranto che ha visto un suo magistrato Matteo Di Giorgio arrestato a seguito di un’inchiesta coordinata dal pm di Potenza, Laura Triassi, e condannato in 1° grado dal Tribunale di Potenza a 15 anni per concussione e corruzione in atti giudiziari. Ma non è tutto. Come pena accessoria è stata disposta anche l’interdizione perpetua del magistrato dai pubblici uffici, motivo per cui è stato attualmente sospeso dalle funzioni dal Consiglio Superiore della Magistratura. A denunciare Di Giorgio fu l’ex sindaco di Castellaneta, ed un ex parlamentare degli allora Democratici di sinistra, il senatore Rocco Loreto, il quale presentò un dossier a Potenza contro il magistrato Di Giorgio, e un imprenditore, che si sono costituiti parte civile, assistiti dall’avvocato Fausto Soggia. Ma sembra che la vicenda possa non concludersi nemmeno qui visto il supposto coinvolgimento di altri magistrati e uomini delle forze dell’ordine. La circostanza più grave è che accanto alla condanna di 15 anni per l’ex pubblico ministero Di Giorgio, il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono anche altre figure togate, come l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto, Pietro Argentino tuttora in servizio presso la procura tarantina. E di questo processo, nei prossimi giorni leggerete su questo quotidiano online tutti gli atti integrali del processo. Il Tribunale di Potenza ha anche trasmesso complessivamente alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi anche l’ex vicequestore della Polizia di Stato, Michelangelo Giusti. Chiaramente questa testata giornalistica che state leggendo, è “garantista” e riconosce per qualsiasi imputato il diritto alla presunzione d’innocenza sino a sentenza definitiva. E quindi così come pubblicheremo a puntate gli atti (voluminosi) del processo al Pm Di Giorgio, abbiamo ricevuto dal magistrato condannato anche il suo atto d’appello, che però non pubblicheremo per una questione di rispetto nei confronti della Corte di Appello, che dovrà giudicare in 2° grado. Il Corriere del Giorno infattipubblica solo atti ufficiali dell’autorità giudiziaria e sentenze dei Tribunali. Ma le ombre che sono calate sulla Procura di Taranto l’anno scorso con la condanna del pm Di Giorgio, non sono finite lì. Infatti mentre il nostro amato e rispettato concittadino Armando Spataro è un “esempio di legalità”, nel periodo in cui era procuratore aggiunto presso la Procura di Milano, non appena un figlio è diventato avvocato penalista a Milano, ha chiesto ed ottenuto l’assegnazione ad altro ruolo ben distante dal capoluogo lombardo, proprio per evitare conflitti d’interesse familiari.  Successivamente Spataro è diventato procuratore capo della repubblica di Torino, incarico che regge tuttora. A Taranto invece sembra di navigare nel “porto della diossina”, non solo per la vicenda processuale “ILVAAmbiente svenduto” ma anche per altre circostanze a dir poco imbarazzanti. Da accertamenti fatti abbiamo scoperto attraverso le visure camerali, stati di famiglia e non solo, che dei parenti diretti e congiunti di alcuni magistrati in servizio alla Procura tarantina, ricoprono attualmente cariche dirigenziali ed amministrative percependo lauti compensi nei consigli di amministrazioni e collegi sindacali di società municipali, società consortili pubbliche, il tutto in un conflitto d’interessi che definire imbarazzante è ben poco. Per non parlare poi delle norme previste per legge in materia di “Amministrazione Trasparente” ignorate e calpestate, senza che il procuratore capo dr. Franco Sebastio ed i suoi colleghi della procura se ne accorgano ed intervengano per rispettare le norme di Legge. Ma corrono voci che a fronte di tali inerzie sarebbe partito un esposto al dr. Raffaele Cantone autorevole magistrato che siede a capo dell’Autorità nazionale anticorruzione. Non va dimenticato inoltre quanto accaduto qualche anno fa, e cioè l’arresto del Giudice civile Piero Vella e l’avvocato Fabrizio Scarcella entrambi beccati in flagranza di reato per corruzione in atti giudiziari, procedimento affidato alla Procura di Potenza competente a indagare sui magistrati di Taranto. L’arresto avvenne nel 2012, grazie ad una denuncia di un cliente del legale.  Dopodichè, su questo genere di reati, i Carabinieri di Taranto sono stati messi in sonno…. Ma tale disinteresse della Procura e delle forze dell’ordine sarà forse dipendente per la voce circolante praticamente in tutti gli ambienti cittadini che l’arcivescovo ciellino di Taranto, mons. Filippo Santoro avrebbe offerto proprio al dr. Franco Sebastio (che a fine anno va in pensione per raggiunti limiti d’età) la candidatura a sindaco di Taranto in occasione delle prossime elezioni amministrative, anche se lo confessiamo, facciamo fatica a capire in quale lista o partito possa candidarsi, e sopratutto ci meraviglia che un vescovo che in realtà dovrebbe occuparsi di fede e di anime, si occupa di liste elettorali e lobby trasversali. Ma qualcuno ci ricorda l’origine “ciellina” di mons. Santoro, il che rende possibile e credibile tutto ed il contrario di tutto. Forse non sono bastate le poco esaltanti esperienze in politica degli ex-magistrati Di Pietro, D’ Ambrosio e De Magistris! Questo quotidiano online per dovere di informazione verso i nostri lettori, come risulta dal nostro 1° giorno di attività, è registrato come testata giornalistica presso il Tribunale di Roma, città in cui viene realizzato e diretto, pur avendo notoriamente una redazione a Taranto. Inoltre il sottoscritto che lo dirige con appena 30 anni di giornalismo professionista alle spalle, vive e lavora a Roma, ed è bene quindi ricordare a “qualcuno” che secondo quanto previsto dalla Legge per il nostro operato giornalistico noi rispondiamo alla magistratura romana ed al Tribunale della Capitale. Il Corriere del Giorno che state leggendo ha reso pubblico con un nostro articolo (vedi QUI) nelle settimane scorse qualcosa di illegittimo e cioè la nomina illegale avvenuta lo scorso 14 gennaio, di Fabrizio Scattaglia a nuovo direttore generale della “Cittadella della Carità”, che violava la Legge 190 del 6 nov. 2012 (sulla prevenzione e repressione della corruzione). Successivamente nonostante i comunicati stampa di “fiducia” e stima a Scattaglia fatti diramare dal vescovo Santoro alla solita “compagnia di giro” giornalistica tarantina, è arrivata la “scomunica” della Corte dei Conti per la gestione Scattaglia dell’ASL Taranto, e tutto ciò ha quindi indotto a l’ex-direttore dell’ASLTaranto a ritirarsi in sordina. Incredibilmente, sinora, nessuno della Procura di Taranto si era guardato dall’indagare sull’incredibile vicenda, ed accertare quanto è sotto gli occhi di tutta la città, anche se ad onor del vero, le Forze dell’Ordine di Taranto non fanno un granchè in materia di controlli sulla pubblica amministrazione. Mentre esposti e denunce presentati in Procura giacciono a lungo nei cassetti ed archivi, on in quale porto. Invece secondo noi ci sarebbe molto bisogno nel capoluogo jonico ed in provincia di controlli, indagini ed accertamenti. Sarà tutto ciò forse dovuto grazie “vicinanza” di rapporti e strana intensa frequentazione dell’attuale Comandante Provinciale dei Carabinieri, il Col. Daniele Sirimarco (che a settembre lascerà il capoluogo jonico per terminare il suo ciclo di comando) con l’arcivescovo Santoro e gli “illuminati” imprenditori che si riuniscono un pò troppo spesso e volentieri in arcivescovado e nelle salette riservate di alberghi e banche locali? Nei giorni scorsi ci è stato riferita l’ira manifestata pubblicamente in una riunione in Prefettura proprio dal Col. Sirimarco nei confronti della dirigenza del 118 di Taranto, “rea” di aver dato parere negativo (giustamente secondo noi) allo svolgimento della processione dei riti sacra nella città vecchia dove sono numerosi gli edifici pericolanti. Ma ci sia consentita una riflessione: da quando in quando i Carabinieri si occupano ed hanno competenze anche in materia di Pronto Soccorso? Secondo noi è anche un pò strano apprendere da fonti autorevoli ed attendibili che il Comandante Provinciale di Taranto dell’Arma dei Carabinieri (istituzione questa verso la quale va il nostro assoluto massimo rispetto, stima e fiducia) frequenti imprenditori indagati ed imputati, persino in cene private e gite estive su imponenti yacht lungo la costa jonica. Chiaramente siamo a disposizione del Col. Sirimarco per ogni eventuale precisazione in merito. Anche se un ufficiale dell’Arma dovrebbe ben sapere che in un luogo pubblico le foto sono consentite, si può essere facilmente visti e riconosciuti, data l’eccessiva visibilità raggiunta, e ricordare inoltre che l’Autorità giudiziaria la possibilità di accertare quanto diciamo e scriviamo. Non è difficile rintracciare le celle telefoniche e degli spostamenti negli ultimi 12 mesi fatti dai proprietari di alcuni telefoni mobili. Ne troverebbero molti sempre negli stessi luoghi. Tutti insieme. Troppo spesso. Per fortuna in tali situazioni imbarazzanti non si trovano il Questore di Taranto dr. Enzo Giuseppe Mangini  ed il Col. Salvatore Paiano Comandante Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, ben accorti entrambi a chi frequentano, ricordandosi di essere dei validi  “servitori dello Stato”, e non di qualche congrega o sacrestia! Così come ci vengono riferite strane “manovre” ed investigazioni nei nostri confronti che vedrebbero molto “attivo”  e partecipe (ma non giornalisticamente)   un giornalista della redazione tarantina de La Gazzetta del Mezzogiorno, particolarmente “avvelenato”, il quale però farebbe bene a darsi una calmata dato che ci risulta che in passato sarebbe stato condannato per dei brogli elettorali commessi nelle funzioni di presidente di seggio elettorale (in rappresentanza dell’ ex-PCI),  giornalista attualmente indicatoci da alcuni importanti penalisti tarantini, come il “ventriloquo” della Procura di Taranto.  Questo “pennivendolo” insieme a qualche appartenente delle forze dell’ordine che crede di poter accedere alle banche dati anche fiscali senza alcuna legittima ragione, dimenticano che in passato più di qualcuno in divisa è finito in carcere proprio per accesso abusivo ed utilizzo improprio di dati utilizzabili solo previa disposizione dell’Autorità Giudiziaria. Compresi quelli fiscali. Come abbiamo detto più volte il “metodo Boffo”, cioè delegittimare chi lavora giornalisticamente seriamente per sminuirne la credibilità, non ci preoccupa minimamente, così come non ci preoccupano le strane manovre e minacce che arrivano quotidianamente più o meno “velate” nei nostri confronti. Dormiamo sonni sereni, nella certezza di non aver nulla da temere e nella consapevolezza di dover essere eventualmente valutati da una Procura autorevole e seria come quella di Roma, che ha come capo un “signor” Magistrato che si chiama Giuseppe Pignatone. Secondo la nostra opinione, riteniamo che sarebbe il caso che il CSM, il Consiglio Superiore della Magistratura e gli ispettori del Ministero di Giustizia si occupassero un pò di più della procura della repubblica tarantina. Siamo sicuri che nel Palazzo di Giustizia a Taranto ne vedrebbero e scoprirebbero delle belle…

Gli “affarucci” intorno al Circolo sportivo comunale “Magna Grecia” non finiscono mai …! L’Inchiesta de "Il Corriere del Giorno" del 11 maggio 2015. Dopo che la Direzione Patrimonio del Comune di Taranto aveva ordinato in data 27.02.2012 alla CORDA FRATES il rilascio del Centro sportivo comunale “Magna Grecia”, e con comunicazione del 13.3.2013, l’ATI CORDA SOC. COOP. FRATES, ASSOCIAZIONE DELFINI AZZURRI ONLUS ed ASSOCIAZIONE CALCIO CLUB DELLISANTI aveva comunicato successivamente la disponibilità a rilasciare spontaneamente la struttura in data 26.3.2013. Sempre in data 26.3.2013, la Direzione Patrimonio del Comune di Taranto, come si rileva dalla Determina nr. 89, in considerazione delle lungaggini amministrative connesse all’espletamento della gara ad evidenza pubblica,  a seguito della comunicazione ricevuta 13 giorni prima (quando vogliono al comune sono molto veloci….) in data 13.3.2013, l’Associazione Sportiva Dilettantistica CENTRO SPORTIVO POLIVALENTE MAGNA GRECIA“ aveva concesso la propria disponibilità a gestire l’impianto sportivo comunale sino al termine dei campionati dilettantistici e, comunque, sino all’affidamento della struttura sportiva al nuovo aggiudicatario.

Venne, pertanto, sottoscritto (in data 26.3.2013) un contratto di affidamento temporaneo dell’impianto sportivo per la durata di cinque mesi (con termine fissato in data 26.8.2013, poi prorogato) tra il Comune di Taranto (nell’occasione rappresentato dall’ Ing. Gianrodolfo Di Bari) e l’ “A.S.D. Centro Sportivo Polivalente MAGNA GRECIA” nella persona del Presidente pro-tempore  Rosa CIOTOLA. La DDA, Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce nell’inchiesta che portato in carcere oltre 50 mafiosi tarantini, fra cui l’ex-esponente politico socialista, Fabrizio Pomes”, nella sua ordinanza di custodia cautelare racconta che  “in relazione ai componenti della società cooperativa FALANTO,  Rosa CIOTOLA non è altri che la moglie di DI CARLO Angelo, nipote di D’ORONZO Orlando. Singolare (ma per nulla casuale), peraltro, risulta la composizione dell’Associazione Sportiva della stessa rappresentata, costituita in data 14.2.2013 con atto privato nr. 3947 registrato in data 2.4.2013 tra:

DI CARLO Angelo, eletto alla carica di presidente;

 BRUNETTI Raffele, indagato nel presente procedimento in quanto associato mafioso del D’ORONZO;

ALBANO Anna Pia moglie del BRUNETTI  eletta alla carica di vicepresidente;

CIOTOLA Rosa, eletta alla carica di segretario-tesoriere.

Circostanze queste – scrive la DDA di Lecce – che non lasciano spazio spazio ad alcun dubbio circa il perdurare della completa e diretta riconducibilità del Centro Sportivo in parola alla persona diD’ORONZO Orlando (ed alla associazione mafiosa da lui diretta) come peraltro testimoniato dal complesso delle operazioni tecniche da cui puntualmente emergeva l’interesse del D’ORONZO ad inserirsi completamente in ogni aspetto della gestione del Centro Sportivo “Magna Grecia”.

Dopo quanto accaduto, che ha visto l’ Amministrazione Comunale di Taranto rimanere con un pugno di mosche in mano, invece di incassare i circa 900mila euro che avrebbe dovuto incassare dalla gestione del “Magna Grecia“,  l’Assessorato allo Sport del Comune di Taranto che nel frattempo ha avuto ben due Assessori allo Sport, entrambi espressione della componente politica che fa capo al Sindaco Ippazio Stefàno, e che per ironia della sorte sono anche due poliziotti, cioè Gionatan Scasciamacchia (in servizio al Commissariato di PS di Grottaglie) recentemente sostituito dal collega Francesco Cosa (in servizio al Commissariato di PS di Martina Franca),  ha ben pensato… di indire un bando pubblico un pò “allegro”…per la gestione del “Magna Grecia“. Lo scorso 28 gennaio 2015 il Servizio Appalti e Contratti del Comune di Taranto a firma del responsabile dr. Raffaele Landinetti (n° 01/2015) ha bandito la prima gara di appalto del nuovo corrente anno, per l' “affidamento in regime di concessione della gestione dell’ impianto sportivo polivalente “Centro Sportivo Magna Grecia”. Ma le sorprese non sono finite qui. Infatti il poco responsabile dirigente che ha predisposto questo bando, ha previsto al punto 4. (Criterio e Modalità di aggiudicazione dell’Appalto) che “la concessione sarà “aggiudicata con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa in base alla valutazione dei seguenti elementi...”….omissis…”

a) elementi quantitativi: max 40 per l’Offerta economica sulla base dell’aumento percentuale da applicare all’importo di €uro 44.683,20 oltre Iva come per Legge, fissato quale canone di concessione annuo posto a base di gara.

A pagina 3 del bando si legge che gli “interventi da realizzare a totale carico del concessionario sono stimate in presunti €uro 367.075,15 oltre IVA come per Legge, giusta art. 4 del relativo Capitolo Speciale e contenuti del computo metrico costituente parte integrante e sostanziale dello stesso Capitolato Speciale”.

Durata della concessione: 15 anni !Avete letto bene, il concessionario che si aggiudicherà il “Magna Grecia” per 15 anni dovrà pagare soltanto la modica cifra di circa  3.500 euro + Iva al mese  per gestire in “concessione” dal Comune di Taranto una struttura di 20mila metri quadri, comprensiva di: "a) palestra corredata di vani spogliatoi e docce, pavimentata in linoleum; b) n. 5 spogliatoi di cui 3 muniti di bagno e docce, n 1 munito di solo docce, n. 1 munito di bagno per disabili e docce, oltre ad uno spogliatoio con entrata dalla palestra ed un vano per servizi igienici; c)campo da gioco per calcio a 8 in erba sintetica; d) n. 3 campi da beach-tennis o beach-volley; e) campo da calcio non regolamentare in terra battuta non tracciato; f) locali adibiti a guardiola e ricreativi con allocata centralmente la centrale termica ; g) locale adibito ad uso segreteria; h) corpo di di fabbrica destinato a bar e sala convegni con annessa toilette per uomini , donne e disabili; nel piano interrato al quale si accede attraverso una scala, esiste una centrale termica in disuso, n. 4 spogliatoi con vano doccia e n. 2 vani per servizi igienici: i) n. 2 campi da tennis in terra battuta; j) n. 2 campi in erba sintetica per il gioco del calcio a 5; k) area destinata a parco giochi per bambini; l) Arredi e complementi: n. 4 panchine ed 1 cestino portarifiuti; m) Zona a verde posta perimetralmente alla struttura…omissis…..n) impianto di illuminazione esterna costituita da pali esterni “Liberti”, lampada serie “Emisfero” in fibra di vetro nero e diffusore in policarbonato termoresistente bianco latte e da alcuni faretti”. E per tutta questa struttura e queste attrezzature sportive, comprendenti la gestione di un bar, ristorante e sala convegni la modica ed   irrisoria cifra di appena 3.500 euro al mese !!!

Ma la cosa più grave è che una struttura comunale che ha già maturato crediti che non potranno essere mai incassati per circa un milione di euro dai precedenti gestori ed usurpatori mafiosi che hanno prosperato per anni nel centro sportivo “Magna Greci” con la  tacita complicità (denunciata dal procuratore capo della DDA di Lecce dr. Cataldo Motta in conferenza stampa) dell’Amministrazione Comunale di Taranto, ebbene nel nuovo ed attuale corrente bando gli uffici comunali sottostimano ed indicano “il valore economico complessivo della Concessione oggetto del presente Capitolato è stimato in €uro 1.037.321,1 (costo complessivo presunto degli interventi di adeguamento, ristrutturazione e manutenzione + costo complessivo presunto dei canoni concessori) ” per i quali viene prevista e richiesta una ridicola “cauzione provvisoria sotto forma di garanzia fidejussoria bancaria o assicurativa, fissata in maniera forfettaria di €uro 20.000”  che dovrebbe garantire le casse del Comune di Taranto, in caso di mancata riscossione dei canoni!!!

Avete letto bene appena 20mila euro di fidejussione e peraltro anche “assicurativa” per una concessione del valore di oltre un milione di euro!!!

Il capitolato speciale del bando comunale peraltro prevede all’ art. 3, 3° capoverso che “I concorrenti devono inoltre possedere il seguente requisito di capacità economico (cioè il fatturato –n.d.a.) o finanziaria (cioè il capitale sociale/mezzi finanziari – n.d.a.): aver gestito negli ultimi tre esercizi finanziari impianti sportivi per un valore di ricavi complessivamente non inferiori a 500.000,00 euro, risultanti da apposita documentazione fiscale prevista dalla vigente normativa”.

Termine ultimo della gara indicato nel bando per presentare le offerte era stato fissato inizialmente per le ore 12 del giorno 9 marzo 2015. “I DILETTANTI” DEL MAGNA GRECIA. E qui inizia il bello…..Appena una settimana prima della scadenza iniziale (e prorogata) del bando fissata inizialmente per il 9 marzo , e cioè il 2 marzo 2015viene costituita dinnanzi al notaio Giada Mobilio di Taranto una neonata società , dal nome “Magna Grecia Società sportiva dilettantistica a responsabilità limitata” dal  capitale sociale minimo previsto dalla Legge, di 10.000 euro, dei quali all’atto della costituzione e successiva iscrizione nel Registro delle Imprese della Camera di Commercio di Taranto( nr. REA 186902) risultano versati appena 2.500 euro! Amministratore unico nominato dall’assemblea costituente dei soci della società di “dilettanti”” è  Antonio (da tutti chiamato Antonello)  Cassalia (socio al 25%) e la cui sede legale è stata ubicata in via Francesco Bruno 26 a Taranto, e cioè presso un’altra struttura sportiva, e cioè la piscina comunale affidata in concessione dalla giunta di centro destra retta dal sindaco Rosanna Di Bello (quella del dissesto finanziario del Comune di Taranto di appena… 900 MILIONI di  euro)  sempre ad una società la Mediterraneo srl  della famiglia Cassalia, con in “dote” un contratto grazie al quale questa società incassa mensilmente da circa 8-9 anni dal Comune di Taranto la modica cifra di 40mila euro al mese, cioè circa mezzo milione di euro l’anno per consentire a scolaresche e disabili di poter usufruire di una struttura che in realtà è di proprietà del Comune di Taranto ! Soldi con i quali, in tutti questi anni, un’Amministrazione Comunale più seria ed attenta, avrebbe potuto costruire una mega piscina comunale “olimpionica” invece di gonfiare i portafogli di “imprenditori” che quella piscina non l’hanno neanche costruita! Scorrendo il certificato di visura camerale della neo-costituita Magna Grecia Società sportiva dilettantistica a responsabilità limitata, appaiono altri tre soci, tutti con le stesse quote (25%)  di Cassalia Antonio (Antonello), e cioè il 40enne tarantino Mario Pucci (persona ignota al mondo dello sport tarantino, ed anche degli affari in quanto non risulta presente nei registri delle imprese delle Camere di Commercio di tutt’ Italia ), e il figlio del dr. Ciro Saltalamacchia,  procuratore generale della Repubblica  del Tribunale di Taranto, cioè Marco Saltalamacchia che svolge un’attività commerciale di rappresentanza di occhiali, ed è noto alle cronache sportive solo per l’intensa frequentazione con i calciatori “dilettanti” del Taranto calcio,  e “dulcis in fundo”… Angelo Basile, socio e dirigente della Basile Petroli spa (seria e stimata società di famiglia) attuale vice presidente uscente della giunta della Confcommercio di Taranto, e nonchè azionista della BBC Banca di Taranto. Sicuramente il più liquido e solido fra i soci della compagine societaria della neocostituita società “dilettantistica”. Ma come al solito le nostre indagini giornalistiche non si sono fermate a dei semplici certificati di visura camerale L’amministratore della neo-costituita “Magna Grecia Società sportiva dilettantistica a responsabilità limitata , e cioè Antonio (Antonello) Cassalia risulta attualmente indagato dalla Procura della Repubblica di Potenza per una querela-denuncia a suo carico, conseguente ad una rissa a suon di pugni avuta con il figlio dell’ attuale Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Pietro Argentino (il procedimento è stato trasferito per ovvi motivi di “conflitti d’interesse” dinnanzi al Tribunale di Potenza n.d.r. ),  ed alle spalle ha avuto diversi anni fa un analogo procedimento dinnanzi alla Procura tarantina sempre per una rissa, questa volta avuta con Fabrizio Dragone (il fratello dell’ avvocato Angelo Dragone n.d.a ) nella discoteca Oblò di Marina di Leporano, chiusosi con un patteggiamento (cioè ammissione della colpa)  e risarcimento danni al Dragone. La domanda che in molti si pongono negli ambienti economici ed istituzionali della città è la seguente: come mai i “dilettanti” Cassalia & soci, non hanno costituito una normale s.r.l (opzione prevista dal bando di gara) invece di costituire una società sportiva dilettantistica a responsabilità limitata?  Ma anche a questa domanda il Corriere del Giorno avvalendosi di autorevoli dirigenti del CONI nazionale può spiegarvelo facilmente. Infatti mentre una società sportiva dilettantistica può accedere a contributi pubblici comunali, regionali e nazionali per la gestione di impianti sportivi, l’organizzazione di manifestazioni sportive, ecc, questi “contributi” a fondo perduto una normale società di capitali non li può ricevere. Un consigliere comunale della maggioranza, a cui abbiamo garantito l’anonimato coperto dal nostro più rigoroso segreto professionale nei giorni scorsi, ci ha rivelato qualcos’altro nelle ultime ore “è da mesi che sappiamo tutti in Consiglio Comunale che il Centro Sportivo Magna Grecia deve finire nelle mani di Cassalia, che dicono sia sotto l’ala protettiva e sostenuto da un alto ufficiale di stanza a Taranto, suo intimo amico”. Chissà se è lo stesso alto ufficiale “avvistato” da militari della Guardia di Finanza con Cassalia e qualcun’altro su uno yacht “privato” la scorsa estate e chissà se è lo stesso alto ufficiale che il nostro Direttore ha visto personalmente nelle vie del centro cittadino, salutarsi molto amichevolmente, baciarsi ed abbracciarsi (in compagnia della moglie dell’ufficiale e della figlia) con il Cassalia ? Anche perchè in tal caso a settembre la “festa” è finita! Ma sopratutto sarebbe interessante immaginare cosa avrebbe pensato, e cosa penserà il procuratore aggiunto Pietro Argentino venendo a conoscenza di certe manifestazioni di stretta “amicizia” e frequentazione fra i due? E cosa direbbero i vertici del Comando Generale romano? Concludendo ci sembra scontato che agli uffici comunali e soprattutto all'”assessore-poliziotto” Francesco Cosa non potrà sfuggire un problema che balza agli occhi di chiunque sia capace di leggere bene un bando di gare,  e cioè che la costituenda società “Magna Grecia Società sportiva dilettantistica a responsabilità limitata” di fatto, non possiede i requisiti di fatturato e di mezzi finanziari, previsti dal Bando comunale, in quanto è stata costituita da appena 2 mesi e con un capitale versato di  appena 2.500 euro sui 10mila euro previsti di capitale sociale, che è appunto peraltro il minimo previsto per Legge! O forse anche in questo caso, dovrà occuparsene un giorno il pm tarantino Coccioli in servizio alla DDA di Lecce, che conosce molto bene le dinamiche che gravitano intorno agli affari e l’economia tarantina?

P.S. questo bando di gara, dopo la scadenza originale del 9 marzo 2015, è stato modificato, ma guarda caso da diversi giorni e cioè da quando abbiamo iniziato a richiedere accesso agli atti dell’Assessorato, pur ricevendo la collaborazione dell’Assessore Cosa (e gli va dato atto) è impossibile accedere al sito dell’albo pretorio del Comune di Taranto e dall’assessorato allo sport ci mandano link e file che non si aprono.  Che strano.ma non fa nulla. L’inchiesta continua!

Magistrati milanesi e magistrati di Puglia, nuovi demoni della storia d'Italia, scrive Michele Imperio il 16 maggio 2011 su okNotizie.Virgilio. Differentemente dal collega Giovanni Tinebra, all’epoca Procuratore capo della Repubblica di Caltanissetta, il Procuratore Capo della Repubblica di Taranto Giovanni Massagli non era soltanto affiliato a M.D. e alle logge massoniche, ma – secondo noi - svolgeva anche un ruolo attivo all’interno della Sinistra Democristiana a livello nazionale. La sua volontà di candidarsi senatore nell’Ulivo aveva trovato tutte le porte aperte. Ma non solo. A quell’epoca (parliamo degli anni 89-90- 91) l’on.le Massimo D’Alema allora capo indiscusso del PDS e che molti davano come possibile premier del paese per almeno un decennio, per dare maggiore spessore alla sua visibilità politica non voleva più candidarsi nel piccolo e anonimo centro di Gallipoli (solo 21.00 abitanti), ma intendeva candidarsi in una grande città meridionale industrializzata e ben sindacalizzata e aveva scelto in questo senso la città di Taranto (acciaierie, raffinerie, cementifici e 214.00 abitanti). Pare che in vista di questa prospettiva una parte della grande criminalità organizzata soprattutto di regioni limitrofe (Campania e Calabria) ritenne opportuno mobilitarsi, ovviamente all’insaputa di D’Alema e elementi della classe politica locale misero a punto questo ignobile, complesso e strategico progetto politico. Esso consisteva in questo: la grande criminalità delle regioni limitrofe avrebbe dovuto attenzionare maggiormente la città di Taranto e fare di questa città, la quale disponeva di un grande porto mercantile, un epicentro di grandi traffici illeciti internazionali ai quali doveva essere partecipata la nuova classe dirigente che poteva avere influenza su D’Alema. Questa nuova classe dirigente così formata – secondo questo progetto - doveva poi avere la copertura di una parte della Magistratura. Ma per dare maggiore sicurezza a questi traffici illeciti internazionali Taranto doveva diventare una città tranquilla, non attenzionata dalle forze di polizia e quindi c’era bisogno di sopprimere o quanto meno di ridimensionare fortemente la piccola criminalità locale, dedita a reati minori ma di più grande impatto sociale. Per farla breve a cavallo degli anni 80-90 la città di Taranto venne insanguinata da una lunga e cruenta guerra di mala fra grande criminalità organizzata da un lato e piccola criminalità locale dall’altro. Ci furono addirittura esponenti malavitosi di altre regioni (Campania e Calabria) i quali lasciarono la loro famiglia nelle regioni di appartenenza, si trasferirono stabilmente a Taranto e morirono a Taranto nel corso della guerra malavitosa. L’appoggio di alcuni esponenti della Polizia alle fazioni malavitose legate alla Camorra e alla Ndrangheta in lotta contro quelle più marcatamente locali e quindi più deboli era evidente. Inoltre una parte della stampa locale dava grande risalto ai colpi che subiva la piccola mala locale e all’opera repressiva vincente del grande Procuratore della Repubblica Giovanni Massagli, aspirante senatore dell’Ulivo. Mi rendo conto che tutto questo che dico può sembrare inverosimile e fantasioso tuttavia di esso posso offrire alcuni riscontri. A un certo punto delle indagini successive a questa guerra di mala condotta con queste coperture e queste macchinazioni si verificò un durissimo scontro fra il dott. Francesco Mandoi della premiata ditta P.D.S.- M.D. Magistrato della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce delegato alle indagini antimafia su Taranto e il giudice da lui delegato su Taranto Pietro Genoviva all’epoca sostituto procuratore anziano della Procura della Repubblica di Taranto, Magistrato integerrimo e universalmente stimato. Il dott. Pietro Genoviva si era accorto che il dott. Francesco Mandoi aveva stranamente omesso alcune indagini su alcuni gruppi malavitosi in guerra fra loro e, esorbitando dai suoi compiti, aveva fatto lui stesso quelle indagini che il suo più alto in grado Francesco Mandoi aveva omesso. Senonchè una bella mattina il dott. Pietro Genoviva si vide investito da una furiosa telefonata del collega Francesco Mandoi il quale con fare minaccioso e tono di sfida gli diceva: “Chi cazzo ti ha detto di fare quegli accertamenti !!!!!!! Il Procuratore Nazionale Antimafia sono io !!!!!!!!!!!!! Tu non sei nessuno !!!!!!!!!!!!!!!!! Le cronache parlarono solo a livello locale di questo scontro ma anche in questo caso il Procuratore nazionale Antimafia milanese Bruno Siclari fu costretto a un precipitoso viaggio a Lecce come quelli che fece successivamente a Milano per sedare la lite insorta fra il Procuratore di Milano Borreli e il Procuratore di Firenze Vigna, il quale riteneva che nel caso dell’Autoparco Milanese tre Magistrati milanesi Alberto Nobili, Francesco Di Maggio e Antonio Di Pietro si erano collusi con i titolari dell'Autoparco. Anche a Lecce in Puglia come a Milano il magistrato milanese dott. Bruno Siclari dovette dirimere un conflitto insorto fra la Procura della Repubblica di Taranto e quella di Lecce, che vedeva da un lato la Procura della Repubblica di Lecce allora diretta da Alessandro Stasi, Magistrato integerrimo e universalmente stimato, adiratissimo contro il suo Sostituto Francesco Mandoi, dall’altro, Giovanni Massagli Procuratore della Repubblica di Taranto il quale fingeva di voler sostenere il suo sostituto Pietro Genoviva. Faccio presente che riferisco questi fatti non per miserabili intenti di discredito di questa o di quella figura politica o di qeusto o di quel Magistrato, ma per ragioni di informazione e di analisi affinchè il lettore si renda conto di alcune delle vere ragioni (oltre il cattivo esito del maxi-processo) che portarono alla eliminazione cruenta di magistrati del calibro, del valore e del profilo morale di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, naturali Procuratori nazionali Antimafia, che, se in vita avrebero reso ridicola la nomina del magistrato milanese Bruno Siclari in quel particolare contesto storico (1992). Perchè non sappiamo, se fosse stato Procuratore nazionale Antimafia un Giovanni Falcone o un Paolo Borsellino, che fine avrebbero fatto Magistrati, se così si possono chiamare, come Francesco Mandoi, Alberto Nobili o Francesco Di Maggio. Invece grazie al magistrato milanese Bruno Siclari, pacere di tutte le liti fra Procure moralmente sane e Procure parzialmente insane, Francesco Mandoi fu solo apparentemente allontanato dalla Procura Distrettuale antimafia di Lecce. Il PDS dalemiano, scese in campo in suo soccorso e per mascherare il suo allontanamento forzato lo candidò nel 1994 in un collegio perdente alla camera dei Deputati (allora i collegi erano uninominali). Poi dopo le lezioni lo fece nominare dal CSM, che evidentemente dominava, Procuratore Distrettuale antimafia presso la Corte di Appello di Potenza e poi ancora, dopo qualche anno, addirittura vice Procuratore Nazionale anti-mafia carica che rivestì per molti anni, prima alle spalle di Bruno Siclari poi alle spalle di Pierluigi Vigna, infine di Pietro Grasso. Ma vi è un ulteriore riscontro a quanto dico. Tutte queste aspirazioni politiche di sinistra (Giovanni Massagli per la Sinistra D.C., Massimo D’Alema per il P.D.S.) determinavano - come è ovvio - la necessità che la Sinistra fosse travolgente su Taranto e vincesse tutte le elezioni possibili (comunali, provinciali ecc. ecc.) onde creare un buon bacino elettorale ai santoni Giovanni Massagli e Massimo D'Alema. Senonchè proprio in quello stesso periodo si erano affacciati sulla scena politica locale due uomini politici, i quali in passato avevano militato per tanti anni nel locale Movimento Sociale Italiano tali Giancarlo Cito e Mimmo De Cosmo, i quali erano usciti dal M.S.I., avevano fondato una lista civica e gestivano una piccola emittente locale, Antenna 6. Come movimento politico essi agli inizi degli anni 90, erano riusciti a prendere sette seggi nel consiglio comunale di Taranto. Poi in concomitanza degli scandali che travolsero la D.C. e il P.S.I. e prima che nascesse Forza Italia, la loro ascesa politica ebbe un exploit, tanto che nel 1993 Cito divenne inaspettatamente sindaco di Taranto battendo al ballottaggio un altro magistrato della procura della repubblica Gaetano Minervini il quale doveva – ecco il riemergere del progetto – diventare sindaco e quindi tirare la volata nelle successive elezioni politiche del 1994 a Giovanni Massagli e a Massimo D’Alema. Questi due soggetti politici Cito e De Cosmo esercitarono quindi, inconsapevolmente, una forte azione di disturbo nei confronti del progetto e pertanto cominciarono nei loro confronti forti azioni di ostracismo giudiziario e perfino di intelligence. Il nostro sospetto è che il dott. Giovanni Massagli chiamò in campo pericolosamente i Servizi Segreti deviati del suo amico Nicola Mancino, e ancora una volta intendiamo precisare che le cose che diciamo non sono finalizzate a discreditare qualcuno ma a dare un contributo alla verità e a offrie al lettore un interessante spaccato della mentalità delinquenziale, criminale, omicidiaria e dell'altissimo livello di paranoia che allora pervadeva la Sinistra democristiana dei vari Mancino, Scalfaro, Rognoni e, un po’ meno, anche quella della Sinistra dalemiana, corroborata dall'azione (ahimè;) anche di alcuni Magistrati. Tempo prima nell’ambito della guerra di mala di cui abbiamo parlato si verificò casualmente un omicidio proprio dinanzi l’emittente televisiva del Cito. Qualche tempo dopo il fratello di un funzionario dei Servizi segreti avvertì Cito e De Cosmo che il fratello, Ufficiale dei Servizi segreti gli aveva confidato che il Sisde era entrato in possesso di una cassetta audiovisiva realizzata proprio dalle telecamere della Emittente televisiva del Cito e asportata e loro consegnata da un dipendete traditore, la quale cassetta audiovisiva ritraeva il Cito nell’atto di partecipare a questo omicidio. In effetti in città girava questa voce. Ebbene si trattava di una bufala. E sempre il dott. Pietro Genoviva scoprì che proprio i Servizi segreti dell’area della Sinistra Democristiana avevano alimentato queste dicerie. Secondo l’avv. Mauro Mellini il quale si interessò del caso, si trattava di una voce che era finalizzata non solo a favorire l’arresto del Cito attraverso false suggestioni sulla sua persona, ma anche a giustificarne eventualmente l’omicidio (come testimone o come coautore di uno degli omicidi delle due bande in lotta). Questo omicidio non fu più eseguito perché era emerso questo coinvolgimento dei servizi segreti e poi anche perché nel 1993 Cito fu eletto sindaco di Taranto e quindi si espose alla flagellazione per via giudiziaria che rese inutile la sua eliminazione per via militare. Particolare significativo è anche il fatto che il Procuratore della Repubblica Giovanni Massagli desautorò da tutte le indagini più importanti nonché dalla delega alle indagini antimafia il Magistrato Pietro Genoviva, e lo sostituì con un Magistrato affiliato a Magistratura Democratica Nicolangelo Ghizzardi, il quale avviò insieme ad altri magistrati nei confronti di Cito e di De Cosmo all’incirca una quarantina di processi. Non ci fu verso di infrenare questa spirale accusatoria. Una volta Cito fu invitato a versare nelle mani di Giovanni Massagli ed effettivamente versò centocinquantamilioni di vecchie lire (quando prima della bolla speculativa con quella somma si poteva acquistare un appartamento). L’occasione fu una querela che il Procuratore capo della repubblica Giovanni Massagli aveva sporto nei confronti del suo inquisito Cito e la somma veniva richiesta per dar luogo alla remissione (ossia al ritiro) della querela. L’entità della cifra, assolutamente abnorme e sproporzionata e fuori da qualsiasi giurisprudenza, faceva intendere che dopo questo pagamento le acque si sarebbero acquietate. Questa condotta ha un nome e un cognome specifico nel codice penale. Si chiama estorsione aggravata. Anzi estorsione aggravata e truffa perché le acque non si acquietarono affatto. Tutti i cittadini normali si scandalizzarono ma le Istituzioni fecero finta di niente, compreso l’ineffabile CSM. Passo velocemente a esaminare la situazione di oggi: Pietro Genoviva è stato relegato alle sezioni Civili, dove è semplice giudice del Tribunale Civile, Francesco Mandoi (Magistratura Democratica) dopo aver fatto il Procuratore distrettuale antimafia di Potenza e il vice procuratore nazionale anti-mafia, ha fatto ancor più carriera. E’ diventato addirittura Procuratore Europeo. Nicolangelo Ghizzardi (Magistratura democratica), a soli 55 anni è diventato Procuratore Aggiunto della Procura della repubblica di Brindisi. Nella procura Generale di Taranto c’è lo strabiliante caso (credo unico in Italia) della dott.sa Pina Antonella Montanaro (anche lei neanche a dirlo Magistratura democratica), la quale a poco di più di quaranta anni, manco avesse i meriti di Falcone e Borsellino, è già Sostituto Procurare Generale presso la Corte di Appello di Taranto (come avrà mai l'autorità di fare le avocazioni nei confronti di Magistrati notevolmente più anziani di lei, nessuno sa!). Anche Giovanni Massagli fu a suo tempo promosso. Da Procuratore della Repubblica di Taranto il CSM per i suoi grandi meriti investigativi (sic!) lo nominò Presidente della Corte di Appello di Venezia. Adesso – fortunatamente per chi doveva essere giudicato da lui - è in congedo. Ma secondo alcuni il trasferimento a Venezia fu un “promeveatur ut amoveatur" (promosso per essere rimosso) perchè a parte i centocinquantamilioni della remissione c’erano anche dei problemi con delle cancelliere. Però ……….. voci ……….voci che tuttavia sembrano essere suffragate dagli altri tre libri, dopo quello sulla Massoneria, che il Magistrato ha scritto, varcata l’età dei settanta anni. Il titolo di qeusti libri è tutto un programma. Uno si chiama "Cercando la donna", l'altro si intitola "Profili di donne (al plurale) e scampoli di vita (i suoi), Un altro ancora "Vanna". E in ultimo, come beffa finale, "Buste e Potere". Mimmo De Cosmo è morto a 60 anni di crepacuore a seguito di tutti i processi subiti, Giancarlo Cito ha subìto nel corso della sua esperienza politica, durata solo 7-8 anni, circa 40 processi. Dai più è stato assolto, in quattro (su quaranta) è stato condannato. Per uno, solito concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso, ha già espiato quattro anni e sei mesi di reclusione, per un altro, una presunta concussione di poche migliaia di euro, è stato recentemente condannato in via definitiva a cinque anni e se mesi di reclusione. Per gli altri due uno con condanna a due anni di reclusione per abuso di ufficio per questioni legate all’utilizzo del campo sportivo e un altro con condanna a quattro anni di reclusione per corruzione relativa alla realizzazione di un mega-porto turistico da duemila barche. Questo progetto da realizzarsi a Taranto quando Cito era sindaco, era stranamente finanziato da alcuni apparati del Ministero degli Interni. Poi gli stesi apparati del Ministero degli Interni, ottenuta la condanna di Cito, hanno distrutto i file del progetto. Se vi sembra una cosa logica! In totale quindi 15 anni e 6 mesi di reclusione. Per gli ultimi due processi Cito è in attesa della sentenza della Cassazione. Si dice che per ora otterrà i benefici dell’affidamento in prova al servizio sociale e dell’indulto, ma poi questi benefici verranno revocati se diventeranno definitive le altre due sentenze. In conclusione prima o poi arriverà un giorno che Cito verrà arrestato e rimarrà recluso in carcere per tutto il resto della vita sua. Solo Massimo D’Alema, non ha fatto carriera. E' diventato un bruciato giovane. Non lo può vedere più nessuno. Molti lo odiano. All'ambasciatore americano lui stesso ha detto sconsolato: "la Magistratura italiana benchè di orientamento prevalentemente di Sinistra, è un problema per lo Stato Italiano". Certo, è un problema. E che problema!!!!!!!. Ma chi lo ha creato questo problema, on.le Massimo D’Alema. Se lo ricorda? 

La gente vuol credere che i criminali sono tutti figli di Satana e che magistrati e forze dell'ordine siano tutti figli di Dio. In mezzo c'è la società civili aggredita dai primi e difesa dai secondi. Purtroppo non sempre è così. E che non sia così lo dimostra questo link su Brindisi Report. In esso si dice che il dott. Lino Antonio, Bruno Giudice distrettuale antimafia per le province di Lecce Brindisi e Taranto, Magistrato integerrimo e universalmente stimato, ha messo sotto processo un suo diretto collaboratore tal luogotenente dei Carabinieri di Brindisi Antonio Giaimis per agevolazione di associazione mafiosa. Dopo di che lo ha fatto - giustamente - allontanare dalla direzione distrettuale antimafia. L’episodio denunciato in sé e per sé è grave ma fino a un certo punto (Antonio Giamis carabiniere dell’Antimafia avrebbe richiesto alla Questura di Taranto informative indebite a carico di un pregiudicato che interessava a un avvocato amico suo e sul quale indagava per fatti gravi la polizia di Taranto) ma per aver prodotto una denuncia penale si intuisce che quella era chiaramente la classica goccia che aveva fatto traboccare un vaso già colmo di altri problemi. Ebbene il Tribunale del riesame di Brindisi ha fatto l’affronto al dott. Lino Antonio Bruno di revocare la misura dell’allontanamento del Giamis dalla "Antimafia" e di imporgli la riassunzione del luogotenente allontanato. In forza di questo provvedimento adesso nella medesima struttura antimafia lavoravano fianco a fianco il denunciante (il dott. Lino Bruno) e il denunciato di agevolazione di associazione mafiosa (il luogotenente Antonio Giamis). Strano Tribunale quello di Brindisi che riceve ogni anno richieste in massa di trasferimento di Magistrati dalle più disparate località, da Napoli, da Roma, da tutte le parti molti Magistrati vogliono trasferirsi a Brindisi. Per la carica di Procuratore capo ci sono stati addirittura i ricorsi al TAR. Sarà che molti Magistrati vedono nel Tribunale di Brindisi una frontiera aperta a Oriente. Mi si obietterà che non è questo l’unico caso in cui un denunciante e un denunciato di Magistratura o di agenti delle Forze dell’ordine lavorino gomito a gomito nello stesso ufficio antimafia. Un caso analogo è presente anche presso al Procura della Repubblica di Brescia dove il Magistrato lombardo Mario Conte inquisito da altro magistrato lombardo Fabio Salamone per associazione a delinquere, falso in atto pubblico, abuso d’ufficio e spaccio di droga nell’ambito del noto processo che coinvolgeva alcuni carabinieri per le indagini c.d. col metodo Ros (502 milioni di euro di ammanchi). Il dott. Mario Conte – dicevo - lavora oggi nello stesso ufficio antimafia del suo inquisitore il dott. Fabio Salamone anche lui di Brescia, fratello di Flippo Salamone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per concorso in associazione a delinquere di stampo mafioso. Però in quel caso (Brescia) Mario Conte ha fatto e sta facendo ancora (il suo processo si è perso nelle nebbie del Tribunale di Milano) chiaramente da capro espiatorio rispetto a responsabilità di altri suoi colleghi molto più articolate e complesse, per cui la cosa ha una sua logica (altri magistrati hanno voluto blindare questo Magistrato, Mario Conte, affinché accetti questo suo ruolo di capro espiatorio di situazioni più articolate). Invece il contrasto Lino Bruno-Antonio Giamis è un conflitto vero e lascio immaginare a voi lettori con quale spirito, con quale stato d'animo il povero dott. Lino Bruno debba espletare delicate indagini antimafia avendo dietro la porta o accanto alla stanza un carabiniere che lui stesso ritiene responsabile di agevolazioni di associazioni mafiose. Ma quella di Antonio Giamis non è l’unica presenza ingombrante nella Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. C’è anche quella di un altro Magistrato, il noto giudice del caso di Clementina Forleo Alberto Santacatterina. Ricordate la Forleo? Ricordate Travaglio? Ma sì la Forleo, quel giudice che aveva messo le mani su Massimo D’Alema, Nicola Latorre e compagni, e dopo un attimo è stata bruciata viva, schiacciata sotto cento procedimenti disciplinari del CSM, insultata, sanzionata, perseguitata, additata come pazza e visionaria, trasferita da Milano in un buco in provincia, buttata giù da La Torre in tutti i sensi e messa improvvisamente a Cremona a giudicare i ladri dei telefonini. E non è escluso che abbiano tentato pure di ammazzarla, una sera, nel dicembre 2009, mentre rientrava a casa in auto quando un tizio l’ha letteralmente buttata fuori strada. Sopravvissuta per miracolo, con la faccia distrutta. Ebbene è nostra convinzione che quel tizio proveniva da Brindisi perché a Brindisi si sono verificati tre dei cinque attentati subiti finora da questo coraggioso Magistrato. Ricordiamoli tanto per renderci conto che razza di Far West è il territorio della provincia di Brindisi sotto la giurisdizione di quel Tribunale che impone il rientro nell'Antimafia di carabinieri indagati di agevolazioni di associazioni mafiose:

Aprile 2005: Clementina Forleo gip di Milano, ma originaria di una cittadina in provincia di Brindisi, Francavilla Fontana, ha disposto l’arresto di un intoccabile del giro dei massoni, Giampiero Fiorani, testa di paglia di Antonio Fazio ai vertici della Banca di Lodi. Subisce una serie di attentati e di intimidazioni a base di lettere minatorie contenenti proiettili;

5 maggio 2005: dopo una serie di telefonate mute di minaccia, rivolte ai suoi genitori, viene distrutta una villa di campagna dei Forleo a Francavilla Fontana;

20 giugno 2005: viene incendiato l'intero raccolto di foraggio dell'azienda agricola di famiglia;

21 luglio 2005 (attenzione alla data!) la Forleo riceve una lettera in cui si dice: "Andrai dietro la bara dei tuoi genitori. E poi toccherà anche a te".

25 agosto 2005, appena 34 giorni dopo la lettera, l’incidente stradale mortale, praticamente profetizzato. La vettura a un incrocio non frena e l’auto viene investita da un fuoristrada che procede perpendicolarmente. Vecchio trucco dei Servizi segreti pugliesi per il quale - forse - in passato sono deceduti anche l'on.le Nicola Monfredi e l'on.le Salvatore Fitto, padre dell'attuale ministro Raffaele Fitto. Si infila uno spillone nella coppa dell’olio dei freni e quando l’olio smette di gocciolare la autovettura improvvisamente non frena più; In quelle settimane la Forleo si stava occupando della scalata bancaria Antonveneta. Così, quando accade l'incidente, la prima cosa a cui ella pensa è un sabotaggio dell'auto.

30 agosto 2005 (quindi cinque giorni dopo il sinistro) la Forleo riceve un'altra lettera di "felicitazioni" per il grave lutto, accompagnata da un proiettile calibro 38.

Il Magistrato però non si lascia intimidire. Fa una denuncia alla Procura della Repubblica di Brindisi (quindi alla luce dei fatti odierni va praticamente nella tana del lupo) e chiede che vengano fatte ricerche sui tabulati delle telefonate minatorie arrivate alla famiglia, prima del sinistro. Senza ipotizzare l'incidente doloso, la dott.sa Forleo chiede che si scoprano gli autori delle telefonate. Accertarlo è semplice. Basta acquisire i tabulati telefonici dei genitori e dei numeri chiamanti e poi intercettare questi ultimi. Le indagini vengono affidate dal Procuratore Capo Giuseppe Giannuzzi (uno che appena diventato Procuratore capo della Repubblica di Brindisi aveva aperto uno studio legale penale con dentro il figlio, la nuora e anche la cugina) al giudice Alberto Santacatterina e da questi delegate al Tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari. Ma dopo due anni (2007) la Forleo scopre che le indagini non sono mai andate avanti. Non è stata infatti identificata alcuna utenza. Non è stato fatto alcun accertamento. Il PM titolare dell’inchiesta (Alberto Santacatterina) sostiene, contrariamente al vero, che dai tabulati non risultano telefonate indirizzate ai Forleo e quindi sta chiedendo l’archiviazione dell’esposto. Peraltro ai Carabinieri Alberto Santacatterina ha chiesto solo i tabulati. E i carabinieri hanno fatto ancora meno: si sono limitati ad acquisire i tabulati che partivano da casa Forleo, non quelli - fondamentali - delle chiamate in entrata. Cioè praticamente non hanno fatto nulla. Com’è normale che fosse fra la Forleo e il tenente Pasquale Ferrari dei Carabinieri di Brindisi (città dove, evidentemente, i Carabinieri sono uno meglio dell'altro) nasce un piccolo battibecco: “si vergogni di indossare la divisa” – dice la Forleo. E qui si verifica un secondo fatto inquietante. Perché a questo punto, Alberto Santacatterina e Pasquale Ferrari, colti in castagna, anziché colmare velocemente i vuoti dell’indagine, tentano di trasformare la Forleo da parte lesa a imputata. E soprattutto cercano di farla passare per matta. Il 14 agosto 2007, alla vigilia di Ferragosto, mentre il procuratore capo di Brindisi Giuseppe Giannuzzi e tutti i giudici del Tribunale sono in ferie, il tenente Ferrari presenta una denuncia scritta contro la Forleo, per la telefonata (“si vergogni di indossare la divisa”) e guarda caso, proprio quand'è di turno il pm Antonino Negro, amico dell'ufficiale Pasquale Ferrari e del pm Alberto Santacatterina. Questi assegna a se stesso il fascicolo. Non potrebbe farlo perchè non si tratta di una questione urgente e quindi il fascicolo dovrebbe essere assegnato successivamente ad altro magistrato secondo il sorteggio. Invece egli lo assegna ugualmente a se stesso. Archiviata la denuncia della Forleo – così si pensa – resterà in piedi solo la querela di Ferrari contro la Forleo. Quindi la Forleo non più parte lesa ma imputata. Cornuta, battuta e cacciata di casa si dice da quelle parti. E quindi non solo non ci sarà più alcuna indagine sulle gravissime minacce subite dai genitori della Forleo prima di essere assassinati, ma la Forleo da accusatrice diventerà accusata. C'è però anche la magistratura sana. Sicchè il demone fa le pentole ma non fa i coperchi. Questo piano diabolico trova un intoppo: Un Magistrato diligente il gip di Brindisi respinge la richiesta di archiviazione della denuncia della Forleo e ordina a Alberto Sattacaterina indagini più approfondite. Queste indagini più approfondite non vengono mai fatte. Perché il dott. Alberto Santacatterina di questo processo proprio non ne vuole sapere. Quei tabulati non li vuole acquisire. O meglio non li può acquisire perché le telefonate appartengono evidentemente a qualche agente dei servizi segreti o a qualche iscritto a qualche loggia massonica. Quando lo scopre Alberto Santacatterina presumibilmente va da Giuseppe Giannuzzi il Capo per liberarsi del fascicolo. Ma Giuseppe Giannuzzi gli intima di mantenerlo e - ovviamente - di non fare indagini. E' per questo che è nervoso Alberto Santacatterina. Quando lo contatta l'avvocato della Froleo lo manda a quel paese. "la Forleo ci sta rompendo i c........!" - dice. Ma come! Ma se una è parte lesa di un omicidio è giusto che il giudice si rivolge al suo avvocato e gli dice: "Mi stai rompendo i c........!" Intanto la dott.sa Forleo inoltra un esposto alla Procura della Repubblica di Potenza. Il fascicolo è assegnato a un ottimo magistrato il dott. Feridnando Esposito, il quale ascolta tutta la trama e trasecola. Quindi non solo apre un fascicolo a carico dei due pm di Brindisi coinvolti (Alberto Santacaterina e Vincenzo Negro) e del tenente dei Carabinieri (Pasquale Ferrari) ma fa le cose per bene e formula a loro carico ipotesi di reato pesantissime:

- frode processuale,

- induzione a commettere reati,

- calunnia,

- abuso d’ufficio,

- omissione di atti d’ufficio,

- associazione per delinquere,

- falsità ideologica,

perché, non svolgevano indagini e Alberto Santacatterina nel chiedere l'archiviazione, «attestava falsamente» di avere «acquisito ed esaminato i tabulati» e di non aver trovato «telefonate utili alle indagini» quando ciò non era vero. Inoltre secondo una ricostruzione dei fatti contenuta in un'audiocassetta "esplosiva", registrata dalla Forleo attraverso captazioni di conversazioni, i p.m e il tenente avrebbero cercato di "rimediare" il papocchio querelando la Forleo e si sarebbero accordati per presentare la querela quando in Procura fosse stato di turno il pm Vincenzo Negro. Insomma una bomba. Il dott. Esposito aveva anche pronto - secondo i bene informati - un bel mandato di cattura a carico del collega Alberto Santacatterina. Che figura di m.......... !!!!!!!!!!! Al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Lecce la Forleo chiede intanto di avocare l'inchiesta di Vincenzo Negro. Il quale, per tutta risposta, continua a tenere il fascicolo presso di sè, chiude le indagini a tempo di record e la rinvia a giudizio per minacce al tenente Ferrari. In un paese normale a questo punto che tutto il quadro istituzionale si sarebbe stretto attorno alla Forleo per le minacce subite, per le tante intimidazioni, per la strana morte dei suoi genitori, per gli atteggiamenti aggressivi di Alberto Santacatterina e Vincenzo Negro. E invece no! Il Consiglio Superiore della Magistratura presieduto dal senatore Nicola Mancino le si rivolta contro! E anziché aprire una pratica contro i colleghi negligenti e falsi avvia una procedura disciplinare contro la Forleo con richiesta addirittura di trasferimento per avere screditato integerrimi colleghi e ufficiali «con accuse infondate» e per aver assunto – pensate un po’! – atteggiamenti vittimistici! Ma cribbio! Ma se le hanno incendiato la fattoria! Ma se le hanno ammazzato i genitori! Il problema è che invece quelle accuse sono fondatissime e la verità è che nemmeno il CSM di questa storia vuol sentir parlare. Per la nota assonanza del suo capo di allora (Nicola Mancino! Sempre lui!) alle gesta dei Servizi paralleli. Ora sulla strana triangolazione Ferrari-Negro-Santacatterina stava però facendo luce – come detto - il pm di Potenza Ferdinando Esposito. Ma qui avviene un altro fatto molto strano. E molto inquietante. Si verifica ancora una volta un grave incidente stradale che questa volta coinvolge proprio lui, il pm potentino. Ferdinando Esposito. Tornando a casa dal lavoro, in Procura, a Potenza, il valente magistrato subisce anche lui un sabotaggio. Improvvisamente la vettura non frena più. Esce improvvisamente fuori strada, precipita in una scarpata e lui Ferdinando Esposito riporta ferite gravissime. Se un automobilista non si fosse accorto dell'incidente sarebbe certamente morto. Le gravi ferite lo tengono a riposo per molti mesi. Le sue inchieste si fermano e tra queste quella particolarmente importante e delicata che riguarda il rapporto fra il giudice di Francavilla Fontana Clementina Forleo, ex g.i.p. di Milano e i due pm della Procura di Brindisi, Alberto Santacatterina e Vincenzo Negro. Gli subentra in queste indagini la dott.sa Cristina Correale di M.D. (la incontreremo ancora nelle nostre narrazioni in altri casi molto particolari), la quale – però - non è la stessa cosa di Ferdinando Esposito. Perché Sattacaterina, Negro e Ferrari vengono prosciolti già in istruttoria da tutti i reati loro contestati tranne che per uno che riguarda Alberto Santacatterina, il quale viene rinviato a giudizio, solo per i reati di falso e di abuso innominato in atti di ufficio. Però di questo processo da allora, nessuno sa più nulla. E' finito? E' in corso? Non si sa. Nonostante questo e nonostante sia chiaro a tutti che con la Forleo sono in tanti – evidentemente - a voler chiudere i conti, il 25 aprile 2009 arriva alla dott.sa Forleo una telefonata da un maresciallo dei Carabinieri, il quale la informa che il prefetto di Milano Gianvalerio Lombardi, le ha revocato la scorta su Milano e che il prefetto di Cremona, Bruno di Clarafond, le ha revocato la scorta su Cremona. Tutto questo cosa significa? Significa che Clementina Forleo è stata lasciata sola. Vi ricordate il monito di Giovanni Falcone? Si muore quando si è soli, si muore quando non si hanno sufficienti appoggi, si muore quando ci si è imbarcati in cose più grandi di sé. E infatti eccoti l'ultimo colpo di scena! Venerdì 4 dicembre 2009 il quarto attentato, il penultimo episodio altamente inquietante di questa tragica vicenda: l’atto di pirateria stradale all’altezza del casello di Lodi, che a momenti la stava mandando a miglior vita. Clementina Forleo viene buttata fuori strada da uno sconosciuto che dopo l’incidente si dilegua. Alberto Santacatterina invece, scongiurato il mandato di cattura, da allora ha fatto anche lui, come altri che si sono asserviti ai Poteri Forti, una luminosa carriera: da semplice P.M. del Tribunale di Brinsdisi è stato promosso al merito Sostituto Procuratore Antimafia del Tribunale di Lecce. Ma non è finiti qui! A gennaio 2011 c’è il quinto attentato! Viene incendiato di nuovo il raccolto della Masseria. Il Procuratore Aggiunto di Brinsi Nicolangelo Ghizzardi (abbiamo già parlato di lui) altro affiliato di M.D., già il giorno dopo il vile gesto, si dice sicuro che l’attentato questa volta non riguarda la Forleo ma il suo inquilino. Ma di questi nuovi attentatori ancora oggi non si sa nulla. Ma che cosa passa nell’animo di un giudice onesto che deve svolgere il suo lavoro in questa disgraziata Seconda repubblica in queste condizioni assurde, fra mille provocazioni, mille aggressioni, mille intimidazioni, mille attentati, mille umiliazioni, anche trasferimenti e chi più ne può più ne mette? Ce lo dice la stessa Forleo: Caro Luigi, (De Magistris n.d.r.) non scendo nel merito della vicenda processuale che ti riguarda. Mi auguro che tu possa uscirne indenne e sono d’accordo con te – a prescindere da tale accadimento – nel concludere che quando si pestano, per amore del proprio dovere, troppi calli ci si espone a ritorsioni di ogni tipo. Ti chiedo: 1) quanto vale per te, non credi debba valere per tutti? O la tesi, giusta o errata che sia, del complotto o della mera individuale ritorsione di qualche magistrato “poco serio” vale solo per alcuni? 2) sono solo i Magistrati massoni o ufficialmente (ossia per la cronaca) “incriccati” ad essere i nemici delle persone perbene? Come ben sai, dopo averti disinteressatamente difeso ad Annozero – ma in realtà dopo aver pestato i calli di signorotti che ben conosci – non solo sono stata esiliata in quel di Cremona e privata di ogni forma di protezione personale, nonostante numerosissime minacce seguite puntualmente da episodi inquietanti, ma sono anch’io stata oggetto di procedimenti disciplinari e penali (che mai mi avevano sfiorato nella mia vita e nella mia carriera, sempre definita da “ottimo magistrato”), nei quali mi sono difesa e mi sto difendendo con non pochi disagi anche economici per me e per la mia famiglia. Nel mio caso la massoneria purtroppo, se c’entra, c’entra poco o quantomeno c’entra in parte (diciamo anche a metà;) (ai tempi delle stragi 92-93 nella Procura di Milano c'erano sei magistrati massoni n.d.r.r). A volere la mia morte civile (forse non solo quella civile n.d.r.) e il mio isolamento non sono state o non sono solo state le cricche e cricchette cui ti riferisci (le logge massoniche deviate n.d.r.). Sai bene chi mi ha voluto infliggere il colpo mortale: squallidi personaggi politici che si oppongono al Caimano solo per brama di potere, ma che per la loro ipocrisia mi fanno ancora più paura; insigni magistrati di correnti di “sinistra” (M.D. n.d..)che non sono diversi – lo sai bene – di quelli di “destra” (M.I. n.d.r.), con la differenza che non si vergognano a sventolare la Costituzione che calpestano ogni giorno quando tocca inaugurare l’anno giudiziario, con farse che dovrebbero riguardare altre categorie. Basti pensare al dottor Edmondo Bruti Liberati, ad esempio, leader della corrente Magistratura Democratica (si chiama ancora così?). Quello stesso Edmondo Bruti Liberati nominato Procuratore di Milano con voti bipartisan, come “profetizzato” dalla signora Tinelli (P.D.) in una nota telefonata, che è sempre lo stesso Edmondo Bruti Liberati, che dovrà prima o poi anche spiegare ufficialmente, qualunque sia la mia sorte:

a) da chi ricevette nel marzo 2008 le carte che arrivarono dal Parlamento relative al senatore Latorre;

b) perchè non me le si trasmise nell’immediatezza;

c) perchè le rispolverò, unitamente agli altri membri del pool proprio il 29.7.2008, trasmettendole al mio ufficio per decidere “con urgenza” quando casualmente ero assente per pochi giorni e – guarda caso – il giorno prima che venisse depositato il parere sulla mia professionalità, in cui un altro magistrato della stessa corrente (M.D. n.d.r.), (dopo essere stato peraltro pescato con le mani nella marmellata nell’interferire con le mie funzioni) dava atto del mio “deficit di equilibrio”, venendo subito promosso a Presidente di Sezione. Seguivano, inutile dirlo, promozioni di tutti i protagonisti della rocambolesca vicenda, con la quale, effettivamente, ero e sono – per la mia serietà e il mio rigore – “incompatibile”.

Lo "strano incidente stradale" in cui persero tragicamente la vita i genitori di Clementina Forleo non è l'unico "strano incidente stradale" che si è verificato in provincia di Brindisi, evidente roccaforte o comunque primo presidio pugliesi dei poteri occulti. Esso è l'"incidente stradale strano" n. 2 di una serie di almeno tre incidenti stradali di questo tipo. Il primo "strano incidente stradale" a sfondo politico si è verificato sulla strada Brindisi-Taranto all'altezza di Francavilla Fontana, alcuni anni fa nel 1998, quando però già da due anni operava il ministero degli Interni parallelo, finanziato con i fondi neri del Sisde e capeggiato segretamente da Vincenzo Parisi forse anche da Mancino sicuramente da Scalfaro (......."pensavate che io non ero nessuno".........). In questo "strano incidente stradale"" perse tragicamente la vita Salvatore Fitto padre del ministro Raffaele Fitto, allora in fortissimo contrasto con la Sinistra democristiana pugliese, benchè lui stesso appartenesse a questa area politica (il figlio Raffaele infatti si è sempre guardato bene dal collocarsi in quell'area). Salvatore Fitto dopo molti dissidi interni, aveva costituito una giunta regionale dalla quale i demitiani (così si chiamava allora la Sinistra democristiana) erano rimasti fuori. La auto di Salvatore Fitto come anche quella dei genitori della Forleo non rispose all'azione dei freni e si schiantò contro un autocarro che precedeva con una tale violenza che si incendiò. Il secondo "strano incidente stradale" è quello - di cui abbiamo già detto - in cui persero la vita i genitori di Clementina Forleo. Esso avvenne nel 2005. Ma c’è un terzo "strano incidente stradale" che si è verificato sempre in provincia di Brindisi (e precisamente in agro di Fasano) che è quello in cui perse la vita nel maggio 2006 l'ing. Lorenzo Necci. Lorenzo Necci era un profondo conoscitore di segreti della storia d'Italia in quanto era stato il Presidente delle Ferrovie dello Stato ai tempi del discusso appalto per la realizzazione della TAV Roma-Napoli, già oggetto di attenzione del colonnello Mori, del capitano De Donno dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel noto processo denominato mafia-appalti. L'appalto in questione venne affidato con criteri discutibili al consorzio Fiat (Giovanni Agnelli) IRI (Romano Prodi) ed ENI (Gabriele Cagliari). Senonchè Necci è stato anche protagonista di alcune strane vicende di Tangentopoli. In un primo momento egli rimase completamente indenne da qualsiasi inchiesta. Poi improvvisamente fu arrestato e fu imputato contemporaneamente in quarantadue processi sparsi per tutta l'Italia. Infine fu restituito all'onore, ottenendo l'assoluzione con formula piena in tutti i quarantadue processi. Cioè in sostanza, nonostante operasse in un contesto critico, al servizio di partiti critici, Necci era un uomo onesto, ingiustamente e capillarmente perseguitato. Le assoluzioni però non gli valsero il rientro nei minicarichi che contano dai quali egli rimase per sempre emarginato. Ma mai si rassegnò a non conoscere le cause e le ragioni di quell'improvviso, inspiegabile e irreversibile declino. Il reportage di Maurizio Torrealta sulla morte di Lorenzo Necci, per quanto pregevole, non dice tutta la verità. Non dice per esempio che il Magistrato pugliese Giuseppe Giannuzzi, all'epoca Procuratore Capo della Repubblica di Brindisi, lo stesso che sovraintese all'attività del magistrato Alberto Santacatterina in relazione alle (mancate) indagini sul caso Forleo, ricevette alcune lettere anonime che gli segnalavano che Lorenzo Necci veniva spesso in Puglia (per fare indagini personali a seguito della conoscenza del dossier?) e che la sua vita per questo motivo era a rischio. Ma - dicono le fonti ufficiali - Giuseppe Giannuzzi non dette a queste lettere alcuna importanza. Invece la dette e poichè pensava che le lettere le avesse scritte Paolo Cirino Pomicino per metterlo in difficoltà, lo voleva catturare o quanto meno incriminare ("voci";). Pomicino sostiene pure che Necci gli disse che dal dossier si ricavavano elementi per individuare responsabilità in ordine alle stragi del 1992 e/o del 1993 e che l'anonimo interlocutore che assumeva di aver fornito il dossier a Necci, dopo la morte di Necci, lo offrì anche a lui. Inoltre questo anonimo interlocutore, benchè parlasse con accento straniero e precisamente mediorientale, telefonava da un telefonino di un europarlamentare italiano. Ma di questo europarlamentare non si è mai saputa l'identità. Il lettore ben comprenderà che queste dichiarazioni di Pomicino sono a dir poco esplosive. Perchè se le circostanze addotte da Paolo Cirino Pomicino sono vere, il parlamentare europeo in questione potrebbe consegnare lo stesso dossier a chi di competenza invece che a Pomicino, oppure chi di competenza, ossia le Procure di Firenze e di Caltanisetta, potrebbero richiederglielo e trarne spunto per le loro indagini, tuttora in corso. Invece non se ne curano. Anche la ricostruzione che Pomicino fa del suo incontro con Lorenzo Necci, fa acqua da tutte le parti. Certamente Necci si rivolse a lui, convocandolo al Cafè de Paris, dove si trattennero per ben venti minuti, per avere qualche informazione in più in relazione a quelle già contenute nel misterioso dossier. E altrettanto certamente Lorenzo Necci gli fece leggere il dossier, che quindi Pomicino conosce. In un paese normale, in un caso del genere a seguito di queste esplosive dichiarazioni di Pomicino, a seguito delle dichiarazioni ancora più esplosive di Paola Balducci sulla dinamica dell'incidente e sugli stati d'animo di Necci prima che fosse assassinato, a seguito dei pedinamenti, della sparizione degli oggetti, del mistero della borsa di Lorenzo Necci, qualsiasi Pubblico Ministero avrebbe fatto indagini più approfondite e comunque, posto che Lorenzo Necci non attentava alla sicurezza nazionale e quindi il suo omicidio è stato illecito o - comunque - non giustificato da superiori esigenze nazionali, avrebbe contestato all'investitore di Lorenzo Necci, il fasanese Donato Rodio, il quale benchè intonachista era titolare di un Range Rover da 80.000 euro, il reato di omicidio volontario salvo a vedere all'esito dell'istruttoria dibattimentale se degradare l'accusa in quella di semplice omicidio colposo oppure respingerla del tutto perchè è Necci che si è buttato sbadatamente sotto la sua autovettura e non il contrario. Ma - come abbiamo visto - l'Italia non è un paese normale e la Procura della Repubblica di Brindisi è una Procura molto, ma molto particolare. L'auspicio della giovane e ingenua giornalista di Brindisi Report Sonia Gioia (......."il processo chiarirà i retroscena della morte di Lorenzo Necci.......";) è destinato a non avverarsi perchè con l'imputazione iniziale di omicidio colposo non si va da nessuna parte. E non si capisce nemmeno a che cosa sia servito ai familiari di Necci aver fatto acquisire agli atti del dibattimento il libro di Cirino Pomicino. Forse le parti lese sperano che il Pubblico Ministero Antonio Negro faccia nel corso delle udienze una contestazione suppletiva all'imprenditore fasanese Donato Rodio? Sicuramente se gli fossero rivolte queste sollecitazioni il dott. Antonio Negro risponderebbe che a seguito delle rivelazioni di Paolo Cirino Pomicino, la Procura della Repubblica di Brindisi ha fatto tutte le sue minuziose e doverose indagini e non ha ravvisato alcuna ulteriore responsabilità oltre quella per omicidio colposo. Le minacce subite da Necci? Il prelevamento della borsa? La storia del dossier scomparso? Una semplice casualità. Il Pubblico Ministero del processo quindi è ancora una volta lui, il già conosciuto dott. Antonio Negro, più volte indagato e più volte assolto dalla Procura della Repubblica di Potenza (caso Forleo e altre vicende vissute insieme ai soliti Carabinieri della solita provincia di Brindisi. Ora io mi domando: ma come è possibile che capitano tutte a lui, al dott. Antonio Negro certe situazioni? E come è possibile che proprio a lui vengono affidati processi così delicati come quello per la morte di Lorenzo Necci? Ora questo delicato processo, di cui è iniziato il dibattimento solo poco tempo fa, con quattro anni e mezzo di ritardo (l'incidente è del maggio 2006), si svolge quindi in una anonima sede pretorile in mezzo agli ulivi dinanzi il dott. Gianatonio Chiarelli nelle vesti di semplice giudice monocratico (ex Pretore) del Tribunale di Fasano. Il dott. Chiarelli però è un Magistrato molto serio e capace, non fa parte dei "giri", per cui l'unica speranza che si faccia vera chiarezza è riposta nel fatto che alla fine il dott. Chiarelli anzichè emettere sentenza, rimetta lui tutti gli atti alla Procura di Brindisi perchè proceda diversamente e per altri reati, come di giustizia. Paolo Franceschetti autore di un blog molto seguito e molto critico nei confronti dei Servizi segreti, spiega molto bene qual è la funzione dell’incidente stradale quando certi potenti non ritengono opportuno far eliminare la persona scomoda dalla mafia amica. Questo – per la verità – avviene in tutto il mondo. Diana Spencer, la principessa di Inghilterra che stava per partorire un bambino musulmano, è stata assassinata dai Servizi Segreti della Regina che organizzò la scellerata gita sul Britannia chiamando a raccolta tutti i poteri occulti di tutta l'Europa, per mezzo di un incidente stradale. Ma in Italia questa cosa è esasperatamente troppo frequente. Problema: Ma su quali questioni stava indagando Lorenzo Necci? E che cosa voleva sapere da Paolo Cirino Pomicino? Il nome di Lorenzo Necci richiama alla mente quello di Giorgio Paolini, l'agente dei Servizi che ha prelevato la sua borsa dopo la sua morte e - presumibilmente - l'ha svuotata del suo contenuto, restituendo il dossier a chi di competenza. Giorgio Paolini a sua volta richiama alla mente il nome di Enrico Nicoletti, il famoso cassiere della Banda della Magliana. Tutti e due, Paolini e Nicoletti a loro volta richiamano alla mente le vicende legate alla scomparsa per lupara bianca nel 1994 del giudice romano Paolo Adinolfi, Magistrato integerrimo e universalmente stimato. Come ci informa il blog di Salvatore Borsellino 19luglio1992 Paolo Adinolfi, già bistrattato dal Presidente del Tribunale di Roma che gli aveva revocato alcuni incarichi, negli ultimi tempi, stava lavorando come Magistrato della Sezione Fallimentare del Tribunale di Roma ad un'inchiesta molto particolare quella sul fallimento dell'Ambra Assicurazioni. Egli rimase sconvolto da alcune scoperte che aveva fatto (in relazione a responsabilità di suoi colleghi) e forse ne parlò a chi non doveva perchè anche lui, come Necci, si sentiva seguito e spiato. Per liberarsi di questi segreti, Paolo Adinolfi aveva pensato bene di deporre come testimone dinanzi il Magistrato della Procura della Repubblica di Milano Carlo Nocerino il quale allora (parliamo del 1994) già indagava a Milano sul crac dell'«Ambra assicurazioni», società con sede legale a Milano (con lui se ne occupava anche il noto p.m. milanese Francesco Greco). I comproprietari di questa compagnia, al momento del crak, erano il socio e amico di Necci Giorgio Paolini e un misterioso finanziere belga o francese, Georges Bernard Stratmann, poi coinvolto anche nel crak da 200 miliardi di vecchie lire della Cassa di Risparmio di Rieti e in altri affari loschi quali appropriazioni indebite di fondi per il terremoto dell'Irpinia. Particolare importante: Georges Bernard Stratmann era belga o francese e per aver potuto mettere le mani sui fondi dell'Irpinia questo Georges Bernard Stratmann era sicuramente in contatto col senatore Nicola Mancino, l'ex vicepresidente del CSM, altrimenti non vi avrebbe avuto accesso. Per le vicende giudiziarie collegate al dopo terremoto dell'Irpinia Stratmann era stato catturato a Potenza ed era rimasto recluso per tutto il periodo previsto dalla carcerazione preventiva, poi è stato scarcerato. Nemmeno da Internet si sa che fine ha fatto il processo. Nello stesso tempo un altro personaggio a lui vicino Salvatore Tuttolomondo di cui parleremo in seguito faceva analoghe operazioni in Sicilia con la società Sia-sud. Il pentito Francesco Elmo, il quale disse un sacco di scomode verità, anni dopo, dichiarò che il giudice Adinolfi era stato ucciso dalla Banda della Magliana su mandato dei servizi segreti interni (che dunque avevano a che fare qualcosa con questa Ambra Assicurazioni). L'Ambra Assicurazioni inizialmente era una piccola società milanese (73 miliardi di premi cioè di incassi nel '1991) che era stata costituita nel 1983 dalla Sofigea (la finanziaria espressione dell'intero mercato assicurativo italiano, finanziata attraverso un extracaricamento dell'1% su tutte le polizze Rc auto dei venti milioni di automobilisti italiani). L'Ambra aveva rilevato il portafoglio e i dipendenti della Peninsulare e della Unica, due compagnie in liquidazione coatta amministrativa. Nel 1986 la Sofigea aveva ceduto l'Ambra alle Compagnie Riunite di Assicurazione-Cra (un grosso gruppo assicurativo Axa-Midi addirittura operante a livello internazionale). Senonchè dopo appena 4 anni e quindi nel 1990 (anno della morte di Simonetta Cesaroni, segretaria del Sisde, assassinata dal suo fidanzato Raniero Busco), la CRA, violando disposizioni di legge che imponevano la vendita non prima dei cinque anni dal precedente acquisto, aveva deciso inspiegabilmente di vendere la Ambra a una misteriosa finanziaria, la Fiscom di cui era amministratore delegato il truffatore Salvatore Tuttolomondo. Poi dalla Fiscom il 5 giugno '91 (quindi un anno prima delle stragi di Palermo ma l'anno stesso della strage della barberia di Taranto e dell'omicidio di Alberica Filo Della Torre, pubblic relation men del Sisde, assassinata dal suo cameriere Manuel Wiston) ci fu l'ennesimo passaggio di mano: l'Ambra diventa proprietà di Giorgio Paolini e della Gbs Financial & Holdings società del finanziere belga Georges Bernard Stratmann. Il risultato di questo sofferto itinerare dell'Ambra è il ritorno alla situazione di partenza, ovvero ad una disastrata situazione finanziaria: "Gravi irregolarità nell' amministrazione - si legge nella relazione dell'Isvapl - nonché violazione di norme legali e persistente inosservanza delle disposizioni impartite dall' autorità preposta alla vigilanza". In pratica l'Ambra è stata saccheggiata. Ma questa volta, a differenza di tutti gli altri casi di dissesti aziendali, le disavventure dell'Ambra non sono addebitabili solamente all' incapacità di inesperti amministratori o di banditeschi azionisti. Il dito è puntato anche contro la compagnia cedente che è la Cra, controllata - come abbiamo detto - da uno dei maggiori gruppi internazionali di assicurazioni (ebreo?). La CRA ha ceduto l'Ambra senza accertarsi dell'affidabilità dei nuovi azionisti. E così sono andati in fumo tutti i miliardi spesi dalla Sofigea per rimettere l'Ambra in carreggiata. Qualche anno più tardi del caso Ambra parlò anche il collaboratore di giustizia Michele Di Ciommo. Michele Di Ciommo, fin dal 1979, era stato il notaio di Enrico Nicoletti, il cassiere della Banda della Magliana ed era anche un agente dei Servizi Segreti, ivi introdotto fin dai tempi antichi dal presidente della repubblica Giovanni Leone. Di Ciommo parlò di presunte complicita' eccellenti nel crac da 130 miliardi della Ambra assicurazioni, complicità che - secondo lui - coinvolgevano anche due Magistrati del Tribunale di Roma (i giudici Catenacci e Pelaggi n.d.r.) e finivano con l'intrecciarsi con le indagini sulla finanza nera, che anni prima aveva assassinato i giudici Mario Amato e Vittorio Occorsio. Che cosa ha voluto dirci Michele Di Ciommo? Che con il denaro dell'Ambra Assicurazioni si era autofinanziata quell'estrema destra neofascista che compare anche nelle stragi del luglio 1993 e che arrivò finanche a minacciare un colpo di stato di Destra a seguito della nomina il 30 aprile 1993 del pidiessino Carlo Azeglio Ciampi a presidente del Consiglio dei Ministri? Secondo Elmo, Adinolfi fu ucciso dalla banda della Magliana, l' "agenzia criminale" romana al crocevia tra mafia, affari, politica e terrorismo. Elmo raccontò di aver visto il magistrato Paolo Adinolfi poco prima della sua scomparsa in un albergo di Roma insieme a due persone, e poi di aver riconosciuto quei due accompagnatori del giudice in un agente segreto e in un affiliato alla gang romana grazie alle informazioni che gli aveva fornito Mario Ferraro, un colonnello del SISMI fedelissimo di Bettino Craxi. Mario Ferraro pochi mesi dopo fu trovato «suicidato» in casa tramite impiccagione a un termosifone. Un modo molto strano di suicidarsi, ammesso che si sia suicidato. La storia di Paolo Adinolfi (1994) che voleva deporre come teste dinanzi il Giudice Carlo Nocerino ricorda quindi molto da vicino quella di Paolo Borsellino, il quale, anche lui, due anni prima (1992) poco prima di essere assassinato, voleva deporre come testimone dinanzi il Procuratore della repubblica di Caltanisetta Salvatore Celesti, su circostanze che afferivano alla strage di Capaci. Anche lui Borsellino non ci riuscì perchè fu ammazzato. Domanda: anche le deposizioni di Borsellino come quelle di Adinolfi contenevano indicazioni esplosive? Anche lui come Adinolfi voleva deporre contro Magistrati? Voleva deporre contro quel Francesco Di Maggio vicino a Rosario Cataffi, il fornitore del telecomando che servì per eseguire la strage? Non lo sappiamo. Ma del fallimento dell'Ambra sappiamo ancora qualcosa in più perchè di esso parlò anche un secondo collaboratore di giustizia, l'amministratore delegato della Fiscom Salvatore Tuttolomondo. Fiscom - lo ricordiamo - era la finanzaria che acquistò l'Ambra Assicurazioni per poi ricederla a Giorgio Paolini e a Georges Bernard Stratmann, il misterioso finanziere belga. "Il fallimento della Fiscom fu dichiarato proprio dal giudice Adinolfi", cioè dal magistrato che sparì nel nulla dopo aver chiesto al p.m. milanese Carlo Nocerino un colloquio sul fallimento dell'Ambra. Sia Di Ciommo che Tuttolomondo quindi parlano della stesa inchiesta di cui si stava occupando Adinolfi: il fallimento della Ambra Assicurazioni nonchè di quello - collegato - della Fiscom nonchè di quello ancora più misterioso e a monte, della Cassa di Risparmio di Rieti. Già perchè i sodi per acquistare l'Ambra (16 miliardi di vecchie lire) la Fiscom in realtà non ce li aveva e li aveva ottenuti in prestito dalla Cassa di Risparmio di Rieti senza prestare alcuna garanzia. La Cassa di Risparmio di Rieti fece un "buco" stimato da alcuni in 120 miliardi di vecchie lire, ma che secondo altri sarebbe arrivato addirittura vicino ai 200 miliardi di vecchie lire: e ciò per una serie di strani prestiti miliardari tutti non garantiti e tutti mai restituiti. I giudici romani - stranamente - processarono solo il direttore della filiale tal Di Pietro e mai i dirigenti nazionali. Tra questi "prestiti dello scandalo" troviamo un grosso prestito erogato anche a una società napoletana la Cima. Chi erano i soci della Cima? Era questo l'interesse che aveva animato Lorenzo Necci e lo aveva spinto a parlare con Paolo Cirino Pomicino? Un altro grosso prestito senza garanzie (16 miliardi di vecchie lire) fu erogato - come detto - dalla Cassa di Risparmio di Rieti alla Fiscom appunto per consentirle di acquistare la maggioranza dell'Ambra Assicurazioni. E ciò - ripeto - con tanto di accredito della Direzione nazionale. In seguito, però la Fiscom cedette l'Ambra a Giorgio Paolini e alla Gbs Financial Holding, società varesina del finanziere belga Georges Bernard Stratmann, girandiogli anche gli oneri del prestito. Ma poi l'Ambra è stata liquidata e alla Cassa di risparmio di Rieti è rimasto in sospeso il credito di firma per fidejussione di 10,6 miliardi sui 16 totali concessi alla Fiscom (poi passati alla Gbs). Ma chi era allora questo misterioso finanziere belga-francese Georges Bernard Stratmann? E che fine ha fatto tutto il denaro prestato alla società napoletana Cima e quello che c'era (73 miliardi di premi) nelle casse dell'Ambra? E tutto il resto del denaro prestato senza garanzia dalla banca di Risparmio di Rieti? Certamente se noi facciamo depredare le nostre assicurazioni, le nostre banche, i fondi dello Stato destinati alle ricostruzioni post-terremoto da misteriosi finanzieri belgi o francesi non ci dobbiamo meravigliare poi se Lacatalis rileva Parmalat, Ayr France rileva Alitalia e BNP Parisbas rileva BNL. Se poi i nostri servizi segreti anzichè assassinare Georges Bernard Stratmann, uccidono Paolo Adinolfi, Mario Ferraro e Lorenzo Necci allora la frittata è totale e una parte della nostra finanza e dei nostri servizi segreti è d'accordo con un parte della Finanza francese e dei Servizi Segreti francesi. Quindi il dossier che possedeva Necci lo ha fornito a lui il Servizio Segreto belga (e forse questa è la ragione per cui si trovava anche in mano a un parlamentare europeo se è vero che era in mano a lui) ed esso probabilmente riguardava questo strano personaggio amico di Nicola Mancino, Georges Bernard Stratmann, di cui non si riescono a rintracciare informazioni nemmeno nella Rete. Però se il dossier di cui era venuto in possesso Lorenzo Necci si riferiva anche alle stragi e Necci veniva spesso in Puglia per approfondire le informazioni di questo dossier, allora c'è da chiedersi: in che modo la storia delle stragi del 1992 e/o del 1993 è passata anche attraverso la Puglia? E ancora: l'ordine di assassinare Necci è partito dalla centrale dei poteri occulti della Puglia o questa centrale occulta ha eseguito solo un ordine della centrale nazionale? Sembrerebbe più valida la prima ipotesi perchè se fosse vera la seconda, Paolini si sarebbe già trovato in vacanza a Fasano, al momento del decesso di Necci, invece di venire precipitosamente da Frosinone e rischiare di non trovare più niente. In questo caso l'omicidio di Necci probabilmente è stato accelerato da un qualcosa di irreversibile che stava per succedere. Oppure Paolini era già in zona. Ma qual'è questo eterno segreto che non si può dire e di cui erano entrati in possesso disgraziatamente Paolo Adinolfi, Mario Ferraro e Lorenzo Necci? Era per caso il fatto che le stragi e Tangentopoli sono state tutta una farsa per destabilizzare e indebolire l'economia del nostro paese in modo che Ayr France potesse un giorno acquistare più facilmente Alitalia e Ayt One, in modo che il gruppo BNP Paribas potesse un giorno acquistare più facilmente BNL, in modo che Lactalis potesse un giorno acquistare più facilmente Galbani, Locatelli, Invernizzi e Parmalat? Ed è un caso che l'imprenditore Paolo Ferrero sia morto giovanissimo proprio lo stesso giorno in cui la famiglia Ferrero voleva presentare una propria proposta di acquisto per la Parmalat? Per quanto tempo ancora ci dobbiamo far mettere i piedi in faccia in questa maniera? Per quanto tempo ancora dobbiamo sopportare che la corruzione dei démoni favorisca questa nostra lenta e progressiva auto-distruzione?

Il giudice Giuseppe Tommasino fu accusato ingiustamente. Il 25 febbraio 2009 ripresa dal sito L'Occidentale, pubblicai questa notizia, da allora sono accadute molte cose di cui ne dà conto l'avv.Michele Imperio in un lungo articolo che pubblichiamo di seguito. C'è da dire che di questa vicenda se ne erano perse le tracce e grazie ad una lettera di un legale che mi invita a pubblicare quanto segue, torno su questo argomento e ognuno dei lettori ne trarrà le considerazioni che crede. Ecco il lungo articolo dello scorso 2 maggio e buona lettura, scrive Lilli d'Amicis su "Tutto il resto è noia". In Puglia è in corso in questo momento un conflitto molto aspro fra partito trasversale degli onesti e sistema dalemiano di potere, cioè quel sistema che si è fatto conoscere attraverso le vicende dell’ex vicepresidente della regione Puglia Sandro Frisullo (P.D.), arrestato in carcere, dell'ex assessore alla Sanità ora senatore Alberto Tedesco (P.D.) in attesa di essere messo agli arresti domiciliari, se il Senato darà l'autorizzazione e dell’imprenditore faccendiere Giampaolo Tarantini (P.D. e U.D.C.), messo anche lui agli arresti domiciliari a vita, un sistema di intrecci fra affari-sanità-politica, che va dallo spaccio della droga al favoreggiamento della prostituzione, dalla gestione illegale degli appalti pubblici, alla gestione illegale delle nomine dei primari ospedalieri, il tutto con un ritorno economico e elettorale per alcuni esponenti politici del P.D. (corrente di D'Alema). Dico alcuni perchè, per la verità, non tutto il P.D. pugliese è a favore di questo sistema di potere. Anzi ora che il sistema è emerso, una parte del partito, una volta succube, manifesta con più chiarezza la propria contrarietà. Si tratta di quella parte del Partito Democratico che guarda con simpatia e con speranza alle posizioni del sindaco di Bari Michele Emiliano. Il lettore di questo post può rendersi conto personalmente di questo conflitto leggendo la lettera che il sindaco Michele Emilano ha scritto recentemente al segretario regionale del P.D. Sergio Blasi, a proposito del caso del consigliere regionale dello stesso P.D. Michele Mazzarano, chiamato in causa nello scandalo della Sanità pugliese da Giampaolo Tarantini e tuttavia restio a lasciare le proprie poltrone e i propri incarichi. Tra i Magistrati il partito di Emiliano registrerà adesioni? La storia che sto per raccontare dimostra come il sistema dalemiano di potere ha fatto breccia nei Magistrati pugliesi di M.D. perché esso prevede una scientifica tutela della loro eventuale compartecipazione al sistema stesso con l’innesto addirittura di un programma di protezione ogniqualvolta un altro magistrato o un avvocato o chiunque sia, attacchi le posizioni del sistema o comunque si sforzi di dare alla Giustizia un minimo di imparzialità, di serietà e di trasparenza. Premetto che il lettore meno informato deve sapere che in ogni Tribunale ci sono tre posti di comando: il Presidente del Tribunale, il Procuratore Capo della Repubblica e un po’ meno il presidente della sezione dei giudici delle indagini preliminari. Questo ultimo posto direttivo nell’anno di grazia 2005 nel Tribunale di Taranto era occupato dal Giudice Giuseppe Tommasino, un Magistrato originario della provincia (Manduria), persona molto per bene, discendente a sua volta di persone per bene, il padre uno stimato funzionario del ministero della P.I., la madre una professoressa, lui stesso un Magistrato benvoluto da tutti, apprezzato, gran lavoratore (sotto la sua guida l’Ufficio G.I.P. aveva azzerato tutto l’arretrato), estensore di sentenze in cui non si rinvengono nè assoluzioni facili nè impeti giustizialisti. Insomma un giudice giusto, che faceva processi giusti, precisazione questa che dovrebbe essere pleonastica, perché un processo non dovrebbe essere che un processo giusto. E che invece pleonastica non è, tant'è che lo stesso legislatore di Sinistra (proprio D’Alema! si è dovuto affannare in passato per raffreddare i bollenti spiriti di alcuni Magistrati di M.D. e quindi garantire che il processo, se pure gestito da magistrati di M.D., sia comunque un processo giusto. Ora però il giudice Giuseppe Tommasino aveva un difetto: non aveva caratterizzazioni politiche. O meglio, non le aveva sul posto di lavoro dove per due volte aveva rinviato a giudizio il sindaco di Forza Italia del posto Rosanna Di Bello e anche esponenti politici di centro e di sinistra. Ma al di là e al di fuori del posto lavoro, Tommasino poteva considerarsi un moderato, era stato tanti anni prima candidato al Parlamento per il Patto Segni, una formazione moderata, suo fratello Paolo è attualmente sindaco per il PDL a Manduria, insomma si capisce che è un moderato. Il Tribunale di Taranto, come tanti uffici giudiziari, era, e forse è tuttora, avvilito dai problemi della fuga di notizie sui processi e, in particolare, dai problemi delle fughe di notizie sui mandati di cattura. Dal 1992 in poi, cioè dall’inizio dell’era giustizialista (prima se lo veniva a sapere il CSM erano dolori amari) più di qualche indagato, nell’intermezzo fra la richiesta del P.M. e la decisione del G.I.P. si vedeva arrivare questa telefonata: “Pronto? Ah! caro dottore! sono il maresciallo Tal dei Tali …………..scusi se la disturbo …sa…. ma volevo dirle che la Procura ha richiesto un mandato di cattura contro di lei ………… sa ……….per quella vicenda…………..se ne occupa il dottor Tizio o Caio …………….……….noi……se vuole….., dottore….., siamo a disposizione…………. ……………………… ………….” E dall’altra parte del filo: “ah, grazie, grazie maresciallo!………………si, si, incontriamoci!………….” Per tre volte Tommasino era venuto a conoscenza di questi fatti gravissimi, di questa fuga di notizia e per tre volte aveva sporto (ahimè;)regolare denuncia alla Procura della Repubblica, cosa che non aveva fatto di certo piacere a più di qualcuno. Perché queste denunce su queste fughe di notizie comportano varie conseguenze negative: prima di tutto il tentativo di “aggiustamento” del mandato di cattura fallisce o comunque viene disturbato. In secondo luogo la denuncia attiva un’istruttoria scomoda e imbarazzante. Perché il P.M. incaricato è costretto, per forza di cose, a sospettare di addetti ai lavori, di funzionari di polizia, di carabinieri, di militari della guardia di finanza e soprattutto di colleghi Magistrati. E quindi inevitabilmente l'indagine produce accuse, sospetti, veleni, fango su questi soggetti. Ora però – tutti pensano - per come funziona la Giustizia in Italia, che cosa può cambiare se qualche mandato di cattura viene "aggiustato"? Alla fin fine anche i Marescialli e i Magistrati devono campare! O no? ........Ma sì, ma che si faccia i fatti suoi questo Tommasino! Ma che non rompa i c…………! .........Ma insomma!!!!!! Ma che cosa vuole!!!!! Tutto comunque fila liscio e senza danni per il giudice Tommasino, fino a quando, un giorno avviene che tra questi destinatari di mandati di cattura, messi preventivamente a conoscenza del provvedimento giudiziario, capita un certo Cosimo Tomaselli, un imprenditore di Fragagnano (quindi non di Manduria, come pure si è detto, che è il comune di residenza di Tommasino). Tomaselli è imparentato con un ex parlamentare del P.D., tale on.le Ugo Malagnino, uno che ha partecipato alla nota cena del ristorante "La Pignata" di Bari, una cena fatta di commensali che se un Magistrato li avesse arrestati tutti, sicuramente non avrebbe sbagliato. Tomaselli è quindi un “Dalema’s boy”, così li chiamano, ma - per carità! - non per questo (il lettore ci comprenda) aveva importanti commesse da alcuni Ospedali. Li aveva - ovviamente - per la sua professionalità. Il P.M. di Taranto A.C. ipotizza a carico di Tomaselli il solito reato di sanitopoli (vendeva, secondo l'originaria accusa, attrezzature sanitarie usate spacciandole per nuove, poi in Corte di Appello è stato assolto) e chiede al g.i.p. Michele Ancona (M.D.) l’emissione di un mandato di cattura nella forma più restrittiva, più severa e più invasiva che è il carcere. Quindi ricapitoliamo: Tommasino e Tomaselli non sono della stessa città, non sono della stessa area politica, non sono amici, nemmeno si conoscono. Eppure ad un certo punto Tommasino diviene, per la accusa rappresentata da magistrati di M.D., autore della soffiata. Le cose vanno così: Una mattina si presenta nell’ufficio del giudice Tommasino l’avvocato E.A., il difensore di Cosimo Tomaselli e chiede che lui, Magistrato presidente dei G.I.P., fissi una riunione col g.i.p. assegnatario della richiesta del mandato di cattura. Vuole che lo convinca a non emettere la misura detentiva a carico di Tomaselli, il quale è disperato e - naturalmente - innocente. Il giudice rimane basito e chiede: “ma come ha fatto Tomaselli a sapere in anticipo della richiesta di un mandato di cattura?” A questa domanda l’avvocato risponde: "la notizia gli è stata propalata da militari della Guardia di Finanza". Dunque un’altra fuga di notizie! Un altro clamoroso buco nella correttezza dell'azione giudiziaria! Tommasino vuole vederci chiaro, vuole accertarsi di come stiano realmente le cose. Lui che non è pratico di informatica e che è il Presidente dei G.I.P., quindi titolato per Legge a conoscere di tutte le richieste che pervengono all'Ufficio, chiede alla cancelliera di consultare il computer per accertarsi che ci sia effettivamente un procedimento e una richiesta di custodia cautelare a carico di Tomaselli. Dopo qualche giorno l’imprenditore Cosimo Tomaselli viene effettivamente arrestato però non più in carcere, bensì con le modalità degli arresti domiciliari. Anche questa volta la fuga di notizie – forse - ha parzialmente smorzato il progetto. Tommasino riferisce al Procuratore l’ennesima fuga di notizie di cui era venuto a conoscenza. Il Procuratore Capo della Repubblica apre un procedimento penale a carico della cancelliera del dott. Tommasino. E perchè il Procuratore Capo ha assunto questa iniziativa? Perché emerge dalle sue indagini che la cancelliera aveva effettuato gli accessi relativi al procedimento a carico di Tomaselli. Successivamente però la posizione della cancelliera viene archiviata perché Tommasino riferisce al Procuratore Capo di aver dato lui quella disposizione. Ma un altro G.I.P. pensa bene, allora, di rimettere alla valutazione della Procura della Repubblica di Potenza la posizione di Tommasino che, così, da accusatore diventa accusato! Assurdo! La vicenda assume col tempo contorni grotteschi: la pratica finisce nelle mani di un P.M. di M.D. di Potenza Cristina Correale (MD) e va soggetta allo stesso fenomeno della palla di neve che diventa valanga. Cristina Correale (M.D.) non solo continua a indagare il giudice Tommasino per la fuga di notizie, rimanendo insensibile a qualunque richiesta di approfondimento del Magistrato (il quale giunge persino ad indicare il nome e il cognome del maresciallo della G.d.F. che aveva informato Tomaselli), ma poiché alla attenzione di questo Magistrato era stata mandata anche una posizione del Procuratore Capo della Repubblica di Taranto A.P. (quello che aveva archiviato il processo a carico della cancelliera e che giustamente non aveva indagato Tommasino) pensa bene di collegare le due vicende. E quindi ecco il cervellotico teorema: Il Procuratore Capo non aveva indagato Tommasino (e perché lo avrebbe dovuto fare?) e Tommasino, a sua volta, lo avrebbe ricambiato, assolvendo il marito separato (un maresciallo di Marina) di una amica del Procuratore Capo e archiviando anche la posizione del sindaco di Martina, altro amico dello stesso Procuratore. Questo ultimo fatto però era avvenuto tre anni prima, sicchè Tommasino - secondo l'accusa - aveva poteri sovrannaturali che gli consentivano di prevedere, con tre anni di anticipo, che egli avrebbe avuto bisogno un giorno della pietà del Procuratore! Ma c’è di più! Il P.M. Cristina Correale dava per scontato che tra Tommasino e il Procuratore Capo A.P. c’erano buoni rapporti. Invece anche le pietre del palazzo sapevano che i rapporti fra i due, al di là delle necessarie interlocuzioni istituzionali, erano pessimi. Nessuno sapeva poi di questa relazione segreta del Procuratore Capo con la moglie separata di un maresciallo di Marina, per giunta imputato, perché - per ovvie ragioni che tutti possono immaginare - il Procuratore Capo la teneva gelosamente riservata. Ma che colpo di genio! Certo che occorre avere una fantasia fuori dal comune per ipotizzare accuse come queste! E quindi – ecco dove scatta il progetto di protezione - si muove una accusa infondata di corruzione giudiziaria al giudice Giuseppe Tommasino allo scopo di far allontanare per sempre dal Tribunale di Taranto questo Magistrato scomodo, non omologato, rompicoglioni, classificabile nell’area ostile del centro-destra, il quale - pensate un pò - con queste credenziali, si permetteva pure di fare denunce penali contro gli addetti del Palazzo !!!!!!!! Ma guarda tu !!!!!!!!!! Ricevuto l’avviso di garanzia e quindi messo per la prima volta a conoscenza delle accuse, Tommasino ovviamente va a verificare nel proprio computer la sentenza da lui emessa contro questo imputato a lui sconosciuto (il maresciallo di marina) e scopre che le sentenze a suo carico sono due, una effettivamente di proscioglimento, ma l’altra di condanna (!!!!) a distanza di due mesi l’una dall’altra. E quanto alla archiviazione del sindaco di Martina Franca, a parte che era di tre anni prima, si sa benissimo nell’ambiente giudiziario che, se non vi è sollecitazione della parte lesa, le centinaia di richieste di archiviazione dei P.M. che provengono ai G.I.P. si trasformano, nel 99% dei casi, in provvedimenti di archiviazione. Naturalmente i media tarantini e persino quelli nazionali, ai quali una sapiente regia comunica la notizia, impostano i loro articoli in modo completamente fuorviante e distorto gettando sul giudice Tommasino tonnellate di fango! Toghe sporche sullo Jonio!!!! titola a caratteri cubitali e a cinque colonne il quotidiano "Repubblica", l'immancabile in certe occasioni. A questo punto Tommasino pensa bene di trasformarsi da g.i.p. in detective e fa lui le vere indagini che nessuno ha voluto fare e come si sarebbero invece fatte nella Prima Repubblica. Contatta un dipendente dell’imprenditore Tomaselli e registra su un nastro la conversazione. Nel corso della conversazione il dipendente gli dice che sì, che Tomaselli effettivamente aveva saputo da militari della Guardia di Finanza di questo mandato di cattura, fa il nome e cognome del militare in questione, in un primo tempo si era preoccupato, ma poi - dopo - si era rasserenato perchè aveva trovato la strada giusta: la strada del fratello di un Magistrato, ma non un Magistrato asettico e di centro-destra come Tommasino, bensì un Magistrato di M.D. e per giunta protetto dagli alti livelli delle organizzazioni correntizie e associative della Magistratura. Pensate voi che queste prove offerte al giudice appulo-lucano Cristina Correale (M.D.) erano sufficienti per vedere almeno archiviare il caso del giudice Giuseppe Tommasino? Ma nemmeno per sogno! Anzi! Quelle ulteriori accuse erano una dimostrazione in più che Tommasino (il rompic.....) voleva infierire sugli addetti del palazzo e quindi una ragione altra per infierire ulteriormente su di lui !!!!!!!!!!!! Tommasino deve affrontare quindi l’udienza preliminare. Ma qui evidentemente - e per fortuna - l'influenza sui processi di M.D. cessa e quindi arriva finalmente la piena assoluzione. Assoluzione che vien data - attenzione! - su conforme richiesta del P.M. di udienza, un Magistrato serio, il quale sbianca in volto quando legge quel processo. Sui giornali e sui blog però non più titoli cubitali a cinque colonne ma solo due fredde righe di rettifica. Le accuse a carico del giudice Tommasino si sono dimostrate (sic!) completamente infondate, recita mestamente un blog della Rete. Ma c'è un Magistrato il quale è il vero responsabile della fuga di notizie. A lui però non è successo nulla perché lui si è dimostrato un soggetto disposto a partecipare a congiure e complotti, è iscritto alle corporazioni della Magistratura e per questo è un intoccabile, insomma è uno che potrebbe far parte, un domani, del “gioco grande”. Ricordate il "gioco grande" di Giovanni Falcone? Era quel gioco sporco, perverso e criminale che coinvolgeva alcuni uomini politici, alcuni funzionari dello Stato e soprattutto alcuni Magistrati (Francesco Di Maggio di M.D. tanto per non fare nomi, ma non solo lui). ..……..Speriamo che qualcuno non stia pensando di riattivarlo questo gioco grande….…………….il corvo è comparso di nuovo ............però non più a Palermo......ma a Bari .......contro un Magistrato che ha scoperchiato un certo sistema di potere, non più nascente ma nato e cresciuto...............Alla prossima. 

Nel 1995 venne eletto presidente della Regione Puglia il prof. Salvatore Di Staso, continua Michele Imperio, un professore universitario di Statistica, il quale capeggiava una coalizione di centrodestra formata da Forza Italia, AN, CCD e alleati minori. Di Staso nominò come presidente della Commissione Sanità il prof. William Uzzi, primario ortopedico dell’Ospedale di Taranto, professionista prestato alla politica, quindi non politico. In questa sua veste il prof. William Uzzi doveva controllare tutte le delibere con la quali la regione Puglia disponeva l’acquisto di apparecchiature sanitarie per le varie ASL. Uzzi ben presto si accorse che circa il 90% di queste delibere erano taroccate nel senso che o l’apparecchiatura veniva pagata dalla Regione Puglia dieci volte di più rispetto al suo valore reale, oppure l’Asl aveva bisogno di una sola apparecchiatura e invece inspiegabilmente ne acquistava dieci. Classica tecnica di una nazione che, non a caso, ha accumulato il terzo debito pubblico del mondo. Indignato e scandalizzato da questa scoperta, William Uzzi decise di andare a parlarne con il presidente Di Staso. Senonchè appena avviò il discorso il presidente Di Staso gli impose di tacere facendogli un cenno per fargli capire che l’ambiente era contaminato da cimici lì poste – evidentemente - dalla Magistratura. Gli diede appuntamento l’indomani a casa sua e gli spiegò che quel sistema si doveva per forza accettare. Non c’era modo (dopo le stragi del 1992 n.d.r.) di fare diversamente. Cito questo episodio prima di tutto per dire che lo scandalo della sanità della Rgione Puglia è cosa di vecchia data, conosciuto e nello stesso tempo ignorato dalla Magistratura da illo tempore. Esso secondo le indagini andava avanti per lo meno dall'anno 2000. In realtà andava avanti, da molto tempo prima, per lo meno dal 1995. E sicuramente prima del 1992 la situazione era più regolare. Ma mai prima del 2009, quando Procuratore capo della Repubblica di Bari è stato nominato un grande Magistrato, il dott. Antonio Laudati, la Magistratura barese, benché indagasse attraverso intercettazioni ambientali, intercettazioni telefoniche e altri mezzi istruttori particolarmente penetranti, non ha mai fatto emergere questo bubbone, nonostante che a un certo punto le spese per la sanità della Regione Puglia fossero arrivate ad assorbire addirittura l’84% di tutte le risorse regionali, una percentuale di spesa che mai, dico mai, si è registrata in alcuna regione italiana in alcun momento storico, nemmeno in Calabria o in Sicilia. Nel mondo. E cito questo episodio anche per pormi alcune domande: C’è stato per caso un accordo politico fra Magistratura e Potere Regionale nella Regione Puglia fino al 2009 quando l’arrivo del dott. Laudati ha incenerito un certo sistema di potere? Oppure il Potere Politico – per quello che si dicevano Di Staso a Uzzi - è stato per caso fino al 2009 ricattato da una parte della Magistratura? Ora è bene che preliminarmente ci chiariamo su un punto, su che cosa sia stato per tanti anni questo scandalo sanitario della Regione Puglia. Perché esso non è stato soltanto una sorta di favoritismo sistematico in direzione di alcune aziende dei sig.ri Tarantini o dei figli del sig. Tedesco, le imprese dei quali monopolizzavano il mercato delle forniture ospedaliere e versavano tangenti a uno o più partiti e a singoli esponenti politici. Lo scandalo sanitario della Regione Puglia è stato molto di più. E’ stato un sistema di potere criminale e perverso che intaccava ogni singolo aspetto del funzionamento della Sanità. La cosa più turpe è che questo sistema condizionava anche la nomina dei primari ospedalieri dei vari ospedali di Puglia, i quali non venivano più scelti da tempo in base alla loro propensione di saper curare i malati, ma in base alla loro disponibilità di acquistare apparecchiature sanitarie da questo o da quello. Attraverso trame, intrighi, complotti, falsificazioni e manipolazioni varie una certa parte della classe politica (un po’ di destra e un po’ di sinistra per la verità;) riusciva a nominare primario del reparto quello che era più vicino a una certa corrente politica, il quale obliterava a volte nei titoli, anche in modo clamoroso, perfino criteri di anzianità nel senso che in qualche caso veniva nominato primario il medico più giovane e meno esperto e non quello più anziano o comunque più professionale. In più di un caso la nomina del primario era addirittura suggerita o concordata con alcuni capi di logge massoniche. In Puglia, se si vanno a spulciare le liste degli iscritti delle logge massoniche, si appurerà che le presenze di medici sono preponderanti e anzi c’è una vera e propria corsa dei medici le logge massoniche. Ho conosciuto personalmente, quand’erano in vita, persone che poi sono morte perché il primario, nominato dalla loggia massonica, ha scambiato il tumore con la polmonite. Del resto è notorio che c’è una fuga di pazienti dagli ospedali meridionali verso quelli settentrionali quando c’è da curare un male serio. Ma da chi era composta questa cupola o queste cupole che gestivano in modo così perverso e odioso, e non da oggi, la sanità pugliese? Noi questo non lo sappiamo. Però nel 2008 alcuni membri di una di queste cupole decisero di riunirsi in un noto ristorante di Bari chiamato "La Pignata", per offrire una cena al noto esponente del P.D. nazionale on.le Massimo D’Alema. L'intento di questa cena era quello di parlare con lui per vedere come rafforzare e estendere in altri campi il loro sistema di potere. Ma – deludendoli - Massimo D’Alema in quella cena non ne parlò. Perché alla cena si rifiutò di partecipare il capo di un'altra cupola collegata alla Sanità, l’esimio assessore regionale alla sanità pugliese il sen. Alberto Tedesco, al quale però, tramite il sindaco Michele Emiliano, presente all'incontro, D’Alema volle mandare un chiaro messaggio in chiave politica. Lea Cosentino (direttore generale dell’Asl di Bari e n.d.r.) chiama Alberto Tedesco per raccontare della cena e dice: “Ieri a questa cena c’erano tutti (…) tutto l’universo Alberto! (…)”. “D’Alema ha detto ‘io non parlo della sanità regionale senza gli amministratori regionali, l’assessore regionale che mi sembra una persona intelligente, capace (…). D’Alema “ha fatto il discorso eee…(…) ha detto (D’Alema, ndr) ‘io posso prevedere quello che succede a Lecce, quello che succede a Brindisi, quello che succede a Foggia, ma Bari è il nostro banco di prova, per la Puglia e per l’Italia e guardando dritto Michele Emiliano (…) che stava seduto di fronte”. Anche il sindaco Michele Emiliano, persona per bene (tengo a precisarlo), era alla cena, ma vi partecipò a forza, attraverso un tranello che egli stesso spiegò più in là ai Magistrati: "Fui convocato per la cena di Gianpi Tarantini alla Pignata, all’ultimo momento proprio perchè Massimo D’Alema era in ritardo ed io dovevo attendere i presenti in attesa del suo arrivo”. “Ma quando il soggetto, che non conoscevo fisicamente, mi si presentò come Gianpaolo Tarantini l’unico pensiero che mi rimase in testa è stato quello di aspettare Massimo D’Alema, di consentire a D’Alema di salutare gli ospiti e poi di portarlo via alla velocità della luce, perchè la presenza di D’Alema alla tavola di una persona come quella di Gianpaolo Tarantini era del tutto inopportuna. Aspettai quindi D’Alema e lo portai subito via per evitare che potesse rimanere coinvolto da condotte “leggere” di altri dirigenti del Pd”. Michele Emiliano disse una piccola bugia. In realtà egli aspettò D’Alema, cercò effettivamente di dissuaderlo dal partecipare alla ma non ci riuscì e ne rimase imprigionato. Anzi fu destinatario di un messaggio politico per l’assessore Alberto Tedesco, il quale – perfino lui! – a quella cena non vole - giustamente - partecipare. Fu Giampaolo Trantini a riferire che il sindaco di Bari Michele Emiliano non rimase solo “10 minuti”, ma arrivò puntualissimo alla cena ed andò via per ultimo. Questo risulta da uno stralcio dell’interrogatorio di Tarantini del 4 settembre 2009.

Pm Digeronimo: “Come è nata questa cosa del finanziamento della cena?”

Tarantini: “..........eravamo in campagna elettorale, noi volevamo organizzare questa cena con tutti i direttori generali ed i primari, i più grossi primari della Puglia”.

Capitano Cataneo: “Si riferisce, scusi, alla cena organizzata al ristorante La Pignata?”

Tarantini: “Sì, al Ristorante La Pignata, con l’aiuto di Michele Mazzarano, allora coordinatore regionale del PD o dei DS era, ché il Pd non c’era ancora forse, decidemmo di organizzare questa cena elettorale ed io chiesi a Roberto De Santis la presenza di Massimo D’Alema, il quale partecipò a tutta la cena, sia lui che il Dottor Michele Emiliano, a differenza di quanto scritto sui giornali che è stato solo 10 minuti”.

Pm Digeronimo: “Sappiamo tutto di quella cena”.

Tarantini: “No, siccome ha scritto il Dottor Emiliano…”

Pm Digeronimo: “No, non si preoccupi”.

Tarantini: “…gratuitamente che lui, come mi vide, raggelò”.

Pm Digeronimo: “Ma lei l’aveva mai conosciuto il Dottor Emiliano?”

Tarantini: “Mai, purtroppo no”.

Pm Digeronimo: “Ha avuto mai rapporti con lui?”

Tarantini: “No, anzi, vorrei conoscerlo”.

Pm Digeronimo: “Non ha mai avuto rapporti con lui?”

Tarantini: “No.”

Pm Digeronimo: “Quella sera a quella cena possiamo dire che c’era tutto il management della sanità regionale?”

Tarantini: “Sì”.

Pm Digeronimo: Possiamo dire che D’Alema, Emiliano sono stati tutta la sera là?

Tarantini: “Esattamente tutta la sera, anzi, il Ministro Onorevole D’Alema arrivò, credo, intorno alle undici, invece il Dottor Michele Emiliano arrivò puntualissimo alla cena ed andò via per ultimo, stette tutta la cena, credo che siano testimoni quasi 35 persone”.

“A quella cena – scrive Barisera - c’erano tutte persone vicine al presidente Massimo D’Alema. C’era Roberto De Santis, imprenditore molto vicino a D’Alema, nonché amico intimo di Tarantini. Poi c’era Michele Mazzarano, vice segretario regionale del Partito Democratico e Ugo Malagnino, tutti fedelissimi di Massimo D'Alema. Di seguito, le intercettazioni del primo aprile 2008 che provano, quanto meno, che D’Alema era perfettamente a conoscenza, che la cena era organizzata da Giampaolo Tarantini.

Tedesco: “Sta cosa l’ha organizzata, mi ha richiamato adesso adesso il vice segretario regionale del Pd tale Michele Mazzarano, sta cosa l’ha organizzata Roberto De Santis con Giampaolo Tarantini (…) Allora voi volete avere i rapporti, che cazzo volete avere con i Tarantini, li abbiate, abbiateli pure a me non me ne fotte niente”.

Risponde l’interlocutore: “Ugo Malagnino ha detto a Mimmo Colasanto (direttore genrale dell'ASL di Taranto n.d.r.) di adoperarsi per organizzare questa cosa a cui D’Alema neanche è sicuro che viene (…) e se verrà, verrà a mezzanotte”.

Tedesco: “E vedrai che verrà, vedrai che verrà”.

In un’altra telefonata con la figlia Cristina, Tedesco afferma che “ho detto di riferire a D’Alema che io non vado a fare lo sponsor dei Tarantini”. Della cena, poi ne parla con l’imprenditore di Noci Enrico Intini, che in quell’anno pagava una consulenza a Tarantini per aggiudicarsi appalti (quindi Tarantini era la maschera di qualcuno. Ma di chi? n.d.r.). “Ma tu ti rendi conto – dice Tedesco a Intini – I Tarantini organizzano una cena con D’Alema alla presenza di manager, primari e compagnia bella (…) mille telefonate che ho avuto dai vari Mazzarano (…) e compagnia cantando (…) A me Michele Mazzarano mi ha detto (…) ‘tu non puoi non venire perché la cosa la organizza Roberto’. Ho detto, senti, Roberto De Santis sa perfettamente come la penso io su questa vicenda e su queste persone (…) Ho detto, voi siete pazzi (…) andranno a finire sui giornali”! Il 2 aprile 2008 si svolge la cena. La cena, per gli imprenditori, è chiaramente finalizzata a discutere del potenziamento della “rete” politica interna al centrosinistra che fa capo a D’Alema, perche poi i commensali possano accaparrarsi altre fette di mercato. Vediamo dunque chi sono questi illustri commensali.

Giampaolo Tarantini, arrestato per corruzione, favoreggiamento della prostituzione, spaccio di sostanze stupefacenti,tuttora agli arresti domiciliari in attesa di processo;

Roberto De Santis, indagato;

Michele Mazzarano indagato;

Mimmo Colasanto indagato;

Lea Cosentino arrestata con le modalità degli arresti domiciliari, in attesa di processo.

Ora il problema che si pone per l’argomento che stiamo trattando è che a quella cena, insieme a tutta questa bella gente, c’erano anche tre Magistrati! E tutti questi Magistrati - guarda caso - esercitavano le funzioni nel settore penale: due g.i.p., Linda Carrieri e Giulia Romanazzi e una P.M., di cui non si conosce il nome. Ma come è possibile che tre magistrati partecipassero a una cena in cui erano presenti personaggi così equivoci e inquietanti come Gianpaolo Tarantini (corruzione, favoreggiamento della prostituzione, spaccio di sostanze stupefacenti per conto del pericolosissimo clan malavitoso degli Spilotors)? Come è possibile, se perfino Alberto Tedesco (il quale non era un santo) si rifiutava di partecipare a una cena con un individuo del genere? I g.i.p. Linda Carrieri e Giulia Romanazzi, hanno poi ammesso questa loro imbarazzante presenza e anzi hanno chiesto al Presidente del Tribunale di Bari di potersi astenere da qualsiasi atto che coinvolgesse Gianpaolo Tarantini, perché lo avevano frequentato. Anche prima e dopo la cena. ...........???????............ Ma che, per caso, sniffavano? O devo pensare che di nascosto dai loro mariti e a tempo perso, facevano anche loro le escort? ........E come possono rimanere in un ufficio del g.i.p. Magistrati così compromessi sul piano morale? Ma c’è un’altra figura di Magistrato che desta sconcerto e imbarazzo in questa vicenda che è quella del’ex Procuratore capo dela Repubblica di Bari Emilio Marzano I P.M. Roberto Rossi, Giuseppe Scelsi e Desiré Digeronimo, quando furono ascoltati dalla Commissione d'indagine del Senato sulla sanità, non hanno ben chiarito quante erano le inchieste sulla malasanità pugliese che erano in piedi fino al 2009. Si fa fatica a capire questo dato perché, per esempio, quella avviata da Roberto Rossi nel 2002 è stata «in sonno» fino al giugno 2009, quando il pm ha notificato la chiusura delle indagini contro i fratelli Gianpaolo e Claudio Tarantini, Tato Greco, una sfilza di primari e direttori generali, manager di Asl pugliesi. Ma il problema è: E’ mai possibile che per fare un’indagine su una ASL ci siano voluti sette anni? Chi infrenava il dott. Roberto Rossi? O il dott. Roberto Rossi oggi membro del Consiglio Superiore della magistratura si è infrenato da solo? E perchè Laudati ci ha messo tanto tempo di meno? Secondo indiscrezioni, il pm titolare dell'inchiesta (Roberto Rossi) avrebbe chiesto ripetutamente alla polizia giudiziaria l'informativa finale, che è arrivata però soltanto alla fine del giugno 2009. Quindi questa inchiesta si è mossa come una lumaca dal 2002 al 2009. Ma perché? Peraltro alcuni strani connubi nell'ambito della Sanità e non solo erano stati denunciati da un'emittente locale che si chiamava Radio Regio Stereo. Ebbene il titolare, il giornalista Alessio Dipalo, autore anche di alcune denunce fu più volte minacciato fu lui stesso più volte querelato da imprenditori e politici. Ma non è questo il punto. «La sua emittenza e' stata chiusa per mesi, lui fu sonoramente mazziato e - udite! udite! - le sue udienze nei processi per il reato bagattellare di diffamazione furono seguite regolarmente e personalmente o dal procuratore aggiunto, Marco Dinapoli (oggi - ahimé - Procuratore Capo presso il Tribunale di Brindisi o addirittura dal Procuratore Capo della Repubblica di Bari, Emilio Marzano. Ma questo andazzo è durato solo fino al 2009. Poi tutto è cambiato. Il Procuratore Capo della Repubblica di Bari dott. Emilio Marzano, ancora una volta un Magistrato affiliato a Magistratura Democratica quell'anno andò in congedo e lasciò il suo posto al nuovo Procuratore della repubblica dott. Antonio Laudati. Immediatamente le inchieste sulla sanità pugliese hanno subito un accelerazione come un passaggio dalla seconda alla quinta marcia, con una sfilza di guai per molti politici e direttori generali tutti della stessa corrente politica. L'azione del nuovo procuratore entusiasma tutti ed è apprezzata da tutti tranne che - dai dalemiani e - sorpresa! - dall'on.le Raffaele Fitto. E dalle solite istituzioni romane (leggi CSM). Ora però il problema vero è che – come al solito – il Magistrato che ha impastato, ha insabbiato, ha deviato rimane dov’è o fa radiose carriere. Invece il magistrato che adempie asetticamente il proprio dovere, nella specie che è meritevole di aver disseppellito il bubbone sanitario, viene additato al pubblico ludibrio, perseguitato, sanzionato, ammazzato, denunciato al CSM secondo uno schema già conosciuto. E' lo stesso schema di De Magistris, di Forleo, dei Magistrati di Salerno, del sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Neri, di Paolo Borsellino, di Giovanni Falcone. Anzi il caso del dott. Antonio Laudati è purtroppo straordinariamente simile a quello di Giovanni Falcone. Anche Laudati infatti è stato attinto da lettere di un corvo. Anche Laudati - come Falcone - è inviso ad altri colleghi in particolare al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Bari Antonio Pizzi e al neo-Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Bari Giusepe Scelsi entrambi di M.D.; anche Laudati dovrà difendersi dinanzi il CSM. Tutto straordinariamente uguale. Se tre più tre fa sei (corvo, procedimento disciplinare, avversione dei colleghi), c'è di che far tremar le vene ai polsi perchè stiamo per assistere a un secondo caso Falcone, anche lui - come si ricorderà - delegittimato prima di essere eliminato. Oppure al meglio stiamo per assistere a un secondo caso Salerno. Perché si dà il caso che il Magistrato (Roberto Rossi) il quale, volontariamente o per pressione dell’ex Procuratore Capo Emilio Marzano, ha ritardato per anni - come abbiamo visto - le inchieste sulla malasanità pugliese fa parte ora del Consiglio Superiore della Magistratura. Peraltro nell'attuale CSM c’è anche l’avvocato di D’Alema l’avvocato Guido Calvi il quale, molto inopportunamente, è stato investito dell'istruttoria della pratica di Laudati. Insomma Laudati è andato a finire nella tana del lupo. Senza che nessuno dall'altra parte lo protegga. Il ministro Alfano infatti dorme. Quello che dice che tutta la magistratura italiana deve passare dalla lavatrice, abbaia. Il quotidiano "Il Giornale" si adagia su sciocche dietrologie sul conto del governatore Nichy Vendola. Poveri noi! Come siamo messi male!

IO, MAGISTRATO OLTRAGGIATA. Signor Presidente, le comunico l'irrevocabile decisione di lasciare l'Associazione Nazionale Magistrati. Il plauso da lei pubblicamente reso all'ingiustizia subita, per mano politica, da noi magistrati della Procura della Repubblica di Salerno è per me insopportabilmente oltraggioso. Oltraggioso per la mia dignità di Persona e di essere Magistrato. Sono stata, nel generale vile silenzio, pubblicamente ingiuriata; incolpata di ignoranza, negligenza, spregiudicatezza, assenza del senso delle istituzioni; infine, allontanata dalla mia sede e privata delle funzioni inquirenti, così, in un battito di ciglia, sulla base del nulla giuridico e di un processo sommario. Per bocca sua e dei suoi amici e colleghi, la posizione dell'Associazione era già nota, sin dall'inizio. Quale la colpa? Avere, contrariamente alla profusa apparenza, doverosamente adottato ed eseguito atti giudiziari legittimi e necessari, tali ritenuti nelle sedi giurisdizionali competenti. Avere risposto ad istanze di verità e di giustizia. Avere accertato una sconcertante realtà che, però, doveva rimanere occultata. Né lei, né alcuno dei componenti dell'associazione che oggi degnamente rappresenta ha sentito l'esigenza di capire e spiegare ciò che è davvero accaduto, la gravità e drammaticità di una vicenda che chiama a riflessioni profonde l'intera Magistratura, sul suo passato, su ciò che è, sul suo futuro; e non certo nell'interesse personale del singolo o del suo sponsor associativo, ma in forza di una superiore ragione ideale, che è - o dovrebbe essere - costantemente e perennemente viva nella coscienza di ogni Magistrato: la ricerca della verità. Più facile far finta di credere alla menzogna: il conflitto, la guerra tra Procure, la isolata follia di "schegge impazzite". Il disordine desta scandalo: immediatamente va sedato e severamente punito. Il popolo saprà che è giusto così. E il sacrificio di pochi varrà la Ragion di Stato. L'Associazione non intende entrare nel merito. Chiuso. Nel dolore di questi giorni, Signor Presidente, il mio pensiero corre alle solenni parole che da Lei (secondo quanto riportato dalla stampa) sarebbero state pubblicamente pronunciate pochi attimi dopo l'esemplare "condanna": «Il sistema dimostra di avere gli anticorpi». Dunque, il sistema, ancora una volta, ha dimostrato di saper funzionare. Mi chiedo, allora, inquieta, a quale "sistema" Lei faccia riferimento. Quale il "sistema" di cui si sente così orgogliosamente rappresentante e garante. Un "sistema" che non è in grado di assicurare l'osservanza minima delle regole del vivere civile, l'applicazione e l'esecuzione delle pene? Un "sistema" in cui vana è resa anche l'affermazione giurisdizionale dei fondamentali diritti dell'essere umano; ove le istanze dei più deboli sono oppresse e calpestato il dolore di chi ancora piange le vittime di sangue? Un "sistema" in cui l'impegno e il sacrificio silente dei singoli è schiacciato dal peso di una macchina infernale, dagli ingranaggi vetusti ed ormai irrimediabilmente inceppati? Un "sistema" asservito agli interessi del potere, nel quale è più conveniente rinchiudere la verità in polverosi cassetti e continuare a costellare la carriera di brillanti successi? Mi dica, Signor Presidente, quali sarebbero gli anticorpi che esso è in grado di generare? Punizioni esemplari a chi è ligio e coraggioso e impunità a chi palesemente delinque? E quali i virus? E mi spieghi, ancora, quale sarebbe «il modello di magistrato adeguato al ruolo costituzionale e alla rilevanza degli interessi coinvolti dall'esercizio della giurisdizione» che l'Associazione intenderebbe promuovere? Ora, il "sistema" che io vedo non è affatto in grado di saper funzionare. Al contrario, esso è malato, moribondo, affetto da un cancro incurabile, che lo condurrà inesorabilmente alla morte. E io non voglio farne parte, perché sono viva e voglio costruire qualcosa di buono per i nostri figli. Ho giurato fedeltà al solo Ordine Giudiziario e allo Stato della Repubblica Italiana. La repentina violenza con la quale, in risposta ad un gradimento politico, si è sommariamente decisa la privazione delle funzioni inquirenti e l'allontanamento da inchieste in pieno svolgimento nei confronti di Magistrati che hanno solo adempiuto ai propri doveri, rende, francamente, assai sconcertanti i vostri stanchi e vuoti proclami, ormai recitati solo a voi stessi, come in uno specchio spaccato. Mentre siete distratti dalla visione di qualche accattivante miraggio, faccio un fischio e vi dico che qui sono in gioco i principi dell'autonomia e dell'indipendenza della Giurisdizione. Non gli orticelli privati. Non vale mai la pena calpestare e lasciar calpestare la dignità degli esseri umani. Per quanto mi riguarda, so che saprò adempiere con la stessa forza, onestà e professionalità anche funzioni diverse da quelle che mi sono state ingiustamente strappate, nel rispetto assoluto, come sempre, dei principi costituzionali, primo tra tutti quello per cui la Legge deve essere eguale per deboli e potenti. So di avere accanto le coscienze forti e pure di chi ancora oggi, nonostante tutto, crede e combatte quotidianamente per l'affermazione della legalità. Ed è per essa che continuerò sempre ad amare ed onorare profondamente questo lavoro. Signor Presidente, continui a rappresentare se stesso e questa Associazione. Io preferisco rappresentarmi da sola. Gabriella Nuzzi, Sostituto Procuratore Salerno (tratta dall'edizione salernitana de "Il Mattino).

Chi spiegherà al pm Carbone di sinistra (espressione di Area: Magistratura Democratica e Movimento per la Giustizia) che le leggi si applicano e si rispettano, e non si contestano? Scrive “Il Corriere del Giorno” il 6 luglio 2015. “No comment e musi lunghi tra i magistrati tarantini all’indomani dell’ennesimo decreto del governo salva Ilva, l’ottavo, che dissequestra l’altoforno 2 dell’Ilva di Taranto, azzerando il provvedimento cautelare era stato deciso dalla procura dopo l’incidente dell’8 giugno scorso in cui ha perso la vita l’operaio trentacinquenne, Alessandro Morricella, investito da una colata di ghisa fusa. Per il magistrato inquirente prima, e per il gip dopo, l’impianto non era sicuro pertanto doveva essere fermato per evitare altri incidenti mortali. Questa presunta pericolosità è ora scomparsa per decreto” secondo quanto racconta il Corriere del Mezzogiorno, cioè l’edizione barese del Corriere della Sera – “Ad esprimere il malessere che serpeggia tra i magistrati tarantini, ma non solo, è il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Maurizio Carbone, egli stesso pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Taranto.”. Il segretario dell’Associazione nazionale dei magistrati, dimenticando che le Leggi si rispettano ed applicano...contesta quanto deciso dal Governo ed avvallato dal Presidente della Repubblica sostenendo che “Il caso ILVA – dice – è la dimostrazione di come il legislatore tuteli l’interesse economico rispetto ad altri interessi come quelli sulla sicurezza dei lavoratori e della tutela ambientale». Il segretario dell’Anm – sempre secondo il Corriere del Mezzogiorno – mette in luce una pericolosa spaccatura tra i due poteri dello Stato. “Tutto questo – continua Carbone – crea una ulteriore contrapposizione tra potere giudiziario e potere legislativo sulla base di una evidente e più volte dimostrata priorità di quest’ultimo verso la tutela economiche rispetto ad altri diritti….  Ognuno –ha concluso Carbone – valuta le situazioni a modo suo. Certo è che scelte come questa sull’ ILVA, da parte della politica, non possono che lasciare perplessi e destare preoccupazione e non soltanto tra gli operatori della giustizia». Il dottor Carbone non spende nessuna parola però sulla circostanza che non risulta che  la Procura e tantomeno il gip abbiano richiesto a dei periti (da nominare)  una perizia tecnica sull’incidente mortale, nè tantomeno il magistrato si sofferma sulla circostanza che i soliti giornalisti “ventriloqui” di Palazzo Giustizia , abbiano censurato quanto circola in ambienti industriali interni (fornitori e dipendenti) allo stabilimento siderurgico dell’ ILVA, e cioè che il tragico incidente occorso all’operaio Alessandro Morricella sia stato provocato e determinato in realtà da comportamenti operativi di alcuni operai, molto lontani dalle note vigenti disposizioni aziendali in materia di sicurezza .  Comportamenti analoghi a quelli che proprio nei giorni scorsi hanno portato alla condanna di alcuni operai dell’ILVA, responsabili di “scherzi” poco piacevoli ad un loro collega. Secondo nostre fonti confidenziali infatti, sembrerebbe che l’operaio deceduto non indossasse l’abbigliamento tecnico di sicurezza necessario sul posto di lavoro, di cui infatti nei primi rilievi di polizia giudiziaria dicono non ci sia alcuna traccia. Ma tutto questo nessuno lo dice e racconta. Come nessuno in Procura si meraviglia che il marito di un magistrato ricopra incarichi di gestione e rappresentanza societaria in aziende municipali e pubbliche. O di altro “professionista” tarantino legato ad un altro magistrato che vive, lavora e guadagna fior di quattrini (letteralmente) grazie alle CTU cioè le “perizie” affidategli dal Tribunale di Taranto, come questo quotidiano in un recente articolo ha già raccontato e denunciato. Di questi conflitti d’interesse, l'Associazione Nazionale dei Magistrati ed il suo segretario none parlano. Strano vero? Poi qualcuno si meraviglia che in un recente passato a Taranto siano stati arrestati un magistrato ed un giudice! Tutto ciò probabilmente spiega anche le ragioni per cui il dr.Cataldo Motta, Procuratore della Repubblica di Lecce, che regge anche il vertice della Direzione Distrettuale Antimafia che sovrintende per competenza sul territorio di Taranto, ha ottenuto dal plenum del Consiglio Superiore della Magistratura con parere favorevole del Ministro di Giustizia, la deroga a reggere il suo incarico sino al 2017. Mentre invece per il dr. Franco Sebastio, procuratore capo della repubblica di Taranto, la deroga non è arrivata. P.S. nel frattempo attendiamo ancora risposta ad una richiesta “pubblica” al dr. Sebastio di intervista da video filmare (invito che estendiamo anche al dr. Carbone). O forse le nostre domande scomode danno un pò di fastidio…?

La “guerra” dei magistrati di Taranto al risanamento in corso dell’ILVA, scrive il 14 luglio 2015 Antonello de Gennaro su “Il Corriere del Giorno”. Mentre il Governo Renzi è impegnato a reperire i fondi e le garanzie per portare a compimento il risanamento ambientale dello stabilimento siderurgico dell’ILVA di Taranto, ed a garantire lavoro e stipendio a circa 18.000 famiglie, in Tribunale a Taranto il pubblico ministero Antonella De Luca ed il Gip Martino Rosati, avevano disposto secondo noi con “leggerezza”  la chiusura dello stabilimento tarantino in conseguenza della morte dell’operaio  Alessandro Morricella, dimenticandosi che i tecnici dello  Spesal dell’Asl  Taranto dopo il sopralluogo immediato all’incidente, non avevano ordinato il fermo immediato dell’impianto, ma soltanto imposto delle prescrizioni di sicurezza “da attuare in 60 giorni” . Prescrizioni che sono state immediatamente recepite ed attuate dall’azienda. Come non dare ragione allo Confindustria di Taranto quando sostiene che “risanare un’azienda diventa impossibile se l’unica risoluzione da adottare rimane la sua chiusura”? E come restare silenti, quando il Governo Renzi interviene per evitare la chiusura dello stabilimento e l’esplosione sociale e civile di una città sull’orlo del fallimento economico? Come è accettabile dover vedere i commissari del Governo ed i legali del più grosso stabilimento siderurgico d’Europa costretti a fronteggiare alcuni recenti provvedimenti esagerati da parte di qualche magistrato che ci sembra molto solerte, a far uscire i propri atti sui giornali, invece di limitarsi ad applicare e rispettare le Leggi. Ma non è finita. Sapete cosa accade nel Tribunale di Taranto? Un giudice per le indagini preliminari si rivolge alla Corte Costituzionale sostenendo che il decreto “Salva Ilva” con cui è stata disposta la produzione siderurgica attraverso l’utilizzo dell’Afo 2 sarebbe “incostituzionale”.  Opinione e decisione rispettabile dal punto di vista formale. Ma a dir poco assurda dal punto di vista del dovuto rispetto istituzionale nei confronti dei “poteri” dello Stato. Di chi viene eletto per legiferare. Oggi, infatti, il gip Martino Rosati, ha sollevato nei confronti dell’ultimo decreto “salva Ilva” la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3 del decreto legge del 4 luglio 2015, numero 92, in relazione agli 2, 3, 4, 32 comma 1, 41, comma 2 e 112 della Costituzione italiana. Con un ricorso di quattordici pagine, il gip tarantino intende confutare la sostanza dell’ultimo decreto legge del Governo che è stato attuato per evitare all’ ILVA di dover di fatto chiudere la fabbrica, con conseguenti drammi occupazionali ed economici, non solo sull’occupazione locale, ma su tutta la filiera produttiva in Italia. Il giudice, nella sua memoria, sostiene che nulla è stato previsto per la “tutela dei lavoratori e per garantire la sicurezza nell’impianto”, dal momento che l’unico obiettivo, appunto, sembra essere quello di anestetizzare gli effetti dell’intervento della magistratura di Taranto. Affermazioni pesanti e gravi che cozzano non solo contro il decreto di Palazzo Chigi, ma anche contro la relazione tecnica dello Spesal dell’ASL Taranto, cioè di tecnici che ci auguriamo abbiano più competenze tecniche operative in materia di sicurezza dei magistrati e giudici, che non a caso fanno un altro lavoro. Inoltre il pubblico ministero De Luca ed il Gip Rosati ci sembrano aver dimenticato in merito al tragico incidente che l’inchiesta sulla morte di Morricella non si è ancora conclusa, così come non sono state ancora accertate delle inconfutabili comprovate omissioni, cioè responsabilità dell’azienda sull’incidente mortale. Lo stesso gip tarantino sostiene “non manifestamente infondata” la questione di legittimità costituzionale della norma e scrive che “su un assetto normativo siffatto che si vorrebbe ispirare a quello del decreto legge 207 del 2012 ma che non gli somiglia affatto, se non nell’obiettivo di neutralizzare gli effetti di una pronuncia giurisdizionale, s’impone dunque al giudice di invocare lo scrutinio di legittimità”. In conseguenza del ricorso del gip (ma il Presidente del Tribunale, il capo dei Gip l’hanno condivisa? n.d.a.) è conseguenziale la sospensione del giudizio in corso attivato dai legali di ILVA Spa in amministrazione straordinaria.  Quindi gli atti saranno trasmessi alla Corte Costituzionale, e l’iniziativa verrà comunicata per dovuta conoscenza al presidente della Repubblica Mattarella. Il decreto “salva Ilva” ci corre obbligo ricordarlo, ha solo evitato che il sequestro senza facoltà d’uso ordinato dalla Procura di Taranto a seguito dell’incidente mortale spegnesse l’impianto e di fatto “paralizzasse” lo stabilimento siderurgico. Peraltro l’ILVA, sempre secondo il decreto, è tenuta ad informare all’autorità giudiziaria come intende intervenire sull’ Afo2 (l’altoforno 2) per renderlo più sicuro mediante l’adozione di “misure e attività aggiuntive anche di tipo provvisorio”. Peraltro per attuare tutto ciò il decreto contestato dal gip Rosati, non concedeva molto tempo all’azienda considerato che il piano va presentato all’autorità giudiziaria entro 30 giorni dal sequestro (siamo quindi nel pieno del periodo previsto) e gli interventi devono essere effettuati entro 12 mesi. Non a caso giorni fa l’ILVA ha annunciato che si sarebbe subito messa al lavoro. Ma i giudici tarantini non si accontentavano di tutto ciò…Ma qual è il “ruolo”, il compito dei magistrati? Proprio secondo Mattarella non sarebbe né di protagonisti, né di burocrati. Quello del magistrato, per il Capo dello Stato, che presiede il Csm, deve essere “un compito né di protagonista assoluto del processo né di burocratico amministratore di giustizia. Si tratta di due atteggiamenti che snaturano la fisionomia della funzione esercitata”. A questo proposito Mattarella ha voluto ricordare “il monito di Calamandrei”: “Il pericolo maggiore che in una democrazia minaccia i giudici è quello dell’assuefazione, dell’indifferenza burocratica, dell’irresponsabilità anonima”. I tre obblighi da ottemperare: equità, imparzialità, tempestività. Mattarella ha indicato tre necessità per la giustizia italiana: “L’ordinamento della Repubblica esige che il magistrato sappia coniugare equità e imparzialità, fornendo una risposta di giustizia tempestiva per essere efficace, assicurando effettività e qualità della giurisdizione”. La domanda che è lecita porsi è secondo noi anche la seguente: e se la Corte Costituzionale dovesse smentire il supposto del Gip e rigettare il ricorso, avrà questo Giudice il dr. Martino Rosati la coerenza di dimettersi, di lasciare la magistratura?  E se qualche impresa, o la stessa ILVA in amministrazione straordinaria a causa dei ritardi conseguenti a tali attività di contrasto al decreto legge da parte del Gip, dovessero fallire, e decidessero di intraprendere un’azione civile risarcitoria (ora consentita dalla Legge) nei confronti del Pubblico Ministero e del Giudice per le indagini preliminari, cosa farebbero i magistrati “schierati”, cioè politicizzati? Griderebbero al “colpo di stato” come fanno ogni volta che gli si ricorda che il loro “potere” non può e non deve essere un potere assoluto, e che in realtà il loro compito è solo quello di applicare la Legge?  Purtroppo ne siamo quasi certi…Abbiamo trovato un’intervista apparsa sul quotidiano IL GIORNALE dello scorso 16 giugno 2014, che vi offriamo in lettura e riproduciamo integralmente di seguito. Vale la pena leggerla sino in fondo, in quanto contiene valutazioni dell’alto magistrato Corrado Carnevale, ex Presidente di sezione della Corte di Cassazione che sicuramente ha più esperienza e competenza dei suoi colleghi tarantini. Ed anche di chi scrive. Questa scomparsa è il suo unico cruccio. Sulle mascalzonate subite, fa il filosofo. «Che sentimenti ha verso Caselli?», gli ho chiesto. «Nessuno», ha detto col tono di chi non dà spazio al superfluo. Il mobbing giudiziario lo ha inseguito anche nello studio dove sediamo. Un giorno scoprì che il telefono era isolato. Avvertì la Sip e vennero due tipi che armeggiarono un po’. «Quanto devo?» chiese alla fine. «È gratis, giudice», fu la risposta. «Come facevano a sapere che ero giudice?», sorride oggi Carnevale. Così, intuì che era stato un trucco per mettergli delle cimici e spiarlo in casa, non avendo potuto scoprire nulla con le normali intercettazioni. Fatica sprecata: anche le cimici confermarono il galantuomo. Carnevale è passato alla storia come l’Ammazza­sentenze per avere annullato, da presidente di Cassazione, sentenze infarcite di svarioni.  Alcune riguardavano mafiosi, il che scatenò polemiche. Ma la caratteristica di Carnevale è di essere inflessibile sul rispetto integrale della legge. Ho isolato le seguenti frasi della nostra chiacchierata che sono il cuore del suo credo: «Un giudice che ha dubbi su una norma, può chiedere alla Consulta di cancellarla. Ma finché la norma c’è, la deve rispettare. Gli piaccia o non gli piaccia. Non può scegliere, le deve rispettare tutte. Non può inseguire le sue chimere (salvare il mondo, ndr), fossero anche le più nobili. Suo unico compito è applicare tutte le regole che l’ordinamento si è posto». Da scolpire nella pietra.

Il punto molle del processo penale è la troppa vicinanza del giudice al pm, a scapito della difesa.

«Il nodo è chi ha permesso questa vicinanza. Ossia la politica che ha consentito all’Anm di tutto e di più. Non c’è ormai alcun controllo sull’idoneità dei magistrati. Basta che appartengano alla giusta corrente e hanno carta bianca».

Che rapporto ha avuto con l’Anm?

«Mi dimisi nel 1957, quattro anni dopo l’ingresso in magistratura. Capii subito che non si battevano per la giustizia ma per soldi e prebende, nonostante il loro trattamento fosse già il più favorevole».

Separazione delle carriere?

«Per farlo, bisogna cambiare la Costituzione. Ma nulla vieta di impedire da subito a pm e giudici di passare da una funzione all’altra, come oggi sciaguratamente succede».

Una scuola post-laurea per pm, giudici, avvocati?

«Perfettamente inutile. Il problema è di cultura generale, non di cultura giuridica».

Più ingressi di prof e avvocati in magistratura?

«Non serve a nulla, come dimostra il Csm in cui un terzo dei membri è composto di docenti e avvocati, scelti dal Parlamento, che però si adeguano puntualmente all’andazzo».

A che serve il Csm?

«Alla carriera dei magistrati appartenenti alle correnti giuste».

Come va riformato?

«Estraendo a sorte i membri. Che oggi sono invece scelti dalle correnti di Anm tra i più supini ai loro diktat».

Com’è che lei, considerato un cannone, invece di essere il fiore all’occhiello dei colleghi ha rischiato da loro la galera?

«È accaduto appena ho diretto uffici. Terminavo in tre mesi, ciò che gli altri facevano in un anno. Ero la prova che i loro alibi ­ scarsità di mezzi, troppe liti, mancanza di carta igienica – era il tentativo di addebitare alla politica le proprie lacune».

Per questo volevano rovinarle la vita?

«Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell’invidia».

Quello di Caselli, dopo le calunnie di Mutolo, fu atto dovuto o smania di annichilirla?

«Atti dovuti non esistono. L’attendibilità dei mafiosi va controllata con rigore, nonostante la teoria di Falcone che i pentiti dichiarano sempre la verità. Si voleva colpire me».

In un grado del processo prese sei anni per concorso esterno. Che pensa di questo reato?

«Che non è configurabile. Il concorso esterno è un’invenzione che ha sostituito il “terzo livello” con il quale si pensava di colpire i politici».

Il fantomatico terzo livello…

«Il terzo livello non funzionò e si cambiò col concorso perché aveva una parvenza più giuridica. In diritto esisteva già la categoria del concorso e, a orecchio, lo si estese a “esterno”».

Se in Cassazione si fosse trovato davanti Dell’Utri, condannato a sette anni per concorso esterno, che avrebbe detto?

«Che non era ravvisabile quel reato perché la legge non lo prevede. Ciò non esclude però che i suoi comportamenti potessero avere un rilievo penale diverso».

Ai mafiosi si applica un diritto speciale: 41 bis, ecc. Costituzionale?

«Assolutamente no. I cittadini sono uguali davanti alla legge».

Contro il Cav c’è stato un eccesso di zelo?

«Berlusconi, come tutti i magnati, compreso Agnelli, è stato disinvolto, ma da imprenditore fu ignorato da Mani pulite. Entrò nel mirino da politico. Segno della politicizzazione della magistratura».

Come ricondurre le toghe nell’alveo?

«Oltre all’estrazione a sorte del Csm, va introdotta la responsabilità civile personale dei magistrati.

Esattamente ciò contro cui si batte in queste ore l’Anm».

Giudizio finale sullo stato della giustizia?

«Siamo tutti esposti a iniziative giudiziarie capricciose da Paese incivile. Un brutto modo di vivere il tempo che ci è dato su questa terra».

La Procura di Taranto, i “portavoce”, i Carabinieri e l’ILVA, scrive Antonello de Gennaro su “Il Corriere del Giorno”. In passato ci siamo già occupati di una coppia di giornalisti e cioè Francesco Casula e Mimmo Mazza che a Taranto tutti chiamano “Cicì“ e “Cocò” per la loro vicinanza. In realtà il giornalista è uno solo, cioè Mazza, in quanto abbiamo scoperto che il Casula non risulta iscritto all’ Ordine dei Giornalisti di Puglia, e quindi esercitando di fatto illegalmente (???) la professione giornalistica, che costituisce il suo secondo lavoro, viene retribuito secondo le nostre fonti presso la Gazzetta del Mezzogiorno a Bari, per la modica cifra di circa 5 euro ad articolo! I due in realtà, più che per i lettori, scrivono e vivono per apparire, convinti di essere il Travaglio e Peter Gomez di Taranto, come ci ha raccontato divertito un nostro caro amico e noto collega, da sempre molto vicino a Michele Santoro ed a Marco Travaglio. Mazza si spaccia per “ambientalista” di sinistra, ma invece come racconta pubblicamente in giro un suo parente, in realtà avrebbe simpatie per la destra. L’altro, cioè Casula è spudoratamente (e legittimamente) di sinistra come si evince dalla semplice visualizzazione del suo diario sulla sua pagina Internet. Teoricamente i due farebbero i cronisti di nera e giudiziaria, ma in realtà tutti a Palazzo di Giustizia ben sanno che i due vivono di fotocopie ricevute sottobanco da qualche magistrato desideroso di vedere il proprio nome apparire sui giornali, o da quegli avvocati i quali pensano che facendo uscire il proprio nome sulla stampa arrivano i clienti…A memoria d’uomo nessuno ricorda un’inchiesta giornalistica firmata da uno dei due, ma solo tanti articoletti-“dettati”, con tanti nomi dei giudici o avvocati e le loro fotografie in primo piano. Come abbiamo già scritto e rivelato in passato, i due di giurisprudenza e del codice di procedura penale sanno poco e nulla, come dimostrano i loro articoli in cui in uno hanno confuso il reato di calunnia con quello di diffamazione. O forse quell’errore venne fatto volontariamente per accontentare il socio di una famiglia di gestori di supermercati della provincia imparentati con Mazza? Incredibilmente, Cocò-Mazza (il più anziano dei due) più che fare il giornalista passa il suo tempo ad occuparsi di sindacato, lavorando alla Gazzetta del Mezzogiorno  che da oltre un anno gli passa lo stipendio grazie ai contratti di solidarietà applicati dalla società editrice da cui dipende, salvo poi auspicare in suo “articoletto” la chiusura dell’ ILVA, senza chiedersi che fine farebbero i 18mila dipendenti dell’ ILVA compresi gli appalti,  se qualche suo “amichetto/a” della Procura della Repubblica di Taranto dovesse  (ipotesi del 3° tipo, cioè dell’ “irrealtà“) riuscire a chiudere lo stabilimento siderurgico a colpi di sequestri, puntualmente annullati, per volere della Cassazione o del Governo. Il novello “giornalista-ambientalista-sindacalista” Cocò-Mazza, ipotizza (ma in realtà lo sostiene!) che lo stabilimento siderurgico sia pericoloso per chi vi lavora, e che tutti gli altri impianti dell’area a caldo siano nocivi per operai e cittadini. Non contento, dall’alto della sua superbia, che in realtà è inconsistente, scrive e pone delle domande “alle quali non si risponde né per decreto, né per ordinanza, ma mettendo a disposizione, ora e subito, tutti i soldi necessari a salvare quella che anche nei fatti deve essere ritenuta una azienda strategica. Altrimenti è meglio spegnere tutto, senza bisogno di ricorrere ai codici”. Quello che Mazza non capisce è che in questo momento il Governo Renzi sta facendo tutto il possibile per salvare l’azienda, risanarla ambientalmente e venderla nel giro di 2-3 anni al migliore offerente sul mercato internazionale. Operazione questa, seguita dal consulente economico di Palazzo Chigi, Andrea Guerra, che di management ed industria ci capisce leggermente molto di più del Mazza, il quale in vita sua ha gestito solo e soltanto, e forse…, lo stipendio che porta a casa! Qualcuno dovrebbe spiegare a Cocò (o a Cicì?) che ad agosto l’ILVA in amministrazione straordinaria, riaccenderà l’altoforno AFO 1 ristrutturato e risanato con i soldi del Governo, in attesa che arrivino i soldi sequestrati e confiscati ai Riva dalla Procura della Repubblica di Milano, e non dalla Procura di Taranto, che come confermano i fatti, in realtà non è stata mai capace di sottrarre un solo euro al Gruppo Riva. Nel gennaio 2014, infatti  gli “ermellini” , cioè i giudici della Suprema Corte di Cassazione, nelle nove pagine delle motivazioni  sulla decisione presa di annullare senza rinvio l’estensione del maxi sequestro da 8,1 miliardi di euro firmato due anni fa (17 luglio 2013) dal gip tarantino  Patrizia Todisco, hanno sostenuto e “cassato”  che non è possibile, “sulla base di una relazione di controllo o di collegamento societario solo genericamente prospettato, e nell’assenza di un preciso coinvolgimento delle società partecipate nella consumazione dei reati-presupposto, o, quanto meno, nelle condotte che hanno determinato l’acquisizione di un illecito profitto, ricavare l’esistenza di alcun nesso logico-giuridico tra quest’ultimo ed il conseguimento di eventuali illeciti benefici da parte delle controllate”. Il provvedimento con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato, nell’ambito dell’inchiesta sull’inquinamento dell’ Ilva, a partire da maggio 2013 e messo sotto sequestro  8,1 miliardi di euro, in beni e conti (ma solo sulla carta!) del gruppo Riva  partendo da Riva Fire ed estendendosi alle società collegate tra cui Riva Energia, Riva Acciaio e Muzzana Trasporti secondo la Cassazione presenta “aspetti di abnormità strutturale che lo pongono fuori dall’ordinamento con l’esigenza della sua conseguente rimozione”. La Suprema Corte mise in luce a suo tempo, come il provvedimento del gip Patrizia Todisco sia stato emesso senza la necessaria richiesta del pm, ma esclusivamente sulla base della relazione formulata dal custode giudiziario Mario Tagarelli. “Spetta, dunque, al pubblico ministero – scriveva non caso la Cassazione nell’ordinanza – il potere esclusivo di promuovere, attraverso la richiesta, il procedimento applicativo delle misure” aggiungendo che nel fatto in questione “è pacifico che il provvedimento impugnato è stato emesso dal gip non in relazione ad una richiesta cautelare proveniente dal pm, ma ad una richiesta di precisazione della portata applicativa di un precedente provvedimento” presentata dal custode giudiziario. Quindi, il provvedimento della Todisco, firmato dietro richiesta del custode giudiziario, ha “autorizzato, in difetto, di una correlativa richiesta da parte del pubblico ministero, una estensione del sequestra preventivo in relazione ad oggetti (azioni, quote sociali, cespiti aziendali, ecc.) e a destinatari (le società ricorrenti, neanche sottoposte ad indagine riguardo ai fatti di reato oggetto di contestazione) del tutto diversi rispetto a quelli indicati nell’originario decreto”. Secondo la Cassazione, il provvedimento a carico delle società Riva Acciaio e Riva Energianon espone le ragioni giustificative delle precisazioni fornite alle richieste in tal senso avanzate dal custode richieste il cui contenuto” venne completamente condiviso dal gip Todisco, senza che la stessa legittimasse i motivi dell’estensione del sequestro. Per i giudici della Suprema Corte “Non vengono illustrate, infatti, le ragioni per cui i beni costituenti oggetto del sequestro debbano considerarsi profitto del reato, e dunque aggredibili con una misura cautelare reale”. Ma tutto questo, Cicì e Cocò lo hanno dimenticato. I magistrati di Taranto, no. Ed ecco spiegata la guerra allo “Stato”-gestore dell’ ILVA in amministrazione straordinaria ! Quello che non si spiega, che è incredibile è come sia possibile che il Comando Provinciale dei Carabinieri di Taranto alle 22 di sera, si metta a distribuire via mail un comunicato stampa scritto su carta bianca, privo di firma, in nome e per conto della Procura della Repubblica di Taranto. Credetemi, cari lettori, in 30 anni di giornalismo professionistico svolto in tutt’ Italia, non avevo mai visto nulla di simile! Ma per l’“amico” Sebastio (procuratore capo di Taranto n.d.a.)  il colonnello Sirimarco (comandante provinciale CC Taranto)  fa questo ed altro… Peccato o per fortuna, a secondo dei punti di vista,  soltanto sino al 1 settembre!

La Procura di Taranto non si rassegna. Dopo il Governo…ora è il “turno” degli operai ILVA, scrive “Il Corriere del Giorno”. La Prefettura in serata del 17 luglio 2015 di fatto “censura” l’operato della Procura e degli incolpevoli Carabinieri che hanno solo eseguito un ordine della Magistratura tarantina, che secondo noi farebbe bene a rasserenarsi. Sedici dipendenti dell’ILVA e tre della ditta d’appalto Semat in servizio al primo turno sono stati identificati e denunciati dai Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto per violazione di sigilli a conclusione dei controlli effettuati oggi dai militari nell’ara dell’Afo2 l’altoforno sottoposto a sequestro senza facoltà d’uso dalla Procura, ma il cui utilizzo è di fatto legittimato ad operare grazie a un decreto del Governo. A disporre il “blitz” odierno dei Carabinieri di Taranto, disposto dal pm Antonella De Luca e dal procuratore aggiunto Pietro Argentino, ma stranamente non sono stati contatti i competenti Carabinieri del NOE (distaccato a Lecce) che sinora hanno sempre operato all’interno ed esterno dello stabilimento siderurgico, per loro competenze in materia ambientale. Soltanto alle 22:00 di venerdì 17 sera i Carabinieri di Taranto hanno diffuso via mail alla stampa un comunicato redatto su carta bianca, anonima, privo di firma, contenenti queste testuali parole: “Con riferimento ad alcune attività ispettive svolte in data odierna, su delega di questa Procura della Repubblica, dagli organi di Polizia Giudiziaria all’interno dello Stabilimento ILVA, si precisa che sono stati effettuati solo accertamenti di carattere assolutamente preliminare in vista di eventuali successive attività di indagine. Tanto è stato precisato nel corso di un incontro tenuto nel pomeriggio in Prefettura, cui sono intervenuti anche i Sindacati, dal comandante Provinciale dell’Arma dei Carabinieri di Taranto”. Che però… stranamente non usa la carta intestata, nè firma il comunicato. Incredibile, ma vero, di fatto a Taranto ormai l’ILVA, i sindacati, i lavoratori, e le aziende forti anche del pieno sostegno del Governo, sono compatti ed uniti nell’intento di comune di non fermare la produzione e rischiare di spegnere lo Stabilimento. Ma “qualcuno” evidentemente alla Procura della Repubblica di Taranto, sembra non darsi pace. Sarà voglia di protagonismo? O qualcuno forse si sente già in campagna elettorale per le prossime elezioni amministrative per diventare Sindaco…? O invece qualcun’altro ambisce alla poltrona di procuratore capo a seguito dell’imminente pensionamento dell’attuale capo della procura Franco Sebastio? Scegliete voi la risposta. Credeteci, difficilmente sbaglierete…

Renzi riapre l'Ilva, i Pm mandano i carabinieri, scrive “Magazine Donna”. Neppure il decreto del governo scritto in fretta e furia lo scorso 4 luglio 2015 per evitare il blocco degli altoforni dell’Ilva (il n° 2) e dei cantieri Fincantieri di Monfalcone sembra smuovere i magistrati pugliesi dalla convinzione che qualcosa di losco si stia facendo nell’acciaieria più grande d’Europa. Tanto che in mattinata del 16 luglio i carabinieri del Comando provinciale di Taranto hanno notificato a 19 operai del primo turno dell’Afo 2 Ilva (16 dell’Ilva e 3 della ditta d’appalto Semat) una denuncia a piede libero «per violazione dei sigilli giudiziari». Lo scorso 29 giugno i magistrati tarantini avevano posto sotto sequestro l’impianto numero 2 (sono in tutto 5 i forni ma ben 3 sono fermi), dopo che l’8 giugno un getto di ghisa fusa aveva colpito e ustionato un addetto (Alessandro Morricella). L’operaio dell’Ilva era morto quattro giorni dopo a seguito delle ustioni riportate sul 90% del corpo. E i magistrati avevano quindi chiesto il sequestro dell’impianto perché «non è sicuro e mette a rischio la vita degli operai». Poi il governo aveva emanato il decreto salva Ilva (e salva Fincantieri, incappata anch’essa in un sequestro nei giorni successivi), evitando il blocco dell’attività a Taranto come a Monfalcone. Ma il decreto del 4 luglio stando ai magistrati tarantini – sarebbe zeppo di errori. Violerebbe ben 6 articoli della Costituzione e da qui il ricorso alla Corte Costituzionale. La Procura – su mandato del pubblico ministero Antonella De Luca – è tornata all’attacco, visto che nei giorni scorsi il gip Martino Rosati aveva sospeso il giudizio sulla richiesta di dissequestro avanzata dall’azienda e inviato gli atti alla Corte Costituzionale. Il gip infatti afferma che il decreto 92 (il salva Ilva del 4 luglio) è in contrasto con diversi articoli della Costituzione e consente all’Ilva, solo perché azienda di «interesse strategico nazionale», di proseguire la sua attività industriale, e quindi «anche di proseguire il reato che le viene contestato». L’Ilva aveva chiesto alla Procura la «facoltà d’uso» e il rinvio di dieci giorni dello stop dell’impianto (previsto per il 6 luglio), garantendo di aver «già attuato le prescrizioni di sicurezza ordinate dallo Spesal dell’Asl» ed essersi impegnata a presentare un ulteriore piano migliorativo. Il decreto del governo – nella sostanza – è un’opera (evidentemente mal scritta) di acrobazia normativa. Infatti non annulla il sequestro ma stabilisce «che l’Ilva può comunque continuare la sua attività». Un’attività consentita nei 12 mesi successivi al sequestro ed entro 30 giorni dal sequestro l’Ilva deve presentare un piano con ulteriori misure di sicurezza da presentare all’autorità giudiziaria e sottoporre alla vigilanza di Vigili del Fuoco, Inal ed Asl. Il decreto, ora all’esame del Parlamento, ha consentito all’Ilva di non spegnere, a Fincantieri di non chiudere i cancelli. Ora però il provvedimento dei magistrati tarantini rischia di creare un baratro tra magistrati e governo.

Nel braccio di ferro tra governo e magistrati sul caso Ilva, a rimetterci questa volta sono gli operai, scrive "Il Corriere della Sera”. Sedici dipendenti diretti dell’Ilva e tre della ditta d’appalto Semat, in servizio nel primo turno, questa mattina sono stati identificati e denunciati dai carabinieri della Polizia giudiziaria per violazione di sigilli, essendo stati trovati al lavoro nell’area dell’Altoforno 2, sottoposto a sequestro senza facoltà d’uso dalla Procura. Ma l’impianto, dove l’8 giugno scorso rimase gravemente ferito il 35enne operaio Alessandro Morricella, morto quattro giorni dopo per le ustioni riportate sul 90 per cento del corpo, è ancora in marcia grazie a un decreto del governo, l’ottavo che riguarda il Siderurgico per sospendere gli effetti degli interventi dei magistrati nell’ambito dell’inchiesta per disastro ambientale. Proprio lunedì prossimo 20 luglio è prevista la conclusione dell’udienza preliminare con la decisione del gup Vilma Gilli sui rinvii a giudizio e i riti abbreviati. Sono 52 gli imputati (49 persone fisiche e tre società) tra gli ex vertici dell’azienda, dirigenti, funzionari ministeriali e di enti, politici e imprenditori. Il blitz dei carabinieri, su delega della magistratura, agita dunque la vigilia del processo denominato «Ambiente svenduto». Non sono ancora chiare le motivazioni che hanno spinto i militari a procedere alla contestazione della violazione di sigilli. Nei giorni scorsi il gip Martino Rosati ha sollevato questione di legittimità costituzionale in relazione al decreto governativo che ha congelato il sequestro dell’Afo 2, rinviando gli atti alla Consulta. Contestualmente è stata respinta la facoltà d’uso dell’impianto, ma il giudizio dovrebbe essere comunque sospeso fino alla pronuncia della Corte costituzionale. Dopo i controlli e le denunce dei carabinieri, i sindacati hanno subito incontrato l’azienda per chiedere informazioni su quanto accaduto, sostenendo come nella vicenda «i lavoratori siano privi di qualsiasi responsabilità diretta e per quanto tali, non debbano essere coinvolti da provvedimento alcuno anche e soprattutto in termini di sicurezza e salvaguardia impiantistica». Il primo a dare notizia del blitz dei carabinieri è stato, con un messaggio su Twitter, il segretario nazionale della Fim, Marco Bentivogli, sottolineando che «la sicurezza dei lavoratori è sempre più a rischio in Ilva di Taranto. Nei diversi contenziosi — ha ammonito — vogliamo garanzie, altrimenti la fermiamo noi la fabbrica». La posizione dei sindacati è contenuta anche in un verbale di incontro inviato al prefetto di Taranto, Umberto Guidato. «Non è possibile stare in questa situazione — spiega lo stesso Bentivogli — e non è possibile stare in una situazione di massima confusione e incertezza. Su mandato della Procura, oggi i carabinieri sono andati all’Ilva, hanno identificato tutti i lavoratori presenti sull’impianto e contestato loro il mancato rispetto dell’ordine della Procura, ovvero il sequestro dell’altoforno 2 senza facoltà d’uso. Ma non spetta ai lavoratori garantire l’attuazione delle prescrizioni o degli ordini dell’autorità giudiziaria. Non è possibile, anzi è allucinante che i lavoratori siano identificati come responsabili. È l’Ilva che deve farlo e allora o l’Ilva ci dice che gli impianti sono sicuri, oppure — conclude Bentivogli — siamo noi a fermare il siderurgico. In questo caos gestionale non si può più stare». Dopo l’irruzione dei carabinieri non si è fatta attendere la reazione dell’azienda. In una nota l’Ilva ha ribadito «di aver operato nel pieno rispetto della legalità in ottemperanza alle previsioni del decreto legge 92/15. I dipendenti identificati hanno eseguito le previsioni di un decreto Legge normato su presupposti di urgenza. Al momento resta garantita la continuità produttiva». Allo stesso tempo, l’Ilva annuncia che «garantirà la tutela legale dei propri dipendenti fornendo loro la più ampia assistenza». «Dopo il nostro incontro di oggi a seguito dell’arrivo dei Carabinieri all’altoforno 2 dell’Ilva — ha spiegato al proposito il segretario della Uilm di Taranto, Antonio Talò, in una pausa dell’incontro con l’Ilva — l’azienda sta per andare dal prefetto di Taranto per farsi autorizzare al funzionamento degli impianti e garantire la sicurezza dei lavoratori». «Vogliamo che i lavoratori siano garantiti sia per la sicurezza ed anche sotto il profilo giuridico. I lavoratori non possono essere destinatari di avvisi di garanzia perché, secondo la Procura, hanno disatteso un ordine dell’autorità giudiziaria. L’azienda deve assolutamente chiarire come stanno le cose. Se queste garanzie non ci saranno date, allora saremo noi a dire ai lavoratori di non andare più sugli impianti e la fabbrica, a quel punto, si fermerà». Alla luce di quanto accaduto nello stabilimento i sindacati sono stati convocati al tavolo che si è tenuto alla prefettura di Taranto da cui sarebbero arrivate rassicurazioni come evidenziato da un comunicato di Fim, Fiom e Uilm: «Il prefetto ha formulato rassicurazioni circa l’estraneità dei lavoratori ai fatti contestati e che simili azioni non avranno a ripetersi. Ampie rassicurazioni sono state fornite in merito all’accesso su Afo 2 di tutti i lavoratori interessati alle pertinenti lavorazioni».

RAFFAELE E' STATO AIUTATO DAL SIGNORE IDDIO!

Raffaele Sollecito in chiesa in attesa della sentenza: le mani giunte e gli occhi al cielo. Delle immagini inedite che mostrano Raffaele Sollecito poco prima della sentenza con cui la Cassazione lo ha definitivamente assolto, insieme ad Amanda Knox, per l'omicidio di Meredith Kercher. Dopo un'odissea durata otto anni, di cui quattro spesi in carcere, Raffaele può riprendere la sua vita da uomo libero. E poco prima di scoprire quale sarebbe stato il suo destino, come mostrano questi scatti proposti da Diva e Donna, Raffaele si era rifugiato in una chiesa, a Roma, per pregare in attesa della sentenza. In una delle immagini lo si vede pregare, solo, su una panca. L'espressione del volto è tesissima: da lì a poche ore Sollecito sarebbe potuto finire in carcere. Rischiava una condanna pesantissima, che lo avrebbe costretto al carcere fino a 56 anni. Ma le sue preghiere, con gli occhi al cielo e le mani giunte, sono state esaudite. Assolto.

OSSESSIONE AMANDA.

Ossessione Amanda. È sospettata di aver ucciso Meredith. Eppure ha scatenato la fantasia e la morbosità mediatica. Con schiere di fan. Il parere di uno psichiatra, scrive Enrico Arosio su “L’Espresso”. L'Angelo Demone e l'Uomo Nero. Il truce feuilleton multimediale di Perugia si semplifica e si complica al tempo stesso. L'Uomo Nero ora è il secondo, il Rudy Hermann Guede, 21 anni, ivoriano, arrestato in Germania; mentre il primo, Diya 'Patrick' Lumumba, nelle stesse ore ha ottenuto la scarcerazione dal magistrato. Ma l'omicidio di Perugia, il crudo omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, è ancora tutto da chiarire. E Amanda Knox (ma il cognome pochi lo ricordano), la sospettata principale (finora) non ha finito di stupire, turbare, emozionare tanti giovani italiani. Addirittura di affascinarli. Lo testimoniano i messaggi di simpatia e ammirazione per lei, l'americanina bionda dal viso angelico, ma anche bugiarda ed esibizionista, che girano da giorni nell'immenso frullatore di Internet. E pensiamo allo strano delitto di Parigi compiuto pochi giorni dopo da una ragazza inglese di buona famiglia, che ravviserebbe elementi di emulazione della vicenda di Perugia. È normale o abnorme il fascino di Amanda presso quella parte di pubblico che ne segue la vicenda giorno dopo giorno, come ipnotizzato? Lo abbiamo chiesto a uno psicoanalista e psichiatra molto navigato, Giorgio Abraham, che vive ed esercita a Ginevra.

Dottor Abraham, da dove scaturisce questo fascino ambiguo di Amanda?

"Per rispondere vorrei partire dal concetto di dipendenza. Emotional addiction, dipendenza dalle emozioni. O anche: le emozioni come droga. Questa è una chiave per provare a capire".

Le emozioni come droga?

"Di droga classica a Perugia ne è circolata parecchia, tra i protagonisti della vicenda. La droga viene assunta per provare sensazioni. Ma qui entra in campo qualcos'altro, la droga da emozioni: è una ricerca sempre più diffusa, nel sesso, nel gioco d'azzardo, negli sport estremi. Ho avuto in terapia non solo soggetti con varie forme di dipendenza sessuale, ma anche patiti del bungee-jumping che mi dicevano che la botta di adrenalina del salto nel vuoto è molto più forte della miglior pratica sessuale. Ecco, anche a Perugia è in gioco la droga da emozioni. Emozioni negative: paura, violenza. Ma anche la colpevolezza è una droga potente. Molto più dell'euforia".

La colpevolezza una droga? Per i protagonisti o per il pubblico che segue?

"Buona domanda. Intanto dico questo: Amanda che dà la colpa al Lumumba, che mente alla polizia, che cambia versione, confonde le acque, non è così distante dall'infanticida che si mette alla ricerca del cadavere insieme ai soccorritori. Amanda sembra giocare con la colpevolezza: vera o presunta, o solo complicità. È qualcosa che ricorda il delitto di Cogne, o la scomparsa della bambina inglese in Portogallo. E il pubblico italiano, in parte, partecipa a questo gioco eccitante. C'è forte ambiguità, in Amanda, in come si contraddice. E poi i vent'anni, la droga, gli amici, le notti. Il tutto tiene viva l'attenzione".

Il fascino del male? È questo che ci turba?

"Il fascino del male, o la sua banalità".

Perché Amanda ha ammiratori? Viene in mente Pietro Maso, il ragazzo veronese che aveva ucciso i genitori e sin da subito ricevette lettere d'amore in carcere.

"I messaggi che le arrivano credo siano di due tipi. I primi dicono: povera Amanda, ti credo, sei un angelo, non puoi essere stata tu, sei vittima dell'errore giudiziario. I secondi: sei eroica, sei figlia del nostro tempo, hai la forza di sopportare la colpa, il male che hai inflitto. L'idea di colpevolezza è la droga emozionale che eccita chi le invia la sua solidarietà".

Non è aberrante?

"Forse. Ma meno raro di quanto si pensi, quando c'entra la sessualità".

Cioè?

"Se guardo alla mia pratica clinica, un quadro sessuologico frequente è la donna che si lamenta della propria scarsa reattività sessuale. E che a volte racconta che solo fantasie violente, come l'essere presa con forza da uno sconosciuto di notte e costretta a pratiche estreme, la portino a vera eccitazione. Al tempo stesso vive queste fantasie con disagio, ecco perché ricorre al terapeuta. La forte dose di paura, insieme alla rabbia di non poter reagire, è moneta corrente per un sessuologo. Questo per dire come fantasie e paure non siano rarità, né aberrazioni".

Qui parliamo di ragazzi di vent'anni appena. Vorremmo associarli alla freschezza, alla gioia, alla scoperta.

"Ma a vent'anni, l'età di Amanda, Meredith, Rudy, Raffaele, c'è molta confusione sessuale. Più di prima. Una volta c'era la proibizione a fungere da stimolante. Oggi il consumismo sessuale, l'apparente facilità di appagamento porta ad alzare sempre più l'asticella. Vale già per gli adolescenti, dove si registrano nuovi livelli di violenza e crudeltà, individuali e di gruppo".

Qual è l'archetipo, l'Angelo Demone? Un amico di Meredith, la vittima, ha definito così Amanda: "Sembrava una ragazza normale, ma sotto sotto si capiva che era una selvaggia".

"Eh, stiamo attenti, stiamo attenti agli angeli".

Che cosa vuole dire?

"Pensiamo alla Principessa Diana. Al suo culto post mortem. Ma ricordiamo che è morta insieme al suo amante in un incidente stradale; sul quale peraltro si sono espressi dubbi, l'omicidio, i servizi segreti, eccetera. C'è la testimonianza del soccorritore che le tenne la mano, le ultime parole, My God, my God. È per paura che invoca Dio, o per colpa?".

Tornando ad Amanda...

"Il viso d'angelo di Amanda è un po' il viso di Perugia, città graziosa, civile, città della gioventù, del dialogo, dell'amicizia. Ma è un viso che cela sottofondi tumultuosi. Amanda appare ambigua come l'Angelo Caduto, più che il Demone, e l'Angelo Caduto è Lucifero...".

Ed ecco servito il romanzo popolare, il noir postmoderno. C'è pure l'Uomo Nero, l'antagonista su cui scaricare la colpa. Prima Lumumba, poi Rudy.

"Dare la colpa all'Uomo Nero: facile, lei dice?".

Facile provarci. Erika e Omar, a Novi Ligure, diedero la colpa agli albanesi. La Franzoni, a Cogne, prima al matto del paese, poi alla vicina montanara.

"Certo anche l'Uomo Nero è un archetipo. Per noi. La conosciamo fin da bambini, la paura dell'Uomo Nero. Poi magari è peggio la donna bianca. Qui a Perugia lo vedremo. Prima sembrava lo zairese, ora tocca all'ivoriano. Cosa facevano tutti intorno ad Amanda quella notte, oltre alla povera vittima?".

Dottor Abraham, alla fine che giudizio dà del voyeurismo del pubblico in questo caso così spinoso?

"Penso che da un lato questo attaccamento sia una reazione, diciamo così, malsana: la partecipazione corale a un delitto, o addirittura l'attrazione per chi vi ha partecipato. Dall'altro può essere una reazione utile. Noi assistiamo alla crudeltà altrui, loro recitano, noi stiamo in platea. Ne siamo fuori, ne siamo salvaguardati, vediamo dove porta la cattiveria. È un dramma dell'Homo connectus, immerso in un flusso continuo di immagini. Un grande delitto è anche una forma di teatro pubblico. Un gioco collettivo".

I media esagerano? Hanno una colpa? O fanno solo il loro dovere, in quest'epoca dell'Homo connectus?

"Non vorrei rispondere con un giudizio morale, ma con un giudizio, come posso dire, estetico".

Davvero?

"Ma sì. Io dico che i media devono fare rumore, è nella loro natura. Cronache esagerate, troppo morbose possono infine rivelarsi grottesche, e quindi dannose per gli stessi media. Una cosa lenta, raffinata, raccontata anche a lungo, può intrattenere meglio, e dare un vantaggio".

Lei è un bel cinico, dottor Abraham.

"Forse sono solo realista".

L'attrice che interpreta Amanda Knox: "Io, solidale con Meredith". L'attrice Genevieve Gaunt: "Non sono un giudice per biasimare Amanda Knox, il personaggio che rappresento. Ma provo grande empatia per Meredith", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Amanda Knox contro Amanda Knox. L'attrice che interpreta la ragazza americana accusata dell'omicidio di Meredith Kercher nel film "The Face of an Angel" confessa di provare "grande empatia" nei confronti della famiglia della studentessa inglese massacrata a Perugia nel novembre di otto anni fa. La bella Genevieve Gaunt, nata nel 1991, è stata fra le protagoniste del film di Michael Winterbottom, uscito nelle sale l'anno scorso. L'attrice ha spiegato di aver accettato la parte nella speranza che il film possa ricordare agli spettatori la tragica fine di Meredith, dopo anni in cui i media si sono concentrati, a suo dire, solo sulle vicende giudiziarie di Amanda. "Questo è un film in memoria di Meredith. Penso che la gente dovrebbe ricordare la sua innocenza e la sua speranza - e dovrebbe evitare di essere attratta verso la violenza gratuita.Penso anche che le persone possano essere trascinate in un processo per omicidio per le ragioni sbagliate." La Gaunt, d'altro canto, ha puntualizzato di essere "un'attrice e non un giudice", aggiugendo di non avere intenzione di biasimare in alcun modo il personaggio che si è trovata ad interpretare. Eppure l'empatia, la solidarietà, della Gaunt è andata d'istinto a Metz.

LA VERSIONE DI AMANDA

La versione di Amanda, scrive Clizia Gurrado su “Il Giornale”. Può una recensione teatrale delineare il profilo psicologico di chi l’ha scritta? Quando possiamo parlare di  bocciatura premeditata? E’ opportuno cimentarsi in indagini preliminari e possedere mansioni specifiche di laboratorio per attestare l’onestà di chi stronca un attore o ne osanna un altro? Si possono fare comparazioni balistiche tra repliche e debutti? Tutto questo per introdurre lo scoop del giorno: ho scoperto una nuova firma nel vasto panorama dei critici e delle penne teatrali online e cartacee. Non so se indovinerete il suo nome facilmente perché oggi di teatro scrivono un po’ tutti. Ma in questo caso sto parlando di una collega che scrive senza sviste, lapsus ed errori grossolani e che per mia fortuna lo fa dall’altra parte del mondo, per la precisione nella lontana West Seattle. Così la temuta concorrenza è eliminata in partenza. Ci siete arrivati?  Non ancora? Coraggio, vi sollecito a rispondere in fretta.  Sto parlando di Amanda Knox. Sappiamo che oggi conduce una vita normale, è di nuovo innamorata, è una collaboratrice freelance del West Seattle Herald e ha frequentato una scuola di scrittura creativa a Washington. Non dimentichiamo che è anche l’autrice del best-seller Waiting to be heard, il memoir che ha visto le stampe nel 2013. Per me è stata una sorpresa, non sapevo che si occupasse di teatro. Così ho voluto leggere subito le sue recensioni. Non per niente sono una persona incredibilmente curiosa. Andate anche voi a questo indirizzo http://www.westseattleherald. com.  e nello spazio “search” digitate il nome e il cognome della fanciulla americana. Confesso di aver letto i testi di Amanda con un occhio particolare, come se fossi alla ricerca di un indizio, di una traccia di dna, di reperti  biologici. Ho iniziato controllando alcune prove organiche su un avverbio, su un sostantivo, poi ho notato un accento forse spostato dalla scena grammaticale originale. Ho controllato la data del decesso di un’interrogativa, campioni di virgole e di punti esclamativi. Devo dire che ho visto subito il buongiorno, già dalle prime righe. Amanda descrive con precisione scenografie e ambienti, si sofferma sui particolari, analizza con cura i testi, parla degli attori e dei personaggi con competenza, virgoletta dichiarazioni di interpreti e autori, non ritratta mai i giudizi, riesce a essere spiritosa e anche onesta (“durante una lezione puo’ capitare di addormentarsi…” scrive nella recensione dello spettacolo Chinglish che ha visto qualche settimana fa – “if you’re going to slip and fall, as we all inevitably do sometimes…….”), ma non so cosa scriverebbe di uno spettacolo annullato all’ultimo minuto senza rinvio. Adesso poi che è stata giudicata “not guilty” e che ha avuto una condannata solo per calunnia, sono sicura che le sue recensioni saranno giudicate ancora più autentiche e credibili: nessuno dubiterebbe della sua presenza alla replica di una commedia o di un monologo all’Arts West Theater, anche quando invece se ne sta pigramente sul divano di casa col fidanzato come, ahime, fanno molti nel nostro paese, che scrivono di teatro senza vedere gli spettacoli.  E senza avere un fidanzato o fidanzata. C’e solo un problema: se fossi uno spettatore congolese, a Seattle per lavoro o per turismo, non vorrei avere un posto in platea vicino alla Knox.

Amanda Knox dopo la sentenza: "Grido la mia innocenza da anni". In un'intervista a Chi ringrazia chi ha creduto in lei. "Non me l'aspettavo, ma ho atteso tanto questo momento", scrive Franco Grilli su “Il Giornale”. La sentenza definitiva è arrivata pochi giorni fa: Amanda Knox non è colpevole per l'omicidio di Meredith Kercher, trovata morta a Perugia nel 2007. E la giovane americana, in una intervista a Chi, non nasconde di essere sollevata dalla decisione della corte. "Non me l'aspettavo - ammette -, ma l'ho sognato tante volte". E ringrazia chi ha creduto in lei, "quando tutti erano contro" e la pensavano colpevole dell'omicidio. Sul numero del settimanale anche un'intervista a Raffaele Sollecito, accusato come lei per la morte di Meredith. "La prima cosa che voglio fare è andare in questura a chiedere che mi restituiscano il passaporto", ha detto l'uomo. Il documento gli era stato ritirato quando si temeva che potesse darsi alla latitanza. Anche se lui ribadisce: "Io da Santo Domingo e dalla Svezia sono tornato per presentarmi al processo. Il sospetto che fuggissi faceva comodo".

RAFFAELE SOLLECITO: NON CHIAMATEMI MAI PIU' ASSASSINO.

Raffaele Sollecito ai giornalisti: «Non chiamatemi mai più assassino». La conferenza stampa con gli avvocati, a Roma: «Questa sentenza doveva finire così, ora ritorno alla vita normale». L’avvocato Bongiorno: «Valutiamo richiesta danni», scrive “Il Corriere della Sera”. «Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato: senza il loro supporto non avrei avuto la forza di arrivare fino a qui. Ringrazio in particolare mio padre, i miei avvocati e i miei familiari». Dopo l’assoluzione per il delitto di Meredith Kercher, Raffaele Sollecito ha parlato con i giornalisti durante una conferenza stampa a Roma. «Mi sento come un sequestrato tornato alla libertà», ha detto. «Il mio sequestro è stato insopportabile. Sono stato additato come un assassino senza uno straccio di prova. La mia famiglia è stata fatta a pezzi, sbriciolata. Non è vero che non mi aspettavo questa sentenza: questa vicenda doveva finire così». Adesso, ha detto il ragazzo, «Non accetterò più di essere definito “assassino” e sono pronto a tutelare la mia immagine nelle sedi opportune», ha avvertito, raccomandando ai cronisti: «Attenetevi ai fatti, massima cautela». «Ora valuteremo la richiesta di risarcimento». Nei prossimi giorni «valuteremo la richiesta di risarcimento» ha annunciato l’avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno. «Non ci sono sentimenti di vendetta nel suo animo», ha aggiunto. «Aspetteremo le motivazioni. Non frusteremo chi ha sbagliato. Vedremo se ci sono stati degli errori e che iniziative intraprendere. La responsabilità civile - ha concluso - è un istituto serio, che non va esercitato con lo spirito di vendetta». «Il momento più bello che ha messo fine a un incubo è stata la chiamata di mia sorella dopo la lettura della sentenza. È stato veramente l’inizio di una nuova vita, il ritorno alla mia normale esistenza e alla possibilità di vivere come un ragazzo della mia età senza più questo fardello che mi impediva di fare progetti e sogni», ha detto Sollecito. «Ho una lista infinita di momenti brutti, sette anni e cinque mesi sono un tempo infinito», ha aggiunto Raffaele, ricordando come «il momento più brutto è stato il mio arresto». «Avevo dato l’allarme io», ha proseguito. «Per me è stato surreale essere incolpato di un delitto così atroce senza avere colpe. La certezza della mia innocenza mi ha consentito di sperare nella giustizia e che mi avrebbe dato ragione. Dopo questa conferenza stampa non voglio più parlare di atti processuali», ha aggiunto poi. Tra me e Amanda solo affetto: così Sollecito ha definito il rapporto che lo legava alla ragazza di Seattle cno lui accusata di aver ucciso la Kercher. «Anche lei ha festeggiato con la famiglia - ha raccontato ancora Raffaele durante la conferenza stampa - e la telefonata si è chiusa con tanti auguri reciproci per la nostra nuova vita». Sollecito ha poi concluso: «Non so se ci vedremo in futuro, ma non ho questo desiderio imperterrito di vederla. La nostra è rimasta un amicizia come tantissime altre e sulla nostra relazione non c’è alcun alone cupo, come è stato detto da molti». Domenica Raffaele e Amanda si sono sentiti brevemente al telefono, dopo un anno di silenzio. «Ci siamo parlati al telefono per qualche minuto», ha detto Sollecito al Sun. «È stato bello sentirla anche se per la maggior parte della telefonata abbiamo pianto. È stato un grande sollievo», ha ammesso ancora il giovane pugliese al tabloid londinese. «Perché tanto odio nei miei confronti?» «Non dimentico», ha detto Raffaele, «che nelle carte processuali ho trovato offese gravissime nei confronti dei miei familiari, ancora oggi mi chiedo il perché di tanto odio. Ho avuto paura perché ho percepito un fortissimo livore nei miei riguardi. Il disprezzo non me lo so spiegare. Ho percepito un sentimento di odio verso me e verso la mia famiglia». Parlando dell’unica persona condannata per il delitto, Sollecito ha detto: «Rudy Guede non lo conosco affatto e quindi non ho nulla da dire su di lui». «C’è una persona che sa come sono andate le cose, perché il delitto è avvenuto per mano di Rudy Guede che è stato condannato con una pena bassissima», ha aggiunto l’altro avvocato di Raffaele, Luca Maori. «È giusto che faccia sapere cosa è successo, lo deve soprattutto alla famiglia di Meredith». E sulla famiglia di Meredith, SOllecito ha aggiunto: «Mi dispiace tantissimo che la famiglia di Meredith sia delusa e dispiaciuta da questa sentenza ma questa volta la verità processuale coincide con la verità dei fatti. Io non ho nulla a che fare con quel delitto, non avevo nessun motivo per nutrire astio verso Meredith e per rendermi partecipe di un delitto tanto orribile. Spero che loro riconoscano la verità dei fatti». Sollecito ha infine concluso: «Forse scriverò un libro, ora voglio dimenticare. Questa ferita non si rimarginerà mai purtroppo. Ringrazio i giudici che mi hanno risarcito di tante sofferenze, la ferita non smetterà mai di sanguinare, non si cicatrizzerà mai. Sono completamente estraneo a tutta questa vicenda».

Sollecito: «Voglio mezzo milione. Io Forrest Gump? Ha fatto grandi cose». La pm di Perugia: Raffaele e Amanda unici indiziati. I coniugi Kercher sotto choc: «Ma almeno è finita», scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”. Cinquecentosedicimila euro. È questa la somma che gli avvocati di Raffaele Sollecito chiederanno per l’«ingiusta detenzione». Il giorno dopo l’assoluzione disposta dalla Cassazione, Raffaele è a casa, in Puglia, e nel primo pomeriggio passeggia in riva al mare con la fidanzata Greta Menegaldo, che negli ultimi due anni gli è stata sempre vicina: «Quello che è accaduto a me non deve accadere più a nessuno - dice Raffaele - perché combattere contro una montagna di falsità è inimmaginabile dall’esterno. In questi otto anni ho combattuto senza mai arrendermi ma via via che abbattevo le accuse, altre ne nascevano... Un incubo». Venerdì ha lasciato Roma senza aspettare la sentenza: «Ma non stavo scappando, come si può anche solo pensarlo? Avevo dieci poliziotti con me e poi in questa storia ho sempre messo la faccia, non sono mai fuggito». Uno dei suoi legali, Giulia Bongiorno, l’ha paragonato a Forrest Gump: «È vero che era un ingenuo - sorride lui - ma di certo ha fatto grandi cose...». L’emozione per l’assoluzione è stata immensa: «Sono ancora disorientato, non è facile, sono stati anni duri». Ha sentito Amanda al telefono, in mattinata, ma preferisce non parlarne: adesso, per lui, c’è una nuova vita. Forse andrà all’estero a lavorare, in ogni caso da uomo libero. Sull’ipotesi del risarcimento, invece, si lavora allo studio dell’avvocato Giulia Bongiorno, dove infatti è già stato identificato «il tetto» stabilito per «i casi gravi come questo», oltre mezzo milione appunto. L’altro avvocato di Raffaele, Luca Maori, sostiene però che la richiesta sarà più alta: «Non c’è solo l’ingiusta detenzione perché ci sono ben altri danni, qui c’è la vita spezzata a Raffaele e la distruzione di un’intera famiglia dal punto di vista morale, materiale e d’immagine. Sarà una cifra a molti zeri». La sentenza che a Raffaele ha «restituito la vita», ha lasciato «sotto choc» la famiglia Kercher. La sorella di Mez, Stephanie, al telefono con il legale Francesco Maresca spiega, almeno in parte, cos’hanno rappresentato gli ultimi otto anni: «Da un certo punto di vista il fatto che il processo si sia chiuso va bene, perché ogni udienza per noi era una ferita al cuore, ogni tappa processuale ha rappresentato per la nostra famiglia il riaprirsi di ferite dolorosissime, e in questo senso il giudizio finale, sia pure per noi con un esito devastante, rappresenta anche un punto fermo». Da Perugia, però, arriva l’incredulità di Manuela Comodi, che ha affiancato il pm Giuliano Mignini nel secondo grado: «Gli unici due indiziati rimangono Amanda e Raffaele perché sulla scena del delitto, oltre loro e Rudy, non c’è traccia di nessun altro. La Cassazione ha smentito se stessa...».

Greta, che ha creduto in Sollecito: «Chi critica non sa di cosa parla». La fidanzata di Raffaele: «Sul web mi attaccano, il mondo reale è molto diverso». Si sono incontrati in aereo, lei hostess lui passeggero. La famiglia la sostiene, scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”.

L’amore, a volte, richiede coraggio.

«Per me il momento più difficile è stato sicuramente l’ultima settimana prima della sentenza, sono stata davvero molto in ansia».

Infatti venerdì, qualche ora prima della sentenza della Cassazione, lei Raffaele e la famiglia di lui siete andati via da Roma e siete tornati in Puglia.

«A proposito di momenti difficili, certo: le ultime ore prima della sentenza sono state le peggiori. Però io ci ho sempre creduto, ho sempre saputo che sarebbe finita così...».

Greta, scusi: però non deve essere stato facile. Ha conosciuto Raffaele Sollecito nel 2013 e da allora, per lei, ci sono state anche molte critiche.

«Ci sono tante persone che mi hanno criticata sui social network, ma dopo un po’ di tempo mi sono accorta che sono persone a cui piace vomitare veleno solo per il gusto di farlo».

Le hanno fatto male?

«No, queste persone non hanno alcuna idea delle cose di cui parlano, proprio non ne sanno niente: per questo, sinceramente, non ho mai dato loro alcun peso».

Si sono incontrati a diecimila metri d’altezza, Greta Menegaldo, 32 anni, e Raffaele Sollecito, assolto (definitivamente) venerdì dalla Corte di Cassazione dall’accusa di essere, insieme con l’americana Amanda Knox, l’assassino di Meredith Kercher, nel 2007 a Perugia: lei era in aereo per lavorare come hostess, lui era a bordo come passeggero. Una volta scesi a terra, Greta ha creduto in Raffaele - che da lì a pochi mesi sarebbe stato condannato a venticinque anni dalla Corte d’appello di Firenze, e sul quale pesava già la precedente sentenza della Cassazione - e l’ha fatto in un modo che, forse, ha poco a che vedere con la ragione: senza mai dubitare. I settimanali, per Greta, hanno usato quasi sempre tre aggettivi: «Bella, discreta, elegante». Di certo è una ragazza riservata, perché in questi anni di cupa notorietà non ha mai parlato. Se è finita nelle foto delle udienze, quindi, è per un motivo diverso dal protagonismo: semplicemente, era accanto a Raffaele. Lo è stata in ogni momento, quelli belli come la laurea in Ingegneria informatica e quelli drammatici come la condanna di Firenze a venticinque anni e, negli ultimi mesi, l’attesa della Cassazione. È una trevigiana di Ponte di Piave, con un diploma al liceo linguistico di Oderzo, un lavoro da hostess all’aeroporto di Venezia e, soprattutto, con una solida famiglia alle spalle. Che, in questo amore - per un ragazzo che, tecnicamente parlando, fino a venerdì è stato considerato «un assassino» - l’ha sempre difesa e sostenuta. Sia chiaro, lei non ha mai nascosto la sua storia con Raffaele: a Oderzo, dove lei vive, i due hanno sempre passeggiato mano nella mano. A testa alta, nonostante tutto. Anche se, soprattutto in Italia, il fronte «colpevolista» è stato di gran lunga più compatto di quello innocentista: anche perché, forse, Amanda Knox e Raffaele Sollecito prima di venerdì erano stati assolti una sola volta, nell’appello di Perugia del 2011. Per il resto, cioè per quasi otto anni, c’erano state solamente condanne.

Ha ragione chi dice che per amore di Raffaele lei abbia, in qualche modo, sfidato il mondo? Anche il mondo di una certa provincia italiana, dell’opinione pubblica e, appunto, dei social network...

«Non penso di averlo sfidato, ma semplicemente perché credo che il mondo sia molto diverso da quello che ho conosciuto con le critiche sui social network».

Lei cosa chiede, adesso, alla vita?

«Voglio solamente godermi questi momenti di felicità, di gioia e di vita nuova».

Come sta? E con Raffaele avete progetti per il futuro?

Non risponde, inizialmente. Poi invia un altro sms.

«Sono felicissima».

CHE RAZZA DI INDAGINI...

Le indagini in Italia non le sa fare più nessuno, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista. Edoardo Mori, magistrato in pensione dopo essere stato prima giudice istruttore, poi gip e infine al tribunale della libertà e che adesso gestisce il sito earmi.it dove raccoglie, fra l’altro, errori e orrori delle indagini scientifiche, dice: «I pm che chiedono una perizia alla Scientifica o al Ris sono come quelli che sulla salute di un congiunto chiedono informazioni al portantino». Marco Morin, fra i maggiori esperti mondiali di balistica: «A volte sono più fondate le ipotesi investigative elaborate dai poliziotti della Digos delle perizie prodotte dai loro colleghi della Scientifica». Giuseppe Fortuni, docente di Medicina legale a Bologna con quattro decenni di esperienza sul campo: «Nonostante tutte le tecniche scientifiche d’indagine si trovano meno colpevoli di prima». Già. Il clamore suscitato dalla sentenza di assoluzione di Amanda e Raffaele non è solo un risvolto della canea giustizialista che vuole il sangue, a ogni costo. È, piuttosto, lo sgomento di lasciare impunito un delitto, di lasciare una vittima senza una qualche giustizia. È una sconfitta dell’accusa, più che una vittoria della difesa, e la differenza non è da poco: non sono innocenti, sono non condannabili. I giudici dichiarano che sulla base delle prove raccolte non sono in grado di accertare una verità. Ovviamente, hanno fatto bene, in questo caso, a scegliere di non condannare senza la certezza di un giudizio. E hanno fatto male a chiudere ogni possibilità di revisione del processo. Per deciderlo, tutto dev’essere ormai così compromesso da non lasciare speranza di accertare alcunché. Come è stato possibile che in otto anni di processi nessuno si fosse reso conto che le prove valevano meno di niente? Viene da pensare, a esempio, che la condanna di Alberto Stasi – anche lui in un’altalena di sentenze – per l’omicidio di Chiara Poggi sia basato su una raccolta di prove ancora più labili di quelle che non sono bastate a condannare Amanda e Raffaele. Viene da pensare che le polemiche su Bossetti e il caso Yara siano ben più che un pregiudizio innocentista o antimagistratura. Viene da pensare che l’aleatorietà del giudizio – «la Cassazione che smentisce se stessa», come è stato detto per Knox e Sollecito – dipenda troppo dalla casualità del giudice cui sei affidato. Dai caratteri del giudice cui sei affidato. Questa però non è la perfettibilità umana dell’indagare e del giudicare. Questo è un pasticcio. L’abilità e la competenza giuridica, la capacità e l’acume di un avvocato come di un pubblico ministero fanno certo la differenza: questo è il principio per cui si dovrebbe garantire a ogni cittadino di avere un’adeguata difesa e non consentirla solo a chi può permettersi di pagare i principi del Foro e i migliori periti. Ci eravamo convinti però – ci avevano convinti però – col nuovo processo e il dibattimento e queste cose qua che tutta la giurisprudenza del mondo, tutta la sapienza giuridica venisse sempre più ancorata al rigore della prova scientifica. Che non fossimo ancora al tempo del processo Bebawi, quando marito e moglie si accusarono l’uno contro l’altra di avere ucciso l’amante di lei e la giuria incapace di dire chi fosse stato davvero il colpevole – se lui, lei o insieme – li mandò assolti entrambi. Due colpevoli di troppo – scrisse Oriana Fallaci. Non ce la bevevamo più, pensavamo. Due colpevoli di troppo sono diventati pure Amanda e Raffaele – uno c’è, è Rudy Guede, nella nuova figura di reato del «concorso da solo». Un colpevole basta e avanza, evidentemente. Non c’entra niente l’abbuffata di telefilm e fiction in cui le squadre dei forensic, la polizia scientifica, con un capello ritrovato in un sifone di lavello o una scheggia d’un faro d’automobile, risalgono all’assassino e al complotto che sta preparando una strage. Fiction, certo. C’entra solo che dalla fisiognomica di Lombroso, che pure nella sua orribile deformazione puntava a rendere scientifica la criminologia, pensavamo di avere fatto dei passi avanti nella tecnologia e nelle tecniche, nell’analisi di una scena del crimine, nella raccolta delle prove. Invece, così non è. Le figure chiave nella soluzione dei delitti rimangono il pentito e l’intercettazione. Ma pentito e intercettazione sono figure ricorrenti nelle associazioni criminali, non nei delitti “qualunque”. Pentito e intercettazione sono elementi “passivi” di un’indagine, e non a caso estremamente problematici. Il pentito confessa le cose più turpi, che servono all’indagine del magistrato, per i suoi scopi, che possono essere una pena ridotta, un cambio di identità, la distruzione di un clan nemico, una qualche vendetta. L’intercettazione, a parte tutte le questioni legate alla loro legittimità e ai loro abusi, ha limiti evidenti: si conversa, si cazzeggia, uno può ingigantire una cosa, per mille motivi, per darsi peso, per pavoneggiarsi, per incutere timore o rispetto, oppure minimizzarli, uno può dire una cosa solo per vedere l’effetto che fa sull’interlocutore, e così via. L’intercettazione non prova un bel niente, proprio come un pentito non prova un bel niente. Non sono fatti inoppugnabili, incontrovertibili, anzi sono sempre reversibili. Nella lotta alle cosche e ai clan, spesso possono consentire chiavi di lettura, possono servire a incrociare dati, a sovrapporre cose apparentemente lontane, proprio perché ci si trova di fronte fenomeni complessi e segreti. Non è così per gli omicidi. Il carattere “passivo” degli elementi-chiave di questi anni – intercettazioni e pentiti – ha finito col produrre una sorta di pigrizia intellettuale nelle indagini, una sorta di “pigrizia investigativa”.

Se si ripercorrono alcuni dei casi più clamorosi e controversi della cronaca “nera” di questi anni, si rimane sconcertati dalla mole di errori nelle indagini. Ora sembra che il Dna risolva tutto, e investigatori e giudici si siano “impigriti”, convinti di avere in mano lo strumento risolutivo. Il Dna è uno straordinario strumento di indagine, ma solo se si seguono rigorose metodologie, dal primo istante delle indagini; se gli investigatori scientifici arrivano dopo altri, si è già creato un inquinamento della scena del crimine, spesso non più controllabile. A esempio, nel caso Anna Maria Franzoni e del delitto di Cogne si susseguirono oltre venti sopralluoghi nella casa del delitto ma solo dopo che per casa c’era stato un gran viavai di persone. Ancora nel caso di Cogne, le indagini non hanno mai portato al ritrovamento dell’arma del delitto. Si è ipotizzato che si trattasse di un mestolo di rame, di una piccozza da montagna, di un pentolino del tipo usato per bollire il latte o di altri oggetti, ma non è mai stata raggiunta alcuna certezza. L’arma del delitto, malgrado le approfondite ricerche non è mai stata trovata. Il professor Carlo Torre, cui era stata affidata inizialmente dalla famiglia Lorenzi la consulenza medico-legale passò diversi giorni nel laboratorio dell’Istituto di Anatomia di Torino per studiare i diversi modi in cui gli schizzi di sangue avessero potuto macchiare il pigiama azzurro ritrovato sul letto del piccolo Samuele. Per concludere, che – contrariamente a quanto sostenuto nelle indagini, che ipotizzavano se lo fosse sfilato dopo il delitto – l’assassino non poteva indossare quel pigiama macchiato di sangue. Per un motivo molto semplice: se quell’indumento fosse stato indossato da chi ha ucciso il bimbo di Cogne sarebbe stato sì sporco di sangue ma le tracce ematiche si sarebbero deformate nel momento in cui fosse stato sfilato. E così non era.

Nel caso di Marta Russo i laboratori della polizia avevano scambiato una particella di ferodo di freni, ampiamente diffuse nell’aria di Roma, per un residuo di sparo e su di esso avevano costruito tutta la tesi accusatoria. Per non parlare della traiettoria del proiettile ricostruita sulla base di un solo punto e che, guarda caso, passava proprio per dove era stato trovato il residuo fasullo.

Il 7 agosto 1990 in via Poma viene ritrovato il corpo di Simonetta Cesaroni. È stata immobilizzata a terra, qualcuno si è messo in ginocchio sopra di lei e l’ha colpita con un oggetto o le ha battuto la testa contro il pavimento facendola svenire. Poi, l’assassino ha preso un tagliacarte e ha iniziato a pugnalarla a ripetizione. Simonetta viene lasciata nuda, con il reggiseno allacciato, ma calato verso il basso, con i seni scoperti. Su uno dei capezzoli c’è una ferita che sembra un morso. Non vengono analizzati eventuali ritrovamenti di saliva attorno al capezzolo, posto che quella escoriazione sia dovuta a un morso. Dopo Pietrino Vanacore, portiere del palazzo, e Federico Valle, nipote di uno dei residenti, nel 2007, l’ex-fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, viene formalmente indagato. Sono passati diciassette anni dal delitto. Nel 2009 il pubblico ministero chiede il rinvio a giudizio di Busco. Il giudice decide di ascoltare i cinque consulenti che hanno eseguito la perizia sull’arcata dentaria di Busco e il confronto tra l’arcata dentaria dell’imputato e il morso al capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni. Viene anche convocato il consulente tecnico di Raniero Busco. I cinque periti del pubblico ministero – tra i quali un capitano del Ris – espongono i risultati della loro analisi sull’arcata dentaria di Raniero Busco e dimostrano, anche attraverso prove fotografiche, la perfetta compatibilità tra i segni del morso sul capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni e i denti dell’imputato. Il giudice ascolta anche la relazione del consulente nominato dalla difesa di Busco, che ritiene la lesione sul capezzolo della vittima come compatibile solo con l’azione di un morso laterale per il quale non è possibile giungere a alcuna attribuzione; evidenzia pure che le incisioni dentali di Busco, se di morso si tratta, sarebbero state completamente differenti, escludendo quindi che sia lui l’autore della lesione sul capezzolo. Il giudice accoglie la richiesta del pubblico ministero e rinvia a giudizio Raniero Busco. A gennaio 2011, al termine del processo di primo grado, Raniero Busco viene riconosciuto colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni e condannato a 24 anni di reclusione. A aprile 2012, al termine del processo di secondo grado, Busco viene assolto dall’accusa del delitto Cesaroni per non aver commesso il fatto. La Procura ricorre in Cassazione e nel febbraio 2014 Busco viene definitivamente assolto. Morso, tracce di Dna, sangue mischiato, perizie sballate, tutto un pasticcio. Il delitto resta senza colpevoli; Simonetta rimane senza giustizia.

Garlasco: nel settembre 2007 viene inviata alla procura di Vigevano una “relazione preliminare” che contiene l’accertamento sui pedali di una bicicletta di Alberto Stasi: è stato individuato un profilo genetico riconducibile, al di là di ogni ragionevole dubbio, alla vittima, secondo il Ris di Parma. Su quei pedali c’è il sangue di Chiara Poggi. Se ne convince anche il Pubblico Ministero incaricato dell’indagine, che, sulla base di quella relazione, dispone il fermo di Stasi. È il 24 settembre del 2007, quaranta giorni dopo il delitto. Il giorno seguente, il reparto scientifico dell’Arma manda una “nota tecnica” sugli esami del giorno prima: i risultati sono stati comunicati «senza procedere a ulteriori accertamenti». Un giorno dopo la consegna della relazione tecnica la posizione del Ris si fa più sfumata: il profilo genetico relativo alla vittima è solo «con elevata probabilità riconducibile a sangue». Passano altri due giorni e il 27 settembre il consulente tecnico della difesa di Stasi invia le sue osservazioni alla Procura: le analisi del Ris non dimostrano la presenza di emoglobina, quindi non si può parlare di sangue. Il gip considera “insufficienti” gli indizi raccolti e scarcera Stasi. Come si sa, i vari processi hanno poi finito per condannare definitivamente Stasi, e la bicicletta e i suoi pedali – forse non quella, forse non quelli – sono risultati poi determinanti. Più sconcertante era stato il fatto che una settimana dopo il delitto la salma di Chiara Poggi fosse stata inaspettatamente riesumata. I tecnici della scientifica devono obbligatoriamente prendere le impronte digitali sul cadavere per effettuare l’esclusione con quelle raccolte sulla scena del crimine. Era però successo che nei momenti immediatamente successivi alla scoperta del delitto nessuno lo aveva fatto.

E parliamo adesso di uno dei casi più recenti e ancora aperti, l’uccisione di Yara Gambirasio e l’accusa nei confronti di Massimo Bossetti. Il Dna che ha portato in carcere Bossetti è stato estratto dal Ris da una traccia mista scoperta sugli slip di Yara. È una traccia mista, perciò va separata: da una parte Yara, dall’altra Ignoto 1. Gli esperti stimano che quella traccia sia composta per quattro quinti dal materiale biologico (forse sangue) di Ignoto 1 e solo per un quinto dal sangue di Yara. Succede però che il perito nominato dal pubblico ministero scopre e certifica che le proporzioni sono invertite: quella traccia sono per quattro quinti di Yara e solo per un quinto di Ignoto 1. Forse non cambia nulla per Bossetti. Il Ris ha proceduto con l’estrazione del Dna nucleare, quello che individua con la massima precisione solo un individuo nel mondo e quel Dna nucleare, estratto dagli slip di Yara, combacia con quello di Massimo Bossetti. È lui Ignoto 1. Viene però esaminato e riesaminato il Dna mitocondriale, quello cioè che trasmette all’individuo le informazioni genetiche da parte materna. E qui, misteriosamente, Bossetti scompare. Anzi, compare proprio un’altra persona, mai individuata. Chi è? Il problema vero è un’altra scoperta del perito del pubblico ministero: l’originaria traccia di Dna nucleare che ha portato all’identificazione di Massimo Bossetti sembra esaurita. Quindi, posto che Bossetti non compare nel Dna mitocondriale estratto dalla traccia degli slip, resta in piedi la prova del Dna nucleare. Se si volesse ripeterla in sede processuale non sarebbe però piùpossibile. E questo, per Bossetti, può cambiare le cose.

Non sono un esperto di giudiziaria, non ho mai letto una sola carta processuale dei casi riportati, e mi sono limitato a riprodurre quanto spulciato nelle cronache, il che andrebbe di sicuro tarato. Peraltro qui non si vuole dare la croce addosso a nessuno. Ci sono stati tanti casi in cui le perizie sono state determinanti per accertare la verità. Basta però qui riportare le parole dell’ex generale Luciano Garofano, a lungo responsabile del Ris di Parma, e “volto noto” di tante trasmissioni televisive: «La polizia giudiziaria ha fatto passi di gigante nella tecnica del sopralluogo e negli esami di laboratorio ma molto resta da fare. Sulla scena del crimine dovrebbero andare solo specialisti puri che non abbiamo». Suona come una responsabile constatazione, piuttosto che una voce dal sen fuggita. E allora perché non li rifondiamo questi laboratori, perché non li formiamo meglio questi esperti, questi tecnici, questi periti? Perché consideriamo ogni perizia come fosse una pistola fumante e non qualcosa che va analizzato, considerato, soppesato, riscontrato attraverso altri mezzi di investigazione? Perché si è talmente impigrita l’indagine, affidandosi esclusivamente a elementi tecnici la cui ponderabilità è quasi sempre controversa? Cosa fanno i pubblici ministeri, i passacarte dei laboratori scientifici? Cosa fanno i pubblici ministeri, per sapere della salute di un congiunto chiedono informazioni al portantino? Io credo sia questo il vero problema. La sentenza Knox-Sollecito a me non dà alcun sollievo: qualcuno deve dare conto a Meredith Kercher.

PROCESSO AL PROCESSO!

Omicidio Meredith, processo al processo. Un colpevole con complici non individuati. Così le assoluzioni per il delitto di Perugia mettono a nudo l’assurdità delle nostre regole. Da rivedere subito, scrive Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”. Meredith Kercher Per l’omicidio di Meredith Kercher c’è un solo colpevole. Si chiama Rudy Guede e sta scontando la sua pena. Nella sentenza che lo condanna a 16 anni di reclusione è scritto che il delitto è stato commesso in concorso con altri individui. Costoro non sono, e non potranno mai essere, Amanda Knox e Raffaele Sollecito, assolti definitivamente qualche giorno fa dalla Cassazione. Conclusione che ha seminato sconcerto nell’opinione pubblica, come sempre più spesso accade quando ci si addentra nei meandri del sistema processuale italiano. Per la storia, Raffaele e Amanda sono due bei ragazzi dal volto pulito finalmente liberati da un’assurda persecuzione. Agli occhi di qualche commentatore la condanna di un giovane nero, e per di più “difficile”, ha avuto il sapore di una beffarda palingesi di quella che un tempo si chiamava “giustizia di classe”. Si rinnovano interrogativi ricorrenti: com’è possibile che gli stessi imputati siano due volte assolti e due condannati? Era necessario farlo, questo processo, visto l’esito? Torna a risuonare il mantra più diffuso nel contemporaneo: chi paga? Qualche precisazione, anche se impopolare, è doverosa, da parte del tecnico. Qui nessuno era stato colto in flagrante con la pistola fumante. Il processo era indiziario. Vale a dire che mancava la prova certa, ma c’erano argomenti da collegare insieme per arrivare alla ricostruzione del fatto. Elementi che la legge vuole “gravi, univoci e concordanti”, chiedendo al giudice di esaminarli e valutarli. In questa attività, tipicamente interpretativa, sono possibili esiti difformi. Prendiamo la prova scientifica, snodo ormai cruciale di ogni vicenda criminale. Inizialmente, consulenti e periti del pm e del giudice per le indagini preliminari non erano affatto certi che il delitto fosse stato commesso da più persone, ritenendo possibile l’esistenza di un solo assassino. Altri consulenti - e giudici - propenderanno per l’ipotesi del delitto collettivo, ma la prima considerazione resta agli atti. Ed è, come tutto, materia d’interpretazione. Materia scientifica d’interpretazione. Tocca rassegnarsi: è la scienza in sé a costituire materia opinabile, e la dialettica processuale sembra ideata da una mente perversa che gode ad amplificare i contrasti, lungi dal sanarli. Gli esperti possono comparire in un processo come consulenti di parte o del giudice. Nel primo caso, sono ontologicamente chiamati a portare acqua al mulino di una delle tesi contrapposte. In un processo accusatorio, dunque di parti che godono di eguali facoltà e diritti, non è ammissibile accordare - in ipotesi - maggior fiducia al poliziotto o al carabiniere in quanto “rappresentanti dello Stato”, ma ogni argomento scientifico, da chiunque sia portato, deve essere attentamente vagliato, sia esso accolto o confutato. Nel secondo caso, i periti rispondono direttamente al giudice. E questo, se offre una garanzia aggiuntiva, liberando il campo da ogni sospetto (per quanto tendenzioso) sulla qualità dell’analisi offerta, dall’altro non mette al riparo da altri pericoli. O, per meglio dire, dal multiforme atteggiarsi dell’esperienza umana, anche nel campo del sapere scientifico. Gli esperti sono spesso di provenienza accademica. Si dividono per l’adesione all’una o all’altra metodologia d’indagine, per il riconoscersi o meno in una determinata scuola di pensiero. Nel caso di Perugia, gran parte del contrasto sul Dna, momento decisivo della vicenda, dipendeva, in ultima analisi, dal confronto/scontro fra genetisti su alcuni temi specifici che da anni alimentano il dibattito della comunità scientifica. Quando il Dna è poco, lo si definisce “Low copy number”, e per sottoporlo all’analisi (la “corsa elettroforetica”), occorre amplificarne il volume mediante il ricorso a reagenti chimici. Ma l’amplificazione può indurre risultati artefatti: la comparsa di dati inesistenti, la scomparsa di dati esistenti. Sino a che punto il materiale genetico può essere “stressato” senza che ciò comporti risultati del tutto inattendibili? E un risultato dubbio, come va interpretato? Come “non c’è prova che il Dna sia di Tizio”, secondo una certa opinione, molto autorevole, o come “non si può escludere che quel Dna sia di Tizio, pur non potendolo dire provato”, secondo un’altra opinione, altrettanto autorevole? Quali procedure adottare per garantire che nelle fasi di prelevamento, custodia, esame dei reperti non si verifichino contaminazioni? Un risultato ottenuto in violazione dei protocolli è da scartare, o è comunque valido, perché i protocolli non sono legge, e l’esperienza del perito deve prevalere su astratte regole ideate per qualche caso-limite? I consulenti del primo processo svolto a Perugia sostengono di aver trovato Dna misto di Amanda e della vittima su un coltello sequestrato, e Dna di Sollecito sul reggiseno della vittima. I periti nominati dalla Corte, nel processo di appello, censurano l’errata conservazione dei reperti, giudicano inattendibile il materiale genetico trovato sul reggiseno, escludono il Dna della vittima dal coltello. Primo annullamento della Cassazione. Nuovo appello, nuovi periti. I quali non possono ripetere l’analisi sulle tracce già esaminate del coltello per carenza di materiali genetici, ma valutano un’altra traccia, ignorata perché ritenuta troppo esigua dai precedenti periti, e l’attribuiscono alla sola Amanda. I giudici degradano il Dna misto Amanda/Meredith a indizio (prima era una prova piena), ma nella loro valutazione complessiva il Dna della cui conservazione si dubitava è comunque valido. L’ultima Cassazione - vedremo le motivazioni quando saranno disponibili - evidentemente non ha condiviso il ragionamento. La prova scientifica, insomma, lungi dal fornire certezze, rischia di produrre nebbia ancora più fitta. Accade in continuazione: non a caso negli Stati Uniti si stanno studiano protocolli imperativi, nel senso dell’adozione di linee-guida da rendere obbligatorie per l’uso della scienza nel processo. Dovremmo fare qualcosa di simile anche noi. E farlo presto. E che dire del movente? Indicato in un primo momento nella violenza sessuale, viene ricondotto, dall’ultima sentenza di condanna (quella annullata per sempre dalla Cassazione) a una lite progressivamente degenerata. Inutile dire che il tecnico sa bene come l’individuazione del movente non sia necessaria, quando c’è la prova della colpevolezza: all’uomo della strada questa constatazione appare un sofisma del quale diffidare. Su un punto, però, senso comune e tecnica concordano. È irrazionale che tre individui coinvolti nella medesima vicenda siano processati in due diverse sedi e con regole processuali diverse. È qui, in questa diversità, che si annida un baco profondo: finché non vi si metterà mano, l’irrazionalità del sistema risulterà ineliminabile. Rudy Guede ha scelto il rito abbreviato, e in cambio ha ottenuto uno sconto sulla pena. Nel processo contro di lui sono stati utilizzati materiali investigativi che non potevano essere spesi contro Knox e Sollecito: perché il processo abbreviato si fa sulla base delle indagini del pm, mentre nel processo ordinario la prova si forma in dibattimento. All’imputato, in sostanza, si offre un patto: tu accetti di essere giudicato “allo stato degli atti”, e in caso di condanna prendi meno anni. Nessuno, tanto meno il pm, può opporsi. Per giunta, finché il processo abbreviato dura, chi vi è assoggettato ha facoltà di non rispondere in quello contro gli eventuali coimputati. Sono le nostre regole. Sul piano astratto hanno una sostanziale nobiltà. Su quello concreto, contribuiscono a rendere la giustizia un affare tendenzialmente gnostico. Siamo stati molto criticati, per la vicenda di Perugia, specialmente dagli americani: una loro cittadina accusava di brutalità le nostre forze dell’ordine, la sentenza contro Guede appariva incomprensibile, i membri della giuria popolare non erano sequestrati durante il dibattimento - come avviene negli States - ma vivevano come liberi cittadini, godendo persino del diritto di leggere il giornale o guardare la Tv. Sistemi diversissimi, chiaro. Da quelle parti, quando un imputato vuole uno sconto di pena, si mette d’accordo con il pm e si impegna, con un contratto formale, ad accusare i complici. Da quelle parti, l’imputato o parla, sotto giuramento, o tace, ma una volta che abbia parlato, le sue dichiarazioni sono eterne e incancellabili. Da noi l’imputato è il signore del processo: decide se e quando parlare, ritrattare, mentire. Senza pagare dazio. Non c’è da entusiasmarsi per la giustizia contrattualistica all’americana, ma il nostro processo, così com’è, è una sorta di surreale macchina celibe, un modello indecifrabile. È accaduto, insomma, in questo caso, quanto si verifica sovente nei processi indiziari: alcuni giudici li hanno ritenuti, questi indizi, sufficienti a condannare, altri sono stati di diverso avviso. Niente che si discosti dalla fisiologia del sistema. Esistono valide alternative? In un regime democratico no. In passato si usava la tortura, ma è lecito dubitare che persino il più scatenato colpevolista la rimpianga. Del resto, più gradi di giudizio sono previsti proprio per evitare le conseguenze disastrose a cui porterebbe una decisione errata, o controversa, se ci si attenesse solo ad essa, senza possibilità di riesame. Ma si poteva evitare un giudizio così difficile e scivoloso, il cui esito è letto da molti come una sconfitta per la giustizia? Premesso che non si può pensare di processare soltanto chi confessi immediatamente (di solito, l’accusato si difende, è così che funziona), nel nostro sistema il pm ha l’obbligo di procedere e non può “scegliere” chi processare e per quali reati. Insegue un’ipotesi accusatoria e spetta poi ai giudici vagliarla. Ogni processo è una partita aperta che ruota intorno a un interrogativo di fondo: gli elementi offerti dall’accusa sono o no sufficienti alla condanna? Anche se si introducesse la discrezionalità dell’azione penale, i termini della questione non cambierebbero. Ci sarebbero sempre un’accusa e una difesa, e possibili esiti contraddittori del giudizio, perché quando il giudice condivide le prospettazioni dell’accusa, condanna, quando le confuta, assolve. Ma, si dice, oggi una famiglia colpita a morte non ha avuto giustizia. Eppure, per il delitto c’è un sicuro colpevole. Gli altri devono necessariamente essere i due imputati? Anche se nei loro confronti le prove non sono sufficienti? La vicenda si è trascinata per otto lunghi anni. Il nostro sistema processuale presenta indubbie falle, alcune delle quali sono emerse proprio in occasione di questo caso. Ma l’accertamento della verità è un percorso accidentato, dialettico, difficile, e in qualche caso impossibile. Sui tempi si potrà e si dovrà lavorare, ma dovremo avere tutti l’onestà intellettuale di spiegare all’uomo della strada che un omicidio vero non accetterà mai di farsi comprimere nei cinquanta minuti di un format tipo Csi.

IL DELITTO DI PERUGIA E LE FIGURACCE DEI MAGISTRATI.

Nella roulette giudiziaria è uscita la sentenza di assoluzione, ma nella girandola delle pronunce emesse nulla ci impedisce di pensare che poteva uscirne qualcosa di diverso per gli imputati. E’ solo questione culo. In Italia sei fortunato se trovi un Giudice con la G maiuscola. Ancor più importante è avere tanti, tanti di quei soldi che ti permettano di cercarlo. Per questo stiamo qui a parlarne in un certo modo. Se la sorte fosse cambiata, il senso delle parole e dei reportage dei pennivendoli sarebbero diversi.

Che grama vita affidarsi alla fortuna!

La Bongiorno: "La Cassazione ha avuto il coraggio di affermare che Raffaele è innocente". L'avvocato difensore del giovane commenta la sentenza di assoluzione in via definitiva, scrive Caterina Pasolini su “La Repubblica”. "E' stata una battaglia durissima, Sollecito è innocente, e questa Cassazione ha avuto il coraggio di affermarlo. Ora Raffaele torna a riprendersi la sua vita". Fuori dal palazzaccio parla del suo assistito che ancora non riesce a credere alla fine dell'incubo, dei giudici "preparati, che hanno studiato a fondo le carte e per questo lo hanno assolto". L'avvocato Giulia Bongiorno nella notte più lunga scioglie la tensione e allarga un sorriso dopo anni di carte, di prove e perizie contestate. Ha vinto la sua linea, la sua costanza.

Se l'aspettava?

"Sì, avevamo consegnato seicento pagine per spiegare gli errori della sentenza, di una realtà frantumata nel corso di anni di processi e resa ormai irriconoscibile dal vero. Ho sempre detto che se si studiavano le carte si sarebbe capita la verità. E i giudici erano molto preparati, si vedeva, hanno fatto relazioni puntuali e rigorose. Hanno avuto coraggio".

Hanno avuto coraggio i magistrati?

"Sì, il coraggio di andare a fondo, di rileggere il materiale, in fondo c'era un'altra sentenza di Cassazione da valutare. Il coraggio di andare oltre l'apparenza e l'opinione pubblica. Il coraggio di essere indipendenti".

Raffaele e Amanda assolti per sempre?

"Si, i giudici potevano annullare la sentenza e decidere di approfondire, invece hanno deciso di annullare senza rinvio: è come dire basta indagini, non c'è alcun coinvolgimento di Sollecito".

Ha parlato con Raffaele?

"L'ho sentito, ha capito che è andata bene, non i passaggi tecnici. Mi è sempre piaciuto, mi è piaciuto il modo in cui ha affrontato a testa alta i momenti duri e sono stati tanti in questi otto anni di indagini, 4 dei quali passati in carcere. E in questo tempo non l'avete mai sentito imprecare, insultare i giudici o la giustizia. Sempre rispettoso, pacato, anche per il suo carattere mi sembrava impossibile l'accusa. Certo, ha avuto la fortuna di avere accanto un padre straordinario pronto a sostenerlo. Sempre".

Cosa le ha detto?

"È come se non riuscissi ancora a crederci. Dopo otto anni, dopo essermi svegliato tutte le mattine con questa spina nel cuore mi sembra impossibile sia finita. Invece, ora per Raffaele è il momento di riprendersi la sua vita".

Delitto Meredith, ecco ciò che non torna, scrive Angela Di Pietro su “Il Tempo”. Chi è complice di Rudy? Chi inscenò la rapina e lanciò il sasso dall’interno? A Seattle esplodono i fuochi d'artificio, a Bisceglie si ringrazia come dopo un avvenuto ed inatteso miracolo. Amanda Knox si commuove e lancia un pensiero affettuoso all'«amica» Meredith Kercher, aggiungendo di essere stata fortunata a conoscerla. A fatica riesce a muovere le labbra per ringraziare chiunque l'abbia aiutata, con la mano poggiata sul cuore come a trattenere l'emozione. È' il suo avvocato a trovarle, le parole: «Amanda chiederà i danni per l'ingiusta reclusione». Potrebbe arrivare ad intascare cinquecentomila euro dallo Stato Italiano. Festeggiano anche gli organi di comunicazione, soprattutto quelli americani e inglesi. The Indipendent sottolinea come in passato Amanda sia stata «vittima di un aborto spontaneo della Giustizia italiana», il New York Times riserva ampio spazio all'assoluzione senza trovare motivi per non promuovere il sistema giudiziario italiano, questa volta. Dal canto suo Candace Dempsey, autrice del libro «Murder in Italy», parla di una «brillante mossa» da parte dell'Italia che a suo parere ha evitato una crisi diplomatica con gli Stati Uniti. L'euforia collettiva coinvolge anche Claudio Pratillo Hellmann, presidente della Corte di Assise di Appello di Perugia che nel 2011 fece assolvere Amanda e Raffaele all'accusa di aver ammazzato la studentessa inglese Meredith Kercher. «Evidentemente - risponde a chi gli chiede un commento sugli esiti della Cassazione - avevamo ragione noi». Svanisce in questa ricostruzione narrativa proprio «Mez», la ventiduenne vittima dell'omicidio, come dissolta dalle increspature di uno slalom giudiziario in cui è risultata una minaccia incombente più che la vittima di una notte di follia, uccisa senza un movente. La sentenza della Corte di Cassazione sembra aver accontentato tutti (imputati, legali, una nazione così amata dall'Italia come gli Stati Uniti) ma la verità risulta più complessa di come appaia. Intanto perché la Giustizia italiana si è dimostrata ancora una volta incerta fino in fondo, rivelando titubanze imbarazzanti. Cinque dibattimenti ed otto anni di inchiesta non hanno detto né mai lo diranno, presumibilmente, chi abbia ucciso Meredith Kercher la notte tra il primo ed il due novembre 2007. I buchi neri restano e rendono solforosa la ricostruzione di un omicidio solo parzialmente risolto. Si parta dalla dichiarazione dell'avvocato dell'affranta famiglia Kercher, pochi minuti dopo la sentenza di assoluzione definitiva: «Non è stata evidentemente raggiunta la prova che inchiodasse Raffaele Sollecito e Amanda Knox - ha affermato Francesco Maresca - ma di fatto restano sconosciute le persone insieme alle quali Rudy Guede ha compiuto il delitto. Ricordo che lui è stato condannato per concorso in omicidio». Se, come ha ribadito il procuratore generale Pinelli nella sua requisitoria di martedì scorso, ad infierire su Meredith sono state tre persone, l'inchiesta si chiude con un punto interrogativo. Anzi due. Improbabile che si approfondirà perché sotto questo profilo l'avvocato Bongiorno, che ha difeso Raffaele Sollecito con l'efficacia che le viene riconosciuta, ha ragione: l'aspetto scientifico dell'indagine è stato caratterizzato da lapsus, ritardi, incongruenze. C'è poco da esultare dunque, perché di fatto c'è ancora in giro un assassino che se la spassa. O due assassini, se la dinamica omicidiaria è quella che sembra essere. La camera da letto in cui morì Meredith Kercher fu messa a soqquadro come se qualcuno volesse inscenare una rapina. Di più: un sasso ha rotto una finestra del casolare, ma dall'interno verso l'esterno. In altro modo non sarebbe stato possibile a causa della presenza di una serranda incrostata. Guede non ha confessato di aver simulato l'azione di un malintenzionato entrato per rubare ed uscito con un omicidio da aggiungere ai suoi reati. Non aveva motivi per negare la circostanza. E allora chi è stato? Resterà ancorata al porto dei misteri l'accusa che Amanda Knox rivolse al suo datore di lavoro, Patrick Lumumba, titolare di un bar. Lei lo accostò al delitto e la calunnia le è costata tre anni di condanna, confermata due giorni fa dalla Cassazione. Le ragioni per le quali l'americana cercò di incastrarlo non trovano risposta. Non è stato finora possibile chiarire all'opinione pubblica neanche uno dei tanti enigmi legati a questa storia: gli esiti delle indagini sul coltello sequestrato a Sollecito nel quale erano stati individuati i dna di Amanda e di Meredith sono stati sconfessati dalla Difesa. Un duello di perizie che avrà convinto pure i giudici, ma non ha dimostrato in maniera elementare agli italiani perché si sia arrivati al primo risultato e poi ai successivi. La cronaca di questo delitto si chiude in maniera definitiva senza dirci granché insomma. Meredith Kercher riposa nel cimitero di Croydon, alla periferia di Londra. Una mamma piange la propria figlia senza aver potuto conoscere la verità sulla sua morte: se dall'altra parte dell'oceano si accendono i fuochi d'artificio, una famiglia inglese continua a chiedere giustizia. Senza poter contare su una buona quantità di misericordia. In un quieto realismo, ci si rassegni ora ai libri autobiografici, ai film, al foklore mediatico, probabilmente al business che incornicia gli eventi, anche quelli così spiacevoli come l'omicidio di una brava ragazza.

«Amanda Knox e Raffaele Sollecito, le prove erano insufficienti». I dubbi di Gennaro Marasca, il giudice napoletano che ha presieduto il collegio di Cassazione che ha assolto i due imputati dell’omicidio di Meredith a Perugia, scrive Gianluca Abate su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Il giudice Gennaro Marasca. Uno come lui, uno che ha speso una carriera intera a stigmatizzare «i magistrati che parlano con i giornalisti» (l’ultima volta l’ha fatto nel consiglio direttivo della Cassazione, criticando il collega Antonio Esposito per l’intervista rilasciata dopo la condanna di Silvio Berlusconi), uno così non è certo magistrato da lasciarsi andare ad interviste dopo la sentenza che ha spaccato l’Italia mandando definitivamente assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati nel processo per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Eppure, nonostante la ritrosia, quel giudice non ha potuto evitare le di telefonate di colleghi e amici napoletani, tutti in cerca (vanamente) di qualche dettaglio. E già, ché il presidente della quinta sezione della Cassazione che ha emesso la sentenza due giorni fa è un magistrato di Napoli, Gennaro Marasca, una delle toghe più conosciute in città. Lui, con il garbo di sempre, s’è limitato a rispondere a tutti che parlerà la sentenza, ma che molte cose già può dire il dispositivo emesso al termine del processo. Quello che ha assolto Amanda e Raffaele nella stessa identica maniera con la quale fu assolto l’ex senatore a vita Giulio Andreotti, cioè applicando il secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura penale. C’è, in questa spiegazione di Marasca, gran parte delle ragioni della sentenza, dal momento che la norma stabilisce che «il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste o che l’imputato lo ha commesso». E, non a caso, al Palazzaccio di piazza Cavour a Roma si fa notare che raramente un articolo di legge viene indicato (come in questo caso) in un dispositivo di sentenza della Corte di Cassazione. E dire che Marasca, in quelle aule, neppure doveva arrivarci. Non per demeriti, beninteso (è considerato uno dei migliori giudici napoletani, e non a caso il 25 gennaio 2014 il procuratore di Nola Paolo Mancuso lo citò tra le «eccellenze» accanto a Carlo Alemi, Giuseppe Fusco e Nino Vacca), ma perché la sua aspirazione — quattro anni fa — era quella di essere nominato procuratore generale di Napoli. Fece anche regolare domanda al Csm, ma fu bocciata. Il motivo? Accadde che, nel Paese in cui i magistrati si rimettono la toga dopo aver fatto politica, il Consiglio superiore della magistratura decise di non nominarlo perché «non va trascurato — si leggeva nelle motivazioni della relazione — che Marasca ha ricoperto per più anni, dopo il 1994, l’incarico di assessore presso il Comune» all’epoca della giunta di Antonio Bassolino. Quella parentesi, oggi, è dimenticata. Marasca ha più volte ribadito che «quello in Cassazione è il lavoro che mi piace», anche perché — ha confidato ad alcuni colleghi — è quella la sede dove «cerchiamo di applicare il diritto a volte dimenticato nelle sedi locali». E, da magistrato navigato, Marasca ha saputo governare anche l’improvvisa popolarità in un’Italia divisa tra chi ha esultato per l’assoluzione di Amanda e Raffaele e chi invece ha contestato la decisione. Lui, a chi gli domandava se giustizia era stata fatta, ha risposto che un giudice deve basare la sua decisione sugli elementi processuali, e che quindi «giustizia è stata fatta sol perché abbiamo fatto il nostro mestiere». Certo, la soluzione più semplice sarebbe stata quella di annullare la sentenza d’appello disponendo un nuovo processo, ma la «insufficienza delle prove» è stata giudicata «non colmabile» neppure successivamente. E dunque — ha spiegato il presidente ai colleghi — se quelli sono gli elementi, «che bisogno c’è di fare un altro processo?».

Il giudice che assolse Knox e Sollecito: "Io linciato dai colleghi". Pratilllo Hellmann: "Fui costretto a lasciare la magistratura. Per me solo sdegno", scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. "L’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito da parte della Corte di Cassazione? Non è soltanto la soddisfazione per il riconoscimento implicito della validità della sentenza emessa a suo tempo dalla corte che presiedevo, ma è soprattutto la fine di una grande sofferenza. Per tre anni e mezzo ho sofferto per la sorte di due ragazzi che ritenevo innocenti e che rischiavano di scontare una pena durissima per un delitto che non avevano commesso". Lo afferma a Repubblica, Claudio Pratillo Hellmann, 72 anni, nel 2011 presiedeva la Corte d’Appello di Perugia che assolse Amanda e Raffaele e da allora è in pensione. Pratilllo Hellmann spiega come "praticamente fui costretto a lasciare la magistratura. La nostra decisione fu accolta con reazioni di sdegno. Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un’ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia". "Panzane, certo, ma - prosegue - quello che mi ha colpito di più del linciaggio diffamatorio durato per anni fu la reazione dei colleghi magistrati. Quasi tutti mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda. Mi resi conto - prosegue - che quella della mia Corte era stata una voce fuori dal coro in un tribunale dove tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l’inchiesta, avevano avallato l’accusa. In più ero in predicato per la presidente del Tribunale e naturalmente quella carica venne assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne. Sei mesi dopo la sentenza quindi decisi di andare in pensione".

Claudio Pratillo Hellmann: "Per avere assolto Amanda e Raffaele venni linciato anche dai magistrati". Parla l'uomo che nel 2011 presiedeva la Corte d'Appello di Perugia che assolse Amanda e Raffaele; da allora è in pensione, scrive Meo Ponte su “La Repubblica”. "L'Assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito da parte della Corte di Cassazione? Non è soltanto la soddisfazione per il riconoscimento implicito della validità della sentenza emessa a suo tempo dalla corte che presiedevo, ma è soprattutto la fine di una grande sofferenza. Per tre anni e mezzo ho sofferto per la sorte di due ragazzi che ritenevo innocenti e che rischiavano di scontare una pena durissima per un delitto che non avevano commesso". Claudio Pratillo Hellmann, 72 anni, nel 2011 presiedeva la Corte d'Appello di Perugia che assolse Amanda e Raffaele e da allora è in pensione.

Come mai lasciò la magistratura proprio dopo quel verdetto?

"Praticamente fui costretto. La nostra decisione fu accolta con reazioni di sdegno. Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un'ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia. Panzane, certo, ma quello che mi ha colpito di più del linciaggio diffamatorio durato per anni fu la reazione dei colleghi magistrati. Quasi tutti mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda. Mi resi conto che quella della mia Corte era stata una voce fuori dal coro in un tribunale dove tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l'inchiesta, avevano avallato l'accusa. In più ero in predicato per la presidente del Tribunale del Tribunale e naturalmente quella carica venne assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne. Sei mesi dopo la sentenza quindi decisi di andare in pensione".

Che cosa la convinse dell'innocenza di Amanda e Raffaele?

"Il fatto che l'indagine era del tutto lacunosa e secondo me sbagliata sin dall'inizio. Tanto è vero che in primo momento fu arrestato Patrick Lumumba che poi risultò del tutto estraneo alla vicenda diventando parte lesa. Ricordo che il collega Massimo Zanetti che presiedeva la Corte con me aprì la sua relazione dicendo che di certo c'era solo la morte di Meredith Kercher. Ordinammo le perizie che non erano state fatte durante il processo di primo grado e la contaminazione delle prove scientifiche apparve in tutta evidenza. Era palese che il coltello sequestrato a casa di Raffaele Sollecito non era l'arma del delitto, la lama non combaciava con la ferita. In più mi sono sempre chiesto perché dovevano per forza essere state tre persone ad uccidere la povera Meredith e veniva invece scartata a priori la possibilità che potesse essere stato soltanto Rudy Guede".

L'unico ora ad essere condannato per l'omicidio...

"E soprattutto l'unico a sapere che cosa è davvero accaduto quella notte in via Della Pergola e chi c'era con lui, se c'era qualcuno. Abbiamo provato a farglielo dire ma quando venne nella nostra aula, alla precisa domanda se riconoscesse Amanda e Raffaele lui rispose fumosamente che aveva sempre pensato che gli assassini fossero loro. E mi ha sempre sorpreso il riguardo con cui era stato trattato nonostante fosse l'unico la cui presenza sulla scena del crimine fosse indiscutibile".

Che cosa provò quando la Corte di Cassazione annullò la sua sentenza di assoluzione?

"Sgomento, soprattutto. La mia corte aveva cercato di capire davvero chi avesse ucciso Meredith, senza lasciarsi intrappolare dai pregiudizi o da tesi precostituite. Avevamo assolto quei due ragazzi perché il dibattimento aveva dimostrato che non c'erano prove della loro partecipazione al delitto. Naturalmente quella decisione rinfocolò la campagna diffamatoria nei miei confronti e ritornarono in circolo le voci che fossi stato assoldato dagli Stati Uniti per liberare Amanda".

E quando il secondo processo di appello a Firenze li condannò entrambi nuovamente?

"Rimasi perplesso. Non riuscivo a capire come avessero potuto farlo dato che dal dibattimento non era emerso nulla di nuovo. Avevano cambiato il movente ma si trattava ancora di una supposizione e non di un dato di fatto. Avevano ordinato anche lì una perizia scientifica sul coltello che aveva avuto sostanzialmente la stessa conclusione della nostra. Mi chiedo ancora come fecero ad arrivare ad una condanna".

Bella lezione della Cassazione, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. E così la Corte di Cassazione ha assolto Raffaele Sollecito e Amanda Knox dall’omicidio della giovane Meredith Kercher, dopo circa otto anni di processi e sentenze. Soltanto gli sprovveduti – cioè coloro che non son provvisti di senso del diritto – possono restarne sorpresi, immaginando chissà quali contorsionismi giuridici. In realtà, la Cassazione ci ha impartito una lezione di prudenza giuridica – la quale, peraltro, non fa male nel nostro tempo caratterizzato da una eccessiva disinvoltura – ricordando a tutti appunto che quando si tratta di giudicare essere umani per delitti così gravi, ciò che occorre è la “iuris-prudentia”, vale a dire il senso del limite. Infatti, la cosa più importante del diritto, ciò che lo fa essere indispensabile per la coesistenza umana, non è tanto il comando – ciò che va fatto – quanto il divieto – ciò che non può mai essere permesso, vale a dire, appunto, il limite: in linea teorica, un codice di soli divieti sarebbe preferibile ad uno di soli comandi, perché è più importante vietare l’omicidio o di passare con il rosso, che imporre di pagare la tassa di circolazione (indipendentemente da ciò che si comandi o si vieti). Ebbene, la Cassazione ha mostrato come si possa e in che senso si debba rispettare il senso del limite, proprio annullando la sentenza di condanna emessa a carico dei due giovani e, soprattutto, evitando di rinviare ad altro giudice per la prosecuzione del processo. È come se la Corte avesse implicitamente detto che non è giuridicamente possibile processare sei o sette volte gli stessi imputati per lo stesso fatto, provocando una girandola inesplicabile di assoluzioni e condanne che si susseguono l’una dopo l’altra, ma prive di un senso riconoscibile e fondato. Proprio così. Qualcosa del genere accadde anni or sono con Adriano Sofri, assolto, condannato, poi ancora assolto e poi condannato in una sorta di capriccioso giuoco dell’oca durato per una dozzina di processi e alla fine del quale c’era una sola certezza: che cioè nessuno ci capiva più nulla. Nel senso che non si capiva più che ci fossero prove reali per condannare o per assolvere e che perciò, come è necessario fare, bisognava assolvere: cosa che allora non fu fatta e ne ebbero rimorso tutti, perfino coloro che si battevano per una condanna. Prova ne sia che si premurarono a trovare il sistema di metterlo fuori, ma con poco costrutto umano e giuridico: poco del primo, perché comunque una condanna assai dura ne colpiva l’anima e l’immagine pubblica; poco del secondo, perché la sollecitudine per consentirgli di star fuori dalle mura del carcere strideva con la pesantezza della pena inflitta. Oggi, invece e per fortuna, la Cassazione ha saputo porre un freno ad una simile deriva processuale, annullando la condanna dei due giovani senza alcun rinvio, cioè senza che si possa ancora rimestare quella che in senso proprio è soltanto aria fritta. In questa prospettiva, si comprende bene perché anni fa il governo Berlusconi aveva sancito la non appellabilità, da parte delle Procure, della sentenza di assoluzione di primo grado: perché se un collegio di giudici – anche uno soltanto – dichiara l’imputato innocente, anche se un altro collegio lo ritenesse colpevole, non per questo il dubbio residuo ne permetterebbe la condanna. Tuttavia, urgono anche altre brevi riflessioni. Bisogna chiedersi come siano state svolte nel caso in esame le investigazioni tecnologiche dei primi momenti: probabilmente male, malissimo, tanto da far revocare in dubbio i risultati conseguiti. Non solo. Da qualche anno a questa parte, si diffonde l’idea che le indagini tecnologiche siano autosufficienti, bastevoli a sé, capaci di far tutto comprendere e tutto giudicare. Che non sia così è sotto gli occhi di tutti: anche se non tutti lo ammettono, spesso gli esiti delle indagini scientifiche si presentano ambigui, suscettibili di letture diverse o contrapposte. Non sarebbe male allora usare la sana logica induttiva e deduttiva, vale a dire la capacità di ragionare quale antidoto contro gli stalli delle prove scientifiche. Bene allora ha fatto la Cassazione. Non semplicemente perché ha assolto Sollecito e la Knox. Ma perché ha mostrato che non li si poteva in alcun modo condannare.

Omicidio Meredith: «Inutile un altro processo su Amanda e Raffaele». La decisione all’unanimità in camera di consiglio «Prove troppo contraddittorie così un altro processo è inutile», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Un nuovo processo non avrebbe potuto accertare la verità sul delitto di Meredith Kercher. Il «complesso probatorio era talmente contraddittorio» da rendere impossibile il superamento dei dubbi e delle incongruità. Per questo, dopo otto ore di discussione, i giudici della quinta sezione della corte di Cassazione, sono stati tutti d’accordo sull’annullamento della condanna a 28 anni e sei mesi per Amanda Knox e a 25 anni per Raffaele «senza rinvio». «Assurdo», questa la linea condivisa, sarebbe stato «disporre un nuovo dibattimento potendo contare su indizi così labili». Il collegio presieduto da Gennaro Marasca ha anche ritenuto «non vincolante» la precedente sentenza della Cassazione che nel marzo di due anni fa aveva ordinato un nuovo giudizio, nella convinzione che la propria pronuncia dovesse valutare esclusivamente il verdetto raggiunto in appello a Firenze il 30 gennaio di un anno fa, quello per cui Amanda e Raffaele erano stati giudicati colpevoli di omicidio. Si chiude dunque per sempre la possibilità di scoprire che cosa accadde davvero nella villetta di via della Pergola il primo novembre del 2007. L’unico responsabile rimane Rudy Guede, condannato a sedici anni di carcere e - dopo averne scontati quasi la metà - già pronto a chiedere permessi per il lavoro esterno. Otto lunghi anni non sono stati sufficienti a fare luce sui lati oscuri di una storia che rimane tuttora segnata da troppi misteri. E sono almeno quattro gli interrogativi rimasti insoluti, ai quali sembra ormai impossibile trovare delle risposte convincenti.

La stanza. La sera di quel giovedì Meredith torna a casa e con lei c’è sicuramente Rudy. Ma che cosa accade dopo? Secondo la sentenza di condanna dell’ivoriano, ci sono almeno due «concorrenti». I giudici della Cassazione il 26 dicembre del 2013 chiedono alla Corte d’assise d’appello di Firenze di individuarli e scrivono: «Bisogna porre rimedio, nella più ampia facoltà di valutazione, agli aspetti di criticità argomentativa operando un esame globale e unitario degli indizi», specificando poi la necessità di «sommare e integrare ogni indizio con gli altri». Poi aggiungono: «L’esito di tale valutazione osmotica sarà decisiva non solo a dimostrare la presenza dei due imputati sul luogo del delitto, ma eventualmente delineare la posizione soggettiva dei concorrenti del Guede». Un obiettivo che evidentemente non è stato raggiunto. La perizia medico legale ha accertato che Meredith ha subito molestie sessuale ed è morta, dopo essere stata ferita con alcune coltellate, per un fendente sferrato alla gola. Nessuno, a questo punto, può dire se Rudy Guede abbia fatto tutto da solo o se invece qualcuno l’abbia aiutato a immobilizzare la ragazza inglese e le abbia poi inferto il colpo fatale.

L’arma. È certamente uno degli aspetti più controversi. L’arma del delitto viene individuata dai pubblici ministeri in un coltello sequestrato nella cucina a casa di Raffaele Sollecito. Le indagini genetiche trovano tracce del Dna di Amanda sulla lama e questo convince l’accusa che la giovane americana l’abbia usato per uccidere la sua coinquilina. Motivando la sentenza di condanna i giudici fiorentini scrivono però che «la vittima fu colpita con due coltelli». Secondo loro «l’arma che produsse la ferita sulla parte sinistra del collo e provocò la morte era impugnata da Amanda e si tratta del coltello sequestrato a casa di Raffaele», mentre le ferite sulla parte destra furono provocate da un «coltello più piccolo impugnato da Raffaele», ma nulla dicono sull’origine dell’arma, su dove fosse stata presa e, soprattutto, dove sia finita.

Il movente. I primi a parlare di «gioco erotico degenerato» come movente del delitto furono i pubblici ministeri, confortati dai diversi giudici che avevano confermato le tesi dell’accusa. L’ipotesi nata dalla certezza che Rudy avesse avuto un rapporto sessuale con Meredith - come dimostrato dall’autopsia - non era però supportata da ulteriori elementi e questo ha portato i giudici di Firenze a disegnare un diverso scenario. Nella sentenza di condanna emessa un anno fa si parlava di «progressiva aggressività» innescata da una lite, sfociata in una violenza sessuale e conclusa con l’omicidio, perché la vittima, che era stata «umiliata e prevaricata», alla fine «doveva essere messa in condizione di non denunciare». Una ricostruzione che la Cassazione ha giudicato ora - evidentemente - non sostenuta da alcuna prova.

Il memoriale. Afferma Amanda nel memoriale scritto in questura, cinque giorni dopo il delitto, e poi ritrattato: «Io e Patrick Lumumba (arrestato, ma poi scarcerato e prosciolto ndr) ci siamo incontrati intorno alle ore 21 e siamo andati a casa mia. Non ricordo precisamente se la mia amica Meredith fosse già in casa o se è giunta dopo, quello che posso dire è che Patrick e Meredith si sono appartati nella camera di Meredith, mentre io mi pare che sono rimasta nella cucina. Non riesco a ricordare quanto tempo siano rimasti insieme nella camera ma posso solo dire che a un certo punto ho sentito delle grida di Meredith e io, spaventata, mi sono tappata le orecchie. Poi non ricordo più nulla, ho una grande confusione nella testa. Non ricordo se Meredith gridava e se sentii anche dei tonfi perché ero sconvolta, ma immaginavo cosa potesse essere successo. Non sono sicura se fosse presente anche Raffaele quella sera, ma ricordo bene di essermi svegliata a casa del mio ragazzo, nel suo letto, e che sono tornata al mattino nella mia abitazione dove ho trovato la porta dell’appartamento aperta». Amanda descrive il delitto, ma al posto di Rudy pone sulla scena del delitto Lumumba, anche lui giovane, ugandese, quindi di colore. Come mai? Possibile fosse soltanto una coincidenza? Certamente è questo l’interrogativo al quale nessuno è mai riuscito a dare una risposta convincente.

LE TAPPE DELLA VICENDA.

La notte tra il primo e il due novembre 2007, la studentessa inglese, Meredith Kercher, venne barbaramente uccisa nella sua abitazione di via della Pergola, a due passi dall'Università per Stranieri di Perugia, dove si trovava per seguire il progetto Erasmus, mai terminato. Il suo corpo senza vita venne trovato in camera da letto, in una pozza di sangue, accoltellata alla gola e coperta con un piumone. Per lo stesso delitto il giovane ivoriano, Rudy Guede, è stato condannato con rito abbreviato a 16 anni di carcere per concorso in omicidio e violenza sessuale.

2 NOV. 2007 - Meredith Kercher, studentessa inglese di 22 anni, viene trovata morta nella sua camera da letto, nella casa di via della Pergola, a Perugia, dove si trovava per il progetto Erasmus. Meredith viene uccisa con una coltellata alla gola nel proprio appartamento. Il corpo viene trovato il giorno dopo in camera da letto, coperto da un piumone. A occuparsi delle indagini è la polizia.

6 NOV 2007 - la polizia ferma per l'omicidio la coinquilina di Mez, Amanda Knox, il fidanzato di questa ultima, Raffaele Sollecito e il musicista congolese Patrick Lumumba Diya. Lumumba è il datore di lavoro di Amanda. E' lei a indicarlo come l'autore del delitto. Amanda, americana, di Seattle, all'epoca ventenne, è la coinquilina di Meredith e studia all'Università per stranieri di Perugia. Sollecito, 24 anni, pugliese, laureando in ingegneria, ha da un paio di settimane una storia con Amanda. Lumumba, 38 anni, originario dell'ex Zaire, dal 1988 vive in Umbria dove gestisce un pub in cui lavorava Amanda. Tutti e tre si dichiarano estranei all'omicidio.

9 NOV 2007 - Il gip convalida i fermi.

11 NOV 2007 - Un docente svizzero racconta alla polizia di essere stato nel pub di Lumumba la sera del delitto e conferma l'alibi del musicista congolese.

15 NOV 2007 - Tracce del dna di Meredith e Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Sollecito.

19 NOV 2007 - Rudy Hermann Guede, 21 anni, originario della Costa D'Avorio è indicato come il quarto uomo. La polizia spicca un mandato di cattura internazionale.

20 NOV 2007 -  Patrick Lumumba viene rimesso in libertà dopo che dalle indagini è emersa la sua estraneità al delitto. Nello stesso giorno viene arrestato Rudy Guede, ivoriano di 21 anni, bloccato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori palmari hanno individuato l'impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere della studentessa inglese e a diverse tracce di Dna in casa. Si dichiara innocente.

6 DIC 2007 - Rudy è trasferito in Italia.

27 MAG 2008 - Il gip Claudia Matteini, su richiesta della procura, archivia il procedimento penale nei confronti di Patrick Lumumba.

19 GIU 2008 - I pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi depositano l'atto di chiusura indagini. Per loro Meredith Kercher fu uccisa da Knox, Sollecito e Guede per futili motivi.

16 SET 2008 - Inizia l'udienza preliminare davanti al gup di Perugia, Paolo Micheli. Il gup dispone di procedere con rito abbreviato per Guede e lo condanna a 30 anni di carcere per omicidio volontario e violenza sessuale e rinvia a giudizio Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Il gup Paolo Micheli accoglie la richiesta di rito abbreviato per Guede.

18 OTT 2008 - I pm chiedono al gup di Perugia la condanna all'ergastolo per Guede e il rinvio a giudizio per Sollecito e la Knox.

28 OTT 2008 - Il gup condanna a 30 anni di reclusione Rudy e dispone il processo per Amanda e Raffaele.

16 GEN 2009 - Inizia davanti alla Corte d'assise di Perugia il processo a Raffaele e Amanda.

18 NOV 2009 - Si apre davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Perugia il processo d'appello nei confronti di Rudy Guede.

5 DIC 2009 -  La corte d'Assise di Perugia, escludendo le aggravanti, condanna Knox a 26 anni di carcere e Sollecito a 25. La Corte di assise, dopo oltre 14 ore di camera di consiglio, condanna Amanda e Raffaele a 26 e 25 anni di carcere.

22 DIC 2009 - La Corte d'assise d'appello di Perugia riduce da 30 anni a 16 anni la pena inflitta a Guede. Concesse le attenuanti generiche.

4 MAR 2010 - Depositate le motivazioni della sentenza di primo grado nei confronti di Amanda e Raffaele. Hanno ucciso spinti da un movente "erotico, sessuale, violento".

22 MAR 2010 - Depositate anche le motivazioni sulla condanna a Guede: "concorse pienamente", scrivono i giudici della Corte d'Assise d'Appello, all'omicidio Kercher.

15 APR 2010 - I difensori di Sollecito depositato l'appello contro la sentenza di primo grado. Anche la procura di Perugia presenta appello contro la concessione delle attenuanti generiche agli imputati e l'esclusione dell'aggravante dei futili motivi.

17 APR 2010 - La difesa di Amanda Knox deposita l'appello e chiede nuove perizie.

7 MAG 2010 -  la difesa di Guede presenta ricorso in Cassazione contro la sentenza della corte d'assise di appello di Perugia. - 24 NOV 2010: Si apre il processo davanti alla Corte d'assise d'appello di Perugia a Raffaele Sollecito ed Amanda Knox.

24 NOV 2010 - Si apre il processo d'appello per Amanda e Raffaele.

16 DIC 2010 - La Cassazione conferma i sedici anni di reclusione inflitti a Guede dalla Corte di appello, che diventa così definitiva..

18 DIC 2010 - La Corte d'assise d'appello di Perugia riapre il dibattimento del processo a Raffaele Sollecito e ad Amanda Knox e dispone una nuova perizia super partes per le tracce genetiche sul coltello e sul gancetto del reggiseno indossato dalla vittima quando venne uccisa. La Corte d'assise d'Appello di Perugia accoglie la richiesta delle difese per una nuova perizia del Dna presente sul coltello considerato l'arma del delitto e sul gancetto del reggiseno di Mez. Gli accertamenti tecnici, diranno sei mesi dopo i consulenti della Corte, "non sono attendibili".

29 GIU 2011 - I periti della Corte di assise di appello bocciano il lavoro svolto dalla polizia scientifica, definendo gli accertamenti tecnici "non attendibili", per il Dna attribuito a Meredith sul coltello e a Raffaele Sollecito sul gancetto di reggiseno. Gli esperti, inoltre, non escludono che i risultati delle analisi possano derivare da contaminazione.

24 SET 2011 - La Procura generale chiede la condanna all'ergastolo per Amanda Knox e Raffaele Sollecito.

3 OTT 2011 -  La Corte di assise di appello di Perugia assolve Amanda e Raffaele dall'accusa di aver ucciso Meredith Kercher. Amanda scoppia in un pianto liberatorio e subito dopo l'assoluzione torna in America con la sua famiglia.

15 DIC 2011 - La Corte di assise di appello di Perugia deposita le motivazioni della sentenza di assoluzione e parlano di mancanza di prova di colpevolezza. Secondo i giudici di secondo grado i "mattoni" su cui si è basata la condanna "sono venuti meno": c'e' una "insussistenza materiale" degli indizi, dalle tracce di Dna all'arma del delitto.

14 FEB 2012 - La procura generale e la famiglia di Meredith Kercher depositano il ricorso in Cassazione contro la sentenza di assoluzione.

19 LUG 2012 - La Cassazione fissa per il 25 marzo 2013 l'udienza per l'esame del ricorso.

25 MAR 2013 - Il processo ad Amanda e Raffaele approda in Cassazione. Il pg chiede l'annullamento della sentenza di assoluzione, definita un "raro concentrato di violazioni di legge e di illogicità".

26 MAR 2013 - La Cassazione annulla con rinvio la sentenza di assoluzione di secondo grado emessa dalla Corte di Assise di appello di Perugia. Conferma la condanna per calunnia ad Amanda. La Suprema corte annulla la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d'appello di Firenze per un nuovo processo.

30 SET 2013 - Il processo bis riprende davanti alla Corte di Assise di appello di Firenze e riparte da capo, con difese e accuse che rappresentano, a partire dalla scena del delitto, le proprie arringhe. Sollecito, la Knox, così come i familiari di Meredith non sono presenti in aula.

26 NOV. 2013 -Il sostituto procuratore generale di Firenze, Alessandro Crini, chiede 30 anni di carcere per Amanda Knox e 26 anni per Raffaele Sollecito.

30 Gen 2014 - La Corte d'Assise di Appello di Firenze condanna a 28 anni e mezzo di carcere Amanda Knox e a 25 anni Raffaele Sollecito per il quale viene anche disposto il divieto di espatrio. Ad Amanda viene riconosciuta l'aggravante per il reato di calunnia nei confronti di Lumumba.

31 GEN 2014 - la polizia ritira il passaporto a Raffaele Sollecito in un albergo tra Udine e Tarvisio.

29 APR 2014 - la Corte d'Appello di Firenze deposita le motivazioni della sentenza.

16 GIU 2014 - i difensori di Amanda Knox e Raffaele Sollecito depositano i ricorsi in Cassazione contro la condanna nei confronti dei loro assistiti da parte della Corte d'assise d'appello di Firenze. Le difese chiedono l'annullamento della sentenza di appello bis e, quindi, l'assoluzione per i due ex fidanzatini.

30 SET 2014 - La Corte di Cassazione fissa per il 25 marzo 2015 il nuovo processo per Sollecito e la Knox.

25 MAR 2015 - Si apre il processo in Cassazione davanti alla quinta sezione penale. Il pg Mario Pinelli, nella sua requisitoria, chiede di confermare le condanne di Amanda e Raffaele per l'omicidio di Meredith.

27 MARZO 2015 . La Sentenza definitiva di assoluzione per gli imputati Amanda Knox e Raffaele Sollecito per e l'omicidio di Meredith. La Quinta sezione penale della corte di Cassazione presieduta da Gennaro Marasca ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati nel processo per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. 

IL MONDO RIDE DELLA GIUSTIZIA ITALIANA.

Mario Giordano su “Libero Quotidiano”: "Raffaele e Amanda assolti. Ora tutto il mondo ride della giustizia italiana". Condannati. Assolti. Rinviati. Condannati. Assolti. Ora provate voi a spiegare al mondo il gioco dell’oca della giustizia italiana, il Monopoli di vicolo stretto e largo assassino, dove le leggi sono come i dadi, basta un tiro sbagliato per ricominciare dal via o trovarti in prigione. Probabilità e imprevisti: provate voi a spiegare al mondo che ci guarda con un po’ di stupore che in questo disgraziato Paese se una ragazza viene uccisa in casa, nella civile e internazionale Perugia, ci vogliono otto anni e cinque processi per non sapere chi è stato. O, meglio, per condannare un ivoriano per concorso in omicidio senza però che abbia concorso con nessuno. Questo, infatti, è stato deciso dopo otto anni di indagini e perizie e requisitorie e arringhe e sentenze, costate chissà quanto: Rudy Guedé ha aiutato alcune persone a uccidere Meredith Kercher però queste persone non esistono. In quella maledetta stanza dunque era con altri, ma nello stesso tempo era da solo. Nemmeno Houdini riuscirebbe a tanto…Provate voi a spiegare agli stranieri che qui c’è una Corte suprema che prima respinge un’assoluzione, poi respinge una condanna e la trasforma in quell’assoluzione che aveva da poco respinto. Provate a spiegare che si tratta sempre della stessa Cassazione. Provate, in generale, a spiegare la logica surreale che esce dalle nostre aule di giustizia, dove si ricostruiscono delitti giocando a «indovina quale» e si scambiano moventi come figurine Panini. E quando a un certo punto ci si accorge che l’accusa (delitto a scopo sessuale) non regge alla prova del tribunale si cambiano le carte in tavola: macché sesso, hanno ucciso per una lite sulla pulizia domestica. Come se uno stupro e lo Spic&Span fossero all’incirca la stessa roba, «spogliati nuda» vale quanto «perché non hai passato Mastrolindo?», «ti strappo le mutande» è uguale a «passami il Dixan». Provate voi a spiegare al mondo che in Italia indagini e accuse si fanno così, un po’ alla carlona, e poi, se sei fortunato, dalla ruota del superenalotto ti escono l’avvocato bravo e il giudice giusto. Altrimenti resti in galera il resto della tua vita. Sia chiaro: Amanda e Raffaele sono innocenti, non ci sono dubbi, la sentenza è definitiva, e non si può che essere felici per il fatto che il loro incubo è finito, e possono tornare a vivere. Hanno pagato fin troppo per una cosa che non hanno commesso. Ma, di fronte alla legittima esultanza e di fronte alle altrettanto legittime richieste di risarcimento dei due ragazzi, non si può non pensare che mentre Amanda e Raffaele vincevano la loro partita, la nostra giustizia perdeva la sua. E la perdeva clamorosamente, collezionando una figuraccia planetaria, una specie di Caporetto togata, roba che al confronto Waterloo fu una marcia trionfale. Per carità: ci sono anche molte persone che escono bene da questo percorso a ostacoli nell’assurdo: per esempio Raffaele Sollecito che ha affrontato il processo a testa alta e con serietà, o gli avvocati difensori (non quello del povero Guede, purtroppo), e anche alcuni giudici, come quelli del primo appello, a Perugia, che avevano capito già tutto, o come quelli della Cassazione di ieri, che hanno dimostrato di essere scrupolosi fino all’ultimo, e pure coraggiosi. Ma nel complesso, ecco, in questa vicenda il nostro sistema giudiziario ha dimostrato di essere quello che è: un malato grave. E stavolta purtroppo (o per fortuna) l’ha dimostrato in mondovisione. Il caso, infatti, ha avuto una dimensione inevitabilmente internazionale: l’altro giorno l’americana Amanda stava sulla copertina di People negli Stati Uniti, l’attesa della sentenza sull’inglese Kercher era la terza notizia nei telegiornali britannici. Dall’estero, in questi giorni, avevano gli occhi puntati sul nostro tribunale. E dunque ora provate voi a spiegare all’estero come funziona la giustizia italiana. Provate a convincerli, con tutto ciò, che si possono ancora fidare, se devono venire a investire, o anche solo a fare un viaggio, se vogliono portare qui la famiglia o la loro impresa, possono star tranquilli. Provate voi a rassicurarli, persuadeteli che se nasce un contenzioso potranno far valere rapidamente i loro diritti, che non ci vorranno otto anni, cinque processi e magari un po’ di galera per aver riconosciute le proprie ragioni. Anzi, già che ci siete, consigliate loro subito lo studio dell’avvocato Bongiorno. E se non possono permetterselo, beh, dite loro di stare attenti a varcare i nostri confini…E poi provate a spiegare tutti gli assurdi paradossi che abbiamo visto in questo processo, il ginepraio delle sentenze, l’inchiesta fallata. Soprattutto provate a spiegare che una ragazza inglese venuta in Italia per studiare non avrà mai giustizia, provate a dire ai suoi genitori che ad ucciderla è stata uno che stava insieme ad altri ma che nello stesso tempo era anche da solo. Provate a spiegare che Rudy Guede ha agito in concorso, sì, ma in concorso con il nulla, con l’aria, con la sua ombra o forse con qualche fantasma, può darsi, in fondo era la notte di Halloween. Provate a spiegarglielo a loro, al resto del mondo, perché noi in fondo ci siamo abituati, purtroppo ormai ogni mostruosità giudiziaria ci passa sopra quasi fosse normale. Compreso il fatto che non ci siano mai responsabili. Provate voi a spiegarlo agli stranieri, dunque, che per questo infernale guazzabuglio diventato vergogna internazionale, alla fine non pagherà nessuno. A parte, ovviamente, i soliti contribuenti italiani.

Amanda e Raffaele assolti: figuraccia dei magistrati in mondovisione, scrive Andrea Asole su Quelsi. Dopo otto anni, la Corte di Cassazione ha chiuso definitivamente la vicenda dell’omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese assassinata in circostanze ancora non troppo chiare a Perugia il 1 novembre 2007: Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati definitivamente assolti. Unico condannato, Rudi Guede. Tralasciando le singole opinioni sulla veridicità dell’innocenza, che fioccano da ogni parte quando casi di cronaca giudiziaria come questo finiscono sotto i riflettori, il percorso che ha portato entrambi all’assoluzione risulta alquanto contorto. Riassumendo: Amanda e Raffaele sono stati condannati in primo grado e assolti in Appello. Si va in Cassazione e qui i giudici della Suprema Corte decidono che il processo d’appello va rifatto: si tiene dunque un nuovo appello e stavolta Amanda e Raffaele vengono condannati, 28 anni e mezzo per la ragazza di Seattle, 25 anni per il pugliese. Finita qui? Chiaramente no, c’è bisogno della Cassazione affinché la sentenza passi in giudicato. E ieri si è assistito a un nuovo totale ribaltamento delle sentenze precedenti: stavolta, Amanda e Raffaele sono assolti per non aver commesso il fatto, e non viene neppure disposto un nuovo processo d’appello. La vicenda viene finalmente chiusa dopo un totale di cinque sentenze, ognuna di esse discordante da quella che l’ha preceduta. Difficile non notare la grossa anomalia: come è possibile che ci siano state cinque sentenze che si contraddicano l’una con l’altra? Saranno emersi nuovi elementi in fase dibattimentale, si potrebbe pensare, e invece no: tutte e cinque le sentenze sono state emesse con lo stesso materiale probatorio. Come è possibile che gli stessi elementi conducano a esiti così discordanti tra loro? Ma soprattutto, poniamo il caso che il materiale in mano all’accusa fosse insufficiente: come è possibile che con un una insufficienza di prove si sia arrivati a due condanne, una più pesante dell’altra? Poniamo anche il caso contrario, cioè che quelle prove fossero sufficientemente corpose: se quello che avevano in mano gli inquirenti era più che sufficiente, come è stato possibile arrivare a tre assoluzioni tra cui quella definitiva? Evidentemente le presunte tracce dei due sul reggiseno di Meredith non erano la prova certa e definitiva che invece avevano spacciato per tale. Altra cosa di cui tenere conto: Rudi Guede, l’unico condannato per la vicenda, non avrebbe mai fatto il nome di Amanda e Raffaele né durante gli interrogatori né durante il processo. La magistratura italiana, nel suo complesso, ha insomma rimediato una sonora figuraccia, e, quel che è peggio stavolta davanti al mondo. Non dimentichiamo infatti la grande eco mediatica anche negli Stati Uniti, paese di Amanda, e in Gran Bretagna, paese di Meredith. Davanti al mondo, la magistratura ha fatto una figuraccia perché ha dimostrato tutte le falle della giustizia penale italiana e anche l’assurdità delle sue contraddizioni. Un figuraccia anche di fronte agli italiani, poiché ora, forti di sentenze contraddittorie, saranno in molti a ipotizzare una qualche influenza statunitense nel verdetto di assoluzione: se ciò però fosse vero, non si spiegherebbe perché la Cassazione dispose un secondo processo d’appello dopo la prima assoluzione. Forse questo è l’unico lato positivo di tutta la vicenda: i giudici della Cassazione, dopo quattro processi diversi, hanno avuto il coraggio di smentire tutto e di ristabilire la certezza del diritto a costo di coprire di ridicolo i loro colleghi e tutta la magistratura. E non era facile. Alla fine il classico “giudice a Berlino” insomma si è trovato, ma di una giustizia che opera in questo modo mettendo le persone in un calvario per poi assolverle c’è da aver paura davvero. Nota finale: Amanda ha già fatto sapere che presenterà una richiesta di risarcimento danni all’Italia: indovinate chi dovrà pagare, se glielo concedessero? No, sbagliato, non pagheranno i magistrati.

Meredith, giustizia italiana sbertucciata in tutto il mondo. Il verdetto della Cassazione è la Waterloo della giustizia italiana: mostrata al mondo l'assurdità del nostro sistema. Adesso chi paga? Si chiede Sergio Rame su “Il Giornale”. Cinque gradi di giudizio, otto anni di indagini e processi, due ragazzi (Amanda e Raffaele) condannati e poi assolti: la Corte di Cassazione mette la parola fine a un processo, quello per l'omicidio di Meredith Kercher, che ha avuto un'eco impressionante in tutto il mondo. Per Raffaele Sollecito è "la fine di un incubo", Amanda Konx invece si sente finalmente "sollevata e grata" di poter riavere la propria vita indietro. Ma chi paga per tutto questo? La sentenza di ieri, che ha dimostrato al mondo l'assurdità del nostro sistema, è la Waterloo della giustizia italiana. Adesso sarà chiaro al mondo intero. Una pillola amara da ingoiare e Una sentenza che ha causato uno shock alla famiglia sono i primi commenti della stampa inglese all'assoluzione in via definitiva di Amanda e Raffaele per l’omicidio della studentessa inglese. Per il Guardian, "la famiglia Kercher dopo il verdetto deve ora ingoiare una pillola molto amara", soprattutto perché, "dopo sette anni di giravolte, cambi di direzione e nuovi processi, questa non è affatto la conclusione che la famiglia Kercher avrebbe mai potuto desiderare". In particolare, per il quotidiano progressista, il problema principale è che sono state assolte "le uniche persone che siano mai state seriamente sospettate, per la famiglia una pillola assai amara da ingoiare". Anche il resto della stampa britannica sottolinea gli elementi più sorprendenti, almeno per l’opinione pubblica del Regno Unito. Il Daily Mail, tabloid molto seguito in Gran Bretagna, scrive chiaramente della "lunga saga" dei processi e di "uno choc da assoluzione per la madre di Meredith". Per il Daily Telegraph la coincidenza della sentenza con l’uscita del film Il volto dell’angelo del regista Michael Winterbottom, pellicola chiaramente ispirata ai fatti di Perugia e nelle sale americane proprio da venerdì 27 marzo, è indicativa di "un’ossessione per Amanda Knox" alimentata dal circo mediatico che "insulta Meredith Kercher". Obiettivo ora, scrive la giornalista Barbie Latza Nadeau, autrice del libro che ha ispirato il film, è riportare Meredith, "la vera vittima", al centro dell’attenzione. A giocare un ruolo decisivo nell’assoluzione sono stati probabilmente i forti dubbi sulla validità dei test del dna eseguiti durante le indagini. A criticare le conclusioni degli investigatori italiani, ricorda la rivista New Scientist, sono stati diversi esperti su entrambe le sponde dell’Atlantico. In particolare ad incriminare i due erano tracce di dna trovate su un coltello nell’appartamento di Sollecito, sul cui manico c’era materiale genetico di Amanda mentre sulla lama c’era quello di Meredith. Su un ferretto del reggiseno della ragazza uccisa c’era invece il Dna di Sollecito. Nel 2009 una lettera di un’associazione di esperti statunitensi aveva scritto una lettera aperta alla corte mettendo in dubbio le conclusioni dei test. "Un esame chimico per la presenza di sangue sul coltello ha dato esito negativo, ma non è stato preso in considerazione - era scritto nella lettera dell’associazione The Innocence project - inoltre il Dna trovato era sufficiente solo per un profilo parziale". Se non c’erano tracce di sangue sul coltello, hanno sempre sottolineato quindi anche gli altri scienziati "innocentisti" che si sono interessati alla vicenda, come Bruce Budowles, genetista dell'Università del North Texas e consulente dell’Fbi, non era possibile che quella fosse l’arma del delitto. Gli esperti americani hanno anche paventato la possibilità che i campioni fossero contaminati, soprattutto perché l’analisi è stata condotta insieme a quella di altri reperti. Ad essere criticata è stata anche la lettura data dei risultati. Negli Stati Uniti infatti l’elettroforesi viene considerata valida se dà picchi sopra 150, mentre quelli sotto 50 vengono scartati, e quelli presi in esame per l’accusa erano tutti sotto questo livello. "Anche il reggiseno - hanno scritto gli esperti statunitensi - conteneva diversi Dna di cui uno compatibile con Sollecito, ma i giovani si frequentavano, quindi potrebbe essere finito lì in diversi modi innocenti".

"Uno scandaloso flop giudiziario". La stampa estera demolisce i pm. Il più duro è il britannico "Independent" che si chiede "quanto ingiustamente può agire il sistema di un Paese illuminato". L'americano "Huff Post": "Saga legale" tutta italiana, scrive Erica Orsini su “Il Giornale”. Spiazzati, sconcertati, indignati. È un giudizio unanime e durissimo quello dei media britannici e americani sul verdetto finale del caso Kercher. Per ragioni diametralmente opposte - i primi solidali verso il dolore di una famiglia colpita da un lutto gravissimo che rimarrà per sempre senza una spiegazione, i secondi strenui difensori di una connazionale la cui innocenza è stata finalmente riconosciuta - entrambi hanno riservato ieri commenti lapidari e titoli al vetriolo alla sistema giudiziario italiano. Per il quotidiano progressista britannico The Guardian il verdetto «è una pillola molta amara da ingoiare per i Kercher» perché «dopo sette anni di giravolte, cambi di direzione e nuovi processi questa non era affatto la conclusione che la famiglia avrebbe mai potuto desiderare». Ma soprattutto per il fatto che «sono state assolte le uniche due persone sospettate in questo caso». Anche i tabloid nazionali concordano su questo punto, enfatizzando la disperazione e lo stato di shock in cui è precipitata la famiglia della povera Meredith dopo una sentenza che ha messo per sempre la parola fine alla loro più che legittima richiesta di verità. Il Daily Mail , tra i quotidiani più seguiti in Gran Bretagna, accenna più volte in modo sprezzante alla «lunga saga di processi» mentre i titoli sul sito online spiegano che la sentenza della Cassazione italiana lascia «molti punti insoluti sulla vicenda» e si chiedono «allora chi ha ucciso Meredith?». È questo l'interrogativo che più pesa per la stampa d'oltre Manica mentre ciò che più sconcerta è la giustizia italiana che per l'ennesima volta esce a pezzi da questo vicenda. I giornali ripercorrono sette anni di clamorosi corsi e ricorsi, ricordano le ipotesi e le accuse, gli errori e le mancanze, l'insopportabile altalena emotiva a cui la famiglia di una vittima che non è mai stata al centro dell'attenzione, è stata sottoposta. Per il Daily Telegraph , quotidiano conservatore dai toni solitamente moderati, la coincidenza temporale dell'annullamento della Cassazione e l'uscita del film americano Il volto dell'angelo chiaramente ispirato ai fatti di Perugia, dimostrano «l'ossessione per Amanda Knox» alimentata da un circo mediatico che «insulta e offende la famiglia Kercher». Ma le parole più dure sulla nostra giustizia emergono sicuramente dal commento privo di retorica del corrispondente dell' Independent Peter Popham che scrive: «Knox e Sollecito assolti: è stato un terribile errore giudiziario. Il verdetto della Corte suprema mette la parola fine sull'intera vicenda. Ero stanco di sentir parlare del caso di Amanda Knox, di leggerne, di pensarci, di sentire cose su una storia su cui ormai nulla di più doveva essere detto. Eccetto una constatazione e cioè quanto ingiustamente può agire il sistema giudiziario di un meraviglioso, illuminato Paese. Quanto profondamente si può impantanare nelle sue stesse contraddizioni un sistema legale quando delle azioni decisive vengono prese in fretta, prima di avere delle prove cruciali». E mentre la madre di Amanda Knox minaccia una richiesta di risarcimento danni nei confronti della giustizia italiana per i quattro anni che la figlia ha trascorso in carcere, il sito dell' Huffington Post cerca di spiegare ai suoi lettori l'incomprensibile storia di una «complessa saga legale» tutta italiana.

Processo Meredith, i colpevoli sono i pm. Otto anni sono troppi per rimediare a una brutta figura, e la figuraccia rimane, soprattutto perché si poteva evitare, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Dal punto di vista degli imputati assolti, meglio tardi che mai. Ma otto anni sono troppi per rimediare a una brutta figura, e la figuraccia rimane, soprattutto perché si poteva evitare. L'elenco degli errori è lungo e non riguarda solo gli investigatori e i giudici di vario grado, ma anche il sistema giustizia italiano, contorto e profondamente confuso, oltre che di una lentezza mediorientale. Tutto è bene ciò che finisce bene, si fa per dire. Raffaele Sollecito e Amanda Knox, tra una doccia fredda e una doccia calda, sono stati scagionati, come era giusto che fosse, per un motivo tanto semplice da essere disarmante: non si condannano persone per un delitto che non si è certi abbiano commesso. Punto e amen. La strada che si è percorsa per giungere a questa conclusione è piena di accidenti, di crudeltà e di assurdità. E meno male che la Cassazione ha dimostrato un'assennatezza di cui francamente non la accreditavamo. Altrimenti oggi saremmo di fronte al sospetto che un paio di innocenti fossero in carcere, ciò che spesso è accaduto e accadrà ancora finché non cambieranno i metodi processuali. Metodi che suscitano perplessità in altri Paesi dove pure si sbaglia, ma si cerca almeno di evitarlo. Come? Per esempio consentendo di ricorrere in appello soltanto a chi in primo grado sia stato condannato, al quale bisogna assicurare la possibilità di un «esame di riparazione». Appello, viceversa, non previsto per la pubblica accusa in base al principio che se essa non è stata capace di provare la colpevolezza dell'accusato, significa che le prove e gli indizi raccolti non sono abbastanza forti. Da noi, invece, il secondo grado è aperto sia all'accusa sia alla difesa col risultato che tra magistrati (Pm) e avvocati scoppia una vera e propria lite, con tanto di ripicche che assomigliano molto a vendette. Ma che giustizia è quella che sfocia regolarmente in risse, quasi che il soccombente rischiasse di perdere la faccia? Talvolta gli effetti prodotti da simile braccio di ferro sono surreali. È stato il caso di Amanda e Raffaele, i quali si sono fatti quattro anni - una vita, alla loro età - di carcerazione preventiva e altri quattro di libertà provvisoria (in attesa di verdetto definitivo), immagino trascorsi nell'angoscia e senza alcuna opportunità di costruirsi un'esistenza normale. Tutto questo è inammissibile. All'estero incomprensibile. Ovvio che la stampa straniera consideri l'Italia fuori dal mondo civile, altro che culla del diritto. Da vari anni è stata abolita una vecchia formula salvifica: la cosiddetta «insufficienza di prove», grazie alla quale in «dubio pro reo». Cancellata questa scappatoia, oggi i tribunali sono di fronte a un bivio: o colpevole o innocente. Tertium non datur . Cosicché in camera di consiglio, i magistrati si scannano per far valere le loro opinioni. E sottolineo opinioni. Se teniamo conto che i giudici popolari - non togati - non capiscono un cavolo di diritto, immaginate quale scempio del diritto stesso avverrà nelle sacre stanze della giustizia. A complicare le cose negli ultimi tempi è intervenuta la scienza, di cui abbiamo il massimo rispetto, che però, essendo maneggiata da uomini, può trasformarsi in una fonte di topiche macroscopiche. Non raramente le perizie ordinate dal tribunale e quelle di parte sono contrastanti, si smentiscono l'una con l'altra. Quali sono esatte e quali no? Se anche gli esperti non sono d'accordo tra loro, ci si può fidare delle congetture e dei teoremi dei pubblici ministeri, che affrontano i processi con lo stesso spirito combattivo dei pugili, pronti a tutto pur di vincere il match dal cui esito dipendono fama e carriera? In alcune circostanze si ha l'impressione che le toghe siano sadiche e godano allorché le loro decisioni servano a sbattere in prigione gli imputati a ogni costo, anche quello di prendere un granchio. In questo senso la vicenda di Amanda e Raffaele è paradigmatica. Rudy Guede, condannato a 16 anni per concorso in omicidio di Meredith Kercher, non ha mai fatto i nomi dei due quali suoi complici. Le cui tracce nel teatro dell'omicidio non sono state rilevate, se si esclude una briciola di Dna sul gancetto del reggiseno recuperato sotto il letto della vittima 40 giorni dopo il delitto. Altri elementi non c'erano per incastrare lei e lui. Solo elucubrazioni. Qualche labile indizio. Occhio, però. L'opinione pubblica era divisa in due parti: innocentisti e colpevolisti. Più numerosi quelli che pretendevano di aver capito, sulla scorta di sensazioni, che i due innamorati meritassero la cella. Le pressioni ambientali, le aspettative della gente influenzano tutti, in particolare i giudici popolari. E così si comprende la piega negativa che hanno assunto le sentenze di primo grado e dell'Appello bis. Ma, al netto delle supposizioni, delle malevolenze e delle stupidaggini a cui la stessa Amanda ha dato corpo nel corso dell'inchiesta, nulla giustificava una pena detentiva da infliggersi ai due giovani. L'avvocato Giulia Bongiorno e il suo collega Carlo Della Vedova sono stati impeccabili. Mi domando se il merito dell'assoluzione sia tutto loro o abbia giocato favorevolmente la notevole sensibilità della Corte. Difficile rispondere. Comprensibile il dolore dei genitori della vittima, i quali a distanza di otto anni dal fatto di sangue non sanno ancora se ad averlo commesso sia solo Rudy o se questi si sia avvalso della complicità di qualcuno. Eventualmente, chi? Ma è anche vero che o gli assassini vengono identificati con sicurezza, e castigati, oppure, nella vaghezza delle ipotesi, è criminale selezionare due individui e punirli per ciò che forse hanno compiuto o forse no. Comunque la nostra giustizia - e non mi riferisco alla Cassazione - ha confermato di essere malata. Soprattutto di protagonismo.

L'ITALIA DEI PROCESSI INFINITI DAI COSTI INCALCOLABILI.

L'Italia dei processi infiniti dai costi incalcolabili. Se il processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato l'oggetto di un ping pong giudiziario quasi interminabile, la colpa è dei meccanismi stessi del processo penale, scrive Luca Fazzo su  “Il Giornale”. Non è stato il primo, e sicuramente non sarà l'ultimo: se il processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato l'oggetto di un ping pong giudiziario quasi interminabile, la colpa è dei meccanismi stessi del processo penale. Il codice non prevede un tie break, un momento in cui si debba per forza tirare le fila, facendo pendere la bilancia da una parte o dall'altra. L'andirivieni tra Corti d'appello e Cassazione può andare avanti in teoria all'infinito: specie per i processi per omicidio, che non possono essere inghiottiti dalla prescrizione. Certo, i costi per la collettività sono incalcolabili, e pesanti anche i costi materiali e psicologici per vittime e imputati. Ma di una norma che metta fine al rimpallo non si è mai parlato. E così non è affatto da escludere che lo stesso esito del processo per il delitto di Perugia possa averlo a breve quello per il delitto di Garlasco, visto che la Cassazione dopo avere annullato la assoluzione di Alberto Stasi potrebbe tranquillamente annullare anche la sua condanna. Come capostipite dei processi interminabili viene indicato abitualmente quello per la strage di piazza Fontana: che però ebbe un percorso accidentato ma tutto sommato lineare, anche se molti anni dopo la stessa Cassazione scrisse che la Cassazione si era sbagliata ad assolvere i neofascisti Freda e Ventura. Ben più surreale fu invece l'andirivieni di un altro processo degli anni di piombo, quello per l'omicidio del commissario Calabresi: Adriano Sofri venne condannato in primo e secondo grado, la Cassazione annullò la condanna, nel nuovo processo d'appello Sofri venne assolto ma la Cassazione annullò anche questa sentenza, e ci vollero un terzo processo d'appello e una nuova condanna, stavolta confermata dalla Cassazione, per chiudere la vicenda. In tempi più recenti, quasi impossibile da spiegare ai non addetti ai lavori è stato l'iter del processo per il rapimento dell'imam terrorista Abu Omar: gli 007 del Sismi vennero assolti in primo e secondo grado, la Cassazione annullò le assoluzioni, a quel punto l'appello bis si concluse con la condanna di tutti gli imputati, ma la Cassazione annullò (fortunatamente senza rinvio, altrimenti si sarebbe andati avanti chissà quanto) anche la sentenza di condanna. Per i reati non puniti dall'ergastolo, a dare un taglio alla faccenda arriva prima o poi la prescrizione, ma l'effetto è ugualmente straniante: la Procura di Milano non ha mai rinunciato a considerare Antonio Fazio, ex governatore della Banca d'Italia, colpevole del caso Unipol, ma si è dovuta arrendere - a causa del tempo trascorso - di fronte alla sentenza di assoluzione dell'appello-bis, dopo che la Cassazione aveva annullato le prime assoluzioni. E nel vuoto rischia di svanire anche il triste caso di Matilda Borin, la bambina uccisa nel 2005 vicino Vercelli. Prima fu assolto l'amante della madre, poi anche la madre; altri non potevano essere stati; la Cassazione ha riaperto il caso, ma - trattandosi di omicidio preterintenzionale - la prescrizione potrebbe arrivare prima di qualunque condanna.

FORCAIOLI: ORA TACETE!

Delitto di Perugia. L’assoluzione di Amanda e Raffaele una lezione per la piazza forcaiola, scrive “Tempi”. L’istruttivo racconto dei giudici che per primi sancirono la non colpevolezza degli imputati: siamo stati «denigrati per anni», ma in mancanza di prove certe «si può tollerare l’assoluzione del colpevole, non la condanna dell’innocente». In margine al clamore suscitato dall’assoluzione definitiva di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nella notte di Halloween ben 8 anni fa (otto), oltre alla durata e alle alterne sorti della vicenda processuale (condanna in primo grado, assoluzione in appello, annullamento in Cassazione, nuova condanna in un nuovo appello e infine assoluzione «per non aver commesso il fatto»), devono far riflettere tutti, magistrati e giornalisti in primis, le parole consegnate alla stampa in questi giorni da due dei giudici della Corte di assise di appello del capoluogo umbro, quella che nell’ottobre 2011 per prima riconobbe i due ex fidanzati non colpevoli per l’uccisione della povera ragazza. Si tratta dell’allora presidente di quella Corte, Claudio Pratillo Hellmann, oggi in pensione, e del giudice Massimo Zanetti. In una intervista pubblicata  da Repubblica, parlando del verdetto «senza rinvio» stabilito dai giudici della Cassazione venerdì 27 marzo, Hellmann esprime «soddisfazione per il riconoscimento implicito della validità della sentenza emessa a suo tempo dalla corte che presiedevo», ma spiega che per lui questa decisione rappresenta «soprattutto la fine di una grande sofferenza». Per tre anni e mezzo, infatti, il magistrato ha «sofferto per la sorte di due ragazzi che ritenevo innocenti e che rischiavano di scontare una pena durissima», a causa di un processo divenuto assurdamente “mediatico”, le cui conseguenze Hellmann ha finito per pagare di tasca propria. «La nostra decisione – racconta il magistrato a Repubblica – fu accolta con reazioni di sdegno». Hellmann parla di vero e proprio «linciaggio diffamatorio». «Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un’ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia». Evidentemente la folla aveva già deciso, a prescindere dai fatti (non) accertati in tribunale, che Amanda e Raffaelle dovevano essere riconosciuti colpevoli. Ma non solo la folla. Helmann rimase particolarmente colpito dalla «reazione dei colleghi magistrati». «Quasi tutti» i colleghi, ricorda il giudice, «mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda». Secondo lui nel tribunale di Perugia «tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l’inchiesta, avevano avallato l’accusa». E la sentenza di assoluzione fu a tal punto indigesta per il suo ambiente che la presidenza del Tribunale, per la quale Hellmann dice di essere stato «in predicato», fu invece «assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne. Sei mesi dopo la sentenza quindi decisi di andare in pensione». Dice: «Praticamente fui costretto». Nel colloquio con il quotidiano Hellmann spiega che l’indagine sul conto di Amanda e Raffaele, evidentemente non agevolata dall’eccessiva attenzione mediatica di cui è stata oggetto, «era del tutto lacunosa e secondo me sbagliata sin dall’inizio». Lo dimostrerebbero l’arresto ingiusto di Patrick Lumumba («che poi risultò del tutto estraneo alla vicenda diventando parte lesa») e le perizie ordinate dalla stessa Corte di appello che «non erano state fatte durante il processo di primo grado», e grazie alle quali, soprattutto, «la contaminazione delle prove scientifiche apparve in tutta evidenza». Secondo il giudice era «palese» che «il coltello sequestrato a casa di Raffaele Sollecito non era l’arma del delitto», tanto che perfino nel secondo processo di appello, che pure terminò con una condanna per i due imputati (inspiegabile, secondo Hellmann), la perizia scientifica disposta dalla Corte di Firenze «aveva avuto sostanzialmente la stessa conclusione della nostra». Anche Zanetti, intervistato domenica 29 marzo dal Tg1, ricorda di essere stato «denigrato ingiustamente per anni» per l’assoluzione della Knox e di Sollecito. Il fatto è che per la Corte di assise di Perugia «le prove raccolte non erano sufficienti per una condanna», racconta Zanetti, e però la legge impone al giudice di raggiungere nel processo una certezza superiore a ogni ragionevole dubbio prima di giudicare qualcuno colpevole di un reato. Non fu facile sottoscrivere un verdetto evidentemente contrario a quello stabilito a priori dal circuito mediatico-giudiziario, ma «il destino degli altri che in quel momento è in mano nostra – spiega Zanetti – non è barattabile con la comodità di una carriera spianata». Sono le conseguenze “scomode” dello Stato di diritto: in mancanza di prove certe, meglio mandare in libertà un criminale che rischiare di colpire qualcuno ingiustamente. La verità processuale non equivale alla verità dei fatti, e non a caso l’ordinamento italiano, sintetizza Zanetti, «può tollerare l’assoluzione del colpevole, ma non la condanna dell’innocente». Nemmeno se a deciderla è stata la piazza.

RESPONSABILITA’: DOV’E’ FINITA?

All'origine di ogni forma di corruzione. Responsabilità, ma dov’è finita? Si domanda Donatella Di Cesare su “Il Corriere della Sera”. Oggi nessuno vuole più rispondere di nulla ma chi scarica sugli altri ogni fardello nei fatti si dichiara sostituibile e superfluo. «Non ne rispondo io — mi spiace». «Che si assuma la responsabilità chi di dovere!». «Sarà il caso di passare la palla ad altri». Quante volte al giorno capita di ascoltare frasi del genere? O persino di pronunciarle? Sfuggire alla responsabilità è una prassi diffusa nella vita privata come nella sfera pubblica. Dai piccoli gesti della quotidianità ai rapporti affettivi, dai legami sociali all’agire politico: non c’è ambito che non sia pervaso da una rinuncia sistematica alle risposte che ciascuno è chiamato a dare. E la rinuncia finisce per volgersi in vera abdicazione là dove le responsabilità aumentano. Gli esempi sono molteplici: l’insegnante acquiescente che chiude gli occhi sulla prepotente bullaggine dell’allievo; il giornalista che sceglie sbrigativamente la parola più comoda o passa sotto silenzio quel che dovrebbe dire a gran voce; il magistrato che strizza l’occhio agli imputati, proscioglie quando dovrebbe condannare, allunga i tempi del processo fino alla prescrizione; il medico che tratta il paziente come un corpo malato, tra disattenzione e volontà di lucro; il politico che, mentre dovrebbe sollevare lo sguardo verso il bene comune, è chino sul proprio tornaconto. La rinuncia ad assumere le proprie responsabilità erode ogni relazione, corrode la comunità. La corruzione nasce da qui. È un fenomeno etico, prima ancora che politico. Questo non vuol dire né diluirne la portata né ampliarne pericolosamente i confini. Ma non sarà mai possibile vederne con chiarezza gli effetti devastanti, se non si risale a quel luogo in cui la corruzione affiora. Ed è là dove il legame con l’altro si deteriora, dove chi dovrebbe rispondere preferisce sottrarsi. L’io si deresponsabilizza. Chiamato in causa, non si assume l’onere della decisione, e aggira l’impegno, evade l’obbligo che lo lega agli altri. Così apre una falla, una incrinatura. E mentre una crepa si aggiunge alla precedente, la comunità, inevitabilmente, si sgretola. La corruzione non sta solo nelle mazzette — simbolo del disfacimento che prevale, dell’integrità che viene meno. Una comunità corrotta è quella i cui membri non rispondono di sé e non rispondono agli altri. La leggerezza inebriante di cui si compiace l’io deresponsabilizzato è a ben guardare una trappola. Chi ha eluso il fardello della responsabilità, crede di averla fatta franca. Si prepara a schivare così tutti i fardelli a cui andrà incontro. L’onore senza l’onere diventa il suo stile di vita. Ma ogni volta che l’io abdica, che lascia agli altri la responsabilità a cui era stato chiamato, crede, e fa credere, di essere sostituibile. «Perché mai dovrei risponderne proprio io? Che se la veda qualcun altro!». Può darsi che il «qualcun altro» che viene dopo si comporti in modo analogo — in un continuo rinvio, un incessante riversarsi a vicenda pesi e obblighi. Eppure nessuno è sostituibile. La responsabilità che incombe su di me, in questo momento, non può essere ceduta. Se la cedo, non solo apro una falla, ma accetto l’idea che qualcuno potrebbe rimpiazzarmi. Mentre nessuno, mai, può farlo. L’io deresponsabilizzato ammette invece di essere sostituibile, avvalora la sconcertante ipotesi della propria superfluità. Si crede in genere che la responsabilità sia un gesto ulteriore di un soggetto autonomo e sovrano. Nella sua superba priorità questo soggetto, privo di vincoli, detterebbe legge a se stesso. Ma che cosa sarebbe l’io senza l’altro che sempre lo precede? Il mondo non è cominciato con me. Prima di me c’è sempre l’altro che mi convoca, mi interroga, e a cui sono chiamato a rispondere. Non per un atto di adesione volontaria — valutando se dire sì o no. Ma semplicemente volgendomi verso chi mi chiama. Prima ancora di ogni possibilità di scelta, perché è nella torsione verso l’altro che l’io si costituisce. Rispondo, dunque sono. Senza la responsabilità, l’io non esisterebbe neppure. La mia esistenza si coagula ogni volta nell’obbligo che mi vincola all’altro. Se eludo l’obbligo, gli effetti ricadono sul mio stesso esistere. La leggerezza inebriante si rivela inconsistenza angosciosa. E quel detestabile io, che pretendeva di essere soggetto assoluto, rischia di restare tragicamente intrappolato nella sua errata idea di libertà astratta, senza più via d’uscita. I filosofi non hanno mai parlato tanto di «responsabilità» come in questi ultimi decenni. Con Emmanuel Lévinas e con Hans Jonas la responsabilità è diventata, anzi, uno dei temi più discussi nel dibattito contemporaneo. Il che non sorprende. Perché viviamo nell’epoca di una crescente deresponsabilizzazione. La complessità del mondo globale, la rilevanza assunta dalla scienza che, malgrado i progressi compiuti, appare sempre più incapace di offrire un orientamento e dar conto delle sue stesse scelte, la specializzazione estrema e il connesso ruolo dell’«esperto», al quale viene spesso lasciata la parola ultima, la frantumazione della responsabilità, che impedisce di scorgere le ripercussioni dei propri gesti: tutto ciò ha contribuito a privare i più della possibilità di decidere e di agire. È la razionalizzazione tecnica della vita a influire, però, in modo determinante. Dove trionfa la tecnica viene meno la responsabilità. Non solo perché l’essere umano è diventato «antiquato» rispetto ai suoi stessi prodotti, costretto — come ha sostenuto Günther Anders — a rincorrerli disperatamente, nel tentativo vano di sincronizzarsi alla loro disumana rapidità. Ma anche perché l’ingranaggio della tecnica stravolge il rapporto tra mezzi e fini, nel senso che potenzia i mezzi e fa perdere di vista i fini, sia quelli individuali, sia quelli comuni, che rendono coesa una comunità. Si è in grado di fare molte più cose, ma non si sa bene a che scopo. Così, mentre si moltiplicano le etiche applicate, dalla bioetica all’«etica degli affari», volte non di rado a rassicurare l’opinione pubblica sulla moralità di un settore, ad esempio quello delle imprese, mentre dunque l’etica può diventare a sua volta fonte di profitto, la «responsabilità» resta la terra incognita di questa tarda modernità, la stessa che abita un pianeta devastato, dove nulla sembra ci sia ancora da scoprire. La responsabilità è infatti rispetto sia per gli altri, sia per quell’altro che sono le cose del mondo. Da quando gli esseri umani sono diventati più pericolosi per la natura, di quanto la natura fosse per loro, si rende necessaria un’etica che risponda all’esigenza di lasciare alle generazioni future un pianeta ancora vivibile. Sono responsabile non solo verso l’altro che sempre mi precede, ma anche verso l’altro che viene dopo di me. E guardando al suo futuro non dovrei allora mai mancare di chiedermi se anche il più piccolo dei miei gesti non avrà ricadute su di lui. Proprio quello che non mi riguarda richiede la mia attenzione. Solo io sono responsabile — sta qui la suprema dignità umana.

STRAGE DI MILANO. QUANTE VITTIME DELLA GIUSTIZIA PERDONO LA TESTA?

Quante vittime della giustizia condannate a perdere la testa. Dal dirigente convinto che Borrelli fosse un clone al «vendicatore» che suonava «Bella ciao» Stritolati da attese infinite e sentenze inaccettabili, molti crollano. E diventano casi clinici. Ci sono quelli che sparano. Quelli che si mettono a suonare la fisarmonica sotto il tribunale. E poi c'è l'infinito numero di quelli che si consumano nel chiuso delle loro case e delle loro teste, e dissolvono anni e patrimoni in carte bollate e fotocopie, sempre più voluminose e sempre meno comprensibili. Non sono matti. Ma sono tutti, in diverso modo e misura, vittime della psicosi da giustizia. Una malattia reale e inguaribile, che chiunque frequenti i tribunali conosce bene. E talmente pervasiva da far ritenere quasi consolatorio che i casi come quelli Claudio Giardiello, cui il senso di persecuzione ha armato la calibro 9 e la voglia di sangue, siano così pochi. É una psicosi che non ha nulla a che vedere con la delegittimazione della magistratura berlusconiana o renziana; ma che nemmeno è figlia di particolari brutalità di questo o quel magistrato. Se si vanno ad analizzare una per una le cento storie di cittadini che hanno perso il senno inseguendo il mito di una giustizia giusta, l'impressione che se ne cava è che a stritolarli non sia stata l'effettiva iniquità del loro caso, ma la potenza distruttiva del sistema giudiziario in quanto tale. La macchina del processo parte, viaggia coi suoi ritmi imperscrutabili, trita. Non solo quando si occupa di delitti o di anni di galera, ma anche - e anzi più spesso - quando piccoli, quasi futili diritti (l'avanzamento di carriera; il prato usurpato; eccetera) veri o immaginari che siano non trovano soddisfazione. Davanti alla sentenza contraria c'è chi si rassegna. E c'è chi si avvita in un mondo tutto suo, dove giudici, avvocati, testimoni contrari finiscono per impersonare gli attori di un unico gigantesco complotto ai loro danni. Nel palazzo di giustizia di Milano, quello che l'altro ieri Giardiello ha trasformato in mattatoio, la galleria di queste vittime dell'illusione di giustizia è lunga: e potrebbe apparire persino pittoresca se dietro ognuno di questi casi non si celassero tragedie profonde. Ai tempi di Mani Pulite, un dirigente di banca urlava la sua rabbia nei corridoi della Procura, sostenendo che il Borrelli che vi si aggirava fosse in realtà un sosia del vero procuratore, finito agli arresti per le sue malefatte. A portare il dirigente sull'abisso era stata una causa contro la sua banca, in cui si era visto dare torto; aveva denunciato i giudici ad altri giudici, e questi ad altri ancora. Uno dei vice di Borrelli aveva un suo stalker personale, un maestro di musica che accusava la cantante Mietta di avergli rubato una canzone: tra magistrato e visionario si stabilì una sorta di simbiosi, al punto che quando il primo cambiò procura se lo portò appresso. Un medico accusato e poi prosciolto dall'accusa di avere ucciso in collega si è aggirato a lungo, tuonando o ragionando a seconda dell'umore, nei corridoi del tribunale. Oggi a incarnare queste tristezze è un ingegnere di profonda cultura, che nella sua rabbia sommerge l'intera magistratura di insulti irriferibili, e si vendica suonando Bella Ciao sotto le finestre del palazzo di giustizia, fin quando a ondate successive di Tso - trattamenti sanitari obbligatori, il destino di tanti di questi sventurati - lo spediscono a venire sedato in un reparto ospedaliero. Questi sono i casi estremi. Ma il punto di non ritorno lo superano in tanti. Certo, la lentezza estenuante della giustizia italiana ha il suo peso, nel logorare l'equilibrio, nell'ingigantire la portata dei torti subiti e dei diritti negati; a spezzare l'equilibrio della gente però è soprattutto la distanza siderale tra il proprio carico emotivo e la freddezza della giustizia: che ha nei suoi simboli a volte la spada, a volte la bilancia, ma mai il cuore. Nell'autunno scorso, quando il Giornale aprì la sua casella di mail alle storie di malagiustizia, insieme a tante vicenda gravi e oggettivamente scandalose, fu impressionante il numero di racconti dove era difficile districarsi tra paranoia, delirio di persecuzione, battaglie contro i mulini a vento. Forse affidare nell'immaginario collettivo una visione salvifica della Giustizia con la «G» maiuscola ha incrementato il numero di queste catastrofiche disillusioni. Ma le psicosi da diritto negato sono sempre esistite, e probabilmente esisteranno per sempre.

L'ira degli avvocati contro i giudici "Per loro siamo le vittime di serie B". Dopo la sparatoria in tribunale, i legali protestano per l'eccessivo protagonismo delle toghe: "Fuorviante parlare di clima antimagistrati, ci siamo anche noi", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”.  Anche in mezzo a una tragedia, c'è chi cerca di rubare la scena agli altri. E mentre tutti parlano di «attacco alla magistratura», gli avvocati insorgono: «Non esistono vittime di serie A e di serie B». L'Organismo unitario dell'avvocatura si appella al Capo dello Stato Sergio Mattarella, perchè «si contrasti anche la campagna denigratoria contro l'avvocatura in corso da anni, non solo quella rispetto alla magistratura». Stessa linea dei penalisti: «Evocare un clima contro i giudici è fuorviante e quantomeno inopportuno», dicono, per un fatto «attribuibile a una lucida follia, frutto forse della disperazione e di un disagio sociale». La nota dell'Unione Camere Penali parla chiaro: «Sul processo, civile o penale che sia, si scaricano tutte le tensioni e le aspettative sociali, il che rende più vulnerabili i suoi protagonisti, senza nessuna distinzione». Per i penalisti, «l'omicida ha espresso il suo sentimento di rabbia e vendetta nei confronti di chi riteneva ingiustificatamente responsabile delle sue disavventure, e ciò non ha nulla a che vedere con una asserita delegittimazione o con il discredito della magistratura». In quell'aula del tribunale di Milano, diventata la scena del crimine, è caduto sotto i colpi di un imprenditore folle un ragazzo biondo di 37 anni, il giovane avvocato Lorenzo Claris Appiani. Quando il padre e la madre, avvocato pure lei, sono entrati nella sala del palazzo di Giustizia per la sua commemorazione, ne uscivano i neoavvocati che avevano prestato giuramento. Come Lorenzo, solo pochi anni fa. Gli applausi e le lacrime, più ancora dei discorsi, ricordano quel momento. Un entusiasta avvocato agli inizi di una carriera che si prometteva brillante e uno stimatissimo magistrato, Fernando Ciampi, che a 71 anni si avviava alla sua conclusione: due vittime della strage che sono, devono essere, sullo stesso piano. Lo dice anche l'ex Guardasigilli, l'avvocato Paola Severino: «Questo episodio raccapricciante ha riguardato giudici, ma anche avvocati e testimoni. Tutti coloro che contribuiscono alla formazione di una sentenza e della giustizia devono essere tutelati». Sottolinea il presidente Oua, Mirella Casiello: «Sarebbe inaccettabile che si facessero differenze di fronte a un fatto tragico come questo. L'avvocatura, da anni, subisce una continua campagna di denigrazione, si viene dipinti come azzeccagarbugli, come lobby di affaristi e compagnia cantando. Non vengono discreditati solo i giudici, quindi, come ha giustamente sottolineato la massima carica dello Stato. Anche gli avvocati sono troppo spesso, ingiustamente, sul banco degli imputati». Ieri l'Oua ha riunito la giunta a Roma. Chiede che si metta fine alle polemiche sterili e un incontro urgente con il ministro della Giustizia, Andrea Orlando: sulla sicurezza, sì, ma anche su come recuperare fiducia e rispetto dei cittadini verso la Giustizia e chi la rappresenta. «Spesso i tribunali sembrano dei bazar, dei mercati, non i templi del diritto», dice la Casiello. «Da sempre prima linea della lotta alla criminalità e ai soprusi, sono diventati la trincea simbolica del disagio sociale e, in alcuni casi, della follia assassina. Gli avvocati, spesso, diventano capri espiatori. Se c'è la crisi, se la mia impresa va male, rischio di fallire, la colpa è dell'avvocato che mi ha difeso male nel processo». L'Ucpi sottolinea: «Gli avvocati sono, al pari dei magistrati, soggetti della giurisdizione, che concorrono all'amministrazione della giustizia e non sono ospiti in tribunale. Meritano la stessa fiducia e devono sottoporsi agli stessi controlli di magistrati e personale amministrativo». E il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin: «L'avvocatura resterà in prima linea a tutela della nostra democrazia, ma non può e non dev'essere lasciata sola».

REATO DI TORTURA: PER CHI?

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: "Per l'Europa è tortura anche il carcere duro. I forcaioli che dicono?". Se fosse introdotto il reato di tortura allora dovremmo abrogare anche il 41 bis, il cosiddetto carcere duro: come la mettiamo? Il paradosso è decisamente sfuggito all’ampio fronte che ieri ha plaudito alla decisione della Corte Europea di condannare l’Italia per il reato appunto di tortura, che da noi non esiste: ed è interessante che trattasi dello stesso fronte che considera il 41 bis come un moloch sacro e intoccabile, anzi, vorrebbe estenderne l’applicazione. Tocca citare il solito Fatto Quotidiano (che ieri ha ufficialmente scoperto la Corte Europea per i diritti umani) ma anche il Corriere della Sera e nondimeno ampi settori del Pd, tutta gente che invoca una legge che sembra eternamente pronta, sempre in dirittura d’arrivo: ma di cui, di fatto, si parla e basta dal 1984, anno in cui l’Italia firmò la convenzione Onu contro la tortura. La condanna del 2008 - E quel che non si ricorda - dicevamo - è che la stessa Corte Europea ha condannato lo Stato italiano per il regime del 41 bis: il 16 gennaio 2008 fu deliberato che quel regime violava due articoli della Convenzione, al punto che l’avvocato del ricorrente dichiarò che «il 41 bis è una Guantanamo italiana». Ma non c’è solo la Corte Europea. Più di un giudice statunitense, negli anni passati, condannò il carcere duro all’italiana come un regime di detenzione al quale la giustizia americana non voleva prestare il fianco. Uno dei casi più noti risale all’11 settembre 2007, quando un magistrato di Los Angeles negò l’estradizione in Italia del narcotrafficante Rosario Gambino - che aveva già scontato 22 anni - perché a suo dire il 41 bis aveva caratteristiche «che costituiscono una forma di tortura» e violavano la convenzione delle Nazioni Unite in materia: le stesse motivazioni della Corte Europea. Ma le fonti sono anche altre: basta rileggere i rilievi del Dipartimento di Stato americano sul rispetto dei diritti umani nel nostro Paese, quelli di Amnesty International, così pure i rapporti degli ispettori europei che visitarono il nostro sistema penitenziario: nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (C.P.T.) disse che il 41 bis italiano era risultato il più duro tra tutti quelli esaminati dagli ispettori: la delegazione parlò di trattamenti inumani e degradanti che potevano tradursi in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili. Ultime ma non ultime, ci sono le denunce solitarie e puntuali di Amnesty Italia e di Nessuno tocchi Caino. Risale a meno di due settimane fa, poi, la denuncia del senatore Giuseppe De Cristofaro di Sinistra Ecologia e Libertà: «Se la ratio del 41 bis resta quella di costringere al pentimento, allora è una tortura». Celebrazioni selettive - Insomma: questa celebrazione selettiva delle sentenze della Corte Europea - soprattutto da parte del fronte forcaiolo - può diventare imbarazzante, perché è la stessa Corte che ci ha condannato non solo per il 41 bis (tortura anche quella) ma anche per  durata eccessiva dei procedimenti e per il sovraffollamento carcerario. Da non confondere con la Corte di giustizia europea, quella che nel novembre 2011 ha detto che dovevamo aggiornare la norma sulla responsabilità civile dei giudici. Morale: è un attimo santificare le cortei e trovarle, subito dopo, tremendamente impiccione.

LA PICCOLA EGUAGLIANZA, IL POPULISMO E LA CADUTA PARZIALE DEGLI DEI (I MAGISTRATI).

Eguaglianza «aritmetica» o «proporzionale», secondo la distinzione di Aristotele? Nel punto d'arrivo o di partenza? Verso l'alto o verso il basso, come vorrebbero le teorie della decrescita? Se due mansioni identiche ricevono retribuzioni differenti, dovremmo elevare la peggiore o abbassare la piú alta? Ed è giusto che una contravvenzione per sosta vietata pesi allo stesso modo per il ricco e per il povero? Sono giuste le gabbie salariali, il reddito di cittadinanza, le pari opportunità? E davvero può coltivarsi l'eguaglianza fra rappresentante e rappresentato, l'idea che «uno vale uno», come sostiene il Movimento 5 Stelle? In che modo usare gli strumenti della democrazia diretta, del sorteggio e della rotazione delle cariche per rimuovere i privilegi dei politici? Tra snodi teorici ed esempi concreti Michele Ainis ci consegna una fotografia delle disparità di fatto, illuminando la galassia di questioni legate al principio di eguaglianza. Puntando l'indice sull'antica ostilità della destra, sulla nuova indifferenza della sinistra verso quel principio. E prospettando infine una «piccola eguaglianza» fra categorie e blocchi sociali, a vantaggio dei gruppi piú deboli. Una proposta che può avere effetti dirompenti.

Michele Ainis racconta le ingiustizie italiane nel nuovo "La piccola eguaglianza". In un libro il costituzionalista denuncia le piccole e grandi storture che inquinano la vita pubblica e professionale del Paese. E le colpe della sinistra, scrive Tommaso Cerno su “L’Espresso”. C'è una mappa italiana che la sinistra fa finta di non vedere. Racconta centinaia di piccole ingiustizie, una miriade di micro diseguaglianze, di stravaganti contraddizioni, iniquità, storture di un Paese dove essere uguali a parole è l’obiettivo di tutti, nei fatti resta un traguardo lontano. Michele Ainis ne traccia una radiografia tanto dettagliata quanto inquietante nel suo libro-breve “La piccola eguaglianza” (Einaudi, 136 pagine, 11 euro), un viaggio da costituzionalista ma prima ancora da cittadino dentro la contraddizione che fonda il sistema-Italia: nella teoria, siamo tutti uguali davanti alla legge, nella pratica la Repubblica nulla fa per rimuovere - come da mandato dei padri costituenti - gli ostacoli che impediscano di godere a pieno di tale principio. Con una denuncia chiara e nitida delle responsabilità della politica e, in particolare, della sinistra. Se Norberto Bobbio, spiega il costituzionalista, «scolpì la distinzione fra destra e sinistra in base al loro atteggiamento verso l’idea dell’eguaglianza», tanto da farne la stella polare dei progressisti, nei fatti tutti questi paladini dei più deboli, dei diseredati, dei potentati economici non si vedono. Anzi, aggiunge Ainis, «in Italia resistono i privilegi di stampo feudale», denunciati sempre e soltanto dai movimenti liberali e radicali. Poco, anzi pochissimo, dai riformisti di governo. La copertina del libro di Michele Ainis L’elenco del professore è serrato: bancari che lasciano il posto ai figli (siamo al 20 per cento dei casi in Italia), famigliari di ferrovieri che ancora nel 2015 viaggiano gratis sui treni, assicuratori che ci propinano le polizze più care d’Europa, e ancora tassisti che si proteggono con il numero chiuso. E avanti con farmacisti e notai, definiti da Ainis “creature anfibie”, nel senso terrestre della funzione pubblica e in quello acquatico dei guadagni privati. Spesso grazie a strafalcioni semantici, come nel caso dei medici che per prendersi lo stipendio dell’Asl e quello del privato a caccia di un luminare che risolva l’enigma di una malattia si affidano, portafoglio alla mano, all’intramoenia extramuraria. Uno scioglilingua che sembra scritto apposta per fregare i cittadini. Eppure, denuncia Ainis, gli unici a reclamare non sono quelli della sinistra parlamentare. Un saggio, dunque, ma anche un manuale delle fregature italiche che la politica finge di non vedere. Una guida ragionata del delirio di una democrazia che si professa a parole e non si applica nei fatti. Ainis spazia dal lavoro, dove di fronte a tassi di disoccupazione da record, non c’è alcuna trasparenza dell’offerta, nessuno “bandisce” i posti, consentendo una vera concorrenza. Per non parlare delle donne, abbandonate a se stesse, senza aiuti reali per educare i figli, dalla scarsità dei nidi alla casa, e rese dunque non eguali nella concorrenza con gli uomini. D’altra parte, avverte il professore, la sinistra «è anche quella che accetta i benefit di cui gode il Vaticano o in generale lo statuto di favore attribuito alla confessione cattolica» in un’Italia che, Costituzione alla mano, non ha certo una religione di Stato. Fino al caso dei famosi prof di religione, che finiscono per mettere in tasca più quattrini dei colleghi di ginnastica. Tanto per dimostrare anche nel portafoglio, come lo spirito e il corpo non valgano uguale in Cielo, ma nemmeno sulla Terra. E tanto per ricordare, come Ainis fa, che la legge sulla libertà religiosa fu proposta «dal più democristiano fra i politici democristiani (Andreotti durante il suo sesto governo, nel 1990), e poi mai approvata dagli esecutivi di sinistra che si sono alternati nel quarto di secolo successivo». Vale a dire Prodi, per due volte, D’Alema, Amato, Letta e Renzi. Per diventare un paese dove essere poveri o nullatenenti sembra l’unico modo per non essere attaccati o sospettati di chissà quale furto allo Stato o ai concittadini. In un’escalation pauperista indegna di una democrazia. «Dunque fermiamoci, finché siamo ancora in tempo», avverte Ainis. «Perché da un malinteso ideale di giustizia deriva la massima ingiustizia». E perché da un’ideologia del genere sgorga un veleno che può uccidere la democrazia stessa nel nome del quale si è generato.

Non tutte le eguaglianze sono eguali (e alcune fanno male), scrive Sabino Cassese su “Il Corriere della Sera”. Nei primi giorni di gennaio, l’incontro tra scienziati sociali e economisti americani tenutosi a Boston, nel quale l’economista francese Thomas Piketty ha esposto le sue idee sulle crescenti diseguaglianze di reddito e di ricchezza nelle società capitalistiche, ha suscitato accesi dibattiti, trasformando una compassata riunione di circa 12 mila studiosi in un campo di battaglia, diviso tra coloro che ritengono accettabile il livello di diseguaglianza delle nostre società e quelli che, all’opposto, pensano che occorra porvi rimedio, semmai con una tassa mondiale sulla ricchezza. Questo è solo un indizio dell’importanza del tema dell’eguaglianza, al quale opportunamente Michele Ainis dedica un breve libro (“La piccola eguaglianza”, Einaudi) che è, nello stesso tempo, di riflessione e di divulgazione. Ainis parte da una ricchissima illustrazione di casi di incongruenze amministrative e normative, di irrazionalità, di piccole iniquità, di storture, per poi passare in rassegna piccole e grandi diseguaglianze ed esporre e sviluppare, in forma divulgativa, idee maturate nei suoi lavori scientifici. Spiega che alla eguaglianza in senso formale (tutti sono eguali di fronte alla legge) si è venuta ad accostare l’eguaglianza in senso sostanziale (per cui la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza). Rileva che le due declinazioni dell’eguaglianza sono in conflitto. Infatti, la prima si esprime attraverso misure negative, la seconda con azioni positive. La prima tende a conservare lo status quo , la seconda a ribaltarlo. La prima comporta eguaglianza degli stati di partenza, la seconda eguaglianza dei punti di arrivo. La prima ha come destinatario il singolo, la seconda riguarda gruppi o categorie. Infine, la prima spinge verso discipline uniformi, la seconda verso discipline differenziate. Per far consistere le due declinazioni dell’eguaglianza, ambedue necessarie — continua Ainis — occorre convincersi che la prima deve funzionare come regola, la seconda come eccezione temporanea, destinata a durare finché le discriminazioni a danno di particolare categorie siano finite. Le azioni positive «possono opporsi alle piccole ingiustizie, quelle che penalizzano gruppi o classi di soggetti all’interno di una comunità statale. La piccola eguaglianza, l’eguaglianza “molecolare” è tutta in questi termini. E i suoi destinatari sono i gruppi deboli, le minoranze svantaggiate». L’altra lezione che Ainis trae dalla sua ampia rassegna di casi è quella che l’egualitarismo è pericoloso. L’eguaglianza radicale è l’antitesi dell’eguaglianza, perché appiattisce i meriti e perciò salva i demeriti. Così come l’appiattimento dei destini individuali, ispirato all’ideologia del pauperismo, discende da un malinteso ideale di giustizia, da cui deriva la massima ingiustizia. In un’Italia affamata di giustizia, temi come questi dovrebbero divenire motivi di discussione quotidiana. Stanno maturando altre esigenze di eguaglianza, mentre istituti chiamati ad assicurare l’eguaglianza producono vistose diseguaglianze. Consideriamo solo quattro ostacoli all’eguaglianza. Il primo è quello che deriva dall’accesso privilegiato al lavoro e colpisce specialmente i giovani. Alle difficoltà del mercato del lavoro, derivanti dalla limitatezza dell’offerta di posti di lavoro, si aggiunge la scarsa trasparenza dell’offerta. Né i datori di lavoro privati né quelli pubblici «bandiscono» i posti, consentendo conoscenza e concorrenza in modo eguale a tutti. Al lavoro si accede, quindi, attraverso procedure privilegiate, la famiglia, le conoscenze personali, i legami di «clan» politici, i canali «mafiosi». Un secondo ostacolo è quello che non consente alle donne l’accesso al lavoro. Carenza di provvidenze per la famiglia, scarsità di asili nido, mancanza di supporti ai nuclei familiari escludono le donne dal lavoro (con il paradosso che la loro presenza in ogni grado di scuola è prevalente, mentre diminuisce sensibilmente negli altri luoghi di lavoro, con poche eccezioni, quali l’insegnamento e la magistratura). Un terzo grave problema di giustizia sociale riguarda gli immigrati. Sia i giudici sia il Parlamento stanno estendendo a loro favore, ma in maniera contraddittoria e parziale, i diritti politici, i diritti di libertà e i diritti a prestazioni da parte dello Stato (accesso alla scuola, al sistema previdenziale, al sistema assistenziale, alla sanità) spettanti ai cittadini. Ma dopo quanto tempo gli immigrati cominciano a godere di questi diritti, avvantaggiandosi della solidarietà della collettività nella quale sono entrati? Perché alcuni di questi diritti vengono riconosciuti e altri non lo sono? Quali costi il riconoscimento comporta e quali condizioni, quindi, bisogna porre a esso? Infine, lo Stato del benessere opera principalmente a favore dei pensionati, meno per gli inoccupati e i disoccupati. Lo squilibrio delle risorse conferite, per vincere le diseguaglianze, ai diversi rami del welfare produce, paradossalmente, altre diseguaglianze.

Questo breve saggio sul principio di eguaglianza e su ciò che lo mette in crisi si articola in sei capitoli, scrive Fulvio Cortese.

Il primo chiama subito in causa la disperante concretezza del tema e si risolve in una carrellata di esempi, tratti dalla cronaca, su quale sia, nel nostro paese, la varia e diffusa fenomenologia della discriminazione.

Il secondo capitolo spiega preliminarmente quale sia l’approccio migliore per garantire l’eguaglianza, suggerendo che il principio possa garantirsi in modo credibile solo in una prospettiva relativa – definita dall’Autore come “molecolare” – e quindi resistendo alla tentazione di “alzare gli occhi al cielo” e di voler realizzare un’impossibile eguaglianza assoluta.

Proprio in questa direzione, il terzo capitolo chiarisce in modo sintetico, ma efficace, come la dottrina costituzionalistica e la Corte costituzionale abbiano elaborato e consolidato precise tecniche di analisi per verificare il puntuale rispetto del principio da parte del legislatore.

Il quarto capitolo si domanda se esitano anche dei criteri positivi per guardare all’eguaglianza, da un lato evidenziando che il principio non esige sempre una parità di trattamento verso l’alto o verso il basso (dipende dalla rilevanza costituzionale del “diritto” cui di volta in volta si ambisce), dall’altro ricordando che alla base di una corretta metabolizzazione dell’eguaglianza sta la consapevolezza che essa non serve per assicurare a tutti un identico punto d’arrivo, bensì per consentire a ciascuno di esprimere le proprie capacità.

Il quinto capitolo, allora, è la mise en place delle acquisizioni maturate nel corso della trattazione, volgendo così lo sguardo, in modo talvolta originale, a fattori differenzianti ancora e sempre particolarmente spinosi (il sesso, l’età, l’etnia, la provenienza territoriale, la religione; ma anche la pericolosa e strutturale frattura che si insinua invariabilmente tra governanti e governati).

Il sesto capitolo, infine, non ha un valore veramente conclusivo. Preso atto che la sinistra ha ormai abbandonato il suo ruolo di essere paladina dei più deboli, il libro si chiude con la sconsolata ricognizione del dibattito pubblico dei nostri giorni e della costante e strisciante tentazione di molti a risolvere la percezione della propria diseguaglianza nella speranza che i destini individuali si appiattiscano e nell’affermazione dell’infelicità altrui. Nella parte in cui si limita a rievocare – in modo peraltro riuscito – il succo della giurisprudenza costituzionale  sul principio di eguaglianza, la tesi “molecolare” illustrata da Ainis non presenta profili di particolare novità, se non per un pubblico totalmente digiuno del contributo che il diritto sa dare alla razionalizzazione delle discriminazioni. Spunti intelligenti, però, ci sono, e si trovano soprattutto dopo p. 84, nella parte in cui (capitolo quinto) l’Autore affronta le “categorie dell’eguaglianza” e si pronuncia su come sciogliere i fattori differenzianti sopra ricordati. Sulla diseguaglianza sessuale, si ribadisce l’importanza delle affirmative actions, ma si ricorda che lo strumento va usato con cura e a tempo, e si guarda con scetticismo all’introduzione delle quote di genere nelle competizioni elettorali. Si esprime, poi, cautela anche nei confronti della tendenza giovanilistica che pretende di rimuovere le diseguaglianze anagrafiche con una netta espulsione dei più vecchi; si critica la perdurante situazione di minorità cui sono condannati gli stranieri, rimarcando come l’impossibilità di esercitare il diritto di voto, specie a livello locale, comporti un’aperta violazione del principio cardine “no taxation without representation”; si sottolinea la sopravvenuta insostenibilità delle differenze di regime tra nuove e vecchie minoranze (tanto che lo Stato appare “forte con i deboli, debole con i forti”); si argomenta l’opportunità di considerare apertis verbis le differenze socio-economiche Nord-Sud, ripescando l’esperienza della gabbie salariali; si insiste sul carattere indispensabile di una legge sulla libertà religiosa (per non dover più ammettere, con Orwell, che “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”); si guarda, infine, alle lezioni degli antichi per ristrutturare i vizi della democrazia dei moderni (ipotizzando, ad esempio, non solo il ricorso a forme di recall, ma anche l’introduzione del sorteggio per talune cariche pubbliche, e anche per affidare ad una rappresentanza qualificata di cittadini alcune funzioni su cui i parlamentari versano in conflitti di interesse: “la verifica dei poteri, le cause di ineleggibilità e d’incompatibilità, il giudizio sulle loro immunità, la legge elettorale, la misura dell’indennità percepita da deputati e senatori, il finanziamento dei partiti”). Michele Ainis – che oltre ad essere un apprezzato costituzionalista e un noto opinionista, è anche un romanziere – si conferma uno scettico costruttivo, che non cede mai al fascino di visioni radicali e ottimalistiche, e il cui sforzo appare quello di fornire, come se fossero pillole, un po’ di istruzioni per l’uso a chi siede nella cabina di pilotaggio delle riforme.

Eguaglianza molecolare, scrive l'8 febbraio 2015 Il Sole 24 Ore, ripreso da Stefano Azzara sul suo Blog "Materialismo Storico". In un episodio della serie Dr. House, il medico televisivo politicamente scorretto si trova di fronte un paziente di colore, il quale si aspetta la prescrizione di un farmaco largamente usato dalla popolazione bianca, che però sarebbe inefficace a causa delle caratteristiche genetiche dell’uomo (data cioè la sua appartenenza etnica). Quando House gli prescrive un diverso farmaco, il paziente lo insulta, accusandolo di razzismo. Il nostro ritiene tempo perso cercare di spiegargli la questione, e se ne libera accontentandolo, cioè discriminandolo rispetto a un bianco per quanto riguarda l’appropriatezza del trattamento. Le decisioni che si prendono in ambito medico continuano a essere utili, come lo erano per Socrate, Platone e Aristotele, per ragionare sulla logica delle regole da usare per trattare gli altri e governare una società con giustizia, nonché sugli aspetti della psicologia umana che interferiscono con l’efficace uso di tali regole. La medicina e i medici non sono più quelli dell’antichità o di prima dell’avvento della medicina sperimentale, nel senso che fanno riferimento al metodo scientifico per controllare l’adeguatezza dei trattamenti. Un metodo che ha stabilito il principio che i pazienti vadano trattati in modo eguale, salvo che non vi siano ragioni valide, cioè dimostrabili e controllabili, per fare diversamente. Il biologo molecolare e premio Nobel Francois Jacob ha ricordato che l’eguaglianza, come categoria morale e politica, è stata inventata «precisamente perché gli esseri umani non sono identici». Lo studio dei contorni concreti della diversità biologica in rapporto all’idea astratta e controintuitiva dell’eguaglianza politica e morale, usando i risultati che scaturiscono dalla ricerca naturalistica e che dimostrano le difficoltà psicologiche individuali di elaborare un’idea razionale di giustizia, può essere un’ottima opportunità di avanzamento anche per le scienze umane. Che comunque arrivano a conclusioni coerenti e valide anche confrontando i risultati che derivano dall’uso di idee diverse di eguaglianza. Infatti, anche per il costituzionalista Michele Ainis, «la storia del principio di eguaglianza è segnata dalla differenza, non dalla parità di trattamento. [...]è segnata dalla progressiva consapevolezza della necessità di differenziare le situazioni, i casi, per rendere effettiva l’eguaglianza». Il libro di Ainis passa in rassegna le diseguaglianze o i soprusi causati da leggi ideologiche o etiche, che prevalgono in Italia rispetto ad altri Paesi. E argomenta che non è prendendo di mira le macro-diseguaglianze (es. sconfiggere la povertà nel mondo) che si riesce a migliorare il funzionamento delle società umane, ma concentrandosi sulle dimensioni micro, dove si può più agire per ripristinare una concreta giustizia sociale e politica. Se si osservano le diseguaglianze con il microscopio, invece che con il cannocchiale, e si va alla ricerca di un’«eguaglianza molecolare», cioè non tra individui, ma tra gruppi o categorie, ci si può aspettare almeno una gestione «minima, ma non minimale» dei problemi e delle sfide. Ainis ricorda un fatto, dietro al quale esiste una montagna di prove, cioè che l’eguaglianza ha a che fare con la giustizia, e che siamo disposti ad accettare un danno piuttosto che un’ingiustizia. Si tratta di una predisposizione evolutiva che funziona come un universale umano, e implica che si devono negoziare politicamente i valori, sapendo che questi tendono a variare nelle società complesse, e che la loro diversità è una risorsa da valorizzare. Ciò può essere fatto usando tre criteri: a) evitando di pensare che eguaglianza equivalga a identità; b) le decisioni che differenziano i diversi casi devono avere una base di ragionevolezza; c) usare proporzionalità o misura, per stabilire un vincolo oggettivo grazie al quale le decisioni legali continuino a dimostrarsi migliori nel discriminare e pesare fatti e contesti, rispetto alla politica. Il libro di Ainis è una salutare lezione di politica e diritto in chiave liberale, cioè suggerisce una strategia che coincide con i principi di fondo del liberalismo, per governare efficacemente società umane complesse e fortemente dissonanti rispetto alle predisposizioni evolutive che condizionano il comportamento umano. È un fatto che nell’età moderna i sistemi liberali si sono dimostrati, col tempo, le strategie migliori, anzi meno peggio di tutte le altre, per evitare che le diversità naturali diano luogo a diseguaglianze e quindi ingiustizie e sofferenze. Ma perché le idee liberali sono migliori? A parte la banale considerazione che non incarnano una credenza cioè non riflettono un’ideologia, ma un metodo, alla domanda risponde l’ultimo libro di Michael Shermer, editor di Skeptic e uno dei più lucidi sostenitori dell’esigenza di superare l’antinaturalismo che ancora caratterizza in larga parte l’epistemologia delle scienze umane. Shermer riassume lo stato delle conoscenze e dei dati che dimostrano che nel corso degli ultimi due secoli si è avuto un massiccio progresso morale, e che tale risultato è dovuto al prevalere della scienza e della razionalità negli affari umani. Soprattutto per quanto riguarda l’economia e il governo della società. L’efficacia del metodo scientifico e i presupposti sociali per farlo funzionare hanno ispirato anche la logica del costituzionalismo liberale. Rilanciando alcune idee di James Flynn e di Steven Pinker e passando in rassegna una serie impressionante di prove, intercalate da storie e aneddoti, Shermer ritiene che la diffusione della scienza, e in modo particolare del metodo scientifico, abbia determinato uno sviluppo delle capacità di astrazione e quindi un livello di razionalità che ha consentito alle persone di capire l’infondatezza e l’ingiustizia delle discriminazioni di genere, religione, sesso o appartenenza tassonomica. L’immagine dell’arco morale è presa da un celebre discorso di Martin Luther King, per il quale tale arco «è lungo, ma flette verso la giustizia». Shermer ritiene che le forze che hanno piegato l’arco morale sono la scienza e la razionalità.

Siamo tutti bravi a sciacquarci la bocca sull'uguaglianza. Ecco il fenomeno dei populisti.

Il Populismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il populismo (dall’inglese populism, traduzione del russo народничество narodničestvo) è un atteggiamento culturale e politico che esalta il popolo, sulla base di principi e programmi ispirati al socialismo, anche se il suo significato viene spesso confuso con quello di demagogia. Il populismo può essere sia democratico e costituzionale, sia autoritario. Nella sua variante conservatrice è spesso detto populismo di destra. Prende il nome dall'omonimo movimento sviluppatosi in Russia tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento che proponeva un miglioramento delle condizioni di vita delle classi contadine e dei servi della gleba, attraverso la realizzazione di un socialismo basato sulla comunità rurale russa, in antitesi alla società industriale occidentale. Un partito populista (Populist o People’s party) venne fondato nel 1891 anche negli Stati Uniti da gruppi di operai e agricoltori che si battevano per la libera coniazione dell’argento, la nazionalizzazione dei mezzi di comunicazione, la limitazione nell’emissione di azioni, l’introduzione di tasse di successione adeguate e l’elezione di presidente, vicepresidente e senatori con un voto popolare diretto; sciolto dopo le elezioni presidenziali del 1908. Il termine è stato riferito alla prassi politica di Juan Domingo Perón (vedi la voce peronismo e la sua recente variante di sinistra, il kirchnerismo), al bolivarismo e al chavismo, in quanto spesso fanno riferimento alle consultazioni popolari e ai plebisciti, perché il popolo decida direttamente nei limiti della Costituzione. Il movimento precursore di questa idea di democrazia può essere indicato e riconosciuto nel bonapartismo (Napoleone I e Napoleone III, in accezione cesaristica) e nella rivoluzione francese, specialmente nelle fazioni che si rifacevano alle idee politiche del filosofo Jean-Jacques Rousseau, come i giacobini. In Italia è stato spesso usato con accezione negativa, nei confronti del fascismo o del berlusconismo, e di vari movimenti leaderistici, spesso affini alla destra, ma anche al centro-sinistra (come l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro); spesso questi gruppi hanno rifiutato questa etichetta. L'accezione del termine in senso positivo, come "vicinanza al popolo e ai suoi valori", è stata invece rivendicata da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio per il proprio movimento politico. La parola populismo può avere numerosi campi di applicazione ed è stata usata anche per indicare movimenti artistici e letterari, ma il suo ambito principale rimane quello della politica. In ambito letterario si intende per populismo la tendenza a idealizzare il mondo popolare come detentore di valori positivi. Il largo uso che i politici e i media fanno del termine "populismo" ha contribuito a diffonderne un’accezione fondamentalmente priva di significato: è rilevabile infatti la tendenza a definire "populisti" attori politici dal linguaggio poco ortodosso e aggressivo i quali demonizzano le élite ed esaltano "il popolo"; così come è evidente che la parola viene usata tra avversari per denigrarsi a vicenda – in questo caso si può dire che "populismo" viene talvolta considerato dai politici quasi come un sinonimo di "demagogia". La definizione di "populismo" data dal vocabolario Treccani è "...atteggiamento ideologico che, sulla base di princìpi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi. Con significato più recente, e con riferimento al mondo latino-americano, in particolare all’Argentina del tempo di J. D. Perón (v. peronismo), forma di prassi politica, tipica di paesi in via di rapido sviluppo dall’economia agricola a quella industriale, caratterizzata da un rapporto diretto tra un capo carismatico e le masse popolari, con il consenso dei ceti borghesi e capitalistici che possono così più agevolmente controllare e far progredire i processi di industrializzazione.".

La definizione di "populismo" data dal dizionario Garzanti è:

1. atteggiamento o movimento politico, sociale o culturale che tende all’elevamento delle classi più povere, senza riferimento a una specifica forma di socialismo e a una precisa impostazione dottrinale;

2. (spreg.) atteggiamento politico demagogico che ha come unico scopo quello di accattivarsi il favore della gente;

3. (st.) movimento rivoluzionario russo della seconda metà del XIX secolo, anteriore al diffondersi del marxismo, che teorizzava il dovere degli intellettuali di mettersi al servizio del popolo.

Per alcuni tale nozione sembra essere più volta a spiegare fenomeni politici passati che non a descrivere il significato attuale del termine. Populista, oggi, è piuttosto chi accetta come unica legittimazione per l'esercizio del potere politico quella derivante dal consenso popolare. Tale legittimazione è considerata unica e di per sé sufficiente a legittimare un superamento dei limiti di diritto posti, dalla Costituzione e dalle leggi, all'esercizio del potere politico stesso. Il termine non ha alcun legame con una particolare ideologia politica (destra o sinistra) e non implica un raggiro del popolo (come al contrario implica la demagogia), ma anzi presuppone un consenso effettivo del popolo stesso. Per altri la parola in ambito politico conserva il senso dispregiativo sinonimo di demagogia. Il termine nasce come traduzione di una parola russa: il movimento populista è stato infatti un movimento politico e intellettuale della Russia della seconda metà del XIX secolo, caratterizzato da idee socialisteggianti e comunitarismo rurale che gli aderenti ritenevano legate alla tradizione delle campagne russe. Allo stesso modo il termine può essere considerato legato al People's Party, un partito statunitense fondato nel 1892 al fine di portare avanti le istanze dei contadini del Midwest e del Sud, le quali si ponevano in conflitto con le pretese delle grandi concentrazioni politiche industriali e finanziarie, e anch’esso caratterizzato da una visione romantica del popolo e delle sue esigenze.

Gli studiosi di scienze politiche hanno proposto diverse definizioni del termine ‘populismo’. «A ognuno la sua definizione di populismo, a seconda del suo approccio e interessi di ricerca», ha scritto Peter Wiles in Populism: Its Meanings and National Characteristics (1969), il primo testo comparativo sul populismo internazionale curato da Ernest Gellner e Ghita Ionescu. Tuttora giornalisti e studiosi di scienze politiche usano spesso il termine in maniera contraddittoria e confusa, alcuni per fare riferimento a costanti appelli alla gente che ritengono tipici di un politico o un movimento, altri per riferirsi a una retorica che essi considerano demagogica, altri infine per definire nuovi partiti che non sanno come classificare. Negli ultimi anni diversi studiosi hanno proposto nuove definizioni del termine allo scopo di precisarne il significato. Ad esempio, nel loro volume Twenty-First Century Populism: The Spectre of Western European Democracy, Daniele Albertazzi e Duncan McDonnell hanno definito il populismo come «una ideologia secondo la quale al ‘popolo’ (concepito come virtuoso e omogeneo) si contrappongono delle élite e una serie di nemici i quali attentano ai diritti, i valori, i beni, l’identità e la possibilità di esprimersi del popolo sovrano». Regimi come quello fascista nella persona di Mussolini, quello nazista di Hitler e in generale la maggior parte delle dittature, sono un perfetto esempio del rapporto diretto fra il leader e le masse che si definisce populismo. Ma al di là di questo e di alcune caratteristiche retoriche, la definizione di populismo è rimasta estremamente vaga, facendone per lungo tempo una comoda categoria residuale, buona per catalogare una grande varietà di regimi difficili da classificare in maniera più precisa ma nei quali era possibile ritrovare qualche elemento comune. Questi elementi erano la retorica nazionalista ed anti-imperialista, l’appello costante alle masse e un notevole potere personale e carismatico del leader. Questa concezione nebulosa del populismo è stata utile durante la seconda metà del Novecento per inserire in una categoria comune vari regimi del Terzo Mondo, come quello di Juan Domingo Perón in Argentina, Gamal Abd el-Nasser in Egitto e Jawaharlal Nehru in India, che non potevano essere definiti democrazie liberali né socialismi reali. Un’altra accezione di populismo (ma neanche questa tenta di dare al termine una definizione precisa) è quella che lo rende un “contenitore” per movimenti politici di svariato tipo (di destra come di sinistra, reazionari e progressisti, e via dicendo) che abbiano però in comune alcuni elementi per quanto riguarda la retorica utilizzata. Per esempio, essi attaccano le oligarchie politiche ed economiche ed esaltano le virtù naturali del popolo (anch’esso mai definito con precisione, e forse indefinibile), quali la saggezza, l’operosità e la pazienza. Il populismo guadagna perciò consensi nei momenti di crisi della fiducia nella "classe politica". Il politologo Marco Tarchi, in "L'Italia populista", ricostruisce le vicende del populismo in Italia, dove i momenti di minima fiducia nella politica (e nei politici) si sono avuti con la Seconda guerra mondiale e con la denuncia della corruzione del sistema politico a seguito delle inchieste di Mani Pulite. Tarchi si sofferma soprattutto sui due movimenti più schiettamente populisti: l'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini (l'"uomo qualunque" contro l'"uomo politico") e la Lega Nord (il "popolo del nord" contro "Roma ladrona"). Nella politica italiana contemporanea per Guy Hermet Forza Italia è invece un esempio di «neo-populismo mediatico», ovvero una forma di demagogia che fa dei mass media il suo veicolo di diffusione.

Tutti populisti, scrive Leopoldo Fabiani su “L’Espresso”. Chi è più populista, Beppe Grillo o Matteo Salvini? E se scoprissimo che a battere in breccia tutti e due fosse invece Matteo Renzi? Volendo, ognuno potrebbe divertirsi a compilare la propria classifica, seguendo le indicazioni fornite da Marco Tarchi nel libro Italia populista (il Mulino, 380 pagine, 20 euro), seconda edizione sostanziosamente aggiornata rispetto alla prima del 2003. Partiamo dalla definizione: più che un'ideologia o uno stile politico, dice Tarchi, il populismo è una mentalità.«Che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l'integrità all'ipocrisia, all'inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche sociali e culturali e ne rivendica il primato, come forma di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione». Alla luce di questa definizione e seguendo il percorso del libro tra le varie formazioni italiane ed europee che populiste possono essere classificate, si potrebbe dire che oggi tutta la politica è populista. A destra come a sinistra. E in fondo, si può aggiungere, quando Angela Merkel sostiene che non si capisce perché l'operaio tedesco dovrebbe pagare per l'incapacità e le ruberie dei governanti greci, ecco che anche l'austera cancelliere propone un discorso populista, sia pure in un'inedita forma “transnazionale”. Se la mentalità populista è ormai così pervasiva da aver egemonizzato tutta la politica, si potrebbe essere tentati di concludere che è inutile oggi demonizzare il populismo, che i politici sono in qualche modo obbligati a parlare questo linguaggio. E che poi quello che conta è quello che fanno. Ma proprio qui c'è un problema: si sono visti molti leader ottenere consensi, anche ampi, esaltando questa mentalità. Qualcuno, Berlusconi per esempio, così è anche riuscito ad andare al potere. Ma nessuno poi è stato capace di governare. Almeno finora.

Siamo tutti populisti. Se è comunicazione personale diretta, allora va ben oltre la Lega, Grillo e Berlusconi. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, scrive Ilvo Diamanti su “La Repubblica”. C'è un fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure "mi" è difficile spiegare di che si debba avere "paura". Il populismo, infatti, associa forze politiche diverse e, talora, opposte fra loro, ma "unite" contro l'Unione Europea e contro l'Euro. Il termine, ad esempio, viene applicato al Front National, in Francia, e alla Lega, in Italia. Insieme ad altri partiti, di altri Paesi, fuori dall'Euro. Come l'Ukip, in Inghilterra. Anche se il Fn e l'Ukip si oppongono alla Ue in nome della sovranità, rispettivamente, della Francia e dell'Inghilterra. La Lega, invece, in nome dell'indipendenza dei popoli padani e contro la sovranità dell'Italia. Fino a poco più di vent'anni fa, al contrario, era a favore dell'Europa - delle Regioni. Ma la Lega è abituata a cambiare idea, in base alle convenienze. Come ha fatto nei confronti dei veneti(sti). Nel 1997, al tempo dell'assalto al campanile di San Marco, i Serenissimi, secondo Bossi, erano "manovrati dai servizi segreti italiani". Oggi, invece, sono perseguitati dall'imperialismo romano. Ma la lista dei populisti va ben oltre. Coinvolge gli antieuropeisti del Nord Europa e quelli dell'Est. Per tutti e fra tutti, il Fidesz di Viktor Orbán che ha trionfato di recente in Ungheria (dove Jobbik, movimento di estrema destra, ha superato il 20%). Oltre ad Alba Dorata, in Grecia. In Italia, però, il populismo è un'etichetta applicata senza molti problemi. Riguarda, anzitutto, il M5s e Beppe Grillo. Per il loro euroscetticismo ma, soprattutto, per l'esplicita opposizione alla democrazia rappresentativa. In nome del "popolo sovrano" che decide da solo. Senza rappresentanti. Grazie al referendum che ormai si può svolgere in modo permanente nella piazza telematica. La Rete. Naturalmente, il Popolo, per potersi riconoscere come tale, ha bisogno di riferimenti comuni. Così si rivolge a un Capo. Che comunichi con il Popolo direttamente. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso i Media. La Rete, ma anche la televisione. Dove il Capo parla con me. Direttamente. In modo "personale". Non a caso, il Grande Populista del nostro tempo è stato Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo, in fondo, è proprio questo: partito e Tv riassunti nella persona del Capo. La Rete ha moltiplicato il dialogo personale. Perché tutti possono parlare con tutti. Con il proprio nome, cognome, account e alias. Associato a un'immagine, una fotina, un marchio, un profilo. Naturalmente, c'è bisogno di un blogger, che orienti il dibattito e che, alla fine, tiri le somme. Ma che, soprattutto, dia un volto comune a tanti volti (oppure un "voto" comune a tanti "voti"). Che fornisca una voce comune a un brusio di messaggi fitto e incrociato. Senza Grillo, il M5s non sarebbe un MoVimento. Ma un'entità puntiforme priva di "identità". Grillo, d'altronde, sa usare la Tv, oltre che la Rete (guidato da Gianroberto Casaleggio). La maneggia da padrone. C'è sempre senza andarci mai. È la Tv che lo insegue, nelle piazze e, ora e ancora, nei teatri. Riprende e rilancia i suoi video, prodotti e postati nel suo blog. Ma se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. Perché deve saper usare la Tv e i nuovi media. Diventare protagonista di quella che Georges Balandier ha definito "La messa in scena della politica". Come ha fatto Matteo Renzi. Capace, meglio di ogni altro, di parlare direttamente al "popolo". Di lanciare sfide simboliche e pratiche. In Italia, d'altronde, ogni riforma promessa è rimasta tale. Imbrigliata da mille difficoltà, mille ostacoli. Renzi, per questo, va veloce. E parla direttamente al popolo. A ciascuno di noi. Guarda dritto nella macchina da presa. E ci chiama per nome. È per questo che Grillo lo ha preso di mira, come il suo principale, vero "nemico" (politico). Perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. Gli "altri" da cui difendersi. L'Europa, la globalizzazione, le banche, i mercati. Gli "stranieri". Gli immigrati, i marocchini, i romeni, i veneti, i romani, gli italiani. E, ancora, le élite, la classe politica, i partiti, i giornalisti, i giornali, i manager, le banche, i banchieri. Così il catalogo dei populismi si allarga, insieme all'elenco dei populisti. Berlusconi, Grillo, Marine Le Pen (per non parlar del padre), Renzi. Ma anche Vendola, con il suo parlar per immagini e il suo partito personalizzato. Lo stesso Monti, bruciato dal tentativo di diventare pop, con il cagnolino in braccio (che fine avrà fatto Empy?). Uscendo dal "campo" politico, Papa Francesco è, sicuramente, il più bravo a parlare con il suo "popolo". Il più Pop di tutti di tutti. D'altronde, alle spalle, ha esempi luminosi, come Giovanni Paolo II e, ancor più, Giovanni XXIII. E poi è argentino, come Perón. Scivola sull'onda di una lunga tradizione. Non è un caso, peraltro, che la fiducia nei suoi confronti sia molto più alta di quella nella Chiesa. Perché Francesco, sa toccare il cuore dei fedeli (e degli infedeli). E supera ogni confine. Ogni mediazione. Va oltre la Chiesa. Parla al suo popolo, senza distinzioni (visto che la fiducia nei suoi riguardi viene espressa da 9 persone su 10). Per questo, diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile "populista". E lo ammettono senza problemi, mentre ieri suonava come un insulto. Echeggiando Jean Leca: "Quel che ci piace è popolare. Se non ci piace è populista". Oggi invece molti protagonisti politici rivendicano la loro identità populista. Grillo e Casaleggio, per primi, si dicono: "Orgogliosi di essere insieme a decine di migliaia di populisti. (...) Perché il potere deve tornare al popolo". Mentre Marine Le Pen si dichiara "nazional-populista", in nome del "ritorno alle frontiere e alla sovranità nazionale". Meglio, allora, rinunciare a considerare il "populismo" una definizione perlopiù negativa e alternativa alla democrazia. Per citare, fra gli altri, Alfio Mastropaolo, ne fa, invece, parte. Come il concetto di "popolo". Il quale, quando ricorre in modo tanto esplicito e frequente, nel linguaggio pubblico, denuncia, semmai, che qualcosa non funziona nella nostra democrazia "rappresentativa". Perché il "popolo" non trova canali di rappresentanza efficaci. I rappresentanti e i leader non dispongono di legittimazione e consenso adeguati. Perché il governo e le istituzioni non sono "efficienti" e non suscitano "passione". Così non resta che il populismo. Sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia.

«Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Molti puzzano perché tengono lo stesso vestito per settimane. Si costruiscono baracche nelle periferie. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano in 2 e cercano una stanza con uso cucina. Dopo pochi giorni diventano 4, 6, 10. Parlano lingue incomprensibili, forse dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina; spesso davanti alle chiese donne e uomini anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano sia perché poco attraenti e selvatici, sia perché è voce diffusa di stupri consumati quando le donne tornano dal lavoro. I governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, di attività criminali. Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione».

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Fonte: Relazione dell'Ispettorato per l'immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani, ottobre 1919.

Razzismo, la gaffe di Germano: falso il testo letto ai bimbi rom. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione contro Salvini. Ma ha fatto una clamorosa gaffe, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Elio Germano, attore figo, impegnato e perciò di sinistra, ha pensato bene di dare il suo contributo alla mobilitazione delle anime belle contro Salvini e il pericolo della destra intollerante e, soprattutto, ignorante. Per questo ha realizzato un video contro il razzismo; ha preso un gruppo di bambini Rom sullo sfondo di una roulotte, si è seduto in mezzo a loro e ha iniziato a leggere un documento con tono recitato (come si addice ai grandi attori) e l’aria di chi sta svelando al mondo una verità nascosta ma scontata. Il testo è una descrizione offensiva e razzista degli italiani emigrati in America agli inizi del ‘900, definiti ladri, puzzolenti, stupratori, abituati a vivere dentro baracche fatiscenti e organizzati secondo regole di clan. Elio Germano spiega che quel testo è un documento dell’allora Ispettorato per l’Immigrazione degli Stati Uniti. L’obiettivo dell’attore è ovvio: dimostrare che certi italiani di oggi sono razzisti verso gli immigrati e i Rom, come lo erano gli americani verso gli italiani all’inizio del secolo. Tutto molto bello e politically correct, se non fosse che, a quanto pare, quel documento è una patacca, un falso. Il testo, che gira da molti anni su internet, fu già utilizzato nel 2013 da Roberto Saviano (uno che di patacche se ne intende) nel salottino televisivo di Fabio Fazio. Più recentemente, Carlo Giovanardi, l’agguerrito deputato di centrodestra, ha pubblicato il vero documento originale della Commissione Dillingham sull’Immigrazione, che non contiene nulla di quanto letto dagli antirazzisti di mestiere, ma al contrario è un’attenta analisi dell’immigrazione italiana del periodo. Che giudizi sprezzanti e spesso offensivi contrassegnassero l’opinione pubblica americana nei confronti degli italiani (soprattutto meridionali) è cosa appurata storicamente da diversi studi. Ma quel documento che i fulgidi artisti di sinistra si passano di mano in ogni occasione per dare del razzista a chiunque contesti l’immigrazione clandestina, è una patacca degna della loro inutile demagogia.

Saviano va in tv a spiegare che una volta eravamo noi italiani gli zingari d’America. Ma è una bufala. Giugno 12, 2013 Carlo Giovanardi. Ospite di Fabio Fazio, lo scrittore cita «un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione Usa» che tratta gli italiani come zecche. Peccato che sia una patacca Domenica 26 maggio Roberto Saviano, intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione Che tempo che fa, per combattere quella da lui definita l’ondata di «odio morale verso gli immigrati» ha letto un testo. Cito testualmente le sue parole: «Avevo visto e trascritto qui alcune parole della relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano, quindi un documento ufficiale del governo americano del 1912, così descrive gli italiani». Ecco il testo letto da Saviano: «Gli italiani sono generalmente di piccola statura e di pelle scura, non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane, si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Si presentano di solito in due, cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci, tra loro parlano lingue a noi incomprensibili probabilmente antichi dialetti. Molti bambini  vengono utilizzati per chiedere l’elemosina, fanno molti figli che poi faticano a mantenere. Dicono siano dediti al furto, e le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si parla di stupri o agguati in strade periferiche. Propongo che si privilegino le persone del nord, veneti e lombardi, corti di comprendonio e ignoranti, ma disposti più degli altri a lavorare». Concludeva poi Saviano: «Incredibile che il nostro paese tutto questo non lo ricordi, non ne faccia memoria attiva, ma lo trasferisca quando si rivolge ad altre comunità o “etnie”». Conosco bene la storia dell’emigrazione italiana e delle terribili discriminazioni e umiliazioni di cui i nostri connazionali sono stati vittime all’estero ma, trovandomi per caso quella sera davanti alla tv di Stato, mi è parso del tutto evidente il fumus di “patacca” che emanava da frasi così volgari ed offensive in un documento ufficiale del Senato degli Stati Uniti nei confronti di un intero popolo. Una rapida ricerca su Google mi ha permesso di scoprire che già Paolo Attivissimo sul sito del CICAP (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale), aveva a suo tempo verificato che di quel testo erano in circolazione varie versioni, una delle quali, lanciata da Rainews24, citava come fonte il giornalista e conduttore televisivo Andrea Sarubbi che nel 2009  aveva pubblicato un articolo con quella citazione. Sarubbi, interpellato, aveva precisato di non aver tratto la citazione direttamente dal documento statunitense originale. La sua frase: «Ho fra le mani un documento dell’Ispettorato per l’immigrazione», non era quindi letterale, ma derivava da una fonte italiana, «un articolo pubblicato un anno fa sul giornale Il Verona dall’avv. Guarenti». Guarenti, a sua volta, dichiarava di averlo trovato «in un libro di un anno fa» ma  non era in grado di citare il titolo del libro. Insomma, concludeva Attivissimo: «Siamo di fronte ad una situazione almeno di terza mano di cui non si sa la fonte intermedia». Sulla traccia di Attivissimo ho interpellato pertanto formalmente l’ambasciata americana che mi ha risposto il 30 maggio: «La commissione sull’immigrazione degli Stati Uniti conosciuta come la Dillingham Commission dal nome del senatore del Vermont che l’ha presieduta ha lavorato dal 1907 al 1911 e ha pubblicato 41 volumi  di rapporti contenenti dati statistici sull’immigrazione negli Stati Uniti, l’occupazione degli immigrati, le condizioni di vita, la scolarizzazione dei bambini, le organizzazioni sociali e culturali, delle comunità degli immigrati e la legislazione sull’immigrazione a livello statale e federale». Continuava poi l’ambasciata americana: «Questi sono gli unici rapporti ufficiali sull’immigrazione elaborati in quegli anni e disponibili al pubblico. Da una visione superficiale, la citazione da lei riportata nella sua mail non appare in nessuno di questi rapporti, ma per esserne certi bisognerebbe eseguire una ricerca più accurata, per la quale purtroppo noi non siamo in grado di aiutarla in questo momento». Aiutati che Dio ti aiuta, ho consultato tramite la mail inviatami dall’Ambasciata tutti i volumi senza trovar traccia del documento citato da Saviano, ma viceversa una interessantissima disamina sull’immigrazione dell’Italia che ho fatto tradurre dall’inglese e si può leggere sul sito www.carlogiovanardi.it. Per il resto ringrazio Saviano che mi permette di aggiungere il XII ed ultimo capitolo al libro intitolato Balle che sto pubblicando, dove spiego come l’opinione pubblica italiana fonda le sue convinzioni su vere e proprie bufale che vengono troppo spesso disinvoltamente spacciate come verità.

61ª legislatura, Documento n. 662, RELAZIONI DELLA COMMISSIONE SULL'IMMIGRAZIONE. DIZIONARIO DELLE RAZZE O POPOLI. Presentato da DILLINGHAM il 5 dicembre 1910 alla Commissione sull'immigrazione [...] ITALIANO. La razza o il popolo dell'Italia. L'Ufficio dell'immigrazione [Bureau of Immigration] divide questa razza in due gruppi: Italiani settentrionali e Italiani meridionali. Fra i due gruppi vi sono delle differenze materiali, riconducibili a lingua, aspetto fisico e carattere, e delle differenze relative, rispetto alla distribuzione geografica. Il primo gruppo identifica gli italiani nativi del bacino del Po (compartimenti del Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emelia [sic], i distretti italiani in Francia, Svizzera e Tirolo (Austria) e i loro discendenti. Tutti i popoli della penisola geograficamente definita e delle isole della Sicilia e della Sardegna sono Italiani meridionali. Anche Genova è meridionale.

Linguisticamente, l'italiano rappresenta una delle grandi divisioni del gruppo di lingue romanze derivate dal ceppo latino della famiglia ariana. Esso è articolato in molti dialetti, la cui separazione e conservazione è favorita dalla configurazione geografica dell'Italia. Hovelacque divide questi dialetti in tre gruppi: superiore, centrale ed inferiore. Il primo comprende i dialetti genovese, piemontese, veneto, emiliano e lombardo; il gruppo centrale comprende toscano, romanesco e còrso; il gruppo inferiore comprende napoletano, calabrese, siciliano e sardo. Questi dialetti differiscono fra di loro molto più che i dialetti inglesi o spagnoli. Si dice che è difficile per un Napoletano o un Sardo farsi capire da un nativo della pianura padana. Forse più che in qualsiasi altro paese, le classi colte restano tenacemente aggrappate all'uso del dialetto in àmbito familiare, preferendolo alla forma letteraria nazionale della lingua. Tale forma letteraria è rappresentata dal dialetto toscano di Firenze, come codificato nella letteratura di Dante, Petrarca e Bocaccio [sic] nel XIV secolo. Anche altri dialetti, tuttavia, hanno una considerevole letteratura, soprattutto il veneto, il lombardo, il napoletano e il siciliano. Quest'ultimo ha una poesia particolarmente ricca. Tutto il gruppo superiore di dialetti – per restare alla definizione di Hovelacque – tranne il genovese, è settentrionale. Tali dialetti contengono molti elementi gallici o celtici e mostrano affinità con le lingue provenzali e retoromanze (ladino e friulano), con le quali confinano ovunque tranne che al sud. Il genovese e i dialetti del gruppo centrale ed inferiore sono parlati dagli Italiani meridionali.

Fisicamente, gli Italiani sono una razza tutt'altro che omogenea. La catena montuosa degli Appennini forma una linea geografica che costituisce un confine fra due gruppi etnici distinti. La regione a nord di questa linea, la valle del Po, è abitata da persone – i Settentrionali – abbastanza alte e con la testa larga (la razza "alpina"). Gli abitanti delle zone orientali ed occidentali di questa regione mostrano apporti teutonici in Lombardia ed un'infusione di sangue slavo in Veneto. Tutta l'Italia a sud dell'Appennino e tutte le isole adiacenti sono occupate da una razza "mediterranea", di bassa statura, scura di pelle e con il viso lungo. Si tratta dei "Meridionali", che discenderebbero dall'antica popolazione italica dei Liguri, strettamente imparentati con gli Iberici della Spagna e i Berberi del Nordafrica. Il principale etnologo italiano, Sergi, li fa derivare dal ceppo amitico (v. Semitico-Amitico) del Nordafrica. Bisogna ricordare che gli Amitici non sono negritici, né veri africani, sebbene si possa rintracciare un apporto di sangue africano in alcune comunità in Sicilia e in Sardegna, oltre che in Nordafrica. L'Ufficio dell'immigrazione pone gli Italiani settentrionali nella divisione "celtica" e quelli meridionali in quella "iberica". La commistione fra i due gruppi etnici è stata relativamente scarsa, anche se molti Italiani settentrionali hanno doppiato gli Appennini ad est, facendo ingresso nell'Italia centrale. Pertanto, la linea di demarcazione fra Emiliani e Toscani è molto meno netta che fra Piemontesi e Genovesi. Un sociologo italiano, Niceforo, ha indicato che questi due gruppi etnici differiscono profondamente fra di loro, da un punto di vista sia fisico sia caratteriale. Egli descrive il Meridionale come irritabile, impulsivo, molto fantasioso, testardo; un individualista poco adattabile ad una società ben organizzata. Al contrario, descrive il Settentrionale come distaccato, risoluto, paziente, pratico e capace di grandi progressi nell'organizzazione politica e sociale della civiltà moderna. Sia i Settentrionali sia i Meridionali sono dediti alla famiglia, d'animo buono, religiosi, artistici ed industriosi. Sono quasi tutti di religione cattolica. La maggior parte dell'immigrazione italiana negli Stati Uniti è reclutata fra le classi contadine ed operaie. In America, tuttavia, essi non hanno conseguito successo come agricoltori, con l'eccezione della frutticoltura e dell'enologia, soprattutto in California, dove figurano ai primi posti.

L'esperto di statistica italiano Bosco ammette che l'Italia è tuttora al primo posto in termini di numero di reati contro la persona, anche se questi sono diminuiti notevolmente in seguito al miglioramento del sistema di istruzione e all'ampio flusso di emigrazione. Su questo versante l'Italia è seguita nella graduatoria dall'Austria, dalla Francia e, a una certa distanza, dall'Irlanda, la Germania, l'Inghilterra e la Scozia. Niceforo indica, sulla base dei dati statistici italiani, che tutti i reati, soprattutto i crimini violenti, sono molto più numerosi tra i Meridionali che tra i Settentrionali. Il gioco d'azzardo è diffuso. Il gioco del lotto è un'istituzione nazionale che viene utilizzata per alimentare le casse dello Stato. Il brigantaggio è ormai pressoché estinto, fatta eccezione per alcune parti della Sicilia. Le organizzazioni segrete come la Mafia e la Comorra [sic], istituzioni molto influenti tra la popolazione che esercitano la giustizia in proprio e sono responsabili di molta parte della criminalità, prosperano nell'Italia meridionale. La maggiore difficoltà nella lotta alla criminalità sembra risiedere nella propensione degli Italiani a non testimoniare contro alcuno in tribunale e a riparare i torti ricorrendo alla vendetta (v. Còrsi).

E' indicativo il fatto che l'Italia sia uno dei paesi con il maggiore tasso di analfabetismo in Europa. Nel 1901 il 48,3% della popolazione dai sei anni in su non sapeva leggere e scrivere. In quell'anno in Calabria, la parte più meridionale della penisola, il tasso di analfabetismo tra le persone dai sei anni in su era pari al 78,7%. Il tasso di analfabetismo più basso si registra nella valle del Po, nell'Italia settentrionale. I Lombardi e i Piemontesi sono gli italiani più istruiti. La situazione è tuttavia migliorata dopo che il governo ha reso l'istruzione gratuita e obbligatoria tra i 6 e i 9 anni nei comuni dove vi erano le sole scuole elementari e dai 6 ai 12 anni nei comuni dove erano presenti scuole di più alto grado.

Tra le classi più umili la povertà è estrema; le persone vivono in alloggi miseri e hanno accesso a un'alimentazione carente, basata principalmente su granoturco mal conservato. Perfino a Venezia sembra che un quarto della popolazione viva ufficialmente di carità.

I confini geografici della razza italiana sono più ampi di quelli dell'Italia. Gruppi numerosi sono presenti in paesi vicini come Francia, Svizzera ed Austria. Le province del Tirolo e dell'Istria, in Austria, sono per un terzo italiane.  Ampi gruppi sono inoltre presenti nel Nuovo Mondo. L'Italia stessa è quasi interamente italiana. Ha una popolazione di 34 milioni di persone e comprende solo piccoli bacini di altre razze (circa 80.000 Francesi nell'Italia nordoccidentale, 30.000 Slavi nell'Italia nordorientale, circa 30.000 Greci nell'Italia meridionale, circa 90.000 Albanesi in Italia meridionale e in Sicilia e 10.000 Catalani (Spagnoli) in Sardegna. Un certo numero di Tedeschi, forse meno di 10.000, è presente nelle Alpi italiane. Circa due quinti della popolazione dell'Italia si trovano nella valle del Po, ovvero in meno di un terzo della lunghezza del paese. Suddivisa approssimativamente in compartimenti, la popolazione di quest'area, occupata da Italiani settentrionali, conta circa 14 milioni di persone. Questa cifra include i Friulani dell'Italia nordorientale i quali, pur parlando una lingua latina distinta dall'italiano, sono difficilmente distinguibili dagli Italiani settentrionali. Il loro numero si situerebbe, a seconda delle diverse stime, tra 50.000 e 450.000. La popolazione dei distretti meridionali è di circa 19.750.000 persone, di cui 125.000 appartengono ad altre razze. La maggior parte degli Italiani della Francia, della Svizzera e dell'Austria sono sul piano della  razza Italiani settentrionali. Quelli della Corsica, isola appartenente alla Francia, sono Italiani meridionali.

Distribuzione degli Italiani (stima riferita al 1901)

In Europa:

Italia 33.200.000

Francia 350.000

Svizzera 200.000

Austria 650.000

Corsica 300.000

Altre parti d'Europa 300.000 

Totale 35.000.000 

Altrove:

Brasile 1.000.000

Rep. Argentina 620.000

Altre parti del Sudamerica 140.000

Stati Uniti 1.200.000

Africa 60.000 

Totale 3.020.000

Totale nel mondo (cifra approssimata) 38.000.000 

A partire dal 1900, in alcuni anni oltre mezzo milione di italiani è emigrato nelle diverse regioni del mondo. All'incirca la metà di tale flusso ha come destinazione altri paesi europei ed è di carattere temporaneo, in quanto riguarda sopratutto la popolazione maschile. Dal 1899 fino a tutto il 1910  negli Stati Uniti sono stati ammessi 2.284.601 immigrati italiani, ed è stata altresì consistente  l'immigrazione italiana verso l'America del Sud. La maggior parte delle persone che giunge negli Stati Uniti rientra successivamente in patria. Tuttavia, soprattutto a New York e negli altri Stati dell'Est il numero di coloro che rimangono è elevato. Nel 1907 gli immigrati provenienti dall'Italia meridionale sono stati oltre 240.000, un numero più che doppio rispetto alla razza di immigrazione che come consistenza si colloca subito dopo quella degli immigrati italiani meridionali. Il numero degli arrivi di Italiani settentrionali è solo un quinto di tale cifra. La notevole capacità della razza italiana di popolare altre parti del mondo risulta evidente dal fatto che la presenza italiana supera numericamente quella degli Spagnoli nell'Argentina spagnola e dei Portoghesi in Brasile, nonostante quest'ultimo sia un paese "portoghese". (vedi Ispanoamericani).  Attualmente, ai fini dello studio del fenomeno dell'immigrazione il flusso migratorio degli Italiani verso gli Stati Uniti è forse il più significativo, e non solo perché risulta essere molto più consistente di ogni altro gruppo nazionale in qualunque anno di riferimento e perché è elevata la percentuale degli Italiani per ogni mille immigranti che entra sul territorio degli Stati Uniti. Ancora più significativo è il fatto che questa razza  è più numerosa di qualsiasi altra tra la decina di razze che figurano ai primi posti come tasso di immigrazione. In altre parole, in virtù di una popolazione di 35.000.000 e di un elevato tasso di natalità, questa razza continuerà a primeggiare anche quando la spinta delle altre razze, attualmente responsabili dell'ondata di immigrazione, tra cui gli Ebrei (8.000- 000[sic]), gli Slovacchi (2.250.000) e il gruppo Sloveno-Croato (3.600.000), sarà esaurita,  come di fatto sta già avvenendo per gli Irlandesi. Un fatto non necessariamente noto è che nel decennio 1891-1900 l'Italia era il principale paese di origine dell'immigrazione in America. All'inizio degli anni ottanta, ovvero quasi trent'anni fa, l'Italia aveva già cominciato a guadagnare terreno rispetto ai paesi dell'Europa settentrionale. Tuttavia bisognava attendere il 1890 per vedere gli Stati Uniti sorpassare  l'America meridionale come destinazione privilegiata dei flussi migratori provenienti dall'Italia. Nel decennio precedente e nei periodi antecedenti il Brasile ha accolto più italiani della Repubblica Argentina, sebbene si ritenga erroneamente che sia quest'ultima ad ospitare la più grande comunità italiana dell'America meridionale. Nel 1907 gli Stati Uniti hanno accolto 294.000 dei 415.000 Italiani emigrati oltreoceano. Nello stesso anno le persone emigrate, per lo più temporaneamente, dall'Italia verso altri paesi europei sono state 288.774. L'immigrazione italiana negli Stati Uniti è stata finora prevalentemente di carattere temporaneo. Mosso calcola che il periodo medio di permanenza degli Italiani negli Stati Uniti sia di otto anni. L'emigrazione più consistente verso oltreoceano dall'Italia ha la sua origine nelle regioni a sud di Roma, abitate dagli Italiani meridionali. Gli emigrati provengono soprattutto dalla Sicilia e dalla Calabria, ovvero dai territori meno produttivi e meno sviluppati del paese. L'emigrazione dalla Sardegna (Vedi) è scarsa. Il compartimento della Liguria, territorio di provenienza dei Genovesi, anch'essi appartenenti alla razza degli Italiani meridionali, registra più emigrazione di qualsiasi altra provincia dell'Italia settentrionale. Il flusso complessivo dell'immigrazione verso l'America da alcuni compartimenti italiani  ha raggiunto proporzioni  ingenti, al punto da superare più volte il tasso di crescita naturale della popolazione. Questo ha già causato il parziale spopolamento di alcuni distretti agricoli. Se confrontati con altre razze di immigrati e con il numero assoluto degli arrivi, gli Italiani meridionali sono i più numerosi: 1.911.933 nei dodici anni compresi tra il 1899 e il 1910, seguiti dagli Ebrei, 1.074.442, dai Polacchi, 949.064, dai Tedeschi, 754.375 e dagli Scandinavi, 586.306. I  Settentrionali sono al nono posto nell'elenco relativo allo stesso periodo: 372.668, subito dopo gli Inglesi e gli Slovacchi, ma prima dei Magiari, dei Croati e degli Sloveni e dei Greci. Per quanto riguarda il tasso del movimento transatlantico, è piuttosto evidente un contrasto tra Settentrionali e Meridionali: ad esempio, nel 1905 l'emigrazione dalla Calabria è stata undici volte maggiore di quella proveniente dal Veneto. Nel 1907 l'indice dello spostamento dei Settentrionali verso gli Stati Uniti è stato di circa il 3 per 1000 della relativa popolazione presente in Italia, mentre quello degli Italiani meridionali è stato del 12 per 1000. L'indice di movimento dei Settentrionali è stato più o meno lo stesso di quello degli Svedesi e dei Finlandesi, è stato il triplo di quello dei Tedeschi, ma solo la metà di quello dei Ruteni provenienti dall'Austria-Ungheria. Il tasso di movimento dei Meridionali verso gli Stati Uniti, d'altra parte, è superato solo dal gruppo Croato-Sloveno, che nel 1907 è stato del 13 per mille della popolazione, e dagli Ebrei e dagli Slovacchi che, nello stesso anno, è stato del 18 per mille della popolazione. Gli immigrati italiani giungono negli Stati Uniti, oltre che dall'Italia, principalmente dai seguenti paesi: il Nordamerica britannico (3.800 nel 1907), l'Austria-Ungheria (1.500), il Regno Unito (600), il Sudamerica (600) e la Svizzera (200). Quelli provenienti dalla Svizzera e dall'Austria-Ungheria generalmente sono Settentrionali.

Nei dodici anni tra il 1899 e il 1910, le principali destinazioni negli Stati Uniti dei due gruppi di Italiani sono state le seguenti:

Settentrionali

New York 94.458

Pennsylvania 59.627

California 50.156

Illinois 33.525

Massachusetts 22.062

Connecticut 13.391

Michigan 13.355

New Jersey 12.013

Colorado 9.254 

Meridionali

New York 898.655

Pennsylvania 369.573

Massachusetts 132.820

New Jersey 106.667

Illinois 77.724

Connecticut 64.530

Ohio 53.012

Louisiana 31.394

Rhode Island 30.182

West Virginia 23.865

Michigan 15.570

California 15.018 

Una poesia per i pataccari di sinistra, scrive “L’Anarca” (Giampaolo Rossi ) su “Il Giornale”. I discepoli intellettuali del politically correct hanno l’abitudine di prendersi troppo sul serio; succede sopratutto quando si cimentano nel nobile mestiere dell’impegno sociale mettendo la loro fama e la loro arte a disposizione della lotta all’oscurantismo reazionario. È successo anche a Elio Germano, l’attore militante che ha realizzato il video-patacca contro il razzismo di cui abbiamo denunciato il falso in questo articolo di ieri. Il video si conclude con l’attore che legge, ad un gruppo di bambini Rom visibilmente annoiati e usati come scudi della sua vanità ideologica, una poesia di Trilussa in romanesco. Per non essere da meno, ho deciso di scrivere una poesia anche io, proprio nel dialetto di Trilussa, dedicandola a Elio Germano, ai maestrini radical-chic e alle loro false “verità assolute” diffuse come un virus. Un piccolo omaggio ironico all’abitudine pataccara della sinistra intellettuale e artistica di spargere scemenze spacciandole per verità.

L’ARTISTA DE SINISTRA

Il razzismo, se sa, è brutta robba.

È segno de incivile intolleranza tipica de chi ragiona co’ la panza.

Ma, di certo, ‘na cosa assai più brutta

è l’intellettuale quanno rutta.

Quanno se erge cor dito moralista

e come er Padreterno,

dei buoni e dei cattivi fa la lista.

Filosofo o scrittore, poeta o cantautore, attore o saltimbanco,

è come se la storia s’inchinasse all’astio livoroso e intelligente

de chi se crede sempre er più sapiente.

Spesso nun sa manco de che parla, ma parla per parla’

e per l’impegno preso e coltivato con lo sdegno

de chi è convinto che deve lascià un segno.

L’artista de sinistra in tracotanza,

dall’alto del suo ego trasformato,

diventa un drogato de arroganza.

Lui se convince de esse come un Faro,

invece, spesso, è solo un gran Cazzaro.

Con gli islamisti non si può dialogare. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Rispetto al fondamentalismo islamico, e all'esigenza di conviverci senza danni per noi, alcuni studiosi americani suggeriscono che l'Occidente prenda ad esempio la propria storia degli ultimi cinquecento anni. Gli Asburgo, la maggior dinastia europea, «erano dei principi - scrive John M. Owen in Confronting political Islam, Six lessons from the West's Past - non dei preti». E si comportarono di conseguenza. Di fronte al radicalismo genericamente anticattolico del protestantesimo, non fecero di ogni erba un fascio, confondendo eretici estremisti ed eretici moderati e trattandoli allo stesso modo, ma constatarono che il protestantesimo era diviso fin dalla nascita in varie fazioni - luterani, calvinisti, anabattisti - e si acconciarono a sfruttarne le divisioni. Fu un grosso rischio? L'approccio non era meno rischioso di quello di fare la faccia feroce ad entrambi, ma ha funzionato. Parimenti, nel XX secolo, gli Stati Uniti dovettero fronteggiare la moderna sinistra politica, ostile alla democrazia liberale, al capitalismo e al libero mercato. Ma non la considerarono, e per lo più non la trattarono, come faceva la destra, come fosse un monolite, bensì utilizzarono ciò che divideva i socialisti dai comunisti. E hanno avuto la meglio sul comunismo. L'islamismo moderato - a differenza di quello fondamentalista, che ricorre volentieri alla violenza - utilizza i mezzi pacifici e legali della democrazia liberale per diffondere la sharia, la morale islamica. Non è liberale, ma rimane una teocrazia che ha fatto una scelta strategica contro la violenza. Ciò non significa, ovviamente, che l'Occidente possa, e debba, instaurare con esso «un dialogo», come suggeriscono certe nostre anime belle. La stessa storia della cooperazione fra gli Asburgo, cattolici, e i protestanti contro i calvinisti insegna che distinguere fra fondamentalisti e moderati non è sempre facile e, se può rivelarsi positivo nel breve termine, minaccia di essere fallimentare nel lungo. La prudenza non è mai troppa. Un cosa è combattere militarmente il terrorismo per ragioni di sicurezza; un'altra è venire politicamente a patti con una teocrazia; che, rispetto alla democrazia liberale, rimane pur sempre una soluzione clericale. Forse, c'è un altro esempio che l'Occidente dovrebbe seguire: quello di Edmund Burke, il liberal-conservatore che difese il diritto delle colonie americane di tassare i propri cittadini solo secondo i dettami delle proprie assemblee e non secondo quelli del Parlamento di Londra. «I vostri affari - aveva scritto Burke ai suoi amici francesi a proposito della Rivoluzione del 1789 - riguardano voi soli; noi ce ne siamo occupati come uomini, ma ce ne teniamo alla larga perché non siamo cittadini della Francia». È il linguaggio che, auspicabilmente, l'Occidente dovrebbe usare nei confronti dell'islamismo...

Niente paura, leggete il Corano. Ci troverete le radici del Male. Per 56 anni ho creduto che l'islam potesse essere riformabile grazie a musulmani moderati come me. Mi sbagliavo. Il libro sacro è la negazione della civiltà, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. «Allah Akhbar! Allah Akhbar! Ash-hadu an-la ilaha illa Allah, Ash-hadu anna Muhammad-Rasul Allah». «Allah è Grande! Allah è Grande! Testimonio che non c'è altro dio all'infuori di Allah, Testimonio che Maometto è il Messaggero di Allah». Per vent'anni la mia giornata è stata cadenzata dall'adhan, l'appello alla preghiera diffuso dall'alto dei minareti nella mia città natale, Il Cairo, ribattezzata la «Città dai mille minareti». Per 56 anni mi sono impegnato più di altri, da musulmano moderato, ad affermare un «islam moderato» in Italia, aderendo e sostenendo sostanzialmente la tesi del Corano «creato», che per l'ortodossia islamica pecca ahimè di una fragilità teologica che scade nell'eresia. Perché così come il cristianesimo è la religione del Dio che si è fatto Uomo e che s'incarna in Gesù, l'islam è la religione del loro dio Allah che si è fatto testo e che si «incarta» nel Corano dopo essere stato rivelato a Maometto attraverso l'Arcangelo Gabriele. Per i musulmani quindi il Corano è Allah stesso, è della stessa sostanza di Allah, opera increata al pari di Allah, a cui ci si sottomette e che non si può interpretare perché si metterebbe in discussione Allah stesso. Per contro, la tesi del Corano «creato», che sottintende che solo Allah è increato, consente l'uso della ragione per entrare nel merito dei contenuti del Corano, che possono essere oggetto di culto da parte della fede ma anche oggetto di valutazione e critica; così come consente la contestualizzazione nel tempo e nello spazio dei versetti rivelati per distinguere ciò che è da considerarsi attuale e lecito da ciò che è invece è da ritenersi prescritto e caduco; ci mette in ultima istanza nella possibilità di poter affermare la dimensione «plurale» dell'islam e, in questo contesto di pluralismo, ci consente di far primeggiare la scelta dell'«islam moderato» che concili la prescrizione coranica con il rispetto dei valori fondanti della nostra comune umanità. Per 56 anni ho scelto di battermi in prima persona, costi quel che costi, per affermare la bontà del Corano quale testo sacro dell'islam pur nella denuncia del terrorismo islamico. Nel 2003, dopo aver conosciuto Oriana Fallaci ed aver instaurato con lei un rapporto che, al di là della reciproca stima professionale, della condivisione della denuncia del terrorismo islamico e della pavidità dell'Occidente, si fondava su un affetto sincero e una solida amicizia, tuttavia il nostro rapporto fu turbato dal mio rifiuto di abbandonare l'islam e di concepire che la radice dell'islam risieda nel Corano. Mi sentivo contrariato quando scriveva: «L'islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. È incompatibile col concetto di civiltà». Eppure, all'indomani della mia conversione al cristianesimo il 22 marzo 2008, ho scritto: «Ho dovuto prendere atto che, al di là della contingenza che registra il sopravvento del fenomeno degli estremisti e del terrorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita in un islam che è fisiologicamente violento e storicamente conflittuale». L'errore in cui incorsi fu di immaginare che l'islam potesse essere riformabile al suo interno grazie all'impegno dei musulmani moderati. Alla fine, dopo oltre cinque anni trascorsi da condannato a morte dai terroristi islamici e reiteratamente minacciato dagli estremisti islamici, mi sono arreso di fronte all'evidenza: si può essere musulmani moderati come persone, ma non esiste un islam moderato come religione. Oggi più che mai dobbiamo avere l'acume intellettuale e il coraggio umano di leggere ad alta voce il Corano e di affermare pubblicamente i suoi contenuti. Non possiamo essere vittime, da un lato, dei musulmani moderati che difendono aprioristicamente e acriticamente l'islam pur di salvaguardare la loro credibilità ed onorabilità, dall'altro, degli occidentali che per paura di offendere i musulmani sostengono in modo altrettanto aprioristico e acritico che il Corano insegna l'amore e la pace, che i terroristi islamici non centrano nulla con l'islam. Solo leggendo il Corano scopriamo la specificità di una religione che condanna di eresia l'ebraismo e il cristianesimo; la realtà di Allah che era il dio supremo del Pantheon politeista arabo, clemente e misericordioso con chi si sottomette all'islam ma vendicativo e violento con i miscredenti; la verità di Maometto che è stato un guerriero vittorioso che ha fondato una «Nazione di credenti» combattendo e uccidendo i suoi nemici per ordine di Allah. Solo leggendo il Corano potremo capire le radici di un'ideologia che legittima l'odio, la violenza e la morte, che ispira il terrorismo islamico ma anche la dissimulazione praticata dai «musulmani moderati», perseguendo il comune obiettivo di sottomettere l'intera umanità all'islam, che è fisiologicamente incompatibile con la nostra civiltà laica e liberale negando la sacralità della vita di tutti, la pari dignità tra uomo e donna, la libertà di scelta. Solo leggendo il Corano potremo capire chi siamo veramente noi, se siamo ancora o non più in grado di riscattare la civiltà di verità e libertà, di fede e ragione, di valori e regole. L'Italia non ha subito gravi attacchi dal terrorismo islamista, ma non può considerarsi al sicuro se si tiene conto che da anni diversi imam predicano odio, dozzine di centri islamici sono impegnati nel proselitismo e nel finanziamento a gruppi terroristici e che il Paese sta esportando combattenti nei teatri della jihad. Lo rileva un rapporto del Centro militare di studi strategici del ministero della Difesa. La comunità islamica italiana è composta da 1,6 milioni di persone, un terzo degli stranieri presenti, cui si aggiungono 60-70mila convertiti. Sono una ventina le organizzazioni principali, più di 100 le moschee, 159 i centri islamici, decine le scuole coraniche, tanti i siti internet. Secondo il dossier, «la radicalizzazione della comunità islamica rappresenta una potenziale seria minaccia». Dal 2001 ad oggi, circa 200 persone sono state arrestate con l'accusa di terrorismo. Milano è l'epicentro del radicalismo islamico in Italia.

Ecco l'Italia che trasforma il Tricolore in uno straccio. La bandiera nazionale va esposta per legge davanti a scuole e uffici pubblici. Ma nessuno se ne cura. E lo spettacolo è avvilente, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. L'Italia è l'unico Paese al mondo in cui la Bandiera nazionale, invece che garrire al vento, rantola in aria. Come un impiccato sul pennone più alto. Tanto in alto che nessuno si premura di prendersene cura. Triste, tristissima la vita del nostro glorioso Tricolore: tradizionale simbolo di (dis)amor di Patria. Un vessillo di cui ci ricordiamo solo in occasione dei Mondiali di calcio, almeno quelli in cui gli Azzurri non fanno figuracce. Ma poi nella vita di tutti i giorni il vessillo Bianco, Rosso e Verde tende a virare in commedia, assumendo i toni del bianco, rosso e verdone. Un film tragicomico (più tragico che comico) che va «in onda» quotidianamente su ogni edificio pubblico: scuole, biblioteche e uffici. Da Nord a Sud l'Unità d'Italia è fatta, ma si incarna in quel pezzo di stoffa che viene vergognosamente esposto alla stregua di uno straccio con cui si è appena smesso di fare le pulizie. E dire che nella Costituzione figura un preciso dettato normativo sancito dalla Legge 5-02-1998 n.22 e dal Dpr 07-04-2000 n. 121, il cui capo IV (punto 9) recita testualmente: «Le Bandiere vanno esposte in buono stato e correttamente dispiegate». Roba che se la violazione venisse effettivamente perseguita, dovrebbe essere denunciata la maggior parte dei funzionari statali. Non fanno eccezione neppure gli edifici sedi di istituzioni «prestigiose» come prefetture, questure, tribunali. Ma anche qui il Tricolore sventolante appare in salute come un moribondo. Non c'è spettacolo più avvilente per un cittadino orgoglioso di essere italiano che vedere la Bandiera della propria nazione ansimare sporca e stracciata. Fateci caso. Quando entrate in un ufficio alzate lo sguardo e, nove volte su dieci, sulla vostra testa vedrete curvo su se stesso un Tricolore sdrucito e sozzo. Nessun direttore, funzionario, dirigente, impiegato, segretario (fin giù a all'ultimo degli inservienti) che si ponga il problema non dico di lavare una bandiera annerita o sostituirne una a brandelli. No. Si cambiano con periodica perizia le merendine dalle macchinette degli uffici, ma del Tricolore non frega nulla a nessuno. Lui può morire d'inedia nell'indifferenza generale. Beh, quasi generale. Considerato che, almeno una persona, ha deciso di levare un urlo di dolore in difesa di un simbolo per il quale sono morti migliaia di soldati. Si tratta del Maggiore Gennaro Finizio, dell'Unuci (Unione ufficiali in congedo) che in una lettera aperta al sito Basilicata24 denuncia lo scandalo-Bandiera: «Se si vuol valutare l'orgoglio di un Popolo e pesarne il livello di diffusione e condivisione del concetto di identità nazionale, è sufficiente osservare se, ed in quale modo, espone la propria Bandiera; nel nostro caso, il Tricolore. Ebbene, le condizioni in cui sono esposte le nostre Bandiere, sulle facciate degli edifici pubblici e sedi di Istituzioni, riflettono chiaramente il livello di crisi sociale e di sfiducia, segnalando la dimensione di un Paese che ha perso i suoi punti di riferimento; un Paese impoverito nei Valori». Chi disonora il Tricolore, infanga la propria Storia. E poi: «Non sfuggirà, all'osservatore attento, che un po' ovunque sono presenti Tricolori laceri, sporchi e, nella migliore delle situazioni, esposti in modo errato; Bandiere offese indecorosamente sino al punto da sembrare private della forza di sventolare. Come si legge questo degrado sociale? Abbiamo, forse, perso la nostra dignità e la volontà di sentirci orgogliosamente italiani? Forse non crediamo più nel nostro simbolo, perché derubricato a semplice icona della Nazionale di calcio?». Il Maggiore Finizio prova anche a dare delle risposte: «Temo che tutto questo sia da ascrivere a semplice, ma deleteria, incuria e mancanza di sensibilità. Quella stessa sensibilità che troviamo ad esempio negli statunitensi, negli inglesi, francesi e tedeschi». Da noi, invece, fino a qualche tempo fa, l'ex leader della Lega poteva impunemente urlare in piazza contro una signora che esponeva il Tricolore alla finestra: «Signora, con quella bandiera può anche pulirsi il culo...».

Un Paese invivibile, scrive Livio Caputo su “Il Giornale”. Nei due mesi scorsi mi sono dedicato a un esercizio che si è rivelato molto deprimente: ho chiesto a cinquanta amici e conoscenti quanti di loro avessero subito, negli ultimi tre anni, scippi, furti in casa o in strada, truffe, vandalismi, violenze,richieste di pizzi o tangenti, o altri “attacchi” da parte dei vari tipi di delinquenza, organizzata e non. Ebbene, il risultato è stato 47, cioè quasi il 95 cento. Tra i racconti che ho raccolto c’era di tutto e di più, perfino quello di due sedicenti dipendenti comunali che si sono introdotti con un pretesto nell’abitazione di una signora e, forse ipnotizzandola, forse drogandola, l’hanno persuasa a consegnare “spontaneamente” tutti i suoi preziosi. Comunque, il campionario dei reati subiti, che peraltro avrei potuto mettere insieme anche compulsando attentamente la cronaca nera dei giornali, era talmente vario da poterci scrivere un trattato di criminologia.  L’impressione complessiva, comunque, era che il Paese, nonostante le statistiche che danno un certo numero di reati in calo, sia sempre più fuori controllo e che un senso di insicurezza si sia ormai impadronito della maggioranza dei cittadini. Un altro dato inquietante emerso dalla mia indagine è che buona parte delle vittime ha ormai rinunciato a denunciare i reati subiti se non ci sono esigenze assicurative di mezzo. Che senso, infatti, ha perdere tempo a denunciare il furto di una bicicletta, lo scippo subito in un parco, una casa svuotata dagli zingari, quando le possibilità di recuperare la refurtiva sono pari a zero? E, comunque, che soddisfazione ricava il cittadino se l’autore del reato, nell’ipotesi remota che venga individuato e arrestato, viene poi subito messo in libertà, libero di reiterare il suo crimine anche l’indomani? O, se anche viene processato, se la cava con pene lievi con la condizionale, o esce comunque di galera assai prima di quanto dovrebbe per condoni, buona condotta, eccessivo affollamento delle carceri o quant’altro? Una delle mie interlocutrici si è particolarmente infuriata leggendo che una donna rom che l’aveva derubata è stata arrestata – mi pare – una dozzina di volte e sempre rilasciata. In effetti, una delle cause principali per cui non solo aumenta la delinquenza nazionale, ma bande di ladri, rapinatori e scassinatori arrivano da ogni parte d’Europa per operare nel nostro Paese è la quasi impunità di cui, alla fine, finiscono di godere. Come reagiamo di fronte a questi fenomeni, che ci rendono tutti più timorosi e insicuri?  Riducendo i mezzi a disposizione delle forze dell’ordine, abbastanza numerose se confrontate con quelle degli altri grandi Paesi occidentali, ma spesso impegnate in altre funzioni, come le scorte a politici, ex politici e compagnia cantante, che li distolgono dai loro compiti primari. Depenalizzando una serie di reati cosiddetti minori, che in realtà colpiscono la cittadinanza nella sua esistenza quotidiana anche peggio di altri. Svuotando periodicamente le carceri perché eccessivamente affollate e non in grado di garantire i diritti dei detenuti, invece di costruirne di nuove o utilizzando quelle già esistenti, ma lasciate vuote per carenza di guardie penitenziarie. Tenendoci gli innumerevoli stranieri che delinquono (la loro percentuale tra i detenuti è molto superiore a quella degli italiani) invece di espellerli appena espiata la pena. Se la percentuale di cittadini carcerati rispetto alla popolazione è metà di quella della Francia e della Gran Bretagna e addirittura un decimo di quella degli Stati Uniti non ci si può poi meravigliare se il tasso di delinquenza, denunciata e non denunciata, è così alto. Un altro scandalo è quello dello scarsissimo numero di cosiddetti colletti bianchi, e in particolare di esponenti di rilievo della burocrazia e della finanza, anche accusati di reati infamanti, di furti e truffe milionari o di reati particolarmente dannosi per la comunità che finiscono effettivamente in galera. Tra appelli, prescrizioni, condoni, sono pochissimi, e nei (rari) casi in cui ciò avviene fa addirittura notizia. La maggior parte, anche se, sulla carta, condannata ad anni di reclusione, continua a godersi la vita in perfetta libertà, con un effetto negativo sulla credibilità della giustizia, specie tra i giovani, che può riuscire devastante. La durata infinita dei processi, e i mille cavilli che la nostra legislazione consente di usare agli avvocati difensori, non fanno che rendere la situazione ancora più insostenibile. Potrei continuare per pagine e pagine, riprendendo episodi incredibili che si incontrano quasi ogni giorno sui giornali, ma sarebbe superfluo. La conclusione sarebbe comunque la stessa, che la qualità della vita dei cittadini onesti va continuamente peggiorando. Ricordo che, ormai molti anni fa, un mio amico inglese, corrispondente di un grande giornale da Roma, soleva dirmi:”Il vostro è il Paese in cui si vive meglio in Europa, basta non avere a che fare con l’autorità (intendendo fisco, burocrazia, vigili, tribuanli, ecc.). Oggi non è più vero. Bisogna aggiungere “….se si ha la fortuna, sempre più rara, di non imbattersi in qualche malfattore”.

I nuovi mostri dei Soliti Idioti "L'Italia? Un inferno da ridere". Biggio e Mandelli rivisitano Dante nel film: «Abbiamo raccontato con affetto le deformità di ciascuno di noi», scrive Cinzia Romani su “Il Giornale”. Nati non foste a viver come bruti. Lo rammentano i Soliti Idioti con la rappresentazione plastica degli abominevoli peccati italiani al giorno d'oggi. Tipo abbruttirsi al bar alle otto di mattina, uccidere per questioni di traffico all'ora di punta, travolgere gli altri al supermercato, stare sempre connessi o farsi irretire dalla pubblicità invasiva. Per forza, poi, ci vuole il Ministero della Bruttezza a dirimere le controversie dei consumatori di laidume. Così col loro terzo film, La solita Commedia. Inferno (da giovedì in sala), Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli puntano alla versione 2.0 de I nuovi mostri , accatastando sketch e personaggi come in pista sul web, dal quale provengono. Pur essendo relativamente giovani (Biggio è classe '74, Mandelli è del '79), gli infernali registi, qui in tandem con Martino Ferro, nonché protagonisti e sceneggiatori d'un racconto corale, rimpiangono il passato. Quando si usava il telefono a gettoni, come fa Minosse (Mandelli) per chiamare il suo superiore, un Dio che tracanna whiskey e fuma. O quando si picchiavano i tasti della macchina per scrivere, come fa un tenente (Biggio), pronto a scagionare due poliziotti dal reato di abuso di potere nei confronti d'una macchinetta che non dà resto. Perché prima era tutto più bello, ancora non ci aveva invasi la Grande Bruttezza: altro che Isis. Siamo dalle parti della surrealtà più dichiarata, con tanti attori che interpretano dai 21 ai 7 ruoli a testa per raccontare una società malata. E c'è pure Tea Falco, già musa di Bertolucci, nei panni d'un Gesù tosto, quando sequestra a un precario di nome Virgilio (ancora Biggio) i suoi attributi. Che riavrà se accompagnerà Dante (ancora Mandelli) a catalogare i nuovi peccati commessi sulla terra, segnatamente a Milano, postaccio caotico zeppo di hackers, pornomani e tecno-incontinenti. «Volevamo raccontare con affetto l'Italia e gli italiani. E la mostruosità di ognuno di noi, guardando a I nuovi mostri », dice Biggio. Ironia a parte, alcune categorie vengono prese di petto. Quella dei poliziotti, per esempio, raffigurati come paranoici violenti. Diverte l'interrogatorio stile Csi della macchinetta del caffè, rea di non rendere gli spicci ai piedipiatti, ma fa pensare a un certo tipo di giudizio. «Ci piace provocare e dar fastidio, però non vogliamo descrivere tutta la polizia così. Come ci piace l'idea d'un Dio indaffarato nei suoi casini. Il nostro padre Pio, non me ne voglia Castellitto, è il migliore. Non temiamo le risposte dei cattolici», spiega Mandelli. E in effetti, l'idea d'intruppare i santi in una specie di Camera, a decidere come procedere per catalogare nuovi peccati terreni, non è male. «Ci piace forzare il pubblico, vedere come rispondono i cattolici», butta lì Biggio. Di sicuro, il duo comico è maturato e cerca un nuovo sbocco. «Ci avevano proposto di fare il terzo film dei Soliti idioti , ma ci siamo messi alla prova con una cosa diversa. Chi fa il nostro mestiere, cerca sempre di uscire dalla zona comfort. Come abbiamo fatto a Sanremo: stare su quel palco, è stata una sfida», puntualizza Mandelli. Colpisce, a ogni modo, che per smarcarsi dall'ennesima commedia all'italiana, i Soliti Idioti abbiano realizzato un'idea semplice e geniale: sciorinare i più brutti vezzi italioti contemporanei, in stile Nanni Loy, dopo aver riferito tic e nevrosi del Bel Paese nei loro lavori precedenti. È andato in questo senso pure Maccio Capatonda con Italiano medio e non a caso il duo pensa a una collaborazione col comico abruzzese. Costato 3 milioni e finanziato pure dalla Film Commission del Lazio (la maggior parte delle scene, tuttavia, si svolge a Milano),il film è prodotto dalla Wildside di Mario Gianani, marito della Madia e di Lorenzo Mieli, figlio di Paolo. E non a caso il Ministero della Bruttezza Biggio&Mandelli lo affiderebbero «a Gasparri, Alfano e Salvini», che non è gente di sinistra.

L’italiano medio è volgare e squallido, ma diverte. La recensione di Marita Toniolo su “Best Movie”. Sbarca al cinema l’opera prima del comico Maccio Capatonda, che vuole farci ridere e vergognare di come siamo diventati. Dopo i successi stratosferici di Zalone al botteghino, si torna a puntare forte su un volto “televisivo” con Maccio Capatonda e il suo Italiano medio, prossimo a sbarcare al cinema con 400 copie al suo esordio (il 29 gennaio). Maccio Capatonda, al secolo Marcello Macchia, è un fenomeno di culto del web amatissimo dai cinefili grazie ai suoi trailer parodia: un centinaio di secondi e poco più in cui Capatonda riesce a comprimere mirabilmente genio e follia, cinefilia e non-sense, giochi di parole e travestimenti, raggiungendo una popolarità che lo ha portato a sbarcare anche su MTV con la serie Mario. Lo attendeva al varco la sfida più tosta: il lungometraggio. Riuscire a essere altrettanto esplosivo in un tempo dilatato. Italiano medio, diretto, scritto e interpretato da Maccio, è infatti lo sviluppo del finto trailer di Limitless con Bradley Cooper: due minuti, in cui era un uomo intelligente e socialmente responsabile, che assumeva una pillola che gli cambiava totalmente la vita. Parodisticamente, rispetto alla Lucy di Besson che si ritrova ad avere a disposizione il 100% del cervello, Maccio deve capire cosa riuscire a fare con solo il 2%… E proprio da questa domanda prende il via il racconto. Giulio Verme è il perfetto emblema dell’uomo socialmente impegnato: allergico alla televisione sin da bambino, avverso a ogni massificazione, vegano convinto, sempre pronto ad aiutare gli emarginati, con la fissa per l’ambiente e le scelte etiche ed ecosostenibili. Addetto allo smistamento dei rifiuti a Milano, cerca di inculcare un po’ di senso civico nei colleghi, che gli rispondono a suon di scoregge. La radicalità delle sue scelte finisce per creare un muro tra lui e le persone che lo circondano: i genitori in primis, gli amici, i vicini e persino la fidanzata Franca, esasperata dal suo atteggiamento da uomo frustrato e ostile, ma fondamentalmente passivo. Giulio si ritrova isolato e disperato, sopraffatto dal “lerciume” che lo circonda, sempre più nevrotico e ansioso. Finché nella sua vita non approda l’amico Alfonzo, un ex compagno antipatico  delle elementari che gli offre una pillola straordinaria, che gli permetterà di usare solo il 2% del cervello, invece che il 20%. La metamorfosi sarà da Dottor Jekyll e Mr Hyde: da attivista rompiscatole e fanatico, Giulio diventerà un tronista beota con il mantra fisso dello “scopare”, della disco e del lusso cafonal, volgare e ignorante, carnivoro e menefreghista, guadagnandosi – impresa becera dopo l’altra – il diritto alla partecipazione al reality show più di culto del momento. L’apoteosi dell’italiano medio. Capatonda ha messo tutto se stesso in questa opera prima e il primo punto a favore gli deriva dall’enorme cura del dettaglio che il film mostra. Nulla è lasciato al caso, a partire dagli esilaranti titoli di testa (Tratto da una storia finta), che fanno partire in quinta il film e che denunciano da subito il pedigree cinefilo dell’autore. Che ha di fatto disseminato tutto il film citazioni filmiche facili da riconoscere via via. Tuttavia, il triplo salto carpiato dai video di 1/2 minuti al lungo di 100 equivalgono a passare dallo sguazzare in una piscina a nuotare nell’oceano. C’è un traccia coerente di fondo, ma i raccordi tra una scena comica e l’altra si stiracchiano troppo, portando con sé come conseguenza negativa la reiterazione di situazioni e tormentoni per allungare il brodo (amechemmenefregame, Sant’Iddio, Scopare…). Raccontare una metamorfosi in un video di 130 secondi risulta efficace, dilatarla con un continuo sdoppiamento di personalità ed esplicitando la lotta interiore sempre più opprimente che Verme si ritrova a combattere tra i suoi istinti primari da bifolco e gli intenti nobili, produce l’effetto di frammenti anche geniali, ma non ben incollati in un mosaico coerente. Se la struttura narrativa è il punto debole più evidente di Italiano medio, va invece segnalata – come altro punto a suo favore – il peso specifico delle riflessioni, per nulla superficiali. Lo sguardo di Maccio sull’Italia e i suoi concittadini è amaro e disilluso, quasi crudele. Con un disgusto e un disprezzo maggiore di quello dello storico Fantozzi verso l’impiegato piccolo piccolo, Maccio non risparmia colpi a colti e ignoranti, ricchi e poveri, impegnati e menefreghisti. Giulio Verme sdoppiato sintetizza le sublimi vette dell’arte del compromesso toccate dell’italiano, capace di essere vegano e mangiare il pollo fritto; andare in chiesa e avere mogli e amanti; difendere il bio e inquinare. Opposti apparentemente inconciliabili, che – come vedremo nel finale – invece, per gli abitanti del Bel Paese sono assolutamente ricomponibili, abituati come siamo ad accettare obbrobri edilizi che radono al suolo parchi bio, scandali sexual-politici, indecenze cultural-mediatiche dei reality (memorabili lo scandalo del bianchino nel privè, che ha portato all’esclusione di Kevin, e la “prova pippotto”), come se fossero parte integrante e inalienabile del sistema. Maccio non ce le manda a dire, ma stigmatizza tutti i nostri vizi, costringendoci a ridere (amaramente) di essi. Come sempre, è circondato dai soliti attori fidati: l’inseparabile Herbert Ballerina, che si trasforma in tre personaggi diversi; Rupert Sciamenna, imprenditore squalo con i capelli rosa; Ivo Avido, anche lui triplice. Molti i colleghi  che si sono prestati per differenti camei: lo Zoo di 105, Raul Cremona, Andrea Scanzi, Pierluigi Pardo e il principe assoluto del non sense Nino Frassica. L’impiego degli stessi attori in più ruoli e con costumi diversi, pur se giustificato dal surrealismo che ìmpera, genera spesso un effetto cabaret innestato nel cinema che non giova alla dimensione estetica del film. Sebbene gli vada anche riconosciuta una fotografia curata (di Massimo Schiavon), che alterna colori diversi quando la personalità di Giulio cambia, non abbiamo sempre la sensazione di trovarci di fronte a un film tout court, limite più forte dei comici italiani importati dalla Tv. Eppure, pensiamo che l’opera prima di Maccio vada premiata (anche per incoraggiamento, affinché continui a perfezionarsi, per giungere a una scrittura più equilibrata), perché regala sane risate, momenti di genio surreale (il folle “piano” finale degli attivisti) ed è una satira feroce che invita alla riflessione, come non accadeva da tempo in un film comico italiano. Da Rodotà-tà-tà a onestà-tà-tà, viaggio pre-Quirinale nella spaesata piazza grillina senza capo né nome, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Da Rodotà-ta-tà a onestà-tà-tà. Dopo quasi due anni di Parlamento e alla vigilia di una nuova elezione presidenziale, la piazza a Cinque Stelle parla d'altro ( la "mafia capitale" da non dimenticare: da cui la pubblica lettura delle intercettazioni tratte dall'omonima inchiesta – per la gentile interpretazione di Claudio Santamaria e Claudio Gioè, attori e volti da romanzi criminali su piccolo e grande schermo). Onestà-tà-tà, dunque, al posto del nome che non si farà, non si vuole fare e non si vuole neanche ascoltare (il deputato e membro del direttorio a Cinque Stelle Alessandro Di Battista a un certo punto legge e fa leggere alla pizza la dichiarazione-gran rifiuto: caro Renzi ecco la risposta del popolo – e pare quasi di sentir parlare un robot, la famosa futuribile app che renderà possibile conversare con amici virtuali come nel film "Her" con Scarlett Johansson nella parte dell'amante fatta di web, solo che qui il tono non è suadente: lei ha già deciso, Renzi, e al Nazareno non veniamo). Onestá-tá-tá, e altre parole di un lessico chiama-applauso in una Piazza del Popolo che all'inizio era mezza vuota e percorsa da interesse per l'altrove del sabato pomeriggio: gente che faceva vedere l'acquisto da saldo e giovani rapper -break dancer con tappeto di plastica per performance estemporanea sul selciato. "La gente è arrivata", esclama una signora quando il suo wishful thinking, finalmente, diventa realtá, e arriva pure Sabina Guzzanti comica non più comica, ché, prevale, nel suo intervento, l'invettiva-imitazione in teoria civile in realtá elitaria contro Maria De Filippi, emblema del paese in cui da vent'anni, dice Guzzanti, si è perduto ogni " stimolo intellettuale", e sembra impossibile fare qualcosa: le persone colte riescono a stare insieme per combinare qualcosa, è il concetto espresso da Sabina, le persone ignoranti no. Colpa della tv, è la sentenza che alla fine dell'invettiva tutti si aspettano, e le ragazze del bar all'angolo della piazza si domandano perché mai "Sabina se la prenda con la De Filippi". Ma gli applausi a quel punto sono già stati tributati alla divinità nascosta che la piazza omaggia a intervalli regolari: l'onestà, rieccola, parola buona per tutto e piena in fondo di niente, se non della generica riprovazione per le altre bestie nere della serata (persino il rapper Fedez le dice e non le canta: corruzione, resistenza, vergogna, marciume, e mafia mafia mafia). Tutto è mafia, dicono i deputati, senatori e consiglieri comunali grillini che sfilano sul palco (Roberta Lombardi, la veterana dei primi streaming a Cinque Stelle, dice che una mattina si è svegliata e ha trovato non l'invasore ma una città che diventa proprio quello che ora, chissà perchè, tutti evitano di ricordare: il teatro della mafia capitale. La senatrice stornellista Paola Taverna, in strana inversione di ruoli con Fedez, pare quasi una rapper quando intona lo slogan degli slogan: fuori la mafia dallo Stato. Fedez invece, sempre senza cantare, dice la frase che qualcuno nel pubblico trova "un po' cosi" nel giorno in cui l'Isis decapita un altro ostaggio, di nazionalità giapponese: abbiamo il nemico in casa ma non è di fede musulmana, dice Fedez, e le grandi stragi sono di matrice italiana. Il più grande nemico  dell'Italia sono gli italiani, continua, e a quel punto l'applauso arriva, forse per riflesso condizionato (sono già due ore che gli astanti sentono dire peste e corna dell'universo mondo nazionale). "Fuori i nomi, Renzi"', grida il tribuno Di Battista, e alla fine Beppe Grillo esce per dire la stessa cosa, ma con il marchio di fabbrica: vaffanculo! (Vaffanculo e fate i nomi). Il resto è uso traslato (e a volte insensato) di termini impossibili a odiarsi: valori, costituzione, libertà, partecipazione (povero Gaber), cultura. Grillo invece parla di sottocultura, insultando qui e lì Giorgio Napolitano per non aver riconosciuto "il miracolo" a cinque stelle, anche se il miracolo Grillo se l'è sfasciato da solo. Resta solo da dire no al "Nazareno", demone antropomorfo. Ed è subito sabato sera mentre gli attivisti sbaraccano, e sulla piazza che si svuota si diffonde, incongrua, la più classica canzone dei Pink Floyd ("another brick in the wall").

La caduta (parziale) degli Dei, scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Il segretario dell’Anm, il dottor Maurizio Carbone, dice che la riforma delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata l’altro ieri dal Parlamento, «è un tentativo di normalizzare la magistratura». Lo ha dichiarato ieri, durante la conferenza stampa dell’ Anm, che è su tutte le furie per questa piccola riforma. Già: «normalizzare». Cioè rendere normale. Oggi la magistratura non è normale: è l’unica istituzione dello Stato ad essere al di sopra dello Stato, della legge, ad essere – nell’esercizio delle sue funzioni – immune dalla legge, e insindacabile, e non dipendente dallo Stato ma sovraordinata allo Stato. «Normalizzare» la magistratura, cioè toglierle la sua caratteristica di ”deità” (che non è la ”terzietà” di cui spesso l’Anm parla) non sarebbe una cosa cattiva. Libererebbe forse l’Italia da un sovrappeso ”feudale” che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono – temo in buona fede – che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere ”società etica” (successivamente si passa all’idea dello ”Stato Etico”) non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri (”aristoi”) i quali siano in grado di ”sapere” la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla. Non è questa una funzione – pensano – che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l’eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere ”corretta”, o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di ”certamente morale”: e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza. E mettere in discussione l’indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica. L’autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell’equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società ”morale” deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa ”immorale” e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è ”il male” , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col bene. Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell’Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l’unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece – ha spiegato – vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l’estensione dei poteri speciali ”antimafia” anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell’imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell’Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell’equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell’imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri. Sabelli ha anche annunciato che l’Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell’incontro c’è un elemento di scavalcamento dell’idea (puramente platonica in Italia) dell’indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L’associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura. Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L’unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent’anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici). Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell’ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto? La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l’esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta. Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. E’ questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della ”Divina Giustizia”. No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. E’ sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.

Magistrati: ecco perché non pagheranno mai. La nuova riforma della responsabilità civile dei magistrati? Non cambierà nulla. Perché l’arma è già spuntata in partenza, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Vi hanno detto che adesso cambia tutto? È un bluff. Non hanno pagato un euro negli ultimi 26 anni e non pagheranno nemmeno domani. Il 25 febbraio la Camera ha approvato la nuova legge sulla responsabilità civile, e da allora magistrati e giudici gridano all’indipendenza violata, strepitano all’attentato alla Costituzione. I più vittimisti ne parlano addirittura come di una «punitiva ditata negli occhi». Tutti paventano «uno tsunami di ricorsi». Ma è solo una pantomima. Ne sono convinti molti giuristi e ne sono certi soprattutto gli avvocati, che continueranno a non utilizzare lo strumento. Perché non funziona e non funzionerà. Sergio Calvetti, penalista di Vittorio Emanuele di Savoia, ha appena incassato 39 mila euro dalla Corte d’appello di Roma che ha riconosciuto al suo cliente l’ingiusta detenzione del 2006, più danni accessori e d’immagine. Calvetti, però, non è riuscito nell’impresa invocando la responsabilità civile del magistrato che a Potenza condusse l’indagine, quell’Henry John Woodcock che fu star di cento inchieste tanto roboanti quanto avare di risultati: «Abbiamo ottenuto questo risultato come risarcimento da ingiusta detenzione» spiega il legale «e questo anche se subimmo la pervicace volontà di trattenere in quella sede il processo, pur senza alcuna competenza territoriale». Francesco Murgia, con Calvetti difensore storico di Vittorio Emanuele, aggiunge che in realtà una citazione per responsabilità civile fu presentata nei confronti di Woodcock nel dicembre 2011, quando cadde l’ultima accusa contro il loro cliente. Ma fu dichiarata inammissibile perché il tribunale stabilì fosse «non tempestiva»: avrebbe dovuto partire nel giugno 2006, ai tempi dell’ordine di custodia cautelare. Perché questo, assurdamente, prevede la legge (e oggi viene confermato dalla sua riforma): che per agire il cittadino aveva due anni, ora tre in base alla riforma. Con il trucco, però: perché l’orologio scatta dal momento in cui l’arresto o il primo provvedimento cautelare viene respinto. «Ma come faccio a iniziare un’azione di responsabilità, se sono ancora sotto scacco?» protesta Murgia. È con ostacoli come questo che la Legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 come (inadeguata) risposta al referendum radicale che un anno prima, con l’80 per cento di sì, aveva cancellato tre articoli del codice che proteggevano come un castello medievale magistrati e giudici dalle azioni civili dei cittadini, ha continuato a garantire piena protezione alla categoria. Da allora sono state appena 410 le azioni intentate da vittime di malagiustizia, e sono state più che decimate dalla valutazione di ammissibilità, il cosiddetto «filtro»: un giudizio preventivo svolto nel tribunale competente per territorio. C’è chi, come Piercamillo Davigo, giudice di Cassazione e fondatore della nuova corrente giudiziaria Autonomia e indipendenza, nonché nemico della riforma, analizza il dato con sarcasmo: «La responsabilità civile dei magistrati non è un problema, visto che i cittadini fanno poche domande». Altri numeri in realtà dimostrano che in Italia un problema di malagiustizia esiste, ed è grave. Prima della Legge Vassalli, dal 1945 al 1988, l’Eurispes e l’Osservatorio permanente sulle carceri calcolano 4,5 milioni di errori giudiziari. Possibile che dopo il 1988 il fenomeno sia scomparso? Certo che no. Il punto è che le citazioni per responsabilità civile sono state poche perché la legge non ha mai funzionato. Dal 1988 a oggi la Cassazione ha stabilito sette risarcimenti in tutto, uno ogni 7,5 milioni di processi penali aperti nel periodo. C’è il caso di un’azienda agricola grossetana fallita nel 1998 per l’errato sequestro di una tenuta, deciso in un’inchiesta per reati ambientali (500 mila euro risarciti). C’è il caso di un pm siciliano che nel 2002 non tenne nel debito conto una serie di lettere, acquisite dai Carabinieri, che avrebbero potuto evitare un omicidio-suicidio di coppia: i familiari della donna uccisa, nel 2009, hanno ottenuto 95 mila euro. Ma in nessun caso, mai, lo Stato si è rivalso sui pm o sui giudici ritenuti colpevoli di dolo o colpa grave. Nessuno di loro ha mai pagato nulla. L’ultima pronuncia, per ora ferma al primo grado, riguarda un’inchiesta guidata nel 2004 dall’ex pm calabrese Luigi De Magistris, poi migrato in politica. Lo scorso 3 dicembre il Tribunale di Roma ha condannato lo Stato a pagare meno di 25 mila euro a Paolo Antonio Bruno, un magistrato di Cassazione che nel 2004 fu ingiustamente accusato di associazione mafiosa da De Magistris. Si vedrà come finirà il caso. Non ha mai nemmeno pensato di avvalersi della Legge Vassalli, invece, l’imprenditore calabrese Antonio Saladino, che pure dal 2006 si proclama vittima di un’altra, mitica inchiesta di De Magistris: la «Why not», che nel 2006 piazzò Saladino al centro di una ragnatela di presunte corruttele ma poi si risolse praticamente in nulla: «Citarlo in giudizio? Quell’inchiesta mi ha rovinato economicamente» dice Saladino «però io non ci ho mai nemmeno pensato. Sarebbe stata una povera battaglia contro i mulini a vento, e credo lo sarebbe anche oggi». È così. Avvocati e presunte vittime di giustizia hanno presto capito che la Legge Vassalli era utile come un cucchiaio bucato e hanno scelto altre strade. Dal 1991, per esempio, cioè da quando esistono i risarcimenti per l’ingiusta detenzione, in 23.326 hanno ottenuto un risarcimento: in 23 anni lo Stato ha versato loro 581 milioni di euro. La riforma, purtroppo, rischia di non cambiare nulla. «Oggi i magistrati si lamentano, ma è lo stesso vacuo bla-bla di 26 anni fa, con le medesime parole d’ordine» dice Gian Domenico Caiazza, penalista romano e presidente della Fondazione Piero Calamandrei. Caiazza è un’autorità, in materia. Nell’aprile 1988 era nel collegio che, a nome di un Enzo Tortora morente di cancro, chiese il risarcimento per il disastro giudiziario che cinque anni prima, a Napoli, aveva coinvolto il giornalista in un’inchiesta su camorra e droga. Era stato proprio il caso di Tortora, riconosciuto innocente dopo sette mesi di custodia cautelare e una gogna aberrante, a dare il là al referendum e a garantirne il successo. Nell’aprile 1988 la Legge Vassalli, appena varata, conteneva un articolo che ne impediva l’applicazione retroattiva. Poiché il referendum aveva abrogato le norme antecedenti, i difensori di Tortora si trovarono nella peculiare situazione di agire senza limiti. «Per la prima e forse unica volta nella storia di questo Paese facemmo causa ai magistrati come se fossero normali cittadini» ricorda Caiazza. «Ma poi il Tribunale di Roma passò la palla alla Consulta. Questa stabilì che l’articolo sulla irretroattività della Legge Vassalli era incostituzionale nella sola parte che riguardava il filtro sulla fondatezza delle nostre pretese: quella mancanza violava il principio d’indipendenza e autonomia della magistratura». Insomma: il filtro del giudizio di ammissibilità doveva esserci, per forza. Risultato? «A quel punto per il risarcimento avremmo dovuto partire daccapo» dice Caiazza «ma con quella pagliacciata avevamo perso due anni. Decidemmo di lasciar perdere». Il ricordo dell’avvocato di Tortora è preciso (la sentenza della Consulta è la n. 468 del 22 dicembre 1990) e oggi fa scoppiare come una bolla di sapone la principale, presunta innovazione della riforma appena varata. Caiazza ne è certo: «La questione sull’abolizione del filtro potrà essere sottoposta in ogni momento alla Corte costituzionale, che con tutta probabilità confermerà il suo orientamento di 25 anni fa». Anche Davigo è d’accordo: «La Consulta si è già pronunciata: l’eliminazione del filtro, con tutta evidenza, è costituzionalmente illegittima». Suona quindi troppo ottimista il tweet di Gaia Tortora, che la sera in cui è stata varata la riforma l’ha salutata come una vittoria alla memoria di suo padre (e il premier Matteo Renzi si è subito appropriato di quella generosa certificazione con un re-tweet). Anche perché intanto il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si sbraccia per tranquillizzare l’Associazione nazionale magistrati. Il Guardasigilli ha già garantito alla categoria che non c’è nulla di cui preoccuparsi, che il governo «non ha alcun intento punitivo», che «resterà deluso chi si aspetta che i giudici siano condannati ogni due per tre», e addirittura che tra sei mesi sarà fatto «un tagliando» per verificare «eventuali eccessi». Nella storia d’Italia non s’era mai vista una legge con «retromarcia integrata». Beniamino Migliucci, presidente dei penalisti, è critico: «Il tagliando è un’assurdità giuridica e politica. E chi ipotizza una valanga di ricorsi fa disinformazione. Perché un imputato non può citare il suo giudice: il ricorso è improcedibile, impossibile, fino a quando non c’è una sentenza di Cassazione». Anche Giuseppe Di Federico, docente emerito di diritto penale a Bologna e tra i maggiori giuristi italiani, è scettico: «Non credo cambierà nulla. La nostra giustizia è del tutto deresponsabilizzata: la valutazione delle carriere dei magistrati fa passare tutti, al contrario di quanto accade in altri Paesi, e manca un vero sistema sanzionatorio. E poi voglio proprio vederli, gli avvocati, che si espongono a fare causa al loro giudice…». Una causa, oggi, non la farebbe nemmeno Pardo Cellini, il penalista che pure ha scoperchiato il più grave errore giudiziario italiano di tutti i tempi: quello che è costato 39 anni di processi a Giuseppe Gulotta, un muratore trapanese che nel 1976, a 18 anni, fu arrestato per l’omicidio di due carabinieri e solo dopo  22 anni di carcere, nel febbraio 2012, è stato riconosciuto innocente e liberato. Fin dalle prime udienze Gulotta dichiarò che la confessione gli era stata estorta con violenze e torture da parte dei Carabinieri. «E i suoi processi sono stati viziati da errori e lacune» dice Cellini. «Però abbiamo preferito chiedere il risarcimento come danno da errore giudiziario». Perché? Ma perché l’avvocato conosce a perfezione quali siano le tortuosità della responsabilità civile: «È un sistema che non funziona e non funzionerà» sospira. Il problema di Gulotta, che a 57 anni oggi vive della carità di un parroco, è che sono trascorsi già 36 mesi dalla sua riabilitazione ma non ha ancora visto un euro: l’avvocatura dello Stato si oppone, insiste nella tesi paradossale che il processo fu originato dalla sua confessione, per quanto estorta.«La vicenda Gulotta» conclude Cellini «mostra la resistenza dei tribunali e il disinteresse delle istituzioni. E io non vorrei proprio dirlo, ma temo che casi come il suo potrebbero accadere ancora. Per questo la responsabilità civile va rivoluzionata».  Più positivo, a sorpresa, è un penalista che non ha mai simpatizzato con la magistratura: «La nuova legge è equilibrata e migliorerà la situazione» dice Maurizio Paniz, ex deputato del Pdl e avvocato di Elvo Zornitta, l’ingegnere veneto che fu ingiustamente accusato di essere «Unabomber», l’autore di una serie di 30 attentati dinamitardi dal 1994 al 2004, con sei feriti. Scagionato nel 2009, oggi Zornitta sta per chiedere il risarcimento allo Stato: non per responsabilità civile, però, ma ancora una volta come riparazione di un errore giudiziario. Per partire, Paniz aspetta le motivazioni della Cassazione che in dicembre ha condannato Ezio Zernar, il poliziotto che confezionò false prove per incastrare Zornitta. «La nuova responsabilità civile è migliore della vecchia» dice Paniz «perché specifica come cause di punibilità la manifesta violazione della legge e il travisamento delle prove. È un bene: a me sono capitati diversi processi in cui, a volte dolosamente, una prova veniva valutata in modo errato». La morale? La tira Grazia Volo, tra i più noti penalisti italiani: «Questa riforma arriva troppo tardi, 28 anni dopo il referendum. È una riforme sfilacciata, scritta da un legislatore superficiale e giustizialista, che intanto aumenta insensatamente le pene. E non cambierà nulla». Una morale ancora più severa? Dice Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, da sempre controcorrente: «Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare. Dev’essere buttato fuori dalla magistratura». Chissà se il ministro Orlando ne terrà conto, nel suo «tagliando».

Ma ora i magistrati saranno più responsabili? La legge sulla responsabilità civile cambia poco. Con un rischio: l'eliminazione del giudizio preventivo di ammissibilità potrà ingolfare i tribunali, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Uno legge le cronache giudiziarie di oggi, perse come sono tra gli altissimi lamenti sulla fine dell'autonomia della magistratura e le infinite proteste di categoria, e pensa: caspita, che rivoluzione dev'essere questa riforma della responsabilità civile. Poi va a leggersi i 7 articoletti della legge e pensa: caspita, ma qui cambia davvero poco. Perché, in base alla legge varata ieri in via definitiva dalla Camera, da oggi in poi dovrebbe venire punito il magistrato che si macchia di una "violazione manifesta della legge", oppure di un "travisamento del fatto o delle prove". Ma questo cambia obiettivamente molto poco rispetto alla Legge Vassalli dell'aprile 1988. Questa, fino a ieri, prevedeva che ogni cittadino potesse chiedere i danni allo Stato se un magistrato  adottava un atto o  un provvedimento giudiziario "con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni, ovvero per diniego di giustizia"; e dava  facoltà al cittadino "di agire contro lo Stato" anche "per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale". Differenze? Mah... Ecco, sì, la nuova legge specifica meglio che da oggi il cittadino può chiedere anche la punizione del magistrato che ha sbagliato nell'emissione di "un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge, oppure senza motivazione". Quanto al resto, poco cambia. Sì, è vero, si allungano di un anno (da due a tre) i termini per avviare l'azione legale. E oggi il governo è obbligato a esercitare l'azione di rivalsa nei confronti del magistrato ritenuto colpevole. Aumenta anche la quota di stipendio che il magistrato stesso dovrà restituire allo Stato: al massimo metà del suo stipendio di un anno (prima era un terzo), senza però che si possa superare un terzo del suo stipendio mensile nel caso di pagamenti mediante trattenuta. Ma queste non sono certo modifiche sostanziali. E allora? Non cambia davvero nulla? No: una modifica sostanziale riguarda il cosiddetto "filtro". La Legge Vassalli all'art. 5 prevedeva infatti che la domanda di risarcimento presentata dal cittadino dovesse ricevere una valutazione preventiva di ammissibilità: in tre gradi di giudizio (fra tribunale, corte d'appello e Cassazione) i giudici dovevano stabilire se la domanda fosse o no "manifestamente infondata". Così, per stabilire se un magistrato dovesse effettivamente pagare per un suo errore, servivano così nove gradi di giudizio: tre per stabilire l'ammissibilità del giudizio, tre per stabilire il fatto in sé, e altri tre per la rivalsa da parte dello Stato nei confronti del magistrato che aveva agito con dolo o colpa grave. È per questo che pochissimi finora hanno pagato. Per darvi un'idea: tra 1988 e 2014 tale è stata la fiducia degli italiani nella Legge Vassalli che sono state presentate in tutto 410 domande, davvero poche. Quelle ritenute "ammissibili" sono state appena 35, nemmeno una su dieci, e di queste soltanto sette alla fine sono state accolte (per l'esattezza 2 a Perugia e una a testa a Brescia, Caltanissetta, Messina, Roma, Trento). La riforma, però, abolisce il giudizio di ammissibilità e l'art. 5. Questo riduce a sei i gradi di giudizio. Secondo alcuni c'è il rischio che questo possa esporre i tribunali italiani a una valanga di ricorsi. Tant'è vero che i magistrati sono riusciti a strappare al governo l'impegno a fare un "tagliando" della riforma tra sei mesi. Sul punto è abbastanza scettico invece Giuseppe Di Federico, uno dei primi giuristi italiani (è docente emerito di diritto penale a Bologna ed ex membro del Csm), che nel 1987 fu tra i promotori del vittorioso referendum radicale sulla responsabilità civile, poi rintuzzato dalla Legge Vassalli. "Non mi attendo uno tsunami di ricorsi" dice a Panorama.it "perché mi domando quanti avvocati saranno disposti a esporsi in casi di questo genere. E comunque prevedo un estremo rigore da parte dei tribunali".

Berlusconi, vent’anni di rapporti con la magistratura. Dalle «toghe rosse» ai ringraziamenti per i giudici della Cassazione che hanno confermato l’assoluzione nel processo Ruby. Dal 22 novembre 1994 - data in cui Berlusconi, capo del governo, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che sta indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza - fino a oggi, sono stati altalenanti e spesso conflittuali i rapporti del leader di Forza Italia con la magistratura, scrive “Il Corriere della Sera”.

1. Il pool «Mani Pulite» e l’avviso di garanzia del 1994. Il primo interessamento della giustizia nei confronti di Berlusconi risale al 1983 quando la Guardia di finanza segnalò un suo presunto coinvolgimento in un traffico di droga con la Sicilia. L’inchiesta venne archiviata. La prima condanna, invece, è del 1990: la Corte d’appello di Venezia, dichiara Berlusconi colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla lista P2. Nel settembre 1988, infatti, in un processo per diffamazione da lui intentato contro alcuni giornalisti, Berlusconi aveva dichiarato al giudice: «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo che è di poco anteriore allo scandalo». Nonostante la Corte d’appello di Venezia dichiari Berlusconi colpevole (il giudice era Luigi Lanza), il reato è considerato estinto per l’amnistia del 1989.  Il 22 novembre del 1994 Berlusconi, capo del governo, mentre presiede la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità transnazionale, riceve un invito a comparire dalla Procura di Milano che stava indagando sulle tangenti alla Guardia di finanza. Le tangenti servivano per alleggerire le verifiche alle società Mondadori, Mediolanum, Videotime, Telepiù: in primo grado Berlusconi è stato condannato a 2 anni e 9 mesi; in appello, grazie alle attenuanti generiche, è scattata la prescrizione.

2. All Iberian, dalle accuse alla prescrizione. Il 12 luglio 1996 Silvio Berlusconi, l’ex segretario del Psi Bettino Craxi, l’amministratore delegato di Mediaset Ubaldo Livolsi vengono rinviati a giudizio con altre nove persone per l’ inchiesta sul presunto finanziamento illecito della Fininvest, attraverso la società All Iberian, al Psi nel 1991. Il processo inizia il 21 novembre 1996 davanti ai giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano. Il pm Francesco Greco chiede per Berlusconi 5 anni e 6 mesi di reclusione e 12 miliardi di multa poi, dopo lo stralcio del reato di falso in bilancio, riformula la richiesta in due anni e mezzo di reclusione e 12 miliardi di multa. Nel 1998 Berlusconi viene condannato in primo grado (2 anni e 4 mesi). «I giudici hanno riscritto il codice penale per allineare le norme alle esigenze repressive della procura» dichiara Berlusconi. In appello però, nel 2000, sempre per le attenuanti generiche scatta la prescrizione.

3. Colombo, il caso Lentini e la prescrizione. C’e’ anche un capitolo «sportivo»: versamento in nero di una decina di miliardi dalle casse del Milan a quelle del Torino, per l’acquisto di Gianluigi Lentini. Il dibattimento si conclude con la dichiarazione che il reato è prescritto, grazie alla legge che abolisce il falso in bilancio. È lo stesso pubblico ministero Gherardo Colombo a chiedere l’applicazione della prescrizione, dopo che il tribunale respinge la sua eccezione di incostituzionalità della normativa varata nel marzo 2002 in materia di falso in bilancio.

4. Il tribunale civile e il risarcimento a De Benedetti. Berlusconi è poi coinvolto in una lunga serie di processi per la corruzione dei giudici romani in relazione al Lodo Mondadori e al caso Sme. Sono i processi che hanno protagonista Stefania Ariosto, il teste «Omega» e Cesare Previti. Condanne per Cesare Previti e il giudice Metta. Per quanto riguarda il Lodo Mondadori, dopo una guerra durata vent’anni, si stabilisce che Berlusconi deve risarcire De Benedetti. Luigi de Ruggiero, Walter Saresella e Giovan Battista Rollero sono i tre giudici della seconda sezione civile della Corte d’Appello di Milano che emettono la sentenza nell’ambito della vicenda del Lodo Mondadori che condanna Fininvest al pagamento di circa 560 milioni di euro. La cifra diventa 494 milioni dopo la Cassazione.

5. De Pasquale e l’accusa nel caso Mills, ma è prescrizione. Le procure di Caltanissetta e Firenze che hanno indagato sui mandanti a volto coperto delle stragi del 1992 e del 1993 hanno svolto indagini sull’eventuale ruolo che Berlusconi e Dell’Utri possono avere avuto in quelle vicende. L’inchiesta è stata chiusa con l’archiviazioni nel 1998 (Firenze) e nel 2002 (Caltanissetta). La procura di Palermo, inoltre, ha indagato su Berlusconi per mafia: concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio di denaro sporco. Nel 1998 l’indagine e’ stata archiviata per scadenza dei termini massimi concessi per indagare. Definitiva la prescrizione per il caso Mills, l’avvocato inglese che avrebbe ricevuto 600 mila euro da Berlusconi per testimonianze reticenti ai processi per All Iberian e tangenti alla Gdf.  A sostenere l’accusa contro Berlusconi il pm Fabio De Pasquale.

6. Caso Ruby, Boccassini è pubblica accusa. Il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, insieme al pm Antonio Sangermano, rappresenta la pubblica accusa nel processo di primo grado sul caso Ruby. I rapporti di Berlusconi con Boccassini sono conflittuali. L’ex premier respinge le accuse e condanna l’operato dei pm di Milano.

7. Tre donne per la condanna in primo grado. Il 24 giugno 2013, nel processo Ruby, Silvio Berlusconi viene condannato in primo grado a 7 anni per entrambi i reati contestati: concussione per costrizione e prostituzione minorile. Il collegio della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che giudica Berlusconi è composto da donne: la presidente Giulia Turri, che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per il “fotografo dei vip” Fabrizio Corona; Carmen D’Elia, che già nel 2002 aveva fatto parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi; Orsola De Cristofaro, la terza componente del collegio, con un passato da pm e gip, già giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita.

8. L’assoluzione in appello. Il presidente si dimette. Il processo d’appello per il caso Ruby si tiene davanti alla seconda Corte d’Appello: Enrico Tranfa è il presidente, Concetta Lo Curto e Alberto Puccinelli i giudici a latere. Berlusconi viene assolto dal reato di concussione «perché il fatto non sussiste» e dal reato di prostituzione minorile «perché il fatto non costituisce reato». L’ex Cavaliere commenta che «la maggioranza magistrati è ammirevole». Enrico Tranfa, il presidente, si dimette subito dopo aver firmato le motivazioni della sentenza, in dissenso con la sentenza presa a maggioranza con il sì degli altri due giudici. E così, dopo 39 anni di servizio, a 15 mesi dalla pensione, il magistrato lascia anzitempo la toga. Tranfa ha esercitato la professione in gran parte a Milano. Negli anni 90 è stato all’ufficio Gip. Come giudice delle indagini preliminari, nel periodo di Mani Pulite, si era occupato di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Anas e di quella sulla centrale dell’Enel a Turbigo per cui dispose l’arresto, tra gli altri, dell’ex assessore lombardo in quota alla Dc Serafino Generoso. Nel 2002 è stato nominato presidente del Tribunale del Riesame sempre di Milano. Come giudice d’appello ha confermato, tra l’altro, la condanna a tre anni di carcere per Ubaldo Livolsi per la bancarotta di Finpart. Concetta Lo Curto, entrata in magistratura nel 1990, è stata giudice al Tribunale di Milano, prima all’ottava sezione penale e poi alla terza dal 1995 al 2013 quando poi è passata in Corte d’Appello. Nel 2010 assolse l’allora deputato del Pdl Massimo Maria Berruti, imputato per la vicenda Mediaset (la sua posizione era stata stralciata da quella di Berlusconi e degli altri). Puccinelli, entrato in magistratura nell’89, è stato il giudice relatore al processo di appello che si è concluso con la prescrizione per Berlusconi, imputato per la vicenda del «nastro Unipol».

9. Processo Ruby, il pg De Petris contro l’assoluzione. La sesta sezione penale della Corte di Cassazione confermato l’assoluzione, che diventa definitiva, di Silvio Berlusconi nel processo Ruby. Il sostituto procuratore della Corte d’Appello Pietro De Petris aveva fatto ricorso in Cassazione contro l’assoluzione.

10. Processo Mediaset, l’accusa di De Pasquale e Spadaro. Il 18 giugno 2012 i pm di Milano Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono una condanna a 3 anni e 8 mesi di reclusione per Silvio Berlusconi, imputato di frode fiscale nel processo sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset.  Il 26 ottobre 2012 l’ex premier viene condannato a 4 anni di reclusione, cinque anni di interdizione dai pubblici uffici e tre anni di interdizione dagli uffici direttivi delle imprese.

11. Pena più severa di quanto richiesto. Il presidente del collegio che condanna Berlusconi in primo grado è Edoardo D’Avossa con i giudici a latere Teresa Guadagnino e Irene Lupo). La pena è maggiore di quanto chiesto dai pm. Berlusconi commenta: «È una condanna politica, incredibile e intollerabile. È senza dubbio una sentenza politica come sono politici i tanti processi inventati a mio riguardo».

12. Il giudice Galli conferma in appello. L’8 maggio 2013, dopo quasi sei ore di camera di consiglio, i giudici della seconda Corte d’Appello di Milano, presieduti da Alessandra Galli (nella foto Brandi/Fotogramma), confermano la condanna a 4 anni di reclusione, di cui tre coperti da indulto, per Silvio Berlusconi, accusato di frode fiscale nell’ambito del processo sulla compravendita dei diritti tv Mediaset. Berlusconi parla di «persecuzione» da parte della magistratura che vuole eliminarlo dalla scena politica.

13. Esposito, la Cassazione e l’intervista contestata. Il primo agosto 2013 la Cassazione conferma la condanna a quattro anni di carcere. A leggere la sentenza sul processo Mediaset è il presidente della sezione feriale della corte di cassazione Antonio Esposito. Nei giorni successivi, il giudice Esposito finisce nella bufera per un’intervista a «Il Mattino» in cui parla della sentenza sul processo Mediaset-Berlusconi. Lo stesso magistrato farà seguire una smentita riguardo ad alcuni passaggi. In particolare, Esposito smentisce anche «di aver pronunziato, nel colloquio avuto con il cronista - rigorosamente circoscritto a temi generali e mai attinenti alla sentenza, debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato - le espressioni riportate virgolettate: “Berlusconi condannato perché sapeva non perché non poteva non sapere».

10 marzo 2015. La Corte di Cassazione assolve. Questa donna (la Boccassini) ha distrutto il Paese Ma resterà impunita. Anche un magistrato come Emiliano si indigna: "Chieda scusa". E nonostante tutto Ilda Boccassini rimarrà al suo posto come sempre, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Per La Repubblica, Berlusconi non è un innocente perseguitato ma un «colpevole salvato», come si evince dal titolo che racconta con stizza dell'assoluzione definitiva in cassazione sul caso Ruby. Il Corriere della Sera affida invece al suo segugio Luigi Ferrarella la difesa senza se e senza ma dell'operato dei pm milanesi. Un ufficio stampa della procura non avrebbe saputo fare di meglio e, ovviamente, Ferrarella tace sul fatto che lui stesso e autorevoli colleghi del suo giornale nel corso di questi anni avevano già emesso la sentenza di colpevolezza in centinaia di articoli nei quali si spacciavano per prove certe i farneticanti teoremi dell'accusa. Non sappiamo invece il commento di Ilda Boccassini, la pm che ha fatto da redattore capo di quella grande messa in scena truffaldina ed esclusivamente mediatica che è stata l'inchiesta Ruby. Una cosa però conosciamo. E cioè che la Boccassini, grazie a questa inchiesta, è stata inclusa dalla rivista statunitense Foreign Policy al 57esimo posto nella lista delle personalità che nel corso del 2011 hanno influenzato l'andamento del mondo nella politica, nell'economia, negli esteri.Non stiamo parlando di un dettaglio. Anche dall'altra parte dell'Oceano erano giunti alla conclusione che le notizie costruite dalla procura di Milano e spacciate da Corriere e Repubblica non costituivano un mero fatto giudiziario ma avevano contribuito in modo determinante a modificare giudizi sull'Italia con ricadute decisive financo sul piano internazionale. Oggi, grazie alla sentenza di Cassazione, sappiamo che si trattò di una iniziativa scellerata, completamente falsa, paragonabile a un complotto per destabilizzare un Paese sovrano. Complotto ordito da magistrati e sostenuto da complici, o almeno utili idioti, nelle redazioni dei giornali nazionali ed esteri, nelle stanze di governi stranieri e in quelle della politica di casa. A partire da quella più prestigiosa del Quirinale, allora abitata da Giorgio Napolitano. Il quale non solo non mosse un dito per fermare il linciaggio del suo primo ministro, ma, proprio sull'onda di quella destabilizzazione, ricevette in segreto banchieri, editori e imprenditori di sinistra per organizzare un controgoverno (Monti, per intenderci) nonostante quello in carica godesse ancora della piena fiducia del Parlamento. Alla luce di tutto questo, e in attesa che la Corte europea faccia giustizia di un'altra bufala giudiziaria (la condanna di Berlusconi per evasione fiscale, avvenuta grazie al trucco di assegnare la sentenza non al giudice naturale, ma a un collegio costruito ad hoc, guarda caso su sollecitazione del Corriere della Sera ), ora si pongono problemi seri che meritano risposte veloci e all'altezza di un Paese libero e democratico. Riguardano la permanenza nelle loro delicate funzioni dei responsabili e la riabilitazione politica della vittima Berlusconi. Nessuno, su questo, può permettersi di fare il pesce in barile.

Il giallo Tranfa e quei Servizi rimasti muti, scrive Giovanni Maria Jacobazzi su “Il Garantista”. Il processo Ruby non è stato un processo come tanti. Molti aspetti, oscuri, hanno connotato questa vicenda penale che ha portato alla caduta di un governo e allo sfascio di un partito. Tralasciando lo sputtanamento internazionale e il ludibrio planetario che hanno investito Silvio Berlusconi e, di riflesso, il Paese. Due, principalmente, sono gli episodi che fanno riflettere e che ad oggi non hanno avuto risposta. Episodi che riguardano proprio l’inizio e la fine dell’inchiesta. Il primo riguarda le modalità con cui sono state condotte le indagini preliminari da parte della Procura della Repubblica di Milano. Il secondo le dimissioni del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio che in appello ha assolto Silvio Berlusconi dopo la condanna in primo grado a sette anni. Per scoprire cosa accadesse la sera nella residenza di Arcore, la Procura di Milano non ha lesinato energie. Con un dispiegamento di forze senza pari in relazione ai tipo di reato perseguito, una ipotesi di prostituzione minorile e di concussione, i pubblici ministeri milanesi hanno posto in essere un numero elevatissimo di intercettazioni telefoniche. Tranne Silvio Berlusconi che, essendo parlamentare, non poteva essere intercettato, chiunque entrasse in contatto con Villa San Martino si ritrovava il telefono sotto controllo. Decine di ragazze, ma non solo, furono intercettate per mesi. Ogni loro spostamento accuratamente monitorato. Centinaia i servizi di osservazione, controllo e pedinamento come si usa dire in gergo questurile. All’epoca dei fatti, il 2009, Silvio Berlusconi era il presidente del Consiglio. Il suo uomo più fidato, Gianni Letta, sottosegretario di Stato con delega ai Servizi. Come è stato possibile effettuare una attività investigata di queste proporzioni, migliaia le intercettazioni effettuate, senza che nessuno, in maniera ovviamente riservata,  facesse arrivare il  “messaggio” all’indagato eccellente di prestare attenzione alle persone frequentate ed ai comportamenti da tenere? Nessuna indicazione dai gestori telefonici? Nessun dubbio circa questa anomala concentrazione di utenze sotto controllo proprio nella residenza privata del presidente del Consiglio, sottoposta a misure di massima sicurezza secondo la legge 801 che disciplina il segreto di Stato? Ma il rapporto anomalo con gli apparati di sicurezza è anche alla base dell’accusa più grave caduta sulla testa di Berlusconi. Quella di concussione nei confronti del capo di gabinetto della Questura di Milano. Come mai il presidente del Consiglio, residente a Milano, città dove ha il centro dei suoi interessi e dove vive la sua famiglia, non si rivolge, per motivi di opportunità e riservatezza, direttamente al Questore ma passa attraverso il suo capo di gabinetto, peraltro chiamatogli al telefono dal suo capo scorta? Essendo il Consiglio dei ministri preposto alla nomina dei questori delle città, non si può proprio dire che l’allora premier non conoscesse chi fosse al vertice della pubblica sicurezza del capoluogo lombardo. E infine le dimissioni improvvise e inaspettate del giudice Enrico Tranfa, il presidente del collegio di Appello che ha assolto Silvio Berlusconi, subito dopo il deposito delle 330 pagine delle motivazioni della sentenza. Come si ricorderà, dopo aver depositato la sentenza di assoluzione, Enrico Tranfa fece domanda per essere collocato in pensione. Poteva restare in servizio altri quindici mesi. Decise di anticipare l’uscita dalla magistratura. Campano di Ceppaloni, il paese che ha dato i natali anche a Clemente Mastella, collocabile nella corrente di Unicost, Tranfa era dal 2012 a Milano in Corte d’Appello come presidente della seconda sezione penale. Equilibrato, molto preparato, mai una parola fuori posto. Un persona mite. Nulla che potesse far prevedere una reazione del genere. Le sue dichiarazioni, a chi gli chiedeva il perché di una simile decisione, furono soltanto “è una decisione molto meditata, perché in vita mia non ho fatto niente di impulso. Tutti sono utili, nessuno è indispensabile”. Per poi aggiungere: “Il compito di un giudice non è quello di cavillare con i tecnicismi, ma prendere un fatto, valutarlo alla luce delle norme, e poi fare un atto di volontà, decidendo. Altrimenti è la giustizia di Ponzio Pilato”. Sul caso montò la contrapposta lettura politica: “Solidarietà” dal Pd e dure critiche da Forza Italia. Le dimissioni in polemica con l’assoluzione scatenarono anche le ire del presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio. “Se dettate da un personale dissenso per l’assoluzione di Silvio Berlusconi non appaiono coerenti con le regole ordinamentali e deontologiche che impongono l’assoluto riserbo sulle dinamiche della Camera di consiglio”, disse Canzio, “trattasi di un gesto clamoroso e inedito”. Se per ogni disaccordo in un collegio il magistrato dovesse dimettersi, in magistratura rimarrebbero in pochi. Ma quell’anomalia, come la prima, con ogni probabilità rimarrà senza risposta.

Processo Ruby, pool di Milano: le lettere segrete delle toghe rosse alla giudice che assolse Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Le toghe rosse di Milano si attendevano l'annullamento dell'assoluzione in secondo grado. Volevano Silvio Berlusconi di nuovo alla sbarra nel processo Ruby. Ma così non è andata. Confermata l'assoluzione. E dopo la conferma, oltre al Cav, ci sono state diverse persone che si sono levate dei sassolini dalle scarpe. Una di queste era la giudice Concetta Locurto, toga stimata e progressista, già coordinatrice milanese di Area, il cartello tra le correnti di sinistra di Magistratura Democratica. Una, insomma, che aveva il "pedegree" giusto per condannare Berlusconi in secondo grado. Già, perché la Locurto la scorsa estate era la relatrice della sentenza di assoluzione del Cav nel processo Ruby. L'assoluzione scatenò un vespaio di polemiche in magistratura, culminate con le dimissioni del suo collega e presidente del collegio, Enrico Tranfa, che con il passo indietro volle dissociarsi da un verdetto che non condivideva. La Locurto, al tempo, non volle commentare. E non ha voluto commentare neppure dopo la conferma dell'assoluzione che, nei fatti, ha confermato la bontà del suo operato. E il silenzio le deve essere costato, perché come spiega il Corriere della Sera la toga che ha assolto Berlusconi ha vissuto mesi da incubo, tra "attacchi e implicite insinuazioni di cosa di oscuro potesse essere accaduto attorno al processo" per spingere Tranfa alle dimissioni. Ha taciuto, la Tranfa. Almeno in pubblico. Già, perché secondo quanto scrive sempre il Corsera, la toga avrebbe scritto una piccola lettera ai colleghi (agli stessi colleghi che nei mesi precedenti tempestavano la sua email parlando di "torsione del diritto"). Il Corsera ha provato a chiederle del contenuto della lettera, ma la Tranfa, fedele alla sua riservatezza, ha scelto di non parlare. Eppure qualcosa è emerso. Nonostante il rifiuto della giudice, è stato ricostruito quanto abbia detto interpellando i destinatari della missiva. La Tranfa non giudicava la bontà della sentenza, ma metteva in guardia dai rischi di "una malevola dietrologia faziosa", del "pregiudizio", dei "pensieri in libertà da chiacchiera da bar" della quale è stata vittima per mesi per aver fatto il suo lavoro, che nella fattispecie prevedeva di assolvere Berlusconi. La Tranfa avrebbe scritto dei "magistrati che giudicano senza conoscere, finendo - proprio loro - per partecipare al tiro al piccione senza alcun rispetto per l'Istituzione e le persone". E il piccione, in quel momento, era proprio lei. E il "piccione", ora, si toglie le sue soddisfazioni. Nella missiva avrebbe aggiunto l'invito ai colleghi ad "andarsi a rileggere i provvedimenti redatti nel corso dell'intera carriera, piccoli o grandi che fossero, per avere certezza dell'identità di metro di valutazione utilizzato indifferentemente per extracomunitari e potenti". Quel metro di giudizio imparziale che però, i colleghi, le rimproverano: se c'è il Cav alla sbarra deve essere condannato.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: logica da pm. Se Silvio Berlusconi conosce Noemi Letizia, è colpevole. La Cassazione doveva confermare o non confermare l’assoluzione di Silvio Berlusconi (caso Ruby) per concussione e prostituzione: dopodiché, lo schema era il solito. La Corte che si riunisce nel primo pomeriggio, i giornalisti italiani e stranieri che ciacolano, la consueta assicurazione che la sentenza arriverà «in serata» e che perciò potranno scriverne, hurrà. Ma forse i giudici non erano aggiornati: non sapevano che i quotidiani hanno le chiusure sempre più anticipate, mannaggia: come possono non tener conto delle sacre esigenze mediatiche? Come possono aver saltato i telegiornali della sera? I giudici (presidente Nicola Milo, consiglieri Giorgio Fidelbo, Stefano Mogini e Gaetano De Amicis) dovevano prendere esempio dal procuratore generale Eduardo Scardaccione, che nel pomeriggio aveva esposto una requisitoria mediaticamente perfetta. Niente di strano che abbia chiesto di annullare - con rinvio in Appello - l’assoluzione di Berlusconi per entrambi i reati: è ciò che ci si attendeva da lui, un’apologia di quel processo che in primo grado aveva condannato il Cav a sette anni. Mentre invece le assoluzioni di luglio scorso - pochi mesi fa: la giustizia italiana sa essere velocissima - secondo Scardaccione andavano polverizzate: altro che «il fatto non sussiste» (concussione) e «il fatto non costituisce reato» (prostituzione minorile). Sin qui tutto normale. Ma sono altri argomenti che ha adottato - poi - a farci pensare ancora una volta che taccuini e telecamere andrebbero tenuti lontani dai palazzi di giustizia. Scardaccione ha detto che le accuse sono «pienamente provate» (vabbeh) e che la Corte d’appello non doveva riaprire il processo bensì rideterminare la pena di primo grado: e ci sta anche questo. Poi lo show: «L’episodio nel quale Berlusconi racconta che Ruby è la nipote di Mubarak è degno di un film di Mel Brooks e tutto il mondo ci ha riso dietro». Uhm. Purtroppo «il mondo» non ha testimoniato a processo. E neppure Mel Brooks. A ogni modo il procuratore Scardaccione ha proseguito spiegando che la concussione c’è stata, anzi «c’è stata una violenza irresistibile» per ottenerla. Lo proverebbe il fatto che dal momento in cui ha ricevuto la telefonata di intervento da Berlusconi il capo di gabinetto della Questura di Milano «non capisce più nulla e fa ben 14 telefonate: c’è spazio per ritenere che la pressione fosse resistibile?... No... L’intervento ha avuto una potenza di fuoco tale da annullare le scelte autonome del funzionario». Par di capire che qualsiasi telefonata di Berlusconi in quel periodo - essendo lui premier ed essendo Berlusconi - avesse una potenziale valenza concussoria: chiunque ne riceveva una andava praticamente in palla e veniva annullato nella volontà, una forma di ipnosi. Il procuratore generale non ha contemplato che i dirigenti della Questura fossero banalmente eccitati all’idea di poter fare un favore al presidente del Consiglio: cosa che avrebbe avuto una valenza più che ambigua se solo avessero fatto qualcosa che non dovevano fare. Ma ciò che fecero (identificazione di Ruby, foto segnalazione e ricerca di una comunità per l’affido) corrispondeva alla prassi in vigore. Ma secondo Scardaccione no, c’è stata «una violenza grave, perdurante e irresistibile anche a margine della consegna di Ruby a Nicole Minetti». Il dettaglio è che l’idea di consegnare Ruby alla Minetti non fu un’idea di Berlusconi bensì una soluzione escogitata in questura. Ma - possiamo dirlo? - ci sta anche questo. È passando al reato di prostituzione minorile che si giunge all’incredibile: perché Scardaccione ha tirato in ballo Noemi Letizia, una ragazza che non c’entra un accidente - mai tirata in ballo in nessun processo, in nessun modo - perché la circostanza che Noemi e Ruby fossero due minorenni «non è una coincidenza» e rende «non credibile» che Berlusconi non sapesse della minore età di Ruby. Scardaccione ha ricordato quanto aveva detto Ruby in un’intercettazione: «Noemi è la sua pupilla e io il suo culo». Cioè: il fatto che due amici di Berlusconi avessero una figlia minorenne non poteva essere un caso. E chissà - aggiungiamo noi - quanti milioni di elettori di Forza Italia, negli ultimi vent’anni, hanno avuto figlie minori. Insomma: se Berlusconi sapeva che la figlia di due suoi amici era minorenne, beh, doveva sapere anche l’età di tutta la carovana di signorine che la sera gli portavano a casa con la carriola. Pagandole, certo: perché Franco Coppi, l’avvocato di Berlusconi, ieri non l’ha negato: «La sentenza d’appello ammetteva che ad Arcore avvenivano fatti di prostituzione, cosa che non contestiamo nemmeno noi difensori: ma manca, in fatto, la prova che Berlusconi prima del 27 maggio sapesse che Ruby era minorenne». Sempre che i processi si facciano ancora con le prove.

Il caso Ruby c’è costato mezzo milione. Per i pm le spese ammontano a 65mila euro, ma facendo altri calcoli si sfiorano i 600mila, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Quanto è costata l'inchiesta Ruby alle casse dello Stato? La classica domanda da un milione di dollari ha una doppia risposta. La versione minimalista, accreditata dai conti della Procura della Repubblica di Milano contenuti nel faldone 33 del procedimento, parla di appena 65mila euro così suddivisi: in sei mesi sono stati pagati 26mila euro per le intercettazioni e 39mila euro per trascrizioni di interrogatori, traduzioni dall’arabo, per il noleggio auto, la più costosa delle quali - una Golf - è stata pagata 4mila euro, e per l’acquisto di registratori digitali. Pochi spiccioli anche per le trasferte dei poliziotti in alcuni hotel di Rimini: poco meno di 200 euro per tre diversi viaggi. Insomma, per questa scuola di pensiero il procedimento penale del pm Ilda Boccassini non ha prosciugato le casse del ministero della Giustizia ma si è mantenuto addirittura al di sotto dello standard della Direzione distrettuale antimafia. Questione risolta, allora? Mica tanto perché a questa immagine light dell'inchiesta se ne contrappone una più approfondita che zavorra con almeno uno zero la cifra iniziale portandola a oltre mezzo milione di euro. Ci sono alcuni costi che, nel computo del pubblico ministero, non vengono infatti elaborati. Sarà sicuramente una distrazione, ma bisogna fare chiarezza. Stiamo parlando dei cosiddetti costi fissi che riguardano l'utilizzo della polizia giudiziaria per condurre un'indagine fatta a pezzi dalla Corte d'appello e dalla Cassazione dopo una prima condanna a sette anni nei confronti di Silvio Berlusconi. Un'indagine fondata su due capi di imputazione che tecnicamente non hanno retto al vaglio delle toghe. Perché è vero che un poliziotto o un carabiniere viene ugualmente stipendiato dallo Stato (e ci mancherebbe) ma c'è un particolare di cui non tutti si ricordano: il poliziotto o il carabiniere in questione avrebbe potuto essere impiegato su un altro versante giudiziario, magari più interessante e utile. E questo - dal punto di vista aziendalistico - è un costo che non può essere omesso se si vuole davvero fare una descrizione esatta del valore contabile del fascicolo Ruby. Dare per scontate queste voci di costo è un errore. Così come è un errore non calcolare il noleggio dell'apparecchiatura utilizzata per geolocalizzare i cellulari che hanno agganciato la cella di Arcore alla ricerca delle utenze delle partecipanti alle "cene eleganti". Un'attrezzatura che, secondo quanto risulta a Il Tempo costa in media 1000 euro al giorno: è probabile che fosse già in dotazione agli uomini del Servizio centrale operativo cui sono state delegate le attività investigative, ma il suo utilizzo, in termini economici, dev'essere adeguatamente riportato nello schema della Procura. I "target" di intercettazioni e acquisizioni di traffico telefonico e di tabulati sono stati circa trenta per oltre 115mila conversazioni monitorate. Nell'intera operazione è presumibile che siano stati impegnati oltre cento poliziotti che, per la durata delle indagini, sono stati distolti da altri fascicoli, ovviamente. Non sbirri qualunque, ma uomini dello Sco, l'organo investigativo di punta del Viminale che solitamente dà la caccia a mafiosi, narcotrafficanti e serial killer. Per dire: i due superlatitanti del clan dei Casalesi, Antonio Iovine e Michele Zagaria, sono stati presi anche con la collaborazione del Servizio centrale. Che, nel caso in esame, è stato invece sguinzagliato sulle tracce delle olgettine e del ragionieri Spinelli, lauto pagatore ufficiale del Cav. Anche i loro stipendi, anche i loro straordinari, anche i loro ticket sono dei costi a carico dello Stato (e quindi dei cittadini) che devono essere inseriti nel bilancio Ruby. Alla fine, calcoli alla mano, l'indagine di "Ilda la rossa" tra costi fissi (quelli appena descritti, che riguardano l'intera struttura) e costi variabili (i famosi 65mila euro, che dipendono appunto dalle necessità investigative del momento) ha gravato sulle casse dello Stato per circa 600mila euro. È una stima prudenziale ma che ha un suo fondamento considerato che un poliziotto viene pagato in media 100 euro lordi al giorno. Qualcuno ci aggiungerebbe anche i costi dei processi (stipendi dei giudici, dei cancellieri, del personale amministrativo, fotocopie) ma entriamo nel fantastico mondo delle ipotesi e allora tutte le ricostruzioni sono possibili.

Signori del Csm, quell’inchiesta è senza ombre? Scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista. Sono politici, non morali, i motivi per cui è andato in onda per cinque anni il Pornofilm del Bungabunga che ha messo nel tritacarne un presidente del Consiglio, preso a picconate il suo partito, distrutto la sua reputazione nel mondo, insieme alla sua immagine personale e i suoi affetti. Tutto nasce non tanto dal fermo, in una serata di maggio del 2010, di una giovane marocchina. Né dalla successiva telefonata di Berlusconi alla questura di Milano. Casomai dall’uso che dell’episodio venne fatto dalla Procura della Repubblica più famosa e discussa d’Italia. E’ negli uffici del quarto piano del palazzo di giustizia di Milano, già allenati dalla caccia al cinghialone ai tempi di Craxi e di Tangentopoli, che parte la crociata di stampo talebano che prende di mira il presidente del Consiglio per i suoi costumi sessuali. Ma il Pornofilm è solo l’involucro, un uovo di pasqua con sorpresa. La sorpresa è tutta politica. Se il Consiglio superiore della magistratura volesse occuparsene, potrebbe rilevare parecchie anomalie, dentro quell’uovo. Prima cosa: Ruby viene fermata e rilasciata in una notte di fine maggio. Che cosa è successo tra quella data e quella in cui Silvio Berlusconi viene iscritto nel registro degli indagati (21 dicembre 2010) e in seguito raggiunto da un invito a comparire (14 gennaio 2011)? Succede che Ruby viene ripetutamente interrogata, una serie di persone che frequentavano la casa di Arcore viene monitorata e intercettata e si tende la tela del ragno che deve catturare la preda. Che la preda sia un Arcinemico di certa magistratura e certi Pubblici ministeri non è un segreto. Che dalle parti di Milano si usino metodi disinvolti sulle competenze territoriali (un presidente del Consiglio non dovrebbe essere giudicato dal Tribunale dei ministri?) è cosa altrettanto nota. Ma quel che succede a Milano è qualcosa di ben più mostruoso: per sette-otto mesi vengono fatte indagini su un contesto che ha al centro una persona che non è indagata, vengono disposte intercettazioni a persone che parlano al telefono con un parlamentare senza che sia chiesta, come prescrive la legge, l’autorizzazione alla Camera di appartenenza. Nei fatti si indaga su una persona in violazione delle normali procedure di legge. A nulla valgono le proteste degli avvocati, le interrogazioni parlamentari del deputato di Forza Italia Giorgio Stracquadanio, la curiosità che comincia a serpeggiare nella stampa italiana e anche straniera. La Procura di Milano tira dritto. Apparentemente arrogandosi il diritto di moralizzare i costumi altrui, in realtà con obiettivi ben più ambiziosi. Ma un’altra anomalia esplode clamorosa a un certo punto, la rissa da cortile tra il procuratore capo Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo sulle competenze tematiche e le assegnazioni delle inchieste. Perché le indagini su Berlusconi e il “caso Ruby” vengono assegnate a Ilda Boccassini, titolare delle inchieste sulla mafia e non a Robledo che si occupa di Pubblica Amministrazione? Berlusconi non è forse accusato di aver abusato del suo potere di presidente del Consiglio, con quella famosa telefonata in questura che gli costerà la condanna in primo grado per concussione? Questo aspetto della vicenda giace nelle scartoffie (nei fatti archiviate) del Csm sulla querelle Bruti-Robledo, che nessuno pare avere la curiosità di esaminare più. Sarebbe bene, invece, che l’organo di autogoverno di Pm e  giudici riaprisse gli occhi, su questo punto, e si chiedesse “perché” fosse così importante quella sostituzione di Robledo con Boccassini in un’inchiesta dal sapore squisitamente politico. Questo è il succo della vicenda: forzature e anomalie per il raggiungimento di uno scopo. Addirittura il procuratore generale di Milano, pur di fare il ricorso in Cassazione, si è appellato a questioni di merito, trascurando il fatto che il terzo grado di giudizio può riguardare solo questioni di legittimità. Un’altra delle anomalie “lombarde”, che la Cassazione avrebbe dovuto rilevare subito, rigettando il ricorso in dieci minuti. Nove ore di discussione sono un bel tributo alle tricoteuses di tutta Italia. In ogni caso,tutto il resto è contorno, il Pornofilm, il Bungabunga, sparsi a piene pani tramite un ventilatore in funzione permanente con lo scopo dello Sputtanamento. Oggi, con Berlusconi che porta a casa con una certa velocità (quattro anni per tre gradi di giudizio sono un’altra, piacevole, anomalia) l’assoluzione piena da due reati infamanti, resta il reato di Sputtanamento ancora vivo e vegeto nelle immagini del Pornofilm, tanto che gli avvocati sono stati costretti a dire (un po’ andando di fantasia) che, in fondo si, forse un po’ di prostituzione ad Arcore c’è stata, per rafforzare la realtà dei fatti sulla non conoscenza dell’età di una quasi-diciottenne che dimostrava, a detta di tutti, almeno venticinque anni. E che probabilmente era più una mantenuta che una prostituta. Anche in questo il processo Ruby è stato speciale. Ma non può finire qui. Il Csm ci deve spiegare se tutte queste violazioni sono consentite, se anche il nuovo corso “renziano” ha intenzione di chiudere gli occhi, come già si fece 20 anni fa con Tangentopoli, su questi metodi machiavellici, per cui la finalità politica può fare a pezzi le regole dello Stato di diritto e prevale sempre la filosofia del “tipo d’autore” (individuo la tipologia del colpevole, poi colpisco la persona), per cui la responsabilità penale non è più personale ma esplicitamente politica. Alla faccia dell’obbligatorietà dell’azione penale.

«Cittadini impotenti davanti ai magistrati», scrive Daniel Rustici su “Il Garantista”. «Il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. Il Csm dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti dei magistrati che commettono gravi errori». Chi parla è uno dei giudici più intransigenti e celebri per le sue feroci polemiche contro pezzi del mondo politico, e a difesa della magistratura: Antonio Ingroia. In un’intervista al nostro giornale ha detto che bisogna difendere i cittadini che talvolta sono troppo deboli di fronte ai magistrati e ai loro eventuali errori. Ha parlato anche di carcerazione preventiva, e ha detto che «in un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione della pena prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizio».

Ingroia, stanno facendo molto rumore le sue dichiarazioni sulla responsabilità civile dei giudici. Ha parlato di cittadini «impotenti» davanti al potere della magistratura. Detto da un’ex toga…

«Voglio precisare prima di tutto che sono contrario alla responsabilità civile dei magistrati. Penso invece che per garantire i diritti dei cittadini bisognerebbe che il Csm cominci a fare sul serio il suo lavoro che fino ad oggi ha svolto, per usare un eufemismo, in modo deficitario. Sono stati puniti solo i magistrati fuori dal coro, mai quelli che hanno sbagliato nell’esercizio della professione. Il caso più emblematico è quello del processo Tortora dove i giudici di uno dei più clamorosi casi di malagiustizia hanno fatto carriera. La verità è che all’interno della magistratura troppo spesso si va avanti sulla base dell’appartenenza a questa o a quella corrente piuttosto che grazie al merito».

Cosa non la convince del disegno di legge del governo sulla punibilità dei giudici?

«La responsabilità civile non è uno strumento idoneo per difendere i cittadini. In primo luogo non lo è perché può portare il magistrato ad assumere una posizione di soggezione davanti all’imputato, specie se questo è ricco e potente. E non lo è perché moltiplicherebbe il lavoro nei tribunali e quindi, dilatando ancora di più i mostruosi tempi della nostra giustizia, paradossalmente andrebbe contro gli interessi degli imputati stessi. Lo ripeto, il vero problema è il Csm che dovrebbe essere meno indulgente e ”perdonista” nei confronti di chi commette gravi errori».

Sparare sul Consiglio nazionale della magistratura ora che ha smesso i panni di pm,non è troppo facile?

«Queste cose le ho sempre dette. Qualcuno potrebbe anche dire che parli male del Csm per come sono stato tratto io, per le parole contro le mie partecipazioni a manifestazioni pubbliche. Allora non parliamo di me, ma di un altro magistrato: Di Matteo. Perchè il Csm ostacola la sua nomina alla Procura nazionale antimafia e favorisce invece personaggi obiettivamente con meno competenze in materia?»

Perché?

«La risposta è semplice: ci si muove in base a logiche burocratiche e correntistiche invece che di sostanza».

Faceva prima riferimento alle sue contestate partecipazioni a manifestazioni politiche quando era ancora magistrato. È una scelta che rivendica?

«Sì. Mi è capitato di fare il pm nella stagione sbagliata. Trent’anni fa nessuno si scandalizzava se Terranova partecipava ai convegni del Pci e negli anni 70 nessuno si sognava di mettere in discussione la professionalità di Borsellino perché andava a parlare di giustizia nei consessi del Movimento sociale italiano. Resto convinto che un magistrato vada giudicato per quello che fa nell’orario di lavoro e che abbia tutto il diritto di esprimere le proprie opinioni. Io però sono stato subissato da attacchi, sia da parte del mondo politico sia dalla magistratura stessa…»

Nelle scorse settimane si è molto discusso delle ferie dei giudici. Ha ragione Renzi a volerle tagliare?

«Penso si tratti di un falso problema. Effettivamente 45 giorni sono tanti ma io, ad esempio, non ho mai goduto dell’intero periodo di ferie e come me la maggior parte dei giudici. Sostenere che la lentezza della giustizia italiana dipenda dalle toghe fannullone è solo un modo di trovare un capro espiatorio».

Quali sono invece le ragioni di questa lentezza e come si può intervenire per accelerare i tempi dei processi?

«Credo sia arrivata l’ora di mettere in discussione l’esistenza del processo d’appello. Con un grado secco di giudizio e un unico processo che decreti l’innocenza o la colpevolezza di un imputato si risparmierebbero un sacco di soldi e di energie. Ritengo poi necessario mettere fine alla corsa alla prescrizione, limitando l’abuso di questo strumento».

A proposito di abusi, cosa pensa dell’uso molto disinvolto della carcerazione preventiva che spesso viene fatto dai giudici?

«In un Paese in cui i tempi per arrivare a una sentenza definitiva sono così lunghi, è facile che si arrivi ad utilizzare la carcerazione preventiva come una sorta di anticipazione di quella prevista in caso di condanna dopo i tre gradi di giudizi».

Sì, ma è incostituzionale: esiste la presunzione d’innocenza.

«Certo nessuno vuole mettere in discussione la sacralità della presunzione d’innocenza ma ribadisco, finché i tempi della giustizia saranno questi credo che la carcerazione preventiva verrà ancora usata con questa  frequenza».

Ora che esercita la professione di avvocato, come è cambiata la sua prospettiva sul mondo giudiziario?

«Cambiando osservatorio, sono rimasto delle mie opinioni: viviamo in un Paese profondamente ingiusto perché indulgente con i potenti e forte con i deboli».

Cosa significa per lei la parola ” garantismo”?

«Garantismo significa dare la garanzia a tutti i cittadini di un processo giusto e assicurare il diritto di difesa. Chi vede il garantismo come un modo per disarmare i pm però sbaglia. Essere garantisti significa anche fare in modo che la legge sia davvero uguale per tutti e permettere di punire chi ha sbagliato».

Ha dichiarato di essere pronto a tornare in politica e di guardare con attenzione a Landini. Pensa si aprirà davvero un nuovo spazio politico a sinistra del Pd?

«Credo che il nostro Paese abbia bisogno che emerga una nuova soggettività politica progressista, popolare e di sinistra. Mi sento politicamente vicino a Landini e Rodotà, e sono pronto a dare il mio contributo per la costruzione di una coalizione sociale per l’equità, la lotta alla criminalità organizzata e ai reati dei colletti bianchi».

Ok, basta coi professionisti dell’Antimafia. Ma adesso chi combatterà le mafie? E’ la domanda che si pone Gaetano Savatteri su “Gli Stati Generali”. L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile. Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”. Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati? L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia? La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole. Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia. Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti?  E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza? Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione. Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa. La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici,  imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov. In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti.  La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?

Imprenditori e giornalisti cantori dell’antimafia, non ci mancherete per niente. Abbiamo letto su queste colonne l’annuncio della morte dell’antimafia. Un annuncio articolato. Esteso, ragionato, scrive Salvatore Falzone su “Gli Stati Generali”. Forse però vale la pena allungare il necrologio, non foss’altro che per rispetto del de cuius e delle sue gesta. Il decesso, diciamocelo, è stato causato da colpi di toga. Ancora una volta, purtroppo. Perché se non spuntano i primi fascicoli con l’intestazione “Procura della Repubblica”, nel Belpaese tutto è lecito e tutto va bene. Prima di leggere paroline come “arresto”, “tangente”, “indagine”, “pentiti”, nessuno s’interroga, nessuno ha dubbi. Succede così che da qualche anno a questa parte un’antimafia che non è antimafia ha messo le mani sulla città, per dirla con Rosi, per fare affari e costruire carriere. Nel nome della legalità, s’intende, e con l’avallo di una torma di pensatori, magistrati, prefetti, questori e alti ufficiali che non hanno fatto altro che alimentare una colossale bugia (Giovanbattista Tona, consigliere della Corte d’Appello di Caltanissetta: “Come il mafioso di paese otteneva rispetto perché passeggiava col sindaco, col parroco, col maresciallo e col barbiere, l’antimafioso 2.0 può esercitare potere su tutto sol perché in confidenza con ministri, magistrati e autorità”. Giuseppe Pignatone, capo della Procura di Roma: “Bisogna fare l’esame di coscienza: non è che tra magistrati e forze dell’ordine ci sono soltanto santi, eroi e martiri. Ci sono, come in tutte le categorie, persone per bene e persone meno perbene”). C’era bisogno di scoprire Helg con la mazzetta in mano? Dovevamo leggere Bolzoni su Repubblica – che ha dato notizia di un’inchiesta per mafia a carico del presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante – per accorgerci che dalle parti di Caltanissetta l’antimafia ha i pennacchi impastati di gel? E’ mai possibile che quel “cretino” del professor Laurana continua a morire in una zolfara abbandonata, “sotto grave mora di rosticci”, senza sapere ciò che tutti sanno? Già, perché tutti sanno, e tutti sapevano. Ecco perché la meraviglia e il disorientamento del giorno dopo sono espressioni vuote, bianche come quelle di certe statue. La Sicilia è un salone da barba. E anche Roma lo è. E pure Milano. Mentre in questi anni si firmavano protocolli ai tavoli delle prefetture, mentre si stilavano codici etici, mentre procuratori generali inauguravano l’anno giudiziario magnificando le imprese dei nuovi paladini dell’antimafia, dal barbiere si sussurrava e si rideva. Si rideva (con gli occhi) e si facevano smorfie (con la bocca). Ora ci si chiede se, dopo le scosse telluriche delle ultime settimane, possa esserci ancora un’antimafia. E perché no? Un’antimafia ci sarà. Ma non questa. Non questa che ha mandato in solluchero, da nord a sud, cronisti e narratori, i “cuntastorie – come ha scritto Sergio Scandura su Gli Stati Generali – dello storytelling epopea che danno voce ai Pupi: ora con la prodezza, la tenacia e l’enfasi di battaglia, ora con l’incanto-disincanto e la passione della bella Angelica di carolingia memoria”. Sì, ci sarà un’altra antimafia. Anzi, c’è già. C’è sempre stata da quando esiste la mafia. Silenziosa, non remunerativa. E’ l’antimafia del proprio dovere quotidiano, che non fa regali, che non compra e che non paga. Un siciliano illuminato, Cataldo Naro, l’arcivescovo di Monreale scomparso nel 2006, parlava di legalità e santità nelle parrocchie tra Partinico e Corleone. A proposito di Chiesa e mafia, diceva che il cristiano non può non vivere secondo il Vangelo, e che il Vangelo è di per sé incompatibile con la mafia: il discorso vale per tutti, spiegava il presule, per il carabiniere, per il politico, per il professore, per il bidello, per il magistrato, per la guardia municipale… Ma lasciamo stare i santi e torniamo ai diavoli. Adesso che succede, adesso che l’antimafia in ghingheri traballa e che non ci sono ammortizzatori che tengono? Il tema non è “il veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia”, né l’esistenza o meno di una “manovra di delegittimazione” ai danni del leader degli industriali siciliani. E neppure i progetti delle scuole, le navi della legalità che attraccano a Palermo in un’esplosione di cappellini o altre simpatiche pagliacciate. Il tema è molto più – come dire? – terra terra: ed è quello del proverbio “predicare bene e razzolare male”. Il tema è la trasparenza delle azioni di chi afferma di combattere il malaffare. E’ la concretezza – oltre che la qualità – dell’impegno sul fronte della legalità (parola che Michele Costa, il figlio del procuratore di Palermo ucciso nel 1980, propone giustamente di abolire). Da questo punto di vista non c’è bisogno di attendere misure cautelari o sentenze definitive per mettere in discussione l’operato non dei “professionisti” (lasciamolo in pace il maestro di Racalmuto) ma degli “imprenditori dell’antimafia”: etichetta, quest’ultima, che ben si attacca alle giacchette dei nostri eroi. Perché debbono scriverla i giudici la storia di questa ennesima truffa? La scrivano gli artisti, se ce ne sono ancora. O gli intellettuali, ma non quelli “col senno del poi”. La raccontino le inchieste dei giornalisti e degli scrittori che non prendono soldi, i registi di cinema e di teatro… Materiale ce n’è in abbondanza. Certo per raccoglierlo bisogna superare lo Stretto, penetrare nell’entroterra incontaminato, fra colline che d’inverno sono così verdi che sembra di stare in Irlanda, e fare un salto nella “Piccola Atene”, la Caltanissetta dove la leggenda vuole che a metà degli anni duemila sia nata la rivoluzione degli imprenditori (che qualcuno, con parole misurate, ha definito copernicana). Ma va detto che nella Caltanissetta delle mitologie c’è stato pure chi in questi anni ha lavorato sul serio resistendo alle bordate sia dalla mafia che dall’antimafia. Il pm Stefano Luciani, in una requisitoria a conclusione di un processo in cui la Procura riteneva di avere scoperto estorsioni non denunciate dagli imprenditori e accordi tra imprenditori e mafiosi proprio in terra nissena, aveva evidenziato che ancora si aspettava l’effetto dell’impegno di Confindustria sul comportamento della categoria. Era il 23 gennaio 2012. Bè, dopo pochi giorni il giornalista Filippo Astone scriveva un pezzo intitolato “Le incredibili dichiarazioni del pm nisseno Stefano Luciani”: l’accusa era che il magistrato, non riconoscendo i meriti degli imprenditori antimafia, non si rendeva conto di aiutare oggettivamente la mafia. Dunque l’antimafia è morta? Macché. Se l’antimafia è quella di Helg e di Montante possiamo stracciare il necrologio e stappare champagne. Perché non è morta l’antimafia. Ma un sistema di potere che ha occupato tutti gli spazi (non morali), che controlla ogni angolo del territorio, che dai tempi di Raffaele Lombardo gestisce nell’Isola il potente assessorato alle Attività Produttive, che tiene in pugno giornali e giornalisti: l’ordine di Sicilia ha aperto un’inchiesta sui finanziamenti elargiti dalla Camera di Commercio di Caltanissetta, di cui Montante è presidente, a testate e pubblicisti. “Potrà dunque esserci un’antimafia?” Sì. “Chi dovrà stabilire nel futuro prossimo la genuinità dei comportamenti antimafia?”. Non certo questi signori. Gaetano Savatteri, sempre su Gli Stati Generali, si è chiesto chi potrà credere ancora all’antimafia… Ma la domanda va forse ribaltata: chi ci ha mai creduto a questa antimafia? E se qualcuno ci ha creduto, perché?

Detto questo sembra evidente che si abbisogna di una legge di tutela per i cittadini contro i magistrati che delinquono indisturbati.

Invece...

CONCLUSIONI.

Gli errori fatti dai giudici? Ecco quanto ci sono già costati, scrive Franco Bechis, su “Libero Quotidiano”. È una piccola città, composta da 22.689 cittadini italiani censiti al 24 settembre 2014. E in questo momento assai vicina alle 24 mila persone. Sono i perseguitati dalla giustizia italiana, cittadini mandati dietro alle sbarre senza motivo dal 1992 ad oggi. Errori dei pubblici ministeri, che hanno fatto scattare le manette ai loro polsi prendendo un abbaglio. Non un errore casuale: una città. Probabilmente le vittime della giustizia sono ancora di più, perché il tristissimo elenco numerico è compilato dal ministero dell’Economia: i ventiquattromila sono quelli che dopo avere subito l’ingiusta detenzione non si sono limitati ad accettare le scuse, ma hanno avuto la possibilità di pagarsi un avvocato, fare ricorso e ottenere un risarcimento. Per questo il loro elenco è conservato da Pier Carlo Padoan e non dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando: le casse dello Stato hanno dovuto pagare loro, per l’errore e spesso la sciatteria dei magistrati, la bellezza di 567 milioni di euro dal 1992 ad oggi. Ogni anno c’è un migliaio di casi così, qualche volta anche il doppio. E il Tesoro è costretto a sborsare 20, 30, 40 perfino 55 milioni di euro l’anno per mettere una toppa ai guai combinati da magistrati faciloni: è diventato un problema di finanza pubblica. Questo conto è assai salato perché lo è il risarcimento a chi è stato in carcere ingiustamente anche solo in custodia cautelare. Ma sale per le casse dello Stato accompagnato dai risarcimenti per la legge Pinto sulla ingiusta durata dei processi, dalle condanne continuamente ricevute dall’Unione europea per lo stesso motivo e per l’incredibile ritardo con cui vengono pagati anche quei risarcimenti alle vittime della mala giustizia. Oltre a quella piccola città - evidenziata nella tabella qui in pagina - c’è anche un’altra cifra che fa tremare le vene ai polsi: 30,6 milioni di euro che lo Stato ha dovuto pagare negli stessi anni a 100 vittime di errori giudiziari: casi in cui non solo hanno sbagliato pm, gip, tribunali del riesame, ma anche le corti di primo e secondo grado e perfino la Cassazione. Sentenze divenute definitive, e poi un nuovo evento, magari una confessione improvvisa, svelano che il colpevole era invece innocente. I risarcimenti dipendono dai mesi o anni di carcere ingiusto patito, ma queste come le altre cifre sono la vera vergogna della giustizia italiana. Casi che sembravano negli anni scorsi per lo meno ridursi, e che invece nell’ultimo biennio sono tornati a lievitare. In tutto il 2013 erano 24,9 milioni i risarcimenti pagati per ingiusta detenzione. In otto mesi e mezzo dell’anno successivo si era già a 22,2 milioni di euro, e probabilmente l’anno si è chiuso sopra i 29 milioni di euro. Da fonti ufficiose abbiamo appreso che la stessa voce al 30 luglio 2015 era già arrivata a 20,9 milioni di euro di risarcimenti pagati. Con quel trend quest’anno si chiuderà intorno ai 35 milioni di euro. Al ministero custodiscono gelosamente la divisione per uffici giudiziari di questi casi. Ma da fonti attendibili abbiamo saputo che ai vertici della classifica si trovavano procure ben note alle cronache giudiziarie. I risarcimenti avvengono normalmente 4-5 anni dopo gli errori, e fino al 2013 ai primi posti di questa classifica del disonore c’erano gli uffici giudiziari di Potenza, poi soppiantati nel 2014 e soprattutto nel 2015 dagli uffici giudiziari di Napoli. Chissà se è l’effetto del passaggio da una procura all’altra di un pm protagonista di indagini che hanno fatto molto discutere (e portato a scarsi risultati processuali) come John Henry Woodcock. Ma il dato numerico è proprio quello. Nella tabella del ministero esiste una voce in uscita, ma non una in entrata. Chi ha compiuto quegli errori giudiziari non paga un centesimo di quello che lo Stato deve versare. Spesso non paga nemmeno sotto il profilo disciplinare, nonostante la legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Il fatto è che quasi sempre questi incredibili casi vengono trattati nascondendo la polvere sotto classico tappeto di casa. I magistrati sbagliano, ma non pagano. A settembre proprio questo sarà uno dei temi principali da affrontare sulla giustizia. Il Nuovo Centrodestra ha depositato alcuni emendamenti a un disegno di legge governativo che rendono obbligatoria l’azione disciplinare nei confronti di qualsiasi magistrato abbia causato un risarcimento per ingiusta detenzione o un errore giudiziario. Il Pd sta facendo resistenza, a difesa della corporazione dei magistrati e fregandosene di quella città di vittime della giustizia. Ma la battaglia è all’inizio.

COME TI GABBO IL POPOLINO. RIFORMA FARLOCCA DELLA DISCIPLINA SULLA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI MAGISTRATI.

Un passo avanti nel nulla. Però, più del nulla assoluto di Silvio Berlusconi, che ci ha messo 20 anni per non metterci mano. Renzi ed il partito dei giudici, invece, ci mettono mano e gridano alla riforma per trasformare il niente. Non è stata nemmeno l’incompetenza giuridica del Ministro della Giustizia, che per altro non è nemmeno laureato, a partorire una nefandezza del genere, ma solo la voglia di far apparire importante una cosa inconsistente. La riforma di facciata attinente una legge esistente che a dire del viceministro alla Giustizia Enrico Costa “ha portato a risarcimento un numero di cause bassissimo, stimato tra 4 e 7, non di più". Per darvi un'idea: tra 1988 e 2014 tale è stata la fiducia degli italiani nella Legge Vassalli che sono state presentate in tutto 410 domande, davvero poche. Quelle ritenute "ammissibili" sono state appena 35, nemmeno una su dieci, e di queste soltanto sette alla fine sono state accolte (per l'esattezza 2 a Perugia e una a testa a Brescia, Caltanissetta, Messina, Roma, Trento). E tale numero rimane agli annali. I magistrati sghignazzano divertiti dietro un’apparente disappunto. Tutto ciò si denota dalle blande contestazioni, che nascondono una malcelata soddisfazione dell’ennesima vittoria delle toghe. Sul punto è abbastanza d’accordo Giuseppe Di Federico, uno dei primi giuristi italiani (è docente emerito di diritto penale a Bologna ed ex membro del Csm), che nel 1987 fu tra i promotori del vittorioso referendum radicale sulla responsabilità civile, poi rintuzzato dalla Legge Vassalli. "Non mi attendo uno tsunami di ricorsi" dice a Panorama.it "perché mi domando quanti avvocati saranno disposti a esporsi in casi di questo genere. E comunque prevedo un estremo rigore da parte dei tribunali".

Responsabilità civile dei magistrati: 7 casi accertati in 26 anni. Ecco i dati dell'avvocatura generale dello Stato, aggiornati al febbraio 2014. Dimostrano che il sistema sanzionatorio non funziona, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Da anni si parla di introdurre una più realistica responsabilità civile per i magistrati italiani. Ma qual è la situazione effettiva? Quanti sono stati i giudici raggiunti da un’azione civile? Panorama.it, finalmente, è in grado di pubblicare dati ufficiali dell’Avvocatura generale dello Stato: e sono anche dati aggiornatissimi, visto che risalgono al 7 febbraio 2014. Dal 1988, quando entrò in vigore la legge Vassalli che (in teoria) avrebbe dovuto sistematizzare la normativa alla luce di quanto i cittadini avevano richiesto a gran voce con il referendum abrogativo dell’anno precedente, sono state proposte in tutto 410 cause civili nei confronti di altrettanti magistrati, ritenuti «responsabili» di una qualche colpa grave da cittadini incorsi in un procedimento giudiziario. Le domande sono di per sé pochissime: poco più di 16 all'anno. Il motivo di una così rarefatta richiesta di giustizia da parte delle presunte vittime di malagiustizia, che invece stando alle cronache sono tantissime, sta nella complessità della procedura, ma anche nella scarsa fiducia nella capacità di ottenere effettivamente giustizia, e in certi casi forse anche nel timore di aggredire legalmente un magistrato. Del resto, fra tutti i ricorsi presentati, solamente 266 sono stati ritenuti inammissibili, mentre 71 sono ancora in attesa di ottenere la complicatissima patente di «ammissibilità» da parte di un tribunale. Altri 25 procedimenti già cassati sono stati ri-presentati con un'impugnazione da parte della presunta vittima di ingiustizia. In totale, insomma, le richieste presentate e ammesse al vaglio di un tribunale sono state 35 in un quarto di secolo: sono appena l'8,5% del totale. Mentre altre 44 sono ancora pendenti (generalmente dopo lunghi anni dalla presentazione). E come sono terminati i giudizi? Malissimo per i ricorrenti: perché anche alla fine del tormentatissimo iter legale, quasi metà delle richieste di accertamento della responsabilità civile di un magistrato sono state respinte: ben 17. E soltanto 7 sono state accolte. Sette in totale, sulle 410 avviate: ovverosia l'1,7%. A guidare la classifica dei giudizi negativi per i magistrati è il tribunale di Perugia, con 2 casi. Un caso a testa riguarda invece le avvocature di Brescia, Caltanissetta, Lecce, Reggio Calabria e Trento. Al momento, dei 44 ricorsi pendenti, 10 riguardano l'avvocatura di Messina, al primo posto; altri 7 sono a Salerno, altri 4 a Roma e altrettanti a Trento. Tre casi si segnalano a Potenza e ad Ancona. Due a testa sono pendenti davanti alle avvocature di Caltanissetta, Catania, Catanzaro, Firenze, Genova. Una riguarda Napoli, un'altra Brescia, l'ultima Venezia. I dati, se mai ce ne fosse stato bisogno, dimostrano che il sistema sanzionatorio varato 26 anni fa non funziona affatto. 

La responsabilità soggettiva dell’errore giudiziario è troppo estesa, per renderne effettivo il risarcimento del danno causato, addebitandolo ai singoli. Sono troppi i gradi intermedi e troppi i livelli di verifica e di sindacato per prevenire il danno e se ciò non avviene è perché il sistema si conforma a se stesso. Quindi allo stato dei fatti è impossibile indicare il responsabile, se non coinvolgerli tutti. Accusare tutti significa condannare nessuno.

La responsabilità dell’evento dannoso è spalmata ed estesa tra troppi magistrati per poter rendere effettiva la pretesa di giustizia. E lasciare in mano loro l’efficacia della giusta applicazione delle norme di un equo e fattivo risarcimento del danno per responsabilità civile delle toghe sembra una utopia.

Il disegno di legge  n. 1626/2014 sulla riforma della disciplina della Responsabilità civile dei Magistrati,  presentato il 24 settembre 2014 dal Ministro della Giustizia, Andrea Orlando, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan,  è strutturato in cinque articoli e interviene sulla legge 13 aprile 1988, n. 117, con la tecnica della novella.

Un escamotage per far procedere un testo che investe una materia su cui pendeva una procedura d'infrazione in sede Europea per mancata applicazione del diritto comunitario e per la quale l'Italia rischiava di pagare una multa stimata in 37 milioni di euro. Il Governo ha dato parere negativo a tutti gli emendamenti. Il testo con proposta di legge A.C. 2738 trasmessa dal Senato, il 24 febbraio 2015, è passato alla Camera in via definitiva, dopo il sì del Senato, con 265 sì, 51 no e 63 astenuti. Astenuti Lega, Fi, Sel, Fdi e Alternativa Libera. M5S ha votato contro. Il M5S ha votato contro il nulla e quello che è grave è che non se ne rendono conto. La legge – dice il deputato M5S Alfonso Bonafede - è "una intimidazione ai magistrati". "Rifiuto l'argomento dell'intimidazione", ha risposto in Aula il ministro. "A chi parla del travisamento dei fatti e delle prove come di un'estensione impropria, dico che questa è un'indicazione europea, e non produce un automatismo sul magistrato, che può essere chiamato in causa solo in caso di negligenza inescusabile". Di fatto nella relazione che accompagna il testo sono stati inseriti "dei correttivi, degli elementi di chiarificazione - ha spiegato la presidente della Commissione Giustizia della Camera Donatella Ferranti - che sulla base di un'interpretazione costituzionalmente orientata, esplicitano che il danno c'è solo nel caso in cui il travisamento sia macroscopico e evidente ".

In questa prospettiva, l'intervento normativo interviene sul sistema sino ad oggi disciplinato dalla legge 13 aprile 1988, n. 117, che regola il risarcimento dei danni cagionati dall'esercizio delle funzioni giudiziarie e la responsabilità civile dei magistrati. Disciplina adottata all'esito del referendum abrogativo degli articoli 55 e 56 del codice di procedura civile indetto con il decreto del Presidente della Repubblica 4 settembre 1987.

L'articolo 1 reca modifiche alla disciplina sui presupposti della responsabilità modificando l'articolo 2 della legge Vassalli.

Il comma 1 del richiamato articolo 2 della legge n. 117 del 1988 è riformulato richiamando espressamente la responsabilità dello Stato anche per le condotte dei magistrati onorari (fermo quanto si dirà sui giudici popolari) ed eliminando la superabile limitazione del danno risarcibile ai danni non patrimoniali prevista per la sola ipotesi di provvedimento cha abbia determinato la privazione della libertà personale (lettera a)).

La lettera b) dell'articolo 1 riscrive il comma 2 dell'articolo 2 della legge Vassalli, prevedendo che l'attività di interpretazione delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove non determina responsabilità se non nel caso di dolo del magistrato e laddove l'interpretazione si risolve in una violazione manifesta della legge o la valutazione dei fatti e delle prove in un travisamento degli stessi.

La lettera c) riscrive il comma 3 dell'articolo 2 della legge n. 117 del 1988 individuando, quale ipotesi di colpa grave predeterminata per legge, la violazione manifesta della legge e del diritto dell'Unione europea ovvero il travisamento del fatto o delle prove.

Va rilevato che, andando oltre alle esigenze di compatibilità col diritto dell'Unione, viene esteso l'ambito di operatività della responsabilità dei magistrati all'ipotesi di violazione manifesta anche del diritto interno da parte di organi giurisdizionali anche non di ultimo grado. Un’eventuale distinta considerazione, sotto questo profilo, del diritto dell'Unione europea e del diritto interno avrebbe potuto essere considerata del tutto improponibile sotto il profilo della razionalità e della ragionevolezza (articolo 3 della Costituzione) e sotto l'ulteriore profilo, per quanto riguarda l'attività dei giudici, dell'osservanza della Costituzione e delle leggi (ovviamente anche interne) come sancita dall'articolo 54 della Costituzione.

Dalla lettera d) dell'articolo illustrato è aggiunto il comma 3-bis all'impianto originario dell'articolo 2 della legge n. 117 del 1988. Vengono individuati, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, una serie di criteri volti a determinare i casi in cui sussiste la violazione manifesta della legge e del diritto dell'Unione europea.

Per la violazione manifesta della legge e del diritto dell'Unione i criteri predetti sono il grado di chiarezza e precisione delle norme violate, l'inescusabilità e la gravità dell'inosservanza. In particolare per la violazione manifesta del diritto dell'Unione europea deve inoltre tenersi conto della posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea, nonché della mancata osservanza dell'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo comma, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea.

L'articolo 2 del provvedimento illustrato prevede l'abrogazione del procedimento di ammissibilità della domanda (il cosiddetto filtro all'azione di responsabilità) in chiave di semplificazione e maggiore effettività della tutela riparatoria accordata al danneggiato.

L'articolo 3 reca modifiche all'azione di rivalsa come disciplinata dagli articoli 7 e 8 della legge n. 117 del 1988, in particolare nel senso:

di mantenere il presupposto soggettivo di questa azione civile in termini di negligenza inescusabile;

di elevare a tre anni il termine entro cui lo Stato esercita l'azione nei confronti del magistrato;

di rendere espressamente obbligatoria l'azione di rivalsa stessa;

di razionalizzare il regime della rivalsa nei confronti dei magistrati onorari, ancorandola ai presupposti comuni di dolo e negligenza inescusabile, in tutti i casi diversi da quelli dei giudici popolari che resteranno responsabili solo per dolo (sul punto si veda la sentenza della Corte costituzionale n. 18 dell’11 gennaio 1989).

Modificando l'articolo 8, comma 3, della legge n. 117 del 1988, la misura della rivalsa viene elevata da un terzo alla metà di una annualità dello stipendio del magistrato responsabile. Analogamente viene elevata ad un terzo la rata mensile dello stipendio del magistrato la quota espropriabile con esecuzione forzata.

Sostituendo l'articolo 9 si stabilisce (mutuando una previsione dell'abrogato articolo 5 sul cosiddetto filtro di ammissibilità) che il tribunale adito per il giudizio di rivalsa ordina in ogni caso la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell'azione disciplinare; per gli estranei che partecipano all'esercizio di funzioni giudiziarie la copia degli atti sarà trasmessa agli organi ai quali compete l'eventuale sospensione o revoca della loro nomina.

Resta ferma l'immutata autonomia del giudizio disciplinare (attivabile anche prima e a prescindere da quello civile) rispetto al processo civile anche in sede di rivalsa.

Le modifiche apportate all'azione di rivalsa intercettano anche un generale consenso parlamentare, evidenziato da iniziative attualmente in discussione nelle due Camere.

L'articolo 4 reca disposizione finanziaria con norma di copertura degli oneri derivanti dall'applicazione della legge. È prevista l'effettuazione del monitoraggio degli oneri ai sensi della legge n. 196 del 2009.

Il testo si chiude con la norma sull'efficacia della normativa (articolo 5), che è previsto che si applichi ai fatti illeciti posti in essere dal magistrato successivamente all'entrata in vigore della nuova normativa.

Più che un intervento legislativo a tutela dei cittadini è la tacitazione dell’opprimente e vessatoria ingerenza dell’Unione Europea negli interessi italiani.

Va rilevato che la sentenza Traghetti del Mediterraneo e la successiva Commissione/Repubblica italiana sono sulla stessa linea della legge n. 117 del 1988 sia sul punto che è lo Stato a dover rispondere degli errori dei giudici, sia sul punto che la responsabilità dello Stato per gli errori dei giudici si concretizza solo a seguito di una violazione «imputabile a un organo giudiziario di ultimo grado».

Piuttosto -- secondo le due sentenze della Corte di Lussemburgo -- ciò che urta contro il diritto dell’Unione europea, dei precetti contenuti nel vecchio articolo 2 della legge n. 117 del 1988, è che il danno risarcibile provocato da un giudice non possa derivare anche da interpretazioni di norme di diritto o da valutazioni di fatti e prove (comma 2); e che, in casi diversi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove, possano essere imposti, per la concretizzazione della responsabilità dei giudici, «requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente» (comma 1).

Con l'intervento regolatorio che si è approvato, che conserva il sistema misto di responsabilità civile dei magistrati della legge Vassalli, strutturato cioè sulla responsabilità diretta dello Stato (in funzione compensativo-satisfattoria) e su quella, in sede di rivalsa, del magistrato (in funzione preventivo-punitiva), si intendono soddisfare le esigenze di compatibilità con l'ordinamento dell'Unione europea:

modulando lo spettro della responsabilità dello Stato sulla violazione del diritto ovvero sul travisamento del fatto e delle prove, purché manifesti, quali ipotesi paradigmatiche di colpa grave che qualifica l'illecito riferibile a tutte le magistrature, anche quella onoraria;

adeguando di conseguenza la cosiddetta clausola di salvaguardia per l'attività di interpretazione delle norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove nel senso di non prevederne l’operatività in caso di dolo del magistrato e laddove l'interpretazione si risolva in una violazione manifesta della legge e la valutazione dei fatti e delle prove in un travisamento degli uni e delle altre.

Ancora, l'intervento normativo incontra l'esigenza di rendere più immediata ed effettiva la responsabilità del magistrato, in specie per il recupero di quanto pagato dallo Stato, attraverso:

l'eliminazione del filtro oggi posto all'azione di risarcimento costituito da un procedimento di ammissibilità della domanda giudiziale;

la modifica della disciplina dell'azione di rivalsa che lo Stato responsabile è chiamato a promuovere nei confronti del magistrato autore della condotta illecita, per negligenza inescusabile, in tre direzioni:

chiarire la natura obbligatoria dell'azione che lo Stato promuove nei confronti del magistrato per il recupero di quanto pagato al danneggiato;

aumento del tempo utile per proporre la domanda di rivalsa da parte dello Stato;

congruo incremento della misura della rivalsa stessa, fino alla metà dell'annualità dello stipendio del magistrato;

la precisazione in senso rafforzativo dei rapporti tra responsabilità civile e disciplinare.

Ma ai neofiti del diritto prospettiamo l’applicazione esemplare e pratica della norma e quindi la sua inefficacia.

La responsabilità civile del magistrato consegue ad un danno riconducibile a colpa grave o dolo: si desume, quindi, che l’evento dannoso sia conclamato se non al grado definitivo. Ad un attenta analisi ci si accorge, però, che ci sono troppi gradi intermedi e troppi livelli di verifica e di sindacato per prevenire il danno e se ciò non avviene è perché il sistema si conforma a se stesso. Quindi allo stato dei fatti è impossibile indicare il responsabile, se non coinvolgerli tutti. Accusare tutti significa condannare nessuno.

L’indennizzo per questioni oggettive già c’è:

per le lungaggini del processo c’è la legge Pinto, anche se con le novelle intervenute è stata resa inefficace;

per la illecita detenzione c’è la soddisfazione monetaria da parte della Stato.

Ma se si va a pretendere il risarcimento soggettivo al singolo magistrato per il maggior danno dovuto ad errore giudiziario ecco che alzano le scuri a difesa della categoria togata.

Prendiamo per esempio un evento dannoso nel processo penale per un imputato risultato innocente per assoluzione o per revisione, ma che nelle trame del processo ha perso tutto: chi è il responsabile?

E’ il Pubblico Ministero che si è prodigato a sostenere un'accusa inconsistente fondata su teoremi farlocchi?

E’ il GIP che ha convalidato il suo operato?

E’ il GUP che ha confermato la sua accusa?

E’ il giudice monocratico o i giudici di Corte di Assise che hanno approvato la tesi accusatoria?

E’ il giudice d’appello o i giudici di Corte di Assise di Appello che hanno avvalorato la condanna?

Sono gli ermellini di Cassazione che hanno accreditato l'operato sottostante?

La responsabilità dell’evento dannoso è spalmata ed estesa tra troppi magistrati per poter rendere effettiva la pretesa di giustizia. E lasciare in mano loro l’efficacia della giusta applicazione delle norme di un equo e fattivo risarcimento del danno per responsabilità civile delle toghe sembra una utopia.

Cosa diversa sarebbe stata se si fosse prevista una autorità sanzionatoria slegata alla categoria delle toghe, come per esempio il difensore civico giudiziario, o almeno che fosse mista: magistratura, avvocatura, politica: Non sarebbe cambiato nulla, comunque, ma almeno una parvenza di imparzialità ci sarebbe stata.

Naturalmente legge vera di tutela del cittadino sarebbe stata adottata, se essa avesse preveduto la responsabilità civile dei magistrati per colpa semplice o dolo, partendo dall'effettivo dato oggettivo come è quello dell'evento dannoso, e da lì partire con la quantificazione monetaria dello stesso, da soddisfare con la polizza assicurativa che i magistrati già hanno e che dovrebbero pagare di tasca propria.

LA STORIA

Il Partito Radicale, il Partito liberale italiano e il Partito socialista italiano, presentavano nel 1987 la richiesta di tre referendum per ottenere la responsabilità civile dei magistrati, come risposta ai sempre più frequenti problemi della giustizia.

Tra i principali protagonisti che in quegli anni si battevano per la riforma della giustizia vi era Enzo Tortora, conduttore televisivo accusato sulla base di alcune dichiarazioni di pentiti di essere colluso con la camorra e il traffico di stupefacenti, rivelatesi successivamente false. La lunga detenzione del conduttore, e la successiva elezione nelle liste Radicali che sosteneva le sue battaglie politiche, contribuiva ad alimentare la discussione pubblica nel paese e nei mezzi di comunicazione circa la situazione della giustizia italiana.

L'appello radicale per la riforma della giustizia veniva sottoscritto anche da molti magistrati: «L’otto novembre gli italiani sono chiamati ad esprimersi su due aspetti particolarmente rilevanti della crisi della giustizia. Di fronte a insensibilità politiche e a resistenza corporative, i referendum sulla giustizia rappresentano un’occasione unica offerta ai cittadini per riaffermare fondamentali principi dello stato di diritto, abolire anacronistici privilegi e irresponsabilità e rivendicare improrogabili riforme. Lo strumento referendario restituisce così la parola ai cittadini. Non è più accettabile che i magistrati che, per colpa grave, abbiano danneggiato un cittadino non siano chiamati a risponderne dinnanzi ad un loro collega. Introducendo la responsabilità civile dei magistrati per colpa grave (grave negligenza, grave imperizia, gravi omissioni) non si intacca ma si riafferma la loro autonomia ed indipendenza. Abrogando i poteri istruttori della commissione inquirente per i reati dei ministri si eliminano inammissibili impunità. Noi voteremo SI ed invitiamo a votare SI perché anche politici e magistrati rispondano, come ogni cittadino, di fronte alla legge».

I referendum abrogativi dell'8 novembre 1987 si conclusero con una netta affermazione dei «si».

Dopo la scelta degli italiani circa la responsabilità civile dei giudici, il Parlamento approvava la cosiddetta «legge Vassalli» (votata da Pci, Psi, Dc), che, secondo i Radicali, si allontanava decisamente dalla decisione presa dagli italiani nel referendum, facendo ricadere la responsabilità di eventuali errori non sul magistrato ma sullo Stato, che successivamente poteva rivalersi sullo stesso, ma solo entro il limite di un terzo di annualità dello stipendio.

 

 

totale

percentuale (%)

 

Iscritti alle liste

45 870 931

 

 

Votanti

29 866 249

65,10

(su n. elettori)

Quorum raggiunto

Voti validi

25 896 355

86,70

(su n. votanti)

 

Voti nulli o schede bianche

3 969 894

13,30

(su n. votanti)

 

Astenuti

16 004 682

34,90

(su n. iscritti)

 

 

 

Voti

 %

 

 

RISPOSTA AFFERMATIVA

20 770 334

80,20%

 

 

RISPOSTA NEGATIVA

NO

5 126 021

19,00%

 

 

bianche/nulle

 

3 969 894

 

 

 

Totale voti validi

 

25 896 355

100%

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA LEGGE

"Art. 11 C.P.P. (Competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati).

1.                             I procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge.

2.                             Se nel distretto determinato ai sensi del comma 1 il magistrato stesso é venuto ad esercitare le proprie funzioni in un momento successivo a quello del fatto, é competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d'appello determinato ai sensi del medesimo comma 1.

3.                             I procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato sono di competenza del medesimo giudice individuato a norma del comma 1".

"Art. 30-bis C.P.C. (Foro per le cause in cui sono parti i magistrati). Le cause in cui sono comunque parti magistrati, che secondo le norme del presente capo sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale.

Se nel distretto determinato ai sensi del primo comma il magistrato è venuto ad esercitare le proprie funzioni successivamente alla sua chiamata in giudizio, é competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d'appello individuato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale con riferimento alla nuova destinazione".
"Spostamenti di competenza per i procedimenti penali nei quali un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato. 

 

Tabella A
 

Dal distretto di

Al distretto di

ROMA

PERUGIA

PERUGIA

FIRENZE

FIRENZE

GENOVA

GENOVA

TORINO

TORINO

MILANO

MILANO

BRESCIA

BRESCIA

VENEZIA

VENEZIA

TRENTO

TRENTO

TRIESTE

TRIESTE

BOLOGNA

BOLOGNA

ANCONA

ANCONA

L'AQUILA

L'AQUILA

CAMPOBASSO

CAMPOBASSO

BARI

BARI

LECCE

LECCE

POTENZA

POTENZA

CATANZARO

CAGLIARI

ROMA

PALERMO

CALTANISSETTA

CALTANISSETTA

CATANIA

CATANIA

MESSINA

MESSINA

REGGIO CALABRIA

REGGIO CALABRIA

CATANZARO

CATANZARO

SALERNO

SALERNO

NAPOLI

NAPOLI

ROMA

Il testo vigente dell'art. 4 della legge 13 aprile 1988, n. 117, recante: "Risarcimento di danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati", come modificato dalla legge 420/98 , é il seguente: "Art. 4 (Competenza e termini).

1.                  L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Competente é il tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 del codice di procedura penale e dell'art. 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

2.                  L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si é verificato il fatto che ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro due anni che decorrono dal momento in cui l'azione é esperibile.

3.                  L'azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si é concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto stesso si é verificato.

4.                  Nei casi previsti dall'art. 3 l'azione deve essere promossa entro due anni dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere sull'istanza.

5.                  In nessun caso il termine decorre nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio non abbia avuto conoscenza del fatto".

Il testo vigente dell'art. 8 della citata legge 13 aprile 1988, n. 117, come modificato dalla legge 420/98, é il seguente: "Art. 8 (Competenza per l'azione di rivalsa e misura della rivalsa).

1.                  L'azione di rivalsa deve essere promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri.

2.                  L'azione di rivalsa deve essere proposta davanti al tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 del codice di procedura penale e dell'art. 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

3.                  La misura della rivalsa non può superare una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento é proposta, anche se dal fatto é derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo. L'esecuzione della rivalsa quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore al quinto dello stipendio netto.

4.                  Le disposizioni del comma 3 si applicano anche agli estranei che partecipano all'esercizio delle funzioni giudiziarie. Per essi la misura della rivalsa é calcolata In rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale; se l'estraneo che partecipa all'esercizio delle funzioni giudiziarie percepisce uno stipendio annuo netto o reddito di lavoro autonomo netto inferiore allo stipendio iniziale del magistrato di tribunale, la misura della rivalsa é calcolata in rapporto a tale stipendio o reddito al tempo in cui l'azione di risarcimento é proposta".

LA POLIZZA ASSICURATIVA DI 145, 50 EURO ANNUE

ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI

Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour - Roma

Dichiarazione da sottoscrivere da parte di chi aderisce all'assicurazione

Responsabilità Civile e Tutela Legale

(si prega di scrivere in stampatello)

Il sottoscritto_________________________________________________________________________________

Nato a __________________________ il _________________ Residente in ______________________________

Prov._______ Via __________________________________________________ n° ________ C.a.p. __________

Eventuale recapito per l'invio della corrispondenza, se diverso dalla residenza:

Città ____________________________________________________ Prov. __________ C.a.p. _______________

Via _____________________________________________________________________ Numero Civ. ________

Nota: si raccomanda di aggiornare ad ogni variazione sia la residenza sia il recapito della corrispondenza

Lo scrivente, dichiara di aderire ai contratti di assicurazione unici e collettivi stipulati dalla A.N.M. per la Responsabilità Civile del Magistrato (Legge 117/88), per la Responsabilità Amministrativa e Contabile e per la Legge 24/03/01 n° 89 e per la Legge 626/94, nonché per la Tutela Legale e si impegna a corrispondere i relativi premi annuali:

a) quanto al periodo intercorrente dalla data del versamento alla prima scadenza anniversario di polizza, prende atto che la stessa scadrà il 15/04 di ogni anno. Dichiara che ha provveduto a versare il relativo premio a mezzo di c/c postale n° xxxxxxxx intestato all'Associazione Nazionale Magistrati – Gestione Assicurazione Responsabilità Civile - Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour – Roma.

Nota: il premio viene stabilito in Euro 145,50= complessivi (polizza di Responsabilità Civile e polizza di Tutela Legale -non è possibile sottoscrivere le polizze separatamente) per le adesioni che avverranno nel periodo 15/04-15/10 di ogni anno, mentre è pari ad Euro 72,75= per le adesioni che avverranno nel periodo 16/10-14/04 di ogni anno. La Copertura assicurativa decorre dalla data del versamento.

b) quanto alle annualità successive corrisponderà il premio il cui importo e le cui modalità di versamento verranno comunicati ad ogni scadenza anniversaria.

Il Sottoscritto dichiara altresì di aver ricevuto il testo delle condizioni tutte di assicurazione e di accettare il contenuto delle medesime.

_______________________ , li _____________________ ______________________________ firma

CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA: I MAGISTRATI RESPONSABILI ANCHE PER COLPA SEMPLICE

Sussiste la responsabilità dei magistrati per colpa semplice secondo la Corte di Giustizia europea.

Il rapporto tra i cittadini e tra i cittadini e gli organi dello Stato è regolato dalla legge.

L’art. 3 della Costituzione esplicita che tutti hanno pari obblighi e diritti di fronte alla legge, senza che vi siano immunità ed impunità per nessuno. Solo al Presidente della Repubblica è riconosciuta la mancata responsabilità dei suoi atti.

Analizzando l’ambito del rapporto di prestazione di servizi manuali o intellettuali si denota che il lavoratore subordinato, che con colpa reca danno a qualcuno, è sottoposto alla legge penale, civile e disciplinare. Lo stesso dicasi per il lavoratore autonomo o il professionista. Il medico che sbaglia diagnosi o cura, risponde di omicidio o lesioni colpose e ne paga le conseguenze civili e deontologiche. L’ingegnere, l’architetto, il geometra, che per colpa sbaglia i progetti e causa dei crolli, risponde di omicidio o lesioni o disastro colposo e ne paga le conseguenze civili, ecc. ecc.

L’avvocato, il commercialista, il notaio, l’assicuratore ecc, che per colpa reca danno al suo cliente, paga le conseguenze civili e deontologiche.

Al dirigente pubblico, o al funzionario pubblico, o all'amministratore pubblico, o addirittura al Presidente del Consiglio dei Ministri, o ai singoli Ministri e sottosegretari, che per colpa recano danno ai cittadini, la Corte dei Conti chiede la rivalsa per il risarcimento del danno riconosciuto.

Da quanto detto pare che la legge sia uguale per tutti. Ad una attenta analisi della realtà ci si accorge, però, che la legge è uguale per tutti, meno che per i magistrati.

I magistrati sono liberi di incarcerare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per ingiusta detenzione, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono perseguiti per sequestro di persona.

I magistrati sono liberi di condannare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per l’errore giudiziario, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono perseguiti per calunnia e diffamazione.

Al cittadino, che per anni ha subito ingiustamente e per accanimento un procedimento penale che lo ha visto prosciolto, ovvero da vittima del reato ha visto il reato prescritto per inerzia, non c’è risarcimento riconosciuto, ne vi è abuso od omissione d’atti d’ufficio a carico dei magistrati. Lo stesso dicasi per il cittadino che è impedito alla giustizia civile per l’annosità dei processi.

C’è stato un referendum, approvato dalla quasi totalità dei cittadini italiani, che formalmente ha stabilito la responsabilità civile dei magistrati. Ossia: i magistrati che sbagliano devono risarcire i danni.

Invece, il rappresentante eletto dal popolo, ma lontano dagli interessi dei cittadini, con l’art. 2 della legge n. 117/88 ha previsto:

«1.      Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.

2.      Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.

3.      Costituiscono colpa grave:

a)             la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b)            l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

b)             la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;

c)             l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione».

Ai sensi dell’art. 3, n. 1, prima frase, della legge n. 117/88, costituisce peraltro un diniego di giustizia «il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria».

Ad una lettura attenta della norma si palesa la volontà di non perseguire alcun Magistrato, specie se a decidere sul comportamento del singolo è la stessa corporazione di cui esso fa parte.

Se, come da molti è considerato, il magistrato è dio in terra, infallibile e perfetto nelle sue azioni, mai incorrerà nel dolo o colpa grave, tanto meno sarà ammissibile la semplice colpa, dalla legge esclusa, così come è per i comuni mortali. Secondo la conformità del pensiero dominante, l’appello accolto o il ricorso cassato non sono frutto di errori giudiziari penali risarcibili, ma oneri a carico dell’innocente, perseguito ingiustamente.

Per il diniego di giustizia, poi, secondo il modo di pensare conforme di gente codarda e collusa, l'impedimento è oggettivo. Non è responsabilità di chi amministra la giustizia, ma è colpa dello Stato, quindi del cittadino, che fa mancare all’apparato la sussistenza economica, ovvero è colpa degli utenti, che in massa, si rivolgono alla magistratura per chiedere giustizia.

I magistrati devono meritarlo il rispetto e non pretenderlo. L’art. 3 della costituzione non prevede cittadini unti dal signore, al di sopra della legge. Non è certo l’azione di rivalsa del Presidente del Consiglio dei Ministri, non superiore ad un terzo dello stipendio del responsabile, di cui all’art 13 della stessa legge, ad equilibrare gli interessi in campo.

L’azione di rivalsa opera solo in caso di indennizzo per ingiusta detenzione ed errore giudiziario, casi in cui rientra l’operatività della legge. Per tutto il resto non opera l’indennizzabilità dello Stato e ricade sulle spalle del cittadino.

La Corte di giustizia Europea censura la disciplina italiana della responsabilità dei magistrati, e, con essa, il mancato utilizzo dell’art. 234 CE, attraverso la SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione) del 13 giugno 2006:

«Responsabilità extracontrattuale degli Stati membri – Danni arrecati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili ad un organo giurisdizionale di ultimo grado – Limitazione, da parte del legislatore nazionale, della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice – Esclusione di ogni responsabilità connessa all’interpretazione delle norme giuridiche e alla valutazione degli elementi di fatto e di prova compiute nell’ambito dell’esercizio dell’attività giurisdizionale»

Nel procedimento C-173/03, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunale di Genova con ordinanza 20 marzo 2003, pervenuta in cancelleria il 14 aprile 2003, nella causa

Traghetti del Mediterraneo SpA, in liquidazione, contro Repubblica italiana.

La sentenza, di seguito acclusa, si inquadra in un risalente filone nell’ambito del quale il giudice comunitario da decenni ribadisce la responsabilità degli Stati per mancato rispetto del diritto comunitario da parte di tutte le loro istituzioni, in qualsiasi forma perpetrata. In questo caso la Cassazione italiana aveva dato torto alla società Traghetti del Mediterraneo, ricorrente per il risarcimento nei confronti della Tirrenia, non avendo tenuto conto della disciplina comunitaria relativa agli aiuti di Stato. Nel fare ciò la Cassazione aveva inoltre rifiutato di sollevare questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 234. Ed è questo forse un punto rilevantissimo nella sentenza pur densa di motivi interessanti (tra cui quello del colpo inferto alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati.

Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:

<Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.

Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler>  

A questo punto non si può pretendere che il cittadino, già tartassato, debba subire e tacere. Almeno che ci rimanga il diritto di lamentarci, se non, addirittura, di ribellarci.

LA RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE E CIVILE DEI MAGISTRATI

LA SENTENZA 13 GIUGNO 2006 DELLA GRANDE SEZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DEL LUSSEMBURGO: LA LEGGE 117/88 VIOLA I PRINCIPI DELL'ORDINAMENTO COMUNITARIO, NELLA PARTE IN CUI LIMITA ARBITRARIAMENTE L'AMBITO DELLA RESPONSABILITA' CIVILE DEI MAGISTRATI.

CONVINTA ADESIONE DEI PRIMI AUTORI DELLA DOTTRINA.

La più autorevole, fra le conferme alle nostre tesi, non può che provenire dalla recentissima Sentenza 13 giugno 2006 resa dalla più alta magistratura esistente nell'ordinamento comunitario europeo, vale a dire dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia U.E. del Lussemburgo.

La pronunzia, integralmente pubblicata su www.aziendalex.kataweb.it/, oltre che (sempre integralmente) sui settimanali giuridici ""Diritto e Giustizia"" fasc. 29/2006, pagg. 105 segg., e ""Guida al Diritto"", fasc. nr. 4 / 2006 <>, pagg.30 - 39, si caratterizza per l'affermazione, netta e categorica, dei seguenti principi di diritto, assolutamente dirimenti a favore della dimostrazione della fondatezza delle tesi qui sostenute:

I. Gli Stati membri dell'U.E. rispondono a titolo extracontrattuale del danno patito dai singoli, in conseguenza di violazioni manifeste del diritto comunitario compiute dagli organi giurisdizionali, quand'anche tali violazioni derivino dall'attività di interpretazione delle norme o di valutazione dei fatti e delle prove;

II. Per stabilire quando una violazione del diritto comunitario debba ritenersi manifesta "" si valuta, in particolare, alla luce di un certo numero di criteri quali il grado di chiarezza e precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell'errore di diritto commesso, o la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art.234, terzo comma, del Trattato C.E., ed è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia "" (così il punto 43. della sentenza 13 giugno 2006); su questo punto, inoltre, il massimo giudice europeo conferma le precedenti sue statuizioni, rese a partire dalla sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C - 6 / 90 e C - 9 / 90 ricorrenti ""Francovich ed altri"", e poi dalla sentenza 5 marzo 1996 cause riunite C - 46 / 93 e C - 48 / 93, e in ultimo dalla la sentenza 30 settembre 2003 causa C - / 224 / 01 ricorrente ""Kobler"";

III. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave ""inescusabile"" del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto comunitario.

I primi commenti della dottrina si registrano in termini di grande interesse ed enfasi.

Giustizia un pochino al chilo. Il caso di Vittorio Emanuele di Savoia e la finta riforma della giustizia che non è quello che appare, scrive Giorgio Mulè su Panorama. Ma quanto si erano divertiti giornali e televisioni con Vittorio Emanuele di Savoia! Fu una bisboccia editoriale fin da subito, da quando il comitato di accoglienza di telecamere e fotografi s’era schierato dall’una di notte davanti al carcere di Potenza. Lui era arrivato in Basilicata da Lecco dopo un viaggio di 13 ore poco prima che facesse alba e la scena fu piuttosto surreale: Sua Altezza stava stretto stretto sul sedile posteriore di una Punto argento con i giornali attaccati ai vetri. Era il giugno 2006. Le accuse erano di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e al falso, associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione. Quattro giudici, tra Como e Roma, hanno assolto in altrettanti processi Vittorio Emanuele "perché il fatto non sussiste". Ora, dopo quasi dieci anni, lo Stato lo risarcirà con 40 mila euro per i giorni in cella da innocente. Ovviamente, come scrissero i cronisti, nel "corposo ordine di custodia cautelare" (sono sempre corposi gli ordini di arresto, fateci caso, mai anoressici) c’era qualche chilo abbondante di intercettazioni telefoniche. Decine di migliaia. Di ogni genere e tipo, piccanti al punto giusto. Sputtananti di sicuro. E poi volete mettere il gusto di mettere alla gogna un Savoia goffo, antipatico, sprezzante, saccente? Andò esattamente così. Ora che sappiamo che non un solo fatto tra quelli contestati sussisteva, che cosa capiterà ai magistrati che misero in piedi questo - è il caso di dire - gigantesco bordello? Nulla. Non pagheranno un centesimo e la loro carriera proseguirà senza macchia. E continuerà a essere così con la finta riforma della giustizia che il governo sta per varare all’insegna di quella consueta mancanza di coraggio che lo contraddistingue. Con le nuove regole sulla responsabilità civile (che dovrebbe consentire di rivalersi, seppur in minima parte, sui magistrati che sbagliano) Vittorio Emanuele dovrebbe dimostrare che da parte dei suoi persecutori ci fu "dolo o negligenza inescusabile", che fu cioè deliberatamente deciso dai pubblici ministeri di provocare un danno alla sua persona; che la stessa condotta l’ebbe il giudice che accolse la richiesta di custodia cautelare; che il medesimo spirito albergava tra i giudici del tribunale del riesame che gli negarono di espatriare. State ridendo? E fate bene. Anche perché chi dovrebbe decidere di accogliere la richiesta di risarcimento? Ma un giudice, che domande! Fa quasi tenerezza il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Perché è così naïf da avventurarsi nella spericolata dimostrazione del teorema secondo il quale si può essere incinta anche solo un pochetto. Il campo è quello delle correnti dei magistrati, che non sono equivalenti ai partiti ma molto, molto peggio. Queste correnti - cito Luciano Violante, a scanso di equivoci - "sono diventate luoghi in cui si costruiscono le carriere". Il ministro che cosa intende fare? "Diluire il peso, sterilizzare il sistema di lottizzazione al Csm in base alla corrente (ma allora è vero!!, ndr), e non al merito, ma non abolire le correnti del tutto". Ma come? "Eliminare le correnti è un errore. L’idea del giudice privo di convinzioni personali e culturali è un’idea positivistica o un’ipocrisia: ogni magistrato ha delle sue idee; e io credo" dice Orlando "che sia giusto che l’appartenenza a quelle idee sia esplicita e non nascosta, purché non formino pregiudizi". In lontananza s’ode il capo dello Stato affermare: "L’ordinamento della Repubblica esige che il magistrato sappia coniugare equità e imparzialità". Lo spieghi al ministro della Giustizia, per favore. Altrimenti saremo rovinati.

La caduta (parziale) degli Dei, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Il segretario dell’Anm, il dottor Maurizio Carbone, dice che la riforma delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati, approvata l’altro ieri dal Parlamento, «è un tentativo di normalizzare la magistratura». Lo ha dichiarato ieri, durante la conferenza stampa dell’ Anm, che è su tutte le furie per questa piccola riforma. Già: «normalizzare». Cioè rendere normale. Oggi la magistratura non è normale: è l’unica istituzione dello Stato ad essere al di sopra dello Stato, della legge, ad essere – nell’esercizio delle sue funzioni – immune dalla legge, e insindacabile, e non dipendente dallo Stato ma sovraordinata allo Stato. «Normalizzare» la magistratura, cioè toglierle la sua caratteristica di ”deità” (che non è la ”terzietà” di cui spesso l’Anm parla) non sarebbe una cosa cattiva. Libererebbe forse l’Italia da un sovrappeso ”feudale” che ancora ne condiziona profondamente la struttura democratica, e che probabilmente è in contrasto con lo spirito della Costituzione, che è una Costituzione Repubblicana e che prevede l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alcuni magistrati dicono: ma noi siamo magistrati, non cittadini. E su questa base pretendono di non dover sottostare alla legge. Ritengono – temo in buona fede – che la saldezza di una società, e la sua moralità, e il suo essere ”società etica” (successivamente si passa all’idea dello ”Stato Etico”) non possono che essere affidati ad una entità e ad un gruppo di persone migliori degli altri (”aristoi”) i quali siano in grado di ”sapere” la vita degli altri, valutarla, giudicarla, punirla. Non è questa una funzione – pensano – che possa essere affidata alla democrazia, o al libero svolgimento delle relazioni umane e sociali, perché la democrazia è un buon sistema di governo ma è viziato da corruzione. E l’eccesso della libertà, della deregolamentazione, sono pericolose per la collettività. La democrazia deve essere ” corretta” , o comunque controllata, e anche la società, da qualcosa di superiore e di ”certamente morale” : e cioè da i giudici. Contestare questa funzione dei giudici vuol dire contestare la loro indipendenza. E mettere in discussione l’indipendenza dei giudici vuol dire correre il rischio che la magistratura finisca per non essere più autonoma dalla politica. L’autonomia dalla politica non è vista come una condizione di funzionamento della magistratura, o come un elemento necessario nell’equilibrio dei poteri, ma come un valore assoluto al quale una società ”morale” deve sottomettersi, e in assenza del quale la società diventa ”immorale” e la democrazia, e le istituzioni, scendono in una condizione di subalternità alla politica. La politica è ”il male” , la giustizia (lo dice la parola stessa) è il bene, e il bene può governare il male, e può redimerlo, correggerlo, sottometterlo. Il male non solo non può governare il bene, ma non può aspirare ad essere alla pari col bene. Ecco, questo ragionamento è alla base delle molte dichiarazioni rilasciate ieri dal dottor Carbone, e anche dal presidente dell’Anm Sabelli. Il quale ha rimproverato al governo di avere promesso una riforma della Giustizia in 12 punti, e di avere realizzato invece l’unico punto che non va bene, e cioè la riforma della responsabilità dei giudici. I magistrati invece – ha spiegato – vogliono cose diverse: per esempio la riduzione della prescrizione, l’estensione dei poteri speciali ”antimafia” anche ad altri reati, il processo telematico (cioè la cancellazione del diritto dell’imputato ad essere presente al suo processo), la riduzione dei gradi di giudizio, eccetera. In sostanza, la proposta dell’Anm (che più o meno è stata organicamente strutturata nella proposta di riforma del dottor Nicola Gratteri) è quella di escludere norme che riportino alla normalità la magistratura, ristabilendo la legittimità dello Stato liberale e dell’equilibrio dei poteri, ma, viceversa, decidere un forte aumento dei poteri della magistratura, un ridimensionamento drastico dei diritti dell’imputato, e un rafforzamento della condizione di preminenza e di insindacabilità dei pubblici ministeri. Sabelli ha anche annunciato che l’Anm ha chiesto un incontro al Presidente della Repubblica. Per dirgli cosa? Per esprimere le proprie rimostranze contro il Parlamento. Già nella richiesta dell’incontro c’è un elemento di scavalcamento dell’idea (puramente platonica in Italia) dell’indipendenza dei poteri. La magistratura ritiene che il suo compito non sia quello semplicemente di applicare le leggi, ma di condizionarne il progetto e la realizzazione. L’associazione magistrati chiede al Presidente della Repubblica di frenare, o condizionare, o rimproverare il Parlamento. E vuole discutere nel merito delle leggi. La magistratura considera inviolabile la propria indipendenza dagli altri poteri, e inaccettabile la pretesa di indipendenza degli altri poteri dalla magistratura. Devo dire che la passione con la quale i magistrati hanno reagito alla miniriforma della responsabilità civile mi ha colpito soprattutto per una ragione: questa riforma è quasi esclusivamente simbolica. La responsabilità dei giudici resta limitatissima. L’unica vera novità è la rimozione del filtro che in questi vent’anni aveva permesso solo a 4 cittadini di ottenere un risarcimento per la mala-giustizia (nello stesso periodo sono stati processati e condannati 600.000 medici). Tutte le altre barriere restano. I magistrati saranno giudicati solo in caso che sia accertata una colpa grave, o addirittura un dolo nel loro comportamento, saranno giudicati non da una autorità esterna ma dai loro colleghi (visto che oltretutto non esiste una divisione delle carriere) e se alla fine saranno ritenuti colpevoli pagheranno con una sanzione che in nessun caso potrà superare la metà dell’ammontare di un anno di stipendio. Voi conoscete qualche altra categoria professionale protetta fino a questo punto? La probabilità di essere condannati per i magistrati è così bassa, e l’esiguità della pena così forte, che chiunque può mettersi al riparo pagando una assicurazione con poche decine di euro. Cosa che non vale per i medici, o gli ingegneri (non parliamo dei giornalisti) che essendo espostissimi al rischio di condanna (anche senza dolo e senza colpa grave) se vogliono sottoscrivere una assicurazione devono pagare migliaia e migliaia di euro. Diciamo che il privilegio non è affatto toccato da questa riformetta. Appena appena scalfito. E allora? Il fatto è che comunque la riforma ha un valore ideale, è una specie di metafora. Il Parlamento, per una volta, non si è inginocchiato davanti alla magistratura. E’ questa la novità che ha messo in allarme i settori più corporativi della magistratura. Il timore è che davvero possa cambiare il clima politico e possa essere aperta una via alle riforme vere, e al ridimensionamento della ”Divina Giustizia”. No, la riforma non comporterà la caduta degli Dei. Solo che gli Dei non sopportano gli oltraggi. Sono permalosi. E’ sempre stato così, dai tempi di Omero. E questa legge è uno sberleffo inaccettabile, anche se innocuo.

Sono Procure o nidi di vipere? Si chiede Piero Sansonetti su “Il Garantista”. In un giorno solo tre casi che dovrebbero scuotere la credibilità della magistratura (ma in Italia è difficile scuoterla…). Il più clamoroso è l’atto di accusa dell’architetto Sarno, che è il testimone chiave del processo contro l’ex presidente della Provincia Filippo Penati (Pd). Sarno ha dichiarato: «Lo ho accusato, ingiustamente, perché la Procura mi ha fatto capire che se non lo accusavo non uscivo più di cella». Il secondo caso viene dalla Calabria: una Pm (la dottoressa Ronchi) accusata di abuso di ufficio e falso ideologico per avere provato a incastare un collega (Alberto Cisterna, all’epoca numero due dell’antimafia nazionale). Il terzo caso è quello del sostituto Procuratore di Milano, Robledo, intercettato (abusivamente?) e affondato giornali se ne occupano poco di queste cose, cioè delle lotte di potere, violentissime, che scuotono la magistratura italiana e lasciano molte vittime sul terreno. Se ne occupano poco non perché le notizie non abbiano un buon interesse giornalistico, semplicemente perché il patto tra giornali e magistratura, che vige da molti anni, ha creato un sistema di assoluta omertà. Vediamo: un sindaco indagato per abuso di ufficio fa un bello scandalo, e sulla base delle leggi vigenti – se condannato in primo grado – porta pressoché automaticamente alla rimozione del sindaco stesso e a elezioni anticipate. È successo proprio ieri al sindaco di salerno, De Luca, che ora rischia di essere tagliato fuori dalle primarie del Pd per la candidatura a governatore della Campania. Un magistrato indagato per abuso d’ufficio passa sotto silenzio. Eppure i danni che può provocare l’abuso di un magistrato, dato l’enorme potere che esercita sulle singole persone, sulle loro vite, sono molto maggiori di quelli che può provocare un sindaco. Se per caso succedesse che un uomo politico fosse accusato di avere usato violenza su un testimone per costringerlo ad accusare ingiustamente un suo nemico, verrebbe giù il mondo. Giusto che sia così. Ci sono diversi magistrati, anche prestigiosissimi, che sono stati accusati di aver costretto i testimoni a mentire, ma la cosa non scuote nessuna coscienza. Eppure nessuno si aspetta equanimità da un politico, mentre da un magistrato magari potrebbe anche pretenderla… Usciamo dalle affermazioni generiche, andiamo al concreto. Tre casi in un giorno solo. A Milano, clamorosamente, si scopre che il testimone-chiave contro Filippo Penati (ex presidente della Provincia ed ex dirigente di primissimo piano del Pd ai tempi di Bersani) aveva mentito, e aveva mentito – dice lui stesso – perché indotto alla menzogna dalla Procura con il ricatto del carcere. In poche parole, era stato costretto ad accusare ingiustamente Penati. In un paese civile una cosa del genere sarebbe uno scandalo devastante, raderebbe al suolo il prestigio dell’intera magistratura e farebbe saltare molte teste. Da noi no. Alzata di spalle. Contemporaneamente, sempre dalle parti di Milano, si riaccende lo scontro di potere del quale fin qui ha fatto le spese il dottor Robledo, inviso al potente Procuratore Bruti Liberati (anche perché spesso critico verso Bruti in modo un po’ troppo circostanziato). E lo stesso Robledo ora rischia un procedimento disciplinare per una vicenda che nasce da una discutibilissima intercettazione telefonica. Robledo avrebbe scambiato alcuni messaggi con un avvocato. Niente di rilevante penalmente, ha detto la stessa magistratura, ma ora deciderà il Csm se meritevole di una sanzione. Ci sono varie domande inquietanti a questo proposito. Una è questa: perché qualcuno intercettava il telefono del dottor Robledo, indagato di nulla, e di un avvocato (non andrebbero mai intercettati i telefoni degli avvocati, che devono difendere il segreto professionale)? Era legittima l’intercettazione o abusiva? Quante volte le intercettazioni telefoniche sono abusive? Sarà il caso di limitare le intercettazioni riportandole a livelli europei? (Ho detto, una domanda ma me ne sono venute di più…) Poi c’è un terzo episodio. La Procura di Catanzaro ha rinviato a Roma la decisione se incriminare o meno un Pm molto noto in Calabria, la dottoressa Ronchi, ex braccio destro di Pignatone, per abuso di ufficio, falso ideologico e altra robina così. La dottoressa è sospettata di aver cercato di incastrare, ingiustamente, un suo collega molto prestigioso, Alberto Cisterna, che all’epoca era il numero due dell’antimafia nazionale e che era candidato a diventare Procuratore a Reggio. Sembra che una parte della magistratura reggina non gradisse Cisterna, e c’è il sospetto che per eliminarlo dalla corsa si sia inventata accuse varie, anche forzando le deposizioni dei pentiti. Ma dove siamo? In Italia o nell’America Latina degli anni Settanta? Tre casi così clamorosi in una sola giornata non sono casuali. È chiaro che c’è un pezzo grandissimo di magistratura (così come c’è un pezzo grandissimo di politica) serissimo, incorruttibile, impegnato nel suo lavoro e nella difesa del diritto. Poi però è chiaro anche che c’è un altro pezzo, interessato solo alle lotte di potere, dentro la magistratura e tra magistratura e politica, e che nello svolgimento di queste lotte usa i mezzi peggiori, abusa, esercita violenza. Filippo Penati ha avuto la sua carriera politica annientata. Ora vagli a spiegare che il testimone lo accusava perché sennò qualche pm lo teneva in prigione! La Procura di Milano è quella che ha modificato profondamente la struttura della lotta politica in Italia, eliminando dalla scena uno dei suoi personaggi più importanti, e cioè Berlusconi, e riducendo quello che era il primo partito politico in Italia alla terza o alla quarta posizione. È legittimo pensare che in altre occasioni abbia usato mezzi illegali come quelli usati contro Penati? Noi chiediamo solo questo: è il caso di permettere che le cose continuino così? Possibile che la politica non trovi al suo interno le forze che hanno il coraggio di reagire? Se l’architetto Sarno confermerà di avere accusato Penati perché sennò i magistrati non lo facevano uscire di cella, chiunque sarà autorizzato a dire che in Italia esiste una forma legalizzata di tortura, e sarà acclarato che il carcere preventivo non è una misura cautelare ma uno strumento (medievale) di indagine. Vogliamo continuare a dire che non è questo il problema principale, e occupiamoci prima dell’Italicum, e del Senato e roba così? Facciamoci pure del male, come diceva Moretti, sapendo che stiamo andando verso la costruzione di uno Stato di non- diritto. Illegale e corrotto, fondato sulla sopraffazione.

Seicento milioni di euro, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. È questa la cifra stratosferica che lo Stato italiano ha speso, dal 1991 a oggi, per gli errori causati dai magistrati. È un quadro drammatico che emerge, come riportato dalla Stampa, dalle statistiche elaborate dal ministero dell’Economia e recapitate al ministero della Giustizia sull’entità dei risarcimenti liquidati dallo Stato per il malfunzionamento della giustizia. Nel caso delle ingiuste detenzioni, vale a dire i cittadini che sono stati portati ingiustamente in carcere in custodia cautelare e dopo sono stati assolti o addirittura prosciolti, nel corso del 2014 sono state accolte dai giudici delle corti d’appello 995 domande di risarcimento e liquidati 35,2 milioni di euro. Un aumento del 41,3% rispetto al 2013, quando le domande accolte erano state 757, per un totale di 24,9 milioni di euro. Quasi mille persone, in altre parole, hanno vissuto nell’anno che si è appena concluso l’incubo di essere incarcerate ingiustamente, con una privazione della propria libertà personale.

Una massa enorme ma silenziosa, destinata a crescere se si pensa che ancora oggi quasi la metà dei detenuti rinchiusi nelle carceri italiane è in attesa di giudizio. Se in termini democratici la situazione è impressionante, altrettanto lo è in termini economici. Dal 1991, lo Stato ha infatti speso circa 600 milioni di euro in risarcimenti per ingiusta detenzione, cifra che avrebbe potuto essere molto più elevata se la legge non stabilisse un tetto di circa 516mila euro per risarcimento (o, meglio, indennizzo). E il 2014 ha registrato un aumento anche per quanto riguarda i pagamenti per i casi di errore giudiziario, in cui cioè il condannato con sentenza definitiva si vede poi assolto dopo un processo di revisione: dai 4 casi del 2013 si è passati ai 17 del 2014, costate alle casse dello Stato 1,6 milioni di euro. «Sono numeri – commenta il viceministro della Giustizia Enrico Costa – che devono far riflettere. Si tratta di persone che si sono viste private della libertà personale ingiustamente e per le quali lo Stato ha riconosciuto l’errore, disponendo il pagamento di una somma a titolo di riparazione. Non limitiamoci al mero dato statistico: dietro ciascuno di questi numeri c’è una storia personale, ci sono trepidazioni, ansie, che un assegno, anche di migliaia di euro, non può cancellare. Fin tanto che ci sarà anche un solo caso di carcerazione ingiusta, illegittima o ingiustificata, dovremo batterci con forza: la civiltà giuridica di un Paese si misura anche, e soprattutto, da questi indicatori». Intanto se andiamo nel dettaglio a livello distrettuale, nel 2014, spicca ancora una volta la Calabria: ovvero Catanzaro con 6 milioni e 260 mila euro andati a 146 persone colpite da errori giudiziari.

Tutta la verità sul delitto di Sarah Scazzi.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande.

Caso Scazzi, intervista allo scrittore Antonio Giangrande che da avetranese ha scritto due libri: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese” e “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. La condanna e l’appello. Il resoconto di un avetranese”.

Due libri sul caso Sarah Scazzi. Interi reportage che raccontano un omicidio e tutto ciò che lo circonda “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keaton dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande. Risultato? “Un processo da rifare e due persone, Sabrina e Cosima, non legalmente in carcere indipendentemente dal fatto che siano colpevoli o no”. Un analisi approfondita, quella dello scrittore, dalle confessioni ai processi, dall’analisi dei personaggi alle intercettazioni ambientali e telefoniche. Giangrande è anche presidente dell’associazione Contro tutte le mafie ed è da anni che si occupa del caso Scazzi e di altri processi che ritiene “non correttamente svolti”.

Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

«Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. Eppure la presunzione d'innocenza è quasi una bestemmia, un lusso che non possiamo permetterci quando s'accende la sarabanda mediatica attorno - e dentro - al dolore e all'orrore di un delitto terribile e la “voglia di giustizia” diventa slogan buono per qualche striscione da appendere a favore di telecamera.  «Assassina/o, devi morire», gridano i popolani fuori le caserme o i commissariati. Urla e insulti da parte della gente che si raccoglie in folla per godersi lo spettacolo e vedere da vicino la “colpevole di turno”. Ma questi non hanno niente da fare?E’ successo a Cosima Serrano, Sabrina Misseri, a Veronica Panarello.  Anche Anna Maria Franzoni aveva sentito quelle urla la prima volta che l’avevano portata in prigione pochi giorni dopo la morte del piccolo Samuele. Le scene che abbiamo visto a Cogne e ad Avetrana, per citare solo due dei casi più famosi di cronaca nera degli ultimi anni, dovrebbero spingere, con un pizzico di cinismo, a non stupirsi più di tanto delle urla scagliate contro Veronica Panarello, accusata dell'omicidio del figlio Loris, al momento del suo arrivo nel carcere di piazza Lanza a Catania. In carcere, questo odio sociale, espresso a ruota libera sul web («devi morire», «ci vuole la pena di morte»), è ancora più duro. Il carcere non è solo un luogo di pena. E’ la realtà che credevi non esistesse, e che adesso appartiene alla tua vita. In effetti, i giornalisti stazionano nei piccoli centri con aggiornamenti costanti relativi all’evoluzione del casodi cronaca  e riportando qualsiasi notizia utile a farne parlare. Ma qual è l’utilità della ripetizione continua e morbosa di immagini di volti straziati dal dolore? Volti di mostri che potrebbero anche non essere tali. Qual è, dunque, la linea che separa la cronaca dall’accanimento? Il confine entro il quale la notizia secca viene preservata dal divenire puro e semplice gossip? Venti anni di “telenovelas” e di “politica del qualunquismo”, somministrato a suon di sorrisi, hanno reso questo confine labile, estremamente labile. L’accelerazione della rete, poi, ha esasperato e dilatato a dismisura un fenomeno complesso ma certo inarrestabile. Nonostante ciò, il problema resta. Resta il problema di comprendere dove arriva, realmente, la cronaca, cioè la narrazione dei fatti, per garantire alle persone strumenti di comprensione e dove, invece, comincia la speculazione. Come nel caso della notizia del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi, data al programma televisivo di Rai3 “Chi l’ha visto?”, mentre in collegamento diretto da Avetrana c’era la madre della ragazza. Gli arrestati sono innocenti fino a prova contraria. E non basta dirlo, come hanno fatto alcuni conduttori tv che nel frattempo speculano sulla morte delle vittime, bisogna anche praticarlo. In Procura e sui giornali. Ma qui vogliamo provare a ragionare per assurdo. E ci chiediamo: ma anche se fossero  colpevoli, meriterebbero di essere insultati e linciati, come stanno facendo media e cittadini-spettatori? Se sono colpevoli, anzi poiché sono colpevoli – dicono gli urlatori senza conoscere atti e fatti – non devono stare in carcere solo pochi anni, devono stare in galera per sempre. «Dovete – dice questo coro di giustizieri – buttare la chiave». Accusati ma innocenti fino a prova contraria. Accusati, ma non ancora definitivamente colpevoli davanti alla legge. Eppure, i media li hanno già condannati. Quello che importa in questo contesto non è se sia colpevole o innocente. Quello che importa qui è che ogni giorno, accendendo la tv o la radio, sfogliando un qualsiasi quotidiano cartaceo o online, veniamo a sapere di particolari, di dettagli di ogni interrogatorio, di ogni domanda posta dagli inquirenti, di ogni risposta data o non data: informazioni riservate inerenti ad atti di indagine che dovrebbero essere coperte dal segreto professionale. Bene. Qui non c’è reato? Mi chiedo come sia possibile questa totale mancanza di umanità. In nome delle vittime si giustificano i sentimenti peggiori: la vendetta, la violenza, l’odio. Ci si crede superiori a chi si condanna. È come se, nel giorno del giudizio, si stesse dalla parte di Dio a decidere chi deve essere punito e chi premiato. Il male appartiene all’altro, al mostro, a cui non si riesce a guardare con un po’ di umanità e di amore. La Costituzione italiana parla di reinserimento per il reo, di una seconda possibilità che deve essere offerta a chiunque. In questi casi di cronaca mediatica lo Stato di diritto sparisce, la Costituzione diventa un ricordo lontano. Si ritorna alle società barbare, all’occhio per occhio, dente per dente. Anni e anni di giustizialismo hanno cambiato la testa delle persone. Siamo davanti a un mutamento antropologico e cognitivo profondo. Ogni tanto sembra di cogliere segnali di un ravvedimento, di un ritorno a principi di civiltà. Ma poi ci accorgiamo che la storia più prossima ci racconta invece che stiamo attraversando un’epoca buia, senza pietà e senza capacità di identificarci con gli altri: con il loro dolore, ma anche con le loro parti buie, con le loro sofferenze ma anche con quella cattiveria che c’è nell’essere umano. Negandola diventiamo ancora peggiori. Ci sentiamo la parte buona della società, i migliori, e da questo ingannevole pulpito spariamo le nostre sentenze. Ci si crede superiori a chi si condanna, come se venissimo da Marte. Da un altro pianeta. Ma siamo italiani e lo rimarremo per sempre. Nessuno è migliore di un altro in questa Italia. Decine di miei saggi in anni di studio sociologico tendono a dimostrarlo. Uguali nella devianza. Siano essi giudici, che giudicati.  Le donne che hanno aspettato le loro simili uscire in manette, con lo smartphone in mano per fare le foto, non hanno avuto dubbi sulla loro colpevolezza – lo ha detto la tv, lo dicono i giudici – non hanno avuto pietà per donne come loro, per le loro paure e fragilità. Ci si chiederà ma le vittime che fine fanno in questo discorso? Non interessa che siano state uccise? Certo che interessa e che dispiace molto. Ma non è rinunciando alla presunzione di innocenza, né evocando la vendetta che li si riporta in vita. Non è così che li si piange. Il linciaggio e l’odio che vediamo esibirsi rendono solo questa società peggiore».

Lei ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

«Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti, compresi quelli favorevoli alle imputate. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia laurea in Giurisprudenza presa in soli due anni a Milano, con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista, mi ha reso immune da ogni condizionamento. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo è dal 1998 che non mi abilitano alla professione di avvocato in un esame di Stato che come tutti i concorsi pubblici ho provato con i miei libri essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione».

Ha scritto due libri sul caso Scazzi. Su cosa si è basato?

«Nei miei libri su Sarah racconto i fatti attraverso tutti i documenti del processo e riporto, citandone gli autori, questioni interessanti affrontate in modo imparziale».

Imparziale? In che senso?

«Faccio una considerazione per renderne l’idea. Il processo, per opportunità, non doveva tenersi a Taranto, ma solo l’avvocato Coppi ha avuto il coraggio di chiedere la rimessione del processo in altra sede per legittimo sospetto che i giudici non fossero sereni nel giudicare. La Cassazione ha respinto. Non tutti sanno, però, che la norma in oggetto è sempre disapplicata dagli ermellini. Sia mai che si leda l’infallibilità delle toghe. Comunque tutti gli avvocati di Sabrina, e ne ha cambiati tanti, son concordi nel credere alla sua innocenza, compresa Francesca Conte. Lo stesso discorso vale per i criminologi esperti presenti in tv, come Massimo Picozzi od Alessandro Meluzzi. Di conseguenza cade l’accusa per Cosima, per la quale addirittura non c’è nient’altro che un sogno».

Quindi giudici non sereni, e gli avvocati?

«Per quanto riguarda gli avvocati mi chiedo come abbiano fatto tutti i principi del foro ad arrivare ad Avetrana ed a proporsi in modo gratuito. L’avvocato Russo è stato convocato a rendere conto del suo operato, gli altri, no. Per quanto riguarda i consulenti tecnici invece, c’è da dire che chi è partito a sostenere una parte è finito ad avvantaggiarne un’altra. La criminologa Roberta Bruzzone, con il primo avvocato di Michele Misseri, Daniele Galoppa, è accusata dallo zio Michele di averlo indotto a dire il falso ed ad accusare la figlia. Alessandro Meluzzi consulente della famiglia Scazzi, sicuro della colpevolezza di Sabrina, cambia repentinamente idea e da tempo è convinto della sua innocenza».

Mentre i magistrati?

«Per quanto riguarda i magistrati c’è da sottolineare che in appello il sostituto procuratore generale, Pina Antonella Montanaro, è lo stesso Pubblico Ministero del caso Sebai. Il serial killer non creduto, ma condannato per l’unico omicidio per il quale non vi erano stati trovati colpevoli. Per gli altri delitti ci sono condannati che in carcere si professano innocenti. Il Giudice a latere, Susanna De Felice è il giudice che ha assolto Niki Vendola. La Procura di Taranto è invece rappresentata da Pietro Argentino, indagato per falsa testimonianza in quel di Potenza. La falsa testimonianza è quel reato di cui si accusano tutti i testimoni che hanno reso dichiarazioni che non erano in linea con la tesi accusatoria».

Insomma dubbi sulla serenità di giudizio. Li ha potuti verificare in altre occasioni?

«Recentemente la Corte di Appello ha accolto la richiesta dell’accusa di sospendere i termini di custodia cautelare. Strano. La dottoressa Montanaro, non appena ha avuto la parola dal giudice, si è premurata di chiedere di far restare le due donne in carcere. A suo dire la richiesta è d’obbligo perché il processo sarà particolarmente complesso. In un secondo grado di giudizio di natura cartolare e con ampie richieste delle difese respinte, come si fa a dire che il processo sarà particolarmente complesso, anziché chiedere al giudice di verificare, più avanti, se davvero il processo sarà talmente complesso da superare i termini di custodia cautelare? Motivo per cui la sua richiesta sarebbe dovuta essere respinta anche se le difese hanno obiettato solo con un gesto simbolico, con una reprimenda per l’intempestiva richiesta della PG».

Ma questo non porta a dire che le due donne, condannate in primo grado all’ergastolo, siano in carcere ingiustamente. Ci sono elementi invece che potrebbero sostenere questa tesi?

«Ovviamente. In un processo indiziario, appunto gli indizi, per formare una prova devono essere gravi, precisi e concordanti. E questo non risulta. Orari tirati da tutte le parti; testimonianze contraddittorie, dubbie e/o oniriche, perizie contestate ed incomplete. Ma non stiamo qui ad arzigogolare su veri o presunti indizi fonte di condanna, o veritieri o meno convincimenti personali di magistrati, avvocati e consulenti tecnici e sorvoliamo su efficaci o meno interpretazioni delle intercettazioni ambientali e telefoniche. Soffermiamoci su un fatto in particolare e fondamentale».

Quindi c’è un fattore più importante di tutti questi?

«Certo. In ogni Ordinamento Giuridico mondiale la confessione di un evento di cui se ne dichiari la paternità è considerata la prova regina. Ad Avetrana abbiamo un reo confesso che, a sostegno inequivocabile della sua confessione, ha fatto trovare il corpo della vittima del reato da lui confessato. Tale confessione è reputata dall’accusa e dalle parti civili e dichiarata dalla Corte d’Assise di primo grado inattendibile. Diverso è invece l’atteggiamento nei confronti della versione accusatoria nei confronti di Sabrina: attendibilissima. Le dichiarazioni di Michele sono credibili solo a convenienza».

E così sarebbe Michele l’assassino?

«Non posso dirlo ma una cosa in particolare mi preme affermare. Michele può essere considerato responsabile reo confesso del delitto o bugiardo patentato. Sabrina può essere considerata efferata assassina o innocente sacrificale. Tutto ciò è opinabile basando il giudizio su vani indizi: non precisi, non certi, non concordanti. Ma su Cosima cosa c’è? Il sogno di un fioraio, che viene contestato dalle testimonianze di chi, invece, nello stesso momento del rapimento ha visto Sarah libera, viva e vegeta. E ciò basta a far marcire in carcere un essere umano».

Quindi Cosima sarebbe un’altra vera vittima di tutto questo?

«Io credo che, siano essi innocenti o colpevoli, i protagonisti della vicenda meriterebbero un processo equo da parte di magistrati non influenzati per colleganza di Foro da eventuali errori commessi nelle fasi precedenti dai colleghi d’accusa e di giudizio. Anche nella prospettazione del reato. Si è escluso per principio l’omicidio colposo o l’omicidio preterintenzionale. Perché? Perché di esseri umani discutiamo in questa intervista e si discute nei fascicoli di causa. Non di inchiostro nero su carta bianca. E perché solo di verità si nutre la giustizia e la rimembranza della povera piccola Sarah».

Ma lei si ritiene innocentista?

«Io non sono innocentista. Non sono neanche colpevolista. Ma da degno giurista sono un semplice garantista e spero, nel profondo del cuore, che lo siano Magistrati e Media. Ed ognuno, con la propria verità, siano molto vicini alla verità storica. Purtroppo io dispero. Sin dalle prime fasi, ripeto a dire, che tutti saranno condannati a Taranto, in primo ed in secondo grado. Sarà la Cassazione a Roma, in lontani lidi, a rinfrancare la giustizia. La Suprema Corte non potrebbe non vedere i travisamenti di questo processo: che la Corte d'Assise sia stato presieduto da Cesarina Trunfio, vicino all’ufficio della pubblica accusa, quale ex sostituto procuratore di Taranto; che un giudice popolare sia stato sostituito in corso di dibattimento per aver manifestato il proprio pregiudizio; che i giudici abbiano fatto richiesta di astensione, dopo che un loro fuori onda era stato diffuso dalle tv; che siano state ignorate le sentenze della Cassazione che per due volte ha “annullato provvedimenti di custodia cautelare emessi nei confronti di Sabrina Misseri per mancanza di sufficienti indizi di colpevolezza”, tanto per citarne alcuni. E poi l’abominio totale. Se un giudice avesse già giudicato Giovanni Buccolieri, magari dichiarandolo innocente perché davvero spinto a firmare un verbale che non conteneva la verità, come poteva esistere un processo d'appello basato solo su quel sogno trasformato in realtà? E questa è la contraddizione delle contraddizioni. Un processo minore che dovrebbe essere celebrato prima per capire se il maggiore ha motivo di esistere, visto che il minore funge da stampella che sorregge l'accusa nel maggiore, invece inizierà solo il 2 marzo 2015 di fronte al giudice monocratico di Taranto e forse non sarà neppure celebrato, perché si porterà avanti sino alla prescrizione, ormai sicura, data la durata delle indagini, per fare in modo che non incida in alcun modo nel processo maggiore. Da non dimenticare poi, le speculazioni della Rai su Sarah Scazzi. Un processo pubblico che diventa cosa privata. La Rai impedisce l’uso pubblico delle immagini del processo di primo grado per il delitto di Sarah Scazzi. Un aspetto che i giornalisti stanno bene attenti a non approfondire. La Rai si è aggiudicata l’esclusiva televisiva del processo più mediatico della storia: a quale costo? A chi sono andati i diritti tv per le riprese esclusive del processo a Taranto? Al solo privilegio della tv di Stato in dispregio della libera concorrenza, o qualcuno ci ha guadagnato, perlomeno in visibilità? I difensori di Sabrina e Cosima si sono duramente opposti alla riprese televisive del processo e, in particolare, delle loro assistite. La Procura si è dimostrata favorevole alle riprese, così come la famiglia di Sarah. Cesarina Trunfio, presidente della Corte d’Assise di primo grado, ha stabilito il divieto di ripresa per tutte le telecamere, tranne per quelle della trasmissione "Un giorno in Pretura", in onda su Rai3. Il programma poi si impegnerà ad inoltrare le riprese alle altre trasmissioni. Per quanto riguarda la trasmissione integrale del dibattimento, sarà consentita a definizione del processo, e quindi dopo la sentenza di primo grado. Perché questa discriminazione mediatica? Perché questo uso monopolistico del diritto di cronaca? La Rai ha cessato ogni rapporto con youtube, dove i suoi video erano visibili nel suo canale predisposto e da cui si potevano estrapolare o inserire nelle pagine di terzi, previo rispetto dell’indicazione di autore e testata. Poca remunerazione dissero. Oggi chi vuol visionare i video Rai deve purgarsi con 30 secondi di pubblicità e comunque l’utente non può scaricare il filmato con le immagini del processo, alla faccia dell’impegno dell’inoltro alle altre trasmissioni. A prescindere dall’obbligo posto dalla magistratura tarantina, c’è un articolo, nella legge sul diritto d’autore, che rappresenta, mutata mutandis, quello che in altri paesi del mondo viene chiamato fair use e fair dealing: è l’art. 70 della Legge 22 aprile 1941 n. 63, che al primo comma recita: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.” Questa norma è la massima espressione del concetto di libera utilizzazione. Eppure la Rai contesta ogni video riprodotto da terzi su Youtube senza scopo di lucro ed a fini di critica, cronaca, divulgazione scientifica, a costo di far chiudere i suoi canali, reclamando la violazione del Copyright: “Dopo aver esaminato la contestazione, Rai ha deciso che il reclamo per violazione del copyright è ancora valido”. Così avvisa Youtube dopo la segnalazione della contestazione. La Rai è un’azienda pubblica e di pubblico dominio sono le sue opere. Anche perchè gli utenti, in qualità di contribuenti fiscali e pagatori del canone, finanziano la Rai e sono di diritto soci e quindi proprietari delle opere prodotte dall’emittente di Stato. Perché speculare su un delitto, impedendo da divulgazione delle fasi del processo, fregarsene delle norme sul diritto d’autore, disobbedire agli ordini del giudice di Taranto e far finta di niente? Le fasi del processo sul delitto di Avetrana non devono cadere nell’oblio, ma devono essere visionate e ben conosciute per poter trarre giusto giudizio senza mediazione opinabile».

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: < Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.>

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

LADRI, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, SI è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. ( vol tirà a campà)

SARAH SCAZZI: TUTTI I NUMERI DEL CASO.

Parliamo degli atti dell’inchiesta. Il numero che più di tutti può dare idea della vastità del «caso» Scazzi, è quello dello spazio necessario in una memoria digitale per contenere tutti gli atti dell’inchiesta (esclusi i filmati): tre miliardi, cento milioni e 160mila byte. Un’enormità, scrive Nazareno Dinoi sul Corriere del Mezzogiorno – Corriere della Sera. Quella sull’uccisione della quindicenne di Avetrana e sicuramente stata l’indagine più complessa e dispendiosa di uomini e mezzi della storia investigativa della Nazione. Ed ecco i numeri della grande inchiesta e dei processi sull’uccisione di Sarah Scazzi. Le indagini sono durate 10 mesi ed hanno prodotto materiale cartaceo raccolto in 12 grossi faldoni contenenti migliaia di pagine e immagini. Alla fine gli indagati sono stati in tutto ventisette implicati in due inchieste correlate. Sessantasette le udienze tra primo e secondo grado seguite da 58 giornalisti accreditati inviati da 32 testate. Guarda caso tutti colpevolisti che le carte non le hanno lette, così genuflessi alle voglie dei magistrati, salvo Maria Corbi de "la Stampa" e Ilaria Cavo di "Mediaset". La prima udienza davanti alla Corte d’assise del tribunale di Taranto si è aperta il 10 gennaio 2012 e si è chiusa il 15 aprile dell’anno dopo. Cinque i giorni di camera di consiglio prima di emettere la sentenza di condanna al massimo della pena per le due imputate principali, Sabrina Misseri, cugina di Sarah e Cosima Serrano, madre di Sabrina e zia della vittima. Primo grado di condanna anche per Michele Misseri (8 anni per la soppressione del cadavere), tutti confermati in appello. In primo grado furono condannati perché ritenuti complici di Michele nella soppressione, il fratello Carmine con il nipote Cosimo Cosma (morirà il 7 aprile 2014). La motivazione della sentenza è stata scritta in 1631 pagine, quasi tutti copia ed incolla degli atti dei pubblici ministeri.

Parliamo dell'interesse forense. Se qualche povero cristo cerca un avvocato con il gratuito patrocinio, specie con le nuove norme che ne inibiscono l'esercizio, si scontrerà con il rifiuto degli avvocati, che ti sbatteranno un "non sono più iscritto all'elenco". Certo a me è successo che prima il giudice Fulvia Misserini (giudice a latere del primo grado del processo Scazzi) mi ammetteva al Gratuito patrocinio e poi, anzichè lasciare la scelta a me, nominava Gianluigi De Donno di Manduria come l'avvocato abilitato al gratuito patrocinio per difendermi seduta stante. Nel proseguo del rapporto lo stesso avvocato minacciava l'abbandono se non pagassi e di fatti, per non restare senza difesa perchè tutti gli avvocati si rifiutavano di difendermi, ho dovuto pagare un legale già retribuito con il patrocinio a spese dello Stato. A fronte di questa realtà con il Caso Scazzi, invece, ci troviamo di fronte ad uno stuolo di principi del foro che fanno la coda per difendere i protagonisti, specie quelli principali. Un interesse economico e speculare, il loro, più che professionale. Il rapporto tra alcuni di loro ed i media è alquanto dubbio. Alcuni di loro sono pagati per rilasciare interviste. Avvocati che si alternano volta per volta. Addirittura molti vengono da lontano. Alcuni si propongono, e non si può, ma solo Vito Russo per questo è stato sottoposto a procedimento disciplinare. Per quanto riguarda i consulenti, poi, bisogna stendere un velo pietoso.

Parliamo dell'interesse mediatico e spettacolare. Enorme è stato l’interesse mediatico. Ad Avetrana ci sono stati inviati giornalistici e televisivi di tutto il mondo che senza soluzione di continuità che perseverano ancora a riempire i palinsesti delle grandi reti televisive ed ad occupare copertine e prime pagine di settimanali e quotidiani a tiratura nazionale. Tutto questo ha creato non poca invidia presso altri paesi, specie viciniori. Una vicenda che ha compreso tutti i risvolti che caratterizzano un fatto di sangue: il macabro, il noir, l’intrigo familiare, il sesso, il tradimento, il mistero. Non si è fatto mancare neanche il trash con le parodie su Michele Misseri, zio della vittima, divenuto soggetto per comici e imitatori ispirando canzoni e conquistandosi persino un posto nei presepi.

Parliamo della notorietà mondiale di Avetrana e della nomea. La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana, conosciuto fino ad allora solo per l'alacre attivismo della sua cittadinanza. Ha portato luce su un paese infastidendo chi vi abita, specialmente per le falsità che si son dette da parte di gente improvvisata alla professione. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra falsa peculiarità creata ad hoc dai giornalisti che artatamente volevano creare share, specie sulle tv commerciali: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Ma anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti per colpa dei magistrati tarantini che hanno perseguito tutti coloro che non hanno assecondato i loro fini e la complicità dei giornalisti, loro cani al guinzaglio, han fatto il resto a rovinare la reputazione del paese. Ma tant'è: tanti nemici detrattori, tanto onore!

Parliamo del risarcimento mostruoso ed insolubile. Caso Scazzi, sui Misseri scure risarcimenti per oltre 33 milioni, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. C’è un altro capitolo spinoso che si apre per la famiglia Misseri dopo la conferma, da parte della corte d’assise d’appello, della sentenza di condanna di Sabrina e Cosima all’ergastolo per il sequestro e l’omicidio di Sarah Scazzi, e della pena a 8 anni di reclusione per Michele Misseri, ritenuto responsabile dell’occultamento del cadavere della nipotina. Il capitolo, economicamente destabilizzante, è quello dei danni alla famiglia Scazzi, costituitasi parte civile tramite gli avvocati Nicodemo Gentile, Antonio Cozza, Walter Biscotti e il tarantino Luigi Palmieri (l’unico presente lunedì sera alla lettura della sentenza). La corte d’assise d’appello ha infatti condannato gli imputati al pagamento delle spese processuali a favore dello Stato e al pagamento di ben 36mila euro delle spese legali sostenute dalla famiglia Scazzi, dall’ex badante e dal Comune di Avetrana, costituitosi in giudizio tramite l’avvocato Pasquale Corleto. Il 20 aprile del 2013 la corte d’assise, al termine del processo di primo grado, dispose una provvisionale immediatamente esecutiva di 130mila euro a favore della famiglia Scazzi e di 3mila euro a favore dell’ex badante rumena della stessa famiglia, costituitasi nel processo contro Sabrina, accusata di calunnia nei suoi confronti. Ma il conto presentato dai difensori di parte civile - ora ancor più legittimati a procedere in separata sede - è di ben 33 milioni di euro. La maggior parte delle richieste (27 milioni) è a carico dei tre imputati principali: Sabrina Misseri, Cosima Serrano e Michele Misseri. Tre milioni di euro, invece, è stato chiesto come risarcimento danni all’altro imputato di concorso in soppressione di cadavere e cioè il fratello di Michele, Carmine Misseri. L’avvocato Luigi Palmieri, che assiste anche la romena Maria Ecaterina Pantir, ha invece chiesto un risarcimento danni di 250mila euro alla sola Sabrina Misseri che risponde di calunnia nei confronti dell’ex badante di casa Scazzi. Malgrado siano trascorsi più di due anni dalla sentenza di primo grado, la famiglia Misseri non ha pagato né le spese legali, né tantomeno la provvisionale immediatamente esecutiva. Adesso con una sentenza doppia conformo, e cioè che conferma le responsabilità dei condannati già in primo grado, gli avvocati passeranno all’attacco. Una prima richiesta di sequestro conservativo dei beni fu fatta all’inizio del dibattimento di primo grado ma i giudici respinsero la richiesta ritenendo che mancassero i presupposti per l’adozione di un provvedimento di sequestro conservativo in quanto «il patrimonio immobiliare degli imputati, la cui consistenza è evincibile dai documenti allegati alla istanza della parte civile, non presenti quel canone di inadeguatezza o insufficienza rispetto alle pretese risarcitorie». I giudici sottolinearono inoltre che «non erano stati indicati elementi certi ed univoci di un potenziale depauperamento del patrimonio degli imputati che, lo si ribadisce, è comunque costituito da beni immobili, se si eccettua un generico riferimento ad un pericolo di dispersione». Ma due sentenze dopo, e con altri 36mila euro di spese legali altrui da risarcire (tacendo delle proprie), il patrimonio della famiglia Misseri è decisamente a rischio, ma trattandosi dei Misseri e non dei Berlusconi, sembra che i tanti sciacalli sui resti dei malcapitati, poca carne potranno strappare.

«Entro solo per fare una precisazione (già fatta negli anni passati ma forse dimenticata) - scrive Massimo Prati sul suo blog “Albatros Volando Controvento” - L'avvocato Conte non se n'è andata di sua volontà. L'avvocato Conte è stato ricusato da Sabrina Misseri la sera stessa dell'incidente probatorio perché voleva essere difesa da chi credeva nella sua innocenza e non da chi preferiva farle prendere pochi anni di carcere accettando l'omicidio colposo tramite il famoso gioco del cavalluccio. Non c'entrano nulla gli avvocati difensori di allora che la Conte inizialmente pensò coinvolti nel suo esonero. Ripeto, fu Sabrina Misseri stessa che in totale autonomia decise di ricusarla perché non le piacque il modo anche troppo garbato e accondiscendente in cui si pose nell'incidente probatorio. L’avv. Francesca Conte (facente parte del collegio difensivo subentrando al posto di Vito Russo) fu ricusata da Sabrina in contrasto con la volontà della madre Cosima e della sorella Valentina. Per quanto riguarda Vito Russo, già dopo la polemica sulla Conte e successivamente alle perquisizioni nel suo studio e in casa sua, pubblicai in un commento del 2011 parte di una sua mail scrittami nel periodo in cui lo si accusava di aver remato contro la collega. Ripropongo la parte che interessa. "Per quanto riguarda la collega Conte che sin dall'inizio ho sempre stimato, tanto è vero che mi sono fatto da parte per farla subentrare, voglio precisare che la collega quando è andata a trovare Sabrina il 20 novembre non è potuta entrare perchè Sabrina l'aveva revocata e ne io e ne mia moglie potevamo saperlo. Primo perché mia moglie il giorno prima aveva fatto l'incidente probatorio finito tardissimo e poi il giorno dopo io sono andato a trovare Sabrina di Sabato precisamente e Sabrina aveva revocato il mandato alla Conte perchè secondo lei non confacente alle sue desiderate difensive. Le preciso ciò perchè sono stanco della mancanza di obiettività della gente però visto la buona penna che lei ha le sto esprimendo la realtà dei fatti. Resto in attesa con stima Vito..." Coppi, invece, è diventato avvocato di Sabrina successivamente all'incidente probatorio e lo fece dopo aver letto gli atti disponibili ed essersi reso conto della nullità dell'accusa. Glielo chiese un noto avvocato di Taranto e lo coinvolse dicendogli che dopo Sarah si stava uccidendo anche la cugina (al tempo Cosima Serrano era libera). Non c'era quando gli avvocati erano Russo e Velletri ed è facile da capire se si pensa che Russo fece spazio alla Conte perché lui non aveva i titoli giusti per partecipare all'incidente probatorio. Coppi li aveva, e se fosse stato già l'avvocato di Sabrina avrebbe presenziato lui all'incidente probatorio e non sarebbe servito andare a Lecce a chiedere alla Conte. Fra l'altro Coppi dopo aver accettato l'incarico si appoggiò a Marseglia, non allo studio Russo-Velletri, e per dare a Cesare quel che è di Cesare, non ha mai percepito un euro dai Misseri e neppure ne vuole ora. Per farti un esempio che i media non riportano anche se lo conoscono, quando Valentina Misseri vinse la causa contro Raffaele Morelli - che in una puntata di Matrix esagerò con le parole e dovette pagarle 10.000 euro - lei si presentò da Coppi chiedendogli se glieli poteva dare almeno per ripagarlo della carta e delle fotocopie che si sommavano a migliaia. Coppi la mandò via dicendole che se avesse osato ancora presentarsi a lui e tirar fuori un euro non le avrebbe più rivolto la parola... Per quanto riguarda il sotterraneo... riguarda i consigli che non accettò Sabrina quando preferì essere giudicata a processo e non chiudere la questione in pochi mesi. In pratica, se lei avesse accettato di fare il caprio espiatorio ammettendo l'omicidio colposo dovuto al cavalluccio, la condanna sarebbe stata lieve e ora sarebbe a casina sua libera come l'aria. Ciò che intendo dire, è che c'era chi spingeva affinché la ricostruzione del 19 novembre diventasse la definitiva. Questo è quanto, altro è fuffa mediatica, Massimo».

«Dopo il mio commento - scrive Massimo Prati - ho verificato i vari passaggi avvenuti nel periodo 2010-2011 e mi sono reso conto di non aver scritto quanto una giusta informazione avrebbe voluto, perché in effetti l'avvocato Coppi ha affiancato lo studio Russo-Velletri già a dicembre 2010 e ha condiviso la difesa con lo studio legale Russo-Velletri sino a maggio del 2011. Inoltre ho chiesto, a chi mi aveva parlato del "noto avvocato", e mi ha confermato che il dottor Coppi è entrato nel collegio difensivo grazie al dottor Russo e alla dottoressa Velletri. A questo punto ho contattato l'avvocato Emilia Velletri che via e-mail mi ha ricordato il giusto ordine degli avvenimenti accaduti in quel periodo. Per cui devo rettificare in parte quanto scritto precedentemente. Riporto parti della mail inviatami dalla dottoressa Velletri: - (...) il Prof Coppi è stato voluto in affiancamento per la difesa da Vito e da me sin dall'inizio dell'incarico (...) il Prof Coppi ha ricevuto da noi gli atti del processo e ha valutato se assumere o meno l'incarico, venendo comunque sempre informato sull'andamento processuale e sulla linea difensiva (...) l'Avv Conte è stata immediatamente informata del nostro interessamento al Prof Coppi che a metà dicembre 2010 ha formalizzato la sua nomina, facendo revocare Vito (per pochi mesi non ancora Cassazionista) almeno fino al giudizio in Cassazione, dove avrei dovuto affiancarlo io, in quanto già patrocinante in Cassazione dal 2008 (...) Non è quindi assolutamente vero che il Prof Coppi non ha mai difeso Sabrina contemporaneamente a me e all'Avv. Russo, così come non è assolutamente vero che il Professore non ha avuto più contatti con il nostro studio. Anzi, subito dopo il nostro forzato abbandono del processo Misseri il Prof Coppi ha sostenuto accanto all'Avv. Russo la difesa di un altro imputato per omicidio volontario. Ritengo che quanto illustrato possa aver chiarito definitivamente la vicenda e, in virtù della stima che nutro nei suoi confronti, sono sicura che provvederà a rettificare quanto da lei erroneamente scritto nel suo commento. - Con questa rettifica credo anch'io di aver ristabilito la verità degli avvenimenti. Mi scuso con tutti per quanto erroneamente ricordato e poi scritto nel commento precedente, in primis con i dottori Russo e Velletri.»

I luoghi comuni e i mali del Bel Paese e dell'italiano moderno che si lascia condurre all'ovile dal "buon pastore", invece scrive su quel blog Gilberto Migliorini. Nel labirinto delle magagne italiane ci sarebbero (il condizionale è retorico), incompetenza, disonestà, corruzione, pressapochismo e tutti quelli che vengono indicati come i proverbiali mali che ci affliggono da così tanto tempo. Già Dante definì l’Italia in modo sprezzante “non donna di provincia ma bordello” e infierì sull'ipocrisia e sul malcostume che affliggevano "ideologicamente" la penisola sul versante religioso e politico. Spesso di fronte agli avvenimenti che si registrano giornalmente, come i fatti di cronaca, si reagisce senza neppure più stupore o incredulità, ma con una sorta di rassegnata consapevolezza, come se quello che accade in ogni ambito delle istituzioni fosse l’esito ineluttabile della nostra cultura e della nostra tradizione politica. Si tratta di una sorta di presa d’atto che, per sua natura, il paese non può cambiare, perché antropologicamente i suoi mali sono la conseguenza della nostra forma mentis. È come se fossimo naturalmente predisposti ad essere un popolo infido e opportunista. Il genio e la sregolatezza disegnano quello stereotipo dell’italiano al quale in fondo piace l’immagine convenzionale che ne descrive il carattere da incorreggibile lestofante, sia pure con estro stravagante e con un retaggio ricco di cimeli storici. L’icona dell’italiano ha trovato i suoi caratteri in diversi personaggi della nostra storia patria, spesso purtroppo anche figure non edificanti, per non dire squallide, ma abbastanza suggestive da suscitare in molti connazionali degli atteggiamenti imitativi, per una sorta di consonanza affettiva e di identificazione proiettiva. Si tende spesso a confondere i mali cronici del Bel Paese con le cause profonde che li riproducono incessantemente e li tengono vivi e costantemente aggiornati, come se si trattasse di rinverdire e accudire qualcosa che per quanto deleterio gode di costante e affettuosa premura. Cosa c’è a monte dei vizi che ci affliggono e che in fondo, surrettiziamente, si amano come se si trattasse di talenti e non di piaghe sciagurate e nefaste? La domanda parrebbe paradossale, soprattutto per tutti quelli che fanno dell’onestà e della correttezza la bandiera vuoi di un riformismo politico e vuoi di una concezione ideologica di ravvedimento. C’è pur sempre quel bacino di santi e beati a ringalluzzire e rialzare lo share di un paese dove per dirla col poeta son tutti barattieri, e dove i naviganti, novelli Colombo, non disdegnano transazioni truffaldine in qualche sito internettiano, mentre i poeti, del naufragar m’è dolce in questo mare, conservano giusto l’allusione a qualche paradiso fiscale. Ci possano essere cause più profonde e in certo senso invisibili a quelli che sono i proverbiali sette peccati capitali, nel modo di concepire i rapporti umani e le relazioni interpersonali? Gli egoismi dei gruppi sociali e dei privilegi di casta fanno della democrazia una immagine oleografica, un flatus vocis di maniera dietro al quale i valori sfumano in alleanze politiche in un sincretismo da nouvelle cuisine. Lo slogan ideologico è una sorta di mantra di trombe e tromboni che ce la suonano e ce la cantano con collaudata nonchalance...Si allude il più delle volte a un mero orpello, a un’etichetta appiccicata su un sistema dove l’enfasi e la demagogia la fanno da padrone con tutta quella carica di perbenismo ammuffito e di trasformismo del compromesso. Si trova sempre la quadratura del cerchio e si dimostra che qualunque scelta è coerente rispetto ai begli ideali declamati nelle nebbie, sempre attuali e condivisi con quell’oratoria da avanspettacolo che piace tanto alla palude mediatica. L’italiano è sempre affezionato ai suoi stereotipi, alla sua immagine deformata nello speculum, cronicamente incapace di guardarsi senza filtri e autoinganni. Quegli occhiali non sa più togliere e ormai fanno parte integrante del suo corredo sensoriale, perfino quando dorme e quando sogna. Il problema è l’immagine che crediamo di riconoscere allo specchio, quella icona graziosa e convenzionale che i media trasmettono incessantemente e di cui l’italiano è insieme complice e ispiratore. L’immaginario è in quella palude di personaggi pubblici - più o meno rilevanti, più o meno ridondanti - che ci dovrebbero rappresentare soprattutto come modello, quello che vorremmo essere e nel quale riconoscerci. È quel pantheon che va dai politici, uomini di scienza e di fede, intellettuali, scienziati, scrittori…. fino all’altro estremo di cantanti, attori, sportivi, veline, letterine… quell’Italia che fa immagine, ma soprattutto da modello per un italiano medio che in genere vive di riflesso, abbastanza spersonalizzato da desiderare di assumere l’identità ideale (e seriale) di quelli che il più delle volte sono soltanto icone, immagini della pubblicità e artefatti simili a gusci vuoti, personaggi di carta e modelli di cera… È Il mondo falso e convenzionale delle icone del gossip, della carta patinata e più in generale delle ‘personalità’ più o meno mantecate, arzigogolate,imbellettate, gonfiate… il presepe con i soliti noti a far da Madonna, San Giuseppe e Gesù Bambino, ma ci sono anche i pastori con il mondo delle arti e dei mestieri… insomma, ci siamo tutti. In quell’universo ingessato e convenzionale l’italiano si riconosce come belante pecorella tra muschi e licheni. L’elemento a monte dei mali dell’Italia è appunto la spersonalizzazione, un italiano che vive di riflesso di immagini virtuali, di veline, di ologrammi… e che di veramente suo non ha davvero più niente salvo quella capacità di assimilare quei modelli effimeri, di indossare abiti mentali, di fare di quelle icone mediatiche il suo ideale plastificato e riciclato. La spersonalizzazione dell’italiano è il segno tangibile di un vuoto culturale che si esprime nella pedissequa ripetizione di uno slogan esemplarmente vacuo e indiscernibile, quello di un paese di santi poeti e navigatori e nell'attualità dei simulacri rappresentati da valori piovuti dall'alto, immagini di sintesi e idealtipi come risultato di un lavoro di montaggio, icone di cartongesso e collage di modelli taglia e incolla. Alla dissoluzione della scuola pubblica - nella quale le famiglie hanno costituito il riflesso di un sistema di artefatti e icone ideografiche - ha fatto seguito la distruzione di tutte le altre possibili agenzie educative, compresa la televisione pubblica, in un crescente adeguamento alla spersonalizzazione dell’utenza e alla sua omologazione in quanto appendice passiva del sistema pubblicità-propaganda-indottrinamento. L’italiano medio vive la cultura come una sorta di res extensa, di oggetto reificato, e non già come un vissuto da esplorare e condividere, non come un’opportunità e una sfida contro i luoghi comuni e gli stereotipi, non come un’opportunità di comprensione e di disvelamento degli inganni e delle fate morgane. I pregiudizi di una cultura ridotta a cosa e a catena di montaggio, si mantengono in forza dell’esteriorità, della riproducibilità e della imitazione pedissequa. L’approfondimento personale e la comprensione della realtà di cui si è partecipi e interpreti esiste solo come slogan. Una cultura quella dell’italiano medio intesa come mera riproduzione e fotocopia, grazie anche a una scuola costruita sulla demagogia e sul conformismo. La televisione attraverso tanti programmi di intrattenimento seriale e format di cultura omogeneizzata, uniformata e conformata, ha ridotto l’utenza a una appendice passiva e a mero riflesso del consenso. Il pubblico - che in altri periodi storici, sia pure nell’ambito della sola borghesia, era critico vigile e attento - si è progressivamente trasformato nell’icona di tanta filmografia, nel concorrente di un gioco a quiz… nel fedele riproduttore di tutti i luoghi comuni che i media elargiscono a piene mani. L’ipse dixit è diventato quel personaggio fantasmatico, il convitato di pietra come quintessenza ideologica e falsa coscienza di un popolo alle prese con l’ennesimo sceneggiato che ne rappresenta l’immagine convenzionale. Le agenzie educative nazional popolari hanno trasformato la cultura dell’italiano medio inun orticello di ideogrammi caratteriali e di modelli preconfezionati e pronti all'uso: un sistema predigerito e precotto, un bell'insieme di figurine da incollare sull'album di famiglia. La cultura intesa come decalcomania ha predisposto l’italiano a considerare i personaggi pubblici come i suoi referenti, i modelli che fanno della vita civile di un paese il pantheon delle ovvietà e dei luoghi comuni. La figura dell’opinionista è emblematica per un italiano che nell'interprete trova quei punti di riferimento che ne colmano il vuoto culturale. Il conformismo è declinato un po’ con l’esperto e un po’ con l'affabulatore e il cantastorie, un personaggio che richiama gli amuleti e i talismani che nelle favole sciolgono incantesimi e svelano gli arcani. Dall'opinionista l’italiano pretende che gli dica quello che lui in fondo sa già, non il grillo parlante della favola di Pinocchio, ma il gatto e la volpe ben sintonizzati a rabberciare quello che a lui piace ascoltare. L’opinionista conferma tutti i luoghi comuni del suo repertorio, quello rassicurante del si dice e quello familiare del si è sempre fatto così - non esprime opinioni, ma solo sentenze, non formula veri ragionamenti ma solo prolusioni. La figura è emblematica perché costituisce l’alter-ego di un italiano che si esprime sull'onda emozionale, sul sentito dire e sul presunto prestigio di chi crede dotato di un potere taumaturgico. Forse il male dell’Italia è in quella delega concessa non già a rappresentare ma a trasformare il popolo in una sorta di gregge che si lascia condurre all'ovile. Il buon pastore, anche lui pecora del suo gregge, ha quell'aria da esperto fornito di delega. In fondo anche lui ha il suo di batacchio al collo e bela con convinzione…

È sconcertante sapere che il giudice Patrizia Sinisi, che ha confermato l’ergastolo inflitto a Sabrina e Cosima, ha notificato alle imputate il fatto che i termini di custodia cautelare scadranno nel 2017, una data eccessiva per delle persone che sono ancora in attesa di una sentenza definitiva e quindi innocenti. Che abbia bisogno di più di un anno per scrivere le motivazioni? D’altra parte non mi stupirei, visto che quelle di primo grado sono arrivate dopo 11 mesi dal pronunciamento del dispositivo, dice Vincenzo Postiglione. Se questo va chiamato Stato di diritto, a ragion veduta mi farei una bella risata per evitare di piangere. E la cosa che mi fa più paura è che queste iniquità passino inosservate, ovvero omesse dall’indifferenza dei media (che fino ad oggi hanno scatenato un pandemonio contro le due donne), facendo sì che a tragedia di aggiunga a tragedia: la morte di Sarah, una quindicenne i cui sogni sono stati infranti da una mano umana; Sabrina e Cosima, due innocenti in carcere con la drammatica, triste prospettiva di rimanerci per sempre. Mi sovviene pertanto una domanda: cosa stanno insegnando gli errori giudiziari come quelli di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, Domenico Morrone e Giuseppe Gulotta? Date le tragiche circostanze, direi: niente! Fra le migliaia di penne che brulicano sul web, tra i centinaia opinionisti che fanno uso delle loro competenze con pedanteria, sono in pochi a chiedersi se la carcerazione preventiva di queste due donne possa rivelarsi un errore giudiziario in futuro.

Occhio per occhio dente per dente, scrive Massimo Prati su "Albatros. Volando Controvento". Una drastica soluzione per far cessare i sequestri di stato dei magistrati non professionali che se ne fregano della vita altrui. Un altro processo che neppure doveva iniziare si sta celebrando contro Massimo Bossetti nell'italica terra conosciuta nel mondo perché resa famosa da santi, poeti e navigatori. Queste le categorie più famose. Ma in Italia ci sono anche tanti eccellenti investigatori, procuratori e giudici che operando per come vuole la legge riescono a chiudere indagini scomode prima che finiscano sui media. Su quei media che pressando mischiano le carte e calando l'asso del pregiudizio aizzano il popolo e spaiano le indagini. Naturalmente le eccellenze non si fanno notare. Com'è giusto che sia restano nell'ombra, non cercano pubblicità e non accettano, specialmente prima di aver portato l'imputato a processo, di parlare coi media, italiani o stranieri, di una indagine che ancora non ha superato il vaglio dei giudici. Le persone semplici ammirano gli uomini con la divisa o con la toga. Li vedono maneggiare il potere e pensano di avere a che fare con menti superiori, con una categoria professionale e seria al cento per cento. Ma una categoria simile non esiste in nessuna parte del mondo. Come capita in qualsiasi azienda, fra migliaia di persone che lavorano nel migliore dei modi si troverà sempre una percentuale, alta o bassa che sia, che risulta meno produttiva o addirittura incapace. Logicamente l'azienda privata può migliorare in produttività se chi la dirige usa gli strumenti in suo possesso per provare a livellare i suoi dipendenti (se non ci riesce li licenzia). Basandosi su questa ovvia banalità c'è quindi da chiedersi chi diriga l'azienda Italia, in special modo il settore giustizia, visto che lo stesso discorso sulla professionalità si può fare sui giudici. Anche fra loro ce ne sono di molto validi (che sentenziano basandosi sul codice penale e sul buonsenso) e di poco validi (quelli che si affidano alle procure e a regole proprie non scritte in nessun codice penale). Che sia così non è una mia impressione, ma è un dato di fatto visto che la nostra giustizia non sta messa bene (prima di noi in classifica ci sono Gambia, Mongolia e Vietnam), visto che Strasburgo ciclicamente ci multa a causa dei processi infiniti e dei troppi anni trascorsi in carcere da chi è in attesa dei verdetti. Nessun media alza la voce e il popolo non si indigna per i tanti milioni di euro buttati al vento da una categoria privilegiata con stipendi di lusso. Forse è per questo che la pubblica opinione non ha neppure capito che in Italia i veri criminali, nonostante le indagini massicce e i tanti denari spesi, non si scoprono mai (vedi il caso del "mostro di Firenze", ma anche di Simonetta Cesaroni, Serena Mollicone, Emanuela Orlandi, Denise Pipitone, Cristina Golinucci, Angela Celentano e tantissimi altri archiviati o in odor di archiviazione). Anche i criminali stranieri sanno che i nostri processi faticano a partire e quando partono non arrivano coi tempi giusti, che troppo spesso finiscono con la prescrizione del reato, che troppo spesso sono preparati e celebrati con spirito libero e fantasioso e non con le tavole della legge. Lo sanno che in una situazione del genere difficilmente rischiano di restare per troppi anni in una cella italiana. E questo dovremmo saperlo anche noi, dato che siamo una delle nazioni che non accontentandosi di avere una propria e ben nutrita lista di organizzazioni criminali (mafia, n'drangheta, camorra e via dicendo) permette ad altre di entrare liberamente e proliferare. Criminali africani e dell'est Europa, della Cina e di ogni altro Stato che applichi pene certe e dure, si ritrovano nelle nostre città e si associano perché da noi certi crimini sono ormai una routine e per i media non paiono essere di prima fascia. Pochi sono i delinquenti che una volta arrestati da poliziotti e carabinieri restano in carcere. Alla faccia di chi ha rischiato anche la vita pur di portare di fronte a un giudice chi è di certo colpevole perché arrestato in fragranza di reato. Ma i loschi personaggi che delinquono abitualmente da noi se la cavano con una tirata d'orecchie e un foglio di via che nove volte su dieci rimane lettera morta. Quante volte ci siamo sentiti dire che l'assassino del tal dei tali era già stato arrestato e poi rilasciato con un foglio di via? Per tutti vale Ezzedine Sebai, che fu arrestato e rilasciato innumerevoli volte prima che si spostasse in Puglia dove uccise moltissime donne anziane. La nostra giustizia è particolare e nelle carceri italiane non ci restano neppure i reo confessi che ammazzano in maniera efferata e che, confessando i delitti, quasi mai vanno in cella prima del processo e dopo la condanna in galera ci stanno dai sette ai dieci anni. Non di più. Da noi, fateci caso, in carcere in attesa dei processi più seguiti dai media ci sono persone incensurate, quelle che come la maggioranza degli italiani vivono una vita semplice e che credendo nella giustizia si dichiarano innocenti perché non è giusto ammettere di aver ucciso se non si è ucciso. Persone che non avendo mai frequentato il mondo giustizia, in cui vivono investigatori procuratori e giudici, non immaginano neppure che una volta rinchiuse in cella non usciranno più perché la custodia cautelare è una bestia assatanata che ubbidisce solo alle procure e che neppure i giudici sono capaci di domare. Gli esempi al momento sono tanti. Si va da Veronica Panarello a Michele Buoninconti, da Padre Graziano a Massimo Bossetti e ad altri un po' meno mediatici. Tutte persone ancora da giudicare che si dichiarano innocenti e attendono in carcere processi e sentenze. Persone che dalle loro celle guardano la televisione e assistono impotenti ai processi sommari in cui vengono stuprate moralmente e condannate a prescindere. Ma più di loro il carcere cautelare ha colpito Amanda Knox e Raffaele Sollecito, ora assolti con sentenza definitiva, e ancora più di questi ultimi è toccato a Sabrina Misseri (ma anche a sua madre) sulla cui posizione occorre soffermarsi un attimo. La stragrande maggioranza degli italiani crede che la ragazza di Avetrana abbia ucciso sua cugina e meriti di restare in galera. Lo crede non perché ci siano prove a conferma, non perché a processo sia stata dipinta quale ragazza vendicativa capace di alzare le mani sulle rivali, ma perché l'informazione e gli opinionisti mediatici, in nome e per conto della procura, hanno spruzzato quell'enorme odore di pregiudizio che fa perdere alla mente ogni cognizione razionale. Tutti si sono sentiti, grazie all'impronta data alle notizie dai giornalai, buoni investigatori e buoni giudici e tutti ora credono che per giudicare colpevole una persona, semplice come loro ma dipinta di nero dai media, non serva leggere gli atti e ascoltare gli interrogatori ma basti l'intuito, il particolare stonato che fa pensar male ed è confermato dal tal opinionista televisivo che, dice, ha letto ogni parola. Ma non è vero che ha letto ogni parola è non così che funziona la giustizia. Se si ragionasse a questo modo tutti potremmo finire in carcere e dopo essere dipinti di nero restarvi per la vita. Per giudicare occorre avere la mente sgombra. Per imbastire un giusto processo bisogna evitare che i giudici popolari ascoltino gli opinionisti dare per certa la colpevolezza dell'imputato che ancora deve essere giudicato. I giudici togati e popolari non si scelgono ad inizio indagine ma a inizio processo. Perciò non si possono tenere all'oscuro di ciò che nel frattempo sui media "si dice" e si dà per certo. Per questo i giudici moderni, togati e popolari, quando un processo è mediatico non dovrebbero essere italiani ma stranieri. Solo così vi sarebbe la certezza di far entrare in tribunale persone che nulla sanno né del crimine in questione né di chi la procura crede colpevole. E' l'unica soluzione accettabile, dato che invece di far parlare e scrivere i giornalisti specializzati gli editori lasciano campo libero ai giornalai dello scoop. Per essere veri giornalisti, per essere idonei ad informare la pubblica opinione (quindi anche i giudici popolari) senza inserire pregiudizi, occorre saper guardare i fatti senza emotività e ragionare con la propria testa evitando di riportare, in video o sui giornali, quanto dice l'accusa senza prima averlo vagliato con logica e, se è possibile, senza prima averne parlato con la difesa. Invece il settore informazione è in confusione. Vige la regola del chi prima arriva meglio alloggia e pur di pubblicare lo scoop non si verifica nulla di quanto si scrive finendo per fare il gioco di chi sa bene che le parole fanno più male delle armi. Un giornalista degno di tal nome, dopo aver letto gli atti e ascoltato i vari testimoni interrogati nel primo processo di Taranto non potrebbe fare a meno di dire ad alta voce che non c'è uno straccio di indizio valido che faccia pensare colpevole Sabrina Misseri, che per assolverla sarebbe bastato un solo processo celebrato in un'altra città. Purtroppo non tutti hanno letto e ascoltato e purtroppo a qualcuno, che sui media ci sguazza, la condanna "fa gioco". Ma lasciamoli perdere i processi di Taranto perché troppo spesso si rivelano sbagliati (vedi Domenico Morrone e tanti altri condannati dai giudici tarantini e poi riconosciuti innocenti) e concentriamoci sulla legge italiana che vuole in custodia cautelare chi, accusato di un crimine, restando libero ha la possibilità di reiterare il reato (un serial killer dovrebbe restare in carcere, non un incensurato ancora da giudicare), di fuggire dall'Italia (un criminale sconosciuto al grande pubblico che ha amicizie a Santo Domingo dovrebbe restare in carcere, non chi per anni ha visto la sua faccia campeggiare sui media) e inquinare le prove (se ci sono indagini in corso e testimoni da interrogare è giusto che l'imputato resti in carcere, ma quando le indagini finiscono cosa può inquinare?). Queste le tre condizioni necessarie per tenere in galera chi è in attesa di processo (ne basta una valida per non liberare gli imputati). Ora dovete sapere che Sabrina Misseri è in custodia cautelare dal 15 ottobre 2010 e che il giudice Patrizia Sinisi qualche giorno fa le ha notificato un atto in cui le comunica che, non si dovesse pronunciare prima la Corte di Cassazione, magari perché alla giudice servirà più di un anno e mezzo per motivare la sua sentenza (d'altronde la sua collega tarantina Cesarina Trunfio ci mise un anno), i termini di custodia in carcere per lei scadranno nel settembre del 2017. Quindi, per la ragazza di Avetrana i giusti anni in custodia cautelare sarebbero sette, tanti quanti ne ha scontati un marito di Belluno dopo aver ucciso la moglie con venti coltellate mentre la loro bimba dormiva nella camera accanto. In pratica, l'uomo di Belluno, che certamente è un assassino dato che ha ucciso barbaramente sua moglie, dopo soli sette anni di carcere è tornato libero perché ha scontato la sua pena. Sabrina Misseri, che come altri imputati italiani è in custodia cautelare perché si è dichiarata estranea al delitto, potrebbe invece restare sequestrata per gli stessi sette anni... ma senza motivo se alla fine dell'iter processuale la Cassazione dovesse ritenerla innocente. In certi casi la giustizia italiana interpreta a suo piacimento. Bruciato il codice penale se la prende comoda, motiva a piacimento e dopo aver fatto un rapido calcolo matematico decide che tutto torna. Come se fosse normale restare chiusi in galera in attesa di essere processati per qualcosa che si dice non aver commesso. Certo è che tanti procuratori e giudici ritengono la custodia cautelare in carcere una misura giuridica normale, visto che per anni e anni chiudono in galera gli imputati che si proclamano innocenti. In carcere sono e in carcere devono restare quelle persone che l'accusa vuole colpevoli. Anche se sono incensurate, anche se non ci sono prove e gli indizi non si incastrano fra loro, anche se non sono ancora state depositate le perizie in grado di confermare, ma anche di smentire, tesi accusatorie che spesso superano la normale immaginazione. Penso a Massimo Bossetti, arrestato in maniera vergognosa mentre lavorava e infilato in galera a causa di un Dna strampalato. Penso a Michele Buoninconti, arrestato a causa di una perizia voluta dalla procura che due mesi dopo anche i tecnici dei carabinieri hanno smentito. Penso a Veronica Panarello, arrestata dopo un interrogatorio fuorilegge e chiusa in carcere in attesa di una perizia che potrebbe inchiodarla ma anche scagionarla. Penso che se per i procuratori e i giudici è normale che una ragazza resti sette anni in custodia cautelare, dovrebbe essere anche normale che chi lavora per lo Stato paghi con la stessa moneta se un domani la Cassazione decidesse, a buon ragione, di mettere davvero in pratica le motivazioni della sentenza Knox-Sollecito. Insomma, le ricostruzioni accusatorie assurde non sono idonee né a condannare né a tenere in carcere persone incensurate e chi le fa proprie, per ottenere condanne e condannare, deve assumersi le proprie responsabilità se invece della condanna arriva l'assoluzione. Arrestare e rinchiudere in carcere persone innocenti è o non è un sequestro di stato? Se un domani prossimo a venire Sabrina Misseri, Cosima Serrano, Veronica Panarello, Massimo Bossetti e gli altri ora in galera venissero scagionati per l'assurdità delle ricostruzioni accusatorie, chi ridarebbe loro la dignità stuprata dai media e gli anni trascorsi ingiustamente in cella? Chi ridarebbe la vita e la dignità persa a una ragazza diventata donna in carcere, a una madre a cui hanno ucciso un figlio e a un carpentiere a cui hanno distrutto vita e famiglia? Non c'è in natura nulla che possa ridare quanto perso. Non c'è nulla che possa riuscire a cancellare il dolore subito a causa di persone che non si sono mostrate professionali. Chi manda in carcere le persone innocenti capisce quanto dolore provoca? Forse no, forse certi magistrati dovrebbero provarlo sulla loro pelle per capirlo. Ed allora non c'è altra soluzione che mandare in carcere i procuratori e i giudici che vogliono e avallano la custodia cautelare senza avere in mano prove serie. Magari con ricostruzioni oniriche o fantasiose. Questi uomini a cui lo stato dona potere sarebbero disposti a pareggiare la situazione e a rimetterci del loro nel caso di assoluzioni in Cassazione? Sarebbero disposti a mostrarsi uomini veri e ad andare in galera se si scoprisse che non hanno lavorato in maniera professionale? Io credo di no. Credo che non rinunceranno mai ai privilegi che garantisce lo stato anche se loro per primi, sequestrando e mandando persone in carcere (senza avere alcuna certezza della colpevolezza), sputano sopra la presunzione d'innocenza e su altri diritti che la Giustizia vuole siano garantiti a chi viene indagato. Non ultimo quello di poter attendere gli esiti dei procedimenti giudiziari assieme alla propria famiglia e non in carcere. Quella della custodia cautelare ingiusta è una piaga che va debellata, non v'è dubbio, e dovrebbe essere l'informazione a inserire il dito nella ferita affinché il male continuo costringa le istituzioni a curarla. Ma quando mai lo farà? A parer mio basterebbe un anno di"occhio per occhio - dente per dente" per rimettere in carreggiata i magistrati che ne abusano. Non sarebbe una cosa assurda e visto che tantissimi procuratori e giudici sono davvero bravi e professionali, forse non sarebbe neppure difficile da far accettare a quella maggioranza dei magistrati che da tempo è stanca di essere accomunata a certe persone...

Con le motivazioni Knox-Sollecito la Cassazione mostra i pugni a chi privo di professionalità lavora nel sistema giustizia e sbaglia anche a causa dei media, scrive Massimo Prati su “Albatros-Volando ControVento”. Sembra fatto apposta e forse... Da poco si è chiuso il secondo processo farsa contro Sabrina Misseri e tra poco inizieranno ufficialmente quelli contro Massimo Bossetti, Veronica Panarello e altri che si proclamano innocenti e finalmente i giudici di Cassazione mostrano i pugni e motivano una sentenza usando la logica del codice penale lasciando da parte le suggestioni e i pregiudizi che sparge chi si sente intoccabile, chi per convincere il popolo della propria tesi, anche assurda, usufruisce degli aiuti mass-mediatici, quelli che ogni volta sfociano nello scoop colpevolista che porta il convincimento popolare a credere che le procure abbiano ragione a prescindere da quanto di più fantasioso e incredibile scrivano su atti che Gip e Gup di riferimento accettano acriticamente e ad occhi chiusi. Finalmente la Cassazione non ha dato la solita carota ai condannati e col bastone della vera Giustizia ha bacchettato gli investigatori e i procuratori che abusano del loro potere e che, indagando male e in maniera superficiale, senza avere nulla di serio in mano (né prove, né veri indizi concordanti, né ricostruzioni valide, né moventi plausibili) dapprima incarcerano e poi portano a processo i loro colpevoli preferiti. Ma non c'è solo questo, perché finalmente la Cassazione ha anche apertamente ammesso che i media hanno un ruolo determinante nella conduzione di indagini che proprio a causa della pressione mediatica, che invoglia a far tutto di fretta, finiscono con l'essere spasmodiche e di conseguenza mal-fatte e approssimative. Ma ancora non basta, perché ha finalmente bacchettato anche chi ha lavorato e ancora lavora nel ramo scientifico, in quella istituzione supportata e venerata sia dalle procure che dagli opinionisti televisivi, in quella istituzione che nel caso in questione (che farà da pietra di paragone per altri casi da trattare) ha mal-repertato e mal-conservato i reperti e non ha usato la giusta professionalità nelle analisi. In ultimo, ma non per ultimo, ha finalmente bacchettato anche i giudici che l'hanno preceduta nei giudizi. Giudici che invece di assolvere per come voleva la legge hanno condannato o rinviato ad altra sede basandosi su pregiudizi personali senza minimamente considerare la logica e il codice penale. Leggendo quanto scritto sulle motivazioni si scopre che la Cassazione punta il dito sugli investigatori e sui procuratori di Perugia a cui doveva essere chiara sin da subito l'assurdità della loro tesi accusatoria, tesi mancante di qualsivoglia appoggio solido. Per quanto attiene l'ultimo movente ipotizzato dalla procura (i dissapori fra le coinquiline acuiti dal fatto che - secondo i procuratori - a Meredith Kercher non stava bene che la Knox avesse fatto entrare Rudy Guede nel loro bagno) la bacchettata è forte e fa rumore, dato che nelle motivazioni si legge che non solo un simile movente è assurdo, ma che è anche poco rispettoso della realtà processuale. Inoltre, la Cassazione si chiede con quale logica i procuratori abbiano potuto pensare che Amanda Knox e Raffaele Sollecito avessero ripulito selettivamente la scena del crimine, cancellando quindi solo le tracce della loro presenza nella stanza di Meredith Kercher, lasciando però in bella vista altre tracce facilmente pulibili all'interno del bagno. Ed anche: come sia stato possibile pensare che i due ragazzi avessero simulato un furto (i vetri della finestra si trovavano all'interno, sotto i vestiti e i mobili) quando fu lo stesso Sollecito al suo ingresso nella casa a far notare alla Polizia Postale l'anomalia della situazione, dato che nulla sembrava essere stato asportato da quella stanza. E assurdo è anche pensare che i cellulari siano stati portati via e poi gettati per non farli squillare anzitempo, visto che bastava spegnerli per ottenere lo stesso risultato. No, la Cassazione stavolta non le ha mandate a dire a nessuno e si è assunta quel ruolo che le spetta di diritto anche citando il lavoro degli analisti. Ha tirato in ballo la dottoressa Patrizia Stefanoni e parlando del gancetto del reggiseno ha riportato la sua dichiarazione a processo. Dichiarazione in cui la dottoressa della Polizia Scientifica affermava di non aver repertato inizialmente il gancetto perché non ritenuto importante in quanto già aveva repertato il reggiseno della vittima. Naturalmente la Cassazione l'ha cassata, visto che i reggiseni vengono chiusi e aperti tramite il gancetto che si mostra dunque essere la parte più importante da analizzare. Nello stesso tempo ha puntato il dito sulla mancata ripetizione delle analisi che per ritenersi affidabili e valide si devono fare almeno due volte, questo pretende la legge e questo ha asserito a processo anche il perito nominato dalla corte (che fra l'altro lavora nella stessa Polizia Scientifica). In pratica, dalle analisi svolte non si è trovata alcuna prova valida da portare a processo e, vista la mancata ripetizione, le risultanze dai giudici non erano da considerare neppure indizi. E qui la Cassazione ha ribadito il concetto che se il materiale da analizzare non è deperibile, anche quando manca la possibilità di rifare le analisi perché il materiale repertato è scarso i risultati ottenuti a processo sono da considerare nulli e privi di valore probatorio o indiziario. Questo pur se le analisi si sono eseguite nel rispetto della legge con la formula dell'accertamento irripetibile. Ma la Cassazione non si è fermata e ha ammonito anche quei giudici che invece di essere imparziali colmano i vuoti investigativi usando una loro personale logica. Per capire meglio pensate alla sentenza del giudice Marina Tommolini, caso Parolisi, che per condannare il caporalmaggiore stravolse le risultanze investigative cambiando a suo piacimento sia il modus operandi che il movente portati dall'accusa. La Cassazione dice che c'è una regola da rispettare, regola che alcuni giudici non rispettano, regola che la Cassazione pone in primo piano scrivendo sulle motivazioni che la ricostruzione prescelta (se quella portata dalla procura), anche se conforme alla logica ordinaria, deve, pur sempre, essere aderente alla realtà processuale e porsi come precipua risultante di un processo di valutazione critica dei dati probatori ritualmente acquisiti. Insomma, il ricorso alla logica e all'intuizione (del giudice) non può in alcun modo supplire a carenze probatorie o ad inefficienze investigative. A fronte di una prova mancante, insufficiente o contraddittoria il giudice deve limitarsi a prenderne atto ed emettere sentenza di proscioglimento, ai sensi dell'art. 530 comma 2 codice procedura penale, seppur se animato da autentico convincimento morale della colpevolezza dell'imputato. In pratica, la Cassazione ha espresso un concetto chiaro che non va interpretato ma messo in atto. Se chi porta avanti le indagini le sbaglia e non è in grado di provare la colpevolezza in tribunale, gli imputati vanno assolti e il giudice è obbligato ad assolverli. Se si vuol risultare professionali si facciano indagini migliori che portino a risultati migliori e alla possibilità di condannare o scagionare a ragion veduta. Quanto sopra è solo una minima parte di ciò che hanno scritto i giudici di Cassazione. Minima parte che però ci fa capire i motivi per cui Amanda Knox e Raffaele Sollecito siano stati assolti e perché abbiano subito per troppi anni il carcere ingiusto. Finalmente sappiamo che anche per la Cassazione la colpa è della malagiustizia italiana e deriva dal lavoro sbagliato svolto da un'insieme di persone poco professionali. E visto che gli stessi giudici di Cassazione hanno puntato il dito sulla pressione dei media che non aiuta le buone indagini, ora tutti dovrebbero capire che gli assembramenti televisivi che si accalcano sui luoghi dei crimini alla ricerca di scoop sono deleteri per gli investigatori, per i procuratori e per le loro indagini. Deleteri perché i pool investigativi sono comunque composti da persone non abituate ai riflettori, persone che trovandosi nella condizione di massima visibilità potrebbero sentirsi obbligate a cercare un colpevole al più presto e a tutti i costi. Quindi nella condizione che più porta a commettere errori e a perseverarli. Insomma, il quadro descritto è desolante e solo chi è mentalmente cieco non vede che troppo spesso siamo costretti ad assistere allo show di una giustizia inutile, poco professionale e soprattutto dannosa, supportata e presentata al pubblico, in pompa magna, dagli zerbini dell'informazione (quelli che per trenta denari si stendono sotto i piedi di chi offre lo scoop) che la osannano quale verità assoluta ancor prima che esistano indagati e processi. E la Cassazione ha scritto qualcosa anche a proposito di questo, affermando che non si possono accettare testimoni che a posteriori, dopo essere stati martellati dai media, accusano gli imputati. Una cosa logica che troppo spesso viene dimenticata (vedi i testimoni contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano che solo dopo mesi e mesi di martellamento mediatico hanno cambiato versione). Ma che importa a quegli zerbini che alleati all'accusa si mostrano in video e con faccia saccente catturano la pubblica opinione, i nuovi testimoni e i nuovi giudici popolari grazie alla carta moschicida del pregiudizio? Carta stesa a più mani da famosi esperti, da opinionisti attaccati alla poltrona o creati per l'occasione e da pennivendoli specializzati in bufale? Persone che senza aver letto e vagliato nulla si accodano al potere costituito e ripetendo a pappagallo quanto si vuole che ripetano restano aggrappati al carro colpevolista fin quando il carro è in auge? Fin quando è in auge perché se cambia il vento, incuranti dei danni già procurati alla mente del popolo, gli stessi colpevolisti per qualche giorno cambiano il modo di esporre le opinioni. Le loro facce restano imperterrite sui video, e chi le schioda, ma si modificano e per l'occasione diventando bronzee. Naturalmente fra loro c'è chi le motivazioni neppure le legge e chi non capendoci nulla si trova spiazzato dal voltafaccia momentaneo dei colleghi, ma da buon camaleonte mediatico si adegua alle nuove parole di circostanza. Naturalmente c'è anche chi finge di non aver fatto nulla in passato e con nonchalance sale momentaneamente sull'altro carro come se mai avesse accusato apertamente qualche indagato... certo che la memoria umana sia troppo scarsa e abbia perso il ricordo delle sue vecchie parole. Per capire prendiamo Enrico Fedocci, l'inviato di Mediaset che nei mesi passati ha puntato sulla forza delle indiscrezioni per convincere il suo pubblico della colpevolezza di Massimo Bossetti. Lui nei mesi successivi all'arresto ha portato sugli schermi i filmati del furgone e le intercettazioni telefoniche fra madre e figlio (robe che a suo dire incastravano il muratore).Eppure, dopo le motivazioni si è auto-smentito e ieri in un servizio andato in onda su Studio Aperto ha ammesso che quanto scritto dai giudici di Cassazione per motivare l'assoluzione della Knox e del Sollecito potrebbe influire sui processi che stanno per iniziare, perché in nessuno di questi ci sono prove certe e indizi decisivi buoni a condannare gli imputati. Ma come? Fino a ieri l'altro Bossetti non aveva scampo perché le prove erano granitiche, ed oggi neppure su di lui ci sono certezze in grado di fargli prendere l'ergastolo? Qual vento hanno lanciato i seri Giudici di Cassazione? Sarà in grado di pulire il cielo? No, non pulirà nulla perché, vento o non vento, state sicuri che il buonismo ipocrita in mancanza di condanne esemplari a quegli editori che permettono ai loro dipendenti di stuprare la legge e gli indagati (parlo di milioni e milioni di euro) non durerà dato che a livello economico essere garantisti in tivù e sui giornali, in termine di vendite non rende. Per guadagnare occorre entrare a piedi uniti nella falla della nave giustizia e continuare a proporre titoloni morbosi in grado di oscurare la parte sana del cervello umano, occorre suonare il flauto magico e obbligare la pubblica opinione a seguirne la melodia. Questo si fa da anni e questo si farà ancora. Perché anche se la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha motivato e bacchettato in maniera seria per cercare di chiudere, almeno in parte, la falla che da troppi decenni sta affondando la Giustizia italiana, poco durerà il rattoppo se al giusto codice penale non si adegueranno tutti gli altri giudici. Ad iniziare dai troppi Gip che invece di seguire la legge da tanto tempo preferiscono le favole e come i topolini di Hamein seguire il suono del flauto del pregiudizio in cui soffia l'accusa...

Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità e mentire spudoratamente? Scrive Massimo Prati su “Albatros Volando Contro Vento”. America - 1880 (milleottocentoottanta) - a una cena di giornalisti all’American Press Association c'è anche John Swinton, un editorialista del New York Sun che invitato a brindare alla stampa indipendente dice: "In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che anche scrivendole non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattrore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Sono passati 135 anni da quel discorso e da noi, in Italia, a dire il vero qualcosa è cambiato. Ora da noi la stampa non si inchina più solo al volere degli uomini ricchi, a chi detiene il potere maggiore di uno stato, ora si inchina anche agli "uomini del potere locale". Vi siete mai chiesti perché ci sono giornalisti sportivi a cui è vietato entrare nella sala stampa del"loro" stadio? Semplicemente perché hanno criticato la squadra di cui scrivono o chi la guida a livello dirigenziale. Vi siete mai chiesti cosa accade quando un giornalista non allineato non può entrare in una sala stampa e non può intervistare i calciatori? Semplice. Leggeremo sempre notizie buoniste di un certo tipo che mai porteranno critiche serie. Ed anche se l'esempio sembra stupido perché si parla di sport, quindi di una informazione minore, in effetti stupido non è perché rapportandolo a qualsiasi altro argomento, dalla politica alla giustizia, fa capire quali siano i rapporti che si vogliono obbligatoriamente far intercorrere fra chi informa e chi, in pratica, comanda. I giornalisti politici, ad esempio, devono seguire una linea editoriale di parte per "partito preso". Per cui occorre, a prescindere, criticare ciò che fa o dice lo schieramento opposto... anche se sinteticamente identico a quanto dice o fa il proprio. Vi siete mai chiesti chi è che sparge il pregiudizio? Per forza di cose chi ci informa, chi sparla additando a colpevole chi una procura vuole colpevole. Magari non ci sono prove. Magari neppure ci sono indizi seri. Ma a forza di insistere su un argomento si crea una convinzione (un meme). E la convinzione fa sembrare prova e indizio anche la più inutile delle banalità Banalità che sparsa ai quattro venti dall'informazione e dagli opinionisti che la cavalcano, verrà metabolizzata dall'opinione pubblica e creduta di una importanza vitale. Ed ecco che così facendo si fa credere ai lettori che la verità è quella scritta sugli atti giudiziari e non sui ricorsi dei difensori. Questo accade, anche se in realtà sugli atti si legge tutt'altra cosa. Ma il fatto che in pochi abbiano accesso ai verbali di interrogatorio agevola chi scrive articoli "mirati" a cui nessuno fa da contraltare. Anche perché, dopo l'iniziale assembramento, è la stampa locale che fornisce la maggior parte delle informazioni a quella nazionale. E dove le prende le informazioni se non in procura? Quale giornalista moderno rischierebbe di diventare "ospite sgradito", ad esempio criticando una linea investigativa o un arresto immotivato, sapendo che le porte di "certi uffici" gli si potrebbero chiudere in faccia? Tutti vogliono lavorare e guadagnare. E chi scrive di cronaca nera da troppi anni si nutre grazie all'accondiscendenza di alcuni. Quella che permette a certi giornaluncoli di nascere e sviluppare grazie a scoop creati ad arte con frasi "ad hoc" estrapolate in maniera unilaterale da un verbale o da una intercettazione secretata. E quasi tutti sono contenti. Contenta è la procura che vede aumentare la sua credibilità, l'editore che vede aumentare i profitti e il giornalista che si ritrova famoso perché catapultato sotto i riflettori per quanto ha scritto e si è usato per più puntate nei talk show dell'orrore. Gli unici scontenti sono gli indagati, i loro familiari e, quando ce ne sono, i loro figli minori che dalla valanga di notizie gettate a pioggia, che inevitabilmente bagneranno anche il loro ambiente sociale, verranno demoliti psicologicamente. A nessuno importa spargere la verità assoluta, quella che deriva solo dalla logica impossibile da alterare. L'informazione da tanto non fa cernite, da tanto non vaglia con critica la "velina" che arriva dagli uffici a cui attinge a piene mani. Chi li informa sa che per i media è facile amalgamare l'opinione pubblica alla linea voluta. Basta sbatterle in faccia la solita domanda: "Perché i procuratori dovrebbero, se non ci sono motivi, accusare una persona a caso?". La risposta potrebbe essere facile, visto che non esiste l'investigatore infallibile e gli errori giudiziari sono ormai una regola che annualmente costa tanti denari pubblici. Ed è logico che se non è l'informazione a ribadire questa ovvietà, si finisce sempre nel solito imbuto. Quindi a credere che quanto dice la difesa è falso, perché le indagini sbattute sui video per anni dicono il contrario e i difensori per luogo comune farebbero di tutto pur di salvare il dietro al loro assistito, mentre quanto afferma l'accusa è più che vero. Anche se la sua ricostruzione appare incredibile e illogica. Così facendo si distrugge la vera informazione, quella parte di giornalisti che racconta solo la verità e critica chi va contro le giuste regole, e si finisce per dover accettare una serie infinita di compromessi. Forse qualcuno ancora non lo sa, ma il compromesso è l'inizio della fine perché chi accetta il primo non potrà rifiutare il secondo e neppure il terzo e il quarto e così via. Facendo così la fine di quei delinquenti che una volta entrati nell'organizzazione malavitosa non hanno più modo di uscirne... se non da morti. Come disse John Swinton? "Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la veritàdi mentire spudoratamentedi corromperedi diffamaredi scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Forse Swinton è stato anche troppo drastico coi suoi colleghi, forse nei giornalisti non c'è quella intenzione convinta di distruggere la verità... ma troppi esperimenti mentali si son fatti nell'ultimo secolo da non sapere che una volta plasmata l'idea altrui nessuno leggerà più usando la logica e nessuno si accorgerà di aver letto o ascoltato, e mentalmente accettato anche per anni, articoli o parole di una stupidità eclatante. Chi di voi sa cos'è il meme? Per restare nell'orbita semplice e non inserirsi in spiegazioni difficili da comprendere, il meme moderno si può paragonare a un tormentone che viene lanciato in grande stile e condiviso da più menti così da unificarle e farle diventare parte integrante di una grande mente che funge e prende il posto della mente individuale. Se parliamo di internet, si può paragonare alla foto del momento che postata su facebook viene condivisa da migliaia di persone. Pare nulla, una cosa poco pericolosa, ma così non è dato che se i media lanciano e danno per vero un meme falso, e qui comprendo anche il campo giustizia, la mente lo elaborerà facendolo proprio come fosse vero. E più se ne lanciano, e più se ne elaborano, e più si corre il rischio di non riuscire a capire che la realtà non è quella che si crede vera. E più si corre il rischio di far crescere una specie di tumore, un virus (da qui la parola "virale" usata quando prende piede la moda del momento grazie a un meme) che impossessandosi del nostro cervello lo porterà a fare ragionamenti mirati che una mente libera troverebbe ridicoli e privi di validità. Ci si può salvare da un virus che pare ormai essersi propagato a dismisura e che con l'avvento di internet ha attecchito e si è espanso grazie anche ai copia-incolla che duplicano all'infinito la notizia del momento? Certo che sì. Basterebbe che i media invadessero l'etere di notizie vere in grado di delegittimare quelle false. Ma in Italia, in questo periodo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Scrivere ciò che si pensa non si può. I giornalisti devono obbedire, oggi come 135 anni fa. In caso contrario qualcuno smetterà di fornire loro informazioni, qualcun altro smetterà di invitarli in certe trasmissioni e l'editore li manderà a scrivere i necrologi. Motivo per cui, per non soccombere ognuno di noi deve cercarsi una cura su misura che possa contribuire anche alla demolizione del virus. Ad esempio, si potrebbe iniziare a spegnere la televisione quando in tivù c'è chi il virus lo spande a piene mani e si potrebbe iniziare a far marcire in edicola quei settimanali che il virus lo mostrano già in copertina. Così facendo gli editori capirebbero che il filone si sta prosciugando, che il pubblico pagante sta guarendo e che tenere in piedi un carrozzone solo per pochi intimi economicamente non conviene. Solo toccando loro le tasche e i portafogli si può sperare di risolvere una situazione altrimenti irrisolvibile. Certo, in questo modo si risolverebbe solo una delle piaghe. Ne rimarrebbero ancora tante da sistemare, ad iniziare dal rapporto che da secoli si è instaurato fra i media e la politica. Ma forse è troppo tardi ormai e quello è, e grazie al meme continuo rimarrà, un male incurabile...

Con la scusa della proroga delle motivazioni si fanno marcire in carcere i presunti innocenti. Nel 2016 il motivo delle condanne, scrive “Il Quotidiano di Puglia” del 25 ottobre 2015. Anche il processo d’appello per l’omicidio di Sarah Scazzi fu complesso. Per questo, la Corte di secondo grado ha autorizzato il giudice a beneficiare di una proroga di novanta giorni per estendere le motivazioni del dispositivo. In sostanza, significa che la sentenza che ha confermato la condanna all’ergastolo di Sabrina Misseri e della madre Cosima Serrano sarà “spiegata” fra Natale e, presumibilmente, il gennaio del 2016. La notifica della proroga fissa il termine di partenza dal 25 ottobre scorso, data in cui era previsto il termine del deposito delle motivazioni. Tuttavia, i percorsi seguiti dall’assise d’appello per confermare la sentenza di primo grado sono stati complessi e delicati, in virtù di un dibattimento che è stato parzialmente rinnovato. Come è noto, ha retto in appello la lettura fornita dai carabinieri all’atroce omicidio avvenuto nella cittadina avetranese il 26 agosto del 2010. Anche i giudici di secondo grado si erano convinti dell’esistenza di un patto familiare, dietro la tragedia di quel piccolo angelo biondo. Secondo i giudici del secondo grado Sarah venne uccisa dalla cugina del cuore. Da quella ragazza che per lei era una sorella maggiore. Ma anche dalla zia che l’accoglieva ogni giorno nella sua villetta come una figlia. «Una la teneva e l’altra la strangolava» aveva concluso l’accusa in primo grado e in appello. Quel delitto sarebbe maturato nelle mura domestiche della villetta di via Deledda. Durante una violenta lite, divenuta l’innaturale sfogo di risentimenti familiari e sentimentali. Per la procura, ma pure per i giudici dei due gradi di giudizio, Sarah venne assassinata da mamma e figlia perché diventando donna stava superando la cugina nella scala affettiva di Ivano, il ragazzo di Avetrana del quale Sabrina si sarebbe innamorata perdutamente. Al punto da soffrire nel vedere le attenzioni che il giovane riservava alla piccola. Ma venne uccisa, probabilmente, anche per aver veicolato tra gli amici e in paese l’onta del rifiuto opposto da Ivano a Sabrina nel momento in cui lei si era offerta. Quel pomeriggio di estate, quindi, in via Deledda deflagrò un crogiuolo di passioni violentissime. Sfociati nel delitto con il quale si lavò con il sangue di Sarah l’insulto subito da Sabrina e dalla famiglia. Ma quel giorno i Misseri avrebbero agito da clan. Con Cosima a fare da regista e da capo. Lei avrebbe manovrato nell’ombra per nascondere il corpo della nipote. E depistare le indagini, trovando un esecutore fedele: Michele Misseri, il cui pentimento contribuì a fare luce sul caso.

Sciacalli ed omertà. L’ennesima vile aggressione ad Avetrana. Da Sarah Scazzi a Salvatore Detommaso.

Ne scrive il dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Ad Avetrana, alle 5.30 di mattina del 27 marzo 2016, dì di Pasqua, il 63enne disoccupato ed incensurato Salvatore Detommaso esce di casa da via Magenta (via per Manduria - Salice Salentino) ed in sella alla sua bicicletta si dirige lungo via Roma (via per Nardò) che si interseca alla sua via. A quell'ora va a prendere il caffè presso il solito bar. Lungo il tragitto ne approfitta per comprare le sigarette dalla macchinetta automatica posta lungo la via. Sua intenzione è poi andare a raccogliere gli asparagi in campagna. Da casa al suo bar ci sono da percorrere poche centinaia di metri. Un vita da cavamonte (estrattore di blocchi di tufo per l’edilizia) lo porta a svegliarsi all’alba. Un’abitudine. Alle 5,45 il fratello Leonardo Detommaso esce anche lui da casa. Stessa abitudine da manovale. Lungo la strada incontra uno spazzino che gli comunica che più avanti c’è suo fratello ferito. In effetti vicino al bar c’è suo fratello che presso la fontana pubblica cerca di lavarsi la testa sanguinante. Non c’è alcuno strumento contundente, né la vittima ragguaglia suo fratello da questo interpellato sulle modalità dell’accaduto: se sia caduto, se sia stato investito o se sia stato aggredito con mazze, bottiglie o spranghe di ferro. Per questa ipotesi, tantomeno, lui stesso non riferisce i nomi dei presunti assalitori. Lui che era cosciente. Tanto cosciente che da solo si è riavviato per tornarsene a casa, nei pressi della quale è stato poi prelevato dall’ambulanza, chiamata da chi era accorso nei primi momenti dell'accaduto. Cosciente è rimasto nei due giorni successivi e nulla ha riferito di utile alle indagini. La mattina di Pasqua non c’è gente che va a lavorare, solo eventuali ragazzi che rincasano da pub o discoteche. Gente anche non del posto: di passaggio. Ora troppo tarda per vedere in giro ladri a cui dare le colpe. In quel frangente la via, man mano, si è riempita di curiosi. L’unico che era presente nell’immediatezza ha raccontato ai carabinieri quello che ha visto e ricordato, così desunto dai quotidiani ben informati dagli inquirenti.

Bene. Un fatto di cronaca come tanti e come in altre parti d’Italia.

Sì, ma qui siamo ad Avetrana: il paese degli omertosi, così come definito da Mariano Buccoliero, il Pubblico Ministero del delitto di Sarah Scazzi. Allora ecco che scatta la speculazione mediatica e politica.

La vittima Salvatore Detommaso inizialmente è stato trasportato all’ospedale Giannuzzi di Manduria. Poi, data la grave emorragia cerebrale riportata, è stato in seguito trasferito nel reparto di neurochirurgia del Santissima Annunziata di Taranto. Solo dopo due giorni dal ricovero, una volta finite le feste, nonostante strazianti sofferenze e lancinanti dolori, si è provveduto a stabilizzare il paziente e ad operarlo alla testa, per poi ricoverarlo nel reparto di rianimazione. Ciò dovuto all’aggravamento della sua condizione clinica, in riferimento anche ad un peggioramento di natura cardiaca. Di questo, però, del comportamento dei sanitari, nessuno ne parla. Nemmeno quelli che sparlano di omertà. Ed a proposito di omertà ad Avetrana, il 2 aprile 2016 si organizza una fiaccolata per la legalità e per invogliare chi sa, a parlare. E’ stata messa in piedi, anche, una raccolta di fondi per sostenere la famiglia della vittima che versa in condizioni economiche preoccupanti. Ma ancora una volta nessuno, però, difende Avetrana dall’ennesima aggressione gratuita e ingiustificata. Tantomeno i politicanti locali. Anzi è proprio il vicesindaco, Alessandro Scarciglia ad esortare il "chi sa, parli".

«Continuano le indagini dei carabinieri di Avetrana per individuare i responsabili della brutale aggressione che questa mattina ha ridotto in fin di vita un avetranese di 63 anni colpito alla testa con delle bottiglie di vetro. Il violento pestaggio è avvenuto davanti al bar Mojito alla presenza di numerosi testimoni che hanno dichiarato di non aver visto niente o di non ricordare particolari utili. E sugli avetranesi ritorna il fantasma dell’omertà venuto fuori durante le indagini del delitto di Sarah Scazzi, un episodio che ha fatto parlare e fa parlare ancora l’Italia intera e che ha visto il coinvolgimento di una quarantina di persone tra sospettati, indagati, imputati, condannati e sognatori. Nessuna ammissione, nessun aiuto concreto agli inquirenti e alla verità sulla morte della quindicenne uccisa dai parenti». Così scriveva Nazareno Dinoi il 27 marzo 2016 su “La Voce di Manduria” in riferimento all’aggressione avvenuta a danno di Salvatore Detommaso la mattina presto del giorno di Pasqua, ricoverato poi in prognosi riservata. Aggressione su una via di passaggio per chi, proveniente da Manduria, è diretto a Nardò od a Torre Colimena. Lo stesso Dinoi continua con la solita litania anche il 29 marzo 2016: «Il bruttissimo episodio è ora materia degli investigatori dell’Arma che stanno incontrando difficoltà a raccogliere testimonianze dei presenti. Sino a ieri il maresciallo Fabrizio Viva che comanda la stazione di Avetrana ha sentito diverse persone che erano presenti nelle vicinanze, ma nessuno di loro ha detto di ricordare o di aver visto niente. Un atteggiamento omertoso che ha spinto gli amministratori pubblici e il parroco a lanciare appelli a parlare (di questo parliamo a parte). I militari hanno già ritirato le registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate nei punti commerciali della zona, ma nessuna di loro era puntata sulla zona dell’aggressione. Un testimone che avrebbe visto tutto, avrebbe detto di aver visto delle persone fuggire a bordo di una piccola utilitaria di colore scuro di cui non ricorda la marca. Ancora poco per dare un nome e un significato a tanta violenza.» A quell'ora del dì di festa ovviamente non potevano esserci tanti avventori del bar, nè, tantomeno, numerosi testimoni, ma parlare di omertà ad Avetrana fa notizia.

Chi fa la professione di giornalista dovrebbe sapere che i curiosi, accorsi in massa, non possono essere definiti testimoni. Non si può parlare di omertà se la stessa vittima non ha potuto fornire notizie utili alle indagini, né tanto meno si può parlare di indagini. Le indagini vengono svolte alla notizia di reato e, a quanto pare, al momento del fatto il reato palesato (lesioni) era perseguibile per querela, che non vi è stata. E comunque l’indagine fatta bene, anche successivamente attivata per querela o denuncia per fatto più grave, i responsabili li trova.

Nazareno Dinoi, come corrispondente del Corriere della Sera ha scritto sempre articoli su Avetrana dello stesso tenore quando riferiva sul caso di Sarah Scazzi, come tutti d’altronde. Rispetto agli altri, però, Dinoi è di Manduria, paese a 17 chilometri da Avetrana, non certo un canonico razzista settentrionale.

Nazareno Dinoi, amico dei magistrati di Taranto e direttore de "La Voce di Manduria", un giornalino locale di un paese vicino ad Avetrana. Il "mandurese" diffama indistintamente tutti gli avetranesi e non me ne spiego l'astio. Gli amministratori locali e la loro opposizione, poi, non sono capaci di difendere l’onore di Avetrana contro la gogna mediatica programmata sin dal 26 agosto 2010 e protratta da giornalisti da strapazzo sui giornali ed in tv.

«La triste fine di Sarah Scazzi ha dato improvvisa notorietà al piccolo paese di Avetrana altrimenti sconosciuto ai più - scriveva già il 29 luglio 2015 il nostro Dinoi - Ha portato luce su un paese in ombra infastidendo chi vi abita. Ed è anche sugli avetranesi che il caso Scazzi si è contraddistinto per un’altra peculiarità: l’omertà, il visto e non visto, il non ricordo, il forse, il lo so ma non ne sono sicuro, il meglio farsi gli affari propri. Un popolo onesto che di fronte alla richiesta di coraggio si è tirato indietro. Anche in questo caso parlano i numeri e i dati: gli investigatori hanno ascoltato poco più di duecento persone, per la maggioranza avetranesi, poche hanno detto di aver visto qualcosa, nessuno si è presentato spontaneamente per aiutare la giustizia con l’amaro risultato che resterà negli annali delle cronache giudiziarie: dodici di loro sono stati indagati per falsa testimonianza o addirittura per favoreggiamento. Un record in negativo con cui Avetrana e gli avetranesi dovranno fare i conti.»

Tra gli altri anche il programma Mediaset Rete 4 “Quarto Grado" di Gianluigi Nuzzi ci ricasca a fare informazione spazzatura, vomitando, con i suoi invitati, liquame sulla comunità avetranese. Soggetti non nuovi a queste nefandezze.

Nel caso dell'omicidio di Sarah Scazzi, trattato molto spesso da “Quarto Grado” su “Rete 4” di Mediaset la redazione (guidata da Siria Magri) si è attestata su una linea prevalentemente conforme agli indirizzi investigativi della pubblica accusa, cioè della Procura della Repubblica di Taranto. Tanto che i suoi ospiti, quando sono lì a titolo di esperti (pseudo esperti di cosa?) o, addirittura, a rappresentare le parti civili, pare abbiano un feeling esclusivo con chi accusa, senza soluzione di continuità e senza paura di smentita. A confermare questo assioma è la puntata del 15 maggio 2015 di “Quarto Grado”, condotto da Gianluigi Nuzzi ed Alessandra Viero e curato da Siria Magri.

A riprova della linea giustizialista del programma, lo stesso conduttore è impegnato a far passare Ivano come bugiardo, mentre il parterre è stato composto da:

Alessandro Meluzzi, notoriamente critico nei confronti dei magistrati che si sono occupati del processo, ma che sul caso trattato è stato stranamente silente o volutamente non interpellato;

Claudio Scazzi, fratello di Sarah;

Nicodemo Gentile, legale di parte civile della Mamma Concetta Serrano Spagnolo Scazzi.

Solita tiritera dalle parti private nel loro interesse e cautela di Claudio nel parlare di omertà in presenza di cose che effettivamente non si sanno.

Per il resto ospite è Grazia Longo, cronista de “La Stampa”, che si imbarca in accuse diffamatorie, infondate e senza senso: «…e purtroppo tutto questo è maturato in seno ad una famiglia ed anche ad un paese dove mentono tutti…qui raccontano tutti bugie».

Vada per i condannati; vada per gli imputati; vada per gli indagati; ma tutto il paese cosa c’entra?

Ospite fisso del programma è Carmelo Abbate, giornalista di Panorama, che anche lui ha guizzi di idiozia: «Io penso che da tutto quello che ho sentito una cosa la posso dire con certezza: che se domani qualcuno volesse scrivere un testo sull’educazione civica, di certo non dovrebbe andare ad Avetrana, perché al di là della veridicità o meno della dichiarazione della ex compagna di Ivano, al di là della loro diatriba, è chiaro che qui c’è veramente quasi un capannello di ragazzi che nega, un’alleanza tra altri che si mettono d’accordo: mamma ha visto questo, mamma ha visto quest’altro. Ma ci rendiamo conto di quanto sia difficile scalfire, scavalcare questo muro, veramente posto tra chi deve fare le indagini e la verità dei fatti? E’ difficilissimo. Cioè, la sicurezza, la nostra sicurezza è nelle mani di noi.»

Complimenti ad Abbate ed alla sua consistenza culturale e professionale che dimostra nelle sue affermazioni sclerotiche. Cosa ne sa, lui, dell'educazione civica di Avetrana?

Fino, poi, nel prosieguo, ad arrivare in studio, ad incalzare lo stesso Claudio, come a ritenere egli stesso di essere omertoso e reticente. Grazia Longo: «...però Claudio anche tu devi parlare, anche tu, scusa se mi permetto, dici delle cose e non dici. Io non ho capito niente di quello che hai detto. Tu sai qualcosa e non lo vuoi dire!»

Accuse proferite al fratello della vittima…assurdo! Tutto ciò detto di fronte a milioni di spettatori creduloni.

Si noti bene: nessun ospite è stato invitato per rappresentare le esigenze della difesa delle persone accusate o condannate o addirittura estranee ai fatti contestati.

Ma i nostri prodi si ripetono. Quarto grado 1 aprile 2016. Questo è il conduttore imparziale, Gianluigi Nuzzi: «Oltre 10 persone (su oltre 8mila ndr) accusate di aver intralciato le indagini, tra reticenze e sogni e quant’altro. Qui abbiamo una proiezione di paese fatte di una maglia di complicità…».

Ospite fisso del programma è ancora Carmelo Abbate, giornalista di Panorama: «Io penso che la gente di Avetrana andrebbe riportata a scuola a studiare daccapo l’educazione civica. Questa è gente omertosa, parliamoci chiaro. Questa è gente omertosa. Forse hanno ragione i giudici quando dicono che “tutti sapevano quello che è successo, molti sapevano quello che è successo a Sarah, ma nessuno ha aperto bocca. Ricordiamoci che l’unica testimone che si presenta spontaneamente a fare dichiarazioni è Anna Pisanò. Tutte le altre persone vengono in qualche modo braccate, costrette a raccontare qualcosa. Tutte le altre non vanno spontaneamente. Cinque giorni fa, la mattina di Pasqua, ad Avetrana, prima mattinata, davanti ad un bar un uomo, una brava persona di 62 anni è stato aggredito selvaggiamente. In queste ore lotta tra la vita e la morte. Quest’uomo è stato aggredito davanti ad un bar. Decine e decine di persone ascoltate dai carabinieri “non so”, “non ricordo”, “non ho visto”. Ci sono appelli del sindaco “chi lo sa, per favore, dica qualcosa”. Ci sono appelli del sacerdote. Appelli pubblici “per favore parlate. Per favore non siate omertosi”. Il risultato è che non dicono nulla. E quest’uomo sta morendo».

Per il resto è ancora ospite Grazia Longo, cronista de “La Stampa”: «Il teatro dell’orrore non ha mai fine in questo paese».

Ma vaffanculo ai giornalisti da strapazzo. Questa imprecazione non è riferita in particolare a quelli citati, ma a tutti coloro che tra tutti i fatti di cronaca di cui si sono occupati, solo ad Avetrana hanno trasfigurato i criminali in tutta la loro comunità.

Prendete lezione ed esempio dall’ex Generale Luciano Garofano: «Ma io ho avuto sempre forti dubbi su quella che è la conclusione dell’autorità giudiziaria. Per altro, scusatemi, io sono molto rispettoso, ma non credo che sia un bello spettacolo che le motivazioni escano dopo 11 mesi (primo grado) e dopo otto mesi (appello). Significa che noi non vogliamo contribuire ad un paese in cui il processo sia giusto ed in cui le persone si possano anche difendere. E non credo a tantissimi degli elementi a partire dal movente. Perché questo è un movente assolutamente inconsistente. Peraltro con il prof. Picozzi ci siamo occupati di questo caso. E anche nell’incidente probatorio, che fu considerato il trionfo della prova, effettivamente ci rendemmo conto che c’era qualche cosa che non funzionava. Tra le tante cose, ma voi ve lo immaginate un papà che è pronto a coprire immediatamente un omicidio che non ha motivo d’essere. Già pronto, confeziona quel corpo, lo porta via. Insomma, per non parlare poi di altri particolari che riguardano le intercettazioni. Il punto in cui avrebbero telefonato e non telefonato. Una mamma che rincorre Sarah, per riprenderla, così poi che l’hanno acchiappata, scusate il termine, possono finalmente portarla a casa ed eliminarla? Io credo che ci siano ancora molti dubbi e spero che la Giustizia, come sempre trionfi con puntualità.»

Il Prof. Massimo Picozzi conferma: «I dubbi li condivido con il generale Garofano che ho sentito di questo famoso incidente probatorio, in cui Michele Misseri raccontò un po' tutta la vicenda. Ricordiamo poi, molta della credibilità, pochissima, che poi lo zio Michele, come lo abbiamo imparato a conoscerlo, si è portato appresso, derivò anche dal fatto che lui disse “io ho ucciso questa poveretta. E' stata uccisa con una corda, anziché con una cintura". Ti assicuro, l’interrogatorio di Michele Misseri fu il più suggestivo possibile. Lui continuava a dire, ad insistere sul fatto che sulla scena ci fosse una corda. Gli si diceva “ma è proprio una corda? E' proprio sicuro? Noi sappiamo diversamente. Non è una cinta per caso?” Alla fine, alla quindicesima insistenza, lui cambiò versione».

Ed a proposito di credibilità.

7 Ottobre 2010 - La criminologa Bruzzone: "Misseri un pedofilo assassino". Ma poi cambia diagnosi!

Esattamente il 7 ottobre 2010 sul Tgla7, la dottoressa Bruzzone diceva, a proposito del Misseri: «Non credo francamente che questa vicenda sia nata quarantadue giorni fa. Non penso che il 26 agosto sia l'unico momento in cui questa persona soggetto ha avuto un interesse sessuale per un minore. Parliamo di un pedofilo assassino e questo tipo di soggetti difficilmente a quell'età ha il proprio ingresso nella vita criminale per cui purtroppo c'è da indagare in maniera molto più allargata nella vita di quest'uomo e sono convinta che emergeranno elementi ancora più inquietanti...» Allorché la giornalista chiedeva alla dottoressa Bruzzone se secondo lei il Misseri avesse avuto dei complici, lei rispondeva testualmente che non lo riteneva proprio veritiero: «Penso che sia assolutamente probabile che questa persona abbia commesso tutto da sola. Non ci vedo nulla di impossibile per una persona soltanto... Ha fatto quello che ha fatto, ha abusato del corpo di questa giovane, poi ha atteso un tempo secondo me ragionevole tanto per muoversi probabilmente magari con il favore della notte, e portare poi il corpo là dove è stato ritrovato, celato in maniera estremamente accurata e difficilmente ritrovabile se non su indicazione dell'assassino, come poi effettivamente avvenuto.» Quando poi le è stato chiesto che pena meritava quest'uomo, ha risposto senza esitare: «In questo caso l'ergastolo penso sia impossibile non comminarlo... c'è piena consapevolezza, c'è lucidità... probabilmente sentiremo parlare ....forse un tentativo di stabilire una sorta di seminfermità, ma in questo caso ripeto è assolutamente escludibile sulla base di ciò che è stato fatto da quest'uomo sia durante la fase omicidiaria, sia nella fase successiva di occultamento del cadavere e ahimè nella fase che ha riguardato come sembra anche la fase della violenza sessuale...» A questo punto la giornalista chiedeva come difendersi da questi soggetti, visto che a dire della Bruzzone uno come il Misseri doveva essere già conosciuto come pedofilo. E a questo punto la Bruzzone è stata quanto mai categorica: «Denunciando! Facendo emergere il tutto! facendosi consigliare da professionisti, andando ai Centri Antiviolenza... Telefono Rosa.... Io collaboro con loro da anni e sono assolutamente un interlocutore preziosissimo per questi tipi di casi...». Immaginiamo cosa sarebbe successo se Sabina Misseri si fosse recata a Telefono Rosa e avesse denunciato che da mesi sapeva che il padre molestava Sarah e lei...Che giustizia avremmo avuto, ascoltando oggi le parole della criminologa dottoressa Bruzzone, che dice il contrario di tutto quanto affermato prima?

ASPETTANDO LE MOTIVAZIONI.

Sarah Scazzi, avvocato di Cosima rivela: “Innocente, è preoccupata per sua figlia Sabrina”, “Urban Post” il 7 marzo 2016. Le dichiarazioni di Francesco De Jaco, avvocato di Cosima Serrano, in merito alla condanna della sua assistita e della figlia Sabrina: “In carcere da innocenti, Cosima è preoccupata per la figlia”. A otto mesi dalla sentenza con la quale i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Taranto avevano confermato in secondo grado la condanna all’ergastolo per Cosima Serrano e Sabrina Misseri, ritenute colpevoli dell’omicidio di Sarah Scazzi, rispettivamente nipote e cugina delle due donne, avvenuto ad Avetrana il 26 agosto 2010, il loro avvocato rompe il silenzio. Francesco De Jaco, il legale che rappresenta Cosima Serrano, è intervenuto in merito al ricorso in Cassazione, in attesa che il prossimo giugno inizi il processo. “L’ambiente in cui i due primi processi si sono svolti erano inidonei ad essere teatro di questa tristissima vicenda, lo ha detto anche il procuratore generale della Corte di Cassazione. Lui stesso aveva sostenuto la tesi dell’incompatibilità ambientale del processo”, così De Jaco nel suo intervento alla trasmissione “Legge o giustizia”, su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. L’avvocato ha dunque evidenziato i gravi ritardi nelle procedure, e un presunto vizio di fondo che avrebbe irrimediabilmente intaccato il corretto svolgimento dei procedimenti a carico delle due donne: “A tutt’oggi le motivazioni del processo di secondo grado non sono ancora state depositate. I 90 giorni che la Corte d’Assise si era assegnata sono stati ampiamente superati, anche quelli della successiva proroga. Avrebbero dovuto essere notificate un mese e mezzo fa. Noi invece avremo tassativamente 45 giorni per ricorrere in Cassazione, replicando alle motivazioni della Corte d’Assise. Già questo dimostra che questo processo non si doveva svolgere a Taranto”. A fronte di queste esternazioni, l’avvocato De Jaco ha poi auspicato che il processo in Cassazione possa finalmente svolgersi senza alcun condizionamento: “Noi ci auguriamo che finalmente un giudice terzo possa valutare con più serenità ed equilibrio quello che è successo […] Cosima è abbattuta, è preoccupata per la figlia più che per se stessa. Lei è angustiata perché afferma che per lei la vita è finita, mentre per la figlia non è finita e quindi è un’assurdità che Sabrina sia in carcere nonostante sia innocente. Queste due donne sono in carcere per un processo che i giudici descrivono come d’istinto, un processo basato su un omicidio d’impeto e un omicidio d’impeto non può essere stato commesso da due persone. Cosima e Sabrina non sono molto legate, Sabrina era molto più legata al padre. Cosima aveva una funzione educativa nella famiglia, che era una famiglia matriarcale”.

Sarah Scazzi, intervista esclusiva all’avvocato di Cosima Serrano: “Processo costruito sul nulla”. Intervista esclusiva di Michela Becciu su UrbanPost del 6 aprile 2016 a Francesco De Jaco, avvocato di Cosima Serrano, condannata all’ergastolo insieme alla figlia, Sabrina Misseri, per l’omicidio di Sarah Scazzi. Ecco le parole del legale in vista del ricorso in Cassazione. Presto inizieranno due nuovi processi per il caso Sarah Scazzi: uno avrà come imputate una serie di persone coinvolte nelle vicenda e accusate di falsa testimonianza – tra cui Ivano Russo e Michele Misseri – l’altro vedrà i difensori di Sabrina Misseri e Cosima Serrano fare ricorso in Cassazione contro la conferma dell’ergastolo in Appello nei confronti delle due donne, ritenute responsabili dell’omicidio della piccola Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana il 26 agosto 2010. Le motivazioni con le quali la Corte d’Assise d’Appello di Taranto il 27 luglio 2015 confermò la condanna all’ergastolo per le due donne non sono state ancora depositate. Perché? Cosa si cela dietro questo madornale ritardo? E ancora, esistono prove ‘schiaccianti’ della colpevolezza di Cosima e Sabrina? Perché le perizie tecniche sulle celle telefoniche che avrebbero scagionato la signora Serrano, disposte del Tribunale nel processo d’Appello, non hanno di fatto portato alla assoluzione della zia e della cugina di Sarah Scazzi? Queste ed altre domande UrbanPost le ha rivolte direttamente a lui, Francesco De Jaco, legale difensore della signora Cosima Serrano. Ecco come ci ha risposto:

Una sentenza di condanna all’ergastolo per la sua assistita confermata in Appello dalla Corte d’Assise di Taranto, e un notevole ritardo nella deposizione delle motivazioni della stessa. Come se lo spiega, avvocato?

“Un ritardo abnorme, nel senso che sia nel primo grado che in questo le due Corti si sono spese con molto ritardo relativamente al periodo assegnato per presentare le motivazioni. Io me lo spiego molto semplicemente, perché questo è un processo costruito sul nulla e per poterlo motivare in qualche modo ovviamente ci vuole tempo; è chiaro che hanno difficoltà: se fosse una cosa semplice, le avrebbero già depositate le motivazioni. Siccome hanno difficoltà nel costruire ‘una’ verità, è chiaro che i tempi si allungano. Il problema però non è solo questo. Il problema è che alla data del deposito delle motivazioni poi partiranno termini per 45 giorni per depositare il nostro appello, e questa non è certamente parità di diritti tra accusa e difesa”.

Quindi secondo lei la verità processuale in questo caso non c’è, nei due gradi di giudizio non è stata accertata?

“La verità processuale non c’è nella misura in cui non si intende riconoscere al Misseri la sua funzione di omicida, purtroppo costruendo una verità diversa e che non trova nessun riscontro nelle vicende processuali e dibattimentali è chiaro che c’è complessità nel dover redigere delle motivazioni”.

Anche se il tempo che avrete a disposizione sarà poco, lei ha già idea di come affrontare il nuovo processo in Cassazione e di quale strategia difensiva adottare, o attende prima di conoscere queste motivazioni? Chiederete nuovi accertamenti?

“Beh, certo, le motivazioni sono fondamentali per come poi costruire il ricorso in Cassazione, sta di fatto però che alcune delle decisioni già indicate attraverso la sentenza di secondo grado ci favoriscono nel costruire un’ipotesi di difesa, cioè – per essere molto più semplici e diretti – l’assoluzione dal reato di falsa testimonianza di due persone che erano nel processo e che avevano dichiarato che il Buccolieri (il fioraio Giovanni Buccolieri, che dichiarò di avere assistito al sequestro di Sarah da parte di Cosima e Sabrina, per poi ritrattare tutto dicendo che il suo era stato solo un sogno ndr) – che sarebbe ‘il sognatore’ – aveva sempre affermato che era un sogno quello che aveva raccontato. Il che significa che quello che hanno detto è vero, e se è vero quello che hanno detto, è vero che quello del Buccolieri – che pure non è mai stato ascoltato né nel primo né nel secondo grado perché si è avvalso della facoltà di non rispondere – è stato un sogno, e questa è una posizione. L’altra posizione è stata evidenziata proprio dalla Corte, nel momento in cui ha affidato a dei super tecnici la valutazione della prima indagine fatta dai Ros sui cellulari, che hanno stabilito che quel rilevamento anzitutto non poteva essere ripetuto e quindi non poteva entrare nel processo come atto ripetibile, e secondariamente non si poteva dare per scontato assolutamente il fatto che fosse un accertamento, come dire, valido”.

Nel processo d’Appello si era infatti parlato della possibilità che queste perizie tecniche scagionassero la sua assistita, però alla luce dei fatti sembra non abbiano sortito l’effetto sperato, visto che la condanna all’ergastolo per la signora Cosima Serrano è stata confermata. 

“L’hanno scagionata infatti … purtroppo il processo come tutti sanno si è svolto a Taranto, ma come pochi sanno il procuratore generale della Corte di Cassazione per la prima volta durante la vicende giudiziarie italiane ha sostenuto, sposando le tesi nostre, quindi difensive, che l’ambiente tarantino non fosse idoneo a svolgere il ruolo di equa valutazione in un giudizio di questo genere e quindi era necessario spostare il processo. La Corte di Cassazione – che è sempre prudente in queste circostanze – ha ritenuto di non accogliere la richiesta del procuratore generale né quella della difesa e ha lasciato il processo a Taranto con, ovviamente, lo sviluppo che già ci aspettavamo … Il problema è che Taranto era condizionato dall’evento stesso e dalla forza mediatica che ormai aveva sposato una tesi che era quella della Procura (perché probabilmente fa maggiore auditel) e quindi era chiaro che poi si arrivasse, purtroppo, ad un risultato assolutamente fuori dal senso che dovrebbe avere la giustizia e ci ritroviamo adesso di fronte a delle persone (Cosima Serrano e Sabrina Misseri ndr) che noi riteniamo assolutamente estranee ed innocenti in carcere, con un colpevole riconosciuto e riconosciutosi assolutamente libero”.

Michele Misseri è stato rinviato a giudizio con l’accusa di autocalunnia, infatti.

“Certo, perché ha detto che è stato lui ad uccidere, ma siccome non gli hanno creduto gli hanno appioppato la denuncia per autocalunnia; il problema è, come dire, che l’ipotesi accusatoria che si è costruita la procura e che è stata sposata per difendere la stessa procura dai tribunali e dalla Corte d’Assise di Taranto portano a questa soluzione assolutamente iniqua, poi vedremo che cosa succederà in Cassazione … noi cercheremo di utilizzare tutte le armi che ci mette a disposizione il Codice per riportare nei giusti binari una vicenda così drammatica”.

Lei crede che potranno emergere nuovi elementi a favore della sua assistita, durante il processo in Cassazione? 

“Posso dirle che tutti gli elementi emersi finora nel processo sono a favore della mia assistita, t-u-t-t-i. Per cui non si comprende come si possa arrivare ad una conferma di condanna. Devo dire, anche valutando in modo assolutamente obiettivo ed estraneo le circostanze e gli eventi dibattimentali, io non riesco a trovare nulla che possa portare ad una affermazione di responsabilità, poi si vedrà, non sono depositario della verità e se troverò anche in Cassazione chi mi smentisce, ne prenderò atto, insomma”. 

La signora Cosima Serrano ha taciuto per anni, mai una parola sulla vicenda. Perché d’improvviso, solo al processo d’Appello, quando forse ormai era troppo tardi, ha deciso di rilasciare dichiarazioni spontanee?

“No, no. Il problema era legato anzitutto ad una strategia difensiva. Sia chiaro a tutti: quando si è imputati mai ci si deve sottoporre né a interrogatorio né alle dichiarazioni spontanee, per un semplice motivo, perché tutto quello che viene detto a proprio favore non viene preso in considerazione, ma basta una sfumatura che in qualche modo possa essere a sostegno dell’accusa, che viene presa come elemento fondamentale. Noi abbiamo deciso di non far parlare la signora Serrano, quando lei al dibattimento in Corte d’Assise ha chiesto di fare delle dichiarazioni spontanee, non abbiamo potuto far altro che accogliere la sua richiesta. Lei avrebbe sempre voluto dire la sua, siamo stati noi difensori che abbiamo ritenuto non fosse necessario”.

Michele Misseri si infuria con l'inviata di "Pomeriggio Cinque". L'uomo davanti alle telecamere non ha risposto alle domande poi ha gettato una secchiata d'acqua all'inviata, scrive Claudio Torre, Martedì 03/05/2016, su “Il Giornale”. Sabrina Misseri ai domiciliari in un convento? A fare chiarezza sul futuro della ragazza che, insieme alla madre Cosima Serrano, è stata condannata all'ergastolo in secondo grado per l'omicidio della cugina Sarah Scazzi è Pomeriggio 5. Il programma condotto da Barbara d'Urso ha interpellato a riguardo don Aldo del convento di Fabriano: "Non sappiamo di richieste di trasferimento in convento, ma quella di Sabrina e della mamma è una richiesta di essere accolte ai domiciliari in una nostra struttura. Non si tratta di conventi ma di vivere in comunità in case-famiglia, ma la richiesta è stata respinta". La domanda è stata presentata però dalla stessa Sabrina. A riguardo le inviate del programma hanno provato a sentire un commento da parte del padre di Sabrina, Michele. L'uomo davanti alle telecamere non ha risposto poi ha gettato una secchiata d'acqua all'inviata mentre replicava: "Devo chiamare i carabinieri? Qui c'è un divieto...". "Abbiamo incontrato qui Michele Misseri e da lui avremmo voluto sapere cosa ne pensa di questa richiesta della figlia ma per tutta risposa ha aggredito la nostra troupe con una secchiata d'acqua come potete vedere dalle immagini e come potete vedere da questa pozzanghera d'acqua", con queste parole si chiude il servizio. Dopo averla cacciata via a secchiate davanti casa, in via Deledda ad Avetrana, Michele Misseri ha inaspettatamente deciso di rilasciare una intervista alla inviata di Pomeriggio 5, che gli ha posto delle domande inerenti al processo sulla inchiesta Scazzi bis che inizierà il prossimo 1° giugno e lo vedrà tra i 13 imputati (tra cui Ivano Russo), accusato del reato di autocalunnia. Il contadino di Avetrana rompe dunque un silenzio che oramai durava da anni e, intercettato dalla giornalista durante il lavoro nelle sue campagne, ha parlato dell’omicidio della nipote 15enne Sarah Scazzi, di cui si autoaccusa pur non essendo ritenuto credibile dai magistrati. “Sono stato io ad ucciderla, Sabrina e Cosima sono innocenti” – ha detto in lacrime il tristemente noto ‘zio Michele’ – “Vivo ogni giorno con il rimorso, ogni volta che scendo in garage penso a Sarah … Io l’ho uccisa ma tanto nessuno mi crede. La verità la sappiamo solo io e Gesù che sta sopra di noi…”. “Sabrina sta in carcere da innocente. Le chiedo perdono per quello che le ho fatto (accusarla dell’omicidio per poi ritrattare ed assumersi la responsabilità ndr)”; A Sabrina il padre augura di fare ritorno a casa "perché è brutto stare in carcere" e le chiede perdono: "Tutti i giorni devo vivere sempre con questo rimorso. Io Sabrina sono già sei anni che non la vedo più. L'ho vista le ultime volte al processo" ma "comunque - conclude - le scrivo sempre". “Mi devo mettere in ginocchio davanti a loro a chiedere perdono per quello che ho fatto – prosegue Misseri – Io non vedo Sabrina da sei anni, l’ho vista nell’ultimo processo, le scrivo sempre, ho visto nei suoi occhi tanta tristezza. E’ dimagrita tanto. A lei chiedo solo perdono e di tornare a casa”. Michele Misseri ha inoltre parlato di Ivano Russo, anche lui tra gli imputati del processo che sta per iniziare, accusato di false attestazioni ai magistrati e sospettato di essere stato in casa Misseri poco prima che Sabrina e Cosima uccidessero la povera Sarah: “No, Ivano non c’era in casa in quel momento. No è stato mai presente in casa quel giorno”, ha assicurato il contadino.

Sabrina Misseri, nuovo ricorso: «Concedetemi di essere utile agli altri», scrive Lino Campicelli su "Il Quotidiano di Puglia” il 4 maggio 2016. Un atto d’appello e una memoria difensiva per appellarsi ai giudici, in sintesi, affinchè non siano «impietosi con una persona che mostra desiderio di socializzazione e aiuto verso il prossimo». L’atto d’appello è quello discusso ieri dall’avvocato Nicola Marseglia, difensore di Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo (con sentenza confermata in secondo grado) insieme con la madre Cosima Serrano per l’omicidio della piccola Sarah Scazzi. In tutti gli atti, sia quelli depositati all’esame del Tribunale sia quelli di cui è stata proposta sinossi in fase di discussione orale, l’avvocato Marseglia non ha pronunciato mai il termine “responsabile” nè quello “colpevole”. In sostanza, ha evidenziato la difesa, la posizione di Sabrina Misseri, sul punto, è quella di un imputato su cui ancora non grava una sentenza definitiva passata in giudicato. Ergo, Sabrina Misseri è ancora da ritenere garantita dal principio della “presunzione di non colpevolezza” che è a fondamento dell’ordinamento giuridico nel nostro Paese. Tradotto in soldoni, il ricorso proposto dall’avvocato Marseglia, che ha impugnato il “no” con cui la Corte d’assise d’appello ha respinto la richiesta di concedere a Sabrina i domiciliari in una struttura gestita da religiosi, convento o casa-famiglia che dir si voglia, ha fatto leva sulle sentenze della Corte di Cassazione in riferimento alla disciplina delle misure cautelari personali, ma anche sulle ragioni umanitarie che imporrebbero una diversa considerazione della posizione dell’imputata. Per di più, dopo una sintetica ricostruzione delle motivazioni che hanno indotto l’Assise di secondo grado a respingere l’istanza e a ritenere congrua la misura della detenzione in carcere per Sabrina, l’avvocato Marseglia ha polemicamente rilevato come «non v’è chi non veda come la permanenza in carcere di Sabrina Misseri sia, allo stato, determinata esclusivamente dalla severa condanna riportata; circostanza che, invece di esaurire la sua inequivoca valenza cautelare sul piano della gravità indiziaria, viene sistematicamente opposta anche a sostegno della inalterata permanenza delle esigenze cautelari, apparentemente integrata da motivazioni specifiche, ma invero più tautologiche ed euristicamente ispirate». Sabrina Misseri, secondo la prospettazione difensiva, non può essere definita eternamente «socialmente pericolosa», in assenza di fatti che la “dipingano” come fonte permanente di pericolo per gli altri, nè può patire la sussistenza di esigenze cautelari da preservare in assenza di circostanze che impongano la necessità di tutelarle. In pratica, secondo l’avvocato Marseglia, la detenzione in carcere di Sabrina è da considerare “forzata”.

Niente convento per Sabrina Misseri nè casa-famiglia per Cosima Serrano, scrive Maria Sirsi il 9 aprile 2016 su “Ciak Social”. La Corte d’assise d’appello di Taranto ha respinto le istanze di scarcerazione presentate dalla difesa delle due imputate, Sabrina Misseri e Cosima Serrano, le due avetranesi condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. In alternativa, chiedevano di poter essere ristrette ai domiciliari in due strutture religiose dell’Italia centro-settentrionale. Invece, rimarranno in carcere…niente convento per Sabrina Misseri nè casa-famiglia per Cosima Serrano. Le due donne hanno sperato per lunghi giorni in questa possibile “riconversione” dello stato detentivo, ma l’ufficialità al “no” è giunta ieri attraverso l’ordinanza firmata dalla Corte che nell’estate dell’anno scorso, ha confermato il carcere a vita inflitto in primo grado per il sequestro e l’uccisione della piccola Sarah, avvenuto nell’agosto del 2010. Secondo gli avvocati Nicola Marseglia, Franco Coppi, Luigi Rella e Francesco De Jaco, sarebbero diversi i motivi per i quali l’istanza si sarebbe dovuta accogliere. La lunga detenzione già sofferta e l’assenza del deposito della motivazione della sentenza di secondo grado (è prevista entro il mese). Sempre dal punto di vista dei legali delle due donne, non vi sarebbe possibilità alcuna che le imputate possano inquinare le prove, fuggire o reiterare il medesimo reato, motivo per cui non esiste il principio che impone come categorica la sola misura del carcere. Altro motivo che aveva indotto la difesa a chiedere la sostituzione della misura detentiva, è il desiderio di Sabrina e di Cosima Serrano, di rendersi utili agli altri. A tale proposito, i legali avevano anche individuato tra conventi e casa-famiglia, strutture disponibili ad accogliere le due imputate. Però secondo la pubblica accusa, l’unica misura è e resta quella della detenzione in carcere. 

L'ipotesi del legale di Michele Misseri. DELITTO AVETRANA, GLI IMPUTATI POTREBBERO ARRIVARE LIBERI IN CASSAZIONE, scrive il 15 aprile 2016 di Daniel Moretti. L’Avvocato Luca La Tanza, legale di Michele Misseri, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “Legge o giustizia” condotta da Matteo Torrioli su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Gli sviluppi del processo. “Io mi sono ritrovato a difendere Michele Misseri quando già si autoaccusava dell’omicidio della nipote Sarah Scazzi –ha spiegato La Tanza-. Al termine del procedimento di primo grado, Misseri è stato condannato a 8 anni per soppressione di cadavere. Io ho garantito a Misseri la difesa strettamente tecnica, nel senso che non faccio nulla per andare contro la sua tesi ma non posso ovviamente neanche dire che è stato lui a commettere l’omicidio. Quindi io lo difendo dall’accusa di soppressione di cadavere. La mia linea difensiva mira a cercare di trasformare il reato da soppressione ad occultamento, che prevede una pena massima di 3 anni, mentre la soppressione di 10 anni”. Le motivazioni della sentenza di appello non sono ancora state depositate. “Dal 1 febbraio –ha spiegato La Tanza- sono ripresi a decorrere i termini per la decadenza delle misure cautelari per tutti gli imputati, da Cosima e Sabrina fino a Michele, che scadranno ad ottobre prossimo. Una volta che verranno depositate le motivazioni della sentenza di appello, bisognerà fare le notifiche a tutte le parti. Una volta che tutti avranno le notifiche ci saranno 45 giorni per presentare ricorso in Cassazione. Di conseguenza i ricorsi dovranno essere inviati a Roma e Roma dovrà fare le notifiche per la fissazione per l’udienza. Se si riesce ad avere l’udienza di Cassazione entro ottobre c’è la possibilità di avere la parola fine, ma se non si riesce tutti gli imputati al processo in Cassazione arriveranno liberi”. Resta in carcere Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo in primo e secondo grado (con la madre Cosima Serrano), per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010. Il Tribunale del Riesame (presidente De Tomasi) il 5 maggio 2016 ha respinto l’atto di appello presentato dalla difesa di Sabrina Misseri contro la decisione della Corte d’assise d’Appello del 4 aprile scorso che aveva respinto la richiesta di concessione degli arresti domiciliari in una comunità diocesana di Fabriano. L'impugnativa era stata accompagnata da una memoria difensiva degli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia. La Corte d’Assise d’appello aveva scritto nel provvedimento di rigetto che «la richiesta misura degli arresti domiciliari non risulta adeguata a contenere i prevedibili impulsi aggressivi della Misseri».

Sarah Scazzi. Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Un Giorno in Pretura e lo scandalo delle motivazioni. Una giustizia senza vergogna. Comunque la si pensi sulle responsabilità è giustappunto scandaloso permettere tutto ciò. La puntualizzazione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande di Avetrana, ha seguito il caso sin dall’inizio e sulla vicenda ha scritto ben tre libri e pubblicato decine di video. Roberta Petrelluzzi è la ideatrice, regista e conduttrice di “Un Giorno in Pretura”. Le telecamere del programma di Rai Tre sono state le uniche ammesse nell’Aula Alessandrini del Tribunale di Taranto per riprendere in diretta tutte le fasi del dibattimento sul processo del delitto di Sarah Scazzi. “Un Giorno in Pretura” aveva l’onere di distribuire le immagini agli altri media. Roberta Petrelluzzi, nella sua peculiarità di testimone privilegiata, ha avuto modo di seguire con imparzialità il dibattimento di primo grado, non essendo parte nel processo. Quindi le sue parole hanno una certa importanza se pronunciate da chi, con il suo lavoro, di dibattimenti penali ne ha visionati a migliaia. Il 25 giugno 2016, al momento dei saluti per l’ultima puntata del ciclo di stagione della trasmissione televisiva “Un giorno in pretura”, Roberta Petrelluzzi, conduttrice del programma, ha speso delle splendide parole per Cosima Serrano e Sabrina Misseri, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. «Voglio richiamare la vostra attenzione su una vicenda che mi ha molto coinvolta e che mi sta molto a cuore: la storia di Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Le due donne sono state condannate in primo grado nell’aprile del 2013, e oggi sono in attesa della sentenza della Cassazione. Ci sono voluti più di 11 mesi dopo il primo grado per scrivere le motivazioni della sentenza, cosa che è avvenuta anche per il processo d’appello. Più di 11 mesi. È stata questa la ragione che una giovane ragazza e sua madre, che si dichiarano disperatamente innocenti, sono da cinque anni in carcere. E ancora non si può dire la parola “fine” per una vicenda giudiziaria relativa a un delitto fra i più mediatici dell’ultimo decennio, dando al termine “mediatico” tutta la valenza negativa che alcune volte merita.» Ciononostante qualche direttore di giornale, interpellatomi per l’oggetto della nota stampa, mi rinfacciava il fatto che la sentenza era complessa e le motivazioni, quindi, dispendiose. Trasparendo la loro indole colpevolista e filo magistrati, io replicavo che questo succedeva solo a Taranto ed in questo caso, facendo notare, a fil di diritto, che l’ordinamento prevede, appunto, la complessità delle motivazione, di fatto prevedendo i termini di 90 giorni, rinnovabili, se del caso. Ma non all’infinito, dio toga piacendo. Mettiamoci in testa che a Taranto, come nel resto d’Italia, deve valere la forza della legge e mai la legge del più forte. In questo caso delle toghe, spalleggiate dai media, che speculano su queste disgrazie.

Appello mamma di Sarah: «Giudici fate presto», scrive Mimmo Mazza il 29 giugno 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È passato quasi un anno dalla lettura del dispositivo con il quale la corte d’assise d’appello il 25 luglio del 2015 scorso confermò l’ergastolo per Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri, accusate dell’omicidio e del sequestro di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana scomparsa il 26 agosto del 2010. Oltre undici mesi sono trascorsi senza però che siano state depositate le motivazioni alla base di quella decisione, un ritardo che va oltre i 90 giorni previsti dal terzo comma dell’articolo 544 del codice di procedura penale quando - come in questo caso - la stesura della motivazione è particolarmente complessa per il numero delle parti o per il numero e la gravità delle imputazioni. Se entro il prossimo 15 ottobre non sarà stata emessa sentenza definitiva da parte della Cassazione, Sabrina Misseri tornerà in libertà per decorrenza dei termini di custodia cautelare, essendo stata arrestata il 15 ottobre del 2010 e per la legge italiana non si può essere sottoposti a custodia cautelare per più di sei anni in assenza di sentenza definitiva. Per la madre Cosima, invece, la decorrenza dei termini è fissata per il 26 maggio del 2017, a sei anni dal suo arresto. A scrutare con attenzione a quanto accade nella sezione di Taranto della corte d’appello di Lecce non sono solo i principali imputati ma anche Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi, che ha voluto affidare alla Gazzetta il suo pensiero. «Sto vivendo da quasi sei anni un momento terribile che sembra non avere mai fine. Ho vissuto - spiega la signora Concetta - con intensa partecipazione, ma altrettanta angoscia, i primi due processi. Sto vivendo con angoscia l’attesa di vedere finalmente la fine di questo percorso giudiziario. Un percorso che, al momento (e salvo conferma definitiva), ha dato un volto ed un nome agli assassini di mia figlia. E questo grazie al senso di responsabilità, impegno e professionalità di tutti coloro che hanno portato avanti un lavoro faticoso e meticoloso, mettendoci l’anima e la loro sensibilità, nel rispetto di una persona che non c’è più e che ancora attende giustizia definitiva». Senza toni polemici e anzi con il rispetto che ha sempre portato alle forze dell’ordine e alla magistratura, la mamma di Sarah affronta il caso del mancato deposito delle motivazioni con tutto quello che il relativo ritardo può comportare. «Mi auguro, per quel che posso comprendere in termini giuridici, che tutto questo lavoro - dice Concetta alla Gazzetta - possa trovare un attento ma sollecito completamento, pur nel rispetto di tutte le parti processuali. E dico questo con sincera gratitudine e riconoscenza per quel che è stato fatto, ma con l’auspicio profondo di vedere finalmente chiusa la vicenda processuale di mia figlia. Perché, per il resto, nulla potrà rimarginare una ferita troppo profonda e sempre aperta».

Dalla sezione di Taranto della corte d’appello di Lecce non giungono anticipazioni, né previsioni riguardo la data di deposito delle motivazioni, data dalla quale decorrerà poi il termine per lo scontato ricorso in Cassazione. Eppure il verdetto di secondo grado, almeno nel dispositivo, è quasi del tutto simile a quello del primo, giunto il 20 aprile del 2013 e poi motivato con 1631 pagine depositate il 12 marzo del 2014, quindi anche in quel caso a quasi un anno dalla lettura del verdetto in aula.

Processo Scazzi, Giangrande contro la “giustizia lumaca”. Scrive Carmine Alboretti l'1 Luglio 2016 su “La Discussione”. “Undici mesi per scrivere le motivazioni di una sentenza di condanna sono obiettivamente un’aberrazione del diritto”. Ad affermarlo è l’avvocato Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie che si è occupato fin dall’inizio dell’omicidio di Sarah Scazzi.

Avvocato lei è di Avetrana?

«Sì, sono un concittadino della povera vittima e delle imputate considerate colpevoli di quel delitto, ma non le conoscevo personalmente. Mi sono occupato del loro caso da giurista e come sociologo, scrivendo anche diversi volumi in merito».

Libri nei quali ha spiegato il suo punto di vista?

«Niente affatto. Mi sono limitato a raccontare cosa avveniva giorno per giorno sia sul versante giudiziario che su quello mediatico. Tutto qui».

Lei denuncia la lunghezza dei tempi di deposito delle motivazioni: perché?

Non è una valutazione solo mia. Anche Roberta Petrelluzzi ideatrice, regista e conduttrice di “Un Giorno in Pretura” ha segnalato questa anomalia».

In che senso?

«Le telecamere del programma di Rai Tre sono state le uniche ammesse nell’Aula Alessandrini del Tribunale di Taranto per riprendere tutte le fasi del dibattimento. “Un Giorno in Pretura” aveva l’onere di distribuire le immagini anche agli altri media».

E allora?

«Roberta Petrelluzzi, nella sua peculiarità di testimone privilegiata, ha avuto modo di seguire con imparzialità il dibattimento di primo grado. Quindi le sue parole hanno una certa importanza se si considera che di dibattimenti penali ne ha visionati a migliaia. Nell’ultima puntata del programma, al momento dei saluti, ha rivolto un pensiero a Cosima Serrano e Sabrina Misseri, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi, segnalando che le due donne sono state condannate in primo grado nell’aprile del 2013, e oggi in attesa della sentenza della Cassazione. Ci sono voluti più di 11 mesi dopo il primo grado per scrivere le motivazioni della sentenza, cosa che è avvenuta anche per il processo d’appello. Più di 11 mesi. E ancora non si può dire la parola “fine” per una vicenda giudiziaria relativa a un delitto fra i più mediatici dell’ultimo decennio».

Sarah Scazzi, a un anno dalla sentenza d'appello mancano ancora le motivazioni: il ministero indaga. Il 27 luglio del 2015 Corte d'appello di Taranto confermò l'ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano e gli otto anni per Michele Misseri. Il giudice è impegnato in una commissione d'esame, scrive “La Repubblica” il 29 luglio 2016. Il ministro della Giustizia ha avviato accertamenti preliminari sul caso dei ritardi nella motivazione della sentenza per la morte di Sarah Scazzi. Lo confermano fonti ministeriali in merito a quanto riportato dalla Stampa, che ha sollevato il caso. L'ispettorato generale chiederà informazioni al presidente della Corte d'appello di Taranto. La sentenza del processo di secondo grado per l'omicidio commesso il 26 agosto 2010 venne pronunciata dalla Corte di assise di appello di Taranto (presidente Patrizia Sinisi) esattamente un anno fa, il 27 luglio 2015. La Corte confermò l'ergastolo per Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, ritenute autrici materiali del delitto, e gli otto anni di reclusione per Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, per soppressione di cadavere. Sarah aveva 15 anni quando scomparve nel nulla. Il 6 ottobre il suo corpo fu ritrovato in un pozzo cisterna nelle campagne di Avetrana. La vicenda tenne col fiato sospeso l'opinione pubblica. Ma il caso non è ancora chiuso. Susanna De Felice, il giudice a latere della sentenza pronunciata dalla Corte d'assise d'appello, è il magistrato incaricato di redigere le motivazioni. Nel periodo in cui il processo si stava concludendo era anche componente di una commissione per un concorso in magistratura: per questo motivo nei mesi scorsi aveva chiesto e ottenuto una proroga dei termini di deposito delle motivazioni della sentenza.

A distanza di un anno...omicidio Scazzi, il dettaglio inquietante: il mistero di Sabrina e Cosima, scrive il 29 luglio 2016 “Libero Quotidiano”. La tragica vicenda di Sarah Scazzi non si è ancora chiusa, e tra ricorsi e ritrattazioni potrebbero esserci nuovi colpi di scena. Per ora, in carcere sono finite Sabrina Misseri, cugina della ragazzina di Avetrana, e la madre Cosima, condannate a fine luglio 2015. Ma quello che manca - a distanza di un anno - sono le motivazioni della sentenza, che, mano al codice, dovrebbero essere depositate dal Tribunale entro novanta giorni. "E' passato un anno e non abbiamo ancora notizia delle motivazioni della sentenza di appello, siamo di fronte a una grave lesione dei diritti della difesa" dice a La Stampa Franco Coppi, celebre avvocato e difensore delle sue Misseri. "Dopo cinquant’anni di professione ne ho viste di tutti i colori, ma non mi era mai capitato di dover aspettare 11 mesi la motivazione di primo grado e adesso avere passato l’anno senza conoscere le motivazioni del secondo grado". Coppi rivolge un appello al Ministro della Giustizia Andrea Orlando perché valuti il caso, sostenendo che sia un'ingiustizia che due donne incensurate stiano in carcere quando sono accusate di un delitto che la stessa sentenza di primo grado definisce "d’impeto" e dunque pare improbabile una sua reiterazione. Ma non solo. Coppi si scaglia anche contro il comportamento dei magistrati, sottoposti a una pressione mediatica pesantissima: "I giudici popolari vengono estratti a sorte e bisogna ragionare sul fatto che prima di entrare in Assise sono stati sottoposti al bombardamento dei processi mediatici dove ci sono addirittura magistrati che dicono la loro e ipotizzano ipotesi di colpevolezza e di innocenza. E questo è gravissimo". In attesa che le motivazioni della sentenza vengano depositate, Coppi continua a logorarsi per un processo durissimo e rimane convinto dell'innocenza delle sue assistite, puntando il dito contro il reo-confesso, poi scagionato, Michele Misseri, zio della povera Sarah.

Ritardi sulla sentenza Scazzi. Ministero avvia accertamenti, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 29 luglio 2016. I tempi della giustizia: è probabilmente l’unica cosa che la madre di Sarah Scazzi da una parte e Sabrina Misseri, sua madre Cosima e Michele Misseri dall’altra, possono davvero condividere. Perché se quei tempi si allungano, se la macchina rallenta oltre i limiti consentiti, la prima non potrà mettere un punto fermo su una vicenda devastante, impossibile da rimuovere, e i secondi non potranno far valere quei diritti di difesa che valgono per tutti. E invece, quei tempi nel processo Scazzi si sono inceppati. Mancano, infatti, a un anno dalla sentenza d’appello che ha confermato le condanne di primo grado, le motivazioni di quella decisione; e questo impedisce di ricorrere in Cassazione e mettere la parola fine per lo meno alla vicenda processuale. A denunciarlo è stato l’avvocato Franco Coppi, legale di Sabrina e Cosima, condannate all’ergastolo come autrici materiale del delitto (Michele Misseri ha avuto 8 anni, confermati, per soppressione di cadavere). Ora il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha deciso di vederci chiaro e ha avviato gli accertamenti preliminari per capire se ci siano state negligenze e ritardi: l’ispettorato generale del ministero chiederà informazioni al presidente della corte d’Appello di Taranto e potrebbe scattare un’ispezione. Sarah aveva 15 anni quando il 26 agosto scomparse nel nulla. Oltre un mese dopo, il 6 ottobre, il suo corpo fu ritrovato in un pozzo cisterna nelle campagne di Avetrana. La vicenda tenne col fiato sospeso l’opinione pubblica. Ma il caso non è ancora chiuso. Susanna De Felice, il giudice a latere della sentenza pronunciata dalla Corte d’assise d’appello, è il magistrato incaricato di redigere le motivazioni, e nel periodo in cui il processo si stava concludendo era anche componente di una commissione per un concorso in magistratura. Per questo motivo nei mesi scorsi aveva chiesto e ottenuto una proroga dei termini di deposito delle motivazioni della sentenza. Anche questo, probabilmente, ha inciso su quei ritardi «oltre il ragionevole" denunciati da Coppi. Coppi parla a nome delle sue assistite. Ma anche Nicodemo Gentile, uno dei legali di parte civile della madre di Sarah Scazzi, auspica che «si chiuda prima possibile e comunque in tempi ragionevoli una vicenda che tanto fa male a mamma Concetta. La necessità di avere celermente le motivazioni è l’unico aspetto che condividiamo con la difesa delle due imputate. Speriamo possano arrivare presto per poter chiudere questa dolorosa vicenda», afferma l’avvocato, aggiungendo l’auspicio «che questi continui ritardi non abbiano in qualche modo effetto sul termine massimo di custodia cautelare per Sabrina Misseri».

Sarah Scazzi, a un anno dalla sentenza manca la motivazione: Ministro invia ispezione. Legale: “Lesi diritti difesa”. "In cinquant'anni di carriera non mi era mai capitato di assistere ad una cosa del genere. Faccio appello ad Andrea Orlando" ha detto Franco Coppi difensore di Sabrina Misseri, condannata all'ergastolo insieme alla madre per l'omicidio della quindicenne di Avetrana, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 29 luglio 2016. A un anno dalla sentenza di secondo grado non sono ancora arrivate le motivazioni. Ed è per questo motivo che il ministero della Giustizia ha inviato un’ispezione alla corte d’appello di Taranto, che il 27 luglio del 2015 ha condannato Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri per l’omicidio di Sarah Scazzi.  A sollevare il caso, sulle pagine del quotidiano La Stampa, è il professor Franco Coppi, legale della Misseri.  “È passato un anno e non abbiamo ancora notizia delle motivazioni -ha detto l’avvocato – In cinquant’anni non mi era mai capitato di assistere ad una cosa del genere. Siamo di fronte a una grave lesione dei diritti della difesa”.   L’avvocato Coppi ha poi fatto anche un appello diretto al ministro della Giustizia, Andrea Orlando: “Fatti di questo genere meritano attenzione e chiarimenti e dato e non concesso che il sovraccarico di lavoro abbia causato questo ritardo, bisogna fare in modo che questo non avvenga più perché non è accettabile sul piano della civiltà del diritto”. Da via Arenula hanno quindi fatto sapere di aver avviato accertamenti preliminari: l’ispettorato generale del Giustizia italiana chiederà informazioni per il ritardo al presidente della corte d’Appello di Taranto. Secondo quanto ribadito il 27 luglio 2015 dalla Corte di assise di appello di Taranto, presieduta da Patrizia Sinisi, la minorenne è stata strangolata dalla cugina Sabrina e dalla zia Cosima Serrano ed è morta il 26 agosto 2010.  La Corte confermò l’ergastolo per Sabrina e la madre Cosima, ritenute autrici materiali del delitto, e quella ad otto anni di reclusione per Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, per soppressione di cadavere. Il giudice a latere di quella sentenza, Susanna De Felice, che è anche il magistrato incaricato di redigere le motivazioni, nel periodo in cui il processo si stava concludendo era anche componenti di una commissione per un concorso in magistratura. Per questo motivo nei mesi scorsi aveva anche chiesto e ottenuto una proroga dei termini di deposito delle motivazioni della sentenza.

Caso Scazzi, a un anno dalla sentenza mancano ancora le motivazioni. Andavano depositate entro 90 giorni. L’avvocato Coppi: “Violati i diritti della difesa”, scrive Maria Corbi il 29/07/2016 su "La Stampa". «È passato un anno e non abbiamo ancora notizia delle motivazioni della sentenza di appello, siamo di fronte a una grave lesione dei diritti della difesa». Il professor Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo in secondo grado il 27 luglio del 2015 per la morte della cuginetta Sarah Scazzi, insieme alla madre Cosima, denuncia quello che ritiene «un fatto gravissimo». «Dopo cinquant’anni di professione ne ho viste di tutti i colori, ma non mi era mai capitato di dover aspettare 11 mesi la motivazione di primo grado e adesso avere passato l’anno senza conoscere le motivazioni del secondo grado». «Ormai ci stiamo avvicinando al sesto anniversario di carcerazione per queste due donne che hanno diritto ad appellarsi alla corte di Cassazione in tempi rapidi, ma qui siamo molto oltre il ragionevole». Dal caso Misseri al funzionamento della giustizia: «Un mio maestro diceva che l’Italia è la culla del diritto ma che a forza di stare in culla si è addormentata». Un appello al ministro della Giustizia Andrea Orlando: «Fatti di questo genere meritano attenzione e chiarimenti e dato e non concesso che il sovraccarico di lavoro abbia causato questo ritardo bisogna fare in modo che questo non avvenga più perchè non è accettabile sul piano della civiltà del diritto che un imputato assistito dalla presunzione di non colpevolezza debba aspettare tutto questo tempo per sapere perché è stato condannato». E quello che oltretutto rende drammatica la situazione, fa notare il professor Coppi, «è che l’attesa avviene con le imputate in carcere, due donne incensurate e accusate di un delitto che la stessa sentenza di primo grado definisce d’impeto e dunque pare improbabile una sua reiterazione». «Eppure tutte le nostre istanze per ottenere almeno gli arresti domiciliari sono state respinte. E non dimentichiamo che la corte di Cassazione ha annullato due volte in due sentenze le misure cautelari adottate per mancanza di gravi indizi di colpevolezza». Un processo quello di Avetrana, tormentato da colpi di scena, testimoni sospettati di false dichiarazioni, giudici popolari ricusati, sognatori, terminato nei due primi gradi di giudizi con condanne pesantissime per le due donne: fine pena mai. E 1630 pagine di motivi in primo grado. «Troppe», sostiene Franco Coppi, «il giudice che è convinto della colpevolezza dell’imputato e di dover infliggere l’ergastolo dovrebbe avere delle idee così chiare e avere in mente dei punti di riferimento così solidi e così lucidi da non avere bisogno di un’enciclopedia per rappresentare le ragioni del suo convincimento». Coppi approfitta del caso Misseri per far notare che oggi in Italia il principio del dubbio pro reo «purtroppo non passa nel cuore di chi lo dovrebbe applicare». «E a volte viene il sospetto che nel dubbio si preferisca condannare piuttosto che assolvere». Ecco che ancora una volta la vicenda di Avetrana torna a far discutere. Un caso che ha diviso le platee dei salotti televisivi tra innocentisti e colpevolisti. Con testimoni avvocati e periti di parte che impazzavano in tv. Coppi ha preferito il basso profilo convinto che il processo debba svolgersi in aula. Adesso però sull’onda della indignazione per la giustizia che sembra essersi dimenticata della sua assistita, dice la sua: «I giudici popolari vengono estratti a sorte e bisogna ragionare sul fatto che prima di entrare in Assise sono stati sottoposti al bombardamento dei processi mediatici dove ci sono addirittura magistrati che dicono la loro e ipotizzano ipotesi di colpevolezza e di innocenza. E questo è gravissimo». In tanti si sono stupiti del fatto che Franco Coppi, un principe del Foro, che difende i potenti, abbia deciso di dedicarsi a questa ragazza di Avetrana, accusata di un crimine orrendo, odiata da mezza Italia. Ma lui spiega che si tratta di un caso che lo sta «logorando», «è il processo che sta occupando la mia coscienza e la mia sensibilità giorno e notte, e l’idea di quella ragazza che sta marcendo in carcere, essendo io sicuro della innocenza, perché il processo la dimostra, come dimostra la colpevolezza del padre che peraltro si è confessato come assassino, è un fatto che mi tormenta e l’unica ragione per cui continuo a fare questo mestiere». 

Sentenza Scazzi, un vergognoso ritardo. Il Ministero della Giustizia avvia accertamenti, scrive la Redazione di AntennaSud il 30 luglio 2016. Il Ministro della Giustizia ha avviato accertamenti preliminari sul caso dei ritardi nella motivazione della sentenza per la morte di Sarah Scazzi. Lo confermano fonti del ministero in merito a quanto riportato on line dalla Stampa, che nell'edizione cartacea ieri ha sollevato il caso. L'ispettorato generale chiederà informazioni al presidente corte d'Appello. La sentenza del processo di secondo grado per l'omicidio di Sarah Scazzi (26 agosto 2010) venne pronunciata dalla Corte di assise di appello di Taranto esattamente un anno fa, il 27 luglio 2015. La Corte confermò l'ergastolo per Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano, ritenute autrici materiali del delitto, e quella ad otto anni di reclusione per Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, per soppressione di cadavere. Il giudice a latere di quella sentenza, Susanna De Felice, è anche il magistrato incaricato di redigere le motivazioni, e nel periodo in cui il processo si stava concludendo era anche componenti di una commissione per un concorso in magistratura. Per questo motivo nei mesi scorsi aveva anche chiesto e ottenuto una proroga dei termini di deposito delle motivazioni della sentenza. Auspica che "si chiuda prima possibile e comunque in tempi ragionevoli una vicenda che tanto fa male a mamma Concetta" l'avvocato Nicodemo Gentile, uno dei legali di parte civile della madre di Sarah Scazzi. Commenta così, con l'ANSA, la decisione del ministero della Giustizia di avviare accertamenti preliminari sui ritardi nel deposito delle motivazioni della sentenza d'appello che ha confermato l'ergastolo per Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano. "La necessità di avere celermente le motivazioni è l'unico aspetto che condividiamo con la difesa delle due imputate" ha detto ancora l'avvocato Gentile. "Speriamo - ha aggiunto – che possano arrivare presto per poter chiudere questa dolorosa vicenda". L'avvocato Gentile ha infine auspicato "che questi continui ritardi non abbiano in qualche modo effetto sul termine massimo di custodia cautelare per Sabrina Misseri.

Sarah Scazzi, dopo un anno mancano le motivazioni. Basta il "sentire popolare" a giustificare le condanne? Scrive Luca D'Auria il 7 agosto 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Cosima Serrano e la figlia Sabrina sono state condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi; anche in appello. A pochi sembrerà strano. Io non so dare il mio parere perché non ho letto alcun atto della vicenda. So delle accuse e delle autoaccuse. Ma questo non vuole dire nulla. Posso dire questo: il sociologo ed antropologo Durkheim diceva che il delitto è una ferita nella società ed il ruolo del giudice e del diritto penale è quello di curare questa ferita, come il medico fa con la malattia. Già con questa affermazione si può aprire una discussione assai complessa e profonda: il giudice risponde alle regole di diritto oppure alle esigenze della collettività? La necessità del rispetto delle regole giuridiche spesso può confliggere con il naturale bisogno che la società ha di “tirare il fiato” rispetto ad un delitto che ne ha scosso le fondamenta. Sono interessi contrastanti e, spesso, drammaticamente confliggenti. Ricordo la mia esperienza a Madrid quando assistevo il presunto organizzatore della strage di Al Quaeda alla stazione di Atocha: la gente della capitale spagnola voleva vendicare i fatti; i giudici si trovarono a dover decidere anche nei confronti di accusati contro i quali le prove erano a dire poco dubbie. L’accusa chiese contro il mio cliente quarantasettemila anni di carcere; venne assolto. Prevalse il diritto. Forse l’opinione pubblica fu soddisfatta dalla condanna di tutti gli altri. La fotografia di quei giorni, che porto nel mio cervello, è quella di noi avvocati difensori scortati dai tank dell’esercito spagnolo. Stasera ho acceso la televisione e mi sono trovato Cosima Serrano che, durante l’udienza, in un reportage trasmesso da Quarto Grado, chiede alla Corte di essere assolta, augurandosi che i giudici non stabiliscano la colpevolezza sulla base di quello che il “sentire popolare” vuole. In maniera forte paragona il processo in cui è coinvolta a quello contro Gesù Cristo, affermando che Gesù è stato condannato perché il popolo lo ha voluto, al di là delle prove. Ed oggi, quella contro il Messia, è considerata da tutti come una condanna ingiusta. L’affondo è forte, anzi fortissimo. Ripeto: non conosco gli atti. Quindi non posso dire se la condanna di primo e secondo grado, per l’omicidio di Avetrana, sia giusta o sbagliata. Ho solo qualche dubbio sulla ingiustizia (storica e giuridica) verso la condanna a Gesù: si è dichiarato figlio di Dio dinanzi al Sinedrio e cioè alla massima autorità dell’epoca per la tutela della fede ebraica e Re dei romani dinanzi al Proconsole di Roma; e questi delitti erano puniti con la pena di morte. Quanto al messaggio morale e di amore da Lui trasmesso è la storia a dare la risposta: è immortale. Ma per tornare sulla terra e ad Avetrana: la trasmissione dell’amico Nuzzi ha evidenziato un aspetto ben più importante, rispetto al quale non contano i concetti di responsabilità giuridica, morale o altro verso gli accusati: è trascorso un anno dalla condanna di primo grado per poter leggere le motivazioni e, ad un anno dalla sentenza di secondo grado, non sono ancora depositate e quindi conoscibili le motivazioni del giudice d’appello. Questo è immorale sia che si consideri il processo penale come una questione di diritto, sia che lo si consideri un ristoro per la società colpita e dilaniata dal delitto. La giustizia di una sentenza e la sua eticità non è valutabile solamente rispetto al merito dell’accusa ma anche e specialmente con riferimento alla modalità con la quale la decisione viene presa.

Il caso Sarah Scazzi e il circo della giustizia. Indagini attorcigliate. Tempi lunghi. Condanne senza motivazione. Ora anche un'ispezione ministeriale. Scommettiamo che finirà in nulla? Scrive Maurizio Tortorella l'1 agosto 2016 su "Panorama". Il caso Sarah Scazzi non è più un processo. A suo modo, è diventato il triste paradigma di come funziona la giustizia italiana. Per descrivere il disastro bastano alcune date, l’analisi dei tempi (e di alcune anomalie). L’omicidio della povera ragazza di Avetrana avvenne quasi sei anni fa, il 26 agosto 2010. Il 6 ottobre 2010 venne arrestato come omicida, reo confesso, lo zio di Sarah: Michele Messeri. Agli inquirenti disse di avere tentato di abusare della ragazza e di averla uccisa, e ammise anche di avere nascosto il corpo nel pozzo dove fu trovata. Poi Messeri ritrattò, accusando sua figlia Sabrina, che fu arrestata il 21 ottobre di quello stesso anno. Servirono altri sette mesi, e il 26 maggio 2011 fu arrestata anche Cosima Serrano, madre di Sabrina, accusata di concorso in omicidio e di sequestro di persona. Cinque giorni dopo fu invece scarcerato Misseri: erano trascorsi i termini della custodia cautelare per il reato di soppressione di cadavere, l’unico rimasto a suo carico. Le indagini preliminari si sono chiuse il 1º luglio 2011 con l'incriminazione di 15 persone: reati dal concorso in omicidio alla soppressione di cadavere, al sequestro di persona, al furto, alle false dichiarazioni al pubblico ministero, alla soppressione di documenti, all’infedele patrocinio, al favoreggiamento e (come poteva mancare?) per intralcio alla giustizia. Il processo di primo grado si è aperto davanti alla Corte d'assise di Taranto il 10 gennaio 2012 e si è chiuso il 20 aprile 2013 con la condanna all'ergastolo per Sabrina Misseri e per Cosima Serrano. Michele Misseri viene invece condannato a 8 anni per concorso in soppressione di cadavere. Per le motivazioni della condanna di primo grado, però, si sono dovuti attendere 11 mesi. Il 27 luglio 2015 la Corte d'appello di Taranto ha confermato le condanne. Ma il 27 luglio scorso il professor Franco Coppi, difensore di Sabrina e Cosima Messeri, ha denunciato che le motivazioni della sentenza di secondo grado non sono mai state depositate, impedendo così il diritto di difesa delle due recluse: se non ci sono le motivazioni della condanna, infatti, l’avvocato non può fare ricorso in Cassazione. Il motivo del ritardo? Il giudice incaricato di redigere le motivazioni, proprio nel periodo in cui si stava concludendo il processo, era anche componente di una commissione al concorso per entrare in magistratura. Per questo aveva chiesto e ottenuto una proroga dei termini di deposito delle motivazioni della sentenza. Il 29 luglio, spinto dalla denuncia dell'avvocato Coppi, il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha correttamente disposto un’ispezione nel Tribunale di Taranto. Possiamo scommettere fin d’ora che il risultato sarà assolutorio: s'è mai visto che un qualsiasi ispettore del ministero (ovviamente un magistrato) scoprisse e verificasse inadempienze di un qualsiasi collega?

Coppi: «Cosima e Sabrina in cella da 6 anni e non dicono loro il perché», scrive Valentina Stella l'8 ago 2016 su "Il Dubbio". Parla il difensore di Serrano e Misseri. A un anno dalla sentenza di appello del 27 luglio 2015 che ha condannato le due donne all'ergastolo ancora non sono state depositate le motivazioni. Un processo kafkiano quello a carico di Cosima Serrano e Sabrina Misseri, in carcere per l'omicidio della piccola Sarah Scazzi: da un lato una madre e un figlia condannate all'ergastolo, dall'altro papà Misseri, reo confesso per l'omicidio della nipote, ma che continua a vivere nella villetta dove è stata uccisa la ragazza. Una vicenda caratterizzata da molti colpi di scena, tra cui una giudice popolare ricusata e un testimone che racconta i sogni, da una attenzione mediatica senza precedenti, e da una condanna a vita pronunciata nonostante l'assenza di prove. Ad un anno dalla sentenza di appello - 27 luglio 2015 -, ancora non sono state depositate le motivazioni. Ancor peggio di quanto accadde in primo grado, quando l'attesa durò 11 mesi. Secondo l'articolo 544 del Codice di procedura penale, le motivazioni andrebbero rese note non oltre il novantesimo giorno dalla pronuncia della sentenza. Ma si sa che in Italia la giustizia molto spesso o non funziona o funziona male. Il 29 luglio il ministro Andrea Orlando ha disposto un'ispezione nel Tribunale di Taranto per capire come sia possibile che due persone ancora non sappiano perché dovranno probabilmente scontare un ergastolo. Bisogna comunque vedere come si concluderà il giudizio della Cassazione. E intanto le due donne gridano la loro innocenza ma sono da sei anni in custodia cautelare. La carcerazione preventiva è una vergogna per il nostro Paese: se ne abusa, come emerge dagli ultimi dati del rapporto Antigone. Sono quasi 19000 quelli in attesa di giudizio, tra cui anche Cosima e Sabrina. Nel 2013 i radicali di Marco Pannella proposero un referendum con l'obiettivo di ridurre i casi in cui fosse stato possibile ricorrere alla custodia cautelare; ma purtroppo non si raccolsero abbastanza firme per presentarlo. Per fare il punto sulla situazione, abbiamo intervistato l'avvocato di Sabrina Misseri, il professor Franco Coppi.

Avvocato, come spiega questo ritardo nel deposito delle motivazioni della sentenza di appello?

«Spiegazioni non ne ho, perché le spiegazioni presupporrebbero qualcosa di giustificabile. Per me, un anno per scrivere una sentenza, per quanto il processo possa essere complesso e delicato, è un tempo incomprensibile. Quindi non riesco ad immaginare nessuna possibile giustificazione».

Il ministro della Giustizia ha avviato accertamenti preliminari sul caso dei ritardi nella motivazione della sentenza. Arriva troppo tardi questa iniziativa?

«Il ministro agisce quando viene a conoscenza di un fatto, non può conoscere di ogni processo tempi e scadenze. Noi abbiamo aspettato pazientemente, rendendoci conto di tutto - dei tempi, delle fatiche, di altri impegni etc -. Poi però abbiamo sollevato la questione e il ministro ha agito con assoluta tempestività».

Ricordiamo che un giudice incaricato di redigere le motivazioni ha chiesto e ottenuto una proroga per i termini del deposito, perché impegnato in una commissione di un concorso per entrare in magistratura.

«Le ragioni della proroga non le conosco ma so che è stata ampiamente superata. La sentenza sarebbe dovuta comunque essere depositata dopo i secondi 90 giorni; ma sono trascorsi altri sei mesi dopo la proroga. Poi comunque uno può anche rinunciare ad assumere un incarico se deve fare altre cose».

Molti giudicano grave il fatto che due persone siano da circa 6 anni in custodia cautelare. Come può essere giudicata pericolosa socialmente una ragazza di 28 anni incensurata? Sulla base di cosa?

«Lei mi ha posto una bella domanda. Io infatti dovrei risponderle che non se ne comprendono le ragioni. Per di più la sentenza di primo grado aveva parlato di un delitto d'impeto. Quindi in un Paese civile, seppur con le dovute precauzioni e attenzioni, si aspetta una sentenza definitiva prima di sbattere una persona in galera. In questo caso, Sabrina Misseri ha già scontato sei anni di pena».

Quali sono secondo Lei le anomalie più importanti e gravi che hanno caratterizzato le indagini e i primi due processi?

«Ce ne sono talmente tante che potremmo parlarne per un giorno intero. Basterebbe pensare alla Corte di Cassazione che ha annullato per ben due volte provvedimenti cautelari per mancanza di indizi e al fatto che, nonostante ciò, l'accusa sia andata avanti sempre nei confronti di Sabrina modificando il tiro. Oppure si pensi a un provvedimento in cui la difesa è stata autorizzata a svolgere attività difensiva in carcere purché alla presenza del pubblico ministero».

Il pm Antonella Montanaro nella sua requisitoria aveva dichiarato, pur chiedendo la conferma dei due ergastoli: «Non ci sono prove, ma tanti indizi gravi e concordanti». Dall'altro lato c'è la confessione di Michele Misseri. Alla luce di questo, per come è configurato in Italia, Lei ritiene che un processo di questo tipo possa offrire sufficienti garanzie per l'imputato o pensa piuttosto che ci sia bisogno di una riforma del processo in cui valgano solo prove oggettive e scientifiche?

«Da che mondo e mondo laddove ci sono stati indizi gravi, precisi e concordanti sono state pronunciate sentenze di condanna. Non è sempre possibile avere la fotografia del delitto con l'autore con il coltello in mano mentre colpisce il cuore della vittima. È quindi chiaro che nella formazione del giudizio si procede anche attraverso gli indizi. Nel caso in questione però secondo noi non c'erano gli indizi gravi, precisi e concordanti. Casomai se c'erano prove erano a carico del padre, di Michele Misseri, il quale ha sì modificato le sue versioni - prima accusato, poi ha ritrattato la confessione, poi ha ritrattato la ritrattazione - però ogni volta dando una giustificazione delle sue modifiche e quindi offrendo al giudice, a nostro avviso, una prova di grande spessore. Era una confessione confortata da tutta una serie di riscontri».

Che incidenza ha avuto sui giurati la costruzione che i media hanno fatto delle imputate?

«Non le posso rispondere direttamente perché dovrei stare nella mente e nel cuore di tutti i giurati. Ma ho sempre visto con grande preoccupazione, non solo in questo caso, la celebrazione e l'anticipazione del processo che molto spesso vengono fatte nei mezzi di comunicazione, in particolare in televisione. Certamente il giudice, probabilmente anche quello professionale, può essere influenzato, ma certamente i giudici non professionali, quali sono i giudici popolari, possono essere condizionati da un bombardamento mediatico a cui sono sottoposti ancor prima di essere sorteggiati per far parte della giuria».

Di che male soffre la giustizia italiana?

«Innanzitutto bisognerebbe drasticamente ridurre i casi di custodia cautelare durante il procedimento. Non escludo ovviamente che ci siano dei casi clamorosi rispetto ai quali non si può non pensare alla custodia cautelare ma a me pare che ci sia un abuso di essa. Bisogna avere il coraggio di applicarla solo per esempio quando ci sia la certezza che l'imputato stia inquinando le prove, solo quando ci sia la sicurezza di una reiterazione dei fatti. Invece nel caso nostro c'è molta ed eccessiva larghezza nell'uso delle misure cautelari. E questo è un tema che andrebbe certamente approfondito».

C'è un modo per passare alla storia, superando la condanna all'anonimato: compiere imprese fuori dall'ordinario.

Caso Scazzi, Sabrina presto libera. Il giudice non ha scritto la sentenza. Condannata all'ergastolo, sarà scarcerata il 15 ottobre: per quella data impossibile l'udienza in Cassazione. La legge prevede 6 anni di carcerazione preventiva, scrive Mimmo Mazza l’11 agosto 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.  Il padre di tutti i processi sembra ancora una volta destinato a fare scuola, riscrivendo i codici di procedura penale dopo aver già – a suo tempo - fatto rivedere i palinsesti delle principali emittenti televisive nazionali, i timoni dei quotidiani della borghesia milanese e romana e i manuali di giornalismo. Il prossimo 15 ottobre Sabrina Misseri lascerà il carcere di Taranto. Non perché dichiarata innocente dopo aver rimediato l'ergastolo in primo e secondo grado per aver - in concorso con la madre Cosima Serrano - sequestrato e ucciso la cugina Sarah Scazzi, 15enne di Avetrana. Ma per scadenza dei termini di custodia cautelare che al netto di proroghe e sospensioni, secondo l’articolo 303 del codice di procedura penale, non può durare più di sei anni. Sabrina Misseri fu arrestata il 15 ottobre del 2010, dopo che il padre Michele l’accusò dell’omicidio della ragazzina, dunque il 15 ottobre del 2016, in assenza di sentenza definitiva, dovrà lasciare la casa circondariale di Taranto, aspettando a piede libero l’ultimo atto in Cassazione. Un epilogo inaspettato ma dovuto al ritardo - grave - accumulato dalla corte d’assise d’appello di Taranto nel depositare le motivazioni del dispositivo con il quale il 27 luglio del 2015 fu sostanzialmente confermato il verdetto di primo grado. Gli impegni del giudice relatore Susanna De Felice (presidente della corte era invece Patrizia Sinisi, di recente nominata presidente della corte d’appello di Potenza) nella commissione d’esami per il concorso in magistratura hanno portato, proroga dopo proroga, all’attuale situazione di stallo, oggetto di attenzione da parte del ministero della Giustizia. Non si sa quando le motivazioni saranno depositate, ormai è però certo che sarà tecnicamente impossibile far svolgere l’udienza in Cassazione prima del 15 ottobre 2016, giorno di decorrenza dei termini di custodia cautelare per Sabrina Misseri (per la madre Cosima invece scadono il 26 maggio del 2017, a sei anni dal suo arresto avvenuto il 26 maggio del 2011). Lungaggini e ritardi che non solo fanno storcere il naso a quanti sognano una giustizia giusta e celere ma che rischiano di minare anche la certezza di vivere in uno stato di diritto. Il termine di sei anni per la custodia cautelare rappresenta infatti un termine che il legislatore definisce non a caso massimo perché per la costituzione fino a sentenza definitiva, c’è la presunzione di non colpevolezza, che vale anche per Sabrina Misseri, condannata senza appello dal tribunale del popolo ma ancora in custodia cautelare per quello ufficiale. Sabrina Misseri, e sua madre Cosima, stanno scontando un anticipo di pena, perché poi gli anni passati in custodia cautelare saranno detratti dall’eventuale condanna definitiva, senza però essere sottoposti ad un programma di rieducazione e recupero, senza godere di quegli interventi e quelle attenzioni ispirate dall’articolo 27 della Costituzione secondo il quale la pena deve tendere alla rieducazione del reo. A sei anni dall’omicidio di Avetrana, non c’è nessun reo conclamato o confesso (a parte i vaneggiamenti di zio Michele) e nessuna pena definitiva, dunque non c’è nemmeno alcun intervento rieducativo. Non è la prima volta, e temiamo non sarà l’ultima, che alla lettura del dispositivo in aula non segue per mesi e anche per anni il deposito della sentenza. È successo, per non spostarsi da Taranto, per il rovinoso rogo che il 25 giugno 2001 distrusse la pineta di Lido Silvana, una delle località balneari tarantine più belle: la sentenza della corte d’appello di Potenza (competente perché tra le parti civili c’era un magistrato in servizio a Taranto) risale all’aprile del 2012, da allora si aspettano le motivazioni. Ma quando come nel caso Scazzi c’è in ballo la vita delle persone, detenute per anni senza sentenza definitiva, non si può passare oltre. Chi può, deve rimediare. Senza attendere interventi dall’esterno.

Sabrina scarcerata? Sarà la Corte a decidere, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 agosto 2016. Sarà la corte d’assise d’appello di Taranto a dover decidere il prossimo 15 ottobre, a sei anni dall’arresto di Sabrina Misseri, se la giovane di Avetrana condannata in primo e secondo grado all’ergastolo per aver - in concorso con la madre Cosima Serrano - sequestrato e ucciso la cuginetta Sarah Scazzi, potrà tornare libera per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare, fissati appunto in 6 anni dall’articolo 303 del codice di procedura penale. Oppure se nel calcolo complessivo della durata della carcerazione preventiva, dovranno essere aggiunti anche i 360 giorni complessivamente chiesti e ottenuti in primo e in secondo grado dalle corti per il deposito delle motivazioni (termini peraltro non rispettati sia dalla corte d’assise che dalla corte d’assise d’appello). La questione si giocherà in punta di diritto, tenendo sullo sfondo il dettato della Costituzione secondo la quale «la compressione della libertà personale dell’indagato o dell’imputato deve essere contenuta nei limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto» e dunque non si può escludere che gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia giocheranno anche la carta dell’attenuazione delle esigenze cautelari, vista il decorso del tempo dal fatto. Il caso Scazzi, insomma, continua a far discutere a sei anni di distanza dall’omicidio della 15enne di Avetrana. «Quanto sta avvenendo - dice alla Gazzetta la criminologa Roberta Bruzzone, per un periodo consulente della difesa di Michele Misseri prima di diventarne controparte in un processo che vede alla sbarra il contadino di Avetrana per calunnia - lascia l’amaro in bocca. Capisco e comprendo gli impegni a cui i magistrati devono far fronte tutti i giorni ma in questo caso, con una sentenza d’appello che nel dispositivo è praticamente identica a quella di primo grado, credo che francamente 13 mesi per il deposito delle motivazioni, ancora non avvenuto, siano proprio tanti. Francamente mi dispiace, è un aspetto che si poteva risparmiare alla famiglia e alla memoria di Sarah». «Non conosco la vicenda e non so quali possano essere - dice l’avvocato Egidio Albanese, presidente della Camera Penale di Taranto - i motivi del ritardo nel deposito della sentenza. È una situazione particolare che riflette quella in cui si trova la sezione di Taranto della corte d’appello di Lecce, rimasta con pochi magistrati in organico e con tanti processi da trattare, nel disinteresse del governo e della classe politica nazionale e locale. Con un pizzico di cinismo, spero che questa vicenda serva a far accendere i riflettori sulla situazione in cui si trova la corte d’appello di Taranto».

Quanti giudici sanno resistere alla pressione mediatica? Scrive Ezio Menzione l'11 ago 2016 su “Il Dubbio”. Oggi come 400 anni fa. Proprio nel primo capitolo di Storia della Colonna Infame, a pag. 15 dell’edizione economia Feltrinelli, dunque proprio in esordio, si legge: “Felici que’ giurati davanti a cui tali imputati comparvero (che più di una volta la moltitudine eseguì da se’ la sua propria sentenza); felici que’ giurati, se entrarono nella loro sala ben persuasi che non sapevano ancor nulla, se non rimase loro nella mente alcun rimbombo di quel rumore di fuori, se pensarono, non che essi erano il paese, come si dice spesso con un traslato di quelli che fanno perder di vista il carattere proprio ed essenziale della cosa, con un traslato sinistro e crudele nei casi in cui il paese si sia già formato un giudizio senza averne i mezzi; ma ch’eran uomini esclusivamente investiti della sacra, necessaria, terribile autorità di decidere se altri uomini siano colpevoli o innocenti ”. In una pausa di uno dei tre grandi processi per i fatti del G8 a Genova nel 2001, quello contro 25 supposti black bloc che si erano trovati in piazza a manifestare contro i grandi della terra per un altro mondo possibile, il presidente del tribunale, un austero giudice di lunga esperienza, ebbe a dirmi: “E’ dal 2001 che cerco di non vedere trasmissioni TV e leggere articoli su quanto avvenuto a Genova in quei giorni prevedendo che forse un giorno avrei dovuto condurre un processo su quei fatti e non volevo arrivarci con idee preconcette”. Eravamo, se non erro, nel 2007: per 6 anni quel presidente si era astenuto dal fatto più importante avvenuto nella sua città apposta per mantenere la mente sgombra e non essere influenzato. Ammirevole, direi. Ed infatti la sentenza che il collegio da lui presieduto emise riconobbe che i primi a comportarsi illegittimamente non furono i dimostranti, come tutti i media fino allora avevano detto, bensì i carabinieri e così mandarono assolti, o quasi, 15 degli imputati; gli altri 10 furono condannati a pene severissime. Ma questo non sembra essere lo scrupolo e il comportamento della maggioranza dei giudici. Anche perché non deve essere facile sottrarsi all’assedio mediatico cui si viene sottoposti – tutti – in occasione di importanti processi. E i media, si sa, tendono sempre a costruire e imporre una loro versione del fatto criminoso. Per lo più in chiave colpevolista, vale a dire in danno dell’accusato. Così si costruisce un profilo criminale o comunque colpevole del soggetto imputato, attraverso mezzi talora smaccati (i modellini della casa di Cogne di Bruno Vespa), talaltra più subdoli e proprio per questo più pericolosi (la mozione degli affetti e l’insistenza nell’adesione al punto di vista della vittima di Chi l’ha visto? e altre trasmissioni simili). Non si creda che si tratti di fatti nuovi: certo l’espandersi dei media è fenomeno, per vastità e insistenza, tipico della nostra era. Ma Foucault, per esempio, in quel meraviglioso libro (non solo suo, anche dei suoi discepoli) che è Io, Pierre Riviere narra di come il processo per l’assassinio del padre di Riviere venisse seguito attraverso volantini che, aggiornati ad horas e prontamente stampati, venissero distribuiti nelle fiere di città e paesini e andassero a ruba: prima ancora che attraverso i giornali. Insomma, una capillarità di penetrazione nel pensiero collettivo notevole, e sempre, già allora, in chiave colpevolista. Del resto, assistere ai processi, specialmente a quelli d’assise, era un passatempo usuale, almeno fino a qualche generazione fa. E i processi stessi erano presi d’assalto da giornalisti di testate maggiori e minori: facevano vendere e dunque si abbondava nei particolari più raccapriccianti e, soprattutto, si insisteva sulle rappresentazioni più truci dell’imputato. Non essendoci ancora la fotografia venne in auge una categoria di disegnatori specializzati - court draughtsmen – che supplivano alla bisogna. E questi disegnatori tuttora, anche in epoca di foto digitali, prosperano nelle corti britanniche, dove è vietato scattare foto. La pubblicità attorno e durante il processo, però, è cosa diversa (laddove può essere distinta, e non sempre è facile farlo) dal flusso mediatico intorno al caso criminale, prima, durante e dopo il processo. La pubblicità del processo è conquista di civiltà e garanzia, sia pure relativa, di rispetto delle regole: basta vedere una trasmissione di Un Giorno in Pretura per accorgersi, se si è un po’ esperti di aule giudiziarie, che i giudici tendono a comportarsi più correttamente dell’usuale. E oggi pubblicità dell’udienza significa ripresa video della medesima e sua messa a disposizione del pubblico. Tant’è che diffidiamo di quei presidenti che, pur avendo dato le parti il proprio consenso alle riprese, motu proprio le vietano con le scuse più disparate. Dunque non è a questo tipo di pubblicità che alludiamo nel condannare gli eccessi mediatici. Quelli che più ci preoccupano sono quelli che precedono il processo e che tendono ad anticipare la ricostruzione del fatti e a convincerci della colpevolezza o dell’innocenza (ma in genere si insiste soprattutto sulla prima) del reo. Rispetto a questa è ben difficile che il giudice possa sottrarsi ad una qualche influenza. Quando poi – ed il caso della Colonna Infame è solo uno dei tanti – per l’effetto dei media, o anche solo del clamore del popolo, vi è una richiesta chiara ed esplicita di condanna, allora l’effetto paventato dal Manzoni è terribilmente evidente: il giudice tenderà ad allinearsi con la richiesta di condanna, visto che il popolo, di solito, reclama la forca. E ci vuole coraggio per un giudice già condizionato sottrarsi a queste spinte: come nel caso del povero Mora, ci dice Manzoni, che nemmeno l’esecuzione della sentenza “si poteva sospendere, perché il popolo esclamava” e reclamava appunto il supplizio. In Italia si conosce bene il fenomeno, ma non si è mai fatto nulla per arginarlo: nemmeno un codice di autoregolamentazione della “cronaca nera”: quasi una contraddizione in termini, peraltro; ma qualcosa si potrebbe fare. Altri ordinamenti, più consapevoli dei rischi, ma certamente poco proclivi a mettere la mordacchia ai media, hanno pensato e praticano un altro sistema: l’individuazione dei giudici più sgombri possibile da pregiudizi, oppure – ed è questa la soluzione vicaria più praticata perché più facilmente praticabile – il bilanciamento fra i pregiudizi. Alludo ai processi con la giuria popolare del sistema americano. La scelta dei componenti la giuria, nei casi di maggior rilievo, ma anche nei meno importanti (la giuria non è obbligatoria solo negli omicidi di primo grado, ma anche nei processi di medio calibro), si spende spesso più tempo a scegliere i giurati che a fare il processo. Di solito la giuria è composta di 14 persone e le due parti (procuratore e difensore) possono rifiutarne fino a 7, dopo di che dovrebbero accettare quelli che seguono. Sicchè, spesso con l’ausilio di esperti psicologi, sociologi o criminologi, e ponendo domande molto precise, si cerca di capire se nutrono pregiudizi ostili alla propria parte. Una delle domande più ricorrenti, fin troppo facile, è quella se si sono già interessati al caso attraverso le TV o i giornali e, di conseguenza, si cerca di arguire quale idea possano essersi fatti e dunque rigettarlo in quanto giurato. Insomma, si tenta di evitare che i potentissimi media abbiano già influenzato il giudice. Cosa tutt’altro che facile, naturalmente, ma almeno è qualcosa.

L'uso del carcere (e del potere) ripensando a Manzoni, scrive Piero Sansonetti l'11 ago 2016 su “Il Dubbio”. Bisogna alzar la voce (clamandum est) contro quei giudici severi e crudeli che, per acquistare una gloria vana, e per salire, con questo mezzo, a più alti posti, impongono ai miseri rei nuove specie di tormenti». Queste parole sono state scritte da un giurista del ‘500, di nome Antonio Gomez, citato da Alessandro Manzoni nel secondo capitolo di Storia della Colonna infame, che pubblichiamo sul quotidiano, e che racconta, come sapete, un episodio di clamorosa ingiustizia nella Milano del ‘600. La frase di Gomez non può non colpire. Sembra una fotografia di tante situazioni attualissime. L’idea che mezzo millennio fa - in Spagna, in piena epoca di Inquisizione - già i giuristi si interrogassero sull’eccesso di potere e di spettacolarità di alcuni magistrati, è sorprendente. E ci dice che la questione dell’intreccio, talvolta perverso, tra giustizia e potere, è una questione connaturata con il potere, e che può essere sciolta solo mettendo in discussione e disarticolando il potere, e contrapponendogli il diritto. Questo secondo capitolo della “Colonna Infame” è interamente dedicato alla tortura. Ed esamina in modo molto approfondito tutti gli aspetti del problema. In particolare - mi è sembrato - tre aspetti.

1) L’uso di una pena - perché la tortura è una pena - come strumento di indagine. E’ evidentemente questa commistione la negazione di ogni principio del diritto. E Manzoni spiega bene come il problema già se lo fossero posti i romani. La discussione allora non riguardava neppure il tema della “crudeltà” e della legittimità o no della “crudeltà” nella applicazione della legge, ma riguardava l’uso improprio di una pena come strumento di pressione verso un cittadino considerato ancora innocente. E fu esattamente per questa ragione che - tra la fine del 700 e i primo dell’800 - la tortura - “il supplizio” - fu cancellata dai codici e ai giudici fu sottratto uno strumento molto consistente del proprio potere. Naturalmente non è così automatico sostituire la parola tortura con la parola carcere preventivo. E’ chiaro che c’è una bella differenza tra tormentare con il fuoco una persona, o imporle la “ruota” che slogava e fratturava ossa e muscoli, con atroce dolore, e sbatterla in una cella e lasciarla lì, isolata, per sei mesi, o un anno, o due. Però dal punto di vista dei principi la differenza non è enorme. Così come la tortura la carcerazione preventiva è una pena e viene non di rado usata come strumento di indagine. Manzoni metteva in discussione il diritto dei giudici ad usare la pressione fisica per indurre alla confessione, o all’accusa verso complici reali o immaginari. E su questo piano le cose non sono cambiate. Non nel senso che oggi la legge consenta l’uso a scopo di tortura del carcere preventivo: non lo consente. Però la cosa avviene, è frequentissima, anzi è la norma. In modo del tutto illegale, molti Pm ordinano l’arresto delle persone, anche violando il codice di procedura, con lo scopo - talvolta persino dichiarato - di indurre gli imputati ad “arrendersi”. Questo potere non gli è riconosciuto dalla legge. E però nessuno glielo nega. Anzi, la politica glielo riconosce. Talvolta sottovoce, talvolta in modo esplicito, quando per esempio autorizza l’arresto di deputati senza rispettare le norme del codice.

2) La spettacolarità della giustizia che si realizza sempre attraverso la condanna di un colpevole. La giustizia non è mai spettacolare, né gradita al popolo, quando assolve. Lo è quando condanna. E questo rende la “giustizia spettacolare”, comunque, una giustizia “forcaiola”. Antonio Gomez se ne accorgeva a metà del 500, quando non c’era la Tv, non c’era facebook, non c’erano i giornali giustizialisti. Oggi invece, nella modernità, moltissimi pensano che la giustizia spettacolare non sia un abominio ma un portato della libertà di stampa.

3) La critica del potere. Tutto lo scritto di Manzoni torna continuamente su questo punto. L’eccesso del potere, la discrezionalità, la possibilità per una persona di decidere il dolore, il terrore, la vita o la morte di un’altra persona, al di fuori da ogni controllo, di ogni verifica, e persino, molto spesso, di ogni ricerca della verità.

Questo forse è il tema più moderno che Manzoni mette sul tavolo. Nessuna critica del potere è possibile se esclude la critica del potere giudiziario. Perché il potere giudiziario è il potere dei poteri. E invece il dibattito politico, da circa quarant’anni, in Italia, ci ha offerto una conoscenza del potere del tutto “deviata”, passata per il prisma di rifrazione del giustizialismo. Che ha sedotto e sottomesso l’intera intellettualità. Per cui l’immagine che si afferma è quella di una lotta aperta condotta da una magistratura libera, indipendente ed eroica, che si oppone al potere politico e alle sopraffazioni, in nome del popolo e dei suoi interessi. È una immagine rovesciata rispetto alla realtà. La magistratura è il potere, vive nel potere, esprime il potere, controlla il potere rifiutando di essere controllata. E’ l’unico potere incontrollato esistente, nella società contemporanea, cioè l’unico potere puro, essenziale, assoluto. In che nodo si concilia una magistratura espressione del potere incontrollato e una magistratura custode del diritto? Non sono conciliabili. Eppure dentro la magistratura italiana coesistono queste due aspirazioni. E continuamente si manifestano, talvolta nelle inchieste, talvolta nello spettacolo, talvolta nelle sentenze e nelle indagini serie. Possiamo affidarci alla speranza che la magistratura del diritto prevalga sulla magistratura del potere? O invece bisogna pensare a riforme che limitino il potere, aumentino i controlli, i contrappesi, ed esaltino i diritti del diritto? Sicuramente il professor Antonio Gomez opterebbe per questa seconda scelta. E anche Manzoni.

Ergastolo? No, libera. Sabrina Misseri, lo shock: così, grazie a un giudice...scrive Cristiana Lodi il 12 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Quindici ottobre 2010 - 15 ottobre 2016. Sei anni di carcere preventivo per Sabrina Misseri, due volte condannata all'ergastolo. Per la corte d' Appello di Taranto è l'assassina (in concorso con sua madre Cosima Serrano) della cugina Sarah Scazzi. I giudici sentenziano il 27 luglio 2015. Ma il relatore, Susanna De Felice, a oggi non ha ancora scritto la sentenza. Un anno e sedici giorni non sono bastati al magistrato per mettere nero su bianco i motivi del verdetto, depositarli e consentire così alla difesa di ricorrere in Cassazione: l'ultimo e definitivo grado di giudizio. La legge (articolo 303 del codice di procedura penale) parla chiaro e non ammette deroga: la custodia cautelare in carcere non può durare più di sei anni. Non un minuto oltre. Per Sabrina Misseri (come per qualunque altro imputato) in assenza del verdetto finale, vale la presunzione d'innocenza. Quindi il diritto di uscire di prigione. E di aspettare l'ultima pronuncia della corte Suprema, da donna libera. Dov' è l'inghippo, in questo processo che ancora tiene la ribalta mediatica e per questo (probabilmente) a differenza di tanti altri casi identici, non passa inosservato? L' intralcio risiede negli impegni del relatore, dottoressa Susanna De Felice, nominata membro della commissione d' esami per il concorso in magistratura. Concorso per il quale le prove scritte erano fissate alla Fiera di Roma in via Portuense, il 5, il 6 e l'8 luglio 2016. Ovvero a un anno di distanza dalla condanna inflitta a Sabrina e a sua madre. La Corte aveva chiesto i canonici novanta giorni per scrivere la sentenza. Ma proroga dopo proroga, si è arrivati a sforare bellamente l'anno e a costringere il ministero della Giustizia ad "attenzionare" il caso. La sollecitazione arriva dal professore Franco Coppi, difensore di Sabrina, che ha segnalato la «grave violazione del diritto della difesa di fare ricorso contro la sentenza di condanna di secondo grado». Dunque? Dunque il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha avviato gli «accertamenti preliminari per capire se ci siano state negligenze e ritardi». L' ispettorato generale del suo dicastero si è ripromesso di chiedere informazioni al presidente della corte d' Appello di Taranto e (chissà) potrebbe scattare anche un'ispezione. Risultato? Il 15 ottobre prossimo Sabrina lascerà la casa circondariale di Taranto, dato che nessuno ha potuto stabilire entro la data indicata dalla legge, se la detenuta in attesa di giudizio definitivo sia colpevole o innocente. L'avvocato Franco Coppi, esorcizza la sorpresa con una battuta: «... quel mio maestro diceva che l'Italia è la culla del diritto, ma che a forza di stare in culla quella si è addormentata». E non nasconde lo sdegno: «Noi potevamo starcene zitti e aspettare la riapertura delle porte del carcere. Invece abbiamo deciso di fare chiasso perché siamo davanti a una violazione gravissima del diritto di difesa. In mezzo secolo di professione ne ho viste davvero tante. Ma questa vicenda odiosa le supera proprio tutte: nella sentenza di primo grado ho dovuto aspettare 11 mesi per poter leggere le motivazioni. Milleseicentotrentanove pagine, troppe per una Corte che avesse le idee chiare e convincenti sulla colpevolezza dell'imputata. Per il secondo grado, addirittura, stiamo aspettando da oltre un anno. E vorrei capire quanto tempo serva ancora. Di fatto non abbiamo potuto impugnare e dimostrare l'innocenza della nostra assistita, ingiustamente detenuta. Sei anni oppure no, proroghe o non proroghe, a settembre (codici e calendari alla mano) chiederemo la scarcerazione». Il tribunale del popolo ha già condannato Sabrina Misseri e sua madre Cosima, subito e senza appello. Il tribunale dei magistrati tarda invece a scrivere le sentenze, alla faccia della presunzione di non colpevolezza. «Un atteggiamento inaccettabile» aggiunge Coppi, «queste due poveracce restano in cella inchiodate a un ergastolo nemmeno motivato. Viene loro contestato un omicidio d' impeto: Sabrina avrebbe ucciso senza controllo perché gelosa di un uomo. Ma se è così, non si capisce dove possa risiedere il pericolo delle recidività». Il ministro della Giustizia vuole verificare se ci siano negligenze dietro il ritardo nel deposito dei motivi della sentenza d' Appello. Lo sottolineiamo e l'avvocato non nasconde la stizza: «Per prima cosa vorrei sottolineare che non è un obbligo per un magistrato assumere l'incarico di membro della commissione d' esame per la professione. E lo sappiamo tutti che il giudice relatore, una volta accettato l'incarico, non viene che "detenuta" giorno e notte a Roma un anno e mezzo per poter esaminare i suoi candidati. Possibile che in oltre un anno non abbia trovato il tempo di scrivere perché la Corte ha inflitto l'ergastolo? Una pena, oltretutto, conforme alla sentenza del primo grado. Dato e non concesso che il sovraccarico di lavoro abbia causato il ritardo e ostacolato il processo, questo non deve ripetersi mai più» rincara Franco Coppi: «Non è accettabile, sul piano della civiltà del diritto, che un imputato assistito dalla presunzione d' innocenza debba aspettare tutto questo tempo per sapere perché è stato condannato e possa di conseguenza difendersi». La seconda cosa? «Possibile» si domanda ancora il professore, «che davanti a un intervento del ministro, questo magistrato e gli stessi componenti la Corte non si siano sentiti minimamente in dovere di spiegare e documentare (non dico giustificare) le ragioni del loro impedimento?». Possibile, professore. Sarah Scazzi ha 15 anni soltanto quando, il pomeriggio del 26 agosto 2010, scompare nel nulla mentre sta andando a casa della cugina Sabrina che ne ha 21. Circa un mese dopo, il 6 ottobre, il corpo nudo viene trovato in fondo a un pozzo nelle campagne di Avetrana. A farlo ritrovare è lo zio Michele Misseri, padre di Sabrina. Dopo una prima confessione, a distanza di una settimana, l'uomo incolpa la figlia del delitto (ribadendo la versione nell' incidente probatorio) salvo poi ritrattare. E cambiare più volte versione. Misseri viene condannato a 8 anni per soppressione di cadavere. Cosima Serrano finisce in cella il 26 maggio 2011. Per lei i termini di custodia cautelare scadono lo stesso mese e lo stesso giorno del 2017. Chissà se per quella data, il giudice relatore Susanna De Felice, avrà trovato il tempo di scrivere la sentenza d' ergastolo duplice. Cristiana Lodi

Delitto Scazzi, Sabrina e Cosima verso la libertà, scrive Sara Menafra il 13 agosto 2016 su “Il Messaggero” e su “Il Mattino di Napoli”. È bufera a Taranto per il rischio che Sabrina Misseri possa lasciare il carcere dopo sei anni e prima di aver ricevuto una sentenza definitiva. Ed è bufera, soprattutto, sulla giudice relatrice che per più di un anno non ha depositato le motivazioni della sentenza di appello: nei giorni scorsi, la procura generale ha avviato nei suoi confronti l'azione disciplinare e via Arenula ha dato il via ad alcuni accertamenti preliminari. Stando ad una norma del codice di procedura penale, la ragazza accusata di aver ucciso la cugina quattordicenne Sarah Scazzi con l'aiuto della madre, Cosima, dovrebbe lasciare il carcere dopo sei anni dal momento dell'arresto, ovvero il prossimo 15 ottobre e dunque prima dell'eventuale pronuncia della corte di Cassazione. A generare questa situazione paradossale è stato il ritardo nel deposito della sentenza di appello. Il giudice relatore, Susanna De Felice, non l'ha ancora messa agli atti sebbene dalla pronuncia del dispositivo, che confermava la sentenza di ergastolo, sia passato più di un anno. Con l'arrivo della pausa feriale, si è capito che la sentenza non sarebbe giunta (anche se in tribunale a Taranto qualcuno dice che l'atteso documento potrebbe essere depositato nei prossimi giorni e comunque entro settembre) e che in ogni caso la pronuncia dei supremi giudici non sarebbe arrivata in tempo per scongiurare il primo termine massimo previsto dal codice. Cosa accadrà dopo quel termine, non è ancora del tutto chiaro. Se alcuni avvocati dicono che il limite è improrogabile, secondo altri deve essere comunque sommato a questo limite un ulteriore anno, ovvero i sei mesi usati per depositare la pronuncia di primo grado e gli altri sei assegnati ai giudici di appello. A decidere, a questo punto, sarà lo stesso tribunale. «Il termine dei sei anni esiste - spiega il professor Franco Coppi che assiste proprio Sabrina Misseri - bisogna vedere se possa essere applicato a questa vicenda o se debbano essere sommati anche i tempi di deposito delle sentenze. E' un tema che approfondiremo nei prossimi giorni, in ogni caso il ritardo nel deposito della sentenza è un fatto che preoccupa molto». Se anche Sabrina non dovesse lasciare il carcere di Taranto ad ottobre, resta il tema della sentenza attesa da più di un anno. Susanna De Felice, il giudice relatore, poco prima che venisse pronunciata ha accettato di far parte della commissione per il concorso in magistratura. Il regolamento le avrebbe consentito di chiedere l'esonero dei carichi più gravosi di lavoro, ma lei ha preferito mantenere il ruolo di relatore nel processo che ha portato alla condanna di Sabrina Misseri il 27 luglio 2015. Il deposito delle motivazioni, invece, non è mai arrivato. Nei giorni scorsi, il procuratore generale presso la corte di Cassazione Pasquale Ciccolo ha già avviato l'azione disciplinare nei suoi confronti e presto gli atti potrebbero essere girati al Csm. «Il ritardo nel deposito di una sentenza costituisce una precisa fattispecie di illecito disciplinare - spiega il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini - se colpevole o incolpevole il consiglio non lo sa ancora, chi deve accertarlo sono i titolari dell'azione disciplinare, ovvero pg e ministero. Solo in seguito se ne occuperà il Consiglio. In ogni caso è mia intenzione chiedere prima possibile notizie sulla vicenda al presidente della corte di appello». Accertamenti preliminari sono stati avviati anche dal ministro della giustizia Andrea Orlando.

Il giudice si distrae. E Sabrina (per fortuna) torna libera, scrive Errico Novi il 14 ago 2016 su "Il Dubbio". Nel caso Misseri tutte le derive della giustizia: tornerà libera per le motivazioni mai depositate. Da che parte cominciare? Impossibile scegliere. Certo, la notizia è che Sabrina Misseri uscirà per scadenza termini: la 28enne di Avetrana è ormai alle soglie del tempo massimo di custodia cautelare. Che può spingersi fino al limite comunque stratosferico di 6 anni (6 anni di carcere preventivo, è il caso di ricordarlo, significa che a fine processo si potrebbe scoprire di aver tenuto dentro per tutto quel tempo una persona innocente). Condannata all'ergastolo in primo e secondo grado per aver sequestrato e ucciso, con la complicità della madre Cosima Serrano, la cugina Sarah Scazzi, Sabrina tornerà libera il 15 ottobre 2016. Impossibile che arrivi prima la sentenza della Cassazione, e con questa l'eventuale definitiva condanna che, essa sola, consentirebbe di continuare a tenere la donna dietro le sbarre. Naturalmente in sé e per sé non ci sarebbe nulla di male, niente di terribile. Nell'ordinamento italiano una persona imputata, anche se gravata da pesanti indizi di colpevolezza, è presunta innocente fino al terzo grado di giudizio. E deve essere tenuta in carcere prima della sentenza, come noto, solo allorquando ricorrano alcuni precisi rischi: reiterazione del reato, pericolo di fuga, inquinamento delle prove. In ogni caso non può in sé e per sé creare scandalo che Sabrina Misseri esca. Casomai è discutibile che una persona debba attendere tanto tempo per conoscere le precise motivazioni in base alle quali è stata condannata, come giustamente denunciato in un'intervista rilasciata al Dubbio dal professor Franco Coppi, difensore della donna, e pubblicata martedì scorso. Qui veniamo al punto, a uno degli aspetti paradossali di tutta la questione. Misseri uscirà perché appunto la sentenza di condanna non è ancora stata resa eventualmente definitiva dal giudizio in Cassazione: l'udienza davanti alla Suprema corte però avrebbe potuto celebrarsi prima se la precedente pronuncia, quella d'appello, fosse stata già depositata (senza che siano state depositate le motivazioni del giudizio impugnato, è impossibile celebrare il terzo grado del processo). I motivi in base ai quali la Corte d'Assise d'Appello di Taranto ha confermato l'ergastolo per Sabrina Misseri (e per sua madre, per la quale i termini di custodia scadono invece a maggio 2017) non si conoscono perché il magistrato che avrebbe dovuto depositarli si è preso un'infinità di tempo, ha chiesto diverse proroghe e non ha ancora tagliato il traguardo. Si tratta del giudice relatore Susanna De Felice, che dal giorno della pronuncia, il 27 luglio dell'anno scorso, ha avuto molto da fare. In particolare ha dovuto far parte delle commissioni per il concorso in magistratura. Incombenza delicata, certo, ma a cui forse la giudice avrebbe potuto sottrarsi, tenuto conto che aveva da stendere le motivazioni di una delle condanne più controverse e comunque attese dall'opinione pubblica negli ultimi anni. Sulla paradossale flemma della giudice tarantina il ministro della Giustizia, non ha a caso, ha avviato accertamenti preliminari. Che Sabrina esca non è uno scandalo, è però quanto meno spiazzante che possa riassaporare la libertà almeno per qualche giorno perché un magistrato ha rinviato di proroga in proroga il deposito delle motivazioni. Si tratta del manifestarsi più rumoroso possibile di una patologia di sistema: i ritardi nella celebrazione dei processi spesso dovuti a questioni legate alla carriera dei magistrati. A questa disfunzione dovremmo aggiungerne una seconda, pure manifesta: si può dare per scontato che il ritorno "a piede libero" di Sabrina Misseri susciterà un'ondata di sdegno. Si alzerà forte l'urlo della curva giustizialista, di fronte a una "criminale che torna in libertà". Emergerà così per intero l'incrostazione di un sistema in cui la mediaticità della giustizia prevale sul diritto stesso. Le ansie securitarie dell'opinione pubblica sono di fatto il convitato di pietra del nostro processo penale, e nel caso specifico produrranno con ogni probabilità un moto di protesta contro quello che è un diritto di Sabrina Misseri: non restare in cella un minuto di più rispetto a quanto previsto dalla legge. È finita qui? E no. Perché ci sarebbe una terza seria disfunzione, che in realtà è la prima ed è all'origine di tutto. Sabrina Misseri è stata condannata sulla base di un processo senza prove, dunque in base ad indizi. Cosa che il nostro diritto penale prevede, ma a condizione che gli indizi siano gravi, precisi e concordanti. Altro che concordia: qui uno degli elementi principali del processo, la testimonianza del padre dell'imputata Michele Misseri, che pur in capo a un'incredibile sequenza di ritrattazioni (incredibile anche per la qualità delle diverse versioni fornite), pur sempre scagionerebbe la figlia. Cos'altro ci vuole per condensare in un solo archetipo i pastrocchi di cui è capace la giustizia italiana? Lentezze e disfunzioni di alcune parti della magistratura, processo mediatico e, alla base di tutto, condanne su basi indiziarie. Senza le quali, d'altronde, le altre patologie neppure potrebbero rivelarsi.

Processo Scazzi, depositata sentenza dopo tredici mesi. Sabrina verso scarcerazione? Scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 29 agosto 2016. In 1277 pagine (divise in 16 capitoli) è racchiusa la storia dell’omicidio di Sarah Scazzi, la ragazzina di 15 anni di Avetrana (Taranto) uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010. Tredici mesi dopo la lettura del dispositivo, la Corte d’assise d’appello di Lecce (sezione distaccata di Taranto) ha depositato le motivazioni della sentenza che ha confermato l’ergastolo per la 28enne Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, 61enne, cugina e zia della vittima, accusate di omicidio volontario e sequestro di persona. Entrambe sono in carcere e si sono sempre dichiarate innocenti. Si tratterebbe, secondo i giudici, di un omicidio d’impeto, maturato per gelosie e rancori famigliari. Il 15 ottobre prossimo scadrà per Sabrina Misseri il periodo massimo di sei anni di custodia cautelare preventiva indicato dal codice di procedura penale, ma «la scarcerazione - ha spiegato l’avv. Nicola Marseglia, che difende l’imputata insieme al collega Franco Coppi - non sarà automatica perché durante i processi di primo e secondo grado sono intervenute ordinanze di sospensione che prorogano i termini a fine 2017». «L'idea che siano comunque maturati prima della chiusura definitiva del procedimento i termini di 6 anni, come previsto dall’articolo 303 del codice di procedura penale - aggiunge - apre uno scenario controverso». Da un lato, ha fatto rilevare il penalista, «si tende a ritenere, in mancanza di una sentenza definitiva, il termine di sei anni assoluto e non suscettibile di proroghe. Dall’altro la stessa legge abilita il giudice a sospendere i termini di custodia per la complessità del dibattimento. Questo potrebbe aprire la strada a futuri contrasti sull'interpretazione della norma». Per l’avv. Nicodemo Gentile, uno dei legali della famiglia Scazzi, «in tutta la vicenda giudiziaria il ritardo del deposito delle motivazioni è l’unico punto che condividiamo con la difesa. Siamo avvocati di parte civile adesso ma siamo comunque uomini di legge. Questo ritardo non era più fisiologico ma patologico». Oltre a Sabrina e Cosima, la Corte d’assise d’appello - nella sentenza del 27 luglio 2015 - ha condannato per la soppressione del cadavere a 8 anni di reclusione Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, e a 5 anni e 11 mesi suo fratello Carmine. Zio Michele consentì il ritrovamento del corpo la notte del 6 ottobre 2010 e confessò l'omicidio ma poi ritrattò, chiamando dapprima in correità Sabrina per poi addossare tutte le responsabilità sulla figlia. Stando alla ricostruzione dei giudici, Sarah Scazzi il pomeriggio del 26 agosto di sei anni fa, si recò nella villetta dei Misseri, in via Deledda, ebbe una prima lite con Sabrina e Cosima, poi cercò di fuggire ma fu raggiunta in strada e riportata in casa, dove fu strangolata e uccisa dalle due donne. Tra i moventi indicati dall’accusa c'è la gelosia che Sabrina nutriva verso Sarah in quanto entrambe si erano invaghite dell’amico comune Ivano Russo. I giudici attribuiscono invece a Cosima Serrano (che fu arrestata il 26 maggio del 2011) un autonomo risentimento nei confronti della nipote. A redigere materialmente le motivazioni, che ricalcano i punti fermi del verdetto di primo grado, è stato il giudice a latere Susanna De Felice. Dopo un’analisi dello svolgimento del processo la Corte si sofferma sull'antefatto dell’omicidio, su quanto avvenne nelle settimane precedenti la scomparsa di Sarah, e successivamente si dedica alla ricostruzione dell’accaduto, riportando i passi salienti dei verbali di interrogatorio di testimoni e imputati, sull'ipotesi di dinamica, sui tentativi di depistaggio, sulle versioni di Michele Misseri, che è tornato ad accusarsi di tutto ma nessuno gli crede più. Il collegio difensivo ha ora 45 giorni di tempo per presentare ricorso in Cassazione. Nel processo d’appello i giudici hanno assolto, perchè il fatto non sussiste, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano (un anno di reclusione per favoreggiamento personale in primo grado), confermando la condanna ad un anno e quattro mesi per Giuseppe Nigro, imputato per lo stesso reato, e rideterminando in un anno e quattro mesi, la pena per Vito Russo, ex legale di Sabrina Misseri (due anni in primo grado per favoreggiamento personale).

Caso Scazzi, dopo 13 mesi arrivate le motivazioni delle sentenza di appello. Sono 1200 pagine. Era stata La Stampa a raccogliere la denuncia del legale di Sabrina Misseri: «Un ritardo inaudito, non degno di un Paese civile», scrive Maria Corbi il 29/08/2016 su "La Stampa”. Dopo più di 13 mesi sono state depositate le motivazioni della sentenza di appello per il delitto di Avetrana. Era stata La Stampa a raccogliere la denuncia del professor Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri, «sull’inaudito ritardo, aggravato da una detenzione cautelare che sta per arrivare a sei anni». «Una situazione non degna di un Paese civile», sottolineava Coppi. E il ministro della Giustizia Andrea Orlando ha subito chiesto una verifica della situazione. Cosa che ha accelerato, se così si può dire, il lavoro di scrittura del giudice. Sono 1277 pagine, più o meno la misura delle motivazioni di primo grado. «Tutte queste pagine per motivare due ergastoli fanno pensare. Per condannare due persone al fine pena mai bisogna averr certezze e le certezze necessitano di poche stringate pagine», dice Coppi. «Attendiamo di leggerle». Il collegio presieduto dal giudice Patrizia Sinisi (a latere Susanna De Felice e sei giudici popolari) il 24 luglio 2015 aveva confermato la condanna all’ergastolo per per Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina della ragazzina, che rispondono di omicidio volontario e sequestro di persona. A 8 anni di reclusione - per soppressione di cadavere - è stato condannato in appello Michele Misseri, marito di Cosima e padre di Sabrina, che consentì la notte del 6 ottobre di sei anni fa il ritrovamento del corpo confessando l’omicidio per poi ritrattare e accusare la figlia secondogenita Sabrina. Per lo stesso reato, sempre in appello, ha avuto una pena di 5 anni e 11 mesi di carcere (6 anni in primo grado) Carmine Misseri, fratello di Michele.  

Sarah, depositata la sentenza. Le condanne spiegate in 1277 pagine. Si tratta delle motivazioni del verdetto di secondo grado che ha confermato la condanna all’ergastolo per Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina della vittima, scrive il 29 agosto 2016 “Il Corriere della Sera”. La sezione distaccata di Taranto della Corte d’Assise d’appello di Lecce ha depositato le motivazioni della sentenza di secondo grado del processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e buttata in un pozzo il 26 agosto 2010. Il collegio presieduto dal giudice Patrizia Sinisi (a latere Susanna De Felice e sei giudici popolari) il 24 luglio 2015 aveva confermato la condanna all’ergastolo per Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina della ragazzina, che rispondono di omicidio volontario e sequestro di persona. Le motivazioni della sentenza, depositate 13 mesi dopo il verdetto, sono racchiuse in 1277 pagine. Le altre condanne. A 8 anni di reclusione - per soppressione di cadavere - è stato condannato in appello Michele Misseri, marito di Cosima e padre di Sabrina, che consentì la notte del 6 ottobre di sei anni fa il ritrovamento del corpo confessando l'omicidio per poi ritrattare e accusare la figlia secondogenita Sabrina. Per lo stesso reato, sempre in appello, ha avuto una pena di 5 anni e 11 mesi di carcere (6 anni in primo grado) Carmine Misseri, fratello di Michele. I giudici hanno assolto, perché il fatto non sussiste, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano, che il 20 aprile 2013 erano stati condannati ad un anno di reclusione per favoreggiamento personale, confermando invece la condanna ad un anno e quattro mesi per Giuseppe Nigro, imputato per lo stesso reato. La Corte ha infine rideterminato, riducendola un anno e quattro mesi, la pena per Vito Russo, ex legale di Sabrina Misseri (due anni in primo grado per favoreggiamento personale). L'ispettorato generale del ministero della Giustizia ha chiesto informazioni per il ritardo nel deposito delle motivazioni al presidente della corte d'Appello di Taranto. «Il 15 ottobre prossimo scadrà il termine di sei anni dall'arresto della mia assistita, ma non c'è alcun automatismo in merito alla scarcerazione. È tutto molto opinabile». Lo dice l’avvocato Nicola Marseglia, che insieme all'avv. Franco Coppi difende Sabrina Misseri, condannata in primo e secondo grado all'ergastolo - al pari di sua madre Cosima Serrano - per l'omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto del 2010. Il ritardo nel deposito delle motivazioni della sentenza di secondo grado - tredici mesi dopo il verdetto - del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi potrebbe comportare, secondo alcune interpretazioni, la scarcerazione per decorrenza del termine massimo di custodia cautelare preventiva di Sabrina Misseri, cugina della vittima, condannata all'ergastolo al pari di sua madre Cosima Serrano. Il termine, in assenza di sentenza definitiva, dovrebbe scadere il 15 ottobre prossimo, sei anni dopo l’arresto dell'imputata, che potrebbe attendere a piede libero l'ultimo atto del processo in Cassazione. Ma saranno i giudici d’appello a decidere in quanto c'è la possibilità che ai sei anni già trascorsi debba essere aggiunto il periodo di oltre un anno per via dell'interruzione dei termini di custodia cautelare disposta sia in occasione della sentenza di primo grado (anche in quel caso la sentenza fu depositata dopo 12 mesi) che nel processo d’appello. «Nel corso dei processi di primo e secondo grado - spiega l'avvocato Marseglia - sono intervenute delle ordinanze di sospensione dei termini di custodia cautelare preventiva fino al dicembre 2017. L'idea che siano comunque maturati prima della chiusura definitiva del procedimento i termini di 6 anni, come previsto dall'articolo 303 del codice di procedura penale, apre uno scenario controverso». Da un lato, fa rilevare il legale di Sabrina Misseri, «si tende a ritenere, in mancanza di una sentenza definitiva, il termine di sei anni assoluto e non suscettibile di proroghe. Dall’altro la stessa legge abilita il giudice a sospendere i termini di custodia per la complessità del dibattimento. Questo potrebbe aprire la strada a futuri contrasti sull'interpretazione della norma, ma è un discorso che affronteremo quando sarà il momento».

Taranto, omicidio Sarah Scazzi: depositate le motivazioni per l'ergastolo a zia e cugina. Quasi 1300 pagine in cui si ricostruisce il delitto della ragazza di 15 anni e si conferma il carcere per la zia Cosima Serrano e la cugina Sabrina. I sei anni di carcerazione preventiva stanno per scadere, scrive Vittorio Ricapito il 29 agosto 2016 “La Repubblica”. Sabrina Misseri, cugina di Sarah Scazzi A sei anni e tre giorni dall'omicidio di Sarah Scazzi, la Corte d'assise d'Appello ha depositato le motivazioni della sentenza con cui il 24 luglio del 2015 ha confermato la condanna all'ergastolo per Cosima Serrano e Sabrina Misseri, zia e cugina della vittima, accusate di sequestro di persona e omicidio volontario. Le motivazioni della sentenza di secondo grado, raccolte in 1277 pagine (16 paragrafi), vengono depositate subito dopo l'anniversario della morte della studentessa 15enne, il cui corpo fu gettato in un pozzo di campagna dove rimase nascosto per 42 giorni dopo il delitto. Sabrina Misseri, 28 anni, è in carcere dal 15 ottobre del 2010 (la madre è stata arrestata a maggio 2011). I sei anni di tempo massimo della carcerazione preventiva stanno per scadere e Sabrina prossimamente potrebbe lasciare il carcere, ma bisognerà capire se vanno scomputati alcuni periodi di interruzione dei processi di primo e secondo grado. "I sei anni dall'arresto della mia assistita stanno per scadere - dice l'avvocato Nicola Marseglia - ma non c'è alcun automatismo in merito alla scarcerazione". I difensori di Sabrina, professor Franco Coppi e avvocato Nicola Marseglia, dopo la sentenza di secondo grado hanno chiesto in più occasioni ai magistrati la scarcerazione della 28enne, proponendo gli arresti domiciliari in una comunità diocesana del centro Italia specializzata nell'accoglimento di persone disagiate. Per i magistrati, tuttavia, l'unica misura cautelare per Sabrina Misseri è in carcere perché la giovane è pericolosa e potrebbe avere "prevedibili impulsi aggressivi". A luglio 2015 la corte d'assise d'appello dopo una camera di consiglio durata circa 80 ore ha quasi interamente confermato la sentenza di primo grado del 20 aprile 2013: ergastolo per Cosima e Sabrina, 8 anni di reclusione per Michele Misseri, zio di Sarah, condannato per soppressione di cadavere per aver materialmente gettato nel pozzo il cadavere della nipote al fine di farlo sparire per sempre (stessa accusa e condanna a 5 anni e 11 mesi per Carmine Misseri, fratello di Michele). E' stato tuttavia lo stesso contadino a portare gli investigatori al pozzo dove aveva gettato il corpo, al termine di un interrogatorio durato 9 ore, la notte del 6 ottobre 2010. Misseri confessò di essere il responsabile del delitto e la notizia rimbalzò in diretta tv a "Chi l'ha visto" proprio mentre la madre di Sarah, Concetta Serrano, era ospite della trasmissione in collegamento dalla villa di sua sorella, in via Deledda 22, teatro dell'omicidio. Misseri ha cercato a più riprese di auto-accusarsi del delitto, modificando la sua versione, ma non è mai stato giudicato credibile dai diversi magistrati che si sono occupati del caso. Le motivazioni d'appello sono raccolte in un volume di 1277 diviso in 16 paragrafi di cui 11 sono dedicati alla ricostruzione dei fatti (in primo grado la sentenza era composta da oltre 1600 pagine). Il processo, caratterizzato da forti polemiche tra difesa e accusa, ha generato altri procedimenti giudiziari. Una costola del processo principale è in corso al tribunale di Taranto, è accusato di false informazioni al pm Giovanni Buccolieri, il fioraio che raccontò agli investigatori la scena del sequestro di Sarah, nell'assolato primo pomeriggio del 26 agosto ad Avetrana, salvo poi ritrattare dicendo di averla semplicemente sognata. Sotto processo anche un suo amico, Michele Galasso, con cui avrebbe concordato la versione del sogno. Il 28 settembre 2016 proseguirà l'udienza preliminare dell'inchiesta-bis sul delitto di Avetrana. Michele Misseri rischia un altro processo, stavolta per auto-calunnia, per essersi accusato del delitto mentre la procura di Taranto ha chiesto il rinvio a giudizio per altre 11 persone accusate di aver mentito o nascosto particolari durante le indagini ed il processo di primo grado. Fra i presunti bugiardi c'è anche Ivano Russo, l'amico di Sarah e di sua cugina Sabrina. I magistrati ritengono che la contesa di Ivano fra le due cugine sia uno degli elementi più forti alla base del delitto. Ivano Russo è accusato di false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza davanti alla corte d'assise. Per i pm in aula è stato reticente, ha mentito per coprire Sabrina, ha cercato di sminuire l'intreccio di rapporti sentimentali e sessuali con l'estetista, la gelosia ossessiva della ragazza nei suoi confronti, il crescente interesse sentimentale della cuginetta Sarah. C'è poi un altro procedimento giudiziario nei confronti di Michele Misseri, quello per calunnia e diffamazione nei confronti del suo primo difensore, l'avvocato Daniele Galoppa e della sua consulente, la criminologa Roberta Bruzzone. Davanti alla Corte d'Assise prima e alle telecamere poi, Misseri dichiarò di aver accusato la figlia Sabrina dell'omicidio di Sarah perché così gli avevano suggerito il legale e la consulente. Ora i difensori degli imputati hanno 45 giorni per studiare a fondo le 1277 pagine di motivazioni e presentare ricorso in Cassazione dove si celebrerà il terzo e ultimo round giudiziario. Intanto il ministro della Giustizia Andrea Orlando, sollecitato a fine luglio dal professor Coppi, legale di Sabrina, ha inviato i propri ispettori a Taranto per accertare eventuali responsabilità nel ritardo del deposito delle motivazioni, avvenuto un anno e un mese dopo la lettura della sentenza.

«Sarah fu rapita e uccisa» i giudici non hanno dubbi. Cosa c'è nella sentenza. Ritenuto fondamentale il ruolo del fioraio Giovanni Buccolieri. Scrive Mimmo Mazza il 31 agosto 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «L’omicidio di Sarah Scazzi è stato caratterizzato dal dolo d’impeto al culmine di un crescendo di azioni che ha portato al concitato atto finale dello strangolamento». La corte d’assise d’appello tra le pagine 701 e 702 delle motivazioni - depositate l’altro giorno, a 13 mesi dalla lettura in aula del dispositivo - della sentenza con la quale ha confermato la condanna all’ergastolo per Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, ricostruisce senza tentennamenti quanto sarebbe accaduto il 26 agosto del 2010 nella villetta di via Deledda ad Avetrana, giorno della scomparsa della 15enne fatta ritrovare da Michele Misseri nella notte tra il 6 e il 7 ottobre in un pozzo di contrada «Mosca». Una ricostruzione che spazza via i rilievi della difesa e valorizza, come d’altronde era già avvenuto in occasione della sentenza di primo grado, il ruolo di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che in prima battuta raccontò ai carabinieri di aver visto, attorno alle 14 di quel maledetto 26 agosto, Sarah rincorsa per strada da Cosima e Sabrina per essere successivamente costretta a salire sull’auto della famiglia Misseri, sostenendo poi di aver «soltanto» sognato tutta quella scena. Buccolieri attualmente è sotto processo a Taranto per false informazioni al pubblico ministero proprio per aver cambiato versione su quanto avrebbe visto, o secondo lui sognato. Il ruolo del fioraio di Avetrana è sempre stato ritenuto centrale dagli inquirenti guidati dal procuratore aggiunto Pietro Argentino e dal sostituto Mariano Buccoliero perché in una vicenda giudiziaria piena di indizi e priva, o quasi di testimoni o altre prove dirette, è evidente che se qualcuno ha davvero visto - come adesso sostengono ben due corti - Sarah cercare di fuggire dalla zia Cosima e dalla cugina Sabrina, essere inseguita per strada e poi costretta a salire sull’auto per tornare nella casa di via Deledda, dove ha trovato la morte, la ricostruzione diventa più credibile e processualmente sostenibile. Per i giudici guidati dal presidente Patrizia Sinisi risulta persino «superfluo il passaggio motivazionale della sentenza di primo grado, oggetto di appello della difesa di Sabrina Misseri, in base al quale il fatto che Buccolieri avrebbe realmente visto Sarah e Cosima intorno alle 14 del 26 agosto 2010 troverebbe riscontro nell’appuntamento che Vanessa Cerra (all’epoca dei fatti commessa del fioraio, ndr) e lo stesso Buccolieri, uniti da una relazione sentimentale, avrebbero avuto proprio nel primo pomeriggio di quel giorno nei pressi di casa Misseri, ove la Cerra abitava con il marito». Secondo la corte d’assise d’appello «appare evidente che qualsiasi tragitto il Buccolieri abbia percorso per recarsi a Leverano al mercato dei fiori, meta finale dichiarata in famiglia e certamente raggiunta nel pomeriggio» anche «senza deviazioni di natura sentimentale in via Deledda non poteva sfuggire l’azione delittuosa che al momento del suo passaggio si stava consumando. Ciò - è scritto nella sentenza - si ribadisce rappresenta un ulteriore tassello che concorre a validare, riscontrandola, la ricostruzione in termini di evento reale del fatto descritto da Giovanni Buccolieri, poiché colloca lo stesso fioraio sul luogo dell’avvistamento di Sarah Scazzi e Cosima Serrano in orario del tutto congruente con gli altri elementi indiziari esaminati. Le acquisizioni probatorie dibattimentali - sottolineano i giudici - hanno consentito di aggiungere ulteriori elementi indiziari connotati da specificità, gravità e concordanza la cui valutazione conduce al raggiungimento della prova piena dei fatti di reato ascritti alle imputate Serrano e Misseri perché costituiscono riscontro obiettivo alla veridicità della scena del sequestro vista e non sognata dal Buccolieri».

Omicidio Scazzi, le motivazioni: Sarah racconta nel diario la gelosia ossessiva di Sabrina. Una persona dalla ridotta maturità e dalla ridotta capacità critica che, insieme alla madre Cosima Serrano avrebbe compiuto l'omicidio di Sarah e spinto, sempre insieme alla madre, il padre Michele Misseri ad auto-accusarsi del delitto, succube delle donne della famiglia. E' questo il quadro che emerge dalle motivazioni redatte dai giudici d'Appello che condannano all'ergastolo di Sabrina Misseri e Cosima Serrano depositate lo scorso 29 agosto, scrive il 20 settembre 2016 Charlotte Matteini su "Fan Page". Ricostruzioni implausibili, quelle fornite da Sabrina Misseri ai giudici della Corte d'Assise d'Appello. Un atteggiamento agitato, incompatibile con una scomparsa di pochi minuti, tempistiche incompatibili con la realtà dei fatti, una personalità dalla ridotta maturità e capacità critica. Così i magistrati descrivono Sabrina Misseri, sostenendo che lei e la madre Cosima Serrano sarebbero le autrici del delitto di Sarah Scazzi e che, manipolando il padre Michele Misseri l'avrebbero spinto a prendersi l'incombenza di nascondere il cadavere della nipote e auto-accusarsi dell'omicidio. Nella mattinata del 29 agosto, dopo 13 mesi d'attesa, sono state depositate le motivazioni relative alla conferma della condanna all'ergastolo di Sabrina Misseri e Cosima Serrano per l'omicidio di Sarah Scazzi avvenuto il 26 agosto del 2010 ad Avetrana. Le motivazioni tanto attese sono state depositate in cancelleria dal giudice relatore Susanna De Felice, finita al centro di un'aspra polemica a causa dei continui rinvii richiesti per la stesura delle 1277 pagine che compongono la sentenza di condanna, rinvii che hanno portato al raggiungimento della decorrenza dei termini di custodia cautelare di Sabrina Misseri che, come disposto dall'articolo 303 del Codice di Procedura Penale, scadranno il 15 ottobre, ovvero a sei anni di distanza dall'arresto avvenuto nel 2010. Il dispositivo che confermava la condanna di Sabrina Misseri e Cosima Serrano all'ergastolo per l'omicidio della quindicenne Sarah Scazzi venne reso pubblico il 27 luglio del 2015, ma per oltre 13 mesi le parti in causa – ovvero i difensori delle imputate e quelli della parte civile – hanno atteso il deposito delle motivazioni. Senza questo documento, infatti, nessuna delle due parti aveva la possibilità di predisporre il ricorso in Cassazione per arrivare all'ultimo grado di giudizio, quello di merito, che sarebbe servito a sancire l'innocenza o la colpevolezza definitiva delle imputate. Dal 29 agosto 2016, quindi, decorrono i 45 giorni di tempo che gli avvocati delle parti in causa hanno a disposizione per redigere il ricorso e accedere quindi a un giudizio di merito degli Ermellini, che dovranno quindi analizzare il caso e vagliare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge e, di conseguenza, dello svolgersi del processo e delle sentenze emesse da Corte d'Assise e Corte d'Assise d'Appello. Un ricorso, quello in Cassazione, che sicuramente verrà presentato dagli avvocati delle imputate Cosima e Sabrina Misseri, che già in occasione della sentenza di primo grado sostennero che i giudici di Primo Grado, in mancanza di prove certe, avessero colmato le lacune dell'impianto accusatorio con "una serie di congetture gratuite, colmando la mancanza di prove con invenzioni". Nelle oltre 1200 pagine di motivazione viene quindi ricostruito tappa per tappa, in maniera certosina, lo svolgersi dei fatti che, secondo i giudici della Corte d'Assise d'Appello, avrebbero poi portato all'omicidio della ragazzina. Secondo la difesa di Cosima Serrano e Sabrina Misseri, però, i giudici avrebbero travisato numerosi elementi che, da indizi labili, si sarebbero trasformati in granitiche prove d'accusa.

Le motivazioni di primo grado. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, con la quale Sabrina Misseri e la madre Cosima Serrano sono state condannate all'ergastolo e che i giudici della Corte d'Assise d'Appello sostanzialmente tendono a confermare anche in secondo grado, Sabrina viene descritta come una ragazza con un “profilo caratteriale connotato da accenti di irruenza e aggressività”. Sabrina, secondo i giudici, sarebbe l'autrice materiale del delitto, aiutata dalla madre Cosima. Anche per quanto riguarda l'alibi, secondo il collegio d'Appello, Sabrina avrebbe cercato di costruirsi un alibi e avrebbe utilizzato il cellulare di Sarah per mandarsi dei messaggi, come per testimoniare il fatto che le due non fossero insieme in quei momenti e che nulla potesse sapere Sabrina di ciò che era appena accaduto. Secondo l'Accusa, però, quando i messaggi e gli squilli sarebbero partiti dal cellulare di Sarah, la ragazza sarebbe stata già quasi priva di conoscenza. Sempre nella sentenza di primo grado, si ritrova anche la posizione di Michele Misseri, che dapprima confessa l'omicidio della nipote, poi fa ritrovare il corpo di Sarah e il 15 ottobre del 2010, durante un interrogatorio, accusa la figlia Sabrina, che viene subito arrestata. Secondo la Corte, nonostante le numerose ritrattazioni, "non sussiste alcun ragionevole motivo per il quale Michele Misseri avrebbe dovuto accusare ingiustamente, provocandone la sua carcerazione, proprio la figlia prediletta Sabrina e non altri soggetti".

Le motivazioni della Corte d'Assise d'Appello: il movente. Come già anticipato, le motivazioni redatte dalla giudice relatore Susanna De Felice ricalcano pressoché totalmente il quadro accusatorio e la ricostruzione dei fatti dei giudici di primo grado. Secondo la Corte d'Assise d'Appello. Secondo i magistrati, Michele Misseri si sarebbe auto-accusato perché fortemente succube delle donne della famiglia e "subiva fortemente il condizionamento delle proprie congiunte" che gli avrebbero detto che cosa dire "suggerendogli delle verità che egli doveva sostenere per accreditarsi come unico autore dell'omicidio, ma che non conosceva, essendo rimasto estraneo alla vicenda omicidiaria". Il movente dell'omicidio di Sarah Scazzi ruota tutto attorno all'infatuazione di Sabrina Misseri nei confronti di Ivano Russo, il ragazzo da cui anche la cugina quindicenne sembrava essere attratta. Secondo la ricostruzione dei fatti esposta nelle motivazioni, sebbene Sabrina Misseri abbia più volte negato l'innamoramento e sostenuto si trattasse di una banale infatuazione sessuale e non di amore vero e proprio, i giudici sottolineano come diversi testimoni abbiano invece a più riprese parlato dei sentimenti che Sabrina nutriva per Ivano e che la ragazza avesse inoltre un'ossessione per lui e che, dunque, il ridimensionamento della questione sarebbe finalizzato alla costruzione di un alibi. L'ossessione, stando alla ricostruzione dei giudici, "diventava più intensa man mano che Russo cercava di sottrarsi ad una relazione stabile con lei". Durante una serata a cui Sabrina non aveva partecipato, a cui invece era presente Russo con altre due persone, Sarah riceve un messaggio in cui la Misseri le chiede chi sarebbe stato accompagnato a casa per ultimo da Ivano. Leggendolo ad alta voce, i presenti furono tutti concordi nel sostenere che Sabrina nutrisse sentimenti di gelosia nei confronti della cugina, ipotesi corroborata dal fatto che al messaggio seguì un lungo scambio di sms con un'amica presente alla serata, a cui Sabrina chiese di raccontarle tutti i dettagli dell'uscita. Questa ossessione sembrava aver incrinato i rapporti tra le due ragazze, tanto che il 10 luglio Sarah scrisse nel suo diario: "Sabrina sta facendo la stronza con me e non mi fa più uscire. La odio". I giudici, quindi, sostengono che Sabrina nutrisse un interesse morboso nei confronti di Ivano e proprio questa ossessione avrebbe alterato la percezione della realtà e portato la ragazza a considerare la cugina Sarah come un grosso pericolo, pericolo aggravato dal fatto che la quindicenne nutrisse anch'essa un interesse per Russo e da lui spesso cercasse coccole e attenzioni. Dopo una lite avvenuta tra Sabrina e Ivano, che pose fine alla loro storia e in cui inconsapevolmente Sarah aveva avuto un ruolo, la quindicenne – secondo l'imputata – non avrebbe preso le difese della cugina, ma anzi l'avrebbe anche "pubblicamente denigrata" la sera del 21 agosto 2010. Subito dopo Sarah partì per San Pancrazio, per stare qualche giorno con un'altra cugina, e lì i rapporti tra lei e Sabrina si interruppero fino al 25 agosto. Sabrina non rispose ai messaggi e agli squilli di Sarah e sostenne di non averlo fatto perché offesa dalla partenza della quindicenne, che aveva preferito un'altra cugina a lei. Quella sera, però, le ragazze uscirono insieme, ma la mattina dopo Sarah, quella del 26 agosto, nel suo diario scrisse: "Ieri sera sono uscita un po' con Sabrina e la sua amica Mariangela, siamo andate in birreria per una Redbull veloce, poi siamo tornate a casa e Sabrina come al solito si è arrabbiata perché dice che quando c'è Ivano io sto sempre con lui. E ti credo, almeno lui mi coccola a differenza sua, potessi avere un fidanzato così!". Questo screzio, unito all'accecante gelosia nutrita nei confronti della quindicenne a causa di Ivano, contribuì a creare le condizioni della lite che, secondo i giudici, portò alla morte di Sarah, uccisa per mano di Sabrina il 26 agosto 2010. Secondo i giudici di secondo grado, una circostanza costituirebbe "indizio grave e preciso che, ancorché riguardante un momento successivo all'omicidio di Sarah Scazzi" e confermerebbe la responsabilità di Sabrina e Cosima in relazione ai reati a loro ascritti: il 27 agosto 2010, il giorno dopo la scomparsa di Sarah, "Cosima Serrano e Sabrina Misseri si recarono sui luoghi interessati all'attività di soppressione (del cadavere)" per "verificare se Michele Misseri, come da loro disposto, avesse ben adempiuto al compito di "far sparire il cadavere", una circostanza più volte negata dalla difesa delle imputate, ma che secondo i giudici sarebbe provata dai contatti telefonici rilevati dall'analisi dei tabulati, che avrebbe consentito la rilevazione delle celle agganciate e la conseguente localizzazione delle donne. Tutti gli imputati avrebbero giustificato la loro presenza nelle vicinanze del luogo in cui venne ritrovata Sarah sostenendo che dovessero controllare "la gradazione dell'uva" dei vigneti di proprietà della sorella Valentina Misseri, giustificazione che i giudici ritengono "francamente inverosimile". Sabrina Misseri, inoltre, come già riportato dai giudici nelle motivazioni di primo grado, avrebbe cercato di costruirsi un finto alibi mandandosi sms e squilli dal cellulare di Sarah Scazzi, in modo tale a poter avere degli elementi da portare a sua difesa nel caso gli inquirenti l'avessero interrogata. Messaggi e chiamate che però, secondo i giudici, sarebbero stati inviati quando la quindicenne era già stata caricata, esanime, nella Marbella di proprietà della famiglia Misseri. Gli inquirenti ritengono che alle 14.42, l'ora in cui Sabrina chiamò Sarah sul cellulare, la ragazza fosse già priva di vita e questo costituirebbe uno dei punti di falsità rilevati dalla Corte nell'alibi dell'omicidio fornito dalla Misseri. La diretta responsabilità delle autrici dell'omicidio Cosima Serrano e Sabrina Misseri è riconosciuta da numerosi elementi probatori, scrivono il relatore della sentenza. In un "soliloquio intercettato all'interno della sua autovettura il 5 ottobre 2010" Michele Misseri avrebbe fatto indiretto riferimento alla richiesta di aiuto ricevuta dalle congiunte, "evidentemente attanagliato dai sensi di colpa per aver accettato il terribile incarico". L'otto novembre del 2010, durante un colloquio con la nipote Maria Greco, Misseri avrebbe appellato se stesso e le congiunte utilizzando il termine "furbacchioni", in relazione al fatto che il piano criminale messo a punto dalla famiglia Misseri fosse stato scoperto dagli inquirenti. Tra le altre numerose prove utilizzate dai magistrati per valutare la diretta responsabilità delle due imputate ci sarebbero alcuni colloqui registrati e trascritti di Cosima Serrano e Sabrina Misseri, le quali in certi momenti della loro detenzione si lasciano andare e pronunciano frasi di scoramento. Secondo la difesa, però, le interpretazioni fornite dai giudici – in particolare di uno sfogo della Serrano – sarebbero un "ennesimo travisamento della prova" e che i giudici avrebbero trasformato il "lamento di una povera donna che si è vista il mondo crollare addosso dopo una vita di lavoro", decontestualizzando "un'affermazione per estrapolarne un riferimento insulso e privo di qualsivoglia forza dimostrativa". "L'esiguità dei tentativi di chiamata che la Misseri effettuò sul telefono della cugina quello stesso 26 agosto (soltanto sette dalle ore 14:44:53 alle ore 17:11:25) e nei giorni successivi (altri 5 il 29 agosto, e due il 30 agosto e il 6 settembre) certamente denota un progressivo disinteresse verso le sorti della cugina, compatibile con la consapevolezza della sua morte". Secondo i giudici, infatti, se davvero Sabrina avesse amato Sarah come una sorella, come più volte sostenuto e ribadito, avrebbe agito in maniera differente nei momenti seguenti alla scomparsa della quindicenne. Sabrina Misseri, sin dai primi momenti dell'omicidio, avrebbe intrapreso un'opera di depistaggio tesa ad accreditare l'ipotesi che Sarah fosse stata rapita lungo in percorso che conduceva a casa sua nascondendo a Concetta Serrano, madre di Sarah e sorella di Cosima, la circostanza che i suoi genitori fossero in casa nei momenti successivi alla scomparsa. Avrebbe inoltre cercato di "accreditare la tesi del rapimento per strada anche nelle ore successive, sia con l'entourage familiare, sia con gli amici, con i vicini e durante le interviste" concesse nei giorni precedenti l'arresto avvenuto il 15 ottobre 2010, spinto la polizia a indagare su altri soggetti di "dubbia reputazione, come lo zio Giacomo Scazzi, e cercato di nascondere la propria ossessione per Ivano Russo per non lasciar trapelare le recenti tensioni con la cugina Sarah a causa del ragazzo, tensione che una delle testimoni definì "palpabile". Elemento fondamentale sarebbe anche la confessione stragiudiziale di Sabrina. Quando Michele Misseri venne interrogato e fece ritrovare il corpo di Sarah Scazzi e si auto-accusò dell'omicidio, Sabrina apprese la notizia durante una puntata di Chi l'ha visto che stava andando in onda in quei momenti e si sfogò con l'amica Anna Pisanò, superteste del processo: "L'hanno incastrato, papà ha confessato", dice Sabrina, sostenendo che chiunque "anche io, dopo sette ore sotto torchio messa, avrei detto che ho ucciso Sarah e dove l'ho messa, ma non l'ho fatto". Alle richieste di spiegazione dell'amica, Sabrina replica "Dopo tante ore ti viene da dire la verità e finirla là. Però io non l'ho fatto. Papà sì, io non sono stupida". Sabrina smentì la versione mai trascritta né mai registrata fornita alla Pisanò e ritenuta in passato inattendibile e inutilizzabile dai giudici della Suprema Corte di Cassazione e dichiarò agli inquirenti di essersi chiesta come avesse fatto il padre a starsene zitto per 42 giorni e che lei non ce l'avrebbe fatta a comportarsi come lui". Nonostante la difesa di Sabrina Misseri e Cosima Serrano avesse lamentato "una inusitata severità nei confronti di una giovane ragazza incensurata, autrice secondo la sentenza di un reato con dolo d'impeto rispetto alla quale è ragionevole e escludere ogni ipotesi di recidiva", ma che la Corte invece reputa una "persona di ridotta maturità e capacità critica", esattamente come per la madre Cosima Serrano, di fatto anch'essa priva di precedenti penali, "stante l'eccezionalità e l'irripetibilità dell'accaduto" chiesto l'applicazione di uno sconto di pena reputata eccessiva e sproporzionata, la Corte d'Assise d'Appello di Taranto ha confermato l'ergastolo a entrambe le imputate, in attesa del giudizio di merito che verrà emesso prossimamente dalla Corte di Cassazione.

Caso Sarah Scazzi, intervista esclusiva al legale della famiglia: il ruolo di Michele Misseri nel delitto, scrive mercoledì 31/08/2016 Michela Becciu. UrbanPost ha intervistato l’avvocato Nicodemo Gentile, legale della famiglia di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa il 26 agosto 2010 ad Avetrana. Abbiamo chiesto al legale un commento sul recente deposito – giunto con mesi di ritardo – delle motivazioni della sentenza d’Appello che ha confermato in secondo grado la condanna all’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, giudicate responsabili del delitto. Ecco come ha risposto alle nostre domande, e qual è la sua personale interpretazione delle controverse figure di Ivano Russo e Michele Misseri, attualmente sotto processo nell’inchiesta Scazzi bis con l’accusa, rispettivamente, di false attestazioni al pm e autocalunnia.

Avvocato Gentile, perché le motivazioni della sentenza d’Appello sono giunte così clamorosamente in ritardo? Lei che idea si è fatto in merito? 

“Il ritardo delle motivazioni è l’unico aspetto che ci permettiamo di condividere in questa vicenda giudiziaria con la critica fatta dalla difesa di Sabrina Misseri, perché il lavoro fatto dalla Corte in Appello era un lavoro che evidentemente poteva portare a un deposito anticipato delle stesse, sicuramente. A mio avviso il ritardo nasce con ogni probabilità dal carico di lavoro e dai vari impegni paralleli che soprattutto il giudice estensore ha avuto in questo periodo, fermo restando però che comunque il caso di Avetrana è un caso unico nel panorama giudiziario italiano, tant’è che anche in primo grado ci fu una motivazione che è arrivata dopo undici mesi e che consta di 1600 pagine …”.

Un’attesa estenuante per la famiglia della piccola Sara, un ritardo attorno al quale stava montando la polemica.

“Sì, un ritardo che un po’ è legato alla complessità della vicenda giudiziaria, alla pluralità delle imputazioni da valutare, anche se in Appello ovviamente il lavoro dei giudici è stato molto più semplificato perché non c’è stata un’attività istruttoria autonoma, se si esclude una perizia sullo spostamento dei telefonini di Cosima; è quindi un concorso di fattori, in parte fisiologico … ecco perché condividiamo la critica forte fatta dalla difesa di Sabrina: questo deposito così protratto nel tempo da fisiologico è diventato tecnicamente ‘patologico’ …”.

Adesso esiste concretamente il rischio che Sabrina venga scarcerata? Se n’è parlato spesso ultimamente.

“Assolutamente no, perché i termini di durata massima della custodia in carcere che l’articolo 203, in base alla tipologia del reato (quindi reato punito con l’ergastolo), calcola in 6 anni – che andrebbero quindi a scadere a metà di questo ottobre – in realtà già da tempo, a partire dal giudizio di primo grado, erano stati sospesi, e quindi era possibile prorogarli, e la misura in carcere della Misseri sicuramente non perderà efficacia prima del 27 settembre 2017, salvo ulteriori proroghe. Quindi io credo che per tutto il 2017 possiamo stare tranquilli, ecco”.

Immagino che la famiglia Scazzi abbia temuto questa eventualità.

“Sì, anche perché oggettivamente per la famiglia Scazzi vedere in libertà una persona condannata da due giudici collegiali all’ergastolo, non per motivi che riguardano il merito (quindi gravi indizi o esigenze cautelari) ma per una questione di negligenza o semplicemente procedurale, avrebbe oggettivamente significato un fallimento del sistema. Tenga infatti presente – e questo vorrei sottolinearlo – che ad oggi tutte le varie richieste fatte dalla difesa di Sabrina di attenuazione della misura o di revoca addirittura, sono state sistematicamente rigettate, quindi evidentemente permangono chiari indizi e le esigenze cautelari”.

Il ruolo di Michele Misseri in questa vicenda omicidiaria. Il fatto che anche nelle motivazioni della sentenza di secondo grado un capitolo sia stato interamente dedicato alla sua condotta, alle sue contraddizioni, al balletto di versioni contrastanti sul delitto. Lei cosa pensa? Il Misseri ha avuto un ruolo attivo nell’omicidio o no?

“Assolutamente no. Noi in primo e secondo grado lo abbiamo definito ‘Il becchino di Avetrana’, becchino era e becchino è rimasto, quindi … Si è occupato solo della fase dell’occultamento del cadavere, e lo dicono le carte del processo, lo dicono tutte le sue dichiarazioni, il comportamento avuto fin dal primo giorno, la sua storia. L’ipotesi alternativa di Michele Misseri solitario assassino di Sarah non trova assolutamente riscontro dalle carte processuali. Noi siamo sempre più convinti anche perché Michele Misseri sarebbe l’unico assassino al mondo che non sa come ha ucciso la sua vittima; è sempre stato oscillante mentre quando lui in tutte le occasioni in cui ha avuto modo di parlare, sia davanti alle televisioni, dove ha dato il meglio di sé, sia in sede processuale, dove invece in alcuni momenti non ha voluto parlare, quando riferisce della fase che attiene al momento del trasporto di Sarah e all’occultamento nella cisterna, è preciso, la sua descrizione è piena di particolari e non si capisce invece perché non si ricordi la prima fase (quella del delitto ndr). La sua versione serve solo per aiutare la famiglia”.

Ivano Russo: sotto processo per false dichiarazioni ai magistrati. Secondo lei sa più di quello che ha detto? Ha visto le due ragazze litigare prima dell’omicidio? O è totalmente estraneo alla vicenda?

“Io questo non sono in grado di dirlo, se lui nasconde qualcosa, posso però dire che Ivano Russo insieme a tante altre persone del paese, compresi alcuni familiari di Sarah, mi riferisco alla zia e allo zio, fanno parte di un materiale umano estremamente scadente, che sulla bocca avevano pietà per lei, però – per ragioni diverse, anche di natura diciamo egoistica, e quindi lontano dal fatto del coinvolgimento nell’omicidio – sono stati molto, molto reticenti, anche alcuni amici di Ivano. Mentre formalmente si spacciavano per amici di Sarah, persone che dicevano di volerle tanto bene, poi di fatto hanno tradito la fiducia di questa ragazzina”.

Il processo, tra le altre questioni da dirimere, dovrà anche appurare se Ivano Russo prima che si consumasse il delitto sia stato in casa di Sabrina Misseri ed abbia visto le due cugine litigare?

“Sì sì, perché ci sono troppe cose che non tornano. Fin dall’inizio Ivano ha cercato, unitamente a Sabrina, di sminuire quel tipo di contatto con lei, che quantità e qualità di messaggi hanno invece confermato”.

Scazzi, i legali di Sabrina: «Una sentenza fotocopia». I legali: la decisione è una apoteosi della sentenza di primo grado confermando quella della Corte d'assise, scrive La Gazzetta del Mezzogiorno” il 30 agosto 2016. La verità processuale in 1277 pagine che ricostruiscono come in una matrioska i passi salienti dell’inchiesta e l’esito dei due dibattimenti. Ci sono voluti tredici mesi per il deposito - avvenuto ieri - delle motivazioni della sentenza d’appello per l’omicidio di Sarah Scazzi (la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto 2010) e non sono mancate le polemiche per un ritardo che ha indotto il ministero della Giustizia a disporre persino una ispezione. «Da una prima lettura - ha commentato l’avvocato Nicola Marseglia, che difende Sabrina Misseri insieme al collega Franco Coppi - queste motivazioni mi sembrano una apoteosi del verdetto di primo grado con la sostanziale conferma a tutto tondo dell’impianto di quella sentenza, in cui si riaffermano le argomentazioni giuridiche e fattuali e ci si dilunga sulla cronaca processuale». I capitoli sono 16 e partono dallo svolgimento dei due procedimenti di primo e secondo grado. Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia della vittima, sono state condannate all’ergastolo, gli zii Michele e Carmine Misseri hanno rimediato rispettivamente 8 anni e 5 anni e 11 mesi di reclusione per soppressione di cadavere. Da pagina 82 il giudice estensore del provvedimento Susanna De Felice (la Corte era presieduta dal giudice Patrizia Sinisi) inizia a soffermarsi sui motivi della decisione dedicando la sua attenzione nel capitolo 1 al «clima del processo» ("Deve escludersi - si sottolinea - ogni preventivo e preconcetto sospetto sull'imparzialità dei magistrati dell’ufficio della Procura e dei giudici che si sono occupati del presente processo adottando decisioni contrarie alle difese degli imputati"), quindi al «principio del ragionevole dubbio» (capitolo 2) e alla cronologia delle indagini (capitolo 3). In sequenza: la denuncia della scomparsa della 15enne di Avetrana, il ritrovamento del suo cellulare, il ritrovamento del cadavere, gli interrogatori di Michele Misseri del 7, dell’8 e del 15 ottobre 2010, il fermo di Sabrina Misseri, l’interrogatorio del 5 novembre di zio Michele, i «soliloqui» di Carmine Misseri, i dialoghi in carcere, l’incidente probatorio del 19 novembre, le indagini successive, l’applicazione della misura cautelare nei confronti di Cosima Serrano. Il quarto capitolo delle motivazioni si riferisce alle misure cautelari e alle sentenze della Corte di Cassazione. Poi si passa alla ricostruzione dell’accaduto: l'antefatto (capitolo 5) e l’approfondimento sulla scomparsa (capitolo 6), compreso il «fallimento - spiega la Corte d’Assise d’appello - dell’alibi di Sabrina Misseri e Cosima Serrano». Il capitolo 7 è relativo all’imputazione del sequestro di persona e il capitolo 8 è dedicato alla fase esecutiva del delitto, quindi l'azione omicidiaria, l’arma utilizzata, lo spostamento del cadavere in garage, le risultanze delle celle telefoniche, i moventi. Tra quelli indicati dall’accusa c'è la gelosia che Sabrina nutriva verso Sarah in quanto entrambe si erano invaghite dell’amico comune Ivano Russo. I giudici attribuiscono invece a Cosima Serrano un autonomo risentimento nei confronti della nipote. Secondo la ricostruzione dei giudici, Sarah Scazzi il pomeriggio del 26 agosto di sei anni fa, si recò nella villetta dei Misseri, in via Deledda, ebbe una prima lite con Sabrina e Cosima, poi cercò di fuggire ma fu raggiunta in strada e riportata in casa, dove fu strangolata e uccisa dalle due donne. Quindi il corpo fu portato nel garage e poi trasportato in auto nel pozzo-cisterna di contrada Mosca. Il capitolo 9 tratta le fasi successive all’omicidio, mentre il capitolo 10 parla del "cedimento emotivo» di zio Michele (che farà ritrovare il telefono della nipote) e della svolta nelle indagini, il capitolo 11 della soppressione del cadavere, il capitolo 12 delle condotte «post delictum» di Sabrina Misseri e Cosima Serrano dopo il 26 agosto 2010, il capitolo 13 delle varie versioni di Michele Misseri, il capitolo 14 della calunnia contestata a Sabrina Misseri, il capitolo 15 dell’imputazione contestata a Vito Russo, ex legale di Sabrina, e il capitolo 16 del trattamento sanzionatorio e delle statuizioni civili. I punti fermi ancora una volta vedono «Sabrina Misseri e Cosima Serrano insieme a Sarah pochi minuti prima della sua morte (in occasione del sequestro) ed evidenziano i comportamenti susseguenti alla sua fine in termini che - secondo i giudici - non consentono spiegazioni alternative rispetto a quelle della partecipazione al grave fatto delittuoso».

Sarah Scazzi e quel movente che non convince, articolo di Mauro Valentini su “Cronaca e Dossier” del 18 settembre 2016. La Corte di Cassazione potrebbe annullare le condanne inflitte a Sabrina Misseri e Cosima Serrano per la morte di Sarah Scazzi? C’erano voluti undici mesi per il deposito della sentenza di Primo grado, ce ne sono voluti ben quattordici per depositare quelle d’Appello. Sarah Scazzi, hanno ribadito i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Taranto, è stata uccisa da Sabrina Misseri in concorso con Cosima Serrano, sua madre, mentre il padre della ragazza, Michele, ha occultato il cadavere cercando di impedire la scoperta dell’omicidio. Certo non si può dire che scrivere queste mille e trecento pagine sia stato agevole, i tempi sono stati così lunghi da imbarazzare il Ministero di Grazia e Giustizia che per espresso volere del ministro Andrea Orlando aveva il 29 luglio disposto un’ispezione ministeriale per accertare e soprattutto comprendere i motivi di tanto ritardo. «In cinquant’anni di carriera forense non mi era mai capitato di assistere a cotanto. È stato danneggiato il diritto alla difesa delle imputate!» aveva tuonato dall’alto della sua esperienza l’avvocato Franco Coppi e non certo a torto. Ora, parte il conteggio dei giorni disponibili alla difesa per ricorrere in Cassazione e questi sì, saranno giorni che non potranno essere prorogati. Eppure motivi per sperare in un colpo di scena nell’ultimo grado di giudizio, scorrendo quello che scrivono i giudici, affiorano; e l’attesa seppur così lunga e snervante nel pool difensivo delle due imputate principali potrebbe esser non stata vana. Quello che rimane chiaro è per i giudici l’azione, come per quelli di Primo grado, “zio Michele” avrebbe nascosto il corpo della nipote in un luogo sicuro, un luogo che conosceva soltanto lui e che lui ha mostrato agli inquirenti. Michele si autoaccusa dell’omicidio, ma non lo hanno creduto neanche in Secondo grado, incasellando un paradosso processuale clamoroso dove non si crede a chi si processa colpevole e non si crede a chi si professa innocente. Un delitto in famiglia quindi, stridente nella dinamica che non ha ancora certezze. Non è chiaro infatti in che modo e con che cosa la piccola Sarah Scazzi sia stata uccisa, a questo si aggiunge anche la difficoltà evidente dei giurati nello spiegare i movimenti delle due accusate e della vittima. Nella ricostruzione che si legge nelle motivazioni appena stampate, si materializza per la prima volta un movente occulto, un segreto inconfessabile che Sarah Scazzi avrebbe minacciato di rivelare alla mamma e che avrebbe costretto Cosima e Sabrina ad inseguirla per il paese, sequestrarla con modalità che si descrivono nei termini uguali al “sogno” del fioraio, per poi riportarla a casa e ucciderla. Qual è questo segreto che spinge le due donne ad ucciderla? Possibile che ci sia un segreto così grande da far decidere per l’omicidio? Un movente che a questo punto scavalca anche la motivazione del processo di Primo grado, che indicava la gelosia verso l’ondivago Ivano come scintilla fatale? Ecco quale può essere l’elemento che potrebbe convincere la Corte di Cassazione a pronunciarsi per un ulteriore processo d’Appello, invalidando il percorso processuale fin qui svolto: la vaghezza del movente. La Suprema Corte considererà priva di mancanze, contraddizioni e insufficienze una ricostruzione come questa descritta, con Sarah Scazzi che passa la mattina dalla cugina, come sempre in quell’estate, poi torna a casa, mangia qualcosa e riesce; arriva dalla cugina con il costume e in una frazione di secondo fa scattare la lite e il ricatto, svegliando la zia che dormiva ma che è prontissima, lei che – come scrivono con dubbia eleganza i giudici – «è appesantita dalla fatica e dai chili» a prendere la macchina, rincorrere la nipote e con l’ausilio della figlia riacciuffare Sarah Scazzi e poi riportarla in casa e ucciderla, salvo poi chiamare Michele (che non si è accorto di nulla!) e chiedergli, anzi ordinargli l’occultamento del cadavere? Un dubbio ci assale: ma se Sarah Scazzi doveva svelare quel segreto alla mamma, cosa è uscita a fare quel pomeriggio quando la mamma era lì con lei in casa? Cosa l’ha spinta a tornare dalla cugina dove era fino a due ore prima per annunciarle la decisione di raccontare tutto (ma cosa?) alla mamma? Qualcosa, troppo forse in questa ricostruzione non quadra. Basterà alla Corte di Cassazione per ridare una speranza a Sabrina e Cosima? Mauro Valentini.

MELITO PORTO SALVO – AVETRANA. IL FILO CONTINUO DEL LINCIAGGIO DI UNA COMUNITA’.

“Giornalisti, mafiosi ed omertosi siete voi!”. Quando il rigurgito del brodo primordiale dell’ignoranza produce conati di vomito di razzismo. Un fatto di cronaca diventa lo stimolo per condannare una comunità. Il commento del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che ha scritto “Reggio e La Calabria, quello che non si osa dire” e “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese”. Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Il giornalista per essere tale deve essere abilitato: ossia deve essere conforme ed omologato ad una stessa linea di pensiero. E’ successo ad Avetrana dove i pennivendoli a frotte si son presentati per dare giudizi sommari e gratuiti, anziché raccontare i fatti con continenza, pertinenza (attinenza) e verità. Hanno estirpato dichiarazioni a gente spesso non del posto e comunque con una bassa scolarizzazione, o infastidita dalla loro presenza, cestinando le testimonianze scomode per il loro intento. Certo è che a Brembate di Sopra, per il caso di Yara Gambirasio, hanno trovato impedimento alle loro scorribande per la meritoria presa di posizione del sindaco del luogo. E’ successo a Melito Porto Salvo dove il fatto di cronaca è divenuto secondario rispetto all’intento denigratorio dei pseudo giornalisti, sobillato dai soliti istinti razzisti di genere o di corporazione o di interesse politico. E certo, che come a Mesagne per la vicenda di Melissa Bassi, dove la mafia era estranea, non poteva mancare l’intervento di “Libera” per dare una parvenza di omertà e ‘ndranghetismo sulla vicenda. Non c’è migliore visibilità se non quella di tacciare di mafiosità una intera comunità. Nel render conto della vicenda nei miei libri sociologici ho avuto enorme difficoltà, fino all’impossibilità, a trovare un pezzo che riportasse la testimonianza di tutte quelle persone per bene di Melito, assunte tutto ad un tratto, dalle penne malefiche e conformi, a carnefici di una ragazzina. Il tarlo che pervade i pennivendoli è sempre quello: MAFIA ED OMERTA’. Eppure il sindaco di Melito ha espresso totale solidarietà alla 13enne abusata e ciononostante non poteva non difendere il suo paese e la sua comunità, cosa che a Mesagne ed ad Avetrana non è successo. “Nel paese c’è una parte di omertà e una parte di ‘ndrangheta ma il paese non è tutto ‘ndrangheta e non è tutto omertà, nel paese c’è una parte sana che è la stragrande maggioranza”. Così il sindaco di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, commenta le polemiche che si sono scatenate intorno alla vicenda della ragazza vittima di violenza sessuale di gruppo. Libera, nei giorni scorsi, ha organizzato per la ragazza una fiaccolata a cui però hanno partecipato poche persone. “Alla fiaccolata, è vero, ha partecipato solo il 10% della popolazione, io avrei gradito una presa di posizione forte ma non posso condannare chi non se l’è sentita di venire, devo rispettare la volontà di ognuno”, ha detto il sindaco. Quello che è successo, ha sottolineato il primo cittadino, “è la cosa peggiore accaduta nella storia melitese in assoluto, da parte mia c’è una ferma e piena condanna e totale solidarietà alla ragazzina. La cosa principale adesso è salvaguardare il suo interesse con ogni forza e ogni mezzo. Come sindaco e come genitore mi sento corresponsabile per quello che è accaduto e in questa vicenda ci sono responsabilità di tutti, la scuola, la chiesa, la società civile – ha aggiunto – Tutti ci dobbiamo interrogare”. “Adesso quello che posso fare è spendermi per vedere cosa si può fare per la ragazza – ha detto il sindaco – ho già fatto la delibera di indirizzo per la costituzione di parte civile quando si farà il processo. Ci siamo impegnati per sostenere le spese legali. L’indirizzo è quello di aiutare la famiglia. I ragazzi che hanno causato questa situazione vanno condannati a prescindere, quello che è stato fatto è inimmaginabile ma auguro loro un futuro migliore e apro loro la porta del perdono”. Questa presa di posizione ai pennivendoli è di intralcio. Su “Stretto web” del 13 settembre 2016 si legge. “Il Comitato di redazione della Tgr Calabria, in una nota a firma dei suoi componenti, Livia Blasi, Gabriella d’Atri e Maria Vittoria Morano, “respinge con forza – è detto in un comunicato – gli ingiustificati e reiterati attacchi da parte del primo cittadino di Melito Porto Salvo, Giuseppe Salvatore Meduri, al servizio pubblico, colpevole, a suo dire, di sciacallaggio mediatico. Il riferimento è al modo in cui il nostro giornale avrebbe trattato la vicenda di abusi e violenze di gruppo ai danni di una ragazzina”. “In particolare, in occasione della marcia silenziosa organizzata da Libera – aggiunge il Cdr – dal palco, il sindaco ha fortemente criticato i servizi realizzati sul caso dalla Tgr Calabria sostenendo: “Certe ricostruzioni uscite sul servizio pubblico ci hanno offesi”, come riportato anche dall’inviato de “La Stampa”, Niccolò Zancan, autore di un reportage pubblicato in data 11 settembre sul quotidiano torinese. Testimone degli attacchi, il service per le riprese “Bluemotion”, nella persona della nostra collaboratrice Giusy Utano, presente alla fiaccolata per conto della Tgr Calabria e alla quale va tutta la nostra solidarietà”. “La posizione assunta dal primo cittadino di Melito – è detto ancora nella nota – ci colpisce e ci sorprende. La Tgr Calabria, infatti, come testimoniano i servizi andati in onda e visionabili sul sito on-line della testata, ha trattato sin dal primo momento il caso con tutte le cautele possibili, nel rispetto sia della vittima che dei suoi presunti carnefici. Nostra volontà, inoltre, è stata quella di raccontare di una comunità ferita e darle voce e questo abbiamo fatto. Ne è emerso un contesto assai complesso in cui non sono mancati atteggiamenti di chiusura, di condanna, di riflessione ma anche di vicinanza e solidarietà ai ragazzi del branco. Fedeli al dovere di cronaca, abbiamo “fatto parlare” le immagini e dato spazio alle diverse testimonianze raccolte. Pertanto, non crediamo che questo corrisponda a denigrare la comunità di Melito. D’altronde, lo stesso Sindaco, ai nostri microfoni, ha sottolineato come nella vicenda tutti abbiano la loro parte di responsabilità. “Sono mancate – ha detto – la famiglia, la scuola, la chiesa, la società civile, la politica, le associazioni sportive. Nessuno può dirsi esente da responsabilità. Tutti dobbiamo recitare un mea culpa’”. “A questo punto – conclude il Cdr della Tgr Calabria – ci chiediamo, qual è l’offesa da noi arrecata alla comunità di Melito? E’ evidente che non ne abbiamo alcuna in una vicenda di per sè talmente dolorosa da essere capace, da sola, di scuotere l’opinione pubblica e sollecitare non poche riflessioni”. L’offesa più grande arrecata alla comunità non è quello che si è voluto far vedere, anche artatamente, istigando i commenti più crudeli e sprezzanti su di essa, ma quello che si è taciuto per poter meglio screditarla. L’omertà è in voi, non nei Militesi. Avete omesso di raccontare quel paese pulito con una comunità onesta, coinvolta inconsapevolmente in una cruda vicenda. Ecco perché non ci dobbiamo meravigliare di trovare e leggere solo articoli fotocopia con un fattore comune: ’Ndrangheta ed omertà. Lo stesso atteggiamento avete avuto con Avetrana. Sembra un film già visto. E nessuno che si smarchi. Cari giornalisti, parlare di un semplice fatto di cronaca come quello contemporaneo di Tiziana Cantone, suicida per il video hot nel napoletano, senza coinvolgere la Comunità locale? Non ce la potete proprio fare? Godete ad infangare le comunità del sud? E che soddisfazione si trae se a scrivere nefandezze è proprio quella gente del sud che condivide territorio, lingua, cultura, tradizioni, usi di quella stessa gente che denigra? Un’ultima cosa. In queste stravaganti e bizzarre liturgie delle fiaccolate che servono per far sfilare chi è in cerca di notorietà io non ci sono mai andato: a Mesagne ed a maggior ragione ad Avetrana, perché cari giornalisti: mafiosi ed omertosi siete voi ed io dai mafiosi mi tengo lontano!”

Nella civile Emilia Romagna non si denigra una comunità, pur succedendo le stesse cose.

Omicidio Scazzi, chiesto il giudizio per i falsi testimoni. E Misseri torna in Tv: "L'ho uccisa e ho occultato il cadavere", scrive il 29 Settembre 2016 il "Quotidiano di Puglia". Il sostituto procuratore Mariano Buccoliero ieri ha deciso di reiterare la richiesta di rinvio a giudizio per 12 persone, sospettate di essere a conoscenza di fatti relativi all'omicidio di Sarah Scazzi e di averli taciuti o mistificati di fronte ai giudici. Per capire quale sarà la sorte dei 12 "falsi testimoni" però bisognerà attendere l'udienza del prossimo 18 novembre, quando a pronunciarsi sarà il gup Vilma Grilli. Intanto proprio ieri è tornato a parlare Michele Misseri, rispettivamente zio della piccola vittima Nonché padre e marito delle due donne considerate le sue assassine, Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri. In un'intervista nel corso della trasmissione "Pomeriggio 5", Michele Misseri insiste nel dichiararsi colpevole, versione cui gli inquirenti non hanno mai creduto: «Per quale motivo dovevo incolparmi se a uccidere Sarah fosse stata mia figlia? Io gli ho dato il piatto d' argento in mano ma loro non l'hanno voluto. Non mi ricordo niente da quando ho strangolato la bambina». «Speri che la Cassazione possa ribaltare la sentenza?», chiede la giornalista a Michele Misseri. «Per come stanno andando le cose non credo proprio, le condannano un'altra volta». La moglie Cosima e la figlia Sabrina sono in carcere da tempo: «Io non solo voglio prendermi la colpa dell'omicidio, ma anche dell'occultamento. Ho fatto tutto da solo. Sabrina ce l'ha a morte con me, me l'hanno fatta accusare anche se era innocente. Mi odia, le chiedo perdono per quello che le ho fatto», conclude l'uomo. Il delitto di Avetrana risale al 26 agosto 2010: venne uccisa la quindicenne Sarah Scazzi. La vicenda ha avuto un grande rilievo mediatico in Italia in tutti questi anni. In diretta tv venne dato l'annuncio del ritrovamento del cadavere della vittima, nel corso del programma Rai Chi l'ha visto? dove era ospite, in collegamento, la madre di Sarah. Il 27 luglio 2015 la Corte d'Assise d'Appello di Taranto ha confermato la condanna all'ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano. La Corte ha confermato anche la condanna a otto anni di reclusione per Michele Misseri per concorso in soppressione di cadavere.